Cass. civ., Sez. V, Ordinanza, 30/06/2023, n. 18614

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo M. – Consigliere –

Dott. DI PISA Fabio – rel. Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 2725/2014 R.G. proposto da:

EQUITALIA SUD Spa , elettivamente domiciliato in ROMA VIA CICERONE 28, presso lo studio dell’avvocato CASADEI BIANCA MARIA (CSDBCM66M56H501X) rappresentato e difeso dall’avvocato RAGNI VINCENZO (RGNVCN66S16A662S);

-ricorrente-

contro

(Omissis) Srl ;

-intimato-

avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. BARI n. 30/2013 depositata il 13/06/2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 03/05/2023 dal Consigliere FABIO DI PISA.

Svolgimento del processo
1. la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con la sentenza n. 30/07/2013 depositata in data 13/06/2013 e non notificata, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto da Equitalia Sud Spa nonchè in parziale accoglimento dell’appello incidentale avanzato dalla società (Omissis) Srl riformava parzialmente la sentenza di primo grado determinando il debito tributario oggetto di iscrizione ipotecaria nella minore somma di Euro 6.800,32;

1.1 ad avviso dei giudici di merito andavano esclusi gli importi di cui alle cartelle di pagamento prodromiche all’iscrizione ipotecaria nn. (Omissis), (Omissis), (Omissis), (Omissis) e (Omissis) che risultavano notificate irritualmente in violazione del disposto di cui all’art. 145 c.p.c., nel testo ratione temporis vigente;

2. Equitalia Sud Spa propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo;

3. la (Omissis) Srl è rimasta intimata;

4. la ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c. a seguito della relazione del consigliere relatore, ex art. 380-bis c.p.c., il quale ha rilevato l’infondatezza della censura;

Motivi della decisione
1. Equitalia Sud Spa , con un unico motivo, deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 145 c.p.c. nel testo ratione temporis vigente;

1.1. ad avviso di parte ricorrente i giudici di appello avevano applicato un principio di diritto erroneo non considerando che le notifiche in questione, eseguite direttamente presso la residenza dell’allora legale rappresentante della società, ante riforma del 2006, dovevano essere ritenute valide alla luce di principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità;

2. il ricorso è fondato;

2.1. la questione sollevata è stata oggetto di una interpretazione non univoca da parte della giurisprudenza di legittimità che, in più occasioni, ha affermato che gli atti tributari devono essere notificati al contribuente persona giuridica presso la sede della stessa (nel regime anteriore alle modifiche introdotte con la L. 28 dicembre 2005, n. 263), secondo la disciplina dell’art. 145, comma 1, c.p.c. e, solo qualora tale modalità risulti impossibile, in base al successivo comma 3 del medesimo art. 145, la notifica potrà essere eseguita, ai sensi degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c., alla persona fisica che rappresenta l’ente. (vedi Sez. 5, Sentenza n. 8649 del 15/04/2011, Rv. 617529 – 01; in senso conforme, Sez. 2, Sentenza n. 8402 del 20/06/2000, Rv. 537846 – 01 nonchè Sez. 3, Sentenza n. 20104 del 18/09/2006, Rv. 592280 – 01 e Sez. 5, Sentenza n. 15399 del 11/06/2008, Rv. 604055 – 01);

2.2. in altre occasioni la giurisprudenza si è pronunziato nel senso prospettato da parte ricorrente (vedi Cass. 19468/2007 nonchè Cass. 7898/2013);

2.3. ad avviso di questo Collegio occorre tenere conto di quanto successivamente affermato da S.U. n. 22086/2017 in ordine al fatto che la notificazione di un atto ad una società – data la diretta riferibilità ad essa, in virtù del principio di immedesimazione organica, degli atti compiuti da e nei confronti di coloro che la rappresentano e ne realizzano esecutivamente le finalità – è regolarmente effettuata alla persona specificamente preposta alla ricezione per conto dell’ente sociale, anche se reperita in luogo diverso dalla sede ufficiale dello stesso, per la medesima regola sancita per le persone fisiche dall’art. 138 c.p.c., secondo cui la consegna a mani proprie è valida ovunque sia stato trovato il destinatario nell’ambito territoriale della circoscrizione;

2.4. trovando applicazione alla fattispecie in esame, ratione temporis, il testo dell’art. 145, comma 2, c.p.c., anteriore alla modifica apportatavi dalla L. n. 263/05, pur non risultando tentata la notificazione nella sede legale indicata nell’art. 19 c.p.c., deve ritenersi, alla luce del condivisibile principio sopra richiamato, che la notificazione delle cartelle de quibus poteva ritualmente avvenire mediante consegna nelle mani dello stesso legale rappresentante, ovunque reperito (vedi, anche, Cass. nn. 1856/84, 8402/00 e 20104/06);

2.5. nella specie la notificazione delle cartelle in questione è stata effettuata al legale rappresentante della società presso l’abitazione dello stesso sicchè è da ritenere ritualmente avvenuta, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito;

3. conseguentemente la sentenza impugnata va annullata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti, decidendo nel merito va rigettato il ricorso introduttivo proposto in primo grado dalla società contribuente, ferma restando la declaratoria di difetto di giurisdizione relativamente alle cartelle riguardanti crediti non tributari;

3.1. la natura delle questioni trattate, non sempre oggetto di univoca interpretazione giurisprudenziale e la interpretazione chiarificatrice delle S.U. intervenuta nelle more del giudizio, giustificano l’integrale compensazione di tutte le spese dei vari gradi di giudizio.

P.Q.M.
La Corte ferma la declaratoria di difetto di giurisdizione relativamente alle cartelle relative a crediti non tributari, accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso proposto in primo grado dalla (Omissis) Srl ; dichiara compensate le spese dell’intero giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 3 maggio 2023.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2023


Tfr è la svolta: sentenza storica della Corte Costituzionale.

Incompatibili con la Costituzione le norme che prevedono di corrispondere in ritardo il trattamento di fine servizio. Per la Corte Costituzionale spetta dunque al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico finanziaria.

A stabilirlo è la Corte Costituzionale con la sentenza n. 130 del 23 giugno 2023.

Incompatibili con la Costituzione le norme che prevedono di corrispondere in ritardo il trattamento di fine servizio. Il differimento della corresponsione dei Tfs ai dipendenti pubblici cessati dall’impiego per raggiunti limiti di età o di servizio contrasta infatti con il principio costituzionale della giusta retribuzione, di cui tali prestazioni costituiscono una componente; principio che si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione.

Si tratta di un emolumento volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione della esistenza umana.

La Corte costituzionale dice stop quindi alle attese di anni per ottenere la liquidazione, ma l’imperativo vale solo per i dipendenti Pa che vanno in pensione di vecchiaia, a esclusione quindi delle altre formule di pensione anticipata e di anzianità. Il governo guidato da Giorgia Meloni dovrà pertanto mettere mano alla legislazione sul Trattamento di fine rapporto (Tfr) o Trattamento di fine servizio (Tfs), assicurando nuove regole che possano tener conto delle modifiche richieste dalla Corte costituzionale, senza pesare tuttavia sui conti pubblici.

Adesso tocca al legislatore sanare la materia

Per la Corte Costituzionale spetta dunque al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

La sentenza ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997, come convertito, e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, che prevedono rispettivamente il differimento e la rateizzazione delle prestazioni.

Tuttavia, la discrezionalità del legislatore al riguardo – ha chiarito la Corte – non è temporalmente illimitata. E non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa, tenuto anche conto che con la sentenza n.159 del 2019, era già stato rivolto un monito con il quale si segnalava la problematicità della normativa in esame. La Corte ha poi rilevato che la disciplina del pagamento rateale delle indennità di fine servizio prevede temperamenti a favore dei beneficiari dei trattamenti meno elevati. Comunque, concludono i giudici delle leggi, tale normativa era connessa a esigenze contingenti di consolidamento dei conti pubblici.


Corte cost., Sent., (data ud. 09/05/2023) 23/06/2023, n. 130

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, nel procedimento vertente tra A. R., il Ministero dell’interno e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visti gli atti di costituzione di A. R. e dell’INPS, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, di E. M. e della Federazione C.U.;

udito nell’udienza pubblica del 9 maggio 2023 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;

uditi gli avvocati Massimo Zhara Buda per A. R., Piera Messina e Gino Madonia per l’INPS, Antonio Mirra per E. M. e per la Federazione C.U., e l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 19 giugno 2023.

1.- Con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2022, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, ha sollevato, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122.

1.1.- Il rimettente riferisce di essere investito della decisione sul ricorso con il quale A. R., dirigente della Polizia di Stato cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, ha chiesto il pagamento del trattamento di fine servizio senza il differimento e la rateizzazione previsti dalle disposizioni censurate.

In punto di rilevanza, il giudice a quo assume che l’applicazione delle norme in scrutinio, la cui chiarezza testuale preclude una interpretazione adeguatrice, condurrebbe al rigetto del ricorso, con conseguente dilazione del termine del pagamento delle somme spettanti al ricorrente per effetto della cessazione dal rapporto di servizio.

1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente deduce che il dubbio di legittimità costituzionale “è alimentato dall’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale, con particolare riguardo alla sentenza n. 159 del 25 giugno 2019”, la quale, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle stesse norme qui censurate, sia pure nella parte in cui si riferiscono ai lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, ha affermato che la disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di impiego “ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata”.

Il TAR Lazio ricorda, altresì, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, le indennità di fine servizio costituiscono parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita al momento della cessazione dall’impiego, al fine di agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione.

Il rimettente argomenta che “una retribuzione corrisposta con ampio ritardo ha per il lavoratore una utilità inferiore a quella corrisposta tempestivamente”.

Il carattere di retribuzione differita riconosciuto alle indennità di fine rapporto comporterebbe che anche queste ultime debbano essere corrisposte tempestivamente e che non possano essere scaglionate nel tempo “strutturalmente oltre la fuoriuscita dal mondo del lavoro”. Ciò, specie ove si consideri che, di norma, con il trattamento economico in questione il lavoratore, sia pubblico che privato, specie se in età avanzata, si propone di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita, ovvero di far fronte ad impegni finanziari già assunti.

Il giudice a quo ricorda, quindi, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, una normativa come quella in esame può superare lo scrutinio di legittimità costituzionale solo se opera in un tempo definito e se è giustificata da una crisi contingente.

In ultimo, illustrati gli interventi normativi che hanno modificato le disposizioni censurate in senso progressivamente peggiorativo per il lavoratore pubblico, il rimettente conclude che la previsione di un pagamento rateizzato comprime in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., “non essendo sorretta dal carattere contingente, ma al contrario avendo carattere strutturale”.

2.- Nel giudizio si è costituito A. R., ricorrente nel giudizio principale, argomentando a sostegno della fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

La parte richiama, a sua volta, la sentenza n. 159 del 2019 di questa Corte per evidenziare come la stessa abbia lasciato impregiudicate le questioni di legittimità costituzionale della normativa all’odierno esame, nella parte in si riferisce ai dipendenti cessati dall’impiego per raggiungimento dei limiti di età e di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.

Il pagamento ritardato dei trattamenti di fine servizio – i quali costituiscono retribuzione differita – si porrebbe, pertanto, in contrasto con il principio di proporzionalità della retribuzione, espresso dall’art. 36 Cost., e, al contempo, attesa la sua natura previdenziale, con il principio di adeguatezza dei mezzi per la vecchiaia dettato dall’art. 38 Cost.

La parte privata deduce che soltanto nei primi anni di vigenza delle misure oggetto di censura il legislatore ha conseguito l’obiettivo di contenimento della dinamica della spesa corrente e di riequilibrio della finanza pubblica, mentre, una volta che le stesse misure sono entrate a regime, l’effetto positivo è cessato, “perché l’indebitamento è stato semplicemente reso strutturale, senza alcun vantaggio economico nella gestione corrente”.

3.- Nel giudizio si è costituito anche l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), parte resistente nel processo a quo, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni sollevate.

3.1.- L’INPS rileva, anzitutto, l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il giudice rimettente, secondo il quale la prestazione che viene nella specie in rilievo costituirebbe un trattamento di fine rapporto, inteso come “mera retribuzione differita”, anziché un trattamento di fine servizio.

La prestazione in scrutinio – si osserva – coincide, per contro, con l’indennità di buonuscita istituita dal D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), la cui speciale disciplina ne impedisce l’assimilazione al trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 del codice civile. Ciò in quanto, a differenza di quest’ultimo, la prestazione in esame è erogata da un ente previdenziale terzo e, dunque, da un soggetto distinto sia dal datore di lavoro, sia dal dipendente.

L’Istituto evidenzia, ancora, che il trattamento in esame è più vantaggioso di quello privatistico, perché viene parametrato all’ultima retribuzione spettante al dipendente prima del suo collocamento a riposo, che, di norma, è la più elevata.

Tale maggiore vantaggiosità si rivelerebbe anche sotto il profilo fiscale, posto che l’art. 24 del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella L. 28 marzo 2019, n. 26, ha introdotto una parziale detassazione del solo trattamento di fine servizio, “sotto forma di riduzione dell’aliquota determinata ai sensi dell’articolo 19 comma 2-bis del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), da applicarsi all’imponibile dei trattamenti di fine servizio (TFS) con importo fino a 50.00,00 euro”.

Un ulteriore elemento di differenziazione andrebbe individuato nell’essere l’indennità di buonuscita alimentata da un contributo previdenziale obbligatorio, pari al 9,60 per cento della base contributiva, gravante sull’ente datore di lavoro, il quale si rivale sul dipendente in misura del 2,50 per cento della medesima base contributiva.

Argomenta, ancora, l’Istituto che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, per l’indennità di buonuscita non è contemplato il diritto all’anticipazione della prestazione, né è stata mai prevista la possibilità di ottenerne una parte in busta paga, come invece disposto dalla legge di stabilità per l’anno 2015 per i lavoratori privati.

A dimostrazione che il trattamento di fine servizio non potrebbe essere assimilato al trattamento di fine rapporto e che, quindi, non avrebbe natura di retribuzione differita, l’INPS evoca la giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabile alla fattispecie in scrutinio il principio di automaticità delle prestazioni previdenziali.

Dalla mancata considerazione, da parte del rimettente, delle illustrate peculiarità dell’indennità di buonuscita deriverebbe l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per incompletezza della ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

3.2.- Le questioni sarebbero, comunque, non fondate, in quanto la disciplina censurata sarebbe conforme al principio di solidarietà, specie ove si abbia riguardo alla grave crisi in cui verserebbe il sistema previdenziale.

Nel caso di specie dovrebbero, pertanto, trovare applicazione i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 173 del 2016 in tema di contributo di solidarietà sulle pensioni di importo più elevato, alla stregua dei quali la dilazione del pagamento introdotta dalle disposizioni censurate non contrasterebbe con i principi di ragionevolezza, di affidamento e di tutela previdenziale espressi dagli artt. 3 e 38 Cost.

D’altro canto, prosegue l’INPS, come confermato dalla citata sentenza n. 159 del 2019, questa Corte nello scrutinare le odierne questioni, non può non tenere conto delle esigenze della finanza pubblica e di razionale programmazione nell’impiego di risorse limitate.

L’INPS sottolinea, poi, che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni in tema di dilazione e di rateizzazione comporterebbe per l’Istituto un onere assai elevato, posto che, nel caso in cui entrambi i meccanismi dilatori previsti dalle norme censurate venissero eliminati, l’onere complessivo della spesa aggiuntiva sarebbe di 13,9 miliardi di euro per l’anno 2023.

In ultimo, l’Istituto si fa carico del monito espresso da questa Corte nella citata sentenza n. 159 del 2019, con la quale si è rilevato che, nei casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione, retributiva e previdenziale, delle indennità di cui si tratta rischia di essere compromessa, in contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona. Evidenzia, tuttavia, l’Istituto che successivamente a tale pronuncia, sono stati adottati il D.P.C.M. 22 aprile 2020, n. 51 (Regolamento in materia di anticipo del TFS/TFR, in attuazione dell’articolo 23, comma 7, del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 marzo 2019, n. 26), contenente le modalità di attuazione delle disposizioni di cui all’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, nonché il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 19 agosto 2020, relativo all’approvazione dell’accordo quadro per il finanziamento verso l’anticipo della liquidazione dell’indennità di fine servizio comunque determinata, secondo quanto previsto dall’art. 23, comma 2, del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, accordo siglato tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’Associazione bancaria italiana.

Espone, ancora, l’INPS che gli atti citati consentono ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – che cessano o sono cessati dal servizio con diritto a pensione per raggiungimento dei requisiti previsti dall’art. 24 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, o con diritto a pensione al raggiungimento della cosiddetta “quota 100” come previsto dall’art. 14 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito – di presentare a banche ed intermediari finanziari richiesta di finanziamento per una somma pari all’importo dell’indennità di fine servizio maturata, nella misura massima di 45.000 euro ovvero all’importo spettante qualora la predetta indennità sia di importo inferiore.

In aggiunta, si sottolinea che, con deliberazione del consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219, è stata istituita una nuova prestazione a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, avente ad oggetto l’anticipazione ordinaria delle somme spettanti ai dipendenti pubblici a titolo di trattamento di fine servizio o di trattamento di fine rapporto.

L’Istituto precisa che si tratta di un finanziamento di importo pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse fisso pari all’1 per cento, e con spese di amministrazione a carico del finanziato in misura pari allo 0,50 per cento dell’importo, da erogarsi in un’unica soluzione, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto.

4.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi non fondate le odierne questioni di legittimità costituzionale.

Richiamati i passaggi salienti della ricordata sentenza n. 159 del 2019, l’interveniente sostiene che il differimento della corresponsione delle indennità di buonuscita e di altri analoghi trattamenti non pregiudica la garanzia sancita dall’art. 36 Cost., in quanto la disciplina censurata non ha negato o decurtato le indennità spettanti ai dipendenti pubblici, ma ne ha soltanto differito il versamento mediante un meccanismo che privilegia le ipotesi di cessazione per inabilità, derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente, nelle quali ha fissato un termine di tre mesi in luogo di quello di ventiquattro mesi previsto per i titolari di pensione di anzianità anticipata.

Sottolinea la difesa statale che i meccanismi oggetto di censura sono ispirati a esigenze di solidarietà sociale e sono intesi a fronteggiare la grave e perdurante situazione di crisi della finanza pubblica.

Il sacrificio imposto ai dipendenti pubblici sarebbe, pertanto, improntato alla solidarietà previdenziale, in quanto concorrerebbe a finanziare gli oneri del sistema della previdenza, peraltro in un contesto di crisi dello stesso, e rispetterebbe il principio di proporzionalità, incidendo in special modo sui trattamenti più elevati.

In aggiunta, la difesa statale ricorda il monito contenuto nella citata sentenza n. 159 del 2019, per evidenziare che allo stesso il legislatore ha dato seguito mediante l’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, avente ad oggetto la disciplina dell’anticipo agevolato di una quota del trattamento di fine servizio o di fine rapporto, comunque denominato, per i dipendenti pubblici che abbiano avuto accesso al trattamento pensionistico nel regime ordinario, nonché di quello sperimentale previsto al raggiungimento della cosiddetta “quota 100” e “quota 102”.

In ultimo, l’interveniente rimarca che la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate comporterebbe per l’INPS un onere oltremodo gravoso, posto che lo stesso Istituto dovrebbe farsi carico sia del pagamento immediato di tutti i trattamenti di fine servizio relativi a cessazioni per pensionamento di vecchiaia intervenute nell’ultimo anno, sia dell’integrazione degli importi relativi alle cessazioni avvenute negli anni precedenti, le cui rate non sono state ancora corrisposte in conformità ai termini previsti dalle disposizioni censurate.

5.- È, altresì, intervenuto ad adiuvandum E. M., svolgendo difese di segno adesivo alle deduzioni del rimettente.

L’interveniente, dipendente del Ministero dell’economia e delle finanze collocato in quiescenza per vecchiaia, espone di avere introdotto un giudizio davanti al Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, in cui ha chiesto accertarsi il proprio diritto alla corresponsione del trattamento di fine servizio senza dilazioni, deducendo l’illegittimità costituzionale delle norme che ne autorizzano il differimento e la rateizzazione, e che il giudice adito ha disposto il rinvio della causa in attesa dell’esito dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, in quanto vertente sulle medesime questioni.

E. M. assume di essere legittimato all’intervento sia in ragione dell’analogia della sua posizione giuridica rispetto a quella di A. R., ricorrente nel giudizio principale, sia in forza dell’identità tra le censure di illegittimità costituzionale svolte a sostegno dell’azione esperita e quelle qui in scrutinio.

6.- Ha, inoltre, spiegato intervento adesivo la Federazione C.U. per chiedere l’accoglimento delle questioni sollevate.

La federazione deduce di essere legittimata all’intervento in quanto titolare di un interesse, “se pur collettivo e superindividuale”, diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio principale.

7.- In ultimo, l’A.N.F. ha depositato un’opinione scritta quale amicus curiae di segno adesivo alle censure del giudice a quo.

A fondamento della propria legittimazione ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’associazione deduce di essere il sindacato maggiormente rappresentativo dei dirigenti della Polizia di Stato e di avere tra i suoi fini statutari prioritari la protezione degli interessi della collettività organizzata dei funzionari di polizia, sotto i profili giuridico, economico e pensionistico.

L’opinione è stata ammessa con decreto presidenziale del 24 marzo 2023.

8.- Nell’imminenza dell’udienza pubblica, hanno depositato memorie sia la parte privata, sia l’INPS, sia l’Avvocatura generale dello Stato, insistendo nelle rispettive conclusioni.

Motivi della decisione
1.- Il TAR Lazio, sezione terza quater, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, in riferimento all’art. 36 Cost.

1.1.- Il rimettente, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che riconduce i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti ai dipendenti pubblici nel paradigma della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, ritiene che le disposizioni censurate, nel prevedere rispettivamente il differimento e la rateizzazione del versamento di tali prestazioni, si pongano in contrasto con la garanzia costituzionale della giusta retribuzione.

La corresponsione differita e rateale dell’indennità di fine servizio arrecherebbe al beneficiario un’utilità inferiore rispetto a quella derivante da una liquidazione tempestiva, posto che “proprio attraverso l’integrale e immediata percezione” di tali spettanze il lavoratore si propone “di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita, ovvero di fronteggiare o adempiere in modo definitivo ad impegni finanziari già assunti”.

In linea con le enunciazioni espresse da questa Corte nella sentenza n. 159 del 2019, il giudice a quo sostiene che le disposizioni in scrutinio ledano in modo irragionevole e sproporzionato i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., in quanto, pur essendo state introdotte per far fronte ad una situazione di crisi contingente, hanno ormai assunto carattere strutturale.

2.- In via preliminare, va ribadito quanto affermato nell’ordinanza di cui è stata data lettura in udienza, allegata al presente provvedimento, sull’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum.

2.1.- L’intervento di E. M. è inammissibile in quanto rinviene la sua ragione fondante nella semplice analogia della posizione sostanziale dell’interveniente rispetto a quella della parte ricorrente nel giudizio principale (sentenza n. 106 del 2019; ordinanza n. 191 del 2021).

2.2.- Neanche la Federazione C.U., quale organismo rappresentativo di soggetti titolari di rapporti giuridici regolati dalle disposizioni censurate, può ritenersi portatrice di un interesse specifico direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale. Al contrario, essa persegue un “mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti” (sentenze n. 159 del 2019 e n. 77 del 2018).

3.- L’esame delle questioni sollevate richiede la ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni censurate.

3.1.- La disciplina delle modalità di pagamento dell’indennità di buonuscita era originariamente contenuta nell’art. 26, terzo comma, del D.P.R. n. 1032 del 1973, a mente del quale, in caso di cessazione dal servizio per limiti di età, l’amministrazione doveva predisporre gli atti tre mesi prima del raggiungimento del limite predetto e inviarli almeno un mese prima al Fondo di previdenza per il personale civile e militare dello Stato, il quale era tenuto ad emettere il mandato di pagamento in modo da rendere possibile l’effettiva corresponsione del trattamento “immediatamente dopo la data di cessazione dal servizio e comunque non oltre quindici giorni dalla data medesima”.

Il termine per la effettiva corresponsione della prestazione in esame è stato successivamente elevato a novanta giorni dall’art. 7, terzo comma, della L. 20 marzo 1980, n. 75, recante “Proroga del termine previsto dall’articolo 1 della L. 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensilità e di riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e di attuazione dell’articolo 6 della L. 29 aprile 1976, n. 177, sul trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei termini per la opzione”.

In seguito, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, qui in scrutinio, ha rimodulato i tempi di erogazione dei “trattamenti di fine servizio, comunque denominati”, spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni (oggi definite dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001) o ai loro superstiti o aventi causa che ne hanno titolo, disponendo che alla liquidazione “l’ente erogatore provvede decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

La citata disposizione prevede, altresì, che alla erogazione si dia corso “entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi”.

3.2.- Nella versione originaria, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, stabiliva il termine di sei mesi per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, e quello dei successivi tre mesi per la relativa corresponsione.

Tale previsione è stata modificata dapprima dall’art. 1, comma 22, lettera a), del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella L. 14 settembre 2011, n. 148, e in seguito dall’art. 1, comma 484, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”.

La prima delle richiamate disposizioni ha innalzato da sei a ventiquattro mesi il termine per il versamento del trattamento di fine servizio, decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro, senza modificare il termine semestrale per la corresponsione dell’emolumento nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio.

Tale ultimo termine è stato elevato a dodici mesi dall’art. 1, comma 484, lettera b), della L. n. 147 del 2013.

3.3.- Al differimento, appena illustrato, delle liquidazioni di cui si tratta si affianca la disciplina introdotta dall’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, che ha previsto un regime di rateizzazione delle spettanze di fine servizio al dichiarato fine di concorrere “al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita”.

Il testo originario della disposizione citata prevedeva che la corresponsione del trattamento avvenisse in un unico importo annuale per le indennità di fine servizio di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, pari o inferiore a 90.000 euro; in due importi annuali per le indennità di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, superiore a 90.000 euro, ma inferiore a 150.000 euro; in tre importi annuali per le indennità di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, uguale o superiore a 150.000 euro.

3.4.- A seguito delle modifiche apportate all’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, dall’art. 1, comma 484, lettera a), della L. n. 147 del 2013, la scansione dei pagamenti è stata rimodulata.

L’indennità di buonuscita, l’indennità premio di servizio, il trattamento di fine rapporto e “ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego” sono oggi riconosciuti “in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro” (art. 12, comma 7, lettera a); “in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro e il secondo importo annuale è pari all’ammontare residuo” (art. 12, comma 7, lettera b); “in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro, in tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro, il secondo importo annuale è pari a 50.000 euro e il terzo importo annuale è pari all’ammontare residuo” (art. 12, comma 7, lettera c).

4.- In via preliminare si rileva che, come emerge dall’esame della ordinanza di rimessione, essendo il ricorrente nel giudizio a quo cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, trova applicazione nella parte in cui differisce la liquidazione del trattamento di fine servizio di dodici mesi dalla cessazione del rapporto.

Lo scrutinio di legittimità costituzionale relativamente alla predetta disposizione deve intendersi, pertanto, circoscritto alla parte di essa che si riferisce ai dipendenti cessati dal lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio.

5.- Sempre in via preliminare, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità per incompleta ricostruzione del quadro normativo formulata dall’INPS.

5.1.- Il giudice a quo, ripercorrendo la genesi delle disposizioni censurate e richiamando l’interpretazione che ne ha dato questa Corte nella sentenza n. 159 del 2019, ha esaustivamente ricomposto la cornice normativa e giurisprudenziale in cui si innesta la disciplina in scrutinio.

6.- Le questioni sono inammissibili per le ragioni di seguito illustrate.

6.1.- L’evoluzione normativa, “stimolata dalla giurisprudenza costituzionale” (sentenza n. 243 del 1993, punto 4 del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine servizio erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 del codice civile (sentenze n. 258 del 2022, n. 159 del 2019 e n. 106 del 1996).

Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva (sentenza n. 159 del 2019).

Le indennità di fine servizio costituiscono una componente del compenso conquistato “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996) e, quindi, una parte integrante del patrimonio del beneficiario, il quale spetta ai superstiti in caso di decesso del lavoratore (sentenza n. 243 del 1993).

6.2.- La natura retributiva attira le prestazioni in esame nell’ambito applicativo dell’art. 36 Cost., essendo l’emolumento di cui si tratta volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una “particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana” (sentenza n. 159 del 2019).

La garanzia della giusta retribuzione, proprio perché attiene a principi fondamentali, “si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione” (sentenza n. 159 del 2019).

Il trattamento viene, infatti, corrisposto nel momento della cessazione dall’impiego al preciso fine di agevolare il dipendente nel far fronte alle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione.

In ciò si realizza la funzione previdenziale, che, pure, vale a connotare le indennità in scrutinio, e che concorre con quella retributiva.

6.3.- Questa Corte deve farsi carico della considerazione che il trattamento di fine servizio costituisce un rilevante aggregato della spesa di parte corrente e, per tale ragione, incide significativamente sull’equilibrio del bilancio statale (sentenza n. 159 del 2019).

Non è da escludersi, pertanto, in assoluto che, in situazioni di grave difficoltà finanziaria, il legislatore possa eccezionalmente comprimere il diritto del lavoratore alla tempestiva corresponsione del trattamento di fine servizio. Tuttavia, un siffatto intervento è, anzitutto, vincolato al rispetto del criterio della ragionevolezza della misura prescelta e della sua proporzionalità rispetto allo scopo perseguito.

Un ulteriore limite riguarda la durata di simili misure.

La legittimità costituzionale delle norme dalle quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore è, infatti, condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere “eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso” (ordinanza n. 299 del 1999).

6.4.- Ebbene, il termine dilatorio di dodici mesi quale risultante dall’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, e successive modificazioni, oggi non rispetta più né il requisito della temporaneità, né i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità.

A differenza del pagamento differito dell’indennità di fine servizio in caso di cessazione anticipata dall’impiego – in cui il sacrificio inflitto dal meccanismo dilatorio trova giustificazione nella finalità di disincentivare i pensionamenti anticipati e di promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa (sentenza n. 159 del 2019) – il, sia pur più breve, differimento operante in caso di cessazione dal rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio non realizza un equilibrato componimento dei contrapposti interessi alla tempestività della liquidazione del trattamento, da un lato, e al pareggio di bilancio, dall’altro.

Ciò in quanto la previsione ora richiamata ha “smarrito un orizzonte temporale definito” (sentenza n. 159 del 2019), trasformandosi da intervento urgente di riequilibrio finanziario in misura a carattere strutturale, che ha gradualmente perso la sua originaria ragionevolezza.

6.5.- A ciò deve aggiungersi che la perdurante dilatazione dei tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio rischia di vanificare anche la funzione previdenziale propria di tali prestazioni, in quanto contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal dipendente al termine dell’attività lavorativa.

Non è, infatti, infrequente che l’emolumento in esame venga utilizzato per sopperire ad esigenze non ordinarie del beneficiario o dei suoi familiari, e la possibilità che tali necessità insorgano nelle more della liquidazione del trattamento espone l’avente diritto ad un pregiudizio che la immediata disponibilità dell’importo eviterebbe.

6.6.- Occorre, ancora, considerare che l’odierno scrutinio di legittimità costituzionale si innesta in un quadro macroeconomico in cui il sensibile incremento della pressione inflazionistica acuisce l’esigenza di salvaguardare il valore reale della retribuzione, anche differita, posto che il rapporto di proporzionalità, garantito dall’art. 36 Cost., tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, richiede di essere riferito “ai valori reali di entrambi i suoi termini” (sentenza n. 243 del 1993).

Di conseguenza, la dilazione oggetto di censura, non essendo controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria, finisce per incidere sulla stessa consistenza economica delle prestazioni di cui si tratta, atteso che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, allo scadere del termine annuale in questione e di un ulteriore termine di tre mesi sono dovuti i soli interessi di mora.

6.7.- Questa Corte, con la richiamata sentenza n. 159 del 2019, ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, l’ente erogatore provveda “decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”, nelle ipotesi diverse dalla cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, rilevando che, per costante giurisprudenza costituzionale, ben può il legislatore “disincentivare il conseguimento di una prestazione anticipata” (fra le molte, sentenza n. 416 del 1999, punto 4.1. del Considerato in diritto) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita” (sentenza n. 159 del 2019).

In tale occasione, è stata nondimeno segnalata, quanto alla medesima normativa, per l’effetto combinato del pagamento differito e rateale delle indennità di fine rapporto nelle ipotesi di raggiungimento dei limiti di età e di servizio o di collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio, “l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare […]. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine servizio, conquistate “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana” (sentenza n.159 del 2019).

6.8.- A tale monito non ha, tuttavia, fatto seguito una riforma specificamente volta a porre rimedio al vulnus costituzionale riscontrato.

Non può, infatti, ritenersi tale la disciplina dell’anticipazione della prestazione dettata dall’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, ai sensi del quale è possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di 45.000 euro, dell’indennità di fine servizio maturata, garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente ad oggetto l’emolumento, dietro versamento di un tasso di interesse fissato dall’art. 4, comma 2, del D.M. 19 agosto 2020 in misura pari al rendimento medio dei titoli pubblici (Rendistato) maggiorato dello 0,40 per cento.

Analoghe considerazioni, peraltro, possono essere svolte in merito all’anticipazione istituita con la deliberazione del Consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219. Essa è prevista a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali e consente di usufruire di un finanziamento pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse pari all’1 per cento fisso, unitamente alle spese di amministrazione in misura pari allo 0,50 per cento dell’importo, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto.

Le normative richiamate investono solo indirettamente la disciplina dei tempi di corresponsione delle spettanze di fine servizio.

Esse non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si limitano a riconoscere all’avente diritto la facoltà di evitare la percezione differita dell’indennità accedendo però al finanziamento oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo.

Il legislatore non ha, infatti, espunto dal sistema il meccanismo dilatorio all’origine della riscontrata violazione, né si è fatto carico della spesa necessaria a ripristinare l’ordine costituzionale violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro, è parte del compenso dovuto per il servizio prestato (sentenza n. 106 del 1996).

7.- Al vulnus costituzionale riscontrato con riferimento all’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, questa Corte non può, allo stato, porre rimedio, posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore. Deve, infatti, considerarsi il rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento in oggetto, in ogni caso, comporta; ciò che richiede che sia rimessa al legislatore la definizione della gradualità con cui il pur indefettibile intervento deve essere attuato, ad esempio, optando per una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri.

7.1.- La discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare i mezzi e le modalità di attuazione di una riforma siffatta deve, tuttavia, ritenersi, temporalmente limitata.

La lesione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento della corresponsione delle prestazioni in esame esige, infatti, un intervento riformatore prioritario, che contemperi l’indifferibilità della reductio ad legitimitatem con la necessità di inscrivere la spesa da essa comportata in un organico disegno finanziario che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

7.2.- In proposito, questa Corte deve evidenziare, come in altre analoghe occasioni, “che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia” (da ultimo, sentenza n. 22 del 2022; si vedano anche sentenze n. 120 e n. 32 del 2021).

8.- Accertata la necessità della espunzione della disciplina concernente tale differimento, va rilevato, quanto alla previsione del pagamento rateale del trattamento di fine servizio di cui all’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito – l’altra disposizione censurata – che il sistema cui essa ha dato luogo, essendo strutturato secondo una progressione graduale delle dilazioni, via via più ampie in proporzione all’incremento dell’ammontare della prestazione, da un lato, calibra il sacrificio economico derivante dalla percezione frazionata dell’indennità in modo tale da renderne esenti i beneficiari dei trattamenti più modesti; dall’altro, assicura ai titolari delle indennità ricadenti negli scaglioni via via più elevati la percezione immediata – rectius: che diverrà immediata solo all’esito della eliminazione del differimento previsto dall’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito – almeno di una parte della prestazione loro spettante.

8.1.- Tuttavia, questa Corte non può esimersi dal considerare che tale disciplina – peraltro connessa, per espressa previsione della stessa norma censurata, alle esigenze, necessariamente contingenti, di consolidamento dei conti pubblici – in quanto combinata con il descritto differimento, finisce per aggravare il vulnus sopra evidenziato.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2023.

Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2023.


Per multe e cartelle notifica digitale a metà fino al 30 novembre

Emendamento del Governo al decreto Pa-omnibus. Fino al 30 novembre le notifiche digitali a metà per gli atti della Pubblica amministrazione. In pratica, le notifiche digitali saranno accompagnate dalla loro copia analogica, per rispondere ad una doppia esigenza: quella di non escludere i cittadini ancora poco pratici con gli strumenti digitali, e quella di consentire alla Pa di completare la propria organizzazione in vista del passaggio informatico. La misura nasce per contrastare i rischi di non centrare un obiettivo Pnrr, indicato alla missione 1, componente 1-128, che prevede l’avvio delle notifiche digitali in almeno 800 amministrazioni centrali e Comuni entro la fine di quest’anno.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 13/04/2023) 15/06/2023, n. 17251

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. LENOCI Valentino – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. CRIVELLI Alberto – Consigliere –
Dott. ANGARANO Rosanna – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19529/2018 R.G. proposto da:
A.A. Srl , elettivamente domiciliata in Roma, Viale XXI Aprile, 21, presso lo studio dell’Avvocato Marco Cianfarini, che la rappresenta e difende unitamente all’Avv. Francesca Cesaroni;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e AGENZIA ENTRATE RISCOSSIONE;
– intimata –
avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. LAZIO, n. 7802/17, depositata il 19/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 aprile 2023 dal consigliere
Dott. Rosanna Angarano.
Svolgimento del processo
che:
1. A.A. S rl ricorre, con cinque motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con controricorso, e nei confronti di Agenzia delle Entrate Riscossione, che non ha svolto attività difensiva, avverso la sentenza indicata in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello della contribuente avverso la sentenza che, a propria volta, aveva rigettato il ricorso spiegato avverso l’intimazione dipagamento, la cartella esattoriale e il preavviso di fermo amministrativo emessi in ragione di tre avvisi di accertamento per maggiori imposte – iva, irpeg ed irap – accertate per gli anni (Omissis).
2. Con un primo ricorso la contribuente impugnava l’intimazione di pagamento (Omissis) e la sottesa cartella esattoriale (Omissis), relativa a tre avvisi di accertamento con i quali l’Ufficio aveva rilevato, ai fini Irpeg, Irap ed Iva che per gli anni (Omissis) erano stati dedotti costi per fatture emesse da una terza società, la Temo Costruzioni Srl , per operazioni ritenute inesistenti. Con un secondo ricorso la contribuente impugnava il preavviso di fermo n. (Omissis) notificato il 21 novembre 2014 in ragione di alcune cartelle tra le quali anche quella oggetto del precedente ricorso.
2. La C.t.p., riuniti i ricorsi, li rigettava con sentenza confermata in appello.
Motivi della decisione
che:
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 140 e 145 c.p.c. Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la notifica della cartella esattoriale. In particolare, assume che la C.t.r. ha errato nel non considerare che la notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c. – utilizzata nella fattispecie – poteva essere effettuata solo in caso di notifica infruttuosa al legale rappresentante e non alla società presso la sua sede, come verificatosi nel caso concreto.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 140 c.p.c. e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26.
Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la notifica della cartella esattoriale ai sensi dell’art. 140 c.p.c. senza esaminare le prospettazioni della contribuente in ordine alla querela di falso sporta avverso l’avviso di ricevimento.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per non aver rilevato che l’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2003 era stato annullato con sentenza passata in giudicato.
4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per non aver esaminato l’illegittimitàdella notifica degli avvisi di accertamento ((Omissis) per l’anno (Omissis) e (Omissis) per l’anno (Omissis)).
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per carenza della motivazione nella parte in cui ha ritenuto provata l’insussistenza delle operazioni commerciali oggetto del recupero a tassazione senza esaminare le censure sollevate.
6. Il primo motivo è fondato, restando assorbito il secondo.
6.1. L’art. 145 c.p.c., comma 1, come modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. c) prevede che la notifica alle persone giuridiche si esegue nella loro sede mediante consegna ai soggetti ivi espressamente indicati, ossia al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile ove ha sede la società. In alternativa, se nell’atto risultano le indicazioni necessarie, la notifica può essere eseguita anche alla persona fisica che rappresenta l’ente, secondo le modalità di cui agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.
Il comma 3 precisa che se la notificazione non può essere eseguita ai sensi del comma 1 la notificazione alla persona fisica che rappresenta l’ente può eseguirsi ai sensi degli artt. 140 e 143 c.p.c. 6.2. Ciò posto, risulta in fatto che la notifica della cartella esattoriale è stata tentata in data 27 agosto 2009 presso la sede della società, in (Omissis). Il messo notificatore attestava, tuttavia, il rifiuto delle persone ivi rinvenute e non identificate. Precisava, infatti, che queste ultime non avevano voluto declinare le proprie generalità nè ricevere l’atto; quindi, annotava il rifiuto della cartella e dava atto di aver provveduto al deposito dell’atto presso la Casa Comunale, affiggendo il relativo avviso, e di aver dato comunicazione del deposito e dell’affissione con raccomandata con avviso di ricevimento. Dall’avviso di ricevimento, versato in atti, risulta, poi, che la raccomandata, veniva indirizzata anch’essa alla società presso la sua sede e veniva ricevuta dal portiere.
6.3. In primo luogo deve rilevarsi che la notifica presso la sede sociale non è andata a buon fine in quanto il messo notificatore, oltre ad annotare il rifiuto, ha precisato che non era stato possibile identificare le persone ivi presenti.
La Corte, sul punto ha precisato che, a norma dell’art. 138 c.p.c., comma 2, il rifiuto di ricevere la copia dell’atto è legalmente equiparabile alla notificazione effettuata in mani proprie soltanto ove sia certa l’identificazione dell’autore del rifiuto con il destinatario dell’atto (Cass. 19/04/2018, n. 9779 , Cass. 03/11/2014, n. 23388). Si è aggiunto che non è consentita un’analoga equiparazione nel caso in cui il rifiuto sia stato opposto da un soggetto del tutto estraneo, oppure ove l’accipiens sia un suo congiunto o addetto alla casa e, a maggior ragione, un vicino o il portiere (Cass. 22/05/2013, n. 12545). Inoltre, qualora la notifica della cartella di pagamento avvenga presso la sede legale della società, e non nel luogo di residenza del legale rappresentante della stessa, l’atto deve essere consegnato solo ai soggetti indicati dall’art. 145 c.p.c., comma 1, ossia al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa, (Cass. 06/04/2018, n.
8472).
La mancata identificazione del rappresentante legale della società – ed invero, in ragione di quanto espressamente attestato nella relata, di tutti soggetti presenti nella sede della società che hanno rifiutato l’atto – impedisce, pertanto, di equiparare il rifiuto all’avvenuta notifica ex art. 138 c.p.c., comma 2.
6.4. Non essendo stato possibile procedere ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 1, prima parte, la notifica avrebbe dovuto seguire le modalità di cui all’art. 145 c.p.c., u.c. nella versione, applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche apportate dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. c) n. 1) e 3) ovvero esclusivamente nei confronti del rappresentante legale.
Sul punto la Corte ha chiarito che la norma novellata, applicabile alla fattispecie per cui è causa, prevede espressamente, con riguardo alla persona giuridica e all’ente non personificato, la notificazione ex art. 140 c.p.c., ma tale forma – operante solo nel caso in cui sia impedita la notificazione
presso la sede della società, o presso il legale rappresentante, ai sensi degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. – non può attuarsi nei confronti dell’ente in quanto tale. Il vano esperimento delle modalità previste dall’art. 145 c.p.c., comma 1 per la notificazione degli atti processuali alle persone giuridiche consente l’utilizzazione delle forme previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., purchè la notifica sia fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente e non già all’ente in forma impersonale (Cass. 30/01/2017, n. 2232 , Cass. 07/06/2012, n. 9237; Cass. 13/09/2011, n. 18762).
6.5. La C.t.r. non si è attenuta a questi principi.
Infatti, ha ritenuto valida la notifica affermando che è sufficiente che ” il consegnatario” si trovi presso la sede della persona giuridica non occasionalmente e che la persona rivenuta presso la sede è da presumere che sia addetta alla ricezione degli atti. Così motivando, ha equiparato la fattispecie in esame – caratterizzata dal rifiuto di ricevere l’atto da parte di soggetti non identificati, ancorchè presenti nella sede – a quella in cui l’atto sia stato consegnato a persona rinvenuta nella sede che abbia, pertanto, ricevuto il plico.
Inoltre, non ha tenuto conto che successivamente si è provveduto secondo le modalità di cui all’art. 140 c.p.c. – deposito della copia dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso e spedizione della c.d. raccomandata informativa – ma non nei confronti del rappresentante legale della società, bensì della società stessa, con spedizione della raccomandata informativa alla società presso la sua sede.
7. Il terzo motivo è infondato.
7.1. La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittima la cartella di pagamento anche per gli importi oggetto dell’avviso di accertamento (Omissis) per l’anno di imposta (Omissis), sebbene in entrambi i gradi di merito fosse stato eccepito che quest’ultimo era stato annullato con sentenza passata in giudicato.
7.2. Deve rilevarsi, tuttavia, che la sentenza di cui all’allegato 5, indicata dalla ricorrente con il motivo in esame, non è stata prodotta in copia attestane il passaggio in giudicato.
La Corte sul punto ha ripetutamente affermato che, affinchè il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria (Cass. 02/03/2022, n. 6868, Cass. 23/08/2018, n. 20974).
Inoltre, l’Agenzia delle Entrate, che pure in controricorso, ha confermato la definitività della sentenza, ha anche precisato, con allegazione che non risulta contestata, di aver provveduto allo sgravio totale del carico di cui alla stessa con provvedimento del 19 dicembre 2013.
8. Il quarto motivo è inammissibile.
8.1. La ricorrente, facendo valere error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, censura testualmente “nullità della sentenza in ordine all’omesso esame dell’illegittimità della notifica degli avvisi di accertamento ((Omissis) per l’anno (Omissis) e (Omissis) per l’anno (Omissis))”. Nel corpo del motivo si duole del fatto che sia la C.t.p. che la C.t.r., in odine all’invalidità della notifica degli avvisi di
accertamento, “nulla hanno motivato”.
Infine, dopo aver esposto le ragioni per le quali dette notifiche devono considerarsi invalide, nell’ultimo capoverso del motivo, ha concluso affermando che “entrambe le commissioni tributarie nulla hanno esaminato o deciso”.
8.2. La Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato che è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 c.p.c. che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4 mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
8.3. Anche a voler valutare la censura, in conformità all’epigrafe, come denuncia di omessa pronuncia su uno dei motivi di appello, se ne ravvisa ugualmente l’inammissibilità.
La C.t.r. nel secondo paragrafo, destinato alla individuazione dei motivi di appello, ha dato atto che il primo motivo aveva ad oggetto l’irregolarità della notifiche ex art. 140 c.p.c. a favore di una società mentre il secondo ed il terzo motivo avevano ad oggetto l’omessa motivazione in ordine alle notifiche degli avvisi di accertamento riguardanti gli anni (Omissis) e (Omissis). Nel quinto paragrafo, destinato i motivi della decisione, la sentenza affermato testualmente quanto segue: “procedendo per argomenti, che in realtà ripercorrono i motivi di appello, non può sfuggire che tutte le notifiche vanno considerate regolari”.
La C.t.r., pertanto, dopo aver puntualmente individuato i motivi di appello, si è pronunciata con riferimento a tutte le notifiche fatte oggetto di censura – ivi incluse le notifiche degli avvisi di accertamento – affermandone la validità. Resta escluso, pertanto, il denunciato vizio di omessa pronuncia.
9. Il quinto motivo è anch’esso inammissibile.
9.1. Con il motivo in esame la ricorrente censura la sentenza impugnata, assumendo vizio di motivazione, nella parte in cui la C.t.r. si è pronunciata sul merito della pretesa tributaria.
9.2. Per giurisprudenza costante della Corte, la cartella esattoriale avente titolo in un precedente avviso di accertamento notificato a suo tempo e non impugnato, può essere contestata innanzi agli organi del contenzioso tributario ed essere da essi invalidata solo per vizi propri, non già per vizi
suscettibili di rendere nullo o annullabile l’avviso di accertamento presupposto (Cass. 31/10/2017, n. 25995).
All’inammissibilità del precedente motivo di ricorso relativo alla notifica degli avvisi di accertamento consegue la definitività della pronuncia della C.t.r. che ne ha accertato la validità. Da ciò consegue l’inammissibilità del motivo volto a censurare nel merito la pretesa impositiva.
10. In conclusione, il ricorso va accolto limitatamente al primo motivo, assorbito il secondo, rigettato il terzo, inammissibili il quarto ed il quinto. Di conseguenza la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di giustizia di secondo grado del Lazio in diversa composizione, la quale provvederà al riesame, fornendo congrua motivazione, e al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, rigettato il terzo, inammissibili il quarto ed il quinto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 aprile 2023.
Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2023


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 04/04/2023) 08/06/2023, n. 16189

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. Spa ZIANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15215 del 2021, R.G. proposto da:

A.A.; rappresentata e difesa dall’Avvocato Riccardo Lana (riccardo.lana(AT)legalmail.it), in virtù di procura su foglio separato allegato al ricorso;

– ricorrente –

nei confronti di B.B.; rappresentato e difeso dall’Avvocato Sara Veri (avvsaraveri(at)bergamo.pecavvocati.it), in virtù di procura in calce al controricorso;

-controricorrente-

per la cassazione della sentenza in unico grado n. 1570-2020 del TRIBUNALE di BERGAMO, depositata il 10 novembre 2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 4 aprile 2023 dal Consigliere relatore, Paolo Spa ziani.

Svolgimento del processo
Con sentenza 10 novembre 2020, n. 1570, il Tribunale di Bergamo, nella dichiarata contumacia di A.A., ha accolto l’opposizione (espressamente qualificata come opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.), proposta nei suoi confronti dal coniuge separato, B.B., e ha dichiarato la nullità del precetto, fondato sul decreto di omologa della separazione personale, con cui la prima aveva intimato al secondo il pagamento dell’importo di Euro 11.569,10, quale somma asseritamente dovuta in ragione del protratto inadempimento dell’obbligo di mantenimento della figlia.

Ha proposto ricorso per cassazione A.A. sulla base di un unico motivo.

Ha risposto con controricorso B.B..

La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Il pubblico ministero non ha presentato conclusioni scritte.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1.1. Con l’unico motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per estensione di quella concernente la notificazione a mezzo PEC della citazione introduttiva del giudizio di opposizione.

La ricorrente ha sostenuto che, ai sensi del combinato disposto della L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, 9, commi 1 e 1-bis, 11, e 19-bis, comma 5, delle “specifiche tecniche” date con Provvedimento 16 aprile 2014 del Responsabile per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia, la notificazione effettuata a mezzo PEC deve essere provata mediante il deposito telematico dell’atto processuale notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “DatiAtto.xml”.

Nel caso di specie, tali prescrizioni non sarebbero state rispettate, in quanto l’opponente, effettuata la notificazione della citazione in opposizione a mezzo PEC, avrebbe indebitamente proceduto ad estrarre copia analogica del messaggio di posta elettronica certificata e degli atti allegati, e, dopo averli scansionati, avrebbe proceduto al loro deposito telematico.

L’inosservanza dei richiamati adempimenti avrebbe comportato la nullità della notificazione, rilevabile anche d’ufficio, in conformità al disposto della citata L. n. 53 del 1994, art. 11.

1.2. Nel resistere alla doglianza, il controricorrente ha dedotto che, a seguito della notifica della citazione a mezzo PEC, la “certificazione di notifica” era stata generata dal PCT, ove risultava inserito un unico file, costituito dall’atto notificato, dalla procura, dalla relata digitale e dall’attestazione della data di notifica effettuata il giorno 11 dicembre 2017, alle ore 13.39, all’indirizzo PEC del difensore domiciliatario di controparte, nonchè dalle ricevute PEC di accettazione e consegna, comprovanti l’avvenuta notificazione e il giorno e l’ora della stessa.

Il deposito telematico non sarebbe dunque avvenuto mediante estrazione di copia su supporto analogico e successiva scansione, bensì mediante deposito nel PCT di documenti originali informatici, sia pure in formato PDF. Il mancato inserimento dei dati identificativi delle ricevute di accettazione e consegna nel file “DatiAtto.xml” avrebbe determinato la mera irregolarità dell’atto, sanabile con il raggiungimento dello scopo (viene citata la pronuncia di questa Corte n. 8815 del 2020).

Inoltre, la circostanza che le suddette ricevute non fossero in formato “.eml” o “.msg” non avrebbe inciso sul perfezionamento del procedimento notificatorio, avvenuto nel momento di generazione delle suddette ricevute a prescindere dal formato informatico assunto al momento del successivo deposito in PCT (viene citata la sentenza n. 12488 del 2020 di questa Corte).

1.3. In sede di memoria illustrativa, la ricorrente – sulla premessa che il deposito delle ricevute in formato “.eml” o “.msg” sarebbe necessario per mantenere i certificati e l’autenticità dei messaggi, mentre, invece, il deposito dei files previamente salvati in formato PDF determinerebbe la perdita delle proprietà dei messaggi originali, come le firme e i metadati -, con riguardo alla dedotta sanatoria dell’irregolarità per raggiungimento dello scopo, ha replicato che, nel caso di specie, non era stata lamentata la mera irregolarità ma l’inesistenza della notificazione; inoltre, ha evidenziato che all’omissione del notificante non era seguita la costituzione in giudizio della destinataria dell’atto, che era rimasta contumace, per modo che non vi sarebbe stata comunque una sanatoria del vizio.

Con riguardo alla deduzione circa la non incidenza dell’irregolarità sul perfezionamento del procedimento notificatorio, la ricorrente ha ribadito che, nella vicenda in esame, mancherebbero proprio i files sorgenti in formato “.eml” delle ricevute di accettazione e consegna, sicchè nessuna prova sarebbe stata data del buon fine della notifica.

2. Il ricorso è fondato.

2.1. Ai sensi della L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, e 9 (ed avuto riguardo anche all’art. 19-bis del Provvedimento del Responsabile S.I.A. del 16 aprile 2014), la prova della notifica a mezzo PEC deve essere offerta esclusivamente con modalità telematica, ovverosia mediante deposito in PCT dell’atto notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “DatiAtto.xml”.

Solo qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a mezzo PEC, l’avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte, ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1, (L. n. 53 del 1994, cit., art. 9, comma 1-bis).

Se, una volta effettuata la notifica dell’atto a mezzo di posta elettronica certificata, la parte non sia in grado di fornirne la prova ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1-bis, la violazione delle forme digitali non determina l’inesistenza della notifica dell’atto medesimo, bensì la sua nullità, vizio che può essere sanato per convalidazione oggettiva (art. 156, comma 3, c.p.c.), ove l’atto abbia raggiunto comunque lo scopo cui è destinato.

La configurazione del vizio in termini di nullità, anzichè di inesistenza, è conforme al disposto di cui alla L. n. 53 del 1994, art. 11, che prevede appunto la sanzione della nullità, comunque rilevabile d’ufficio, per le notificazioni previste dalla medesima legge in mancanza dei requisiti soggettivi ed oggettivi ivi stabiliti, nonchè in caso di inosservanza dei precedenti articoli della stessa legge, oltre che nell’ipotesi di incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica.

Tale configurazione, inoltre, trova rispondenza nell’orientamento di questa Corte, secondo cui la violazione delle forme digitali non integra una causa di inesistenza della notifica, unico vizio che non ammette la sanatoria per il raggiungimento dello scopo (Cass. 15/07/2021, n. 20214; in precedenza, v. Cass. Sez. U. 18/04/2016, n. 7665; Cass. 31/08/2017, n. 20625; Cass. Sez. U. 28/09/2018, n. 23620; Cass. 05/03/2019, n. 6417; Cass. 12/05/2020, n. 8815; in generale, sulla definitiva sistemazione del concetto di inesistenza della notifica, v. Cass. Sez. U. 20/07/2016, n. 14916).

2.2. Nell’ipotesi in cui – come nella fattispecie in esame – la notifica telematica concerna l’atto introduttivo del giudizio, il raggiungimento dello scopo legale dell’atto di notificazione, con conseguente sanatoria del vizio per convalidazione oggettiva, non postula necessariamente la costituzione in giudizio del destinatario, il quale potrebbe volontariamente scegliere di non costituirsi, pur avendo ricevuto una notificazione rituale.

Tuttavia, ove si consideri che, a differenza della comunicazione (la quale ha la funzione di portare la semplice notizia dell’atto processuale), la notificazione è deputata alla consegna dell’atto nella sua interezza al destinatario, il raggiungimento dello scopo legale dell’atto processuale, nella predetta ipotesi, postula pur sempre che esso, oltre ad essere giunto a conoscenza del destinatario – nel senso che questi ne abbia avuto notizia – sia stato portato nella sua disponibilità appunto nella sua interezza.

La prova che l’atto sia stato portato nella disponibilità del notificando – ove non risulti da altre specifiche circostanze verificatesi nel caso concreto (come, ad es., nell’ipotesi in cui il suo difensore, nell’ambito di uno scambio di corrispondenza difensiva con il difensore del notificante, provveda a ritrasmettergli la copia ricevuta dell’atto notificato: Cass. 15/07/2021, n. 20214, cit.) – viene data istituzionalmente solo mediante il deposito telematico delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” e “.msg” e mediante l’inserimento dei relativi dati identificativi nel file “Dati.Atto.xml”, l’accesso al quale consente di verificare la presenza dell’atto nella disponibilità del destinatario.

Viceversa, il solo deposito dell’atto notificato a mezzo PEC e delle ricevute di accettazione e consegna in formato PDF non consente analoga prova.

2.3. Nel caso di specie, in cui è incontroverso che i files informatici non sono stati depositati in formato “.eml” e “.msg”, la ricorrente ha dedotto di essere venuta a conoscenza della sentenza impugnata solo dopo avere ricevuto la lettera raccomandata contenente l’intimazione a pagare le spese del giudizio.

In mancanza di qualsiasi affidabile elemento da cui evincere che la parte destinataria avesse avuto la tempestiva consegna dell’atto di citazione in opposizione, in funzione della possibilità di costituirsi in giudizio ed esercitare appieno il proprio diritto di difesa, deve allora escludersi la sanatoria del vizio di nullità della notificazione della citazione per violazione delle forme digitali di deposito dell’atto notificato a mezzo PEC. In definitiva, alla fattispecie va applicato il seguente principio di diritto:

“In tema di notificazione a mezzo posta elettronica certificata, la violazione delle forme digitali previste dalla L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, e 9, nonchè dall’art. 19-bis delle “specifiche tecniche” date con provvedimento 16 aprile 2014 del Responsabile per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia – che impongono il deposito in PCT dell’atto notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “datiAtto.xml” -, previste in funzione non solo della prova ma anche della validità dell’atto processuale (arg. ex art. 11 della stessa L. n. 53 del 1994), determina, salvo che sia impossibile procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a norma dell’art. 3-bis legge cit. (nel qual caso l’avvocato fornisce prova della notificazione estraendo copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1: L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter), la nullità della notificazione: atteso, per un verso, che soltanto il rispetto delle predette forme (le quali permettono, attraverso l’apertura del file, di verificare la presenza dell’atto notificato nella disponibilità informatica del destinatario) consente di ritenere provato il raggiungimento dello scopo legale dell’atto processuale di notificazione che, a differenza della comunicazione, non ha la funzione di portare la semplice notizia di un altro atto processuale, ma la diversa funzione di realizzarne la tempestiva consegna, nella sua interezza, al destinatario per consentirgli di esercitare appieno il diritto di difesa e al contraddittorio; e considerato, per altro verso, che tale dimostrazione non è invece consentita ove il deposito dell’atto notificato a mezzo PEC e delle ricevute di accettazione e consegna avvenga in diverso formato (ad es. in formato PDF), salvo che, in tale ipotesi, la prova della tempestiva consegna sia desumibile ed in concreto desunta aliunde, sulla base delle circostanze emerse nella fattispecie concreta, nel qual caso la nullità è sanata per convalidazione oggettiva, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c.”.

3. Nel caso di specie, il rilievo della (non sanata) nullità della notificazione telematica dell’atto di citazione in opposizione, propagatasi ai successivi atti processuali sino alla sentenza impugnata, impone, ai sensi degli artt. 383, comma 3, e 354 c.p.c., di rimettere le parti al primo giudice, previa cassazione della sentenza stessa, perchè il giudizio sia rinnovato a contraddittorio integro e correttamente instaurato.

Il giudice della rimessione provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte dichiara la nullità del giudizio di merito di unico grado, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Bergamo, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 4 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2023


Nasce INAD, l’Indice Nazionale dei Domicili Digitali

Da oggi i cittadini possono eleggere il proprio domicilio digitale, indicando un indirizzo PEC dove ricevere le comunicazioni della PA

Al via l’Indice Nazionale dei Domicili Digitali (INAD): da oggi i cittadini possono registrare su INAD il proprio domicilio digitale, come per esempio un indirizzo PEC attivato in precedenza, dove ricevere tutte le comunicazioni ufficiali da parte della Pubblica Amministrazione. Farlo è molto semplice: basta collegarsi al sito domiciliodigitale.gov.it, accedendo con SPID, CIE o CNS, e inserire il proprio recapito certificato.

Inad nasce dalla collaborazione fra Agid, il Dipartimento per la trasformazione digitale della Presidenza del Consiglio e Infocamere, la società delle Camere di commercio per l’innovazione digitale, che ha realizzato la piattaforma.

Si tratta di un progresso importante. Il domicilio digitale, insieme alla Piattaforma Notifiche, ci consentirà di compiere un passo avanti fondamentale per la digitalizzazione del Paese e la semplificazione dei rapporti tra cittadini, imprese e Pubblica Amministrazione. Attraverso il domicilio digitale, infatti, cittadini, professionisti e aziende potranno beneficiare di un canale semplice e immediato per ricevere le comunicazioni ufficiali da parte della PA, con un risparmio significativo di tempi e costi” dichiara il Sottosegretario di Stato con delega all’Innovazione tecnologica, Alessio Butti.

Cos’è il domicilio digitale e chi può registrarlo

Il domicilio digitale è l’indirizzo elettronico eletto presso un servizio di posta elettronica certificata, come definito dal Regolamento eIDAS, valido ai fini delle comunicazioni elettroniche aventi valore legale.

Possono eleggere il proprio domicilio digitale:

  • le persone fisiche che abbiano compiuto il diciottesimo anno di età;
  • professionisti che svolgono una professione non organizzata in ordini, albi o collegi ai sensi della legge n. 4/2013;
  • gli enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione nell’INI-PEC.

Dal 6 luglio 2023 le Pubbliche Amministrazioni utilizzeranno, se presente nell’elenco, il domicilio digitale per tutte le comunicazioni con valenza legale e, a partire dalla stessa data, chiunque potrà consultarlo liberamente dall’area pubblica del sito, senza necessità di autenticazione, inserendo semplicemente il codice fiscale della persona di cui si vuol conoscere il domicilio digitale.

Sempre dal 6 luglio le Pubbliche Amministrazioni, i gestori di pubblico servizio e i soggetti privati aventi diritto potranno consultare INAD in modalità applicativa, attraverso apposite interfacce dedicate, rese fruibili mediante la Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND), già disponibili in ambiente di test.

Inoltre, dalla stessa data potranno eleggere il proprio domicilio digitale anche professionisti non iscritti in albi ed elenchi ed enti di diritto privato non presenti in INI-PEC.

Quali sono i vantaggi di INAD

Grazie a INAD, tutte le comunicazioni della Pubblica Amministrazione con valore legale, come ad esempio rimborsi fiscali e detrazioni d’imposta, accertamenti, verbali di sanzioni amministrative, e così via, vengono inviate direttamente nella casella di posta indicata dal cittadino, che può gestire in autonomia il proprio domicilio digitale.

Dopo aver registrato il proprio domicilio digitale su INAD, le notifiche arriveranno in tempo reale, senza ritardi o problemi relativi al mancato recapito, con notevoli risparmi legati al minore utilizzo della carta e all’azzeramento dei costi di invio tramite servizi postali. Inoltre il cittadino avrà immediatamente a disposizione la documentazione, senza l’incombenza di spostarsi fisicamente per recuperarla, mentre la Pubblica Amministrazione avrà un sistema di comunicazione centralizzato più efficiente, automatizzato e sicuro.

Come registrarsi

Per eleggere il proprio domicilio digitale è necessario accedere al portale domiciliodigitale.gov.it e registrarsi al servizio utilizzando il Sistema Pubblico d’Identità Digitale (SPID), la Carta d’Identità Elettronica (CIE) o la Carta Nazionale dei Servizi (CNS). Una volta effettuata la registrazione, il sistema chiederà di inserire il proprio indirizzo PEC da eleggere come domicilio digitale. A partire dal 6 luglio 2023, il domicilio digitale eletto sarà attivo e consultabile.

Cosa cambia per i professionisti iscritti a INI-PEC

Il Codice dell’Amministrazione Digitale prevede che il domicilio digitale dei professionisti iscritti in INI-PEC, l’indice nazionale degli Indirizzi PEC delle imprese e dei professionisti, venga importato automaticamente su INAD in qualità di persona fisica, restando salva la possibilità di modificarlo, indicando un altro indirizzo Pec.


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 04/05/2023) 06/06/2023, n. 5534

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4532 del 2022, proposto da Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L., tutti rappresentati e difesi dall’avvocato Corrado Diaco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, via dei Mille, n. 40;

contro

Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

nei confronti

E.B.O., rappresentato e difeso dall’avvocato Dario Scognamillo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Prima) n. 1697/2022.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dello Sviluppo Economico e di O.E.B.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 maggio 2023 il Cons. Giovanni Gallone e uditi per le parti gli avvocati Corrado Diaco e Dario Scognamillo;

Svolgimento del processo
1. Con ricorso notificato il 30 gennaio 2020 e depositato il 6 febbraio 2020, proposto in riassunzione ex art. 15 c.p.a. a seguito di ordinanza declinatoria della competenza per territorio n. 449/2020 del 15 gennaio 2020 resa dal T.A.R. per il Lazio – sede di Roma, P.A., in proprio e quale presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., P.F. e D.L. quali socie della medesima cooperativa, hanno impugnato dinanzi al T.A.R. per la Campania – sede di Napoli, domandandone l’annullamento, il D.Dirett. n. 127 del 28 agosto 2019 con cui il Ministero per lo sviluppo economico ha disposto lo scioglimento della prefata cooperativa ex art. 2545-septiesdecies c.c. sulla base di una ravvisata discontinuità aziendale.

1.1 A sostegno del ricorso di primo grado sono state dedotte le censure così rubricate:

1) violazione dell’art. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990;

2) violazione dell’art. 3 comma 1 della L. n. 241 del 1990, con riferimento al D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 – carenza e genericità della motivazione, violazione dell’art. 3, comma 3 della L. n. 241 del 1990, con riferimento all’art. 12 del D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 ed all’art. 2545 c.c. – motivazione per relationem, mancata indicazione dell’atto richiamato; difetto di motivazione;

3) Violazione di Legge – Eccesso di Potere – Difetto di istruttoria;

4) Violazione dei Principi di Corretta Amministrazione – Sproporzione.

2. Ad esito del relativo giudizio, con la sentenza indicata in epigrafe, il T.A.R. per la Campania – sede di Napoli ha respinto il ricorso.

3. Con ricorso notificato il 24 maggio 2022 e depositato l’1 giugno 2022 P.A., in proprio e quale presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., P.F. e D.L. quali socie della medesima cooperativa, hanno proposto appello avverso la suddetta sentenza chiedendone la riforma previa sospensione dell’efficacia.

3.1 A sostegno dell’impugnazione ha dedotto i motivi così rubricati:

1) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono legittimo lo scioglimentoviolazione e falsa applicazione dell’art. 2545 cod. civ.;

2) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono la rituale notifica- violazione dell’art. 24 Costituzione- Violazione dell’art. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990- nullità dell’atto;

3) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono adempiuto l’obbligo di motivazione- Violazione dell’art. 3, comma 1 e 3, della L. n. 241 del 1990, con riferimento al D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 -ed all’art. 2545 cod. civ. – motivazione per relationem, mancata indicazione dell’atto richiamato.

4. In data 7 giugno 2022 si è costituito in giudizio, a mezzo dell’Avvocatura erariale, il Ministero dello sviluppo economico.

5. Il 23 giugno 2022 l’Avvocatura dello Stato ha depositato, nell’interesse del predetto Ministero, memorie difensive.

5.1 Il 27 giugno 2022 anche parte appellante ha depositato memorie difensive.

6. Il 24 giugno 2022 si è costituito in giudizio E.B.O., nella qualità di commissario liquidatore della cooperativa appellante in virtù di decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 20 maggio 2020 pubblicato in G. U. n. 153 del 18 giugno 2020.

7. Ad esito dell’udienza in Camera di consiglio del 30 giugno 2022 questa Sezione, con ordinanza cautelare n. 3032 dell’1 luglio 2022 ha respinto l’istanza cautelare proposta ex art. 98 c.p.a. da parte appellante osservando che “i motivi di appello, ad un giudizio sommario proprio della presente fase cautelate, non appaiono idonei a superare la statuizione di primo grado”.

8. Il 22 marzo 2023 società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del commissario liquidatore nominato, ha depositato memorie difensive insistendo per l’accoglimento dell’appello.

9. Il 27 marzo 2023 anche il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico) ha depositato memorie difensive chiedendo la reiezione del gravame.

10. Il 30 marzo 2023 E.B.O. ha depositato memorie difensive chiedendo, in via preliminare, ai sensi dell’art. 89, comma II, c.p.c., di “disporre con ordinanza la cancellazione dell’espressione contenuta a pagina 2 dell’avversa memoria dell’appellante del 22/3/2023” ove si legge che “alla complessità della vicenda fin ora già descritta si sono aggiunte altre problematiche derivanti dalla circostanza che, in parallelo al giudizio, il commissario liquidatore ha continuato la propria attività operando ambiguamente. Dopo molteplici istanze dell’odierno appellante, è intervenuta l’Autorità di Vigilanza del Ministero delle Imprese e del Made in Italy che, in data 3.3.2023, ha sospeso il provvedimento prot.n. (…) del 8.11.2022 inerente la vendita senza incanto degli immobili sociali della Cooperativa prevista per il 4.3.2023 e di tutti gli atti compiuti dal liquidatore”. Per l’effetto ha chiesto, quindi, di “assegnare nella emananda sentenza al Dott. E.O.B. una somma a titolo di risarcimento del danno da liquidarsi anche in via equitativa”.

Nel merito ha, invece, chiesto la reiezione dell’appello perché manifestamente infondato.

11. All’udienza pubblica del 4 maggio 2023 la causa è stata introitata per la decisione.

Motivi della decisione
1. L’appello è infondato e deve essere respinto.

2. Con il primo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di prime cure ha ritenuto che il solo mancato deposito dei bilanci sia un indice sintomatico di discontinuità aziendale tale da rendere legittimo lo scioglimento ex art. 2545-septiesdecies c.c.. Più segnatamente, la sentenza meriterebbe riforma nella parte in cui, omettendo qualsiasi valutazione in ordine alla fattispecie concreta che viene in rilievo, ha affermato che “il potere di scioglimento della società a seguito del mancato deposito dei bilanci di esercizio per due anni consecutivi è espressamente contemplato dall’art. 2545-septiesdecies c.c. Con tale disposizione il legislatore ha ritenuto che il mancato deposito del bilancio societario per due anni consecutivi costituisca circostanza rilevante di per sé ai fini dello scioglimento della compagine societaria, a prescindere da ogni valutazione discrezionale circa la tenuità di tale omissione in base alle circostanze concrete che l’hanno determinata”.

Parte appellante osserva, in proposito, che, nonostante la vita societaria fosse diventata per diverse vicissitudini quasi impossibile, l’attività sarebbe tuttavia sempre regolarmente proseguita. Tanto sarebbe comprovato dalla documentazione societaria versata in atti e, in particolare, dai verbali delle assemblee ed i brogliacci contabili, risultando dalla suddetta documentazione peraltro adempiuti tutti gli obblighi della Cooperativa sia sotto il profilo di approvazione dei bilanci che sotto il profilo della tassazione.

Si sostiene, poi, alla luce della ratio della normativa in materia, che il mancato deposito dei bilanci non potrebbe giustificare ex se lo scioglimento della cooperativa atteso che, con quest’ultimo, il legislatore vorrebbe sanzionare non la trasmissione o meno dei bilanci aziendali alla Camera di Commercio bensì l’inattività dell’azienda. Più nel dettaglio, il Ministero dello sviluppo economico sarebbe, quindi, incorso in un error in iudicando nel fare applicazione dell’art. 2545-septiesdecies c.c., non potendosi ritenere P.A., presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., responsabile della mancata trasmissione dei bilanci aziendali (compito che era stato delegato in via esclusiva ad un professionista esterno, nei cui confronti la cooperativa ha pure intrapreso un giudizio civile per assistenza infedele). Per contro, ad escludere che la società cooperativa de qua sia rimasta effettivamente inattiva militerebbe la circostanza che questa ha provveduto, seppur tardivamente, alla presentazione dei bilanci dagli anni 2013 al 2019 (deliberati ed approvati negli anni di riferimento) e che in tale frangente abbia provveduto con regolarità al pagamento dei fornitori, dei tributi e delle utenze aziendali.

2.1 La censura è priva di giuridico pregio dovendosi condividere in toto le considerazioni svolte sul punto dal giudice di prime cure.

L’art. 2545-septiesdecies c.c. stabilisce, infatti, che “L’autorità di vigilanza, con provvedimento da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale e da iscriversi nel registro delle imprese, può sciogliere le società cooperative e gli enti mutualistici che non perseguono lo scopo mutualistico o non sono in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono stati costituiti o che per due anni consecutivi non hanno depositato il bilancio di esercizio o non hanno compiuto atti di gestione”.

È, quindi, di tutta evidenza, sulla scorta dell’inequivoco tenore letterale della disposizione in parola, che l’omesso tempestivo deposito del bilancio di esercizio è stato elevato dal legislatore ad autonoma fattispecie idonea ex se a fondare, anche in alternativa rispetto alla distinta ipotesi del mancato compimento di atti di gestione, lo scioglimento governativo di una cooperativa.

Deve aggiungersi che, nel caso di specie, il verificarsi della fattispecie dell’omesso tempestivo deposito dei bilanci è contestato e pacifico tra le parti né alcun rilievo esimente può essere attribuito alle presunte responsabilità del dott. P., essendo quest’ultimo un incaricato esterno, in quanto espressione di una scelta gestoria della stessa cooperativa (che resta responsabile, anche sul piano meramente omissivo ed a titolo oggettivo dell’operato del proprio ausiliario nei rapporti con l’amministrazione pubblica).

3. Con il secondo motivo di appello si lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui è stato ritenuto che la notifica della comunicazione di avvio dell’istruttoria del procedimento culminato con l’emanazione del decreto di scioglimento impugnato in primo grado sia rituale nonostante l’amministrazione avesse ricevuto l’avviso di mancata consegna. Il T.A.R. per la Campania -sede di Napoli avrebbe errato nell’affermare che “Da tale quadro normativo, che si pone come applicazione della più generale regola della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., discende che se non ricorre “causa non imputabile al destinatario”, opera la presunzione di ricezione della PEC”.

Sotto un primo profilo parte appellante deduce che la causa della mancata consegna della PEC non sarebbe stata imputabile alla Cooperativa intesa quale persona giuridica. In proposito si rappresenta che, a seguito di plurime richieste al servizio clienti di Aruba si sarebbe venuti a conoscenza che la PEC in questione risultava attiva dal 22 ottobre 2012 al 21 gennaio 2014 poi riattivata il 24 luglio 2018 e rinnovata il 31 maggio 2019 fino alla cancellazione il 24 ottobre 2020, con la conseguenza che la casella di posta elettronica, al momento di notifica dell’avvio del procedimento avvenuta il 7 maggio 2018 non era attiva, per un lasso temporale limitato, per causa non imputabile alla Cooperativa bensì ad un terzo soggetto (id est il professionista incaricato).

Si segnala che, secondo una parte della giurisprudenza, nel caso di mancata consegna per casella piena, la notifica sarebbe irrituale imponendosi un secondo tentativo cartaceo (in tal senso si invocano le pronunce della Cassazione civile n. 3164 del 2020 e n. 7029 del 2018). Si sostiene, pertanto, che il M.I.S.E. avrebbe dovuto procedere all’invio cartaceo del provvedimento versandosi, peraltro, nell’ipotesi in esame, fuori dal caso di casella piena (ma tout court inattiva).

Si aggiunge, poi, che, nel caso di specie, in data 20 settembre 2016 l’amministrazione aveva già notificato in forma cartacea con raccomandata A/R presso il domicilio del legale rappresentante della società la diffida per la revisione ordinaria (da cui poi è originata la procedura di scioglimento) e che, pur consapevole che la PEC di avvio del procedimento de quo non era stata consegnata alla Cooperativa, ha successivamente scelto di non procedere all’invio anche di quest’ultima a mezzo di della raccomandata A/R.

Sotto altro connesso profilo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata anche nella parte in cui essa ha ritenuto irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis della L. n. 53 del 1994 (nella parte in cui non prevede espressamente che si applichino i medesimi principi di cui all’ultimo comma dell’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973) per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. sollevata in seno al ricorso di primo grado, affermando che “sebbene siano pregevoli le osservazioni di parte ricorrente circa l’opportunità di un intervento legislativo che disciplini espressamente tale ipotesi, la q.l.c prospettata non può essere accolta perché priva di rilevanza ai fini della definizione del presente giudizio”. Secondo gli appellanti la prospettata questione di legittimità costituzionale sarebbe rilevante e fondata in quanto la disparità di trattamento sarebbe evidente ove si consideri che:

– l’ultimo comma dell’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, stabilisce che “Se la casella di posta elettronica risulta satura, l’ufficio effettua un secondo tentativo di consegna decorsi almeno sette giorni dal primo invio. Se anche a seguito di tale tentativo la casella di posta elettronica risulta satura oppure se l’indirizzo di posta elettronica del destinatario non risulta valido o attivo, la notificazione deve essere eseguita mediante deposito telematico dell’atto nell’area riservata del sito internet della società I. Scpa e pubblicazione, entro il secondo giorno successivo a quello di deposito, del relativo avviso nello stesso sito, per la durata di quindici giorni; l’ufficio inoltre dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata, senza ulteriori adempimenti a proprio carico. Ai fini del rispetto dei termini di prescrizione e decadenza, la notificazione si intende comunque perfezionata per il notificante nel momento in cui il suo gestore della casella di posta elettronica certificata gli trasmette la ricevuta di accettazione con la relativa attestazione temporale che certifica l’avvenuta spedizione del messaggio”;

– in materia giudiziaria opera, invece, una disciplina specifica che consente al destinatario di prendere conoscenza della tentata notifica e che stabilisce, nel caso in cui la trasmissione via PEC non vada a buon fine per causa imputabile al destinatario, trovi applicazione l’art. 16, comma 6, del D.L. n. 179 del 2012 (secondo cui le notifiche e le comunicazioni “sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria”).

Ciò determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra fattispecie analoghe, dalla quale deriverebbe la necessità di estendere la soluzione di cui all’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973 anche alle altre comunicazioni – notifiche telematiche, ivi comprese quelle effettuate dalla P.A..

3.1 Le suddette doglianze non meritano positivo apprezzamento.

Anzitutto, è opportuno ribadire quanto già osservato al precedente punto 2.1 e, in particolare, che la cooperativa risponde direttamente e sul piano oggettivo, nei rapporti con la P.A., della condotta colposa del proprio incaricato come ausiliario.

Dal punto di vista giuridico, infatti, l’obbligo di tempestivo deposito dei bilanci grava a carico della cooperativa medesima in persona del legale rappresentante pro tempore sicché quello con l’eventuale professionista incaricato resta un rapporto a rilevanza meramente interna che non sottrae l’ente dalle conseguenze giuridiche di eventuali ritardi o omissioni (come, peraltro, ricavabile dalla disciplina generale delle obbligazioni e, segnatamente, dal disposto dell’art. 1228 c.c.).

3.2 Quanto al secondo profilo di doglianza è appena il caso di ribadire che, la PEC costituisce ormai mezzo ordinario (nonché esclusivo) per le comunicazioni tra P.A. e imprese (artt. 5-bis e 48 del Codice dell’amministrazione digitale – D.Lgs. n. 82 del 2005).

Il D.P.C.M. 22 luglio 2011, contenente le “Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed adottato in attuazione proprio del menzionato art. 5-bis, comma 2, C.A.D., prevede, peraltro, al suo art. 3, che, a decorrere dal 1 luglio 2013, “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni” (comma 1) e che “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1, lett. c-bis, C.A.D. (comma 2).

Ne discende che, nel caso di specie, il Ministero appellato ha fatto legittimamente ricorso, nell’inoltrare l’avviso ex art. 7 della L. n. 241 del 1990, all’unico strumento di comunicazione a sua disposizione (la PEC), essendo del tutto irrilevante che la stessa amministrazione abbia in precedenza notificato in forma cartacea con raccomandata A/R presso il domicilio del legale rappresentante della società la diffida per la revisione ordinaria.

3.3 Né assume rilievo che la PEC dichiarata dalla società cooperativa appellante fosse temporaneamente fuori servizio.

Sulla base del combinato disposto degli artt. 5, comma 1, D.L. n. 179 del 2012 (convertito con modificazioni dalla L. n. 221 del 2012) e 16, comma 6, del D.L. n. 185 del 2008 e ss.mm., ogni impresa individuale o collettiva ha, infatti, l’obbligo di essere titolare di PEC ed ha, di riflesso, l’onere di mantenere la stessa in condizioni di efficienza, adottando ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività (ad esempio con lo spostamento o eliminazione dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione ovvero, per quanto qui più di interesse, col regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio).

Nello stesso solco l’art. 45, comma 2, C.A.D. in tema di “Trasmissione informatica dei documenti” stabilisce che “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore”.

Nel vigente quadro normativo v’è, pertanto, da un lato, l’obbligo (rectius onere) giuridico dell’impresa di rendersi reperibile presso un indirizzo PEC e, dall’altro, l’obbligo della P.A. di impiegare quale unico strumento di comunicazione nei rapporti con le imprese, proprio la posta elettronica certificata.

Ne discende che, nel silenzio della legge, in caso di mancato assolvimento da parte dell’impresa dell’obbligo di munirsi di un indirizzo PEC attivo e funzionante, si determinerebbe un’insuperabile stasi procedimentale con lesione del valore costituzionale del buon andamento ex art. 97 Cost.. Tanto consentirebbe, peraltro, all’impresa di sottrarsi agevolmente all’adozione di provvedimenti limitativi della propria sfera giuridica, traendo un ingiusto vantaggio dall’inadempimento dell’obbligazione legale posta a suo carico.

Per scongiurare una simile aporia ordinamentale pare, pertanto, condivisibile la soluzione già seguita dalla giurisprudenza amministrativa (così T.A.R. per il Lazio, Roma, Sez. III-ter sentenza n. 11614 del 2016) secondo cui è applicabile, in via analogica, quale espressione del principio generale di cui all’art. 1335 c.c., anche alle comunicazioni tra P.A. e imprese, l’art. 16 del già citato D.L. n. 179 del 2012 il quale stabilisce, con riguardo al processo telematico, al comma 6, che “Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti … per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario” ed, al successivo comma 8, che solo “Quando non è possibile procedere ai sensi del comma 4 per causa non imputabile al destinatario, nei procedimenti civili si applicano l’articolo 136, terzo comma, e gli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile”.

Ne discende che nell’ipotesi, come quella che occupa, di negligente gestione della casella PEC da parte del titolare, opera una presunzione legale iuris tantum di ricezione del messaggio di posta elettronica vincibile solo a mezzo della dimostrazione, a cura del destinatario medesimo, di una “causa non imputabile” allo stesso.

È, peraltro, evidente, in questa prospettiva, da un lato, che il rinnovo della casella PEC è adempimento assolutamente non gravoso e che può essere posto in essere anche senza l’assistenza di un professionista e che, dall’altro, la condotta del terzo delegato non può integrare la causa non imputabile al destinatario necessaria a superare la presunzione in parola, valendo le considerazioni già svolte supra al punto 3.1 in ordine alla responsabilità diretta dell’obbligato per fatto dell’ausiliario.

3.4 In disparte dalle considerazioni appena svolte in ordine all’intervenuto perfezionamento, nel caso di specie, della comunicazione a mezzo PEC, preme per completezza rilevare che l’eventuale violazione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della L. n. 241 del 1990 non avrebbe comunque potuto determinare l’annullamento del provvedimento impugnato dovendo trovare applicazione il meccanismo di cui all’art. 21-octies, comma 2, primo alinea, della L. n. 241 del 1990 essendo palese che il contenuto dispositivo dello stesso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Il potere amministrativo contemplato dall’art. 2545-septiesdecies c.c. ha, infatti, natura tout court vincolata sicché l’amministrazione ha il potere-dovere di disporre lo scioglimento della società cooperativa al semplice riscontro della ricorrenza di una delle fattispecie alternative contemplate dalla medesima disposizione. Ciò in quanto deve ritenersi che il legislatore, proprio attraverso detta articolata tipizzazione delle fattispecie di scioglimento coattivo-provvedimentale della cooperativa abbia operato ex ante un bilanciamento tra l’esigenza di assicurare il corretto e regolare funzionamento della società (anche in ragione della particolare meritevolezza dell’interesse mutualistico che connota questo specifico tipo societario) e quello alla prosecuzione della vita della compagine sociale. Sicché, come condivisibilmente affermato nella decisione di primo grado qui impugnata, deve ritenersi preclusa all’amministrazione ogni valutazione discrezionale circa la tenuità dell’omissione in base alle circostanze concrete che l’hanno determinata ed all’incidenza che la stessa ha avuto sul funzionamento della cooperativa.

3.5 L’operatività del meccanismo di cui all’art. 21-octies, comma 2, primo alinea, della L. n. 241 del 1990 importa, peraltro, l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale pure prospettata in appello con riguardo all’ art. 3-bis della L. n. 53 del 1994 in quanto, anche ove la pregiudiziale di costituzionalità fosse ritenuta fondata dalla Consulta, parte appellante non sarebbe comunque in condizione di ottenere l’annullamento dell’atto lesivo e, quindi, di ottenere una qualche utilità dall’accoglimento del ricorso di primo grado (non avendo, peraltro, neppure mai manifestato l’intenzione di chiedere de residuo una tutela di tipo risarcitorio).

4. Con il terzo motivo di appello si censura la sentenza impugnata anche nella parte in cui ha statuito che “La natura vincolata del provvedimento gravato, a fronte del chiaro manifestarsi dei presupposti di legge per disporre lo scioglimento della società, mostra l’infondatezza anche delle censure di parte ricorrente circa la mancata osservanza dell’obbligo di motivazione. Ed infatti, il decreto impugnato assolve in pieno tale onere, mediante l’espressa indicazione del comportamento tenuto dalla società e delle norme violate consentendo così la ricostruzione dell’iter logico e giuridico seguito dall’intimato Ministero”. Parte appellante osserva che l’unica motivazione addotta dalla P.A. sarebbe costituita dall’omesso deposito dei bilanci per il biennio e che il soggetto interessato sarebbe stato, in ogni caso, privato della facoltà/diritto di proporre osservazioni e/o contestazioni, atteso il mancato recapito della comunicazione ex art. 7 L. n. 241 del 1990.

4.1 La censura non merita positivo apprezzamento.

La motivazione dedotta a sostegno del provvedimento impugnato in primo grado, per quanto sintetica, è esaustiva dando conto della circostanza (id est l’omesso deposito dei bilanci di esercizio per due annualità) che impone lo scioglimento, nell’esercizio di un potere come visto tout court vincolato, della cooperativa.

5. Per le ragioni sopra succintamente esposte l’appello è infondato e va respinto con conferma della sentenza appellata.

6. Non può essere, poi, accolta la domanda ex art. 89 comma 2 c.p.c. avanzata da parte di E.B.O. atteso che le espressioni impiegate dalla parte appellante nella memoria del 22 marzo 2023 sono inerenti l’oggetto di causa, non trasmodano nella gratuita contumelia e paiono, in ogni caso, rispettose del limite della continenza oltre che lato sensu funzionali allo svolgimento della difesa tecnica.

7. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex artt. 26 c.p.a. e 91 c.p.c. la soccombenza e sono da porre, nei rapporti tra l’appellato Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico) e gli appellanti, integralmente a carico di questi ultimi in solido tra loro.

7.1 Sussistono invece, anche alla luce della peculiare qualifica soggettiva rivestita dal commissario liquidatore, giustificati motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite nei rapporti tra gli appellanti e E.B.O..

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Respinge la domanda ex art. 89 comma 2 c.p.c. avanzata da E.B.O..

Condanna gli appellanti Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L., in solido tra loro, al pagamento, a titolo di spese processuali, in favore dell’appellato Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico), in persona del Ministro pro tempore, della somma complessiva di € 3.000,00 (tremila/00) oltre accessori di legge.

Spese compensate tra gli appellanti Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L. e E.B.O..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 maggio 2023 con l’intervento dei magistrati:

Hadrian Simonetti, Presidente

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Roberto Caponigro, Consigliere

Giovanni Gallone, Consigliere, Estensore


La banca dati ANPR apre agli uffici comunali

I servizi sono disponibili aderendo alla Piattaforma Digitale Nazionale Dati

L’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente (ANPR) apre agli uffici comunali. Con la pubblicazione delle Linee Guida del Ministero dell’Interno (Circolare 073 del 31-05-2023), l’accesso ai dati ANPR tramite la Piattaforma Digitale Nazionale Dati (PDND) sarà possibile non solo per gli uffici anagrafici, ma verrà esteso a tutti gli uffici dei Comuni.

Dallo Sportello Unico delle Attività Produttive alla Scuola, dai Servizi socio sanitari ai Tributi, fino agli uffici della Polizia locale: da oggi le strutture comunali, in relazione alle funzioni istituzionali esercitate, potranno consultare direttamente i servizi, chiamati tecnicamente e-service, messi a disposizione da ANPR e raggruppabili in quattro categorie: notifiche, comunicazioni, verifiche e accertamenti.

I Comuni potranno avere accesso ai dati ANPR aderendo alla PDND, la Piattaforma, realizzata e gestita da pagoPA per conto del Dipartimento per la Trasformazione Digitale della Presidenza del Consiglio dei Ministri, che abilita lo scambio dati fra le amministrazioni, con l’obiettivo di valorizzare il capitale informativo della PA. Una volta aderito alla Piattaforma Digitale Nazionale Dati, le Amministrazioni dovranno sviluppare delle interfacce applicative (le cosiddette API, application programming interface) per interrogare la banca dati ANPR, seguendo le indicazioni contenute nelle Linee Guida fornite dal Ministero dell’Interno.


2 giugno 2023: Festa della Repubblica


Sottoscrizione autografa degli atti amministrativi

Il Consiglio di Stato con sentenza emessa in data 17 aprile 2023 ha rigettato il motivo di gravame con il quale l’appellante ha censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui ha ritenuto infondata la doglianza afferente alla mancanza della sottoscrizione autografa del Responsabile Area Urbanistica Edilizia del Comune del provvedimento di rigetto della domanda in sanatoria evidenziando come la giustificazione addotta dal Comune, in ordine alle procedure utilizzate per la formazione degli originali e delle copie conformi all’epoca dell’adozione dell’atto, non potesse ritenersi sufficiente ai fini della totale irrilevanza della firma.

Ad avviso dell’appellante sarebbe stata necessaria, infatti, almeno un’attestazione di conformità della copia all’originale ad opera di un pubblico ufficiale autorizzato, non potendo ritenersi sufficiente l’apposizione della dicitura “firmato” sul duplicato del provvedimento.

In replica a quanto dedotto dalla parte appellante, l’Amministrazione comunale ha ribadito quanto già esposto in primo grado in ordine alle procedure informatiche in uso all’epoca dell’adozione del provvedimento impugnato, che avrebbero consentito la stampa di un unico originale cartaceo e di una pluralità di copie, la cui conformità sarebbe stata attestata dal funzionario, in qualità di autore dell’atto.

Il Consiglio di Stato ritiene corretto il ragionamento logico-giuridico proposto dal T.A.R. a sostegno della reiezione del motivo “in quanto l’assenza di sottoscrizione non può ritenersi invalidante qualora risulti possibile e inequivocabile l’accertamento circa la concreta riconducibilità dell’atto al suo autore.

Invero, in virtù del principio di correttezza e buona fede cui devono essere improntati i rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadino, l’autografia della sottoscrizione non può essere qualificata in termini di requisito di esistenza o validità giuridica degli atti amministrativi ove concorrano ulteriori elementi testuali (indicazione dell’ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che lo ha adottato), emergenti anche dal contesto documentativo dell’atto, che consentano di individuare la sicura provenienza e l’attribuibilità dell’atto al suo autore (Consiglio di Stato, sez. II, 24/01/2023, n. 793; Consiglio di Stato, sez. V, 28/5/2012, n. 3119; Consiglio di Stato, sez. IV, 11/5/2007, n. 2325).

Inoltre, come già affermato, anche qualora si ritenesse che l’atto fosse inesistente, ci si troverebbe comunque al cospetto di un’ipotesi di silenzio-diniego prevista ex lege, atteso che l’art. 36 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, dispone che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncino sulla richiesta di permesso in sanatoria entro il termine di sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.(…)”.


Notifica ex art. 140 c.p.c. se la moglie convivente rifiuta di firmare l’atto

Per la Cassazione, il rifiuto della moglie convivente di firmare l’atto obbliga ad eseguire la notifica ex art. 140 c.p.c.
Scatta la notifica ex art. 140 c.p.c. se la moglie convivente si rifiuta di firmare la cartella esattoriale. Lo ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione nella sentenza n. 10805/2023 accogliendo il ricorso di un contribuente contro l’Agenzia delle Entrate che aveva notificato intimazione di pagamento per oltre 185mila euro per l’anno di imposta 1996.
Nella vicenda, la notifica era stata effettuata presso l’abitazione del destinatario della cartella ma, in sua assenza, la moglie convivente si era rifiutata di firmare. In tal caso, ricorre l’ipotesi del rifiuto, l’agente notificatore avrebbe dovuto procedere con l’affissione dell’avviso presso l’abitazione ed il deposito presso la casa comunale come è prescritto dall’articolo 140 c.p.c., ma la procedura tuttavia non veniva tentata.
A fronte dell’art. 139, comma 2, c.p.c., secondo cui se il destinatario non viene trovato in uno dei luoghi ove deve essere ricercato, l’ufficiale giudiziario/Messo Comunale consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purché non minore di 14 anni o non palesemente incapace afferma la Corte Suprema di Cassazione, nella specie, trova applicazione l’art. 140 c.p.c. secondo cui “se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’articolo precedente, l’ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento”.
Per cui la sentenza impugnata va annullata e cancellata senza rinvio.


Solidarietà alla popolazione romagnola

L’Associazione A.N.N.A. esprime dolore e solidarietà alle popolazioni dei territori della Romagna colpite dall’evento calamitoso del 2 maggio scorso.

La nostra vicinanza è particolarmente rivolta alle persone che hanno subito gravissime perdite negli affetti e nei beni materiali.

Si esprime, altresì, la nostra vicinanza particolare ai nostri iscritti dei comuni della zona particolarmente colpiti.

Quanto accaduto nella Regione Emilia-Romagna è un fenomeno che ci porta tutti a interrogarci su come gli eventi naturali possano diventare anche catastrofici per molteplici responsabilità.


Legittima la notifica della multa presso la dimora

Per la Corte Suprema di Cassazione, la notifica della multa è legittima se eseguita presso la dimora e non presso la residenza anagrafica

È legittima la notifica della multa presso la dimora del destinatario e non presso la residenza anagrafica. Così la Corte Suprema di Cassazione nella  sentenza n. 12613/2023 .

Nella vicenda, un automobilista ricorreva alla Corte Suprema di Cassazione avverso la sentenza del tribunale di Castrovillari che, confermando la decisione di primo grado di rigetto dell’opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative per violazione del Codice della Strada, aveva dichiarato valida la notifica del verbale di contestazione eseguita presso il luogo di dimora, seppur diverso dalla sua residenza anagrafica.

In particolare, il tribunale aveva rilevato che il verbale era stato ricevuto da persona qualificatasi come convivente presso il luogo dove erano state effettuate anche le successive notifiche.

Per la Corte Suprema di Cassazione, il ricorso è inammissibile.

Il tribunale ha ritenuto che non fosse causa di nullità della notifica che la stessa non fosse stata eseguita presso la residenza anagrafica del destinatario, essendo comunque stata ricevuta presso il suo luogo di dimora.

l principio di diritto applicato dalla corte distrettuale, per la S.C., “è conforme all’art. 201, comma 3, Cds che richiama, a tal fine, le modalità previste dal Codice di procedura civile, secondo cui se la notificazione non è fatta a mani proprie va fatta presso il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario” nonché al costante orientamento della corte di legittimità, secondo cui “ai fini della corretta determinazione del luogo di residenza o di dimora del destinatario, assume rilevanza esclusiva il luogo ove questi dimori di fatto in via abituale, con la conseguenza che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo di residenza, e possono essere superate da una prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, e quindi, anche mediante presunzioni (Cass. n. 9049/2020).


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 05/04/2023) 10/05/2023, n. 12613

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. POLETTI Dianora – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.A., rappresentato e difeso per procura alle liti in calce al ricorso dall’Avvocato Marco Naccarato, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Corigliano Rossano, viale Michelangelo n. 55. – Ricorrente –

contro

Comune di Rocca Imperiale, in persona del sindaco, rappresentato e difeso per procura alle liti in calce al controricorso dall’Avvocato Antonio Chiaromonte, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Rocca Imperiale, viale Europa n. 22. – Controricorrente –

e Area Riscossioni Srl ;

– Intimata –

avverso la sentenza n. 392/2022 del Tribunale di Castrovillari, pubblicata il 25.3.2022.

Udita la relazione della causa svolta dal consigliere Mario Bertuzzi alla camera di consiglio del 5.4.2023.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto notificato il 25.5.2022 A.A. ricorre per la cassazione della sentenza n. 392/2022 del Tribunale di Castrovillari, pubblicata il 25.3.2022, che aveva confermato la decisione di primo grado di rigetto della sua opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative per violazione del codice della strada, dichiarando valida la notifica del verbale di contestazione eseguita presso il luogo di dimora dell’opponente, pur diverso dalla sua residenza anagrafica. In particolare, il Tribunale motivava tale conclusione sui rilievi che il verbale era stato ricevuto da persona che si era qualificato convivente, che l’ingiunzione di pagamento era stata ricevuta presso tale indirizzo personalmente dall’opponente e che ivi era stato notificato anche un preavviso di fermo.

Il comune di Rocca Imperiale ha notificato controricorso, mentre la società Area Riscossioni non ha svolto attività difensiva.

La causa è stata avviata in decisione in camera di consiglio.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal comune controricorrente sul presupposto che esso sia stato notificato oltre il termine di sessanta giorni dalla data della sentenza impugnata, atteso che, non risultando che tale provvedimento sia stato notificato, l’impugnazione soggiace al termine lungo stabilito dall’art. 327 c.p.c..

Il primo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che, ai fini della determinazione del luogo di residenza o di dimora del destinatario della notificazione, rilevi esclusivamente la dimora abituale, rivestendo le risultanze anagrafiche mero valore presuntivo e potendo le stesse essere superate.

Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè dell’art. 24 Cost. e art. 2697 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 per avere il giudice omesso di valutare il certificato storico di residenza e la querela di falso del 12 novembre 2020, nonchè il certificato storico dello stato di famiglia del 7 aprile 2020.

I due motivi, che possono trattarsi congiuntamente, sono entrambi inammissibili.

Il Tribunale ha motivato il proprio convincimento in ordine alla validità della notifica del verbale di accertamento della violazione, oggetto di contestazione da parte dell’opponente, rilevando che essa era stata eseguita presso la sua dimora o domicilio, essendo stata ricevuta da persona qualificatasi con lui convivente e risultando anche le notifiche degli atti successivi ricevute al predetto indirizzo, tra cui quella dell’ingiunzione di pagamento della sanzione di cui si tratta, ricevuta personalmente dallo stesso opponente. Ha quindi ritenuto che non fosse causa di nullità della notifica che essa non fosse stata eseguita presso la residenza anagrafica del destinatario, essendo comunque stata ricevuta presso il suo luogo di dimora.

Tanto precisato, il principio di diritto applicato dalla Corte distrettuale in tema di luogo di notifica del verbale di contestazione delle violazioni del codice della strada appare conforme all’art. 201 C.d.S., comma 3, che richiama, a tal fine, le modalità previste dal codice di procedura civile, secondo cui se la notificazione non è fatta a mani proprie, va fatta presso il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario, nonchè al costante orientamento di questa Corte, secondo cui, ai fini della corretta determinazione del luogo di residenza o di dimora del destinatario, assume rilevanza esclusiva il luogo ove questi dimori di fatto in via abituale, con la conseguenza che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo di residenza, e possono essere superate da una prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, e quindi anche mediante presunzioni (Cass. n. 9049 del 2020; Cass. n. 19387 del 2017; Cass. n. 11550 del 2013).

Il medesimo indirizzo giurisprudenziale inoltre sottolinea che il relativo apprezzamento di tali elementi, integrando un apprezzamento di fatto delle risultanze probatorie, costituisce valutazione demandata all’esclusiva competenza del giudice di merito. Anche sotto tale profilo, pertanto, le censure sollevate sono inammissibili, in quanto l’accertamento del giudice di merito in ordine alla effettiva dimora del destinatario dell’atto non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità.

La censura di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio è infine inammissibile ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., secondo cui il ricorso per cassazione non è proponibile per il motivo indicato dall’art. 360 c.p.c., n. 5 nel caso in cui, come nella specie, il giudice di secondo grado abbia deciso le questioni di fatto conformemente alla decisione appellata (c.d. doppia conforme).

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore della controricorrente comune di Rocca Imperiale, che liquida in Euro 950,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.

Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2023