Corte Suprema di Cassazione. civ. Sez. lavoro, Sentenza, 07-02-2014, n. 2837

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 24426-2010 proposto da:

D.C. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati QUATTROMINI GIULIANA e QUATTROMINI PAOLA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNILEVER ITALIA S.R.L. C.F. (OMISSIS);

– intimata –

Nonchè da:

UNILEVER ITALIA MANUFACTORING S.R.L., già SAGIT S.R.L., incorporata nella UNILEVER ITALIA S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE TUPINI 133, presso lo studio dell’avvocato BRAGAGLIA ROBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato GOMEZ D’AYALA GIULIO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

D.C. C.F. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 4667/2010 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 21/06/2010 r.g.n. 1375/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per il rigetto di entrambi in subordine alle S.U..

Svolgimento del processo
D.C. ha dedotto di aver lavorato alle dipendenze della società SAGIT come addetto alla lavorazione di gelati e surgelati, obbligato ad indossare una tuta, scarpe antinfortunistiche copricapo e indumenti intimi forniti dall’azienda, e a presentarsi al lavoro 15/20 minuti prima dell’inizio dell’orario di lavoro aziendale; solo dopo aver indossato tali abiti ed essere passato da un tornello con marcatura del badge poteva entrare nel luogo di lavoro accedendo al reparto dove una macchina bollatrice rilevava l’orario di ingresso.

Tali operazioni si ripetevano al termine dell’orario di lavoro per dismettere gli indumenti indossati.

Il ricorrente ha chiesto il pagamento delle differenze retributive dovute per il tempo di tali prestazioni, a titolo di compenso per lavoro straordinario e in via subordinata come compenso per lavoro ordinario.

Costituitosi il contraddittorio con la Unilever Italia s.r.l., (già SAGIT s.r.l.) Il Tribunale di Napoli ha rigettato la domanda. Con la sentenza oggi impugnata la Corte di Appello di Napoli ha riformato tale decisione, condannando la società datrice di lavoro al pagamento di Euro 4.910,90 oltre accessori.

Il giudice dell’appello ha riconosciuto il diritto del dipendente alla retribuzione per il tempo impiegato nelle operazioni di vestizione e svestizione, considerandone il carattere necessario e obbligatorio per l’espletamento dell’attività lavorativa, e lo svolgimento sotto la direzione del datore di lavoro. Una diversa regolamentazione di tale attività non poteva essere ravvisata, sul piano della disciplina collettiva, dal “silenzio” delle organizzazioni sindacali sul problema del “tempo tuta”, nè da accordi aziendali intervenuti per la disciplina delle pause fisiologiche.

La sentenza impugnata ha determinato il tempo di tali attività, facendo ricorso a nozioni di comune esperienza, in dieci minuti per ognuna delle due operazioni giornaliere (vestizione e svestizione), commisurando quindi il compenso dovuto alla retribuzione oraria fissata dal contratto collettivo applicabile.

Rilevato che la pretesa azionata si riferiva al periodo dal 1996 al 2004, ha accolto l’eccezione di parziale prescrizione (quinquennale) sollevata da parte convenuta, tenuto conto della interruzione della prescrizione operata con lettera di messa in mora ricevuta il 28 maggio 2003. Non poteva invece essere valutata a tal fine, secondo la Corte di Appello, la richiesta di tentativo di conciliazione presentata anteriormente (in data 28 giugno 1999) alla Direzione Provinciale del Lavoro, che non risultava inoltrata alla società datrice di lavoro.

Avverso questa sentenza D.C. ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La società Unilever Italia Manufacturing s.r.l. resiste con controricorso e ricorso incidentale con quattro motivi.

Parte ricorrente principale ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione
1. Preliminarmente va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale.

Preliminarmente va disposta, ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ., la riunione del ricorso principale e del ricorso incidentale.

1.2 Nella memoria depositata ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ. la società Unilever Italia Manufacturing s.r.l., premesso che in data 25 gennaio 2002 le parti avevano sottoscritto in sede sindacale verbale di conciliazione con il quale avevano definito la controversia oggetto del ricorso ha chiesto dichiararsi cessata la materia del contendere. Allegato alla memoria ha depositato atto di notifica a controparte, nel domicilio eletto, del verbale di conciliazione sindacale.La richiesta non merita accoglimento. Questa Corte ha ripetutamente affermato che la cessazione della materia del contendere, quale riflesso processuale del venir meno della ragion d’essere sostanziale della lite per la sopravvenienza di un fatto suscettibile di privare le parti di ogni interesse a proseguire il giudizio, deve essere dichiarata dal giudice allorquando i contendenti si diano reciprocamente atto dell’intervenuto mutamento – ovvero della sopravvenuta caducazione – della situazione sostanziale oggetto della controversia e sottopongano conclusioni conformi in tal senso al giudice (v., tra le altre, Cass. 5 dicembre 2005 n. 26351, Cass. n. 22 maggio 2006 n 11931). E’ stato in particolare precisato che la cessazione della materia del contendere presuppone che: a) sopravvengano, nel corso del giudizio, eventi di natura fattuale o atti volontari delle parti idonei a determinare la totale eliminazione di ogni posizione di contrasto; b) vi sia accordo tra le parti sulla portata delle vicende sopraggiunte e sull’essere venuto meno ogni residuo motivo di contrasto; c) vi sia la dichiarazione di non voler proseguire la causa proveniente dalla parte personalmente ovvero dal suo difensore munito di procura ad hoc. (Cass. 8 novembre 2003 n. 16785).

Nel caso di specie tali presupposti non si sono verificati in quanto il verbale di conciliazione in sede sindacale risulta redatto in epoca molto risalente – 28 marzo 2001 – ed è quindi anteriore al deposito del ricorso per cassazione – il 27 ottobre 2010; difettano inoltre dichiarazioni successive delle parti di rinunciare al giudizio in corso.

2.1. Il ricorso principale investe la sola statuizione relativa alla decorrenza della prescrizione, censurata perchè non considera valido atto interruttivo la mera presentazione della richiesta di tentativo obbligatorio di conciliazione rivolta alla Direzione Provinciale del Lavoro.

Con il primo motivo si denuncia la violazione dell’art. 2943 cod. civ. e art. 410 cod. proc. civ., richiamando la giurisprudenza di questa Corte che connette gli effetti di interruzione della prescrizione e di sospensione dei termini di decadenza ex art. 410 c.p.p., comma 2 alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione.

2.2. Con il secondo motivo dello stesso ricorso principale, mediante la denuncia di violazione dell’art. 2729 cod. proc. civ., si lamenta che la sentenza impugnata non ha esaminato la possibilità di desumere una prova presuntiva dell’inoltro della comunicazione della suddetta richiesta al datore di lavoro dalla circostanza che richieste del genere vengono generalmente inoltrate dalla D.P.L.; e ciò anche perchè neppure la società UNILEVER aveva obiettato di aver ricevuto la comunicazione.

2.3. La stessa censura viene proposta con il successivo terzo motivo sotto il profilo del difetto di motivazione della sentenza impugnata.

2.4. Con il quarto motivo si denuncia la violazione dell’art. 421 c.p.p., comma 2 e art. 115 cod. proc. civ., rilevandosi che il lavoratore resta in possesso soltanto dell’istanza diretta alla D.P.L. con cui promuove il tentativo di conciliazione e non della conseguente comunicazione inoltrata al datore di lavoro dalla D.P.L., che rimane in possesso della prova della spedizione e ricezione dell’avviso. Il lavoratore si trova nella impossibilità di documentare la circostanza, sicchè sarebbe stato doveroso per la Corte di Appello esercitare i poteri officiosi ex art. 421 cod. proc. civ. per accertare la ricezione della convocazione da parte della società.

In via subordinata, si solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, in relazione agli artt. 24, 36 e 111 Cost. nella parte in cui connette l’interruzione della prescrizione alla ricezione da parte del datore di lavoro della comunicazione da parte della D.P.L. dell’avvenuta instaurazione del tentativo di conciliazione anzichè alla mera proposizione di tale richiesta da parte del lavoratore.

3.1. Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia una violazione della disciplina dei CCNL del settore industria alimentare e degli accordi aziendali del 16.11.1999, in relazione all’art. 2099 cod. civ. e art. 36 Cost., nonchè delle regole di cui all’art. 1362 ss. cod. civ., e difetto di motivazione.

La sentenza impugnata viene censurata per non aver valutato l’incidenza sull’assetto negoziale del rapporto della contrattazione collettiva, che secondo la parte esclude il pagamento di una retribuzione ulteriore del tempo impiegato sia per raggiungere i reparti, sia per indossare e togliere gli indumenti di lavoro, correlando la retribuzione dovuta al solo tempo della prestazione lavorativa effettiva.

La società, premesso che la determinazione quantitativa della retribuzione risulta soprattutto dalla disciplina collettiva, trae argomenti a sostegno della propria tesi dalle norme contrattuali in tema di durata e distribuzione dell’orario di lavoro e di riduzione dello stesso (correlata al godimento di riposi individuali) nonchè dalla clausola del CCNL applicabile che, imponendo all’azienda di destinare un locale a spogliatoio, dispone che questo debba rimanere chiuso durante l’orario di lavoro; tale previsione escluderebbe che il tempo da destinare alla vestizione possa rientrare nella prestazione lavorativa.

3.2. Con il secondo motivo si denunciano ancora un vizio di motivazione in ordine all’esame del contenuto della disciplina collettiva e la violazione delle regole di interpretazione dei contratti, sostenendosi che la Corte di Appello avrebbe erroneamente affermato l’esistenza di una norma imperativa che vieta l’assorbimento del tempo non lavorato destinato a pause fisiologiche, mentre l’accordo sindacale prevedeva per la fruizione delle pause proprio l’arco temporale intercorrente tra “l’avviamento e messa a regime della linea produttiva” (corrispondente all’inizio del turno) e la “predisposizione turno seguente” (corrispondente alla fine del turno) secondo uno schema di fruizione delle pause: si assume che tale regolamentazione assegna al personale un trattamento di miglior favore rispetto a quello previsto dal paradigma legale.

3.3. Con il terzo motivo, con la denuncia di violazione degli artt. 414 e 432 cod. proc. civ. e artt. 1226 e 2697 cod. civ. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, si censura la determinazione, ai fini dell’accoglimento della domanda, della durata delle operazioni di vestizione e svestizione. Tale statuizione, ad avviso della parte, è sostanzialmente immotivata, priva di una determinazione obiettiva e ragionevole, in assenza di insufficiente documentazione delle allegazioni del lavoratore, ed anche di qualsiasi dimostrazione della quotidiana presenza al lavoro. Si è ignorato che il rapporto di lavoro è stato interessato da assenze per malattie, infortuni, permessi ed altre vicende sospensive della prestazione.

3.4. Con il quarto motivo si denuncia di violazione di plurime norme di diritto, sostenendosi che secondo la disciplina di legge deve intendersi per orario di lavoro quello di effettivo svolgimento delle mansioni, “al netto di quello che il lavoratore impiega nello svolgimento di attività preparatorie”, in cui deve includersi il tempo che il lavoratore impiega per preparare se stesso e i propri strumenti allo svolgimento dell’attività lavorativa. Si fa riferimento a questo fine anche alla definizione di orario di lavoro dettata dal D.L.G.S. n. 66 del 2003, di attuazione della disciplina comunitaria, come “qualsiasi periodo in cui al lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore e nell’esercizio delle sue attività o delle sue funzioni”, per sostenere che nella fattispecie non potrebbe ravvisarsi un esercizio delle funzioni in assenza di una effettiva prestazione.

Si afferma poi che gli obblighi normativamente imposti al lavoratore (specie per il personale delle industrie alimentari) di indossare indumenti adeguati e se del caso protettivi, derivano dalla legge e non possono rientrare nell’ambito delle prerogative datoriali, gravando direttamente sul lavoratore; inoltre, che le operazioni in questione non erano predeterminate oggettivamente dal datore di lavoro, perchè il personale poteva effettuarle in un arco temporale di massima ovviamente collocato in un momento precedente l’inizio dell’orario di lavoro, ma sulla base di scelte del tutto personali da parte dei dipendenti.

I lavoratori avevano facoltà di accedere in azienda fino a 29 minuti prima dell’inizio del turno lavorativo, e potevano impiegare a loro piacimento questo intervallo temporale, come di gestire tempi e modi della vestizione. Si tratta, secondo la parte, della cosiddetta diligenza preparatoria in cui rientrano comportamenti che esulano di fatto dalla stretta funzionalità del sinallagma contrattuale.

4.1. Per ragioni di priorità logica devono essere esaminate in primo luogo le censure svolte nel ricorso incidentale, che investono con il primo, secondo e quarto motivo la questione del diritto alla retribuzione per il tempo occorrente ad indossare e dismettere gli indumenti di lavoro, con riferimento sia alla disciplina legale dell’orario di lavoro, sia alla regolamentazione collettiva applicabile. Tali motivi, che possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

4.2. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato, in relazione alla regola fissata dal R.D.L. 5 marzo 1923, n. 692, art. 3 – secondo cui “è considerato lavoro effettivo ogni lavoro che richieda un’occupazione assidua e continuativa” – il principio secondo cui tale disposizione non preclude che il tempo impiegato per indossare la divisa sia da considerarsi lavoro effettivo, e debba essere pertanto retribuito, ove tale operazione sia diretta dal datore di lavoro, il quale ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, ovvero si tratti di operazioni di carattere strettamente necessario ed obbligatorio per lo svolgimento dell’attività lavorativa: così, Cass. 14 aprile 1998 n. 3763, Cass. 21 ottobre 2003 n. 15734, Cass. 8 settembre 2006 n. 19273, Cass. 10 settembre 2010 n. 19358 (che riguarda una fattispecie analoga a quella del caso oggi in esame); v. anche Cass. 7 giugno 2012 n. 9215. E’ stato anche precisato (v. Cass. 25 giugno 2009 nn. 14919 e 15492) che i principi così enunciati non possono ritenersi superati dalla disciplina introdotta dal D.L.G.S. 8 aprile 2003, n. 66 (di attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE), il quale all’art. 1, comma 2, definisce “orario di lavoro” “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”; e nel sottolineare la necessità dell’attualità dell’esercizio dell’attività o della funzione lascia in buona sostanza invariati – come osservato in dottrina – i criteri ermeneutici in precedenza adottati per l’integrazione di quei principi al fine di stabilire se si sia o meno in presenza di un lavoro effettivo, come tale retribuibile, stante il carattere generico della definizione testè riportata. Criteri che riecheggiano, invero, nella stessa giurisprudenza comunitaria quando in essa si afferma che, per valutare se un certo periodo di servizio rientri o meno nella nozione di orario di lavoro, occorre stabilire se il lavoratore sia o meno obbligato ad essere fisicamente presente sul luogo di lavoro e ad essere a disposizione di quest’ultimo per poter fornire immediatamente la propria opera (Corte Giust. Com.

eur., 9 settembre 2003, causa C-151/02, parr. 58 ss.).

Tale orientamento (come osserva la citata Cass. n. 19358/2010) consente di distinguere nel rapporto di lavoro una fase finale, che soddisfa direttamente l’interesse del datore di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa (art. 2104 c.c., comma 2) ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, il quale ad esempio può rifiutare la prestazione finale in difetto di quella preparatoria. Di conseguenza al tempo impiegato dal lavoratore per indossare gli abiti da lavoro (tempo estraneo a quello destinato alla prestazione lavorativa finale) deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva.

Il giudice dell’appello si è attenuto a questi principi, avendo accertato che le operazioni di vestizione e svestizione si svolgevano nei locali aziendali prefissati e nei tempi delimitati non solo dal passaggio nel tornello azionabile con il badge e quindi dalla marcatura del successivo orologio, ma anche dal limite di 29 minuti prima dell’inizio del turno, secondo obblighi e divieti sanzionati disciplinarmente, stabiliti dal datore di lavoro e riferibili all’interesse aziendale, senza alcuno spazio di discrezionalità per i dipendenti.

4.3. La sentenza ha anche negato l’esistenza di una disciplina contrattuale collettiva tale da escludere dal tempo dell’ orario di lavoro quello impiegato per le operazioni in questione. Questa statuizione risulta fondata su una compiuta ricognizione della disciplina collettiva richiamata, nella quale non si rinviene alcuna specifica regola con il contenuto indicato dalla ricorrente incidentale, e sfugge alle censure mosse sotto i profili sia del vizio di motivazione che di violazione delle regole ermeneutiche negoziali; in particolare, con riguardo al regime delle pause fisiologiche (che non può essere riferito al tempo di quella che viene definita come “fase preparatoria” della prestazione) e alla destinazione di locali a spogliatoio, da cui nulla è dato desumere in ordine alle modalità della stessa prestazione.

5. Il terzo motivo del ricorso incidentale va disatteso, perchè la determinazione della durata del tempo in questione (e conseguentemente della correlativa controprestazione retributiva) è stata operata in via equitativa e con prudente apprezzamento, stante la difficoltà di accertare con precisione il “quantum” della domanda. Il giudice di merito ha fatto uso discrezionale dei poteri che gli attribuisce la norma processuale dell’art. 432 cod. proc. civ., con apprezzamento in fatto incensurabile in Cassazione, siccome adeguatamente motivato. Appare del resto del tutto infondato il rilievo in ordine alla mancata valutazione dei periodi di assenza dal lavoro (dedotti in modo assolutamente generico) posto che il parametro di misura del compenso è riferito ad un periodo complessivo di diverse annualità.

6.1. Il ricorso principale non merita accoglimento. Con il primo motivo il ricorrente invoca inutilmente a sostegno della propria tesi (secondo cui l’effetto interruttivo della prescrizione ex art. 410 c.p.p., comma 2 dovrebbe essere connesso alla mera instaurazione del tentativo obbligatorio di conciliazione, con la richiesta del lavoratore, indipendentemente dalla successiva comunicazione indirizzata dalla D.P.L. al datore di lavoro) la giurisprudenza di questa Corte relativa alla decadenza dalla impugnazione del licenziamento.

Si deve infatti osservare che la norma richiamata, conservata anche nella formulazione L. n. 183 del 2010, art. 31 (“la comunicazione della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione interrompe la prescrizione e sospende, per la durata del tentativo di conciliazione e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza”) fa riferimento a due istituti profondamente diversi. Mentre il fondamento della prescrizione consiste nella presunzione di abbandono di un diritto per inerzia del titolare, il fondamento della decadenza si coglie nell’esigenza obiettiva del compimento di particolari atti entro un termine perentorio stabilito dalla legge, oltre il quale l’atto è inefficace, senza che abbiano rilievo le situazioni soggettive che hanno determinato l’inutile decorso del termine o l’inerzia del titolare, e senza possibilità di applicare alla decadenza le norme relative all’interruzione della prescrizione.

Come questa Corte ha già avuto occasione di osservare (v. Cass. 1 giugno 2006 n. 13046) la disposizione intende chiaramente distinguere gli effetti che il tentativo obbligatorio di conciliazione ha ai fini della interruzione della prescrizione dalle conseguenze che da esso derivano con riferimento ai termini decadenziali. Con riguardo alla decadenza dal potere di impugnazione del licenziamento, la sospensione del termine opera a partire dal deposito dell’istanza di espletamento della procedura di conciliazione (contenente l’impugnativa del licenziamento) essendo irrilevante, in quanto estraneo alla sfera di controllo del lavoratore, il momento in cui l’ufficio provvede a comunicare al datore di lavoro la convocazione per il tentativo di conciliazione (v. in tal senso la giurisprudenza consolidata a partire da Cass. 19 giugno 2006 n. 14087).

Invece, solo con la comunicazione al creditore della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione si verifica l’effetto di interruzione della prescrizione con effetto permanente fino al termine di venti giorni successivi alla conclusione della procedura conciliativa (Cass. 24 novembre 2008 n. 27882, 16 marzo 2009 n. 6336).

Nella specie, il giudice dell’appello si è attenuto a tale principio di diritto – che va qui riaffermato – escludendo l’interruzione della prescrizione in assenza di prova della suddetta comunicazione alla società datrice di lavoro.

6.2. Il secondo e il terzo motivo del ricorso principale devono essere disattesi perchè la valutazione in ordine all’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e stabilirne la rispondenza ai requisiti di legge, è riservata all’apprezzamento di fatto del giudice di merito. Dunque, l’utilizzazione o meno del ragionamento presuntivo può essere criticata in sede di legittimità solo sotto il profilo del vizio di motivazione, ma tale censura non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, dovendo far emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio; resta peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario (nella specie, neppure specificamente dedotto) possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo (v. per tutte Cass. 21 ottobre 2003 n. 15737, 11 maggio 2007 n. 10847).

6.3. Il quarto motivo dello stesso ricorso principale appare infondato, essendo sufficiente rilevare in proposito che il mancato esercizio da parte del giudice dei poteri ufficiosi ex art. 421 cod. proc. civ., preordinato al superamento di una meccanica applicazione della regola di giudizio fondata sull’onere della prova, non è censurabile con ricorso per cassazione ove la parte non abbia investito lo stesso giudice di una specifica richiesta in tal senso, indicando anche i relativi mezzi istruttori. D’altro canto, non è neppure prospettabile una impossibilità del lavoratore di fornire la prova della avvenuta trasmissione al datore di lavoro, ad opera della D.P.L., della richiesta di espletamento del tentativo di conciliazione; prova che può essere certamente acquisita con l’accesso alla documentazione presso l’ufficio.

Per la stessa ragione, risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 410 c.p.c., comma 2, prospettata per la violazione degli artt. 24, 36 e 111 Cost. in relazione alla prova dell’atto interruttivo della prescrizione.

7. Entrambi i ricorsi devono essere quindi respinti, hi considerazione della reciproca soccombenza, si ravvisano giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, il 26 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2014


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 29-10-2013) 04-02-2014, n. 2455

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. TRIA Lucia – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21491/2010 proposto da:

F.V. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato LEPORE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato GALLO ACCURSIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 35, presso lo studio dell’avvocato VINCENTI MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAGADDINO ANDREA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), A.G. C.F. (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

I.N.A.I.L – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, presso lo studio degli avvocati RASPANTI RITA, ROSSI ANDREA, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

A.G. C.F. (OMISSIS), GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A., F.V. (OMISSIS);

– intimati –

Nonchè da:

A.G. c.f. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, VIA GROSSI GONDI FELICE 62, presso lo studio dell’avvocato FOTI CARLO SEBASTIANO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PASQUALE TOCCO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

F.V. C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato LEPORE GIUSEPPE, rappresentato e difeso dall’avvocato GALLO ACCURSIO, giusta delega nel ricorso;

– controricorrente al ricorso incidentale –

e contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO C.F. (OMISSIS), GENERALI ASSICURAZIONI DANNI S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 999/2009 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 14/09/2009 R.G.N. 1498/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2013 dal Consigliere Dott. LUCIA TRIA;

udito l’Avvocato ACCURSIO GALLO; udito l’Avvocato VINCENTI MARCO;

udito l’Avvocato ROSSI ANDREA (INAIL);

udito l’Avvocato FOTI CARLO SEBASTIANO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, rigetto dell’incidentale A., accoglimento ricorso incidentale INAIL.

Svolgimento del processo
1- La sentenza attualmente impugnata, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Trapani n. 511/06 del 25 maggio 2006: 1) afferma che, dalla dinamica dell’infortunio sul lavoro occorso a A.G. il (OMISSIS), si può ravvisare un concorso di colpa del lavoratore nella misura del 30%; 2) riduce, pertanto, della suddetta misura percentuale le somme dovute dal datore di lavoro F.V. rispettivamente all’ A. e all’INAIL; 3) conferma, per il resto, la sentenza appellata.

La Corte d’appello di Palermo, per quel che qui interessa, precisa che:

a) A.G., mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto autostradale, precipitò da una altezza di circa sei metri, riportando gravi lesioni che comportarono, tra l’altro, le frattura del bacino e l’amputazione del braccio e dell’avambraccio sinistro;

b) nell’occasione egli si trovava in compagnia di due colleghi di lavoro, che non hanno saputo riferire nulla sulla dinamica dell’infortunio, perchè in quel momento erano intenti ad eseguire altri lavori;

c) lo stesso infortunato ha fornito, al riguardo, versioni contrastanti, prima dichiarando di essere scivolato e poi, dinanzi a questa Corte, affermando di essere precipitato a causa della rottura della tavola sulla quale si trovava;

d) è rimasto accertato – come risulta anche dal procedimento penale a carico del F., definito con decreto penale di condanna – che: 1) il lavoratore non fece uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, essendo munite di una catena di soli cm. 60, erano inidonee allo svolgimento del lavoro di montaggio del ponteggio, che stava eseguendo; 2) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore; 3) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; 4) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal solo A., nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto;

e) ne consegue che è indubbia la responsabilità del datore di lavoro – qualunque sia la dinamica dell’infortunio – e a tale conclusione porta anche la circostanza che il F. il giorno successivo all’incidente abbia disposto lo smontaggio del ponteggio, in quanto è chiaro che tale condotta fu posta in essere per impedire agli organi preposti di eseguire gli opportuni accertamenti e rilevare eventuali violazioni;

f) tuttavia, alla determinazione dell’evento ha contribuito anche l’ A., che, essendo il lavoratore più esperto “con mansioni di coordinatore degli altri operai”, avrebbe dovuto: 1) prima di salire sul ponteggio, procedere al corretto ancoraggio delle tavole alla struttura; 2) servirsi della scala fornitagli dal datore di lavoro;

3) farsi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri;

g) per quanto si è detto il concorso di colpa del lavoratore va determinato nella misura del 30%, pertanto la maggior somma richiesta in appello dall’INAIL a fronte di ulteriori prestazioni erogate all’infortunato – la cui domanda è ammissibile, potendo l’Istituto precisare, anche in appello, l’originario petitum – deve essere ridotta nella stessa misura suindicata;

h) sui criteri adottati dal Tribunale per la liquidazione dei danni in favore dell’Ama e sulle singole voci di danno liquidate (danno biologico ed estetico, danno morale e danno derivante dalla capacità lavorativa specifica) non è stata mossa dal F. alcuna censura, sicchè sul punto si è formato il giudicato interno;

i) deve essere confermata la sentenza di primo grado nella parte relativa al rigetto della domanda con la quale il F. ha chiesto di essere garantito dalla Generali Assicurazioni Danni s.p.a., essendo indubbio che il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto, previa realizzazione di un ponteggio, rientri tra i lavori “inerenti a viadotti” che il contratto di assicurazione, con una clausola di chiara formulazione, escludeva dalla copertura assicurativa.

2.- Il ricorso di F.V. domanda la cassazione della sentenza per quattro motivi.

Resistono, con controricorso: 1) A.G., che propone, a sua volta, ricorso incidentale, per due motivi, cui replica il F. con controricorso; 2) l’INAIL, che ugualmente, propone, a sua volta, ricorso incidentale per un motivo; 3) le Assicurazioni generali s.p.a..

F.V. e l’INAIL depositano anche memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Preliminarmente tutti i ricorsi devono essere riuniti perché proposti avverso la medesima sentenza.

1 – Profili preliminari.

1.- Deve essere, in primo luogo, respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso incidentale dell’Ama proposta dal ricorrente principale – nel proprio controricorso di replica – sul duplice rilievo: a) della mancanza, nella copia notificata, delle pagine finali dell’atto (da pagina 38 in poi); b) dell’assenza degli elementi che consentano di individuare l’origine e l’oggetto della controversia, lo svolgimento del processo e le posizioni assunte dalle parti, nonchè della esposizione sommaria dei fatti richiesta, a pena di decadenza, dal combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 3, e art. 371 c.p.c..

1.1.- Con riguardo al primo profilo, va osservato che per costante e condiviso orientamento di questa Corte, ai fini del riscontro degli atti processuali deve aversi riguardo agli originali e non alle copie, per cui l’eventuale mancanza di una o più pagine (nella specie, tre) nella copia del ricorso per cassazione notificata può assumere rilievo soltanto se lesiva del diritto di difesa. Ciò, peraltro, va escluso quando le pagine omesse risultino irrilevanti al fine di comprendere il tenore della difesa avversaria e quando l’atto di costituzione della parte contenga una puntuale replica alle deduzioni contenute nell’atto notificato, comprese quelle contenute nella parte mancante (Cass. SU 22 febbraio 2007, n. 4112, indirizzo consolidato, vedi, fra le tante: Cass. 22 gennaio 2010, n. 1213).

Nel presente caso l’originale del controricorso con ricorso incidentale è completo e le pagine asseritamente mancanti sono, per quanto riguarda le argomentazioni delle censure, soltanto due e, come risulta dalle argomentazioni del controricorso di replica, la suindicata incompletezza non ha minimamente leso il diritto di difesa del F..

1.2.- Quanto al secondo profilo, si ricorda che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) nel giudizio per cassazione, l’autosufficienza del controricorso (e del ricorso incidentale, nel caso in cui questo risulti proposto) è assicurata, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., comma 2, e dell’art. 366 c.p.c., comma 1, anche quando il controricorso, come nella specie, non contenga l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata ovvero alla narrazione di essi contenuta nel ricorso, e ciò anche se il richiamo sia soltanto implicito (Cass. 2 febbraio 2006, n. 2262; Cass. 28 maggio 2010, n. 13140);

b) comunque, anche a volere ritenere che laddove il controricorso racchiuda anche un ricorso incidentale debba contenere, in ragione della propria autonomia rispetto al ricorso principale, l’esposizione sommaria dei fatti di causa, ai sensi del combinato disposto dell’art. 371 c.p.c., comma 3, e art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, – diversamente dal semplice controricorso, che. avendo la sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui, non necessita dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, potendo richiamarsi a quanto già esposto nel ricorso principale (Cass. 11 gennaio 2006, n. 241) – in ogni caso, sotto il suddetto profilo, il ricorso incidentale è da considerare inammissibile ove si limiti ad un mero rinvio all’esposizione del fatto contenuta nel ricorso principale, mentre il requisito imposto dal citato art. 366 c.p.c., può reputarsi sussistente quando, nel contesto dell’atto di impugnazione, si rinvengano gli elementi indispensabili per una precisa cognizione dell’origine e dell’oggetto della controversia, dello svolgimento del processo e delle posizioni assunte dalla parti, senza necessità di ricorso ad altre fonti (Cass. 8 gennaio 2010, n. 76; Cass. 27 luglio 2005, n. 15672; Cass. 29 luglio 2004, n. 14474).

Ne consegue che, nella specie, è da escludere l’inammissibilità del controricorso del lavoratore contenente il ricorso incidentale perchè, diversamente da quanto sostiene il F., dalla lettura dell’atto risulta che il ricorrente incidentale ha rappresentato i fatti, sostanziali e processuali in modo adeguato a far intendere immediatamente il significato e la portata delle critiche rivolte alla sentenza impugnata senza dover ricorrere al contenuto di altri atti del processo.

2 – Sintesi dei motivi del ricorso principale.

2.- Il ricorso principale è articolato in quattro motivi.

2.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo del giudizio, in riferimento alla dinamica del sinistro.

Si sostiene che la Corte palermitana sarebbe giunta all’erronea conclusione di addossare al lavoratore solo il 30% della responsabilità del sinistro – anzichè la esclusiva responsabilità o comunque una maggiore percentuale di responsabilità – perché dopo avere, contraddittoriamente, assunto come “pacifiche” alcune circostanze del fatto che (invece, non sono state provate), poi, in modo ulteriormente contraddittorio, ha affermato la corresponsabilità dell’ A. per non aver proceduto, prima di salire sul ponteggio, al corretto ancoraggio delle tavole della struttura, servendosi della scala fornita dal datore di lavoro e facendosi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori che stava svolgendo.

Ad avviso del F., le suddette circostanze del fatto, a suo dire, sfornite di prova sarebbero: a) la dipendenza del mancato uso delle cinture di sicurezza, da parte dell’ A., dalla loro inidoneità all’uso, perché essendo dotate di una catena lunga soli cm. 60 non consentivano al lavoratore di effettuare gli spostamenti necessari per eseguire il lavoro di montaggio del ponteggio, cui era intento al momento dell’infortunio; b) il fatto che le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme in modo tale da evitare che cadessero; c) il fatto che le tavole stesse non erano in perfetto stato di conservazione; d) il fatto che i lavori di montaggio del ponteggio erano eseguiti dal solo A. senza la collaborazione degli altri operai, nonostante la precarietà della strutture che venivano man mano montate.

Ne consegue che dalla lettura dei due brani della motivazione della sentenza impugnata nei quali vengono, rispettivamente, esaminate le responsabilità del F. e quelle dell’ A. nella causazione del sinistro si desumerebbe – data la loro contraddittorietà – che la Corte territoriale ha omesso di individuare l’esatta dinamica dell’infortunio.

Infatti, la Corte non ha appurato se la caduta dell’ A. sia stata dovuta ad un accidentale scivolata del piede sulla tavola ovvero alla rottura della tavola stessa, elemento che era fondamentale chiarire.

2.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2087 c.c..

Si ribadiscono, da altra angolazione, le censure già esposte nel precedente motivo, ponendo l’accento sul fatto che, diversamente da quanto affermato dalla Corte d’appello, il datore di lavoro, rispettando l’art. 2087 c.c., aveva fornito ai propri dipendenti tutti i presidi di sicurezza necessari per il tipo di lavorazione in oggetto.

D’altra parte, la Corte palermitana non poteva fondare il proprio convincimento su alcune circostanze contestate al F. nel procedimento penale a suo carico, definito con decreto penale di condanna del Tribunale di Enna, visto che tale atto non può fare stato nel processo civile ex art. 460 c.p.p., e neppure in tale processo hanno efficacia probatoria diretta gli atti raccolti nel suddetto procedimento penale, non conclusosi con una sentenza dibattimentale.

Neanche la Corte territoriale avrebbe potuto ritenere che il F. il giorno successivo all’incidente avesse disposto che il ponteggio dal quale è caduto l’ A. venisse smontato al fine di impedire agli organi all’uopo preposti di eseguire gli opportuni accertamenti e rilevare eventuali violazioni alla normativa antinfortunistica.

Infatti, a prescindere dal valore giuridico nullo da attribuire alla suddetta “presunzione di colpevolezza”, comunque è emerso in modo inequivocabile, nella fase istruttoria del giudizio di primo grado, che il ponteggio è stato smontato non per ordine datoriale, bensì per applicazione della prassi abituale secondo cui tutti i venerdì i ponteggi venivano smontati, per timore di furti.

Nè possono esservi dubbi sul fatto che l’ A. fungesse da caposquadra e avesse maggiore esperienza di tutti gli altri lavoratori del cantiere, avendo nella sostanza la direzione esecutiva del cantiere e degli altri operai.

Infine, secondo il F., non essendovi alcuna responsabilità del datore di lavoro, avrebbe dovuto essere rigettata anche la domanda di rivalsa dell’INAIL. 2.3.- Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1370 c.c., con riferimento al contenuto del contratto di assicurazione, stipulato dal F. con le Assicurazioni generali s.p.a..

Si contesta la decisione della Corte palermitana di rigetto della censura del F. con la quale si impugnava la decisione di primo grado ove ha respinto la domanda di garanzia proposta dal datore di lavoro nei confronti di Assicurazioni generali s.p.a..

Si sostiene che, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di primo grado e dalla Corte d’appello, la clausola del contratto di assicurazione di esclusione della copertura per i lavori inerenti ponti, viadotti e gallerie non avrebbe dovuto considerarsi applicabile nella specie, in quanto la lavorazione cui era intento l’ A. al momento del sinistro consisteva nella realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante un viadotto autostradale.

Il fatto che l’allestimento del ponteggio avvenisse sotto un viadotto per eseguire futuri lavori di manutenzione dovrebbe portare ad escludere che si trattasse di lavorazione “inerente” al viadotto, perché essa non si svolgeva “sopra” al viadotto – con i conseguenti pericoli – ma al di sotto dello stesso, come attività a sè stante.

2.4.- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, erronea e/o omessa decisione su un punto fondamentale della controversia, relativamente alla liquidazione del danno e alle sue componenti.

Si censura la decisione della Corte palermitana di avere ritenuto passata in giudicato la parte della sentenza di primo grado relativa ai criteri ivi adottati per la liquidazione dei danni e alle voci liquidate.

Si sostiene che il F. nell’atto di appello aveva contestato la disposta liquidazione del danno biologico posta a carico del datore di lavoro, già compresa nella copertura assicurativa dell’INAIL ai sensi del D.Lgs. n. 38 del 2000.

Si sostiene che il F. poteva essere condannato al risarcimento del solo danno morale, essendo intervenuto il decreto penale di condanna a suo carico.

3 – Sintesi dei motivi del ricorso incidentale di A.G..

3.- Il suddetto ricorso incidentale è articolato in due motivi.

3.1.- Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia prospettato dalle parti, in riferimento alla dinamica del sinistro.

In modo speculare rispetto al F., l’ A. sostiene che la Corte territoriale avrebbe errato ad attribuire il 30% della responsabilità dell’accaduto al lavoratore e che la motivazione della sentenza impugnata adottata sul punto sarebbe viziata, nei suddetti sensi.

Infatti – a parte la dichiarazione resa in ospedale nell’immediatezza del fatto alla Questura di Enna, nella quale il lavoratore ha riferito di essere scivolato dalla tavola sulla quale si trovava – in realtà, dall’istruttoria svolta è emerso con chiarezza che la tavola di appoggio si è spezzata sotto il peso dell’Ama, il quale non indossava la cintura fornitagli perchè era munita di una catena troppo corta (circa cm. 60) per potere svolgere il lavoro di costruzione del ponteggio cui era intento al momento dell’incidente e per tale motivo è precipitato nel vuoto da un’altezza di circa sei metri, subendo le gravi lesioni accertate dalla CTU medica.

Il lavoratore stesso, sentito dalla Corte d’appello, ha rettificato l’originaria versione dei fatti, spiegando di averla fornita quando era gravato da intensissimi dolori al braccio lesionato.

Dalla stessa istruttoria è emerso che l’ A. aveva inutilmente chiesto al datore di lavoro di fornire agli operai cinture di sicurezza dotate di catene più lunghe di quelle utilizzate e di sostituire i tavoloni di legno (che erano usurati) con pedane di metallo.

In questa situazione la motivazione posta a base del rilevato concorso di colpa del lavoratore sarebbe del tutto contraddittoria, in quanto la Corte, dopo avere individuato una serie di mancanze del datore di lavoro da sole idonee a determinare il verificarsi dell’evento – fornitura di cinture di sicurezza inidonee alle lavorazioni da eseguire, utilizzazione di tavole non perfettamente adeguate, omessa vigilanza dell’esecuzione dei lavori particolarmente pericolosi da svolgere e così via – perviene a configurare il concorso di colpa dell’ A. facendo riferimento a tre ulteriori elementi inidonei al suddetto fine.

La Corte, infatti, sottolinea che, essendo l’ A., il lavoratore più esperto, con mansioni di coordinatore degli altri operai, avrebbe dovuto: 1) prima di salire sul ponteggio, procedere al corretto ancoraggio delle tavole alla struttura; 2) servirsi della scala fornitagli dal datore di lavoro; 3) farsi coadiuvare dagli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri.

Tuttavia la stessa Corte, con riguardo alle tre suddette circostanze, non considera che: 1) l’ancoraggio delle tavole non avrebbe impedito che la tavola sulla quale si trovava il lavoratore si spezzasse, tanto più che sembra che la tavola spezzata fosse ben posizionata, ancorchè non agganciata, non essendo previsti sistemi di aggancio delle tavole con elementi di ferro del ponteggio; 2) l’eventuale utilizzazione della scala in dotazione – peraltro, di altezza insufficiente a raggiungere i sei metri – non avrebbe potuto influire sul verificarsi dell’evento, perchè il lavoratore è caduto quando ormai si trovava sul piano di lavoro e non nell’atto di salire per raggiungerlo; 3) l’organizzazione del lavoro era determinata dal F. e non era nella disponibilità di un dipendente distrarre altri colleghi dalle mansioni loro assegnate per altre operazioni, comunque un maggiore peso sul tavolone sul quale si trovava l’ A. (dovuto alla ipotetica presenza di colleghi) avrebbe facilitato e non certo impedito la rottura del tavolone stesso.

Ad avviso dell’Ama, la motivazione della sentenza impugnata non è solo contraddittoria e illogica, per quanto si è detto, ma è anche insufficiente, visto che la Corte palermitana non ha spiegato le ragioni che l’hanno indotta a ritenere che i suddetti tre elementi avrebbero potuto impedire il sinistro o influire sulle sue conseguenze, sì da giustificare il concorso di colpa del lavoratore.

3.2.- Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e falsa applicazione delle seguenti disposizioni: art. 2087 c.c.; D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 4;

D.P.R. 7 gennaio 1956, n. 164, artt. 10, 16, 17, 23, 38 e ss.; artt. 2049 e 2050 c.c.; D.Lgs. n. 626 del 1994, artt. 3, 4, 21, 22, 35, 36, 37, 40 e ss..

Si sostiene che la Corte palermitana abbia deciso questioni di diritto in modo non conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza offrire elementi validi per giustificare il proprio dissenso.

In particolare, si fa riferimento all’attribuzione all’ A. di un ruolo e di una funzione diverse da quelle sue proprie di semplice muratore.

Si rileva che dalla circostanza che il F. quando era assente dava le direttive all’ A., come dipendente più anziano, non si poteva desumere che questi fosse responsabile della sicurezza.

Si sottolinea, altresì, che la Corte d’appello non ha attribuito il dovuto rilievo al fatto che il datore di lavoro non aveva predisposto alcuna vigilanza per l’esecuzione dei lavori e l’uso delle cinture di sicurezza, nè aveva fatto frequentare ai dipendenti dei corsi di formazione sui rischi del lavoro e neppure aveva previsto dei piani di sicurezza adeguati.

Del resto, i ponteggi sono per loro natura strutture pericolose e come tali avrebbero dovuto essere trattati, invece nella specie non è stata adottata alcuna misura volta a garantire i lavoratori dal rischio di cadute, nella fase di montaggio delle impalcature.

L’ A. aveva fatto precise richieste al riguardo,che però non sono state prese in considerazione dal F..

Comunque, è da escludere che la condotta del lavoratore, anche se imprudente, possa configurare un’ipotesi di “rischio elettivo” e quindi è da escludere che possa configurarsi un concorso di colpa del lavoratore stesso, anche se esperto, in conformità con la consolidata giurisprudenza di legittimità.

4 – Sintesi del motivo del ricorso incidentale dell’INAIL. 4.- Con il motivo del ricorso incidentale l’Istituto denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione del D.P.R. n. 1124 del 1965, artt. 10 e 11.

Si contesta il punto della sentenza impugnata in cui la Corte palermitana, dopo aver accertato il concorso di colpa della vittima dell’infortunio sul lavoro determinandolo nella misura del 30%, ha, per questo solo fatto, ridotto, in pari misura, l’ammontare delle somme richieste dall’INAIL in via di rivalsa nei confronti del datore di lavoro dell’infortunato.

Si sottolinea che, nel corso del giudizio, non vi era stata alcuna contestazione sugli importi richiesti dall’Istituto, né era stato allegato o provato che si trattava di somme di importo superiore al danno conseguibile dal lavoratore infortunato.

Peraltro, il capo della sentenza di primo grado relativo alla determinazione di tali somme non era stato impugnato, sicché almeno la somma capitale non avrebbe potuto essere ridotta, pur in presenza del concorso di colpa del lavoratore.

5 – Esame dei primi due motivi del ricorso principale e dei ricorsi incidentali di A.G. e dell’INAIL. 5.- Per le ragioni di seguito esposte, il ricorso principale è da respingere, mentre sono da accogliere i due ricorsi incidentali.

Inoltre, per chiarezza espositiva, appare opportuno esaminare per primi i primi due motivi del ricorso principale e, a seguire, il ricorso incidentale dell’Ama e quello dell’INAIL e, infine, gli ultimi due motivi del ricorso principale.

6.- Sia i primi due motivi del ricorso principale sia i due motivi del ricorso incidentale dell’Ama contestano – da opposte prospettive – la sentenza impugnata nella parte relativa alla ricostruzione dell’infortunio e in particolare alla valutazione del comportamento del lavoratore, che ha portato la Corte palermitana ad affermare che la condotta colposa dell’ A. avrebbe concorso nella misura del 30% al verificarsi del sinistro.

In estrema sintesi:

1) il ricorrente principale sostiene che la Corte palermitana, in applicazione dell’art. 2087 c.c., avrebbe dovuto attribuire al lavoratore la esclusiva responsabilità o comunque una maggiore percentuale di responsabilità della causazione del sinistro e che, comunque, la motivazione sul punto sarebbe contraddittoria o carente in quanto la Corte territoriale ha omesso di appurare se la caduta del lavoratore è stata determinata da una accidentale scivolata del piede sulla tavola dove lavorava ovvero dalla rottura della tavola stessa;

2) il ricorrente incidentale A., specularmente, afferma che, in applicazione del medesimo art. 2087 c.c., e delle altre norme antinfortunistiche richiamate la Corte d’appello avrebbe dovuto considerare le accertate mancanze del datore di lavoro – fornitura di cinture di sicurezza inidonee alle lavorazioni da eseguire, utilizzazione di tavole non perfettamente adeguate, omessa vigilanza dell’esecuzione dei lavori particolarmente pericolosi da svolgere e così via – idonee da sole a determinare il verificarsi dell’evento, mentre è pervenuta, con motivazione contraddittoria e carente, a configurare il concorso di colpa dell’Ama facendo riferimento a tre ulteriori elementi – mancata effettuazione del corretto ancoraggio delle tavole al ponteggio prima di salirvi, non utilizzazione della scala fornita dal datore di lavoro, mancata richiesta di collaborazione agli altri operai nell’esecuzione dei lavori in oggetto visto che si svolgevano all’altezza di sei metri – del tutto inadeguati al suddetto fine.

7.- In linea generale, deve essere ricordato che la deduzione con il ricorso per cassazione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata non conferisce al Giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito della vicenda processuale, bensì la sola facoltà di controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal Giudice del merito, non essendo consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una autonoma valutazione delle risultanze probatorie, sicché le censure concernenti il vizio di motivazione non possono risolversi nel sollecitare una lettura delle risultanze processuali diversa da quella accolta dal Giudice del merito (vedi, tra le tante: Cass. 18 ottobre 2011, n. 21486; Cass. 20 aprile 2011, n. 9043; Cass. 13 gennaio 2011, n. 313; Cass. 3 gennaio 2011, n. 37; Cass. 3 ottobre 2007, n. 20731; Cass. 21 agosto 2006, n. 18214; Cass. 16 febbraio 2006, n. 3436; Cass. 27 aprile 2005, n. 8718).

Infatti, la prospettazione da parte del ricorrente di un coordinamento dei dati acquisiti al processo asseritamente migliore o più appagante rispetto a quello adottato nella sentenza impugnata, riguarda aspetti del giudizio interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti che è proprio del giudice del merito, in base al principio del libero convincimento del giudice, sicchè la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 26 marzo 2010, n. 7394; Cass. 6 marzo 2008, n. 6064; Cass. 20 giugno 2006, n. 14267; Cass. 12 febbraio 2004, n. 2707; Cass. 13 luglio 2004, n. 12912; Cass. 20 dicembre 2007, n. 26965; Cass. 18 settembre 2009, n. 20112).

7.1.- Nella specie il Giudice di appello – sulla base della valutazione del materiale probatorio – ha accertato che: 1) l’ A., al momento del sinistro era intento alla realizzazione di un ponteggio per il rifacimento dell’intonaco sottostante ad un viadotto autostradale; 2) è precipitato da una altezza di circa sei metri, riportando gravi lesioni che comportarono, tra l’altro, le frattura del bacino e l’amputazione del braccio e dell’avambraccio sinistro;

3) nonostante la non coincidenza delle versioni sulla dinamica del sinistro fornite dall’interessato (rispettivamente alla Questura di Enna durante il ricovero ospedaliero successivo al sinistro e poi in sede giudiziaria), ciò che conta è che è comunque rimasto acclarato – anche dal procedimento penale a carico del F., definito con decreto penale di condanna, dai cui atti si possono attingere elementi di giudizio, in base all’orientamento costante di questa Corte (vedi, da ultimo, Cass. 26 novembre 2013, n. 26401) – che: a) il lavoratore non fece uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, essendo munite di una catena di soli cm. 60, erano inidonee allo svolgimento del lavoro di montaggio del ponteggio, che stava eseguendo; b) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore; c) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; d) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal solo A., nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto.

Sulla base di tali elementi la Corte palermitana, con congrua motivazione, ha affermato la responsabilità del F., così facendo corretta applicazione dell’art. 2087 c.c., e della normativa antinfortunistica antecedente il D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81, da applicare nella specie.

In base a tale normativa, infatti, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature trovano applicazione sia la norma generale del D.P.R. n. 164 del 1956, art. 10, – che, in riferimento a qualsiasi opera che esponga i lavoratori a rischi di caduta dall’alto, impone l’utilizzazione della cintura di sicurezza debitamente agganciata qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti – sia l’art. 2087 c.c. – che impone l’adozione delle opportune misure antinfortunistiche in caso di situazioni non direttamente contemplate dalla normativa antinfortunistica, ogni volta in cui non sia accertata l’impossibilità di caduta degli operai da qualunque punto del piano di lavoro, per effetto di specifici apprestamenti – sia, infine, il citato D.P.R. n. 164 del 1956, art. 17, che impone all’imprenditore o alla persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino prima che siano stati predisposti adeguati sistemi per garantire la loro sicurezza (vedi, per tutte: Cass. 11 maggio 2002, n. 6769; Cass. 25 agosto 1995, n. 9000).

8.- Ne consegue che il F. non può certamente dolersi della pretesa illogicità e contraddittorietà della motivazione relativa alla affermazione della Corte palermitana della sussistenza della responsabilità del datore di lavoro per le lesioni riportate dal lavoratore nè, tanto meno, della violazione dell’art. 2087 c.c., sul punto.

Questo comporta il rigetto dei primi due motivi del ricorso principale.

9.- I suddetti vizi sono, invece, riscontrabili con riguardo alla parte della motivazione nella quale è stato affermato il concorso di colpa del lavoratore, nella misura del 30%.

Per costante orientamento di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità:

a) le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento, essendo necessaria, a tal fine, una rigorosa dimostrazione dell’indipendenza del comportamento del lavoratore dalla sfera di organizzazione e dalle finalità del lavoro, e, con essa, dell’estraneità del rischio affrontato a quello connesso alle modalità ed esigenze del lavoro da svolgere (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494; Cass. 23 aprile 2009, n. 9689; Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656);

b) in materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, il D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, con indicazioni che hanno trovato conferma nel sistema delineato dal D.Lgs. 19 settembre 1994, n. 626, prevede una distribuzione di responsabilità ripartita in via gerarchica tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, figura, quest’ultima, che ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e che presuppone uno specifico addestramento a tale scopo, nonchè il riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l’attribuzione di compiti operativi nell’ambito dei criteri prefissati (Cass. 15 dicembre 2008, n. 29323);

c) peraltro, l’attribuzione a un soggetto della qualità di “preposto” ai fini del suo assoggettamento agli obblighi previsti dal D.P.R. n. 547 del 1955, art. 4, va fatta, con riferimento alle mansioni effettivamente svolte nell’ambito dell’impresa e non in base alla formale qualificazione giuridica attribuita (Cass. 16 febbraio 2012, n. 2251; Cass. 6 novembre 2000, n. 1444).

9.1.- Ne deriva che, essendo, pacificamente, da escludere che, nella specie, ricorra l’ipotesi del c.d. rischio elettivo (idoneo ad interrompere il nesso causale, ma ravvisabile solo quando l’attività posta in essere dal prestatore non sia in rapporto con lo svolgimento del lavoro o sia esorbitante dai limiti di esso), gli elementi accertati dalla Corte palermitana in ordine alle mancanze ascrivibili al F. avrebbero dovuto considerarsi da soli sufficiente ad affermarne la esclusiva responsabilità nella causazione del sinistro, in base alla citata normativa, a partire dall’art. 2087 c.c..

Per completezza, va precisato che laddove la Corte d’appello ha affermato la sussistenza di un concorso di colpa del lavoratore – oltretutto determinandone la misura nel 30%, senza alcuna giustificazione – non solo si è discostata dall’anzidetta normativa, ma lo ha fatto con motivazione carente e illogica perché basata sul richiamo ad elementi in parte del tutto irrilevanti (come la mancata utilizzazione della scala fornita dal datore di lavoro, visto che l’ A. già era giunto sul posto di lavoro al momento del sinistro) e in parte non ascrivibili all’ A., che essendo privo della qualità di “preposto” e della connessa direzione esecutiva dei lavoratori, non poteva sostituirsi al F. nel dare disposizioni in merito all’ancoraggio delle tavole alla struttura ovvero allo svolgimento delle mansioni impartitegli con la collaborazione degli altri operai (data l’altezza di sei metri da terra).

Di qui l’accoglimento del ricorso incidentale dell’ A..

10.- I vizi rilevati in merito all’affermazione del concorso di colpa dell’Ama nella determinazione del sinistro – pari al 30% – si riflettono anche nella parte della motivazione nella quale la Corte palermitana ha ridotto nella medesima percentuale l’ammontare delle maggiori somme richieste dall’INAIL al F., in via di rivalsa, oltretutto senza previamente determinare, come in qualsiasi altra ipotesi di rivalsa, l’ammontare del danno risarcibile in relazione alla misura dell’accertato concorso di colpa e, quindi, verificare se sulla somma così determinata vi sia capienza per la rivalsa dell’INAIL, procedendo, solo in caso di esito negativo di tale accertamento, a ridurre la somma spettante all’Istituto per le prestazioni erogate all’assicurato (o ai suoi eredi) in modo che la stessa non superi quanto dovuto dal danneggiale, come stabilito dalla costante e condivisa giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis:

Cass. 2 febbraio 2010, n. 2350; Cass. 11 dicembre 2001, n. 15633;

Cass. 16 giugno 2000, n. 8196; Cass. 3 ottobre 2000, n. 13121; Cass. 20 agosto 1996, n. 7669).

Ne consegue l’accoglimento del ricorso incidentale dell’INAIL. 6 – Esame del terzo e del quarto motivo del ricorso principale.

11.- Per quel che riguarda il terzo motivo del ricorso principale, va ricordato che, in base a consolidati e condivisi indirizzi di questa Corte:

a) l’interpretazione della volontà delle parti in relazione al contenuto di un contratto o di una qualsiasi clausola contrattuale – che, comporta indagini e valutazioni di fatto affidate al potere discrezionale del giudice del merito, non sindacabili in sede di legittimità ove non risultino violati i canoni normativi di ermeneutica contrattuale e non sussista un vizio nell’attività svolta dal giudice di merito, tale da influire sulla logicità, congruità e completezza della motivazione – può essere censurata per erroneità nel ricorso per cassazione, ma il ricorrente, in applicazione del principio di specificità dei motivi di ricorso, ha l’onere di trascrivere integralmente le clausole contestate in quanto al giudice di legittimità è precluso l’esame degli atti per verificare la rilevanza e la fondatezza della censura e deve, inoltre, precisare quali norme ermeneutiche siano state in concreto violate e specificare in qual modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato (vedi, tra le tante: Cass. 18 novembre 2005, n. 24461; Cass. 6 febbraio 2007, n. 2560; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2128);

b) in tema di interpretazione del contratto – che costituisce operazione riservata al giudice di merito, le cui valutazioni sono censurabili in sede di legittimità soltanto per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale o per vizio di motivazione – ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, il cui rilievo deve essere verificato alla luce dell’intero contesto contrattuale, sicché le singole clausole vanno considerate in correlazione tra loro, dovendo procedersi al loro coordinamento a norma dell’art. 1363 c.c., e dovendosi intendere per “senso letterale delle parole” tutta la formulazione letterale della dichiarazione negoziale, in ogni sua parte ed in ogni parola che la compone, e non già in una parte soltanto, quale una singola clausola di un contratto composto di più clausole, dovendo il giudice collegare e raffrontare tra loro frasi e parole al fine di chiarirne il significato (vedi, tra le altre: Cass. 26 febbraio 2009, n. 4670; Cass. 23 aprile 2010, n. 9786; Cass. 29 settembre 2005, n. 19140).

11.1.- Nella specie, la pur parziale trascrizione delle clausole la cui interpretazione è contestata dal F. consente di respingere il motivo in quanto dalle relative argomentazioni si desume ictu oculi che, con esse, più che denunciarsi la mancata osservanza dei criteri legali di ermeneutica contrattuale, si contrappone l’interpretazione proposta dal ricorrente a quella accolta nella sentenza impugnata, oltretutto con argomentazioni in parte erronee e in parte palesemente illogiche nelle quali si sostiene che:

a) la intenzione dei contraenti non dovrebbe desumersi dal “mero senso letterale delle parole”, mentre come si è detto, in base all’art. 1362 cod. civ., come interpretato da questa Corte, ai fini della ricerca della comune intenzione dei contraenti, il principale strumento è rappresentato dal senso letterale delle parole e delle espressioni utilizzate nel contratto, se di significato inequivoco;

b) la ragione della concordata esclusione della garanzia assicurativa per “i lavori inerenti a ponti, viadotti e gallerie” è stata quella del maggior grado di pericolosità di tali lavori “a causa dell’altezza” nella quale vengono svolti, senza considerare tale elemento caratterizza la presente fattispecie, nella quale il lavoratore si è infortunato cadendo da una altezza da circa sei metri.

Se a tutto ciò si aggiunge che il concetto stesso di “inerenza” non può far sorgere alcun dubbio sull’esattezza dell’interpretazione dei Giudici del merito in ordine alla clausola di cui si tratta, se ne desume il rigetto del motivo de quo.

12.- Il quarto motivo del ricorso principale è inammissibile.

12.1.- A prescindere dal fatto che il tipo di vizio denunciato è configurabile più che come vizio di motivazione, come error in procedendo – prospettabile ai sensi dell’art. 360, n. 4, e che consente a questa Corte l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito a differenza della censura di vizio di motivazione – va comunque precisato che il suddetto esame presuppone l’ammissibilità del motivo di censura, essendo, quindi, circoscritto al passaggio dello sviluppo processuale in cui il vizio denunciato si colloca onde la Corte possa verificare la fondatezza del motivo di ricorso.

Peraltro la suddetta ammissibilità postula, tra l’altro, il rispetto del principio della specificità della deduzione della censura.

Tale principio – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – vale anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte del giudice di merito, sicchè ove il ricorrente contesti l’interpretazioni che di tali motivi ha dato la Corte d’appello deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi come formulati (vedi, per tutte: Cass. 10 gennaio 2012, n. 86; Cass. 21 maggio 2004, n. 4734).

12.2.- Nella specie, il F. non riproduce nel presente ricorso le parti dell’atto di appello nella quali sarebbe contenuta la propria contestazione della liquidazione del danno biologico in favore dell’Ama, che smentirebbe l’affermazione della Corte palermitana secondo cui si è formato il giudicato interno sul punto.

Ciò impedisce a questo Giudice di legittimità di verificare la fondatezza delle censure formulate al riguardo e determina l’inammissibilità del quarto motivo del ricorso principale.

7 – Conclusioni.

13. In sintesi, il ricorso principale deve essere respinto e i due ricorsi incidentali vanno accolti, la sentenza impugnata deve essere, quindi, cassata, con rinvio, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta, che si atterrà, nell’ulteriore esame del merito della controversia, a tutti i principi su affermati e, quindi, anche ai seguenti:

1) “in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro e, in particolare, in caso di esecuzione di opere di montaggio o smontaggio delle impalcature e di lavorazioni che espongano i lavoratori a rischi di caduta dall’alto – cui si collegano sia l’obbligo per il dipendente dell’utilizzazione della cintura di sicurezza debitamente agganciata qualora non sia possibile disporre di impalcati di protezione o parapetti, sia l’obbligo per l’imprenditore o la persona da lui nominata di provvedere alla diretta sorveglianza dei lavori di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali e quindi di impedire, quale destinatario delle norme antinfortunistiche, che i lavoratori operino senza adeguati sistemi volti a garantire la loro sicurezza – il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, se non viene specificamente dimostrato che ricorrono tutti gli elementi propri dell’ipotesi del c.d. rischio elettivo. Ne consegue che è da ascrivere all’esclusiva responsabilità del datore di lavoro l’infortunio occorso ad un lavoratore precipitato al suolo mentre era intento alla realizzazione di un ponteggio all’altezza di circa sei metri da terra ove – pur in mancanza di una precisa ricostruzione della dinamica del fatto in tutti i suoi particolari – sia stato accertato, anche attingendo elementi di giudizio dall’esame degli atti anche dal procedimento penale a carico del datore di lavoro definito con decreto penale di condanna, che: a) il lavoratore non aveva fatto uso delle cinture di sicurezza perchè quelle in dotazione, erano munite di una catena troppo corta per l’esecuzione del lavoro di montaggio del ponteggio; b) le tavole costituenti il piano di calpestio del ponteggio (ove operava il lavoratore) non erano fissate o comunque tenute ferme onde evitare la caduta del lavoratore stesso; c) tali tavole non erano in perfetto stato di conservazione; d) i lavori di realizzazione del ponteggio venivano svolti, in assenza della prescritta vigilanza, dal lavoratore infortunatosi da solo, nonostante la precarietà delle strutture man mano montate e la pericolosità del lavoro dovuta anche all’altezza in cui veniva svolto”;

2) “in materia di prevenzione dagli infortuni sul lavoro, ai fini della ripartizione di responsabilità stabilita, in via gerarchica, tra datore di lavoro, dirigenti e preposti, la figura del preposto ricorre nel caso in cui il datore di lavoro, titolare di una attività aziendale complessa ed estesa, operi per deleghe secondo vari gradi di responsabilità, e presuppone uno specifico addestramento a tale scopo oltre al riconoscimento, con mansioni di caposquadra, della direzione esecutiva di un gruppo di lavoratori e dei relativi poteri per l’attribuzione di compiti operativi nell’ambito dei criteri prefissati. Ne consegue che non può essere considerato “preposto”, ai suddetti fini, l’operaio più anziano di una squadra, pur dotato di maggiore esperienza rispetto agli altri, ma privo di uno specifico addestramento al ruolo di capo squadra nonché dei poteri di direzione esecutiva dei lavori della squadra stessa”.

P.Q.M.
La Corte riunisce tutti i ricorsi. Rigetta il ricorso principale, accoglie gli incidentali. Cassa la sentenza impugnata, in relazione ai ricorsi accolti, e rinvia, anche per le spese del presente giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Caltanissetta.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 29 ottobre 2013.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2014


I.N.P.S. : Avvisi di addebito – Nebbia sul procedimento notificatorio

Continuano a pervenire ai Comuni gli «avvisi di addebito» redatti dall’INPS con indicazioni contraddittorie e non univoche sul procedimento notificatorio da adottare.

La Commissione Normativa dell’Associazione ha analizzato il problema ritenendo che il procedimento da adottare sia quello evidenziato nel testo della lettera che è stata invita sia all’INPS che all’ANCI per un loro parere.

Verona 03/02/2014

Spett.le

– A.N.C.I.

Via dei Prefetti n. 46

00186 ROMA RM

– I.N.P.S.

Via Ciro il Grande n. 21

00144 ROMA RM

 OGGETTO: Notifiche effettuate dai Messi Comunali per conto I.N.P.S. – Art. 30 del DL 78/2010.

Negli ultimi 2/3 mesi dell’anno 2013 ci sono pervenute diverse segnalazioni da parte di nostri iscritti che ci comunicavano come le locali sedi INPS avevano loro trasmesso un numero di atti da notificarsi, in prossimità con la scadenza dell’anno (“accompagnati” da una ipotizzata prescrizione/decadenza di tali atti se non notificati entro il 31/12), che andavano ben oltre i carichi di lavoro effettuabili in tale periodo.

Lasciando a margine questa situazione che ci si augura, comunque, non abbia a ripetersi nei prossimi anni, le problematiche tecnico/giuridiche che ci venivano poste, e che giriamo ai soggetti in intestazione, riguardano perlopiù la competenza del soggetto notificante e la procedura da applicarsi a detta tipologia di notifiche.

Come è noto il comma 4° dell’art 30 del D.L. 78/2010, nel testo convertito con Legge 122/2010, prevede che tali notifiche debbano essere effettuate in via residuale dal Messo Comunale ovvero dalla Polizia Municipale e solo a seguito di specifica convenzione con quello specifico Comune – dato che dette convenzioni non risultano mai essere state proposte dall’INPS, almeno con riferimento ai Comuni che ci hanno contattato (diverse centinaia), detta notificazione, in assenza di tale convenzione che potrebbe dalle Autorità Giudicanti del caso essere considerata costitutiva di quello specifico potere notificatorio, deve intendersi viziata e quindi NULLA od addirittura INESISTENTE.

Si tenga presente che in casi analoghi (la notificazione delle Cartelle Esattoriali EQUITALIA prevista dall’art 26 del DPR 602/1973), pur in presenza di una notificazione materialmente eseguita dal Messo Comunale, la mancanza della convenzione è stata considerata causa di NULLITÀ notificatoria quando non di INESISTENZA della stessa, senza entrare nella casistica variamente risolta dalle Commissioni Tributarie relativamente alla competenza a notificare detti atti in modo difforme dal dettato letterale della norma.

La procedura da applicarsi è quella dell’art. 137 e seguenti del CPC o quella prevista dall’art. 60 del DPR 600/1973 o altra?

La differenze non sono irrilevanti, basti pensare alle implicazioni connesse con l’applicazione di un art. 143 del CPC invece che della lettera e) dell’art. 60 del CPR 600/1973, dell’invio o meno di una raccomandata postale nel caso di notifica ad un consegnatario diverso dal destinatario ovvero della sottoscrizione obbligatoria da parte del consegnatario, anche destinatario, dell’atto notificato.

E’ opinione della scrivente che il procedimento previsto dall’art. 60 DPR 600/1973, debba essere utilizzato solo quando espressamente previsto dalle norme sulle imposte. Ciò non è per l’avviso di addebito oggetto del quesito. Se invece si facesse riferimento alla natura di atto esecutivo attribuita dall’art. 30 del D.L. 78/2010 all’avviso di addebito, sarebbe l’art. 26 del DPR 602/1973 la norma di riferimento, prima ancora che l’art. 60 DPR 600/1973. La semplice valutazione che l’art. 60 DPR 600/73 sia applicabile a tutti gli atti rivolti al contribuente non è condivisibile e di conseguenza non è condivisibile il ricorso al Messo Comunale invocando le disposizioni dell’art. 60. Diversamente, anche volendo assumere l’art. 26 DPR 602/1973 a norma di riferimento per la notificazione, si riconfermerebbe l’assoluta discrezionalità del comune a provvedere con i Messi Comunali e/o la Polizia Municipale in linea con l’art. 26 DPR 602/1973 (per la cartella di pagamento) e allo stesso modo con l’art. 30, 4° comma, DL 78/2010 per l’avviso di addebito.

I Messi Notificatori (si ripete: non i Messi Comunali ma bensì i Messi Notificatori, cioè quelli previsti con limitate funzioni notificatorie per materia dal comma 158 e seguenti dell’art 1 della Legge 296/2006) possono notificare gli atti in oggetto emessi dall’INPS?

E’ indubbio che notifiche viziate in quanto eseguite da Agenti Notificatori senza le prescritte qualifiche, ovvero con procedure notificatorie esecutive errate, comportano la nullità/inesistenza delle stesse, eccepibili dal contribuente, con ipotizzabili danni erariali a carico dei soggetti coinvolti, anche per culpa in eligendo od in vigilando.

Nell’occasione è appena il caso di segnalare che quanto scritto nel penultimo periodo dell’allegato al messaggio INPS del 22/11/2013 n. 18.947 ove si indica di consegnare in busta chiusa gli Avvisi di Addebito al contribuente è inapplicabile con riferimento alla notifica a mani (discorso diverso è relativo alla notifica a mezzo posta) da parte dei Messi Comunali che, salvo i casi di notifica a consegnatari diversi dai destinatari nel rispetto della privacy, hanno avuto indicazioni da parte della scrivente Associazione di effettuare sempre e comunque le notifiche “a vista” in quanto gli stessi debbono attestare la conformità della copia notificata all’originale che verrà poi restituito all’INPS notificato.

In assenza, poi, di specifica convenzione in tal senso i Messi Comunali non sembrano tenuti a verificare/confermare gli indirizzi risultanti dagli archivi INPS, compito che, eventualmente, è in capo ai competenti Uffici dell’Anagrafe Comunale; tra l’altro nella lettera di trasmissione degli Avvisi di Addebito in oggetto si dice cosa fare nel caso che l’indirizzo sia corretto ma nulla si dice se lo stesso non lo è.

Si rende infine noto che qualora i destinatari della presente istanza intendessero predisporre uno schema standard per le convenzioni da stipularsi tra i Comuni e l’INPS la scrivente Associazione è disponibile a partecipare ad incontri propedeutici e/o a fornire un proprio contributo professionale in fase istruttoria.

Si rimane in attesa di un cenno di riscontro.

Cordiali saluti.

Pietro Tacchini

Presidente Nazionale


DIMISSIONI CON RISCHIO: la revoca non è vincolante per la P.A.

Pubblico   impiego: le dimissioni del dipendente sono valide anche se non accettate dall’Amministrazione.

La riforma del pubblico impiego portata a compimento con il decreto legislativo 165/2001 e successive modifiche ha determinato una delegificazione del rapporto di lavoro pubblico con la sostituzione delle norme pubblicistiche con quelle previste dalla contrattazione collettiva.

Essendo il c.d. rapporto di “pubblico impiego privatizzato” regolato sostanzialmente dalle norme del codice civile – nonché dalle norme sul pubblico impiego (solo in quanto non espressamente abrogate e non incompatibili) – le dimissioni del dipendente pubblico, in seguito revocate, sono valide anche se manca l’accettazione dell’amministrazione.

E’ questo il principio stabilito dalla Corte Suprema di Cassazione -sezione lavoro con la sentenza n. 24341 del 29 ottobre 2013.

Le dimissioni costituiscono infatti un negozio unilaterale recettizio, idoneo a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro dal momento in cui venga a conoscenza del datore di lavoro e indipendentemente dalla volontà di quest’ultimo di accettarle, sicché non necessitano più – per divenire efficaci – di un provvedimento di accettazione da parte della P.A..


PRECARI NELLA P.A.

 L’art. 35 comma 3-bis dlgs. 165/2001 e l’art. 4 comma 6 DL 101/2013 (convertito nella legge 125/2013) disciplinano due diverse procedure speciali di reclutamento a favore del personale precario delle PA, finalizzate alla valorizzazione delle professionalità acquisite e, al contempo, alla riduzione del numero dei contratti a termine nel pubblico impiego.

 I due interventi normativi rappresentano l’attuazione degli indirizzi programmativi definiti da Governo e Parti Sociali con il Protocollo d’Intesa sul Lavoro Pubblicodel 3.5.2012.

 Con la recente circolare del Dip. Funzione Pubblica n. 5 del 21.11.2013 sono stati forniti i primi indirizzi per la corretta applicazione del DL 101/2013 soffermandosi, tra l’altro, sul reclutamento speciale previsto dall’art. 4 del decreto-legge, “proprio perché è quello volto al superamento del fenomeno del precariato”, sottolineando che tale reclutamento non comporta alcun diritto per i possibili beneficiari e “può essere avviato dalle amministrazioni in via facoltativa, in ragione del loro fabbisogno”.

 Riassumiamo le novità

Reclutamento speciale a regime

 È la denominazione che la circolare 5/13 utilizza per individuare le procedure di reclutamento già disciplinate dall’art. 36 comma 3-bis dlgs. 165/2001. Secondo tale norma, a decorrere dal 1.1.2013, le PA -nel rispetto della programmazione triennale, nonché del limite massimo del 50% delle risorse finanziarie disponibili -possono avviare procedure di reclutamento mediante concorso pubblico:

 a)    con riserva dei posti, nel limite massimo del 40%, a favore dei titolari di rapporto di lavoro subordinato a tempo determinato che (alla data di pubblicazione dei bandi) hanno maturato almeno 3 anni di servizio alle dipendenze della PA che emana il bando;

 b)   per titoli ed esami, finalizzati a valorizzare, con apposito punteggio, l’esperienza professionale maturata dal personale di cui alla lettera a) e di coloro che (alla data di emanazione del bando) hanno maturato almeno 3 anni di contratto co.co.co nella PA che emana il bando.

 Reclutamento speciale transitorio

 È la denominazione che la circolare 5/13 utilizza per individuare le nuove procedure disciplinate dall’art. 4 comma 6 del DL 101/2013. La disposizione prevede che, a decorrere dal 1.9.2013 e fino al 31.12.2016, le PA possono avviare procedure di reclutamento mediante concorso a tempo indeterminato, per titoli ed esami, riservato per un massimo del 50% dei posti previsti, a coloro che:

a)   sono in possesso dei requisiti di cui all’art. 1 commi 519 e 558 legge 296/2006 e dell’art. 3 comma 90 legge 244/2007, ovvero:

  •  essere stati in servizio al 1.1.2007 con 3 anni di tempo determinato maturato nel quinquennio precedente;
  • essere stati in servizio al 1.1.2007 con 3 anni di tempo determinato maturato in virtù di un contratto in essere al 29.9.2006, tenendo conto anche del servizio svolto a tempo determinato nel quinquennio precedente al 1.1.2007;
  • 3 anni di tempo determinato già maturati nel quinquennio precedente al 1.1.2007, per coloro non in servizio al 1.1.2007;
  • in servizio al 1.1.2008 con 3 anni di tempo determinato maturato in virtù di un contratto in essere al 28.9.2007, tenendo conto anche del servizio svolto a tempo determinato nel quinquennio precedente al 1.1.2008.

 b)   coloro che alla data del 30.10.2013 hanno maturato, negli ultimi 5 anni (ovvero nel periodo dal 30.10.2008 al 30.10.2013), almeno 3 anni di servizio con contratto di lavoro subordinato a tempo determinato alle dipendenze della PA che emana il bando, con esclusione dei servizi prestati presso uffici di diretta collaborazione degli organi politici.

 Il carattere transitorio delle procedure speciali ex art. 4 comma 6 DL 101/2013 si evince dalla circostanza che dette procedure (a differenza di quelle speciali a regime) possono essere avviate entro limiti temporali ben definiti, cioè solo a valere sulle assunzioni relative al 2013, 2014, 2015 e 2016. Resta fermo il vincolo di non superare per ciascun anno la misura del 50%. Le graduatorie sono utilizzabili per assunzioni nel quadriennio 2013-2016.

 Rapporto tra le due procedure speciali di reclutamento

 Per espressa disposizione normativa le procedure speciali transitorie “possono essere avviate (…) in alternativa a quelle di cui all’articolo 35 comma 3-bis del dlgs. 165/2001”. Sul concetto di alternatività la circolare 5/13 chiarisce che “tale alternatività si pone rispetto all’esigenza di salvaguardare l’adeguato accesso dall’esterno e conseguentemente le due modalità di reclutamento speciale, nell’ambito del limite massimo del 50% delle risorse previste per ciascun anno, sono tra loro complementari”. La circolare precisa che il ricorso alle procedure speciali di reclutamento non può prescindere dall’adeguato accesso dall’esterno. Pertanto le PA non possono destinare più del 50% del loro budget assunzionale per il reclutamento speciale (sia quello a regime, sia per quello transitorio previsto nel quadriennio, sia per entrambi complementariamente considerati ove avviati nel quadriennio).

 La proroga dei contratti oltre il limite dei 36 mesi

 Il dlgs. 368/2001, applicabile al pubblico impiego in forza del rinvio operato dall’art. 36 dlgs. 165/2001, dispone che il contratto di lavoro a tempo determinato può essere prorogato solo quando la durata iniziale sia inferiore a 3 anni. La proroga è ammessa una sola volta, a condizione che sia richiesta da ragioni oggettive e si riferisca alla stessa attività lavorativa. In ogni caso, la durata complessiva del rapporto a termine non può essere superiore a 3 anni. Lo stesso dlgs. 368/2001 all’art. 5 comma 4-bis prevede eccezionalmente la possibilità di prorogare il contratto oltre il limite massimo dei 36 mesi mediante un’apposita procedura negoziale che coinvolge datore di lavoro e parti sindacali. A tale ipotesi (cd. proroga ordinaria) si aggiunge ora quella prevista dal DL 101/2013 (cd. proroga finalizzata), concernente la proroga disposta per consentire la conclusione delle procedure di reclutamento speciale transitorio.

 La proroga “finalizzata”

 L’art. 4 comma 9 DL 101/2013 consente alle PA la proroga oltre il limite massimo dei 36 mesi dei rapporti di lavoro a termine dei soggetti interessati alle procedure di reclutamento speciale transitorio fino al completamento delle stesse e comunque non oltre il 31.12.2016, al ricorrere dei seguenti presupposti:

 previsione nella programmazione relativa al quadriennio dell’avvio di procedure concorsuali di reclutamento speciale (sia secondo la normativa a regime, sia secondo la procedure transitorie previste dal DL 101/2013);

  • rispetto dei vincoli finanziari in materia di controllo della spesa del personale e assunzioni a tempo determinato e dei divieti di assunzione che scaturiscono in via sanzionatoria (art. 1 comma 557 legge 296/2007 e art. 76 comma 7 DL 112/2008);
  • rispetto dei limiti massimi della spesa annua per la stipula dei contratti a tempo determinato previsti dall’art. 9 comma 28 DL 78/2010, convertito nella legge 122/2010, fatte salve le deroghe previste dalla legge;
  • proroga nei confronti di coloro che alla data del 30.10.2013 abbiano maturato almeno 3 anni di servizio alle proprie dipendenze;
  • coerenza con il proprio effettivo fabbisogno, con le risorse finanziarie disponibili e con i posti in dotazione organica vacanti indicati nella programmazione triennale, anche alla luce delle cessazioni dal servizio che si prevede si verifichino nel corso del quadriennio.

 Le proroghe “non finalizzate”, disposte cioè senza avviare il reclutamento speciale, sono contrarie alle disposizioni previste dal decreto legge.

 Proroga secondo il regime ordinario ex art.5 comma 4-bis dlgs. 368/2001

 Per le PA che non hanno le condizioni finanziarie e i posti in pianta organica per avviare il reclutamento speciale transitorio di cui al DL 101/2013, la durata massima dei contratti a tempo determinato rientra nel regime ordinario previsto dal dlgs. 368/2001, anche per quanto concerne i possibili spazi di proroga oltre il limite massimo dei 3 anni. In tali ipotesi, infatti, rimane applicabile la disposizione di cui all’art. 5 comma 4-bis del dlgs. 368/2001 che eccezionalmente consente la proroga oltre il limite massimo di 36 mesi previa la stipula di CCNL o decentrati con le O.S. più rappresentative sul piano nazionale. Ragionando alla luce dei nuovi percorsi di stabilizzazione, sembra corretto affermare che la proroga ordinaria possa essere motivata sul presupposto dell’avvio delle procedure di reclutamento speciale a regime previste dall’art. 35 comma 3-bis dlgs. 165/2001 al fine di delineare un percorso speculare a quello definito dal DL 101/2013. A tal proposito, la circolare 5/13 precisa che “le amministrazioni hanno la facoltà di valutare, in relazione al proprio fabbisogno e nel rispetto dei limiti finanziari in tema di lavoro flessibile, se continuare ad avvalersi – nelle more dell’esperimento delle procedure concorsuali di cui all’art.35 comma 3-bis del dlgs. 165/2001, che non hanno carattere transitorio, per un periodo coerente con la durata delle suddette procedure – del personale interessato alle stesse. La programmazione e l’avvio delle predette procedure concorsuali rappresenta un presupposto importante per supportare le ragioni di una possibile deroga in sede di negoziazione, nella cui sede medesima saranno opportunamente valutati gli interessi rappresentati dalle parti, con particolare riferimento alla necessaria tutela del lavoratore, per evitare il rischio di precarizzazione, sulla corretta applicazione delle disposizioni speciali previste dal DL 101/2013”.


Cass. civ. Sez. VI – 1, Sent., (ud. 05-11-2013) 30-01-2014, n. 2035

 REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. RAGONESI Vittorio – rel. Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10187/2012 proposto da:

S.V. (OMISSIS) in qualità di Curatore del fallimento n. 1105/2010 in capo alla società PROFILSERRE SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 34, presso lo studio dell’avvocato DE FELICE SERGIO, rappresentato e difeso dall’avvocato RICCIO ANTONIO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA ETR SPA;

– intimata –

avverso il decreto nel procedimento R.G. 866/2011 del TRIBUNALE di LOCRI del 13.3.2012, depositato il 20/03/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/11/2013 dal Consigliere Relatore Dott. VITTORIO RAGONESI;

udito per il ricorrente l’Avvocato Antonio Ricci che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. PIERFELICE PRATIS che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La Curatela del Fallimento PROFILSERRE s.r.l. ha proposto ricorso per Cassazione sulla base di tre motivi avverso il decreto emesso nella causa N. 866/2011 e depositato il 20.03.2012 con cui il Tribunale di Locri ha accolto l’opposizione allo stato passivo del fallimento della società Profilserre a r.l. proposta da Equitalia ETR s.p.a..

L’intimato non ha svolto attività difensiva.

Motivi della decisione

Con i tre motivi di ricorso il fallimento ricorrente contesta, sotto diversi profili,il rigetto della eccezione di inammissibilità dell’opposizione per tardività. Deduce che l’atto oggetto di opposizione relativo alla comunicazione di deposito dello stato passivo del fallimento era stato comunicato L. Fall., ex art. 97, dal cancelliere tramite un servizio di posta privata ad Equitalia in data 20.6.11, come risulta dalla sottoscrizione dell’avviso di ricevimento, mentre l’opposizione era stata depositata in cancelleria il 22.7.11.

Sostiene in particolare il ricorrente che doveva ritenersi che la comunicazione effettuata tramite un servizio di posta privata fosse del tutto legittima e conseguentemente la data di notifica doveva ritenersi essere quella attestata dal verbale di consegna dell’incaricato postale sottoscritto da Equitalia.

A sostegno della propria tesi deduce che,la comunicazione ai sensi della L. Fall., art. 97, può essere data a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento ovvero tramite telefax o posta elettronica quando il creditore abbia indicato tale modalità di comunicazione e, che il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, come modificato dal decreto legislativo n. 58 del 2011 con entrata in vigore dal 30.4.11, prevede che sono affidati in via esclusiva al fornitore del servizio postale universale, e, cioè,alla Poste italiane, i servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni,che riguarda le notifiche da parte dell’Ufficiale giudiziario che si avvale del servizio postale, ma non anche quelle effettuate direttamente dal cancelliere a mezzo posta per cui questi poteva avvalersi anche dei servizi di posta privati.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente appaiono infondati.

Invero, nel caso di specie non rileva la questione se il cancelliere possa avvalersi di un servizio di posta privata o meno.

Quello che qui rileva è accertare se, ai fini della decorrenza del termine per proporre impugnazione, possa considerarsi come facente fede l’attestazione della data di consegna da parte dell’incaricato di posta privata.

Tale ipotesi è da escludere.

Va a tale proposito rammentato che questa Corte ha già avuto modo di affermare in tema di contenzioso tributario, (ma il principio riveste una portata generale applicabile anche al caso di specie) che nel caso di notificazioni fatte direttamente a mezzo del servizio postale, laddove consentito dalla legge, mediante spedizione dell’atto in plico con raccomandata con avviso di ricevimento quest’ultimo costituisce atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c., e, pertanto, le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario.

(Cass. 17723/06 ù Cass. 13812/07).

Non altrettanto può dirsi per ciò che concerne le notifiche effettuate da un servizio di posta privato. Gli agenti postali di tale servizio non rivestono infatti la qualità di pubblici ufficiali onde gli atti dai medesimi redatti non godono di nessuna presunzione di veridicità fino a querela di falso con la conseguenza le attestazioni relative alla data di consegna dei plichi non sono idonee a far decorrere il termine iniziale per le impugnazioni.

A tale proposito è già stato chiarito da questa Corte che, in tema di tempestività del ricorso per cassazione, il termine di cui all’art. 326 c.p.c., comma 1, decorre dalla notifica della sentenza impugnata, la quale, nell’ipotesi in cui la notifica abbia avuto luogo a mezzo del servizio postale, va desunta, in mancanza di altri elementi, dalla busta di spedizione, ove sul retro sia stata apposta la data di arrivo presso il destinatario, non potendo essere ricavata dal timbro apposto sul plico da parte dello stesso destinatario, pur recante il numero cronologico e la data, trattandosi di atti di organizzazione interna e nonostante la natura eventualmente pubblica del predetto soggetto (nel caso di specie trattavasi dell’Agenzia delle Entrate) (Cass. 25753/07).

Ciò sta a significare che l’attestazione fidefacente dell’ufficiale postale non è surrogabile da alcun altro tipo di atto neppure nel caso in cui lo stesso sia stato compiuto al momento della ricezione da un ente pubblico.

Ciò porta a maggior ragione ad escludere che possa essere idonea ai fini in esame l’attestazione di un semplice privato. Deve conclusivamente affermarsi che,non essendovi prova circa l’effettiva data di consegna della comunicazione di cancelleria relativa al deposito dello stato passivo del fallimento della Profilserre srl, l’opposizione avverso il detto atto deve ritenersi tempestiva.

Il ricorso va in conclusione respinto. Nulla per le spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 5 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2014


Sanzioni disciplinari: non costituisce una violazione disciplinare la dilazione del processo se congrua in relazione ai carichi di lavoro

 La decisione delle Sezioni unite civili della Suprema Corte di cassazione, le quali, con sentenza n. 1516 del 27 gennaio 2014 hanno respinto il ricorso del Procuratore Generale promosso contro la decisione del Consiglio superiore della magistratura di assolvere sette magistrati, che avevano rinviato per anni ed ingiustificatamente la decisione di numerose cause.
Nella fattispecie, e più precisamente, ai predetti giudici era stato addebitato di avere, nello svolgimento delle loro funzioni di consiglieri relatori in cause civili, dilazionato la decisione di numerose cause mediante rinvii a distanza anche di 4/7 anni, benché ne sarebbe stata possibile la definizione in termini più brevi in relazione ai carichi di lavoro, all’adeguatezza dei mezzi disponibili ed alla materia delle controversie.

La Sezione disciplinare ha ritenuto, pertanto, che non vi fossero nella fattispecie elementi per considerare violato il dovere di laboriosità o che fosse dovuto a negligenza inescusabile il mancato rispetto dei termini di cui agli artt. 81, 82 e 115 disp. att. c.p.c.

La Suprema Corte ha respinto il ricorso del Procuratore Generale affermando che la decisione di assoluzione da parte della Sezione disciplinare del Csm trovava fondamento nel fatto che “la fissazione da parte del singolo giudice o del collegio di un’agenda del processo che non si limiti alla fissazione cronologica dei processi da decidere sulla base dell’ordine di iscrizione a ruolo, ma sulla base delle caratteristiche dei processi pendenti sul ruolo, delle loro difficoltà, dell’urgenza legata ad alcune vicende specifiche o alle caratteristiche del procedimento, non costituisce una violazione disciplinare se la dilazione non appaia palesemente incongrua in relazione ai carichi di lavoro ed alla difficoltà dei processi”.


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 26-11-2013) 27-01-2014, n. 1516

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROVELLI Luigi Antonio – Primo Presidente f.f. –

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente Sez. –

Dott. RORDORF Renato – Presidente Sez. –

Dott. CECCHERINI Aldo – Consigliere –

Dott. AMATUCCI Alfonso – rel. Consigliere –

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14801/2013 proposto da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE DI CASSAZIONE, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, presso la PROCURA GENERALE DELLA CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR 12;

– ricorrente –

contro

P.M., D.C.A., G.P., R. F., D.M.D., D.A.M., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VITTORIA COLONNA 32, presso lo studio dell’avvocato DE SANTIS FRANCESCO, rappresentati e difesi dall’avvocato BERTI ARNOALDI VELI GIULIANO, per procure speciali, in atti;

– resistenti –

avverso la sentenza n. 57/2013 del CONSIGLIO SUPERIORE DELLA MAGISTRATURA, depositata il 23/04/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. ALFONSO AMATUCCI;

udito l’Avvocato Giuliano BERTI ARNOALDI VELI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale, Dott. APICE Umberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1.- Con sentenza n. 57/2013, pronunciata in data 8 marzo 2013 e depositata il 23 aprile successivo, la Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura ha assolto, per essere rimasto escluso l’addebito, i dottori G.P., D.C. A., D.M.D., P.M., R.F., D.A. e A.R. dall’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 1, comma 1, e comma 2, lett. a) e g).

Ai predetti magistrati era stato addebitato di avere, nelle svolgimento delle loro funzioni di consiglieri relatori in cause civili pendenti innanzi alla Corte d’appello di Bologna, dilazionato la decisione di numerose cause mediante rinvii a distanza anche di 4/7 anni, benchè sarebbe stata possibile la definizione in termini più brevi in relazione ai carichi di lavoro, all’adeguatezza dei mezzi disponibili ed alla materia delle controversie, com’era dimostrato dal fatto che altri magistrati avevano invece rinviato oltre cento cause (per anno) negli anni immediatamente successivi al 2010.

L’azione disciplinare era stata promossa su iniziativa della Procura generale della Corte di cassazione con nota del 5.1.2011, a seguito di notizia circostanziata dei fatti acquisita in data 11.8.2010.

2.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione il Procuratore generale della Corte di cassazione sulla base di un unico motivo.

Il ricorso non concerne la posizione del Dott. A..

I sei magistrati nei confronti dei quali il ricorso è rivolto hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1-. La Sezione disciplinare ha preliminarmente rilevato:

a) che non aveva trovato conferma la premessa in fatto dell’incolpazione, costituita da una rilevante diversità di comportamento fra giudici della stessa sezione;

b) che, nonostante la riformulazione dell’incolpazione (a seguito della declaratoria di nullità del procedimento, con ordinanza della Sezione disciplinare dell’11.6.2012, “per genericità ed indeterminatezza a dell’accusa”) non era stato indicato “in base a quali criteri si fosse stabilito in cento unità il numero delle decisioni ragionevolmente programmabili per ciascun anno, senza alcun riferimento alla natura ed alla complessità dei casi”;

c) che non era stato neppure dedotto che il metodo di lavoro contestato agli incolpati avesse comportato una diminuzione del numero delle definizioni ed un conseguente allungamento della durata dei processi.

Ha dunque concluso che “la fissazione da parte di un singolo giudice o, come nel caso di specie, del collegio di un’agenda del processo che non si limiti alla fissazione cronologica dei processi da decidere sulla base dell’ordine di iscrizione a ruolo ma la scaglioni sulla base delle caratteristiche dei processi pendenti sul ruolo, della loro difficoltà, dell’urgenza legata ad alcune vicende specifiche o alle caratteristiche del procedimento non costituisce una violazione disciplinare se la dilazione non appaia palesemente incongrua in relazione ai carichi di lavoro ed alla difficoltà dei processi”.

2.- Il Procuratore generale – deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 2, comma 1, lettera g), nonchè carenza o contraddittorietà della motivazione – in buona sostanza censura la sentenza per non aver considerato che rinvii (ex art. 352 c.p.c.) di quattro, cinque, sei o sette anni per la decisione di numerosissime cause apparivano del tutto ingiustificabili in relazione al non elevatissimo numero di quelle fissate per la precisazione delle conclusioni negli anni precedenti.

2.1.- Ebbene, per quanto in ricorso correttamente si sostenga che per la configurabilità dell’illecito di cui alle citate disposizioni (la seconda delle quali concerne “la grave violazione di legge determinata da ignoranza o negligenza inescusabile”) non rilevi la produttività del magistrato incolpato in relazione a quella di altri magistrati, sta il fatto che il problema che è stato posto alla Sezione disciplinare non era oggettivamente suscettibile di essere risolto indipendentemente dalla considerazione degli elementi di fatto considerati insussistenti o, addirittura, non dedotti.

Problema che, in definitiva, consiste nello stabilire fino a che punto è consentita una dilazione della decisione al fine di rendere possibile che cause oggettivamente più urgenti o più rilevanti di altre siano decise in tempi più brevi. E’, infatti, del tutto ovvio che se ogni giudice fissasse per la decisione (recte, per la precisazione delle conclusioni ex art. 352 c.p.c.) un numero di cause pari al limite delle sentenze che può redigere in un anno, non avrebbe poi spazio per poter fissare a breve le cause che presentassero connotati di urgenza. Benché vada detto che meriterebbe censura qualsiasi atteggiamento volto ad aumentare il da farsi in un più lontano futuro al precipuo scopo di alleggerire l’impegno più vicino nel tempo, come tale più probabilmente destinato ad essere adempiuto dalla stessa persona fisica del magistrato che il rinvio dispone.

La Sezione disciplinare ha ritenuto che, in relazione ai fatti emersi, non vi fossero elementi per dire violato il dovere di laboriosità o per affermare che fosse dovuto a negligenza inescusabile il mancato rispetto dei termini di cui agli artt. 81, 82 e 115 disp. att. c.p.c.. E lo ha fatto con motivazione congrua in relazione all’incolpazione, così come formulata.

3.- Il ricorso è respinto.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese. Non sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, aggiunto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE, A SEZIONI UNITE, rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 26 novembre 2013.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2014


Circolare 01/2014 – Notificazione ai sensi dell’art. 65, D.P.R. 29.9.1973, n. 600 (Eredi del contribuente)

L’articolo 65 del D.P.R. 600/1973 prende in considerazione l’eventualità in cui non risultino ancora identificati gli eredi del contribuente defunto ma non introduce una procedura speciale di notificazione, rimanendo fermo a tal fine il riferimento all’art. 60 della medesima legge.

Leggi: Circolare notifica art 65 DPR 600-1973


Corso formazione/aggiornamento Montegrotto Terme (PD) – 27.03.2014

Giovedì 27 marzo 2014

Città di Montegrotto Terme

Rustico di Villa Draghi

Via Enrico Fermi 1

Orari:  9:00 – 13:00   14:00 – 17:00

Con il patrocinio della Città di Montegrotto Terme

  • Quote di partecipazione al corso:

    € 162,00(*) (**) se il partecipante al Corso è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2013 con rinnovo anno 2014 già pagato al 31.12.2013. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
    € 202,00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2014 pagando la quota insieme a quella del Corso. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
    € 272,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo il Corso (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

    La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

    Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali,   comprensive  dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

    Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria del Corso

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Corso Montegrotto 2014 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art.10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – comprensivo di  € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se il corso si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Asirelli Corrado

  • Resp. Servizio Notifiche del Comune di Cesena (FC)
  • Membro della Giunta Esecutiva di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

 

Corso realizzato con il sistema Outdoor training

Programma:

Il Messo Comunale

  • Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: notifiche atti pervenuti tramite P.E.C.
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c. : notificazione nella resi- denza, dimora e domicilio

Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi

La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010

La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il do- miciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio scono- sciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale”

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 149 bis c.p.c. ed il Codice della Am ministrazione Digitale (D. Lgs 82 /2005)

La mera trasmissione di atti a mezzo posta elettronica

La PEC

La firma digitale

La notificazione a mezzo posta elet- tronica

  • Le novità introdotte dalla “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973

L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973

L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)

  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • Il D.P.R. 602/1973

L’Art 26 del D.P.R. 602/1973

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy
  • Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’iscrizione al corso dovrà essere effettuata inviando tramite fax o mail il modulo (link “Modulo di iscrizione …” a fondo pagina) a cui dovrà seguire il versamento della quota di partecipazione al Corso.

A richiesta, scritta, l’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne Comunale, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.).

Vedi: Attività di formazione anno 2014

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE MONTEGROTTO TERME 2014

Vedi: Immagini del Corso di formazione

Vedi: Video del Corso di formazione


Corso formazione/aggiornamento Cisterna Latina (LT) – 18.03.2014

Martedì 18 marzo 2014

Comune di Cisterna Latina (LT)

Palazzo dei Servizi

Sala delle Statue

Via Zanella 2

Orari:  9:00 – 13:00   14:00 – 17:00

Con il patrocinio del Comune di Cisterna Latina

  • Quote di partecipazione al corso:

    € 162,00(*) (**) se il partecipante al Corso è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2013 con rinnovo anno 2014 già pagato al 31.12.2013. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
    € 202,00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2014 pagando la quota insieme a quella del Corso. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
    € 272,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo il Corso (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

    La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

    Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali,   comprensive  dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

    Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria del Corso

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Corso Cisterna 2014 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art.10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – comprensivo di  € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se il corso si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Asirelli Corrado

  • Resp. Servizio Notifiche del Comune di Cesena (FC)
  • Membro della Giunta Esecutiva di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Corso realizzato con il sistema Outdoor training

Programma:

Il Messo Comunale

  • Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: notifiche atti pervenuti tramite P.E.C.
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c. : notificazione nella resi- denza, dimora e domicilio

Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi

La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010

La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il do- miciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio scono- sciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale”

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 149 bis c.p.c. ed il Codice della Am ministrazione Digitale (D. Lgs 82 /2005)

La mera trasmissione di atti a mezzo posta elettronica

La PEC

La firma digitale

La notificazione a mezzo posta elet- tronica

  • Le novità introdotte dalla “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973

L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973

L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)

  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • Il D.P.R. 602/1973

L’Art 26 del D.P.R. 602/1973

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy
  • Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’iscrizione al corso dovrà essere effettuata inviando tramite fax o mail il modulo (link “Modulo di iscrizione …” a fondo pagina) a cui dovrà seguire il versamento della quota di partecipazione al Corso.

A richiesta, scritta, l’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne Comunale, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.).

Vedi: Attività di formazione anno 2014

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE Cisterna Latina 2014

Vedi:

Vedi: Video del Corso di formazione


Corso Formazione/aggiornamento Erchie (BR) – 13.03.2014

Giovedì 13 marzo 2014

Comune di Erchie

Sala Rappresentanza

Via Santa Croce 2

Orari:  9:00 – 13:00   14:00 – 17:00

Con il patrocinio del Comune di Erchie

  • Quote di partecipazione al corso:

    € 182,00(*) (**) se il partecipante al Corso è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2013 con rinnovo anno 2014 già pagato al 31.12.2013. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
    € 222,00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2014 pagando la quota insieme a quella del Corso. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
    € 302,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo il Corso (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

    La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

    Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali,   comprensive  dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

    Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria del Corso

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Corso Erchie 2014 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art.10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – comprensivo di  € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se il corso si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Asirelli Corrado

  • Resp. Servizio Notifiche del Comune di Cesena (FC)
  • Membro della Giunta Esecutiva di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Corso realizzato con il sistema Outdoor training

Programma:

Il Messo Comunale

  • Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: notifiche atti pervenuti tramite P.E.C.
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c. : notificazione nella resi- denza, dimora e domicilio

Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi

La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010

La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il do- miciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio scono- sciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale”

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 149 bis c.p.c. ed il Codice della Am ministrazione Digitale (D. Lgs 82 /2005)

La mera trasmissione di atti a mezzo posta elettronica

La PEC

La firma digitale

La notificazione a mezzo posta elet- tronica

  • Le novità introdotte dalla “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973

L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973

L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)

  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • Il D.P.R. 602/1973

L’Art 26 del D.P.R. 602/1973

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy
  • Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’iscrizione al corso dovrà essere effettuata inviando tramite fax o mail il modulo (link “Modulo di iscrizione …” a fondo pagina) a cui dovrà seguire il versamento della quota di partecipazione al Corso.

A richiesta, scritta, l’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne Comunale, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.).

Vedi: Attività di formazione anno 2014

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE Erchie 2014

Vedi: Fotografie del Corso di Formazione

Vedi: Video della Giornata di Studio


DARE DEL BUGIARDO: quando l’ironia eccessiva può provocare danni

Dare del “bugiardo” al capo ufficio (o anche al collega) è sempre ingiuria, anche quando a farlo è un rappresentante sindacale.

Corte di Cassazione Penale n. 35992/2013, sez. V del 3/9/2013

  Il caso ha riguardato un agente di PM (anche sindacalista) di un comune abruzzese che si era rivolto alla propria Comandante, davanti ad altre persone, pronunciando la frase: “In questo corpo non lavora nessuno, lei è una bugiarda, io non parlo con i bugiardi”. 

 L’agente di PM, dopo due condanne, ha presentato ricorso in Cassazione sostenendo:

che la frase ritenuta offensiva era stata pronunciata nel corso di una discussione di contenuto sindacale, caratterizzata da forte conflittualità e che le parole pronunciate non avevano valenza offensiva.

che l’ingiuria pronunciata sul lavoro, tra colleghi, può configurare il diritto di critica.

 La Cassazione è stata di diverso avviso e ha respinto il ricorso ritenendo che “l’affermazione circa il mancato svolgimento di attività lavorativa da parte di addetti alla polizia municipale si traduce inevitabilmente in una accusa (mossa alla comandante) di incapacità organizzativa delle delicate funzioni dei singoli vigili urbani e di carenza di controllo” e che l’accusa “di mentire e violare la verità, nell’ambito di una pur accesa polemica, ugualmente costituisce un’indubitabile lesione dell’onore e del decoro sotto il profilo etico e professionale”.

 Non accolta neppure la tesi secondo cui la frase dell’agente non è offensiva perché lui è un rappresentante sindacale.

Dare del BUGIARDO, senza prove certe, è e resta comunque una OFFESA


Corso Formazione /aggiornamento Quarto d’Altino (VE) – 6.03.2014

Giovedì 6 marzo 2014

Comune di Quarto d’Altino (VE)

Centro Servizi

Via Abbate Tommaso 1

 

Orari:  9:00 – 13:00   14:00 – 17:00

Con il Patrocinio del Comune di Quarto d’Altino

Quote di partecipazione al corso:

€ 162,00(*) (**) se il partecipante al Corso è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2013 con rinnovo anno 2014 già pagato al 31.12.2013. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
€ 202,00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2014 pagando la quota insieme a quella del Corso. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
€ 272,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo il Corso (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali e sono comprensive dell‘imposta di bollo di € 2,00, tramite:

Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria del Corso

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Corso Quarto 2014 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art.10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se il corso si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Durì Francesco

  • Resp. Servizio Notifiche del Comune di Udine
  • Membro della Giunta Esecutiva di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Corso realizzato con il sistema Outdoor training

Programma:

Il Messo Comunale

  • Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: notifiche atti pervenuti tramite P.E.C.
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c. : notificazione nella residenza, dimora e domicilio

Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi

La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010

La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il do- miciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale”

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 149 bis c.p.c. ed il Codice dell’Amministrazione Digitale (D. Lgs 82 /2005)

La mera trasmissione di atti a mezzo posta elettronica

La PEC

La firma digitale

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Le novità introdotte dalla “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973

L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973

L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)

  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • Il D.P.R. 602/1973

L’Art 26 del D.P.R. 602/1973

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy
  • Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’iscrizione al corso dovrà essere effettuata inviando tramite fax o mail il modulo (link “Modulo di iscrizione …” a fondo pagina) a cui dovrà seguire il versamento della quota di partecipazione al Corso.

A richiesta, scritta, l’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne Comunale, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.).

Vedi: Attività di formazione anno 2014

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE Quarto d’Altino 2014

Vedi: Immagini del Corso di formazione

Vedi: Video della Giornata di Studio


Novità sul procedimento amministrativo

Si fornisce agli addetti ai lavori, Responsabili di procedimento (cat. D e C), alcuni recenti interessanti pronunce in materia di procedimento amministrativo.

PROCEDIMENTO TROPPO LUNGO

Consiglio di Stato , sez. VI – sentenza 2.9.2013 n. 4344

Il caso ha riguardato la figura del “danno da ritardo”, in cui c’è stato un illegittimo arresto procedimentale, poi superato (senza peraltro che la PA avesse svolto alcuna ulteriore indagine istruttoria) solo dall’adozione del provvedimento finale autorizzatorio, ma ampiamente oltre il termine di conclusione del procedimento.

A ciò si è aggiunto l’elemento della colpa, in quanto non vi erano particolari difficoltà interpretative delle norme e la PA aveva già raccolto tutti i dati.

CATTIVO ESERCIZIO DELL’ATTIVITÀ AMMINISTRATIVA

Consiglio di Stato, sez. V – sentenza 9.10.2013 n. 4968

Il risarcimento del danno da “cattivo esercizio” dell’attività amministrativa deve riguardare:

  • l’aggravamento del procedimento non dovuta a straordinarie e motivate esigenze imposte dalla doverosa attività istruttoria;
  • la mancata conclusione del procedimento amministrativo con un provvedimento espresso;
  • la mancata motivazione dei provvedimenti autorizzatori che devono essere motivati;
  • l’ingiustificato arresto procedimentale, rinviando sine die il doveroso esercizio della funzione
  • amministrativa.

È necessario inoltre il requisito della colpa, intesa come negligenza.

Va infine ricordato che l’errore scusabile alleggerisce la responsabilità, se sussistono:

  • peculiari complessità dei fatti;
  • contrasti giurisprudenziali;
  • incertezza normativa;
  • determinazione presa in conformità a un precedente atto amministrativo.