Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 26-06-2013) 26-08-2013, n. 19579

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23485-2010 proposto da:

SODEXO ITALIA S.P.A. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, VIA BUCCARI 3, presso lo studio degli avvocati PROIETTI FABRIZIO, FORTI BRUNO che la rappresentano e difendono giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato PANICI PIER LUIGI, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

M.D., V.F., P.G., B. V., G.G., U.T., D. M., I.R., C.G., PI. F.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 8969/2009 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 04/03/2010 R.G.N. 1379/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/06/2013 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato PROIETTI FABRIZIO;

udito l’Avvocato PANICI PIERLUIGI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso alla Corte d’appello di Roma, S.S., G.G., U.T., Pi.Fr., D.M., P.G., V.F., I. R., M.D., B.V., C.G. proponevano appello avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva rigettato le loro domande proposte nei confronti della loro datrice di lavoro, Sodexo Italia S.p.A., per sentirla condannare al pagamento in loro favore della somma mensile di Euro 50,00, corrispondente al costo del lavaggio dei loro abiti da lavoro di addetti al servizio mensa.

Censuravano la sentenza gravata per non aver adeguatamente valutato sia la previsione dell’art. 124 c.c.n.l. turismo pubblici esercizi, sia gli specifici obblighi contrattuali assunti dalla società datrice.

Radicatosi il contraddittorio, l’adita Corte d’appello, con sentenza depositata il 4 marzo 2010, accoglieva le domande dei lavoratori. Per la cassazione propone ricorso la Sodexo, affidato ad unico, articolato, motivo.

Resiste il solo S. con controricorso, mente gli altri lavoratori sono rimasti intimati.

Motivi della decisione
1.- La società Sodexo Italia censura la sentenza impugnata ex artt. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 per violazione e falsa applicazione di norme di diritto e dei contratti collettivi nazionali di lavoro, nonché per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa fatti controversi e decisivi per il giudizio. Lamenta in particolare che i lavoratori in epigrafe erano,od erano stati,dipendenti della Sodexo Italia s.p.a., azienda di ristorazione collettiva, in favore di uffici, enti pubblici e privati, sanità, che, fra gli altri, ha tra i suoi clienti le 7 sedi RAI in Italia.

Lamenta che nessuna fonte, legale, contrattuale ovvero derivante da usi, imponeva all’azienda di sopportare il costo del lavaggio della divisa di lavoro, la cui fornitura e costo pure ammetteva essere tenuta a sostenere in base al c.c.n.l. di categoria, e che i dipendenti pur erano obbligati ad indossare durante il lavoro.

Lamenta tuttavia che l’art. 124 del c.c.n.l. di categoria vigente all’epoca dei fatti e non meglio individuato, così come il precedente c.c.n.l. del 1976, non prevedeva(no) alcunché per il lavaggio, ed anzi stabiliva(no) l’obbligo della divisa solo in caso in cui i dipendenti fossero a contatto con particolari sostanze (imbrattanti o corrosive).

Negava l’esistenza di prassi aziendali in tal senso e contestava la giurisprudenza affermatasi sul punto unicamente con riferimento alle divise obbligatoriamente utilizzate dal personale addetto alla nettezza urbana, che assumevano in tal caso, ed a differenza delle divise oggetto di causa, natura di presidio protettivo ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994.

1.1- Il ricorso è in larga parte inammissibile per non avere chiarito la ricorrente le norme di legge violate, mentre quelle contenute nell’invocato c.c.n.l. non possono esaminarsi a causa della mancata produzione, o specificazione in ricorso, del contratto (Cass. sez.un. 3 novembre 2011 n. 22726; Cass. ord. 30 luglio 2010 n. 17915).

Per completezza espositiva può rilevarsi, nel merito, che nella specie è pacifico, e la Corte di merito ha comunque accertato, che nel contratto di appalto tra la Sodexo Italia e la Rai la prima si fosse obbligata a dotare il personale “di cuffie, grembiuli e divise sempre pulite”.

Ne discende, pianamente, che l’azienda è tenuta a dotare il personale di divise sempre pulite, e dunque di sopportarne il relativo costo, sicché (cfr. Cass. n. 23314 del 2010; Cass. n. 22929 del 2005, pur inerenti le divise del personale addetto alla nettezza urbana) dal suo inadempimento consegue l’obbligo di risarcire il danno ai sensi dell’art. 1218 c.c.. Peraltro lo stralcio dell’art. 124 c.c.n.l., riportato dalla stessa società Sodexo Italia a pag. 6 del ricorso, prevede che “quando viene fatto obbligo al personale di indossare speciali divise, diverse da quelle tradizionali di cui all’art. 98 del c.c.n.l. 14 luglio 1976, la spesa relativa è a carico del datore di lavoro”. Nella specie non è adeguatamente chiarito, in contrasto col principio di autosufficienza del ricorso, quali siano le speciali divise di cui alla pretesa norma contrattuale collettiva, e soprattutto quali quelle, diverse, di cui al menzionato art. 98 del c.c.n.l. del 1976, non risultando, come detto, depositati o riprodotti in ricorso relativi documenti.

Deduce poi la ricorrente che la tesi della Corte di merito -secondo cui dalla clausola del contratto di appalto, vincolante solo tra l’appaltante e l’appaltatrice, derivasse una prestazione in favore di terzi- era illegittima, non prevedendo l’ordinamento effetti del contratto in favore di terzi se non nei casi previsti dalla legge (pag. 10 ricorso).

La censura è infondata, posto che l’art. 1411 c.c. stabilisce che è sempre valida la stipulazione di un contratto a favore di terzi, purché lo stipulante vi abbia interesse. Nella specie è indubbio che la società appaltante, che risulta aver esplicitamente inserito nel contratto di appalto che l’appaltatrice era obbligata a far indossare ai lavoratori una divisa di lavoro (cuffie, grembiuli e divise) “sempre pulita”, ha evidentemente interesse a ciò, sicché non contrasta col principio di cui alla citata norma codicistica, l’obbligo della datrice di lavoro di sostenere le spese di lavaggio (o di rimborsare al lavoratore quelle a tal scopo personalmente sostenute).

Il ricorso deve pertanto respingersi essendo la ratio decidendi ora esaminata corretta ed idonea a sorreggere il decisum della sentenza impugnata.

Le spese, con riferimento all’unico intimato costituito, seguono la soccombenza e, liquidate come da dispositivo, debbono distrarsi in favore dell’avv. Pier Luigi Panici, dichiaratosi antecipante.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, in favore dello S., che liquida in Euro 50,00 per esborsi, Euro 2.500,00 per compensi, oltre accessori di legge, da distrarsi in favore dell’avv. Pier Luigi Panici. Nulla per le spese quanto alle parti rimaste intimate.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 26 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 26 agosto 2013


Decreto Presidente del Consiglio Dei Ministri 23 agosto 2013, n. 109 (1)

Regolamento recante disposizioni per la prima attuazione dell’articolo 62 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, come modificato dall’articolo 2, comma 1, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, che istituisce l’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR).

(1)Pubblicato nella Gazz. Uff. 1 ottobre 2013, n. 230.

Entrata in vigore del provvedimento: 16/10/2013

Leggi: DPCONS 23-08-2013, n. 109 Costituzione ANPR


Circolare 002/2013 – Notifica a destinatari iscritti all’A.I.R.E (procedimento ordinario)

 Procedimento ordinario: (Cassazione civile, sez. unite, 10 maggio 2002, n. 6737) se nel luogo c’è abitazione, ufficio, azienda, si notifica ai sensi degli artt. 138, 139 o 140 c.p.c.. In tutti gli altri casi riconducibili al processo ordinario, si restituisce l’atto affinché l’Ufficio procedente provveda alla notifica inviando l’atto in duplice copia a:

Ministero affari esteri

DGIEPM UFF. IV

Piazza della Farnesina 1

00194 ROMA RM

che provvederà direttamente, ovvero in caso di sua incompetenza restituirà gli atti segnalando la procedura da eseguirsi.

Altra modalità di notificazione prevista dall’art. 142 c.p.c. è la notifica mediante le autorità consolari (artt. 30 e 75 del d.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200) alle quali ci si potrà ugualmente rivolgere per l’espletamento delle operazioni di notificazione.


Valida la notifica se il consegnatario ha rapporti con il destinatario dell’atto

Ai fini della validità della notificazione di un atto è sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto.

La Corte Suprema di Cassazione con sentenza 1° agosto 2013, n. 18492, richiamando una sua precedente sentenza chiarisce che in caso di notificazione effettuata a norma dell’art. 139, comma secondo, cod. proc. civ., (“Se il destinatario non viene trovato in uno di tali luoghi, l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace”) con consegna dell’atto a persona qualificatasi (secondo le dichiarazioni rese all’ufficiale giudiziario e dal medesimo riportate nella relata di notificazione) quale dipendente del destinatario o addetta all’azienda, all’ufficio o allo studio del medesimo, l’intrinseca veridicità di tali dichiarazioni e la validità della notificazione non possono essere contestate sulla base del solo difetto di un rapporto di lavoro subordinato tra i predetti soggetti, essendo sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto.

Conseguentemente tali presunzioni non possono essere superate dalla circostanza, provata a posteriori, che la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava, sia pure nella predetta sede, alle dipendenze esclusive di altro soggetto, se non accompagnata dalla prova che il medesimo consegnatario non era addetto nei medesimi locali ad alcun incarico per conto o nell’interesse del destinatario.


Notifiche tributarie: la Corte Suprema di Cassazione indica il corretto procedimento e le norme applicabili in caso di irreperibilità

La notifica dell’intimazione di pagamento al contribuente irreperibile è invalida se non viene inviata una raccomandata che certifica le avvenute formalità ex articolo 140 del codice di procedura civile. Senza questa comunicazione non può considerarsi perfezionato il procedimento notificatorio. Lo stabilisce la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza 30 luglio 2013, n. 18251.
Infatti, in tema di riscossione delle imposte dirette, nell’ipotesi in cui una cartella esattoriale venga notificata ai sensi del terzo comma dell’art. 26 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, e quindi con deposito presso la casa comunale, affissione alla porta del destinatario e invio della raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini della tempestività dell’impugnazione della detta cartella, il dies a quo della decorrenza del termine deve essere individuato, anche alla luce di quanto affermato dalla Corte Costituzionale con la sentenza 14 gennaio 2010, n. 3, e l’ordinanza 25 febbraio 2011, n. 63, nel giorno del ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata. Non vi è quindi ragione di perseverare nell’affermare la necessaria distinzione tra la procedura di notifica all’irreperibile disciplinata dall’art. 140, codice di procedura civile, e quella disciplinata dall’art. 60, DPR 600/1973, siccome entrambe le norme impongono ormai la comunicazione per raccomandata dell’avvenuta effettuazione delle formalità di affissione e deposito, senza la quale non può considerarsi perfezionato il procedimento notificatorio.


Corte Suprema di Cassazione, sentenza 01.08.2013, n. 18492

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 1749-2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

S.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 357/5/2010 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI – Sezione Staccata di SALERNO dell’11.10.2010, depositata il 22/10/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/06/2013 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA;

La Corte, ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

Il relatore cons. Giuseppe Caracciolo, letti gli atti depositati.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La CTR di Napoli, accogliendo parzialmente l’appello di S. E. – appello proposto contro la sentenza n.437/01/2007 della CTP di Avellino che aveva respinto il ricorso della parte contribuente relativo a cartelle di pagamento per IVA-IRPEF-IRAP ed addizionali comunali per gli anni 2002-2003 – ha dichiarato nullo il ruolo n. 2006/379 confermando invece gli altri oggetto del giudizio.

La CTR ha motivato la propria decisione nel senso che era risultato dalla documentazione depositata agli atti che gli avvisi di accertamento presupposti rispetto al ruolo risultavano notificati a tale F.A. (che si era dichiarata moglie capace e convivente e che aveva sottoscritto la notifica), soggetto del tutto estraneo al rapporto tributario, residente in altro comune rispetto a quello del destinatario della notifica e rispetto al quale la F. non risultava essere in rapporto nè familiare, nè di vicinanza nè di coniugio. Essendo risultata inesistente la notifica dell’atto presupposto, anche il ruolo e la cartella di pagamento risultavano viziati. L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a due motivi. La parte contribuente non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

Ed invero, con il primo motivo di impugnazione (improntato alla violazione dell’art. 2700 c.c.) la parte ricorrente si duole del fatto che il giudicante del merito abbia inficiato – sulla base della documentazione risultante in atti- la fede privilegiata della relata di notifica, dalla quale risulta che il soggetto consegnatario si era qualificato moglie convivente all’atto di ricevere la notifica e di sottoscriverla. La censura appare fondata e da accogliersi in ragione del solo primo motivo, con assorbimento del secondo.

Il giudice del merito ha dato prevalenza alla documentazione depositata in giudizio e dalla quale risultava che la F. non fosse in rapporto di coniugio nè convivente con lo S., senza curarsi del fatto che la F. medesima (con dichiarazione resa all’ufficiale che aveva curato la notifica, e perciò dotata di fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c.) si era qualificata moglie convivente ed aveva accettato di ricevere la notifica. Di tanto il giudice del merito avrebbe dovuto contentarsi per ritenere efficace e valida la notifica, alla luce della confermata giurisprudenza di questa Corte. Si veda, per tutte (senza che il riferimento a diversa figura soggettiva alteri la correttezza del principio e la sua applicabilità al caso qui in esame) Cass. Sez. L, Sentenza n. 239 del 10/01/2007: “In caso di notificazione effettuata a norma dell’art. 139 c.p.c., comma 2, con consegna dell’atto a persona qualificatasi (secondo le dichiarazioni rese all’ufficiale giudiziario e dal medesimo riportate nella relata di notificazione) quale dipendente del destinatario o addetta all’azienda, all’ufficio o allo studio del medesimo, l’intrinseca veridicità di tali dichiarazioni e la validità della notificazione non possono essere contestate sulla base del solo difetto di un rapporto di lavoro subordinato tra i predetti soggetti, essendo sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto.

Conseguentemente tali presunzioni non possono essere superate dalla circostanza, provata a posteriori, che la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava, sia pure nella predetta sede, alle dipendenze esclusive di altro soggetto, se non accompagnata dalla prova che il medesimo consegnatario non era addetto nei medesimi locali ad alcun incarico per conto o nell’interesse del destinatario”.

Pertanto, si ritiene che il ricorso può essere deciso in camera di consiglio per manifesta fondatezza e che la Corte possa decidere la controversia anche nel merito (non apparendo necessari ulteriori accertamenti di fatto) respingendo integralmente il ricorso della parte contribuente avverso le impugnate cartelle di pagamento.

Roma, 25 marzo 2012.

Che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, né memorie;

che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va accolto;

che le spese di lite possono essere regolate secondo il criterio della soccombenza.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso del contribuente avverso il provvedimento impositivo. Condanna la parte contribuente a rifondere le spese di lite di questo grado, liquidate in Euro 10.200,00 oltre spese prenotate a debito e compensa tra le parti le spese dei gradi di merito.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2013


Corte Suprema di Cassazione, Sentenza 30.07.2013, n. 18251

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CARACCIOLO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 11799-2011 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

A.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 138, presso lo studio dell’avvocato POLCHI RODOLFO, rappresentato e difeso dall’avvocato SINISCALCO MARCO, giusta procura a margine del controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE (OMISSIS) in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente al ricorrente incidentale –

e contro

EQUITALIA POLIS SPA;

– intimata –

– ricorrenti incidentali –

avverso la sentenza n. 57/15/2010 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI del 15.3.2010, depositata il 17/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/06/2013 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE CARACCIOLO;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA. La Corte, ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

Il relatore cons. Giuseppe Caracciolo, letti gli atti depositati:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La CTR di Napoli ha respinto l’appello dell’Agenzia – appello proposto contro la sentenza n. 102/38/2008 della CTP di Napoli, che aveva accolto il ricorso della parte contribuente A.G., relativo ad avviso di intimazione di pagamento per Tarsu afferente il periodo 1996/2004 inviato dal Concessionario per la riscossione – ed ha perciò dichiarato nullo il provvedimento in questione per vizio di notifica dello stesso.

La CTR ha motivato la propria decisione – dopo aver dato atto che il giudice di primo grado aveva accolto il ricorso evidenziando che nel procedimento di notifica al destinatario irreperibile, “alla affissione deve conseguire la comunicazione di essa al destinatario con raccomandata”- nel senso che Equitalia “non ha comunque provato che il contribuente è venuto a conoscenza della richiesta di pagamento”; ed inoltre nel senso che “sussiste la prescrizione del diritto secondo la vigente normativa”. L’Agenzia ha interposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La parte contribuente si è costituita con controricorso ed ha formulato ricorso incidentale sul capo di regolazione delle spese di lite.

Equitalia Polis spa non ha svolto attività difensiva.

Il ricorso – ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. assegnato allo scrivente relatore – può essere definito ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

Ed invero, con il primo motivo di impugnazione (improntato alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. E in combinato disposto con l’art. 140 c.p.c.) la parte ricorrente principale – dopo avere dato atto che la cartella di pagamento concerneva somme dovute ai fini INVIM a seguito di registrazione di atto di compravendita e che la notifica della stessa era avvenuta ai sensi dell’art. 60 sopra menzionato – assume che la CTR ha erroneamente mostrato di ritenere che per il perfezionamento del procedimento di notifica sia necessaria la spedizione della raccomandata di cui all’art. 140 c.p.c., per quanto detto incombente non sia espressamente previsto dalla norma, secondo la quale la procedura di notificazione si conclude con l’affissione dell’avviso all’albo del comune se in esso “non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, giacchè non avrebbe senso nell’ipotesi di trasferimento del destinatario per località ignota l’invio di una raccomandata”. La censure appaiono infondate e da disattendersi, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 14316 del 28/06/2011) secondo cui: “In tema di riscossione delle imposte dirette, nell’ipotesi in cui una cartella esattoriale venga notificata ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 3, e quindi con deposito presso la casa comunale, affissione alla porta del destinatario e invio della raccomandata con avviso di ricevimento, ai fini della tempestività dell’impugnazione della detta cartella, il “dies a quo” della decorrenza del termine deve essere individuato, anche alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 14 gennaio 2010, n. 3 e l’ordinanza 25 febbraio 2011, n. 63, nel giorno del ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata”. Alla luce dei predetti principi (ed atteso che nella specie di causa – secondo quanto si desume dalla sentenza impugnata e senza che la contraria ipotesi sia stata dimostrata vera dalla parte ricorrente nell’assolvimento del proprio onere di autosufficienza – si versa nell’ipotesi dell’irreperibilità prevista dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 a mezzo del richiamo alle fattispecie regolate dall’art. 140 c.p.c.), non vi è ragione di perseverare nell’affermare la necessaria distinzione tra la procedura di notifica all’irreperibile disciplinata dall’art. 140 c.p.c. e quella disciplinata dal D.P.R. n. 600 del 1972, art. 60 siccome -per effetto dell’interpretazione adeguatrice implicata dalle menzionate pronunce della Corte Costituzionale- entrambe le norme impongono -ormai- la comunicazione per raccomandata dell’avvenuta effettuazione delle formalità di affissione e deposito, senza la quale non può considerarsi perfezionato il procedimento notificatorio, ciò che appunto è stato rilevato dal giudice del merito come oggetto della prova necessaria che incombe sulla parte notificante, senza che a tal fine rilevi se il giudicante ha identificato la norma precettiva nell’uno o nell’altro dei due articoli menzionati.

Non resta che ritenere che la Commissione di merito si sia correttamente attenuta al principio di diritto dianzi enunciato, senza che rilevino ai presenti fini le pronunce di questa Corte che sono state menzionate dalla parte ricorrente a sostegno della propria tesi (Cass. 6102/2011; Cass. 22677/2007), atteso che esse si riferiscono alla differente ipotesi in cui “nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi e1 abitazione, ufficio o azienda del contribuente”, sicchè poi l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione. Sulla necessaria distinzione della procedura applicabile nelle due diverse ipotesi si veda anche (di recente) Cass. Sez. 5, Sentenza n. 14030 del 27/06/2011. Con il secondo motivo di impugnazione (centrato sul vizio di motivazione) la ricorrente formula una sterile critica alla pronuncia impugnata, identificando come fatto controverso la questione della correttezza della notifica di cui si è detto, che invece “fatto” non è, giacchè invece è un giudizio risultante dalla corretta applicazione della disciplina di legge di cui già si è detto. Anche detto motivo appare – perciò – inammissibilmente formulato. Con il terzo motivo di ricorso (centrato sulla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3) la parte ricorrente assume che il procedimento di notifica si è concluso correttamente e che l’omessa impugnazione della cartella rende quest’ultima irretrattabile, sicchè la CTR ha errato a dichiarare prescritto il diritto alla riscossione, in ragione di un atto quale l’intimazione di pagamento, che avrebbe potuto essere impugnato solo per vizi propri.

Il motivo è assorbito dall’esito dell’esame di quello che precede, giacchè è logicamente sorretto dall’assunto della correttezza della procedura di notificazione che -come dianzi si è detto- è risultato invece smentito.

Con il quarto motivo di impugnazione (centrato sulla violazione dell’art. 2934 c.c. e contempo sul vizio di motivazione) la parte ricorrente si duole dell’erronea affermazione contenuta nella sentenza impugnata circa l’avvenuta prescrizione del diritto alla riscossione, mentre tutta l’attività descritta da controparte in ricorso è idonea a determinare l’interruzione dei termini di prescrizione. In ogni caso, l’avvenuta prescrizione del diritto era risultata del tutto indimostrata nella sentenza della CTR che -a riguardo – aveva omesso qualsiasi delucidazione.

Anche detto ultimo motivo del ricorso principale appare inammissibilmente formulato.

Quanto al primo profilo, perchè la parte ricorrente postula una idoneità astratta e non concreta, non avendo chiarito in quali termini le “attività” genericamente indicate abbiano effettivamente determinato l’interruzione del termine prescrizionale; quanto al secondo profilo, perchè la censura non identifica quel fatto controverso che potrebbe costituire l’oggetto esclusivo del vizio motivazionale.

Venendo al ricorso incidentale (centrato sulla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 15 nonchè sul vizio di motivazione), la parte ricorrente si duole del fatto che il giudice del merito abbia compensato le spese di giudizio sulla scorta del semplice richiamo alla “natura del giudizio” e perciò con motivazione di stile e sostanzialmente tautologica.

Il motivo appare fondato e da accogliersi, alla luce della costante e ribadita giurisprudenza di questa Corte (si veda, per tutte Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 26987 del 15/12/2011) secondo la quale: “In tema di spese giudiziali, le gravi ed eccezionali ragioni, da indicarsi esplicitamente nella motivazione, in presenza delle quali, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, (nel testo introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2), il giudice può compensare, in tutto o in parte, le spese del giudizio non possono essere tratte dalla struttura del tipo di procedimento contenzioso applicato nè dalle particolari disposizioni processuali che lo regolano, ma devono trovare riferimento in specifiche circostanze o aspetti della controversia decisa. (In applicazione del principio, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva dichiarato compensate le spese in un giudizio di opposizione avverso l’irrogazione di sanzione amministrativa, sul presupposto della limitata attività difensiva della parte, correlata alla natura della controversia)”.

Poichè nel provvedimento qui impugnato non ha trovato rilievo alcuno – ai fini della compensazione- il fatto processuale controverso ma una generica considerazione della natura della controversia, non idonea a costituire oggetto del controllo che compete a questa Corte, non resta che concludere che la pronuncia merita – sul punto-Cassazione, con conseguente rimessione della lite al giudice del merito affinchè rinnovi l’apprezzamento in ordine alla questione relativa alla regolazione delle spese di lite ed alla loro liquidazione.

Pertanto, si ritiene che il ricorso può essere deciso in camera di consiglio per manifesta infondatezza e inammissibilità, quanto al ricorso principale, e per manifesta fondatezza quanto al ricorso incidentale.

Roma, 20 novembre 2012.

Che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie;

che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, il ricorso va accolto;

che le spese di lite possono essere regolate dal giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso principale ed accoglie quello incidentale. Cassa la decisione impugnata, in relazione a quanto accolto, e rinvia alla CTR Campania che, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese di lite del presente grado.

Così deciso in Roma, il 27 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2013


Stop ai fax nella pubblica amministrazione

Stop al fax nella pubblica amministrazione: le comunicazioni avverranno solo via email. Priorità all’uso dei prodotti open source dove possibile.

Il Parlamento ha convertito con la legge n. 98/2013, con modificazioni, del decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia.

Viene modificato l’art. 47 del CAD come segue:

dopo il comma 1 sono inseriti i seguenti:

« 1-bis. All’articolo 47, comma 2, lettera c), del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, dopo le parole: “di cui all’articolo 71” sono inserite le seguenti: “. È in ogni caso esclusa la trasmissione di documenti a mezzo fax”.

1-ter. All’articolo 43 del testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazione amministrativa, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445, il comma 3 è sostituito dal seguente:

“3. L’amministrazione procedente opera l’acquisizione d’ufficio, ai sensi del precedente comma, esclusivamente per via telematica (L)” ».


LEGGE 9 agosto 2013, n. 98

LEGGE 9 agosto 2013, n.98 (1)

Epigrafe Premessa Art. 1

Allegato -Modificazioni apportate in sede di conversione al decreto-legge 21 giugno 2013, n. 69 LAVORI PREPARATORI

Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 21 giugno 2013, n.69, recante disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia.

(1)Pubblicata nella Gazz. Uff. 20 agosto 2013, n. 194,S.O.

Leggi: L 09-08-2013, – 98 decreto del fare

Leggi: Guida “decreto del fare”: L. n. 98/2013


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 12-07-2013) 08-08-2013, n. 18980

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere –

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14392/2010 proposto da:

L.C. (c.f. (OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA C. COLOMBO 436, presso l’avvocato CARUSO RENATO, rappresentata, e difesa dall’avvocato MASI MARCO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BUDRIO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA F. MICHELINI TOCCI 50, presso l’avvocato VISCONTI CARLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MONTUSCHI LUIGI, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 20440/2009 del TRIBUNALE di BOLOGNA, depositata il 23/06/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/07/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO DIDONE;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato B.M. CARUSO, con delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito, per il controricorrente, l’Avvocato C. VISCONTI che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUCCI Costantino, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- L.C. ha proposto ricorso per cassazione – affidato a un solo motivo – contro la sentenza depositata il 23.6.2009 con la quale il Tribunale di Bologna ha rigettato la sua domanda di cancellazione di dati personali sensibili e giudiziari nonché‚ di risarcimento dei danni proposta ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, nei confronti del Comune di Budrio.

Il Tribunale ha ritenuto che fossero stati rispettati i principi di pertinenza e necessità e che non fossero stati diffusi dati riguardanti lo stato di salute della ricorrente (essendo generica la dizione “assenza per malattia” così come il termine “mobbing”) ovvero dati giudiziari.

Resiste con controricorso l’amministrazione comunale intimata.

Nel termine di cui all’art. 378 c.p.c., le parti hanno depositato memoria.

2.- Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione di norme di diritto e formula, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., applicabile ratione temporis, il seguente quesito di diritto: “se la pubblicazione, da parte di un’amministrazione comunale, all’Albo Pretorio nonché‚ sul sito internet ufficiale, dei dati personali di un proprio dipendente relativi allo stato di malattia dello stesso nonché‚ alla pendenza tra le parti di procedure giudiziarie aventi per oggetto il mobbing e, ancora, l’omessa pubblicazione dei dati personali dello stesso all’interno dell’organigramma comunale siano comportamenti posti in violazione delle norme in materia di protezione dei dati personali, d.lgs. n. 196/2003, ed in particolare degli artt. 3, 4, 11, 15 e 22”.

3.- Il ricorso è fondato.

Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 22, invero, dispone che “i soggetti pubblici conformano il trattamento dei dati sensibili e giudiziari secondo modalità volte a prevenire violazioni dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità dell’interessato” (comma 1).

Inoltre, “i soggetti pubblici possono trattare solo i dati sensibili e giudiziari indispensabili per svolgere attività istituzionali che non possono essere adempiute, caso per caso, mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa” (comma 3) e “i dati idonei a rivelare lo stato di salute non possono essere diffusi” (comma 8), mentre rispetto ai dati sensibili e giudiziari “i soggetti pubblici sono autorizzati ad effettuare unicamente le operazioni di trattamento indispensabili per il perseguimento delle finalità per le quali il trattamento Š consentito, anche quando i dati sono raccolti nello svolgimento di compiti di vigilanza, di controllo o ispettivi”.

Questa Corte, in fattispecie analoga (cfr. Sez. 1, Sentenza n. 12726 del 2012), ha affermato: Gli enti locali, in quanto soggetti pubblici, possono trattare dati di carattere personale anche sensibile e giudiziario solo per svolgere le rispettive funzioni istituzionali (L. n. 675 del 1996, art. 27). La pubblicazione e la divulgazione di atti e documenti determinano una “diffusione” di dati personali, comportando la conoscenza di dati da parte di un numero indeterminato di cittadini e l’interferenza nella sfera personale degli interessati che ne consegue è legittima, solo se la diffusione è prevista da una norma di legge o di regolamento (L. n. 675 del 1996, art. 1, comma 2, lett. h), e art. 27, comma 1).

In ogni caso la diffusione deve essere rispettosa dei criteri dettati dalla L. n. 675 del 1996, art. 9, in forza del quale i dati personali devono essere “a) trattati in modo lecito e secondo correttezza” e, in ogni caso, “d) pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati”.

Se la menzione di dati personali relativi alla ricorrente nelle deliberazioni adottate risultava lecita, anche alla luce del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 183, il quale prevede, per l’adozione degli impegni di spesa, che debba essere indicata oltre alla somma da pagare ed al soggetto creditore anche la ragione di tale impegno, per converso, non rispettosa, dei criteri di pertinenza e proporzionalità di cui alla L. n. 675 del 1996, art. 9, sono state le modalità di diffusione dei dati della ricorrente nella versione dell’ordine del giorno della seduta del Consiglio comunale riportato nell’avviso pubblico di convocazione dello stesso.

E’ stato, altresì, affermato che “la pubblica amministrazione commette illecito se effettua il trattamento di un dato che risulti eccedente le finalità pubbliche da soddisfare” (Sez. 1^, n. 2034/2012).

I medesimi principi – benché‚ enunciati alla luce della L. n. 675 del 1996, sul punto non difforme dal D.Lgs. n. 196 del 2003, – risultano applicabili nella concreta fattispecie, tenuto conto che la “salute” è definibile come stato di benessere fisico e di armonico equilibrio psichico dell’organismo umano, in quanto “esente da malattie”, da imperfezioni e disturbi organici o funzionali. Talch‚ costituisce diffusione di un dato sensibile quello relativo all’assenza dal lavoro di un dipendente per malattia.

Inoltre, va tenuto conto della circostanza che “per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità”. In particolare, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, tra l’altro, rilevanti l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente e il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore (Sez. L, Sentenza n. 3785 del 17/02/2009).

Il Garante della protezione dei dati personali, peraltro, sin dal 2004 (e in relazione alla Guardia di Finanza) ha ritenuto che l’indicazione del dato relativo all’assenza per “convalescenza” da luogo ad un trattamento di dati sensibili dal momento che tale informazione, pur non facendo riferimento a specifiche patologie, Š comunque suscettibile di “rivelare lo stato di salute” dell’interessato (art. 4, comma 1, lett. d) del Codice (V., ora, le “Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” – 14 giugno 2007 in G.U. 13 luglio 2007, n. 161 p.8.2:

“Riguardo al trattamento di dati idonei a rivelare lo stato di salute, la normativa sul rapporto di lavoro e le disposizioni contenute in contratti collettivi possono giustificare il trattamento dei dati relativi a casi di infermità che determinano un’incapacità lavorativa (temporanea o definitiva), con conseguente accertamento di condizioni di salute del lavoratore da parte dell’amministrazione di appartenenza, anche al fine di accertare l’idoneità al servizio, alle mansioni o allo svolgimento di un proficuo lavoro. Tra questi ultimi può rientrare anche una informazione relativa all’assenza dal servizio per malattia, indipendentemente dalla circostanza che sia contestualmente indicata esplicitamente la diagnosi”). L’art. 8 della direttiva 95/46/CE, peraltro, fa riferimento semplicemente ai “dati relativi alla salute” e non può essere messo in dubbio che un’assenza dal lavoro “per malattia” costituisca un dato personale “relativo alla salute” del soggetto cui l’informazione si riferisce.

Trova quindi applicazione, nel caso di specie, la disciplina sul trattamento dei dati sensibili da parte dei soggetti pubblici. L’art. 22, comma 3, del Codice prevede che tali soggetti possono trattare solo i dati sensibili indispensabili per svolgere attività istituzionali che non possono essere adempiute, caso per caso, mediante il trattamento di dati anonimi o di dati personali di natura diversa.

Da ultimo va chiarito che l’omessa pubblicazione dei dati personali della ricorrente all’interno dell’organigramma comunale va apprezzata quale violazione del principio di completezza dei dati personali trattati dall’amministrazione.

Il ricorso, dunque, deve essere accolto. La sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio per nuovo esame e per il regolamento delle spese al Tribunale di Bologna, in persona di diverso magistrato.

Non rileva, infine, nel presente procedimento (ratione temporis) la norma di cui al D.Lgs. 14 marzo 2013, n. 33, art. 4, comma 5, (Limiti alla trasparenza), secondo la quale “Le notizie concernenti lo svolgimento delle prestazioni di chiunque sia addetto a una funzione pubblica e la relativa valutazione sono rese accessibili dall’amministrazione di appartenenza. Non sono invece ostensibili, se non nei casi previsti dalla legge, le notizie concernenti la natura delle infermità e degli impedimenti personali o familiari che causino l’astensione dal lavoro, nonché‚ le componenti della valutazione o le notizie concernenti il rapporto di lavoro tra il predetto dipendente e l’amministrazione, idonee a rivelare taluna delle informazioni di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4, comma 1, lett. d)”.

Il detto provvedimento legislativo, infatti, è in vigore soltanto dal 20 aprile 2013.

Ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 154, comma 6, copia del presente provvedimento sarà trasmessa, a cura della cancelleria, al Garante.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame e per il regolamento delle spese al Tribunale di Bologna in persona di diverso magistrato.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52, in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 12 luglio 2013.

Depositato in Cancelleria il 8 agosto 2013


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 06/03/2013) 07/08/2013, n. 18808

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente –

Dott. VENUTI Pietro – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 333-2008 proposto da:

AZIENDA SANITARIA LOCALE N. (OMISSIS) DI NUORO (OMISSIS) in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 24, presso lo studio dell’avvocato MASINI MARIA STEFANIA, rappresentata e difesa dall’avvocato MOCCI ANGELO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.C. C.F. (OMISSIS), S.A. C.F. (OMISSIS) domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato BACCHIS MARCO, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

D.M., C.L.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 343/2007 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, depositata il 19/10/2007 r.g.n. 315/06 + altre;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/03/2013 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI’;

udito l’Avvocato MOCCI ANGELO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Cagliari ha confermato la sentenza del Tribunale di Oristano che aveva accolto le domande proposte da M. D., F.C., C.L. e A. S., tutti dipendenti dell’Azienda Sanitaria Locale n. (OMISSIS) di Nuoro – provenienti dalla USL (OMISSIS) di Sorgono ed in servizio presso il presidio ospedaliere (OMISSIS) con la qualifica di infermieri generici – ed accertato l’avvenuto svolgimento delle mansioni proprie della qualifica di “infermiere professionale” nel periodo dal 1.7.1998 al 11.8.2004 per sopperire a carenze organizzative e di personale ed assicurare il servizio dovuto. Per l’effetto aveva condannato la convenuta al pagamento delle differenze retributive chieste avuto riguardo da un canto alla categoria BS loro riconosciuta e dall’altro alle mansioni riconducibili alla categoria C, di infermiere professionale, effettivamente svolte.

La Corte d’appello ha verificato e confermato che, in esito all’istruttoria espletata in primo grado, era risultato provato lo svolgimento delle mansioni in relazione alle quali erano rivendicate le differenze retributive.

Ha poi accertato che sulla base della contrattazione collettiva 1998- 2001 la figura dell’infermiere generico, rivestita dai lavoratori era conservata ad esaurimento mentre era prevista come categoria generale la figura dell’infermiere professionale, categoria C, e quella del collaboratore professionale, categoria D. Ha quindi sottolineato che la domanda era stata ridotta alle differenze retributive dovute in relazione allo svolgimento delle mansioni riconducibili alla categoria C, escludendo che a ciò fosse d’ostacolo la mancanza di un formale atto di assegnazione essendo sufficiente la prova dello svolgimento in concreto di mansioni che peraltro non era stato negato, nella sua materialità, dall’azienda che in primo grado si era limitata a contestare la riconducibilità di quei compiti alla qualifica rivendicata.

Quindi esaminate comparativamente, alla luce delle declaratorie legali e, poi, di quelle collettive (D.P.R. 14 marzo 1974, n. 225 e ccnl comparto sanità pubblica 1998- 2001, art. 28) le mansioni proprie delle due qualifiche, ne ha evidenziato, per taluni aspetti, la coincidenza ed ha confermato la correttezza dell’accertamento che le mansioni svolte, sotto il profilo qualitativo e quantitativo davano diritto ai compensi chiesti atteso che non erano riconducibili alla qualifica di infermiere generico rivestita ed avevano il necessario carattere della continuità e prevalenza.

Quanto alla pretesa “inconsapevolezza” dell’azienda appellante del concreto svolgimento delle dette mansioni, asseritamente prestate su un piano meramente volontario, la Corte di merito ne ha escluso la credibilità stante la loro durata extraquinquennale ed il concreto coinvolgimento del personale nell’organizzazione dei turni di assistenza.

Inoltre il giudice di appello ha motivatamente escluso che la coincidenza di talune mansioni tra i due profili valesse ad attrarle nel profilo inferiore ed ha respinto l’interpretazione data dall’azienda alla disciplina dettata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 (già D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56) avendo accertato da un canto che non si era trattato di una sostituzione momentanea di lavoratori con diritto alla conservazione del posto ed escludendo che si possa ravvisare una violazione dell’art. 2126 c.c. tenendo conto del fatto che l’azienda ha “tollerato” l’organizzazione del lavoro nel pronto soccorso con adibizione di personale privo di una specifica qualificazione come infermiere professionale, per oltre cinque anni prima di intervenire con un ordine di servizio che ripristinasse la regolarità delle attribuzioni al personale infermieristico.

Per la cassazione della sentenza ricorre la Azienda sanitaria Locale n. (OMISSIS) di Nuoro sulla base di un solo motivo.

Resistono con controricorso F.C. ed S.A. mentre gli altri resistenti sono rimasti intimati.

Motivi della decisione
Con un unico motivo di ricorso viene denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 2126 c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3.

Sostiene la ASL ricorrente che ai lavoratori non potevano essere riconosciute le differenze retributive chieste atteso che, nel caso in cui per lo svolgimento di mansioni superiori sia necessario il possesso di uno specifico titolo di studio o di una particolare abilitazione professionale (nella specie infermiere professionale), sono ravvisabili quei profili di illiceità nello svolgimento delle mansioni che non consentono l’applicazione dell’art. 2126 c.c..

Nè ad avviso della ricorrente sarebbe risultato provato nel corso del giudizio che l’attività sarebbe stata svolta con il consenso del datore di lavoro posto che, al contrario, dalla documentazione versata in atti si evincerebbe che il Direttore Sanitario aveva provveduto a diffidare i dipendenti dallo svolgimento di mansioni non riconducibili a quelle proprie di inquadramento.

Aggiunge poi la ASL che, ove pure si ammettesse una tolleranza dell’esercizio di una attività riconducibile ad una qualifica superiore, ciò non autorizzerebbe comunque il riconoscimento delle differenze retributive stante il carattere illecito dell’attività svolta.

A conclusione della censura formula il seguente quesito:

“Dica la Corte, con riferimento alla disciplina dettata dall’art. 2126 c.c., se lo svolgimento con carattere di continuità e di prevalenza da parte di infermieri generici di attività rientranti nel profilo di un infermiere professionale sia da considerarsi illecita perchè derivante da violazione di norme imperative attinenti all’ordine pubblico e poste a tutela non del prestatore ma bensì del diritto alla salute, costituzionalmente garantito in via preminente alla generalità dei cittadini e, conseguentemente, dia o meno titolo per ottenere il pagamento delle relative differenze retributive anche nel caso in cui ciò fosse avvenuto su disposizione e/o con il consenso del datore di lavoro”.

La censura è destituita di fondamento.

Occorre preliminarmente ricordare che nell’ambito della c.d.

contrattualizzazione o privatizzazione dei rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la materia dello svolgimento delle mansioni superiori è stata disciplinata dal D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 56 che è stato novellato con il D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 25 e, quindi, ancora nel D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15, comma 6.

La disposizione, così complessivamente modificata, è stata, poi, testualmente riprodotta nel D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52 (norme generali dell’ordinamento del lavoro alle dipendenze della amministrazioni pubbliche) che ha confermato, anche nell’ambito del nuovo regime del lavoro dei pubblici dipendenti, il principio secondo cui l’”esercizio di fatto di mansioni diverse da quelle della qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell’inquadramento del lavoratore (…)” (art. 52, ultima parte del comma 1).

Con riguardo alle modifiche apportate nel tempo, questa Corte ha in più occasioni affermato che “nel pubblico impiego privatizzato il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6 – come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 – è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6, ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio. La portata retroattiva della disposizione risulta peraltro conforme alla giurisprudenza della Corte Costituzionale, che ha ritenuto l’applicabilità anche nel pubblico impiego dell’art. 36 Cost. nella parte in cui attribuisce al lavoratore il diritto a una retribuzione proporzionale alla quantità e qualità del lavoro prestato, nonchè alla conseguente intenzione del legislatore di rimuovere con la disposizione correttiva una norma in contrasto con i principi costituzionali” (cfr. Cass. 4.2.2008 n. 2611 e già Cass. 8.1.2004 n. 91).

Individuati i casi in cui è legittima l’assegnazione temporanea a mansioni superiori (art. 52, comma 2), precisate le caratteristiche che lo svolgimento delle mansioni superiori deve avere per essere considerato tale (comma 3 della citata norma) il quinto comma prescrive quindi che “Al di fuori delle ipotesi di cui al comma 2, è nulla l’assegnazione del lavoratore a mansioni proprie di una qualifica superiore, ma al lavoratore è corrisposta la differenza di trattamento economico con la qualifica superiore”.

Ritiene questa Corte che la disposizione citata costituisca norma speciale rispetto alla disposizione generale contenuta nell’art. 2126 c.c. (che nell’ultimo alinea del comma 1 prevede che, ove la nullità del contratto di lavoro derivi da una “illiceità dell’oggetto o della causa”, la prestazione di fatto resa non produca alcun effetto). Per tale ragione è infondata la tesi della ASL ricorrente, che sostanzialmente reclama l’applicazione della norma generale in luogo di quella speciale dettata dal più volte richiamato art. 52, disposizione che, nell’ambito della disciplina dei rapporti di lavoro pubblico privatizzati, ha una portata generale. Peraltro le domande giudiziali nel caso in esame fanno riferimento ad un’attività prestata in un periodo in cui la disciplina era entrata pienamente in vigore trattandosi di attività prestate successivamente alla data di decorrenza dell’efficacia del c.c.n.l per il comparto sanità stipulato il 7.4.1999 (G.U. 19 aprile 1999), ma relativo, dal punto di vista normativo, al quadriennio 1998-2001.

Che poi l’intento del legislatore fosse inteso a bilanciare il diritto costituzionalmente garantito ad una retribuzione proporzionata (art. 36 Cost.) alla quantità e qualità dell’attività lavorativa svolta con il dovere per l’amministrazione di procedere nel rispetto dei principi di “buona amministrazione” dettati dall’art. 97 Cost. è confermato dalla disposizione di chiusura dell’art. 52 che all’u.c. prevede, a maggior garanzia di comportamenti imprudenti da parte di coloro ai quali e demandata la corretta organizzazione dei servizi, la responsabilità personale del dirigente che ha disposto l’assegnazione in relazione ai maggiori oneri sostenuti dall’Amministrazione, ove si accerti che questi ha agito con dolo e colpa grave.

A parte dunque la recisa esclusione del conseguimento del diritto all’inquadramento nella qualifica superiore (che rimane ferma pur dopo i numerosi interventi del legislatore sulla norma), l’art. 56 contiene dunque due diversi ordini di disposizioni.

In primo luogo si indicano i casi in cui è legittima la temporanea assegnazione a mansioni superiori, con la precisa specificazione dei relativi presupposti e dei limiti temporali e la previsione del diritto del lavoratore al trattamento previsto per la qualifica superiore, per il periodo di effettiva prestazione. In secondo luogo si prende in considerazione l’ipotesi dell’assegnazione “a mansioni proprie di una qualifica superiore” al di fuori delle condizioni previste dalle precedenti disposizioni, per stabilire da un lato la nullità di detta assegnazione e dall’altro il diritto del lavoratore alla differenza di trattamento economico con la qualifica superiore (comma 5).

Peraltro l’espressione “una qualifica superiore” utilizzata dalla norma ha valore generico e omnicomprensivo, e non può ritenersi equivalente alla dizione “qualifica immediatamente superiore” utilizzata dal secondo comma nel delineare i presupposti dell’assegnazione legittima a mansioni superiori. Da tanto consegue che sarebbe dovuta la retribuzione corrispondente anche per il caso in cui le mansioni di fatto svolte non siano necessariamente ricollegabili alla qualifica immediatamente superiore. Tale conclusione è giustificata dalla lettera della disposizione in esame e dalla sua ratio, che, lo si ricorda nuovamente, è quella di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost..

Il rapporto di specialità esistente tra la disciplina specifica del pubblico impiego privatizzato e quella comune dettata dall’art. 2126 c.c. in tema di svolgimento di fatto di attività lavorativa, ad avviso della Azienda ricorrente, incontrerebbe, con riferimento al diritto alla maggiore retribuzione, il limite dell’esistenza di una “illiceità dell’oggetto o della causa” che esonererebbe l’amministrazione al pari del datore di lavoro privato dall’obbligo di pagamento delle differenze retributive.

Ritiene la Corte che tuttavia, anche sotto tale profilo la norma specifica appresti, per le illegittime assegnazioni a mansioni superiori che danno luogo a carichi economici, rimedi specifici a tutela del corretto esercizio dell’attività amministrativa.

La scelta è quella di gravare della responsabilità del pregiudizio economico sofferto dall’amministrazione coloro che sono investiti del dovere di corretta attuazione delle regole per l’attribuzione delle mansioni, anche sotto il profilo del controllo delle modalità con le quali si svolge l’attività amministrativa. Dovere questo che non è altro che una esplicitazione, in un’ottica costituzionalmente orientata di garanzia di “buona amministrazione”, dell’esigenza di provvedere a legittime e consentite assegnazioni a mansioni superiori.

Non può poi sostenersi sotto altro versante la tesi della ricorrente, secondo la quale lo svolgimento di fatto di un’attività per la quale è richiesta una particolare qualificazione professionale (nella specie il conseguimento del titolo per lo svolgimento della professione di infermiere professionale) sarebbe illecito perchè contrario “all’ordine pubblico” e che, conseguentemente le relative prestazioni non potrebbero essere retribuite.

Deve in contrario osservarsi che, secondo accreditata dottrina, l’ordine pubblico svolge una funzione preterlegale di repressione di abusi del diritto, di frodi alle norme giuridiche per non essere i valori del vivere sociale regolati unicamente dalle fonti legali. Si è infatti sostenuto che nell’ampia nozione dell’ordine pubblico va compreso l’insieme dei principi fondamentali immanenti nel sistema ordinamentale e desumibili da esso, e che l’applicazione del principio codicistico dell’ordine pubblico di cui all’art. 1343 c.c. è funzionale alla protezione dei diritti di dimensione sociale ed alla garanzia dei valori fondamentali ed essenziali della collettività e del vivere civile, ponendo in tal modo principi non derogabili dall’autonomia negoziale.

Alla luce di tali premesse nella fattispecie scrutinata non si rinviene una violazione dell’ordine pubblico ed una illiceità della causa nel senso denunziato dalla ricorrente.

Va al riguardo evidenziato che la Corte territoriale ha con puntualità accertato, sulla base delle declaratorie professionali contenute nel ccnl 1998/2001, che il profilo di “infermiere generico” (rivestito dagli odierni intimati) è mantenuto ad esaurimento nel livello economico Bs ed è destinato a scomparire. Al contrario la qualifica prevista a regime dal contratto è quella di collaboratore professionale sanitario, nella quale è confluito il precedente ruolo di “infermiere professionale”, che si articola in due categorie, la C e la D, le quali si differenziano in relazione alla maggiore autonomia e professionalità richiesta per la categoria D rispetto alla C. Sostanzialmente la norma collettiva, adeguandosi alla mutata realtà sociale che nel tempo ha visto una professionalizzazione e specializzazione sempre maggiore per l’accesso alle professioni sanitarie, ha riprodotto lo schema già esistente adeguandolo, nell’accesso, alla mutata realtà ma riproducendo, nella sostanza, il medesimo rapporto di cooperazione tra livelli diversi nell’ambito della medesima area professionale.

Nel caso di specie non è ravvisabile nello svolgimento di compiti propri della superiore qualifica professionale, tenuto in particolare conto il complessivo contesto fattuale nonchè le notorie modalità di svolgimento, sotto il continuo ed immancabile controllo del personale medico, delle attività in pronto soccorso, quel pericolo per la salute pubblica che potrebbe in ipotesi giustificare, per la gravità della violazione, anche il mancato riconoscimento della relativa retribuzione.

Per concludere nel caso in esame si è rettamente ritenuto che ricorresse l’ipotesi di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5, in relazione alla quale è stato più volte affermato che, nella materia dell’pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata dal citato D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5 non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, nè all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost. (cfr. Cass. Cass. 20.2.2013 n. 4190, 18 giugno 2010 n. 14775 nonchè, negli stessi termini, Cass. 11 giugno 2009 n. 13597, Cass. 3 febbraio 2009 n. 4367 e Cass. 11 dicembre 2007 n. 25837).

Per le esposte considerazioni il ricorso, per essere infondato, va rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno regolate secondo il criterio della soccombenza. Nulla sulle spese in relazione alle parti non costituite.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio in favore delle parti costituite che liquida in Euro 3000,00 per compensi professionali ed in Euro 50,00 per esborsi oltre accessori come per legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 6 marzo 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2013


Per provare il mobbing non basta il semplice demansionamento

La Corte Suprema di Cassazione con sentenza n.7985 del 02.04.2013 ha ribadito il proprio orientamento in tema di risarcibilità del danno da mobbing (nella specie da demansionamento) secondo il quale per contestare il mobbing non è sufficiente denunciare lo svuotamento delle mansioni del lavoratore ma occorre aggiungere una serie di condotte vessatorie collegate casualmente.

È indispensabile, cioè, fornire la prova di una pluralità di atti vessatori compiuti a danno di un lavoratore, collegati tra di loro, allo scopo di arrecare un danno alla sua persona e di escluderlo dal contesto lavorativo.

La nozione di mobbing infatti si incentra su “quell’insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o comunque emergenti nell’ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell’integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio” (Consiglio Stato 1609/2013), cioè su una serie prolungata di atti e comportamenti che abbiano caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione.

Il caso: un dipendente di un Comune umbro lamentava di aver subito la revoca dell’incarico di responsabile sezione e chiedeva la reintegrazione nelle precedenti mansioni e il risarcimento del danno da mobbing per la dequalificazione professionale, producendo prove testimoniali aventi ad oggetto mere valutazioni e non fatti specifici e rilevanti.

La Cassazione, nel respingere il ricorso, ha anche affermato che “non è sufficiente la prospettazione di un mero ‘svuotamento delle mansioni’, occorrendo – ai fini della deduzione del mobbing – anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente”.

Leggi: Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 02-04-2013, n. 7985

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. STILE Paolo – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 19784/2009 proposto da:

L.P. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in (OMISSIS), (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato BELLUCCI MAURIZIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BIOLI VINCENZO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI NOCERA UMBRA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BARBERINI 12, presso lo studio dell’avvocato TONELLI ENRICO, rappresentato e difeso dall’avvocato CAFORIO GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 488/2008 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 11/09/2008 R.G.N. 842/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/01/2013 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;

udito l’Avvocato BELLUCCI MAURIZIO;

udito l’Avvocato TONELLI ENRICO per delega CAFORIO GIUSEPPE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Perugia, confermando la sentenza di primo grado, rigettava la domanda di L.P., proposta nei confronti del Comune di Nocera Umbra di cui era dipendente, avente ad oggetto la declaratoria dell’illegittimità della revoca dell’incarico di responsabile di sezione con conseguente sua reintegrazione nel posto precedentemente occupato e condanna di controparte al risarcimento dei danni.

La Corte del merito, per quello che interessa in questa sede, riteneva, innanzitutto,inammissibile, perché nuova,la domanda diretta ad ottenere l’ordine di cessazione delle attività vessatorie e mobbizzanti in quanto la relativa causa petendi – consistente nell’allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo – ed il petitum – ordine di cessazione – non trovavano riscontro nel ricorso introduttivo del giudizio.

La predetta Corte, poi, relativamente alla assunta dequalificazione professionale, conseguente alla allegata privazione di qualsiasi incarico a seguito della revoca della funzione di responsabile di sezione, rilevava che il ricorrente avrebbe dovuto dimostrare che gli incarichi erano rimasti “sulla carta” e non avevano avuto esecuzione e che egli era rimasto inoperoso. Viceversa, secondo la Corte territoriale, il L. non aveva assolto a tale onere in quanto la prova articolata non verteva su fatti specifici e rilevanti a quel fine, ma anzi comportava l’espressione da parte dei testimoni d’inammissibili valutazioni circa il contenuto meramente formale degli incarichi.

Nè, infine, riteneva la Corte del merito che gli incarichi assegnati al ricorrente non fossero corrispondenti alla professionalità propria della categoria d’inquadramento.

Avverso questa sentenza il L. ricorre in cassazione sulla base di tre censure, illustrate da memoria.

Resiste con controricorso il Comune intimato.

Motivi della decisione

Con la prima censura il ricorrente deduce contraddittorietà della motivazione in punto di ritenuta novità del capo della domanda concernente il mobbing. In particolare il L. rileva che prima la Corte del merito asserisce la novità della domanda e, poi, riconosce l’esistenza di una allegazione sullo svuotamento delle mansioni.

Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, pone il seguente quesito di diritto: “se la richiesta di cessazione di abuso di condotta vessatoria da parte del datore di lavoro costituisce domanda nuova e come tale inammissibile ai sensi dell’art. 437, comma 2, rispetto alla domanda formulata in primo grado dal lavoratore di accertamento dell’esistenza dell’abuso stesso ai fini della domanda di risarcimento del danno e di reintegra delle effettive funzioni ricoperte prima dell’abuso”.

Le due censure, in quanto strettamente connesse dal punto vista logico e giuridico, vanno trattate unitariamente.

Preliminarmente va dato atto che i motivi di ricorso in esame risultano ex art. 366 bis c.p.c., ammissibili atteso che, contrariamente all’assunto di parte resistente, i relativi quesiti consentono la piena cognizione, e del fatto controverso su cui s’incentra la censura di contraddittorietà della motivazione, e della violazione di leggi dedotta con riferimento anche alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

Tanto premesso rileva la Corte che i motivi sono infondati.

Innanzitutto non vi è contraddittorietà della motivazione in quanto il ricorrente non tiene conto che secondo la Corte del merito il mobbing presuppone l’esistenza, e, quindi, l’allegazione di una serie di atti vessatori teologicamente collegati al fine dell’emarginazione del soggetto passivo. E proprio con riferimento a tale ricostruzione del mobbing ritiene che manca nel ricorso di primo grado, qualsiasi allegazione di tal genere e che, pertanto, la relativa domanda – rectius causa petendi – è nuova. In altri termini per la Corte del merito non è sufficiente la prospettazione di un mero “svuotamento delle mansioni”, occorrendo, ai fini della deduzione del mobbing, anche l’allegazione di una preordinazione finalizzata all’emarginazione del dipendente.

Quanto alla denunciata violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2, oltre alla considerazione che il petitum – rappresentato nella specie dalla richiesta di un ordine di cessazione della condotta mobizzante – è del tutto nuovo come sottolineato dalla Corte del merito, vi è il rilievo che trattandosi d’interpretazione della domanda che implica un accertamento di fatto, il ricorrente per correttamente investire questa Corte della questione di cui trattasi avrebbe dovuto denunciare l’erronea interpretazione della domanda e non la sola violazione dell’art. 437 c.p.c., comma 2.

Con la terza critica il L., deducendo vizio di motivazione, lamenta la mancata ammissione dell’interrogatorio formale di controparte e della prova articolata.

La censura è infondata.

Invero la Corte del merito ritiene inammissibili i reclamati mezzi istruttori perché non vertenti su fatti specifici e rilevanti, ma anzi comportanti l’espressione da parte dei testimoni d’inammissibili valutazioni circa il contenuto formale degli incarichi conferiti.

Ebbene ritiene il Collegio che effettivamente i capitoli di prova vertono sulla cronistoria degli accademisti e sulla formalità o meno degli incarichi attribuiti al ricorrente. Come tali, quindi, sono irrilevanti – rectius inammissibili – atteso che riguardano circostanze, quali quelle della revoca dell’incarico e dell’attribuzione di nuovo incarico, del tutto pacifiche ovvero attengono alla richiesta di un giudizio circa il contenuto formale o meno dei nuovi incarichi affidati al ricorrente.

Il ricorso, in conclusione, va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 50,00 per esborsi, oltre Euro 2.500,00 per compensi ed oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2013


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 19-06-2013) 01-08-2013, n. 18443

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. DOGLIOTTI Massimo – Consigliere –

Dott. DIDONE Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5423/2009 proposto da:

LA MADDALENA S.P.A. (c.f. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ATTILIO REGOLO 12/D, presso l’avvocato LUCIO STILE, rappresentata e difesa dall’avvocato FORTUNA TULLIO, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

G.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PO’ 25/B, presso lo STUDIO PESSI ED ASSOCIATI, rappresentato e difeso dall’avvocato SIGILLO’ Vincenzo, giusta procura a margine del controricorso;

GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI, in persona del Presidente pro tempore, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 22/2008 del TRIBUNALE di PALERMO, depositata il 26/06/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/06/2013 dal Consigliere Dott. ANTONIO DIDONE;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato TULLIO FORTUNA che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso con condanna alle spese.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- La s.p.a. Maddalena, titolare di una casa di cura, ricorre per cassazione – formulando quattro motivi contro la sentenza del Tribunale di Palermo del 26.6.2008 con la quale è stato respinto il suo ricorso, presentato ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, contro il provvedimento in data 2.2.2006 con il quale il Garante per la protezione dei dati personali le aveva vietato il trattamento dei dati personali di G.F., proprio dipendente, dal cui computer erano stati estratti dati concernenti l’acceso ad internet, tali da configurare “dati sensibili” perchè relativi a convinzioni religiose e politiche nonchè alle tendenze sessuali.

Resistono con controricorso G.F. e il Garante della protezione dei dati personali.

2.- La vicenda oggetto del ricorso può essere così riassunta.

G.F. avendo ricevuto dalla casa di cura ricorrente, presso cui prestava servizio come addetto all’accettazione e al banco referti, una contestazione disciplinare relativa ad accessi ad Internet non autorizzati effettuati sul luogo di lavoro, ha chiesto il blocco e la cancellazione dei dati personali che lo riguardano relativi a tali accessi, ai sensi dell’art. 7 Codice.

La s.p.a. Maddalena li aveva documentati producendo numerose pagine – allegate alla contestazione disciplinare – recanti, in particolare, informazioni relative ai “file” temporanei e ai “cookie” originati, sul computer utilizzato dal ricorrente, dalla navigazione in rete avvenuta durante sessioni di lavoro avviate con la password del ricorrente medesimo.

Non avendo ricevuto riscontro, il ricorrente ha presentato ricorso al Garante ai sensi dell’art. 145 e segg. del codice, ritenendo illecito il trattamento.

Il ricorrente ha sostenuto che tra i dati in questione comparivano anche alcune informazioni di carattere sensibile idonee a rivelare, in particolare, convinzioni religiose, opinioni sindacali, nonchè gusti e tendenze sessuali posto che numerosi file fanno riferimento a siti Internet a contenuto pornografico. La resistente avrebbe trattato tali dati senza alcun consenso e senza informare preventivamente circa la possibilità di effettuare controlli sui terminali d’ufficio nè l’interessato, nè il “sindacato interno all’azienda (…), in aperto spregio all’art. 4 dello Statuto dei lavoratori che prevede che tale attività può avvenire solo previo consenso del sindacato o dell’ispettorato del lavoro”.

2.1.- Con il provvedimento impugnato dinanzi al Tribunale il Garante ha osservato quanto segue:

“Considerato il collegamento diretto ed univoco che la società ha rappresentato (ai fini della contestazione disciplinare, del licenziamento per giusta causa e della querela sporta) tra la persona del ricorrente e i dati desunti sia dai file temporanei, sia dai cookie prodotti in giudizio, il ricorrente stesso assume la qualità di interessato (art. 4, comma 1, lett. a), del Codice, secondo cui è tale la persona fisica (…) cui si riferiscono i dati personali) ed è, pertanto, legittimato ad esercitare i diritti di cui all’art. 7 del Codice e a presentare ricorso al Garante.

Per ciò che concerne il merito va rilevato che la società, per dimostrare un comportamento illecito nel quadro del rapporto di lavoro, ha esperito dettagliati accertamenti in assenza di una previa informativa all’interessato relativa al trattamento dei dati personali, nonchè in difformità dall’art. 11 del Codice nella parte in cui prevede che i dati siano trattati in modo lecito e secondo correttezza, nel rispetto dei principi di pertinenza e non eccedenza rispetto alle finalità perseguite.

Dalla documentazione in atti si evince che la raccolta da parte del datore di lavoro dei dati relativi alle navigazioni in Internet è avvenuta mediante accesso al terminale in uso all’interessato (con copia della cartella relativa a tutte le operazioni poste in essere su tale computer durante le sessioni di lavoro avviate con la sua password, come si desume dalla stringa riportata in apice all’elenco dei file prodotti dalla resistente e:copiaDocuments and settingsx-y), anzichè mediante accesso a file di backup della cui esistenza il personale della società è informato mediante il manuale della qualità accessibile agli stessi sul proprio terminale.

A parte la circostanza che l’interessato non era stato, quindi, informato previamente dell’eventualità di tali controlli e del tipo di trattamento che sarebbe stato effettuato, va rilevato sotto altro profilo che non risulta che il ricorrente avesse necessità di accedere ad Internet per svolgere le proprie prestazioni. La resistente avrebbe potuto quindi dimostrare l’illiceità del suo comportamento in rapporto al corretto uso degli strumenti affidati sul luogo di lavoro limitandosi a provare in altro modo l’esistenza di accessi indebiti alla rete e i relativi tempi di collegamento. La società ha invece operato un trattamento diffuso di numerose altre informazioni indicative anche degli specifici contenuti degli accessi dei singoli siti web visitati nel corso delle varie navigazioni, operando – in modo peraltro non trasparente – un trattamento di dati eccedente rispetto alle finalità perseguite.

La raccolta di tali informazioni ha comportato, altresì, il trattamento di alcuni dati sensibili idonei a rivelare convinzioni religiose, opinioni sindacali, nonchè gusti attinenti alla vita sessuale (ciò, stante l’elevato numero di informazioni valutate in rapporto ad un lungo arco di tempo, gli specifici contenuti risultanti da alcuni indirizzi web e il contesto unitario in cui il complesso di tali dati è stato valutato), rispetto ai quali la disciplina in materia di dati personali pone peculiari garanzie che non sono state integralmente rispettate nel caso di specie (art. 26 del Codice; aut. gen. del Garante n. 1/2004).

Va infatti tenuto conto che, sebbene i dati personali siano stati raccolti nell’ambito di controlli informatici volti a verificare l’esistenza di un comportamento illecito (che hanno condotto a sporgere una querela, ad una contestazione disciplinare e al licenziamento), le informazioni di natura sensibile possono essere trattate dal datore di lavoro senza il consenso quando il trattamento necessario per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria sia indispensabile (art. 26, comma 4, lett. c), del Codice;

autorizzazione n. (OMISSIS) del Garante). Tale indispensabilità, anche alla luce di quanto precedentemente osservato, non ricorre nel caso di specie.

Inoltre, riguardando anche dati idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, il trattamento era lecito solo per far valere o difendere in giudizio un diritto di rango pari a quello dell’interessato ovvero consistente in un diritto della personalità o in un altro diritto o libertà fondamentale e inviolabile. Anche tale circostanza non ricorre nel caso di specie, nel quale sono stati fatti valere solo diritti legati allo svolgimento del rapporto di lavoro (cfr. art. 26, comma 4, lett. c), del Codice; punto 3, lett. d), della citata autorizzazione; cfr. Provv. Garante 9 luglio 2003).

Alla luce delle considerazioni sopra esposte e considerato l’art. 11, comma 2, del Codice secondo cui i dati trattati in violazione della disciplina rilevante in materia di trattamento dei dati personali non possono essere utilizzati, l’Autorità dispone quindi, ai sensi dell’art. 150, comma 2, del Codice, quale misura a tutela dei diritti dell’interessato, il divieto per la società resistente di trattare ulteriormente i dati personali raccolti nei modi contestati con il ricorso”.

2.2.- Il Tribunale, nel rigettare il ricorso della s.p.a. Maddalena ha condiviso le argomentazioni del Garante e, in particolare, ha disatteso l’eccezione di difetto di legittimazione del G., ha ritenuto dati “sensibili” quelli trattati dalla ricorrente e ha accertato, inoltre, che il trattamento era avvenuto senza consenso dell’interessato, fuori dalle ipotesi di cui all’art. 24 del Codice e in modo eccedente.

3.1.- Con il primo motivo di ricorso la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 169 del 2003, artt. 4, 141 e 145 art. 12 preleggi, nonchè vizio di motivazione.

Deduce che la nozione di interessato ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 4 e 141, alla luce dell’art. 12 preleggi, non può essere interpretata nel senso di conferire legittimazione attiva ai fini del ricorso ex art. 145 D.Lgs. cit., anche al soggetto che abbia negato ogni relazione tra sè ed i dati medesimi.

3.2.- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4, comma 1, lett. c), artt. 12 e 14 preleggi, nonchè vizio di motivazione.

Deduce che, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 4 comma 1 lett. c), nonchè degli artt. 12 e 14 preleggi, la visitazione di differenti siti web ricollegabili a diverse associazioni sindacali non costituisce un dato idoneo a rivelare le opinioni sindacali dell’utente Internet, così come la visitazione di molteplici siti web riconducibili ad organizzazioni di carattere religioso non costituisce un dato idoneo a rivelare le convinzioni religiose dell’utente Internet. Nè, infine, la visitazione di molteplici siti web a contenuto pornografico integra un dato attinente alla “vita sessuale” dell’utente Internet.

3.3.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 13, comma 5, lett. a), art. 24, comma 1, lett. a), b) e g), art. 26 comma 4, lett. b) c) e d) e art. 40; violazione e falsa applicazione della L. n. 604 del 1966, artt. 1, 2 e 5, come modificata dalla L. n. 108 del 1990, nonchè della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18 (statuto dei lavoratori) nonchè delle disposizioni (artt. Da 38 a 41) del CCFNL per il personale dipendente delle strutture sanitarie associate AIOP, ARIS e FDG (parte normativa 2002-2005, biennio economico 2002-2003), che disciplina il rapporto, in ordine ai procedimenti disciplinari;

violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’autorizzazione generale del Garante per la protezione dei dati personali n. 1 del 2004 al trattamento dei dati sensibili nei rapporti di lavoro, sub 3, lett. A); nonchè vizio di motivazione.

Lamenta che la sentenza impugnata abbia omesso di motivare in relazione alla circostanza che il provvedimento autorizzatorio n. 1 del 2004 del Garante per la protezione dei dati personali al trattamento dei dati sensibili nei rapporti di lavoro fosse riferibile all’odierna ricorrente e ne legittimasse il comportamento nonchè sulla circostanza che l’attività gestita da La Maddalena S.p.A. fosse destinataria del regime speciale disposto dall’art. 34, comma 4, lett. b), in virtù del fatto di essere soggetto accreditato presso il servizio sanitario regionale della Sicilia.

Deduce che – ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 13, comma 5, lett. a), art. 24, comma 1, lett. a), b) e g), art. 26, comma 4, lett. b), c) e d), e art. 40; della L. n. 604 del 1966, artt. 1, 2 e 5, come modificata dalla L. n. 108 del 1990, nonchè della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18 (Statuto dei lavoratori), nonchè delle disposizioni (artt. da 38 a 41) del CCNL per il personale dipendente delle strutture sanitarie associate aiop, aris e fdg (parte normativa 2002-2005, biennio economico 2002-2003) e dell’Autorizzazione Generale del Garante per la Protezione dei Dati Personali n. 1 del 2004 al trattamento dei dati sensibili nei rapporti di lavoro -il rispetto degli obblighi imposti al datore di lavoro per procedere alla legittima risoluzione del rapporto esclude la necessità della previa acquisizione del consenso dell’interessato”.

La ricorrente, inoltre, deduce che la sentenza impugnata è viziata – ex art. 112 c.p.c. – nella parte in cui ha omesso di pronunciarsi sull’idoneità degli obblighi imposti dalla legge e dal CCNL per il licenziamento disciplinare, a sollevare il datore di lavoro dall’obbligo di previa acquisizione del consenso al trattamento di dati riferibili all’interessato-prestatore di lavoro.

Deduce, ancora, la violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 40, perchè il tribunale ha qualificato come trattamento illecito di dati una condotta che, ai sensi dell’autorizzazione generale, costituisce trattamento lecito.

Deduce, infine, l’erroneità della sentenza nella parte in cui non proporziona il giudizio sulla congruenza, proporzionalità e non eccedenza del trattamento alle finalità che, con esso, il titolare ha voluto (ed aveva l’obbligo di) perseguire.

3.4.- Con il quarto motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360, n. 3); nullità della sentenza ex art. 156 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4).

Deduce che l’art. 112 c.p.c., impone che la sentenza contenga, anche in dispositivo, le conclusioni circa l’accoglimento o il rigetto, già espressamente contenute nella motivazione, in relazione a ciascuna delle domande proposte nel giudizio dalla stessa definito e lamenta la nullità della sentenza perchè non contiene, in dispositivo, alcuna menzione del rigetto della domanda di danni formulata dal G..

4.1.- Ai sensi del D.Lgs. n. 169 del 2003, art. 4 lett. i), è “interessato”, la persona fisica cui si riferiscono i dati personali oggetto di un determinato trattamento. Avendo il G. ricevuto dalla casa di cura ricorrente una contestazione disciplinare relativa ad accessi ad Internet non autorizzati effettuati sul luogo di lavoro, egli era certamente legittimato, ai sensi dell’art. 7 Codice, a chiedere il blocco e la cancellazione dei dati personali che gli venivano imputati.

Il tribunale, dunque, ha correttamente applicato i principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte secondo la quale “ai fini del trattamento dei dati personali, come disciplinato dalla L. 31 dicembre 1996, n. 675 (e quindi dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196), e dell’esperibilità della tutela predisposta dall’art. 1 e segg., perchè una persona assuma la qualità di “interessato” è necessario che i dati di cui si controverta riguardino la persona fisica o la persona giuridica o l’ente o l’associazione che si dolga proprio del loro trattamento, non essendo richiesto che i dati appartengano, con certezza, alla persona che si duole delle operazioni compiute su di essi, atteso che quel che rileva è la loro attribuzione o la loro esclusione rispetto a colui che, al riguardo, accampi un diritto (alla titolarità ovvero all’estraneità dei dati). Pertanto, anche l’inesatto trattamento dei dati consente di invocare, presso la competente autorità di garanzia la tutela apprestata dalla legge, il cui disegno è funzionale alla difesa della persona e dei suoi fondamentali diritti e tende ad impedire che l’uso, astrattamente legittimo, del dato personale avvenga con modalità tali da renderlo lesivo di quei diritti: qualora, perciò, si contesti l’attribuzione alla propria persona di determinate immagini, non ci si spoglia, per ciò stesso, della qualità di “interessato”, perchè proprio il fatto che il soggetto intenda escludere l’attribuzione a sè di quei dati iconici comporta che egli abbia assunto, a ragione, quella qualificazione e, in forza di essa, possa chiedere (nella specie, al Garante e quindi al Tribunale) l’adozione di provvedimenti (Sez. 1, Sentenza n. 14390 del 08/07/2005).

Talchè il primo motivo è infondato.

4.2.- Il D.Lgs. n. 196/2003 definisce all’art. 4, comma 1, lett. d) i “dati sensibili” come quei “dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonchè i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. In dottrina, in proposito, si è rilevato che la consapevolezza dei rischi insiti in un atteggiamento improntato ad un’eccessiva restrizione delle ipotesi in cui la tutela rafforzata debba essere riconosciuta, è ben chiara nella mente del legislatore, che ha adottato, sin dal 1996, una definizione di dato sensibile più ampia rispetto a quella comunitaria, posto che, diversamente dall’art. 8 della Direttiva 95/46/CE, l’art. 4, comma 1, lett. d) del codice (così come il precedente art. 22, comma 1) utilizza la formula “dato idoneo a rivelare”, piuttosto che quella di “dato che rivela”, estendendosi l’attributo della sensibilità anche a quelle informazioni che, seppur di per sè neutre, possano sulla scorta di un procedimento logico condurre a rivelare dati peculiari, in relazione al particolare contesto in cui avviene il trattamento.

Allo stesso fine è stato valorizzato il riferimento alle “convinzioni di altro genere”, contenuto nella norma interna ma assente in quella europea, ritenendosi che con esso si è inteso costituire una clausola di chiusura per qualsiasi informazione che identifichi un credo, una convinzione o un’opinione personale. Credo, convinzione o opinione personale indubbiamente desumibili anche dai dati relativi all’accesso a siti web ricollegabili a diverse associazioni sindacali ovvero riconducibili ad organizzazioni di carattere religioso da parte dell’utente Internet.

Invero, già da tempo il competente gruppo di lavoro della Commissione Europea – dopo avere ribadito che “un principio fondamentale in materia di protezione dei dati (vedi art. 6(1) (c) e art. 7 della direttiva 95/46/CE) è che i dati personali raccolti in qualsiasi situazione debbano limitarsi a quanto è strettamente necessario e attinente alla finalità in questione” e che “ogni tipo d’informazione personale costituisce una minaccia potenziale alla riservatezza di una persona ed è quindi necessario fare in modo che, quando tali informazioni vengono raccolte, ciò avvenga per una finalità legittima e che la quantità d’informazioni raccolte sia limitata al minimo indispensabile” – ha evidenziato che i rischi alla riservatezza personale risiedono non solo nell’esistenza di grandi quantitativi di dati personali su Internet, ma anche nello sviluppo del software capace di esplorare la rete e mettere assieme tutti i dati disponibili relativi a una determinata persona, essendo possibile “compilare una biografia dettagliata di una persona”, “…

utilizzando tale software e sfruttando le informazioni provenienti da tutti i gruppi di discussione a cui la persona ha partecipato” (Commissione Europea, Raccomandazione 3/97, Anonimato su Internet, 3 dicembre 1997).

Quanto al profilo della censura relativo alla vita sessuale, va evidenziato che “pornografia” è la “trattazione o rappresentazione (attraverso scritti, disegni, fotografie, film, spettacoli, ecc.) di soggetti o immagini ritenuti osceni, fatta con lo scopo di stimolare eroticamente il lettore o lo spettatore” e l’erotismo è “l’insieme delle manifestazioni dell’istinto sessuale sia sul piano psicologico e affettivo sia su quello comportamentale”. Secondo le sezioni penali di questa Corte “la pornografia è compresa nel più ampio concetto di oscenità, e si identifica con la descrizione o illustrazione di soggetti erotici, mediante scritti, disegni, discorsi, fotografie, ecc, che siano idonei a far venir meno il senso della continenza sessuale e offendano il pudore per la loro manifesta licenziosità” (Cass. Sez. 3^, n. 1197 del 6.11.1970, Bianco, mass. 116647).

In sessuologia si afferma che nell’uomo la sessualità appare strettamente legata a fattori di ordine psicologico, culturale e sociale che in ogni individuo prevalgono sui fattori biologici, costituendo la base della cosiddetta vita sessuale o comportamento sessuale, teso non solo alla finalità riproduttiva ma anche alla ricerca del piacere.

Questa Corte (in sede penale) ha già avuto modo di precisare che la circostanza che oggetto di tutela da parte del D.Lgs. n. 196 del 2003 “non siano solo i gusti sessuali di un individuo (astrattamente e genericamente considerati), ma, anche, le concrete scelte che, in questo campo, il soggetto va ad operare, è chiaramente evincibile dalla stessa lettera del citato art. 4, laddove (comma 1, lett. d)) definisce i dati sensibili con riferimento ai dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale (non semplicemente le tendenze o le aspirazioni in tale campo)” (Sez. 5 penale, Sentenza n. 44940 del 2011).

Pertanto, è indubbio che sono dati personali idonei a rivelare la vita sessuale – “da intendersi come complesso delle modalità di soddisfacimento degli appetiti sessuali di una persona” (Sez. 5 penale, Sentenza n. 46454 del 2008) – quelli relativi alla “navigazione” in internet con accesso a siti pornografici.

Il secondo motivo, dunque, è infondato.

4.3.- Quanto alle numerose censure compendiate nel terzo motivo va evidenziato che ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, i dati oggetto del trattamento devono – tra l’altro – essere “pertinenti, completi e non eccedenti rispetto alle finalità per le quali sono raccolti o successivamente trattati” e la stessa autorizzazione n. 1 del 2004 del Garante, invocata a più riprese dalla ricorrente, precisa (al par. 5) che “fermi restando gli obblighi previsti dagli artt. 11 e 14 del Codice, nonchè dall’art. 31 e segg. Codice e dall’Allegato B) al medesimo Codice, il trattamento dei dati sensibili deve essere effettuato unicamente con operazioni, nonchè con logiche e mediante forme di organizzazione dei dati strettamente indispensabili in rapporto ai sopra indicati obblighi, compiti o finalità”.

Ciò posto, va rilevato che con congrua e logica motivazione, anche mediante illustrazione dei corretti metodi di ricerca e neutralizzazione di virus informatici, il Tribunale ha accertato in fatto che il trattamento dei dati sensibili era avvenuto in modo eccedente rispetto alla finalità del medesimo. In particolare, sempre con accertamento in fatto incensurabile in questa sede, il tribunale ha condiviso le argomentazioni del Garante secondo cui la ricorrente avrebbe potuto dimostrare l’illiceità del comportamento del dipendente, in rapporto al corretto uso degli strumenti affidati sul luogo di lavoro, limitandosi a provare in altro modo l’esistenza di accessi indebiti alla rete e i relativi tempi di collegamento.

Essa, per contro, ha operato un trattamento diffuso di numerose altre informazioni indicative anche degli specifici “contenuti” degli accessi dei singoli siti web visitati nel corso delle varie navigazioni, operando – in modo peraltro non trasparente – un trattamento di dati eccedente rispetto alle finalità perseguite, tenuto conto che, sebbene i dati personali siano stati raccolti nell’ambito di controlli informatici volti a verificare l’esistenza di un comportamento illecito, le informazioni di natura sensibile possono essere trattate dal datore di lavoro senza il consenso quando il trattamento necessario per far valere o difendere un diritto in sede giudiziaria sia “indispensabile” e tale indispensabilità, non ricorre nel caso di specie.

Infine, pure con accertamento in fatto adeguatamente giustificato, il giudice del merito ha accertato che la “scoperta” del virus informatico è stata la “conseguenza” del controllo operato sul computer e non la ragione del controllo.

Per converso, le censure di cui al terzo motivo sono del tutto aspecifiche e generiche rispetto alla menzionata ratio decidendi, sì che il motivo è inammissibile.

4.4.- E’ del pari inammissibile, infine, il quarto motivo per evidente carenza di interesse in quanto lamenta l’omessa pronuncia su domanda (non accolta) formulata dalla controparte.

Il ricorso, pertanto, deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità – liquidate in dispositivo – seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000,00 per ciascuna parte resistente oltre le spese prenotate a debito per l’Avvocatura e, quanto G., oltre Euro 200,00 per esborsi nonchè gli accessori di legge.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi delle parti a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 19 giugno 2013.

Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2013


E’ obbligatorio risarcire il lavoratore per il congedo ordinario (le ferie) non goduto

Anche se il contratto collettivo di categoria esclude la monetizzazione.

A prevalere, secondo quanto affermano i giudici della Corte di Cassazione con la sentenza n. 18168 del 26.07.2013 sono i principi UE, secondo cui le ferie sono irrinunciabili, e rappresentano il riposo cui ha diritto il lavoratore, vale a dire il recupero delle energie psicofisiche, ma anche la possibilità di dedicarsi di più a relazioni familiari e sociali, l’opportunità di svolgere attività sportive o ricreative, o di viaggiare.

Il rilievo secondo cui il contratto collettivo applicabile al dipendente esclude che siano monetizzabili le ferie non godute non è importante ai fini della risoluzione della controversia, dal momento che lo stesso deve essere reinterpretato alla luce dei principi europei.

Pertanto, l’indennità sostitutiva scatta anche se la mancata fruizione non dipende dal datore di lavoro e il contratto collettivo applicabile in azienda prevede invece il pagamento soltanto quando la mancata fruizione è dipesa da motivi di servizio (purché ovviamente il mancato riposo non sia dipeso da colpa del lavoratore).

L’indennità sostitutiva, avvisano i giudici, ha una doppia natura: risarcitoria, appunto perché compensa il lavoratore per la perdita del bene-riposo; retributiva, in quanto costituisce un’erogazione che risulta connessa al sinallagma che caratterizza il rapporto di lavoro, come rapporto a prestazioni corrispettive: più specificamente essa rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in un periodo che, pur essendo di per sé retribuito, non sarebbe dovuto invece essere lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali.


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 14-05-2013) 26-07-2013, n. 18168

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. MAISANO Giulio – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30102/2008 proposto da:

REGIONE CALABRIA (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. NICOTERA 29 SC. 9 INT. 2, presso lo studio dell’avvocato CASALINUOVO ALDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FALDUTO PAOLO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.F.A.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1336/2008 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 02/09/2008 R.G.N. 389/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/05/2013 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte di appello, giudice del lavoro, di Reggio Calabria, in accoglimento dell’impugnazione proposta dalla Regione Calabria, dichiarava la nullità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado proposto da F.F.A. e della sentenza impugnata e ciò dopo aver riscontrato che non fossero intercorsi almeno trenta giorni tra la data di notifica del ricorso e la data dell’udienza di discussione; quindi, considerando che tale nullità non rientrava tra quelle per cui era prevista la rimessione della causa al primo giudice, decideva nel merito accogliendo la domanda proposta dal F. e condannando la Regione Calabria al pagamento, in suo favore, della somma di Euro 2.235,16 oltre accessori a titolo di indennità sostitutiva delle ferie non godute dal dipendente (collocato a riposo con decorrenza 1/1/2000) nell’anno 1999.

Per la cassazione di tale sentenza la Regione Calabria propone ricorso affidato a due motivi.

E’ rimasto solo intimato F.F.A..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la Regione ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 415 c.p.c., comma 5, e art. 354 c.p.c., nonchè omessa, insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia”. Si duole del fatto che la Corte territoriale ha ritenuto di non rimettere la causa al primo giudice rilevando che il mancato rispetto del termine a comparire determina la nullità della notifica e non quella del ricorso.

2. Il motivo è infondato.

Nei procedimenti soggetti al rito del lavoro, introdotti mediante ricorso da notificarsi al convenuto unitamente al decreto di fissazione dell’udienza di discussione, trova applicazione la disciplina dettata dall’art. 415 c.p.c., per cui, in particolare, tra la data di notificazione al convenuto e quella dell’udienza di discussione deve intercorrere un termine non minore di trenta giorni (comma 5), elevato a quaranta giorni se la notificazione debba effettuarsi all’estero (comma 6). La disciplina di tali procedimenti, peraltro, non prevede specificamente le conseguenze processuali derivanti dalla mancata osservanza in primo grado del prescritto termine dilatorio, come avviene, invece, per il procedimento ordinario, nel quale, essendo esplicitamente prevista la nullità della citazione in caso di assegnazione di un termine a comparire inferiore a quello stabilito dalla legge (artt. 164 e 163 bis c.p.c.), il giudice di appello, ove la nullità non sia stata sanata in primo grado mediante costituzione del convenuto o rinnovazione dell’atto di citazione, deve necessariamente disporre la rinnovazione degli atti nulli, ex art. 162 c.c., comma 1, e decidere la causa nel merito, non potendo comunque trovare applicazione il disposto dell’art. 354 c.p.c., comma 1, che prevede la rimessione al primo giudice nel caso di nullità della sola notificazione e non anche dello stesso atto introduttivo.

La questione se la disciplina ordinaria sia integralmente applicabile ai suddetti procedimenti di rito speciale ovvero se la particolarità della vocatio, propria di tali procedimenti, con la scissione della editio actionis (che si realizza con il deposito del ricorso nella cancelleria del giudice) e della vocatio in jus (che si attua mediante il concorso del comportamento del giudice, che emette il decreto di fissazione dell’udienza, e dell’attore, che deve provvedere alla notificazione del ricorso e del decreto al convenuto entro un termine sufficiente ad assicurare il prescritto spatium deliberarteli), comporti che la violazione del termine di comparizione afferisca alla sola fase di notificazione, senza che il vizio si estenda allo stesso atto introduttivo del giudizio, e se ne derivi, in tal caso, per il giudice di appello, l’obbligo di rimettere la causa al primo giudice, in applicazione di quanto previsto dal citato art. 354 c.p.c., comma 1, per l’ipotesi di nullità della notifica della citazione, è stata risolta dalle sez. un. di questa Corte con decisione del 21 marzo 2001, n. 122. E’ stato così ritenuto, risolvendo un contrasto, che il giudice di appello che rilevi la nullità dell’introduzione del giudizio, determinata dall’inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall’art. 415 c.p.c., comma 5, non possa dichiarare la nullità e rimettere la causa al giudice di primo grado (non ricorrendo in detta ipotesi nè la nullità della notificazione dell’atto introduttivo, nè alcuna delle altre ipotesi tassativamente previste dall’art. 353 c.p.c., e art. 354 c.p.c., comma 1), ma debba trattenere la causa e, previa ammissione dell’appellante ad esercitare in appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado se il processo si fosse ritualmente instaurato, decidere nel merito. Ciò in ragione della diversità strutturale tra l’atto introduttivo del giudizio ordinario (che inizia con la citazione ad udienza fissa) e l’atto introduttivo del giudizio secondo il rito del lavoro, che non consente l’automatica trasposizione dell’art. 164 c.p.c., comma 1, nella parte in cui qualifica come causa di nullità della citazione l’inosservanza del termine dilatorio di comparizione, al rito del lavoro, che assume la struttura di fattispecie complessa a formazione progressiva, caratterizzata dalla scissione tra l’editio actionis e la vocatio injus. Inoltre è stato considerato che l’inosservanza del termine di comparizione di cui all’art. 415, comma 5, sia essa dovuta al provvedimento del giudice ovvero alla successiva condotta dell’attore, è causa di invalidità della vocatio in jus, e non può quindi incidere sulla validità dell’editio actionis, perfezionata mediante il deposito del ricorso, in ragione del principio generale di cui all’art. 159 c.p.c., comma 1, secondo cui la nullità di un atto non importa quella degli atti precedenti. In sostanza, nel caso dell’inosservanza del termine dilatorio di comparizione stabilito dall’art. 415 c.p.c., comma 5, la notifica del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza di discussione viene postulata come valida: il contatto tra attore e convenuto si è realizzato, mediante la notificazione, ed il contraddittorio è potenzialmente instaurato.

Il convenuto che, pur avendo avuto notizia del giudizio intentato nei suoi confronti, rileva la violazione del termine di comparizione, non si costituisce per libera scelta di strategia processuale, riservandosi la tutela in sede di impugnazione. Non si verte, quindi, in una ipotesi di nullità della notificazione dell’atto introduttivo, determinante il difetto di conoscenza nel convenuto della pendenza del giudizio, ma in una ipotesi di nullità della fattispecie introduttiva determinata dalla lesione del diritto di difesa del convenuto, inciso dall’assegnazione di uno spatium deliberaridi inferiore a quello garantito dalla legge. E questa ipotesi non è espressamente prevista dall’art. 354 c.p.c., comma 1.

Ne consegue l’inapplicabilità della rimessione al primo giudice di cui al medesimo art. 354 c.p.c., comma 1.

Questa Corte non ha motivo di discostarsi da tale soluzione.

Avendo, dunque, la Corte territoriale correttamente trattenuto la causa e non essendo in discussione che la Regione appellante sia stata posta in condizione di esercitare in grado di appello tutte le attività che avrebbe potuto svolgere in primo grado, il motivo deve essere disatteso.

3. Con il secondo motivo la Regione ricorrente denuncia: “Violazione e falsa applicazione dell’art. 36 Cost., e art. 2109 c.c., nonchè violazione e/o falsa applicazione dell’art. 10 del c.c.n.l. Regioni Enti Locali del 6/7/1995 (applicabile ratione temporis) – omessa, contraddittoria ed insufficiente motivazione su un punto decisivo”.

Si duole del fatto che siano state ritenute monetizzabili ferie di cui il lavoratore non aveva goduto e ciò sulla base della sola circostanza del mancato godimento e senza tener conto che una specifica disposizione pattizia (art. 18, comma 9, c.c.n.l. del 6/7/1995) prevedeva tale monetizzazione solo nell’ipotesi in cui le ferie spettanti non fossero state fruite per esigenze di servizio, situazione nella specie non sussistente.

4. Anche tale motivo è infondato.

Va, al riguardo, richiamato il principio già espresso da questa Corte secondo cui, in relazione al carattere irrinunciabile del diritto alle ferie, garantito anche dall’art. 36 Cost., e dall’art. 7 della direttiva 2003/88/CE (v. la sentenza 20 gennaio 2009 nei procedimenti riuniti c-350/06 e c-520/06 della Corte di giustizia dell’Unione Europea), ove in concreto le ferie non siano effettivamente fruite, anche senza responsabilità del datore di lavoro, spetta al lavoratore l’indennità sostitutiva che ha, per un verso, carattere risarcitorio, in quanto idonea a compensare il danno costituito dalla perdita di un bene (il riposo con recupero delle energie psicofisiche, la possibilità di meglio dedicarsi a relazioni familiari e sociali, l’opportunità di svolgere attività ricreative e simili) al cui soddisfacimento l’istituto delle ferie è destinato e, per altro verso, costituisce erogazione di indubbia natura retributiva, perché non solo è connessa al sinallagma caratterizzante il rapporto di lavoro, quale rapporto a prestazioni corrispettive, ma più specificamente rappresenta il corrispettivo dell’attività lavorativa resa in periodo che, pur essendo di per sè retribuito, avrebbe invece dovuto essere non lavorato perché destinato al godimento delle ferie annuali, restando indifferente l’eventuale responsabilità del datore di lavoro per il mancato godimento delle stesse (cfr., tra le più recenti, Cass. 9 luglio 2012, n. 11462; id. 11 ottobre 2012, n. 17353).

Dovendo, quindi, farsi applicazione del principio secondo cui dal mancato godimento delle ferie – una volta divenuto impossibile per il datore di lavoro, anche senza sua colpa, adempiere l’obbligo di consentirne la fruizione – deriva il diritto del lavoratore al pagamento dell’indennità sostitutiva, le clausole del contratto collettivo (nella specie, l’art. 18, comma 9, c.c.n.l. Regioni ed enti locali, triennio 1994-1997), che pur prevedono che le ferie non sono monetizzabili, vanno interpretate – in considerazione dell’irrinunciabilità del diritto alle ferie, ed in applicazione del principio di conservazione del contratto – nel senso che, in caso di mancata fruizione delle ferie per causa non imputabile al lavoratore, non è escluso il diritto di quest’ultimo all’indennità sostitutiva.

5. Da tanto consegue che il ricorso deve essere rigettato.

6. Infine nulla va disposto in ordine alle spese processuali del presente giudizio di legittimità essendo il F. rimasto solo intimato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 14 maggio 2013.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2013