Cass. pen. Sez. V, (ud. 11-12-2007) 19-12-2007, n. 47096

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIZZUTI Giuseppe – Presidente

Dott. AMATO Alfonso – Consigliere

Dott. MARASCA Gennaro – Consigliere

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere

Dott. SANDRELLI Giangiacomo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA/ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

P.M.;

in proc. pen. a carico di:

T.G., n. a (OMISSIS);

avverso la sentenza del Tribunale di Torino, sezione di Chivasso, depositata il 15 settembre 2006;

Sentita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Aniello Nappi;

Udite le conclusioni del P.M. Dott. CONSOLO Santi, che ha chiesto il rigetto;

udito il difensore Avv. MITTONE Alberto.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con la sentenza impugnata il Tribunale di Torino, sezione di Chivasso, ha prosciolto T.G. perchè il fatto non sussiste dall’imputazione di avere abusivamente preso cognizione della corrispondenza informatica aziendale della dipendente M. R., licenziata poi sulla base delle informazioni così acquisite.

Ricorre per Cassazione il pubblico ministero e deduce violazione dell’art. 616 c.p., lamentando che il giudice del merito si sia fondato sull’erroneo presupposto della rilevanza della proprietà aziendale del mezzo di comunicazione violato, senza considerare il profilo funzionale della destinazione del mezzo telematico non solo al lavoro ma anche alla comunicazione, tutelata dall’art. 15 Cost..

Il ricorso è infondato.

L’art. 616 c.p., comma 1 punisce infatti la condotta di “chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prendere cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime”. Sicché, quando non vi sia sottrazione o distrazione, la condotta di chi si limita a “prendere cognizione” è punibile solo se riguarda “corrispondenza chiusa”. Chi “prende cognizione” di “corrispondenza aperta” è punito solo se l’abbia a tale scopo sottratta al destinatario ovvero distratta dalla sua destinazione.

Ciò posto, e indiscussa l’estensione della tutela anche alla corrispondenza informatica o telematica (art. 616 c.p., comma 4), deve tuttavia ritenersi che tale corrispondenza possa essere qualificata come “chiusa” solo nei confronti dei soggetti che non siano legittimati all’accesso ai sistemi informatici di invio o di ricezione dei singoli messaggi. Infatti, diversamente da quanto avviene per la corrispondenza cartacea, di regola accessibile solo al destinatario, è appunto la legittimazione all’uso del sistema informatico o telematico che abilita alla conoscenza delle informazioni in esso custodite. Sicchè tale legittimazione può dipendere non solo dalla proprietà, ma soprattutto dalle norme che regolano l’uso degli impianti. E quando in particolare il sistema telematico sia protetto da Una password, deve ritenersi che la corrispondenza in esso custodita sia lecitamente conoscibile da parte di tutti coloro che legittimamente dispongano della chiave informatica di accesso. Anche quando la legittimazione all’accesso sia condizionata, l’eventuale violazione di tali condizioni può rilevare sotto altri profili, ma non può valere a qualificare la corrispondenza come “chiusa” anche nei confronti di chi sin dall’origine abbia un ordinario titolo di accesso.

Nel caso in esame è indiscusso, e ne da atto lo stesso ricorrente, che le password poste a protezione dei computer e della corrispondenza di ciascun dipendente dovevano essere a conoscenza anche dell’organizzazione aziendale, essendone prescritta la comunicazione, sia pure in busta chiusa, al superiore gerarchico, legittimato a utilizzarla per accedere al computer anche per la mera assenza dell’utilizzatore abituale.

Ne consegue che del tutto lecitamente T.G. prese cognizione della corrispondenza informatica aziendale della sua dipendente, utilizzando la chiave di accesso di cui legittimamente disponeva, come noto alla stessa M.R.. Infatti, secondo le prescrizioni del provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali n. 13 dell’1 marzo 2007, i dirigenti dell’azienda accedono legittimamente ai computer in dotazione ai propri dipendenti, quando delle condizioni di tale accesso sia stata loro data piena informazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2007


Riunione Giunta Esecutiva del 4.01.2008

Ai sensi dell’art. 13 dello Statuto, viene convocata la riunione della Giunta Esecutiva che si svolgerà venerdì 4 gennaio 2008. alle ore 9:30 presso il Comune di Roma – Via delle Vergini 18, in prima convocazione, e alle ore 11:30 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:
1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione;
2. Programmazione attività istituzionali;
3. Varie ed eventuali

Leggi: Verbale GE 04 01 2008


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 20-11-2007) 11-12-2007, n. 25837

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di sezione

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. VITRONE Ugo – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – rel. Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

REGIONE UMBRIA, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, rappresentata e difesa dall’avvocato MANUALI PAOLA, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANAPO 20, presso lo studio dell’avvocato RIZZO CARLA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASTRANGELI D. FABRIZIO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 343/05 della Corte d’Appello di PERUGIA, depositata il 08/11/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. Guido VIDIRI;

uditi gli avvocati Goffredo GOBBI, per delega dell’avvocato Paola MANUALI, Fabrizio D. MASTRANGELI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento de primo e secondo motivo (giurisdizione dell’aga per la differenza retributiva fino al 30/6/1998; ago per il periodo successivo); rinvio per il resto ad una sezione semplice.

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 17 agosto 1999 dinanzi al Tribunale di Perugia, in funzione di giudice del lavoro, R.S.F. riferiva di essere dipendente della Regione dell’Umbria e di avere lavorato presso il “Centro di Studi Giuridici e Politici”, inquadrato nella 7^ qualifica funzionale. Con Delib. n. 14 del 1991, Delib. n. 13 del 1991, il Comitato Direttivo gli aveva affidato il compito di responsabile della Segreteria del Centro, dopo che dal settembre del 1991 il precedente responsabile, R.L., era stato collocato in quiescenza ed il Comitato aveva deciso di non ricoprire il posto. Dal 1 novembre 1991, in forza delle predette delibere, aveva ricoperto l’incarico di segretario, vacante in organico, espletandone tutte le mansioni sino al 31 dicembre 1998, allorchè con Delib. Giunta Regionale del 30 dicembre 1998, n. 6488, con decorrenza dal 1 gennaio 1999 era stato assegnato, in qualità di dirigente, alla segreteria del Centro il signor C.G..

L’espletamento di mansioni superiori non aveva mai comportato per esso ricorrente – inquadrato sino al 5 novembre 1992 nel 6^ livello e successivamente nel 7^ – alcun incremento economico. Tutto ciò premesso, chiedeva che gli venisse riconosciuto il trattamento corrispondente al 9^ livello e che la Regione fosse condannata a corrispondere le conseguenti differenze retributive.

Dopo la costituzione della Regione, che aveva eccepito preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice adito, quanto meno per il periodo antecedente al 30 giugno 1998, entro il quale si era svolta la maggior parte del rapporto, il Tribunale, ritenendo invece la propria giurisdizione, accoglieva la domanda e condannava la Regione al pagamento delle differenze retributive richieste nonchè al pagamento delle spese del giudizio.

A seguito di gravame, la Corte d’appello di Perugia con sentenza dell’8 novembre 2005 rigettava l’appello e confermava l’impugnata sentenza. Nel pervenire a tale decisione la Corte territoriale osservava in via pregiudiziale che sulla giurisdizione si era formato il giudicato atteso che, con la stessa ordinanza con cui era stata ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 29 del 1992, art. 56 e del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, era stata affermata “preliminarmente la propria giurisdizione a conoscere dell’intera vertenza”. Si era pertanto in presenza di un provvedimento che, pur qualificato “ordinanza”, conteneva nella prima parte un provvedimento sulla giurisdizione che, avendo natura di sentenza, andava tempestivamente impugnato, mentre nella seconda parte una vera ordinanza per essere stata rimessa al giudice delle leggi una questione di costituzionalità. Nel merito poi il giudice d’appello affermava che correttamente il Tribunale aveva ritenuto applicabile l’art. 36 Cost. al pubblico impiego privatizzato in una fattispecie in cui veniva rivendicata una retribuzione adeguata alle mansioni in concreto svolte, superiori a quelle di inquadramento. Avverso tale sentenza la Regione Umbria propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. Resiste con controricorso R.F.S..

Ambedue le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Nel controricorso R.S.F. afferma che il ricorso proposto dalla Regione notificato il 14 marzo 2006 (consegnato gli ufficiali giudiziari il 13 marzo 2006) è inammissibile “avendo quest’ultima notificato due ricorsi, di cui il primo è nullo in quanto non si comprende se viene chiesta la cessazione totale o parziale della sentenza di primo grado” e perchè la delega a proporre tale ricorso era stata conferita dal vice Presidente della Giunta senza che venissero enunciate nè provate le ragioni di impedimento alla firma per il Presidente della Regione, che aveva rilasciata invece regolare delega in relazione al secondo ricorso. A supporto della sua eccezione il R. deduce che la notificazione del primo atto in data 6 marzo 2006 aveva consumato il potere della Regione di ricorrere per cassazione sicchè il ricorso successivamente notificato non poteva sanare i vizi del primo che, per non essere stato oggetto di rinunzia, aveva finito per incardinare il rapporto processuale.

1.1. L’eccezione è priva di giuridico fondamento.

1.2. Ed invero va in primo luogo considerato che non può ritenersi in alcun modo inficiato di invalidità un ricorso per Cassazione che, sebbene mancante -come nel caso di specie – di una o più righe per mero errore di stampa, consenta tuttavia, sulla base del suo integrale contenuto, di desumere – dalla esposizione dei fatti e dei motivi posti a base della detta impugnazione – la richiesta di cassazione totale della sentenza impugnata. In ogni caso va considerato che il R. avverso il secondo ricorso non ha sollevato fondate ragioni di nullità e che inoltre non si è verificato nel caso di specie una consumazione del potere di impugnazione, atteso che questa Corte ha più volte ribadito il principio secondo cui la regola della consumazione dell’impugnazione non esclude che, dopo la proposizione di un’impugnazione viziata, possa esserne proposta una seconda immune dai vizi della precedente e destinata a sostituirla, precisando anche al riguardo che, per espressa previsione normativa (artt. 353 e 387 cod. proc. civ., rispettivamente per l’appello e per il ricorso per cassazione), la consumazione del diritto d’impugnazione presuppone l’esistenza – al tempo della proposizione della seconda impugnazione – di una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della precedente;

sicchè, in mancanza di tale (preesistente) declaratoria, ben è consentita la proposizione di una (altra) impugnazione (di contenuto identico o diverso) in sostituzione della precedente viziata, semprechè il relativo termine non sia decorso (cfr. in tali sensi:

Cass. 23 gennaio 1998 n. 643, cui adde tra le tante: Cass. 22 maggio 2007 n. 11870; Cass. 15 gennaio 2003 n. 491; Cass. 11 maggio 2002 n. 6560).

2. Quanto ora detto consente l’esame dei motivi del ricorso proposto dalla Regione Umbria.

3. Con il primo motivo la Regione denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., dell’art. 279 c.p.c., comma 2, e della L. 11 marzo 1953, art. 23, n. 87, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e 3 assumendo che la Corte d’appello ha errato nel ritenere che l’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale contenesse “nella prima parte un provvedimento sulla giurisdizione, avente natura di sentenza”, e che, su detto presupposto ha fatto scaturire la formazione del giudicato sulla giurisdizione.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione ed errata interpretazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 45, comma 17, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e 3. A tale riguardo sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere la giurisdizione del giudice amministrativo almeno sino al 30 giugno 1998, assumendo altresì che il R. doveva ritenersi assoggettato a decadenza per ogni pretesa relativa al suddetto periodo per essere dette pretese assoggettate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se proposte entro il 15 settembre 2000.

Con il terzo motivo la Regione Umbria lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 (ora art. 52 del t.u. approvato con il D.Lgs. n. 165 del 2001), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Precisa a tale riguardo la ricorrente che, come statuito più volte dai giudici amministrativi, solo a decorrere dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e precisamente solo a partire dal 22 novembre 1998, andava riconosciuto con carattere di generalità il diritto alle differenze retributive a favore del dipendente pubblico che abbia svolto le mansioni superiori, mentre per il periodo precedente non poteva essere riconosciuto alcun diverso trattamento economico nè facendo riferimento all’art. 36 Cost. nè all’art. 2126 c.c. nè all’art. 2041 c.c..

Con il quarto motivo la Regione denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo sul punto che è stato illegittimamente riconosciuto al R. un trattamento retributivo equivalente alla ex nona qualifica, spettante al personale dirigenziale, sicchè risultava violato il principio giurisprudenziale secondo cui la valutabilità delle mansioni superiori poteva di fatto avvenire con riferimento al livello o alla qualifica immediatamente superiore. Ed invero l’espletamento delle mansioni superiori da parte del dipendente non può riguardare una qualifica due volte superiore a quella rivestita, come invece era avvenuto nel caso di specie per essersi il R. visto riconosciuto un trattamento economico equivalente prima al sesto livello e successivamente al settimo e per avere, infine, rivendicato un trattamento equivalente al nono livello.

4. I primi due motivi del ricorso, da esaminarsi congiuntamente per essere relativi alla problematica del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e per comportare la risoluzione di questioni tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perchè privi di fondamento.

4.1. E’ del tutto pacifico in dottrina e nella giurisprudenza, e comunque univocamente postulato dal dato normativo (art. 134 Cost.;

L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23), che all’ordinanza con cui il giudice a quo motiva la rilevanza e la non manifesta infondatezza della ipotesi di illegittimità di norma che egli è chiamato ad applicare, non possa riconnettersi altro effetto che quello endoprocessuale di attivare l’incidente di costituzionalità (cfr. in tali sensi in motivazione: Cass. 21 luglio 1995 n. 7950), essendosi al riguardo statuito pure che l’ordinanza con la quale il giudice ritenga rilevante e non manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale trasmettendo gli atti alla Corte Costituzionale a norma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, con la sospensione del giudizio in corso e dell’esecuzione di propria precedente statuizione, configura un provvedimento strumentale ed ordinatorio, privo di carattere decisorio e, pertanto, non impugnabile neanche quando si ponga in discussione il potere stesso di quel giudice di disporre la remissione di detta questione alla Corte Costituzionale (cfr,. al riguardo:Cass., Sez. Un., 31 maggio 1984 n. 3317).

4.2. Come però emerge dalla lettura della impugnata sentenza l’ordinanza con la quale nella fattispecie in esame gli atti sono stati rimessi alla Corte costituzionale non può reputarsi provvedimento meramente ordinatorio per quanto attiene alla questione sulla giurisdizione, essendo stato il giudice delle leggi investito unicamente della diversa questione relativa alla diretta applicabilità dell’art. 36 Cost., al pubblico impiego, questione poi dichiarata infondata e che, non investendo in alcun modo la ritenuta giurisdizione del giudice ordinario, non poteva impedire il passaggio in giudicato sul punto della decisione del primo giudice.

4.3. A tale riguardo va ricordato che questa Corte di cassazione ha più volte statuito che, al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di sentenza o di ordinanza, è decisiva non già la forma adottata ma il suo contenuto (cosiddetto principio della prevalenza della sostanza sulla forma), di modo che allorquando il giudice, ancorchè con provvedimento avente veste formale di ordinanza, abbia, senza definire il giudizio, deciso una o più delle questioni di cui all’art. 279 cod. proc. civ. – in particolare affermando la propria giurisdizione – a detto provvedimento va riconosciuta natura di sentenza non definitiva ai sensi dell’art. 279 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, con l’ulteriore conseguenza che, a norma dell’art. 361 cod. proc. civ., avverso la stessa va fatta riserva di ricorso per cassazione o va proposto ricorso immediato, determinandosi, in difetto, il passaggio in giudicato della decisione, senza che rilevi in contrario che, nella sentenza definitiva, lo stesso giudice abbia poi ribadito la propria giurisdizione (cfr. ex plurimis: Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2005 n. 20470; Cass. 7 aprile 2006 n. 8174).

4.4. Nel caso di specie la Corte territoriale ha ritenuto che il provvedimento ricognitivo della giurisdizione del giudice ordinario aveva solo la forma dell’ordinanza mentre doveva considerarsi una sentenza per il suo contenuto; conclusione questa che – confortata anche dalla sottoscrizione dello stesso provvedimento da parte del presidente e dell’estensore e dalla distinta e propria collocazione, pur all’interno di esso, della questione di giurisdizione e di quella riguardante l’applicazione dell’art. 36 Cost. – si sottrae ad ogni censura in questa sede di legittimità per essere il provvedimento scrutinato sorretto da motivazione congrua, priva di salti logici e rispettosa dei principi applicabili in materia.

4.5. Per concludere sul punto va riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le pretese avanzate in giudizio da Silvio R.F. senza che possa farsi al riguardo una distinzione tra trattamento economico antecedente al 30 giugno 1998 e trattamento successivo, in conformità a quanto affermato di recente dalla giurisprudenza di queste stesse Sezioni Unite che, infatti – in una fattispecie assimilabile sotto molti profili a quella in esame – hanno statuito che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa da un dipendente comunale il quale, assumendo di essere stato legittimamente assegnato a mansioni inferiori rispetto alla qualifica riconosciuta da provvedimenti dell’amministrazione datrice di lavoro emanati prima del 30 giugno 1998, i cui effetti siano perduranti per il periodo successivo, chieda il ripristino delle mansioni di sua spettanza ed il risarcimento del danno. Ed invero, in presenza del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 7, che fissa una proroga della giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di pubblico impiego con riferimento alle “questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro” anteriori al 30 giugno 1998, per temperare il frazionamento delle domande ed evitare che i diritti divenuti esigibili in un certo arco temporale debbano essere fatti valere dinanzi a giudici diversi con competenza ripartita in base all’epoca della loro maturazione, qualora la lesione lamentata dal lavoratore abbia origine da un comportamento del datore di lavoro pubblico che si assume permanentemente illecito, deve farsi riferimento al momento della realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza del comportamento, di modo che, ove tale cessazione intervenga in data successiva al 30 giugno 1998, la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario(Cass., Sez. Un., 9 marzo 2007 n. 5404).

5. I due primi motivi di ricorso vanno pertanto rigettati dovendosi riconoscere la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le domande spiegate dal R..

6. Anche il terzo e quarto motivo del ricorso, con i quali si contesta con diverse argomentazioni l’applicabilità dell’art. 36 Cost., al rapporto di impiego pubblico ora privatizzato, vanno rigettati.

La Corte d’appello di Perugia, nel confermare la sentenza di primo grado, ha affermato che il R. ha svolto mansioni superiori a quelle proprie della qualifica funzionale di inquadramento e che, pertanto, ha diritto al riconoscimento di una retribuzione che tenendo conto, alla strega dell’art. 36 Cost., della qualità del lavoro spiegato sia correlata alle mansioni superiori svolte.

Le conclusioni cui è pervenuto il giudice d’appello – dopo avere evidenziato come il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 52, comma 6, (poi modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25) sia stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva – sono state supportate dalla considerazione che nella giurisprudenza sia ormai principio acquisito la necessità un giusto contemperamento, da perseguirsi attraverso il ricorso alla “giusta retribuzione” ex art. 36 Cost., fra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto anche nel caso che l’utilizzazione del dipendente avvenga in mansioni che siano state irregolarmente acquisite.

6.1. La giurisprudenza amministrativa ha seguito un orientamento volto al diniego dell’applicabilità dell’art. 36 Cost. al pubblico impiego sul presupposto che su detta norma volta al rispetto della “giusta retribuzione” dovessero prevalere gli artt. 97 e 98 Cost., non potendo il rapporto di pubblico impiego essere in alcun modo assimilato ad un rapporto di scambio e dovendosi, anche ai fini del controllo della spesa, rispettare l’esigenza di conservazione di un assetto della pubblica amministrazione rigido e trasparente, espressione della quale è quella della supremazia del parametro della qualifica su quello delle mansioni, sicchè in una siffatta ottica ostavano all’applicabilità dell’art. 36 Cost. pure le norme codicistiche dell’art. 2116 c.c. e art. 2041 c.c. (cfr. per tale indirizzo ex plurimis: Cons. Stato, Sez. 5^, 28 febbraio 2001 n. 1073; Cons. Stato, Sez. 6^, 4 dicembre 2000 n. 6466; Cons. Stato, Sez. 5^, 12 ottobre n. 1438; Cons. Stato, Sez. 6^, 29 settembre 1999 n. 1291).

Nonostante tale indirizzo – secondo cui, come visto, il principio della corrispondenza ex art. 36 Cost. della retribuzione dei lavoratori alla qualità e quantità del lavoro prestato, non può trovare applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza costituzionale – anche di recente ribadito (Cons. Stato, Sez. 6^, 7 giugno 2005 n. 2184;

Cons. Stato, Sez. 6^, 23 gennaio 2004 n. 222), si sono sul punto tuttavia manifestate, in alcune pronunzie dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, significative aperture verso una maggiore tutela del lavoratore essendosi ritenuto: che le differenze retribuitive vanno riconosciute al lavoratore sin dal momento dell’emanazione del D.Lgs. n. 387 del 1998 e non a partire dalla stipulazione dei nuovi contratti collettivi (Cons. Stato, Ad, plen. 28 gennaio 2000 n. 10), e che è consentita la trasposizione di regole privatistiche nell’area del pubblico impiego, sicchè l’art. 2126 c.c., può trovare applicazione anche in un rapporto instauratosi con la pubblica amministrazione, senza il rispetto delle norme che ne regolano la costituzione, con l’effetto che al dipendente di mero fatto della pubblica amministrazione devono essere riconosciute le prestazioni retributive e previdenziali (Cons. Stato, Ad. plen. 29 febbraio 1992 n. 1).

6.2. A diverse conclusioni è pervenuta la giurisprudenza dei giudici della legge per avere, infatti, la Corte costituzionale con numerose pronunzie patrocinato la diretta applicabilità al rapporto di pubblico impiego dei principi dettati dall’art. 36 Cost., specificando al riguardo che detta norma “determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato” a prescindere dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori (Corte Cost. 23 febbraio 1989 n. 57; Corte Cost ord. 26 luglio 1988 n. 908); che “il principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è incompatibile con il diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost.)” (Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236); che il mantenere da parte della pubblica amministrazione l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determina una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost. – perchè non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento” e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2).

6.3. L’estensione della norma costituzionale all’impiego pubblico è condivisa anche dalla dottrina giuslavoristica che evidenzia come – pur essendo a seguito del D.Lgs. n. 165 del 2001 il trattamento economico dell’impiegato disciplinato dalla contrattazione collettiva e pur essendo detta contrattazione con priva di vicoli unilateralmente opposti per fini di controllo della spesa pubblica (quali quelli derivanti dai primi tre commi dell’art. 48 del suddetto decreto) – i suddetti vincoli derivanti da esigenze di bilancio non impediscano comunque la piena operatività, anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall’art. 36 Cost..

Principio questo che per poggiare sulla peculiare corrispettività del rapporto lavorativo – qualificato dalla specifica rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare “una attività contrassegnata dall’implicazione della stessa persona del lavoratore”, il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia – da un lato ha portato autorevole dottrina a sganciare il rapporto giuridico retributivo dal novero dei diritti di credito per inquadrarlo tra i diritti assoluti della persona, e dall’altro ha spinto ad affermare, sulla base di una coessenzialità o di una stretta relazione dei due principi della “sufficienza” e della “proporzionalità” ostativa a qualsiasi rapporto gerarchico tra gli stessi, che l’attenuazione del principio sinallagmatico, integrato nel caso in esame dalla rilevanza della persona umana (che determina una traslazione del datore di lavoro del rischio della inattività del prestatore di lavoro, come in caso di sospensione del rapporto) attestano una dimensione sociale della retribuzione e la sentita esigenza della copertura a livello costituzionale dei diritti inderogabili del lavoratore.

6.4. Le considerazioni svolte forniscono le coordinate per la soluzione della problematica oggetto dell’esame di queste Sezioni Unite. Ed alla stregua di quanto sinora enunciato e proprio in conformità della ricordata giurisprudenza della Corte Costituzionale – in mancanza di ragioni nuove e diverse e per una consequenziale doverosa fedeltà ai precedenti, sulla quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge – deve essere ribadito il principio fissato dai giudici di legittimità secondo il quale, nel pubblico impiego privatizzato, il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25, è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6 ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio. Ne consegue che il principio della retribuzione proporzionato e sufficiente ex art. 36 Cost., è applicabile anche al pubblico impiego senza limitazioni temporali (cfr. al riguardo Cass. 17 aprile 2007 n. 9130 cui adde, da ultimo, Cass. 14 giugno 2007 n. 13877, che precisa anche che l’applicazione dell’art. 36 Cost. non debba però necessariamente tradursi in un rigido automatismo di spettanza al pubblico dipendente del trattamento economico esattamente corrispondente alle mansioni superiori ben potendo risultare diversamente osservato il precetto costituzionale anche mediante la corresponsione di un compenso aggiuntivo rispetto alla qualifica di appartenenza; ed ancora per lo stesso indirizzo: Cass. 14 giugno 2007 n. 13877;

Cass. 8 gennaio 2004 n. 91; Cass. 4 agosto 2004 n. 19444).

6.5. Corollario di quanto sinora esposto è che – stante la valenza generale dei criteri parametrici fissati dalla norma costituzionale in materia di retribuzione – il disposto dell’art. 36 Cost. non può non trovare applicazione anche nelle fattispecie, analoghe a quella in esame, in cui la pretesa del lavoratore alla retribuzione corrispondente allo svolgimento dell’attività prestata riguardi mansioni superiori corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento (cfr. sul punto: Cass. 25 ottobre 2004 n. 20692).

Sul versante fattuale, poi, l’estensione della norma costituzionale nei sensi innanzi precisati richiede in ogni caso che le mansioni assegnate siano in concreto svolte nella loro pienezza, sia per quanto attiene al profilo quantitativo che qualitativo dell’attività spiegata sia per quanto attiene all’esercizio dei poteri ed alle correlative responsabilità attribuite(cfr. al riguardo: Cass. 19 aprile 2007 n, 9328); circostanze queste che ben possono ritenersi provate sulla base dei fatti allegati in causa (ad esempio, lunga durata nello svolgimento delle mansioni, mancata denunzia di inadempimenti o di inesatti assolvimenti degli obblighi derivanti dalle mansioni assegnate) nonchè della condotta processuale della parte datoriale (acquiescenza o mancata contestazione ex art. 416 c.p.c. dei fatti e degli elementi di diritto della domanda di controparte).

6.6 Nè al fine di patrocinare una interpretazione del dato normativo diversa da quella seguita sulla scia della giurisprudenza costituzionale vale prospettare la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del diritto ad un’equa retribuzione ex art. 36 Cost., al lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l’accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perchè, come è stato rimarcato da più parti, il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione dell’organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la rilevanza costituzionale.

7. La particolare importanza della questione di diritto trattata induce queste Sezioni unite ai sensi del disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 1, (nel testo riscritto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12) – nella cui ratio non è affatto estraneo il rafforzamento della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione – ad enunciare il seguente principio di diritto: “In materia di pubblico impiego – come si evince anche dalla lettura del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, art. 56, comma 6, (nel testo sostituito dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 25, così come successivamente modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15) – l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori, anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento, ha diritto, in conformità della giurisprudenza della Corte Costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.. Norma questa che deve, quindi, trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che in relazione all’attività spiegata siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni.

8. Per concludere il ricorso va rigettato per essere la sentenza impugnata supportata da un iter argomentativo in linea con il principio di diritto ora enunciato.

9. Le spese del presente giudizio di Cassazione – tenuto conto della natura della controversia e della rilevanza e complessità delle numerose questioni giuridiche affrontate – vanno compensate tra le parti, ricorrendo giusti motivi.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2007


TESSERAMENTO 2008

La Giunta Esecutiva, nella seduta del 13.11.2007, ha deliberato le quote per il tesseramento 2008 che rimangono invariate:
1. Tipo A – Messi Comunali: € 60,00
2. Tipo B – Messi del Giudice di Pace e di Conciliazione: € 60,00;
3. Tipo C – Ufficiali Giudiziari: € 60,00;
4. Tipo D – Messi Provinciali: € 60,00;
5. Tipo E – Comuni fino a 10.000 abitanti: € 100,00;
6. Tipo F – Comuni con popolazione da 10.001 a 100.000 abitanti: € 150,00;
7. Tipo G – Comuni con popolazione oltre i 100.001 abitanti: € 200,00;
8. Tipo H – Altri Enti: € 250,00;
9. Tipo I – Soggetti privati: € 250,00.


Corso di aggiornamento La Spezia 08 febbraio 2008

Corso di Aggiornamento

Venerdì 8 febbraio 2008 ore 9:15- 17:00
Comune di La Spezia
Biblioteca virtuale R.U. Castagna presso Biblioteca “Beghi”
Via del Popolo 61 La Spezia (SP)

Con il patrocinio del Comune di La Spezia

Quote di partecipazione al corso:
Soci A.N.N.A.: € 120,00 (Iscritti alla data del 31.12.2007 e rinnovo per l’anno 2008 alla data del 15.01.2008)(*) (**)
Non iscritti ad A.N.N.A.: € 160,00 comprensivi della quota di iscrizione all’Associazione (*)(**)
Non iscritti ad A.N.N.A.: € 200,00 oltre I.V.A (*) (**)

La quota di iscrizione dovrà essere versata entro la data di effettuazione del Corso, tramite :
Conto Corrente Postale n. 55115356
Conto Corrente Bancario:

Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Poste Italiane])

Intestato a:
Associazione Nazionale Notifiche Atti
Codice fiscale: 93164240231
P.IVA: 03558920231

Causale: Corso La Spezia 2008
(*) Se la fattura è intestata ad Ente Pubblico, la quota è esente IVA, ai sensi dell’art. 10, D.P.R. n. 633/72 e successive modificazioni,

(**) Le quote di iscrizione si intendono al netto delle spese bancarie e/o postali che sono a carico di chi effettua il versamento.

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.
L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo articolo a cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.

I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Lombardi Giuseppe
Resp. Messi comunali del Comune di Alessandria
Membro del Consiglio Generale di A.N.N.A

Programma
Legge Finanziaria 2007: nomina del Messo Notificatore
I principi fondamentali del procedimento notificatorio.
Il procedimento notificatorio secondo il Codice di procedura civile.
Il principio della consegna.
Le forme di notificazione.
L’ordinanza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 458/2005.
Comunicazioni e notificazioni: differenze:
– La notificazione e il procedimento notificatorio.
I soggetti del procedimento notificatorio:
– Il soggetto richiedente la notifica; i soggetti intermediari ed ausiliari;
I destinatari e il consegnatario.
II luogo della notificazione: residenza, dimora e domicilio:
– Sede legale e sede amministrativa.
La notificazione a soggetti diversi dalle persone fisiche: notifica a società, enti, istituzioni, associazioni con o senza personalità giuridica.
Modifiche apportate al d.p.r. 600/73
Notifica a persona giuridica (art. 145 C.P.C.).
La relata di notifica: funzione e contenuto. Valore probatorio: difformità tra originale e copia dell’atto notificato.
Nullità e sanatoria delle notificazioni: differenze tra inesistenza e nullità. Differenza tra nullità e semplici irregolarità. La sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 19854/2004.

Casa Comunale:
– Il deposito degli atti presso la Casa comunale: gli obblighi del consegnatario.
– La consegna ad un richiedente diverso dal destinatario.
Albo Pretorio;
– La pubblicazione degli atti.
La notifica a militari in attività di servizio.
La notifica a mezzo del servizio postale, ex L. 890/82:
– Raccomandata A.R. equiparata, per gli effetti, alla notificazione.
La disciplina della notificazione degli atti tributari.
La figura del Messo comunale:
– La responsabilità civile e penale del Messo comunale.
Rimborso spese di notifica:
– Richiesta rimborso spese di notifica trimestrale.
Modulistica e casi pratici.
L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line su questo sito web nell’area Attività a cui dovrà seguire il versamento della quota di partecipazione al Corso e l’invio via fax del modulo di adesione al corso per conferma.


Corso di aggiornamento Fasano giovedì 31.01.2008

Corso di Aggiornamento

Giovedì 31 gennaio 2008 ore 9:15- 17:00
Comune di Fasano (BR)
Palazzo di Città

Piazza Ciaia 1

Con il patrocinio del Comune di Fasano

Quote di partecipazione al corso:
Soci A.N.N.A.: € 180,00 (Iscritti alla data del 31.12.2007 e rinnovo per l’anno 2008 alla data del 15.01.2008)(*) (**)
Non iscritti ad A.N.N.A.: € 220,00 comprensivi della quota di iscrizione all’Associazione (*)(**)
Non iscritti ad A.N.N.A.: € 250,00 oltre I.V.A (*) (**)

La quota di iscrizione dovrà essere versata entro la data di effettuazione del Corso, tramite :
Conto Corrente Postale n. 55115356
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Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Poste Italiane])

Intestato a:
Associazione Nazionale Notifiche Atti
Codice fiscale: 93164240231
P.IVA: 03558920231

Causale: Corso Fasano 2008
(*) Se la fattura è intestata ad Ente Pubblico, la quota è esente IVA, ai sensi dell’art. 10, D.P.R. n. 633/72 e successive modificazioni,

(**) Le quote di iscrizione si intendono al netto delle spese bancarie e/o postali che sono a carico di chi effettua il versamento.

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Boscoli Alberto

Resp. Messi comunali del Comune di San Lazzaro di Savena (BO)

Programma
Le novità contenute della Finanziaria 2007 in merito ai soggetti legittimati alla notificazione
Il procedimento notificatorio fiscale dopo le modifiche introdotte dal Decreto Bersani (Legge n. 248/2006)
Le modifiche al procedimento notificatorio introdotte dalla L. n. 263/2005
Il Codice della Privacy e la sua influenza sul procedimento notificatorio
I principi fondamentali del procedimento notificatorio e le sentenze della Corte Costituzionale n. 477/2002 2 n. 28/2004
Comunicazioni e notificazioni: differenze.
La notificazione e il procedimento notificatorio.
Il principio della consegna.
I soggetti del procedimento notificatorio:
Il soggetto richiedente la notifica;
I soggetti intermediari ed ausiliari;
I destinatari ed i consegnatari.
Il luogo della notificazione: residenza, dimora e domicilio; sede legale e sede amministrativa.
Le forme della notificazione:
Il procedimento notificatorio secondo il Codice di procedura civile;
La notifica a mani proprie;
Il rifiuto di ricevere l’atto da parte del destinatario;
La notifica nella residenza, dimora o domicilio del destinatario;
L’irreperibilità del destinatario ed il rifiuto di riceverla copia dell’atto da parte di altri consegnatari;
La notificazione a persona non residente, ne domiciliata nella Repubblica Italiana;
La notifica a persona di cui è sconosciuta la residenza, la dimora o il domicilio;
La notifica presso il domiciliatario:
La notifica alle Amministrazioni dello Stato;
La notifica a militari in attività di servizio;
La notifica per pubblici proclami;
Le forme speciali di notifica ordinate dal Giudice;
La notifica dei documenti informatici:
La notificazione a soggetti diversi dalle persone fisiche: notifica a società, enti, istituzioni, associazioni con o senza personalità giuridica.
Il tempo delle notificazioni
La relata di notifica: funzione e contenuto. Valore probatorio: difformità tra originale e copia dell’atto notificato.
Nullità e sanatoria delle notificazioni:
Differenze tra inesistenza e nullità.
Differenza tra nullità e semplici irregolarità.
La responsabilità dell’Agente notificatore anche in conseguenza del mancato rispetto delle norme a tutela della Privacy.
Il deposito degli atti presso la Casa Comunale: gli obblighi del consegnatario. La consegna ad un richiedente diverso dal destinatario.
La pubblicazione degli atti: coordinamento con le normative in materia di riservatezza e di tutela della dignità.
La notifica a mezzo del servizio postale: differenze tra notificazione ex lege n. 890/1982 e raccomandata A.R. equiparata, per gli effetti, alla notificazione.
Procedimento notificatorio del processo amministrativo e procedimento notificatorio di atti non processuali.
La notificazione di atti conseguenti a violazioni del Codice della strada.
La disciplina degli atti tributari:
Gli atti tributari erariali;
Gli atti tributari delle Regioni, delle Province e dei Comuni.
La notificazione nel processo tributario
La notificazione degli atti di riscossione tributaria
La figura del Messo comunale:
I compiti e le funzioni. L’autonomia organizzativa dei Comuni e la codipendenza funzionale del Messo comunale;
La responsabilità civile, penale e amministrativa.
I diritti e le spese di notificazione: evoluzione normativa e interventi della prassi ministeriale.
Modulistica e casi pratici.

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Cass. civ. Sez. V, (ud. 03-10-2007) 03-12-2007, n. 25158

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. CICALA Mario – Consigliere

Dott. SCUFFI Massimo – rel. Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA ASIAGO 8, presso lo studio dell’avvocato AURELI STANISLAO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA generale dello STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 156/01 della Commissione tributaria regionale di BOLOGNA, depositata il 16/07/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/10/07 dal Consigliere Dott. Massimo SCUFFI;

udito per il ricorrente l’Avvocato AURELI, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato GUIZZI, dell’Avvocatura dello Stato, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
T.M. impugnava due cartelle esattoriali IRPEF-ILOR-SSNN per gli anni di imposta 1991 e 1992 emesse su avvisi di accertamento divenuti definitivi chiedendone annullamento per difetto di motivazione e – con deduzioni aggiunte – invalidità di notifica degli atti presupposti.

La Commissione tributaria provinciale di Rimini accoglieva il ricorso ma la decisione veniva riformata dalla Commissione regionale di Bologna che – accogliendo l’appello dell’Ufficio – dopo aver precisato che i ruoli erano stati eseguiti in osservanza del disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 14, lett. b – osservava che le cartelle (rectius gli avvisi) erano stati consegnati presso l’abitazione della contribuente a mani della “zia addetta alla casa” e dunque di persona di famiglia in senso ampio che tale qualificatasi ne aveva accettato senza riserve la notificazione.

Dal ché discendeva la legittimità dell’operata iscrizione a ruolo in virtù di accertamenti resisi definitivi per omessa impugnazione.

Ricorre per la cassazione della sentenza il contribuente svolgendo 8 motivi di gravame.

Motivi della decisione
1. Va preliminarmente affrontato il motivo sub “c” con il quale viene denunziata violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2 e art. 22, comma 2 – 3 indicando l’atto d’appello solo l’esistenza dell’autorizzazione ad appellare non allegata agli atti e difettando – nella copia spedita – della certificazione di conformità all’originale.

La duplice censura è priva di pregio perché il provvedimento autorizzazione risulta ritualmente depositato ed allegato agli atti del fascicolo di 2^ grado, fermo restando il principio più volte affermato dal questa Corte secondo cui la produzione della autorizzazione – che costituisce presupposto processuale per l’ammissibilità del gravame – può avvenire in ogni momento del giudizio di impugnazione fino all’udienza di discussione (Cass. 4040/04 e Cass. 12702/04).

Va poi soggiunto che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3 richiamato, per il giudizio di appello, dall’art. 53, che disciplina il deposito nella segreteria della commissione tributaria adita della copia del ricorso notificato mediante consegna o spedizione a mezzo del servizio postale, va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra il documento depositato ed il documento notificato, ma solo la loro effettiva difformità, nella specie né rilevata dal giudice di merito nè mai dedotta dalla parte interessata in quel grado (Cass. 17180/04).

2. Con il motivo iniziale (sub “a”) la contribuente denunzia violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49 e 55, artt. 112 e 329 c.p.c., oltre a vizi di motivazione non avendo i giudici di appello tenuto presente dell’acquiescenza prestata dall’Agenzia delle entrate sul vizio di motivazione rilevato dai giudici di prime cure in via assorbente per cui le cartelle – quand’anche precedute da rituali notifiche degli avvisi di accertamento – restavano comunque nulle per difetto di motivazione. Aggiungeva – in alternativa – (sub “b”)che qualora la sentenza avesse argomentato implicitamente sul punto – restava comunque affetta da omessa motivazione al riguardo.

La deduzione è infondata posto che la Commissione regionale si è espressa compiutamente sul devolutimi ritenendo – in conformità all’appello dell’Ufficio – che le cartelle non erano atti di accertamento ex nova bensì atti applicativi di precedenti avvisi mai impugnati e resisi pertanto definitivi sicché non necessitavano di alcuna motivazione in quanto era da intendersi già conosciuta la presupposta pretesa fiscale poi iscritta a ruolo tramite le anzidette cartelle.

Infatti, a fronte dell’eccepito vizio di motivazione delle cartelle sotto il profilo dell’omessa menzione di qualsiasi indicazione o riferimento da cui fosse consentito al contribuente una verifica dei presupposti della iscrizione a ruolo, l’Amministrazione ha replicato che l’omessa dizione sulla derivazione del titolo a seguito di controllo formale della dichiarazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 ter, dipendeva dal fatto che non quella situazione originavano bensì dalla definitività degli accertamenti così come stabilito dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 14, lett. b.

Nè sostengasi – come contestato sub “e” – che vi sarebbe stata violazione dei principi regolatori del contraddittorio dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi L. n. 241 del 1990, ex art. 3, lett. d del diritto di difesa ex art. 24 Cost. per aver l’Ufficio esplicitato la sua pretesa (e cioè che la emissione della cartella era conseguenza di pregressi avvisi di accertamento definitivi) a processo già avviato per cui al momento dell’instaurazione del giudizio tali cartelle dovevano o ritenersi immotivate. Invero, pur avendo il processo tributario natura impugnatoria, nel senso che deve essere necessariamente introdotto attraverso l’impugnazione di specifici atti, lo stesso ha per oggetto il rapporto obbligatorio tributario ed in tale sede contenziosa va esercitato il diritto di difesa che non risulta nella specie minimamente compromesso vuoi per la natura estremamente elementare dell’atto (quando la cartella di pagamento fa seguito ad un avviso di accertamento divenuto definitivo si esaurisce in una mera intimazione di pagamento della somma dovuta in base all’avviso e non integra un nuovo ed autonomo atto impositivo) vuoi per aver il ricorrente – a fronte delle controdeduzioni dell’ufficio in merito alla sua derivazione – depositato memoria di integrazione dei motivi ivi svolgendo le ulteriori eccezioni qui riproposte sulla nullità della notifica dei presupposti avvisi di accertamento.

3. Il motivo principale (sub “d”) gravità sulla asserita violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 184 bis c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24 nonché della normativa in tema di notificazioni posto che la persona ricevente gli avvisi di accertamento solo occasionalmente si sarebbe trovata in loco per accudire i figli della ricorrente ma non era né convivente né addetta alla casa come erroneamente indicato dall’ufficiale notificatore le cui attestazioni erano assistite da pubblica fede solo per quanto di sua diretta percezione e non per le indicazioni da altri fornitegli o da semplici informazioni assunte.

Anche questa censura è inconsistente alla luce delle insindacabili constatazioni di fatto della Commissione regionale che ha verificato che tali avvisi erano stati ritualmente notificati nell’abitazione del contribuente con consegna a mai di soggetto qualificatosi zia addetta alla casa che in tale qualità li aveva sottoscritti.

Invero in caso di notificazione ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2, la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” sulla base dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica (che fa fede fino a querela di falso di quanto dichiarato avvenuto in sua presenza), incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la veridicità di quelle attestazioni l’onere di fornire la prova contraria ed, in particolare, di allegare e provare l’inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario, comportante una delle qualità su indicate, ovvero la occasionalità della presenza dello stesso consegnatario (Cass. 16164/03).

Circostanze queste asserite ma mai dimostrate dal contribuente.

4. Inconferenti sono poi i motivi sub “f” (violazione del D.P.R. n. 602 del 1873, art. 25, in quanto dalla lettura delle cartelle non sarebbe stato possibile ricostruire l’esattezza dei calcoli operati per la quantificazione degli importi iscritti a ruolo) e sub “g” (violazione del principio del favor rei D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 3, non avendo la Commissione regionale considerato lo ius superveniens in materia sanzionatoria tributaria): il 1^ perché privo di specificità non riportando neppure il contenuto delle cartelle il cui riscontro contabile era piuttosto da rinvenire nei presupposti accertamenti; il 2^ perché egualmente privo di autosufficienza stante l’estrema genericità dell’invocato ricalcolo delle sanzioni tra l’altro mai dedotto in grado di appello quando già era vigente la relativa disciplina.

5. Inammissibile – alla luce delle argomentazioni che precedono – è infine l’ultimo motivo (sub “h”) che lamenta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, basandosi il metodo di accertamento induttivo adottato su criteri del tutto arbitrali e difettando quelle gravi omissioni o false indicazioni sulle scritture contabili che potevano giustificarli.

Trattasi di contestazioni di merito che andavano fatte falere con tempestivo ricorso avverso gli avvisi di accertamento che quei metodi e criteri avevano adottato e che – ovviamente – non possono essere recuperati con l’impugnazione delle cartelle per vizi che non sono propri delle medesime.

6. Il ricorso va conclusivamente rigettato e la ricorrente condannata a rifondere le spese del presente giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
LA SUPREMA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere le spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 1100,00 (di cui Euro 1000,00 per onorario) oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2007.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2007


Riunione Consiglio Generale del 1.12.2007

Ai sensi dell’Art. 13 dello Statuto, viene convocata la riunione del Consiglio Generale che si svolgerà sabato 1 dicembre p.v. alle ore 09:00 presso l’Hotel Elite – Via Saffi 36 – Bologna (tel. 051.6459011), in prima convocazione, e alle ore 11:00 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:

  1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione;
  2. Problematiche relative all’applicazione delle normative vigenti nel Procedimento Notificatorio;
  3. Iniziative proselitismo Associazione;
  4. Programma attività dell’Associazione per l’anno 2008;
  5. Varie ed eventuali

Leggi: Verbale CG 01 12 2007


Incontro con il Ministro della Giustizia

Si terrà il 30.11.2007 a Roma l’incontro al Ministero della Giustizia tra l’Associazione e il Ministro Sen. Clemente Mastella.
L’incontro verterà in particolar modo sulla situazione dei Messi Comunali e l’istituzione della nuova figura dell’Agente Notificatore


Riunione Giunta Esecutiva del 13.11.2007

Atti della riunione della Giunta Esecutiva del 13 novembre 2007 svoltasi a Padova

Vedi: Verbale GE 13 11 2007


Corte di Cassazione: Circolari Agenzia delle Entrate non vincolanti

Con Sentenza 9 ottobre 2007, n. 23031 (depositata il 2 novembre 2007) le Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione hanno affermato che le Circolari con le quali l’Agenzia delle Entrate interpreta una norma giuridica in ambito tributario non sono vincolanti in quanto esprimono esclusivamente un parere dell’Amministrazione finanziaria.

Secondo la Corte, la Circolare, anche se impartisce direttive agli uffici gerarchicamente subordinati affinché si uniformino ad essa, può essere disattesa sia dagli stessi uffici dell’Agenzia, che dal contribuente; questi, viceversa, non può impugnarla ne davanti al giudice amministrativo ne davanti al giudice tributario, in quanto non si tratta di un atto generale di imposizione o di esercizio di potestà impositiva.

In particolare, rileva la Corte, un Provvedimento non può considerarsi illegittimo per violazione di quanto affermato nella Circolare. Se l’interpretazione contenuta nella Circolare è corretta, il Provvedimento sarà illegittimo per violazione di legge, in caso contrario, esso sarà legittimo.


Atti fiscali: notifica anche per i non residenti (A.I.R.E.)

La Corte Costituzionale, con Sentenza 24 ottobre 2007, n. 366 (depositata il 7 novembre 2007), ha ritenuto ammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto di cui agli artt. 58 e 60,  D.P.R. n. 600/1973 e art. 26, D.P.R. n. 602/1973 in quanto violano i precetti costituzionali posti a garanzia della tutela dell’effettiva e tempestiva conoscenza degli atti da parte del destinatario.

Secondo la Corte Costituzionale la conoscibilità degli atti fiscali deve essere garantita anche ai contribuenti residenti all’estero. Le norme in oggetto, invece, dispongono che nel caso di notificazione ad un residente all’estero, non debbano applicarsi le norme di cui all’art. 142, C.p.c


Diritto di accesso agli atti amministrativi e privacy

Il Consiglio di Stato fissa un punto di equilibrio tra l’interesse all’informazione, che si realizza attraverso l’esercizio del diritto di accesso alla documentazione amministrativa e costituisce esplicazione dei valori di trasparenza ed imparzialità dell’azione amministrativa e quello alla riservatezza dei soggetti terzi, tutelato dal legislatore nella normativa sulla privacy.

Consiglio di Stato Sentenza, Sez. V, 29/09/2007, n. 4999

La sentenza del Consiglio di Stato affronta il problema dell’apparente conflitto tra l’interesse all’informazione, che si realizza attraverso l’esercizio del diritto di accesso alla documentazione amministrativa e costituisce esplicazione dei valori di trasparenza ed imparzialità dell?azione amministrativa e quello alla riservatezza dei soggetti terzi, che inerisce alla sfera degli assetti privatistici e si traduce, nella necessità di garantire la segretezza dei c.d. dati sensibili, quali risultano individuati e definiti dal legislatore nella normativa sulla privacy.

Ad agire è infatti una associazione di volontariato con finalità statutaria la difesa degli animali e la lotta al randagismo, la quale si doleva che il TAR aveva riconosciuto il suo diritto di accesso agli atti amministrativi della ASL competente, relativi ad un Canile, ma con le cautele dettate dall’esigenza di salvaguardare la riservatezza dei terzi, ai sensi della legge sulla protezione dei dati personali. In ottemperanza a tale decisione la Asl aveva fornito soltanto pochi dati, generici e anonimi: in pratica dati non sufficienti ad accertare eventuali condotte illegittime.

La associazione lamenta, insomma, la insufficiente realizzazione del suo diritto alla informazione, diritto strumentale alla tutela degli interessi statutariamente perseguiti. Ciò contrasterebbe con la giurisprudenza amministrativa che ha riconosciuto che la tutela della riservatezza dei soggetti terzi è destinata a recedere allorché l’accesso sia esercitato per la difesa di un interesse giuridico (Cons. Stato, Sez. VI, 20 aprile 2006, n. 2223).

Il Consiglio di Stato ritiene tuttavia che il bilanciamento tra i due valori vada effettuato caso per caso, in modo da garantire, da un lato, la difesa di un interesse giuridicamente rilevante, ancorché nei limiti in cui l’accesso sia effettivamente necessario alla tutela di quell’interesse (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 2 ottobre 2006, n. 5718) e, dall’altro, in modo da salvaguardare, ove ciò risulti (e fino a quando risulti) possibile tutelare il diritto alla riservatezza, al quale la legge riconosce ugualmente una particolare tutela.

Nel caso contemplato, in definitiva, il principio stabilito nella sentenza impugnata del TAR poteva ritenersi corretto: atteso che si era ordinato di consentire in via generale l’accesso ai documenti, solo salvaguardando l’esigenza delle riservatezza attraverso meccanismi che rendessero non conosciuti i nominativi dei terzi coinvolti.

L’inconveniente denunciato dalla Associazione (ostruzionismo e consenso all’accesso di soli dati generici e limitati, oltre che anonimi) non è quindi la conseguenza di un errata decisione del Tar, ma, al contrario della sua elusione da parte della Asl intimata; per questa parte la associazione potrà agire con il giudizio di ottemperanza per ottenere l’accesso a una più ampia serie di dati.

Per la individuazione dei responsabili invece, ipotizzandosi atti di rilevanza penale, lo schermo della riservatezza potrà essere superato dall’Autorità Giudiziaria in sede di procedimento e processo penale.

Alberto Marcheselli, Magistrato e Professore a contratto di Diritto Tributario presso l’Università degli Studi di Torino
Tratto da Quotidiano Giuridico Ipsoa 2007


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 09-10-2007) 02-11-2007, n. 23031

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente di Sezione

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Consigliere

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Consigliere

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Consigliere

Dott. TRIFONE Francesco – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

C.V., G.G., L.C.B., L.G., R.G., V.G., elettivamente domiciliati in Roma, via Portuense 104, presso Antonia De Angelis, rappresentati e difesi dall’avv. DE LUCA Donato giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n. 255/06 del 12 gennaio 2006, depositata il 26 maggio 2006, notificata il 19 marzo 2007;

Udito l’avv. Gianni De Bellis per l’Avvocatura Generale dello Stato e l’avv. Donato De Luca per i controricorrenti;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 9 ottobre 2007 dal Consigliere Dott. Raffaele Botta;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale che ha concluso per il rigetto del ricorso e per la dichiarazione della giurisdizione del giudice amministrativo.

Svolgimento del processo
La controversia origina dalla impugnazione, proposta innanzi al TAR Catania dalle odierne parti controricorrenti in proprio e quali associati al centro Studi Notariato di Catania, avverso la Circolare del 31 maggio 2005 prot. n. 2005/3.0/25079 emessa dall’Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale per la Sicilia, avente ad oggetto “L.R. 26 marzo 2002, n. 2, recante Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2002. Art. 60, (Agevolazioni fiscali). Attività di recupero d’imposta. Direttiva agli Uffici”, nonchè degli atti richiamati nella circolare medesima, emessi dalla Direzione centrale normativa e contenzioso della stessa Agenzia, da ultimo ribaditi con nota del 23 marzo 2005, n. 53667, tutti riguardanti l’interpretazione della legge regionale siciliana indicata nell’oggetto. Con l’impugnazione era dedotta la violazione dell’art. 60 della predetta legge regionale e successive modifiche: tale norma agevolativa, con riferimento agli atti elencati nella L. n. 604 del 1954, art. 1, (tra i quali gli atti di compravendita immobiliare), avrebbe previsto, secondo l’assunto dei ricorrenti e al contrario di quanto si affermava da parte dell’Agenzia, l’applicabilità del beneficio anche agli atti di compravendita diversi da quelli preordinati alla formazione ed all’arrotondamento della proprietà contadina (come originariamente stabilito dalla L. n. 604 del 1954, citato art. 1).

Il TAR Catania, con sentenza n. 1075/05 del 7 giugno 2005, depositata il 28 giugno 2005, ritenuto ammissibile il ricorso e sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo (il cui difetto era stato eccepito dalla costituita Agenzia delle Entrate), accoglieva il ricorso stesso e annullava gli atti impugnati, ritenendo che la norma agevolativa disponesse il beneficio a favore di chiunque ponesse in essere uno degli atti elencati nella L. n. 604 del 1954, art. 1, comma 1, senza che occorresse far riferimento al fine perseguito dagli atti elencati e cioè alla ricomposizione della piccola proprietà contadina.

Avverso tale sentenza, l’Agenzia delle Entrate interponeva appello al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, riproponendo l’eccezione di difetto di giurisdizione e insistendo per l’infondatezza del ricorso originario. L’impugnazione era dichiarata improcedibile dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana per sopravvenuta carenza di interesse, stante l’approvazione di una norma di interpretazione autentica della disposizione oggetto di contestazione, contenuta nella L.R. Sicilia n. 19 del 2005, art. 20, comma 15, che così recitava: “Le agevolazioni di cui alla L.R. 26 marzo 2002, n. 2, art. 60, ed alla L.R. 16 aprile 2003, n. 4, art. 99, si applicano per tutti gli atti traslativi da chiunque posti in essere a partire dal 1 gennaio 2002 fino alla data del 31 dicembre 2006, alla sola condizione che abbiano ad oggetto terreni agricoli secondo gli strumenti urbanistici vigenti alla data di stipula dell’atto e loro pertinenze; il riferimento al primo comma della L. 6 agosto 1954, n. 604, art. 1, vale solo ai fini dell’individuazione delle tipologie di atti agevolati. La presente disposizione costituisce interpretazione autentica della L.R. 26 marzo 2002, n. 2, art. 60”.

L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe con unico motivo, denunciando il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo. Resistono con controricorso, illustrato anche con memoria, i Dott.ri C.V., G.G., L.C.B., L.G., R.G. e V.G..

Motivi della decisione
In via preliminare deve essere, d’ufficio, rilevata l’ammissibilità del ricorso.

La sentenza del Giudice amministrativo, impugnata dall’Agenzia delle Entrate, nonostante formalmente abbia dichiarato l’improcedibilità del ricorso, ha, in effetti, pronunciato sul merito del ricorso stesso, giacchè, essendo stato applicato alla fattispecie lo ius superveniens, tale applicazione si è risolta nel riconoscimento della pretesa dei ricorrenti (avente per oggetto l’eliminazione dell’atto ad essi sfavorevole): siffatta decisione, quindi, presuppone una implicita pronuncia sulla giurisdizione del giudice amministrativo che l’ha emessa, con la conseguenza che la sentenza – in quanto affetta, secondo la tesi dedotta dall’amministrazione ricorrente, da vizi, per essersi pronunciata (sia pur per implicito) su questioni sottratte alla cognizione di qualsiasi giudice, ovvero demandate ad un diverso ordine giurisdizionale – è ricorribile innanzi a queste Sezioni Unite essendo in discussione, senza che vi osti alcuna preclusione, una presunta violazione dei limiti esterni della giurisdizione.

Passando all’esame della questione di giurisdizione, occorre precisare che l’atto oggetto di impugnazione nel giudizio amministrativo è costituito da una circolare interpretativa dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Sicilia, con la quale l’amministrazione, con contestuale invio di una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, aveva interpretato la L.R. Sicilia 26 marzo 2002, n. 2, individuando quali fossero, a suo parere, le condizioni che dovevano sussiste per la concessione delle agevolazioni dalla stessa legge previste.

Per la sua natura e per il suo contenuto (di mera interpretazione di una norma di legge), non potendo esserle riconosciuta alcuna efficacia normativa esterna, la circolare non può essere annoverata fra gli atti generali di imposizione, impugnabili innanzi al giudice amministrativo, in via di azione, o disapplicabili dal giudice tributario od ordinario, in via incidentale. Il che rileva, in primo luogo, sul piano generale, perché le circolari, come è stato affermato dalla dottrina prevalente, non possono nè contenere disposizioni derogative di norme di legge, né essere considerate alla stregua di norme regolamentari vere e proprie, che, come tali vincolano tutti i soggetti dell’ordinamento, essendo dotate di efficacia esclusivamente interna nell’ambito dell’amministrazione all’interno della quale sono emesse; e, in secondo luogo, con particolare riferimento all’ordinamento tributario, il quale come è noto, è soggetto alla riserva di legge. D’altra parte, per quanto concerne la dottrina specialistica, coloro che non concordano con una simile generale impostazione, pervengono, in definitiva, alla medesima conclusione, perché sostengono che l’irrilevanza normativa delle circolari dal punto di vista del sistema tributario significa che le stesse sono inidonee, in quanto contenenti norme interne, ad operare all’esterno dell’ordinamento minore cui appartengono. Secondo i fautori di tale tesi dottrinaria, infatti, questa semplice premessa avrebbe il pregio di ridurre al rango di pseudo problema la questione della non impugnabilità in via autonoma delle circolari: proprio perché rilevanti all’interno di un ordinamento parziale (o sezionale), esse non possono essere prese in considerazione dall’ordinamento generale, cui, invece, appartiene – per definizione – il potere giurisdizionale.

Anche la giurisprudenza ha da tempo espresso analoga opinione sulla inefficacia normativa esterna delle circolari. A quest’ultime, infatti, è stata attribuita la natura di atti meramente interni della pubblica amministrazione, i quali, contenendo istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali o gerarchicamente superiori agli enti o organi periferici o subordinati, esauriscono la loro portata ed efficacia giuridica nei rapporti tra i suddetti organismi ed i loro funzionari. Le circolari amministrative, quindi, non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all’amministrazione, nè acquistare efficacia vincolante per quest’ultima, essendo destinate esclusivamente ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti, senza poter incidere sul rapporto tributario, tenuto anche conto che la materia tributaria è regolata soltanto dalla legge, con esclusione di qualunque potere o facoltà discrezionale dell’amministrazione finanziaria (in questa prospettiva cfr. Cass., Sez. 1^, 25 marzo 1983, n. 2092 e 17 novembre 1995, n. 11931; Cass. Sez. 5^, 10 novembre 2000, n. 14619 e del 14 luglio 2003 n. 11011).

Questi risultati interpretativi vanno condivisi alla stregua delle seguenti considerazioni.

1) La circolare emanata nella materia tributaria non vincola il contribuente, che resta pienamente libero di non adottare un comportamento ad essa uniforme, in piena coerenza con la regola che in un sistema tributario basato essenzialmente sull’auto tassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata (almeno in una prima fase, quella, appunto, della determinazione dell’imposta da corrispondere) direttamente al contribuente.

2) La circolare nemmeno vincola, a ben vedere, gli uffici gerarchicamente sottordinati, ai quali non è vietato di disattenderla (evenienza, questa, che, peraltro, è raro che si verifichi nella pratica), senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall’ufficio (atto impositivo, diniego di rimborso, ecc.) possa essere ritenuto illegittimo “per violazione della circolare”: infatti, se la (interpretazione contenuta nella) circolare è errata, l’atto emanato sarà legittimo perché conforme alla legge, se, invece, la (interpretazione contenuta nella) circolare è corretta, l’atto emanato sarà illegittimo per violazione di legge.

3) La circolare non vincola addirittura la stessa autorità che l’ha emanata, la quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere l’interpretazione adottata. Ciò è tanto vero che si è posto il problema della eventuale tutela del contribuente di fronte al mutamento di indirizzo (interpretativo) adottato dall’amministrazione e si è escluso che tale tutela sia possibile anche sotto il profilo dell’affidamento, stante la evidente collisione che si determinerebbe con il principio – coniugato secondo un diverso lessico, ma riferito ad un unico concetto – di inderogabilità delle norme tributarie, di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, di vincolatezza della funzione di imposizione, di irrinunciabilità del diritto di imposta. Non si può, al riguardo, non concordare con quella autorevole dottrina che sostiene che, ammettere che l’amministrazione, quando esprime opinioni interpretative (ancorché prive di fondamento nella legge), crea vincoli per sè e i Giudici tributari, equivale a riconoscere all’amministrazione stessa un potere normativo che, a tacer d’altro, è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge codificato dall’art. 23 Cost.. Tutt’al più, come è stato pure affermato, potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell’amministrazione di un precedente indirizzo (interpretativo) sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, eventualmente rilevi (o possa esse valutato) ai fini della applicazione delle sanzioni.

4) La circolare non vincola, infine, come già si è detto, il Giudice tributario (e, a maggior ragione, la Corte di Cassazione) dato che per l’annullamento di un atto impositivo emesso sulla base di una interpretazione data dall’amministrazione e ritenuta non conforme alla legge, non dovrà essere disapplicata la circolare, in quanto l’ordinamento affida esclusivamente al Giudice il compito di interpretare la norma (del resto, al Giudice tributario è attribuita, nella materia tributaria, la giurisdizione esclusiva). In tal caso non può non concordarsi con una autorevole dottrina secondo la quale, ammettere l’impugnabilità della circolare interpretativa innanzi al giudice amministrativo – con la possibilità per quest’ultimo di annullarla, peraltro con effetto erga omnes – significherebbe precludere a tutti gli uffici dell’amministrazione finanziaria di accogliere quella interpretazione, con il risultato – contrario ai principi costituzionali – di elevare il Giudice amministrativo al rango di interprete autentico della norma tributaria.

In realtà, la circolare interpretativa esprime, come è stato efficacemente detto, una “dottrina dell’amministrazione”, vale a dire l’opinione di una parte (anche se “forte”) del rapporto tributario, che, peraltro, può essere discussa e disattesa dal giudice tributario. E, qualora il giudizio di quest’ultimo corrisponda al parere espresso dall’amministrazione, caso sarà pur sempre l’interpretazione del giudice che avrà esclusivo valore ed efficacia.

L’irrilevanza, nel senso fin qui spiegato, della circolare interpretativa in materia tributaria è stata, indirettamente, confermata da una recente sentenza della Corte Costituzionale – la n. 191 del 14 giugno 2007 – a proposito di un atto che sembrerebbe avere rispetto alla circolare, un “valore più cogente”, dato il suo carattere “intersoggettivo”, e cioè la risposta dell’Agenzia delle Entrate ad una istanza di interpello L. 27 luglio 2000, n. 212, ex art. 11, (c.d. “Statuto del contribuente”).

La norma, come è noto, prevede che il contribuente possa “inoltrare per iscritto all’amministrazione finanziaria, che risponde entro cento venti giorni, circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse” (art. 11, comma 1): “la risposta dell’amministrazione finanziaria, scritta e motivata, vincola con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza di interpello, e limitatamente al richiedente” (art. 11, comma 2). Orbene, la Corte costituzionale, affermato che “l’istituto dell’interpello del contribuente, regolato dalla L. n. 212 del 2000, art. 11, costituisce lo strumento attraverso il quale si esplica in via generale l’attività consultiva delle agenzie fiscali in ordine all’interpretazione delle disposizioni tributarie”, evidenzia che il parere espresso nella risposta “è vincolante soltanto per l’amministrazione e non anche per il contribuente, il quale resta libero di disattenderlo”: “coerentemente con la natura consultiva dell’attività demandata all’Agenzia delle entrate nella procedura di interpello, l’art. 11, non prevede, invece, alcun obbligo per il contribuente di conformarsi alla risposta dell’amministrazione finanziaria, nè statuisce l’autonoma impugnabilità di detta risposta davanti alle commissioni tributarie (oggetto di impugnazione può essere, eventualmente, solo l’atto con il quale l’amministrazione esercita la potestà impositiva in conformità all’interpretazione data dall’agenzia fiscale nella risposta all’interpello)”: sicchè deve ritenersi che “la risposta all’interpello, resa dall’amministrazione ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 11, deve considerarsi un mero parere, che non integra alcun esercizio di potestà impositiva nei confronti del richiedente”. Conclusione, codesta, che deve essere assunta anche riguardo alla circolare emanata dall’amministrazione.

Alla luce delle considerazioni svolte può, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: “La circolare con la quale l’Agenzia delle Entrate interpreti una norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati perché vi si uniformino, esprime esclusivamente un parere dell’amministrazione non vincolante per il contribuente, e non è, quindi, impugnabile né innanzi al Giudice amministrativo, non essendo un atto generale di imposizione, nè innanzi al giudice tributario, non essendo atto di esercizio di potestà impositiva”. Va, pertanto, dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione con la conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata. La particolarità e complessità della fattispecie giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara il difetto assoluto di giurisdizione. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 ottobre 2007.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2007


NOTIFICA RICEVUTA DALL’INCARICATO DEL DIFENSORE IN LUOGO DIVERSO DALLO STUDIO RISULTANTE AGLI ATTI

SENTENZA NOTIFICA RICEVUTA DALL’INCARICATO DEL DIFENSORE IN LUOGO DIVERSO DALLO STUDIO RISULTANTE AGLI ATTI

La Corte di Cassazione – Sezione Prima Civile, Sentenza 20 ottobre 2007, n. 21291 si è posta in consapevole contrasto contro il proprio orientamento espresso con Sentenza 26844/2006, che aveva ritenuto inammissibile il ricorso in cassazione qualora la notifica nel domicilio del procuratore intimato, non costituito in giudizio, diverso da quello eletto nel giudizio “a quo”, non sia accompagnata dalla documentazione comprovante il nuovo domicilio.
Secondo la Cassazione, “una tale conclusione può giustificarsi infatti nell’ipotesi in cui la notifica presso il domicilio dichiarato nel giudizio di merito non abbia avuto buon fine, come del resto più volte la giurisprudenza ha affermato (Cass. 14033/2005; Cass. 8287/2002; Cass. 2740/1998) e non già allorché, come nel caso in esame, abbia avuto invece esito positivo, dovendosi in tal caso, nel quadro di una interpretazione che privilegi, come si è osservato, il riferimento personale rispetto a quello topografico, desumere dal ricevimento dell’atto operato dallo stesso difensore (o dal suo incaricato) la corrispondenza del luogo indicato nella relata con il suo nuovo domicilio. In sostanza, in tal caso è lo stesso difensore domiciliatario a confermare con il ricevimento dell’atto, sia pure attraverso un suo incaricato, attestato dall’ufficiale giudiziario, l’avvenuto mutamento del domicilio nel luogo in cui è avvenuta”.
Secondo il nuovo orientamento della Cassazione, dunque: “anche se eseguita in luogo diverso da quello indicato dal domiciliatario e pur in assenza di alcuna indicazione negli atti processuali, in cui non risulta nemmeno un’eventuale comunicazione all’Ordine degli Avvocati da parte del destinatario, la notifica a mani della persona “addetta al ritiro” deve ritenersi perfettamente valida, dovendosi privilegiare il riferimento personale su quello topografico in quanto, ai fini della notifica dell’impugnazione ai sensi dell’art. 330 C.P.C., l’elezione di domicilio presso lo studio del procuratore assume la mera funzione di indicare la sede dello studio ed è priva di una sua autonoma rilevanza. …