L’attività svolta in malattia ritarda la guarigione? Sì al licenziamento

Spesso accade che a seguito di un’indagine investigativa il datore di lavoro scopra che il dipendente durante il periodo di assenza per malattia o infortunio svolge altre attività (lavorative e non) o che nei giorni di permesso per assistere un familiare disabile si dedichi a svariate attività, ma non a quella di assistenza. In tali casi, come può intervenire l’azienda?
Vediamo nel dettaglio le regole che bisogna seguire per non incorrere in un licenziamento illegittimo.
Svolgimento di altre attività durante le assenze per malattia: quando è legittimo il licenziamento?
È piuttosto frequente che durante i periodi di assenza dal lavoro per malattia o infortunio il dipendente si dedichi ad altre attività.
Lo stato di malattia o di infortunio di per sé non comporta l’impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma occorre verificare in concreto l’effettiva condizione psico-fisica del lavoratore in rapporto alla mansione, nonché la compatibilità della condotta dallo stesso tenuta durante il periodo di malattia con il regolare percorso di guarigione che non deve risultare pregiudicato.
In altre parole, è legittimo procedere al licenziamento per giusta causa per violazione degli obblighi di diligenza e correttezza solo qualora l’attività svolta in costanza di malattia o di infortunio sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e idonea a pregiudicare la guarigione e il rientro in servizio del medesimo.
In casi del genere, infatti, il datore non solo è costretto a privarsi della presenza del dipendente malato o infortunato, ma rischia anche che il periodo di assenza venga prolungato dal comportamento sconsiderato e negligente del lavoratore che svolga attività incompatibili con lo stato di malattia.
Tale circostanza da sola è sufficiente a legittimare il licenziamento per giusta causa e non è necessario eventualmente dimostrare la simulazione della malattia da parte del lavoratore e, dunque, la falsità ideologica del certificato medico.
Si segnalano a tal riguardo alcuni casi in cui la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa:
• Il caso del dipendente affetto da “dermatite acuta alle mani” che nei giorni di assenza svolgeva altra attività presso il bar “…” nei giorni di assenza (Cass. 18245/2020);
• il caso del dipendente a cui erano stati prescritti cure e riposo a seguito di un infortunio e che nei giorni di assenza dal lavoro guidava automezzi e svolgeva attività di carico/scarico di cerchi in lega per autovetture (Cass. 7641/2019);
• il caso dell’autista di pullman, a cui era imposto l’uso del collare cervicale a seguito di un infortunio in itinere, che faceva il parcheggiatore in uno stabilimento balneare (Cass. 17514/2018);
• il caso del lavoratore operato al menisco che continuava a lavorare nei campi di sua proprietà (Cass. 17636/2017);
• il caso del dipendente con distorsione alla caviglia che aveva partecipato a due partite di calcetto in un torneo amatoriale (Cass. 10647/2017);
• il caso del dipendente affetto da lombalgia che nei giorni di assenza per malattia faceva il cameriere e cassiere in un ristorante (Cass. 3067/2016);
• il caso del dipendente che durante la convalescenza per una discopatia, che aveva reso necessari due interventi chirurgici, si era recato in azienda e aveva caricato sulla sua auto alcune bombole di gas molto pesanti (Cass. 13676/2016).
Panoramica su alcuni casi di illegittimità del licenziamento
Alla luce dei principi sopra esposti sono, invece, considerati dalla giurisprudenza tendenzialmente compatibili con lo stato di malattia o di infortunio spostamenti per acquisti e commissioni, purché riferibili ad esigenze ordinarie della vita quotidiana, e prestazioni di lavoro occasionali e limitate nel tempo.
In particolare, si segnala il caso di una dipendente di un supermercato licenziata perché durante il congedo per malattia riconosciuto a causa di una tendinopatia lavorava per qualche ora al giorno come cassiera nella pasticceria del marito. La Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento in considerazione del carattere sporadico delle prestazioni lavorative, come tali inidonee a peggiorare lo stato di salute della lavoratrice (Cass. 13270/2018).
Analogamente è stato dichiarato illegittimo il licenziamento di un autista di camion che durante il periodo di malattia per sindrome ansioso-depressiva lavorava nella tabaccheria della moglie. Una tale attività discontinua, occasionale, completamente diversa e meno pericolosa di quella per la quale il dipendente era stato messo a riposo non era tale da determinare un rischio per la ripresa del lavoro (Cass. 30417/2017).
Si segnala, infine, la pronuncia di illegittimità del licenziamento del dipendente che durante l’assenza per malattia dovuta a contusione della spalla e del polso aveva guidato la propria autovettura e svolto in un esercizio commerciale attività di moderata intensità. Le descritte attività non erano incompatibili con la malattia considerato che la sua mansione, che consisteva nel guidare un camion con obbligo di scarico delle merci, era di gran lunga più gravosa della semplice guida di un’auto o dell’attività di vendita all’interno di un negozio (Cass. 21667/2017).
Dunque, svolgere altre attività durante le assenze dal lavoro per malattia o infortunio non è di per sé vietato, ma è necessario verificare caso per caso se tali diverse attività siano di intensità e frequenza tali da pregiudicare la guarigione e il rapido rientro in servizio. Chiaramente, se il dipendente svolge attività tali da ritardare la guarigione e il rientro a lavoro, tiene una condotta negligente che è tale da ledere la fiducia del datore. Diversamente, se le condotte tenute durante le assenze non denotano negligenza e imprudenza del dipendente, non può ritenersi leso il vincolo fiduciario.
Indebito utilizzo dei permessi per l’assistenza dei familiari disabili: un caso emblematico di abuso del diritto
Accanto ai casi in cui il dipendente durante le assenze per malattia o infortunio svolge attività incompatibili con tali status, altrettanto frequenti sono i casi in cui il lavoratore si assenta dal lavoro per fruire dei permessi ex L. 104/92 senza svolgere però attività di assistenza del familiare disabile.
L’art. 33, comma 3, L. 104/1992 attribuisce al “lavoratore dipendente che assiste persona con handicap in situazione di gravità” il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa.
La funzione del permesso è, dunque, quella di garantire l’assistenza al familiare disabile che può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell’interesse del familiare assistito.
Non è assolutamente consentito utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio, infatti, comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, sacrificio giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore e dalla coscienza sociale come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e, dunque, si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto. Tale abuso non solo comporta una violazione dei doveri di fedeltà, diligenza, correttezza e buona fede che incombono sul dipendente, ma integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale.
Infatti, è innegabile il disvalore sociale della condotta del lavoratore che usufruisce, anche solo in parte, di permessi per l’assistenza a portatori di handicap al fine di soddisfare proprie esigenze personali. Egli, infatti, in tal modo scarica il costo di tali esigenze sulla intera collettività, in quanto i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi. Non solo. Il dipendente disonesto “costringe il datore ad organizzare diversamente il lavoro in azienda ad ogni permesso e i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa” (Cass. 23891/2018).
La nozione “ampia” di assistenza al disabile
Per poter meglio individuare i casi in cui l’uso dei permessi ex L. 104/92 sfoci nell’abuso del diritto, occorre chiarire anche cosa debba intendersi per assistenza al disabile.
La giurisprudenza ha elaborato una nozione ampia di assistenza che non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione ovvero semplice e materiale attività di accudimento dello stesso. L’assistenza comprende necessariamente anche lo svolgimento di incombenze pratiche di vario contenuto che il portatore di handicap non sia in condizione di compiere autonomamente.
In tale ottica, è stato dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che durante un giorno di fruizione di un permesso ex L. 104 era stato visto dagli investigatori incaricati dall’azienda mentre faceva dei prelievi al bancomat, andava a fare la spesa e incontrava un geometra per un problema di infiltrazioni nell’appartamento della madre disabile. Tutte le attività sopra descritte, pur non rientrando tra quelle di assistenza in senso stretto, erano finalizzate ad aiutare il familiare che, nelle condizioni in cui versava, non era assolutamente in grado di occuparsi di sé stesso e della casa (Cass. 23891/2018).
Analogamente è stato dichiarato illegittimo il licenziamento della lavoratrice che nelle giornate di permesso per assistere la madre disabile era stata vista uscire dall’abitazione della medesima per svolgere attività che erano comunque riconducibili in senso lato al concetto di assistenza: anche le commissioni svolte presso uffici e negozi, purché nell’interesse del familiare da accudire, costituiscono forme di assistenza a chi non è in grado di compierle autonomamente (Cass. 30676/2018).
Conclusioni
Come già ribadito non esistono “zone franche” se le condotte del dipendente ledono la fiducia dell’azienda e Furto di merce di modico valore: è legittimo il licenziamento per giusta causa, sono molteplici le condotte che possono ledere la fiducia del datore. Un dipendente che nei periodi in cui dovrebbe restare a riposo si dedica ad attività tali da danneggiare la propria salute e ritardare il rientro in servizio, è inaffidabile anche se non ha falsificato i certificati medici e anche se le altre attività svolte non sono in concorrenza con il datore. Analogamente, è inaffidabile il dipendente che abusa dei permessi ex L. 104/92 stante il disvalore sociale della condotta e il peso che tale comportamento fa ricadere sulla collettività e sull’organizzazione aziendale.


Indennità sostitutiva del pasto, importi esentasse

Le indennità corrisposte dal datore di lavoro nei casi in cui è impossibile la somministrazione di alimenti e bevande attraverso le card elettroniche, a causa della chiusura degli esercizi in lockdown da pandemia COVID-19 è esentasse. Tali importi, infatti, non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente.
A chiarirlo è l’AGENZIA DELLE ENTRATE – RISPOSTA N. 301 DEL 2 SETTEMBRE 2020.
Indennità sostitutiva del pasto, cosa dice la normativa fiscale?
L’Agenzia delle Entrate è stata interpellata da una società che, in sostituzione del servizio di mensa, erogava ai propri dipendenti 6 euro al giorno, utilizzabili per mezzo di un badge elettronico presso gli esercizi pubblici convenzionati.
Durante il periodo di blocco delle attività imposto dalle misure anti-epidemiche, per i dipendenti dell’ente non è stato possibile utilizzare il proprio badge elettronico a causa della chiusura dei locali convenzionati. A questo punto, il datore di lavoro intende erogare un’indennità sostitutiva, nella misura di 5,29 euro al giorno.
Qual è il trattamento fiscale applicabile a tale indennità sostitutiva?
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ricorda che l’art. 51 del TUIR, alla lettera c) del co. 2, prevede che non concorrono a formare reddito da lavoro dipendente:
• le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro, anche se avvengono per mezzo di mense gestite da terzi;
• le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui siano rese in forma elettronica;
• le indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte ai lavoratori dei cantieri edili o di altre strutture temporanee o ubicate in zone dove mancano strutture o servizi di ristorazione, fino all’importo di 5,29 euro.
Indennità sostitutiva del pasto, quando è esentasse?
Affinché l’indennità sostitutiva del pasto possa essere considerata esentasse, è necessario che concorrono contemporaneamente le seguenti condizioni:
• l’orario di lavoro comporti la pausa per il pasto;
• i lavoratori siano addetti stabilmente a una unità produttiva, intesa come sede di lavoro;
• l’ubicazione della sede non consente, nel periodo previsto per la pausa, di recarsi senza l’uso di mezzi di trasporto al più vicino luogo di ristorazione per l’utilizzo di buoni pasto.
Indennità sostitutiva del pasto, parere dell’Agenzia delle Entrate
Infine, specifica l’INPS, l’indennità sostitutiva erogata dall’ente ai dipendenti impossibilitati all’uso del badge a seguito dell’emergenza epidemiologica, è riconducibile alle indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti di unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione.
Le somme erogate, quindi, non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente.

Leggi anche: PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA – DECRETO N. 917 DEL 22 DICEMBRE 1986 (Tuir aggiornato al 05-02-2020)


Concorsi pubblici: illegittima la richiesta di titoli eccessivi

Il Consiglio di Stato ha ritenuto illegittima la scelta dell’amministrazione di richiedere titoli di ammissione eccessivi rispetto alla professione per cui il concorso era previsto.
In materia di concorsi pubblici, l’amministrazione ha un ampio potere discrezionale di scelta dei requisiti di ammissione e dei titoli di partecipazione.
Tale discrezionalità, tuttavia, non può tradursi in arbitrio, atteso che le scelte della P.A. devono sempre rispettare i principi che reggono l’azione amministrativa.
In tal senso, il Consiglio di Stato, Sez. VI, con la sentenza n. 6972 del 14 ottobre 2019, ha ritenuto illegittimo un bando di concorso che prevedeva dei titoli eccessivi rispetto al posto da assegnare.
Nelle procedure concorsuali sussiste il principio generale, più volte ribadito dalla giurisprudenza amministrativa, che riconosce in capo all’amministrazione indicente la procedura selettiva un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia dei titoli richiesti per la partecipazione, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire.” (cfr., Cons. St., Sez. V, 18 ottobre 2012, n. 5351; Cons. St., Sez. VI, 3 maggio 2010, n. 2494).
In altre parole, quella che l’amministrazione esercita, nel prevedere determinati requisiti di ammissione, è una tipologia di scelta che rientra tra quelle di ampia discrezionalità spettanti alle amministrazioni.
Pertanto, la giurisprudenza ha chiarito che in assenza di una fonte normativa che stabilisca autoritativamente il titolo di studio necessario e sufficiente per concorrere alla copertura di un determinato posto o all’affidamento di un determinato incarico, la discrezionalità nell’individuazione dei requisiti per l’ammissione va esercitata tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire o per l’incarico da affidare, ed è sempre naturalmente suscettibile di sindacato giurisdizionale sotto i profili della illogicità, arbitrarietà e contraddittorietà (Cfr. Consiglio di Stato sez. V, 28 febbraio 2012, n. 2098).
Nelle procedure concorsuali, pertanto, occorre verificare se i criteri del bando di concorso risultino proporzionali rispetto all’oggetto della specifica procedura selettiva ed al posto da ricoprire tramite la stessa, risolvendosi altrimenti in una immotivata ed eccessiva gravosità rispetto all’interesse pubblico perseguito.


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 10-07-2020) 02-09-2020, n. 18235

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16505-2019 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati MASSIMO FASANO, GIORGIO PASCA;

– ricorrente –

e contro

PARROCCHIA NATIVITA’ DELLA BEATA VERGINE MARIA, R.C., R.L., R.M., R.F., PROURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI LECCE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 333/2019 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 01/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’appello di Lecce ha dichiarato inammissibile l’appello proposto da R.G. contro sentenza di primo grado del tribunale della stessa città resa nel contraddittorio con la Parrocchia Natività della Beata Vergine Maria, R.C., R.L., R.M., R.F., con la chiamata in causa del pubblico ministero.

In particolare, la Corte d’appello di Lecce ha ritenuto tardiva l’impugnazione perchè notificata a mezzo posta elettronica alle 23:37 dell’11 aprile 2016, ultimo giorno utile ed essendosi pertanto quella stessa notificazione perfezionata, D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16, alle ore 7:00 del giorno successivo, quando il termine per proporre appello era decorso. Nella sentenza si precisa che il termine aveva incominciato a decorrere l’11 marzo 2016 (data di notificazione della sentenza di primo grado), coincidendo quindi il trentesimo giorno con la domenica 10 aprile 2016, prorogato di diritto al successivo 11 aprile 2016.La notificazione, però, era stata eseguita a mezzo pec oltre le ore 23:00 di tale ultimo giorno, con la conseguenza sopra indicata.

R.G. propone ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo, con il quale si denuncia “violazione e falsa applicazione di nome di diritto per sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma applicata, id est D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-septies convertito con modificazioni nella L. 17 dicembre 2012, n. 221”.

Il ricorso è stato fissato per la trattazione dinanzi alla sesta sezione civile della Suprema Corte su conforme proposta del relatore.

In primo luogo, si rileva che la sentenza impugnata è stata depositata il 1 aprile 2019; benchè nel ricorso si assuma che essa è stata notificata nella medesima data del 1 aprile 2019, è stata tuttavia prodotta la copia autentica di essa, senza la relazione di notificazione, come invece prescrive a pena di improcedibilità l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2. La omissione, però, non comporta la sanzione della improcedibilità del ricorso perchè, in disparte l’anomalia di una notificazione avvenuta nella stessa data della pubblicazione, il ricorso è stato notificato il 23 maggio 2019, entro i sessanta giorni dalla pubblicazione. E’ quindi applicabile il principio secondo cui pur in difetto della produzione di copia autentica della sentenza impugnata e della relata di notificazione della medesima, prescritta dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, il ricorso per cassazione deve egualmente ritenersi procedibile ove risulti, dallo stesso, che la sua notificazione si è perfezionata, dal lato del ricorrente, entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza, poichè il collegamento tra la data di pubblicazione della sentenza indicata nel ricorso e quella della notificazione del ricorso, emergente dalla relata di notificazione dello stesso, assicura comunque lo scopo, cui tende la prescrizione normativa, di consentire al giudice dell’impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività in relazione al termine di cui all’art. 325 c.p.c., comma 2″ (Cass. n. 11386/2019; n. 17066/2013).

Il ricorso è fondato.

Con sentenza n. 75/2019, depositata in data 9 aprile 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies (conv. in L. n. 221 del 2012) “nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta”.

Consegue la tempestività dell’appello di R.G., in quanto notificato entro le ore 24:00 dell’ultimo giorno utile.

Per completezza di esame si richiama il principio secondo cui “l’efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento emesse dalla Corte costituzionale incontra un limite nelle situazioni consolidate per effetto di intervenute decadenze; tale limite, tuttavia, non opera quando la dichiarazione di illegittimità costituzionale investe proprio la norma che avrebbe dovuto rendere operante la decadenza” (Cass. n. 1644/2019; n. 5240/2000).

La sentenza, pertanto, deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione perchè decida sulla proposta impugnazione. La corte di rinvio liquiderà anche le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie ricorso; cassa la sentenza; rinvia alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 24-06-2020) 02-09-2020, n. 18245

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33460-2018 proposto da:

D.L.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OVIDIO, 32, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELLA STURDA’, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRO DI DATO;

– ricorrente –

contro

FIAT CHRYSLER AUTOMOBILES ITALY S.P.A., (già F.M.A. S.R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19, presso lo studio degli avvocati RAFFAELE DE LUCA TAMAJO e GIORGIO FONTANA, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2442/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 16/05/2019 r.g.n. 3659/2016.

Svolgimento del processo
CHE:

1. la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 16.5.2018, respingeva il gravame proposto da D.L.V. avverso la decisione del Tribunale di Avellino che aveva rigettato la domanda del predetto, intesa ad ottenere, previa declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli in data 20.11.2011 dalla FIAT Chrysler Automobiles Italy s.p.a., la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno;

2. la Corte partenopea riteneva che, con riguardo ai fatti risultati incontroversi, dell’assenza del D.L. dal lavoro nei giorni 24 novembre ed 1 e 2 dicembre 2011 per motivi di salute consistenti nella “dermatite acuta alle mani” e nello svolgimento, da parte del predetto, di altra attività presso il bar Ciotola nei giorni di assenza, non poteva ritenersi realizzata la dedotta violazione del principio della immutabilità dei fatti contestati, in quanto rispetto alla contestazione originaria non si era verificata alcuna lesione del diritto di difesa del lavoratore attraverso una sostanziale immutazione del fatto addebitato, ravvisabile solo quando il quadro di riferimento fosse totalmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione;

3. nel caso considerato, il Tribunale, secondo il giudice del gravame, aveva correttamente applicato i principi indicati laddove aveva individuato l’oggetto della contestazione nella esecuzione, da parte del lavoratore, assente dal lavoro per malattia, di un’attività lavorativa presso il bar-pasticceria della moglie, con conseguente violazione dei doveri di correttezza e buona fede imposti in costanza di malattia, finalizzati a garantire il sollecito recupero delle energie da porre a disposizione del datore di lavoro;

4. tale accertamento, a dire della Corte, non travalicava il limiti posti dalla contestazione disciplinare, avendo la società posto l’accento sull’avere il dipendente espletato attività presso terzi proprio nei giorni in cui lo stesso era stato assente dal lavoro per malattia non tanto per contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza, quanto allo scopo di sanzionare la colpevole sottrazione del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in generale;

5. la Corte rimarcava la differenza tra la contestazione nel procedimento disciplinare ed in quello penale e rilevava che una circostanza in tanto poteva essere considerata nuova, in quanto esulasse dall’originario atto di incolpazione, ciò che non si verificava allorchè il fatto in relazione al quale il licenziamento era intimato potesse essere ricompreso nella contestazione, della quale costituiva specificazione;

6. osservava che l’istruttoria aveva pienamente confermato la sussistenza della giusta causa del licenziamento e che la patologia da cui il D.L. era risultato affetto nel periodo di assenza dal lavoro gli avrebbe imposto una condotta diversa da quella tenuta, quale emersa dalla deposizione dei testi, che avevano confermato anche che il lavoratore aveva provveduto, tra la altre incombenze, al lavaggio di stoviglie ed alla preparazione di caffè – esponendo le mani a fonte di calore – all’interno dell’esercizio commerciale gestito dalla moglie, condotta questa inidonea a garantire il recupero della propria integrità fisica nel periodo di assenza dal lavoro;

7. di tale decisione domanda la cassazione il D.L., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società.

Motivi della decisione
CHE:

1. con il primo motivo, il ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione, sotto più profili, della L. n. 300 del 1970, nonchè dell’art. 2119 c.c., censurando la inadeguata interpretazione, da parte della Corte distrettuale, delle norme richiamate, in relazione al caso concreto, per avere la stessa ritenuto, in maniera errata, che il datore di lavoro potesse risolvere il rapporto con il proprio dipendente in conseguenza della ravvisata lesione, da parte del D.L., del vincolo di fiducia posto a fondamento del rapporto di lavoro;

1.1. il ricorrente contesta l’erronea applicazione del principio sancito dalla giurisprudenza di legittimità, alla cui stregua non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante l’assenza, attività lavorativa in favore di terzi, purchè questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero, compromettendone la guarigione, implichi inosservanza del dovere di fedeltà imposto al prestatore di lavoro; in particolare, evidenzia, come nella specie gli unici addebiti contenuti nella contestazione erano riferiti alla simulazione della malattia ed alla inattendibilità della certificazione, la cui prova, a dire dello stesso, non era stata fornita, avendo peraltro la sentenza di primo grado asseritamente negato la sussistenza di tali addebiti, per avere trovato la patologia attestata conferma nelle dichiarazioni del medico che l’aveva certificata;

1.2. osserva che quest’ultimo, escusso come teste, aveva paventato la possibilità di peggioramento della patologia dovuto all’utilizzo di solventi ed acqua, senza riferimento al caso specifico, dovendo pertanto ritenersi assente ogni prova che la dedotta attività lavorativa ulteriore prestata dal D.L. durante la malattia avesse determinato il prolungarsi dei tempi di recupero della sua integrità fisica; assume di essersi limitato a prestare un aiuto alla moglie nel bar di proprietà della stessa e che si sia realizzata anche la violazione, la falsa ed erronea applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, dell’art. 2106 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 2 deducendo, altresì, insufficiente e/o contraddittoria motivazione, laddove la contestazione non era stata sufficientemente specifica; aggiunge che la pronunzia impugnata si è posta anche in violazione del principio di corrispondenza tra fatto contestato e fatto posto a fondamento del recesso, posto che il primo era ontologicamente diverso dal secondo;

1.3. in particolare, sostiene che il licenziamento dapprima era stato intimato paventandosi la simulazione della malattia attestata dai certificati medici inviati dal lavoratore, per poi essere trasformato, nel corso del processo di primo grado, in un licenziamento motivato dall’impossibilità di guarigione dalla malattia diagnosticata, la dermatite, per avere il D.L. svolto ulteriore attività presso il bar della moglie; nella sostanza chiarisce di addebitare alla decisione la violazione del principio di immodificabilità della contestazione, per avere il giudice del merito ritenuto possibile che al contestato svolgimento di altra attività lavorativa nel periodo di malattia, di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità a giustificazione dell’assenza e l’inattendibilità del certificato medico, potesse far seguito un successivo licenziamento motivato esclusivamente dalla simulazione di detta certificazione;

2. con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., assumendo che il datore di lavoro aveva omesso di fornire adeguata prova circa la incompatibilità tra l’attività extralavorativa svolta e la patologia denunziata, ivi compresa la prova della durata dell’attività extralavorativa, la gravosità dell’impegno fisico ivi profuso, la puntualità della ripresa del lavoro, l’incompatibilità dell’attività extra lavorativa svolta durante la malattia con il recupero delle normali energie psicofisiche ed anche la prova degli effettivi addebiti contestati (inattendibilità della certificazione medica) la cui sussistenza era stata anche esclusa dal giudice di primo grado; la violazione dell’art. 112 c.p.c. è riconnessa alla circostanza che la Corte d’appello si era uniformata alla decisione di primo grado affrontando la problematica relativa alla idoneità o meno del lavoro svolto a ritardare la ripresa del servizio, laddove l’argomento non era stato oggetto nè di domanda, nè di eccezione;

3. il primo motivo presenta profili di inammissibilità connessi al suo confezionamento come motivo composito, simultaneamente volto a denunciare violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo al principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (cfr. Cass. 23 giugno 2017, n. 15651; Cass. 28 settembre 2016, n. 19133; Cass. 23 settembre 2011, n. 19443 e, da ultimo Cass. 23.10.2018 n. 26874, nei termini riportati). Ciò a prescindere dalla non corretta deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 secondo il paradigma deduttivo e devolutivo prescritto dal nuovo testo di tale norma secondo le indicazioni fornite da Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439, e, prima ancora, dalla preclusione deduttiva discendente dalla sussistenza di un “doppia conforme”;

3.1. quanto alle deduzioni di violazione in diritto, vero è che la contestazione, quale riportata nel suo contenuto, è riferita principalmente all’essersi il lavoratore sottratto ai suoi obblighi contrattuali ponendo in essere una condotta illecita integrata dall’assenza dal lavoro per malattia, pur svolgendo altra attività lavorativa, e dall’essersi in tal modo sottratto all’obbligo della prestazione lavorativa, dimostrando al contempo la palese inattendibilità ed inidoneità del certificato medico inviato a giustificare le assenze indicate; tuttavia, l’addebito disciplinarmente rilevante era ritenuto nella sostanza diretto, come dal giudice del merito interpretata la contestazione – interpretazione non suscettibile di sindacato nella presente sede di legittimità ove il corrispondente vizio non sia dedotto nei modi appropriati -, non tanto a contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza, quanto a sanzionare la sottrazione consapevole del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in genere;

3.2. ciò è, d’altronde, conforme a quanto reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonchè dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sè, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (cfr., tra le altre, Cass. 19.10.2018 n. 26496, Cass. 27.4.2017 n. 1041);

3.3. questa Corte ha ulteriormente precisato che “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà”… “ferma restando la necessità che, nella contestazione dell’addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore” (Cass. 5.8.2014 n. 17625): il principio enunciato, cui si ricollega anche la censura riferita alla violazione del principio di immutabilità della contestazione, è quello posto a presidio del diritto di difesa, sul rispetto del quale la Corte distrettuale ha ampiamente motivato;

3.4. il giudice del gravame ha, invero, interpretato la lettera di contestazione nel senso che la società “ha sempre posto l’accento sul fatto che il dipendente abbia espletato attività presso i terzi proprio nei giorni in cui era assente dal lavoro per malattia non tanto al fine di contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza (sulla quale la parte datoriale ha solo gettato velati dubbi), quanto allo scopo di sanzionare la consapevole sottrazione del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in generale”, e nessuna censura all’interpretazione fornita dalla Corte distrettuale è prospettata nel motivo di ricorso, in modo idoneo a scalfire la valutazione posta a sostegno del decisum, che, al contrario, si rivela coerente con una corretta applicazione dei principi di diritto su richiamati;

3.5. il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, che vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, consente di ritenere realizzata la relativa violazione solo qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implichino una diversa valutazione dei fatti addebitati, salvo si tratti di circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della contestazione (cfr. Cass. 25.3.2019 n. 8293, v. anche Cass. 10.11.2017 n. 26678);

3.6. su altro versante, deve ugualmente ritenersi esente dalle censure prospettate la decisione della Corte territoriale laddove, muovendo da un corretto principio di diritto, ha ritenuto che il lavoratore assente per malattia, che quindi legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per ciò solo deve astenersi da ogni altra attività, essendo l’unico limite rappresentato dalla necessaria compatibilità di tale attività con lo stato di malattia e dalla sua conformità all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perchè cessi lo stato di malattia con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro; in proposito questa Corte ha affermato che l’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro (solo) laddove si riscontri che l’attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione (cfr. Cass. 5 agosto 2014 n. 17625, Cass. 21 aprile 2009, n. 9474);

3.7. l’accertamento peritale richiamato nella sentenza impugnata ha consentito alla Corte territoriale di verificare, attraverso una valutazione rimessa al suo insindacabile giudizio, che i tempi di recupero dalla malattia diagnosticata al dipendente erano stati pregiudicati dal comportamento del D.L., il quale aveva lavato le stoviglie e preparato caffè e ciò, differentemente da quanto assume il ricorrente, con riferimento al caso concreto e non ad un parere espresso in astratto;

4. con riguardo al secondo motivo di ricorso, indipendentemente dall’adesione al principio, affermato dal ricorrente, secondo cui, in materia di licenziamento per giusta causa, grava sul datore di lavoro l’onere della prova che lo svolgimento da parte del lavoratore di un’attività extralavorativa durante lo stato di malattia ha inciso in termini negativi sulla propria salute ed in termini di ritardata guarigione, contrastando con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro (v. Cass. 1173/2018 cit., e Cass. 21.3.2011 n. 6375), è sufficiente riportarsi all’insegnamento di questa Corte secondo cui il principio generale di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. deve essere contemperato con il principio di acquisizione probatoria, che trova fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo, con la conseguenza che anche il principio dispositivo delle prove… va inteso in modo differente, traducendosi nel dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito – da qualunque parte processuale provenga – con una valutazione non atomistica ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica, suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, per vizi di motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione delle norme riguardanti l’acquisizione della prova (cfr. Cass. 14.7.2017 n. 17598, Cass. 25.9.2013 n. 21909);

4.1. nella specie, la sentenza ha accertato, sulla base dell’istruttoria espletata, che il D.L. si era dedicato durante l’assenza dal lavoro ad un’attività lavorativa assolutamente sconsigliata, idonea ad aggravare la patologia, senza adottare alcuna misura precauzionale, avuto riguardo al certificato medico rilasciato dal Dott. D.P., che, escusso come teste, ha affermato che sia l’utilizzo di acqua durante il lavaggio di stoviglie, sia l’esposizione a fonti di calore per la preparazione di bevande calde erano inopportune in presenza della dermatite alle mani e che ciò rappresentava, secondo la Corte distrettuale, una condotta inidonea a garantire il recupero, da parte del lavoratore, della propria integrità fisica;

4.2. sulla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., è sufficiente il richiamo a Cass. 21.11.2013 n. 26290, secondo cui non può ritenersi estraneo al giudizio vertente sul corretto adempimento dei doveri di buona fede e correttezza gravanti sul lavoratore un comportamento che, inerente ad attività extralavorativa, denoti l’inosservanza di doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa;

4.3. la censura va pertanto disattesa, dovendo, più in generale, osservarsi che il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti: ne deriva che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate (cfr., tra le altre, da ultimo, Cass. 3.7.2019 n. 17897);

5. alla stregua delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto;

6. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;

7. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, citato D.P.R., ove dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020


Valida la notifica P.E.C. di un’ordinanza priva di firma digitale

In applicazione dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, non è necessaria la presenza della firma digitale del cancelliere sulla copia del provvedimento comunicato via P.E.C. alle parti.
Questo il principio ripreso dalla Corte di Cassazione, I sez. civ., con sentenza n. 93 del 07.01.2020.
La vicenda nasce dalla sentenza con la quale il Tribunale aveva rigettato la domanda proposta da un cittadino straniero tesa ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. L’ordinanza di rigetto veniva comunicata dalla cancelleria a mezzo P.E.C..
Avverso la suddetta ordinanza veniva proposto appello da parte dell’originario ricorrente, che veniva dichiarato inammissibile dalla Corte di Appello per tardività, in quanto proposto oltre i trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza.
Pertanto, aveva proposto ricorso in Cassazione, deducendo la nullità della sentenza in quanto la stessa era priva della firma digitale del cancelliere e di conseguenza l’appello era proponibile entro il termine di sei mesi ai sensi dell’art. 327 c.p.c. non essendo applicabile il termine breve di trenta giorni.
La Corte di Cassazione ha ritenuto valida la sentenza comunicata a mezzo P.E.C. dalla Cancelleria priva della firma digitale del cancelliere, ai fini della decorrenza del termine breve per proporre appello. In tal senso, è stato richiamato il principio affermato con la sentenza n. 26479/2017 secondo la quale “ai sensi dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, nel testo “ratione temporis” vigente, le copie informatiche del fascicolo digitale equivalgono all’originale, anche se prive della firma del cancelliere, ai sensi dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, nel testo “ratione temporis” vigente, disposizione applicabile a tutti gli atti digitalizzati, come si desume dal tenore letterale della norma, riferito all’intero contenuto del fascicolo informatico”.
La Corte di Cassazione ha quindi rigettato il ricorso.


Notifiche atti giudiziari: dal 23 settembre solo con nuovi moduli

Poste Italiane informa di aver predisposto i nuovi modelli di buste e moduli per la notifica degli atti giudiziari. Dal 23 settembre la vecchia modulistica non sarà più accettata
Dal 23 settembre al via i nuovi modelli di buste e moduli per la notifica degli atti giudiziari a mezzo posta. Lo rendono noto Poste Italiane e il ministero della giustizia (con le comunicazioni sotto allegate).
I vecchi modelli potranno essere utilizzati fino al 22 settembre 2020, termine del periodo transitorio di adeguamento fissato dall’AGCOM (con delibera 155/19/CONS del 8 maggio 2019).
Niente rimborsi per moduli non utilizzati
Poste rammenta, inoltre, che i quantitativi di moduli non utilizzati non saranno rimborsati o sostituiti con i nuovi modelli e invita pertanto i clienti in possesso di autorizzazione alla stampa in proprio/omologazione di Atti Giudiziari, a provvedere all’allineamento della loro produzione alle nuove Specifiche tecniche. Ovvero, in alternativa ad acquistare i moduli, compilando apposito format, attraverso il servizio “vendita stampati” disponibile sul sito delle Poste Italiane. 
No a modulistica non conforme dal 23 settembre
Per cui, a partire dal 23 settembre 2020, conclude la società “i clienti che presenteranno all’accettazione modulistica non conforme alle specifiche tecniche di cui sopra e quindi alla citata Delibera, a norma dell’art. 3 della l. 890/1982, saranno invitati a riconfezionare la spedizione utilizzando la modulistica conforme”.
In caso di diniego, le spedizioni saranno accettate sotto la responsabilità del cliente e senza pregiudizio per la Società.


Notifica nulla se non si prova di aver cercato il destinatario irreperibile

Il Giudice di Pace di Terracina rammenta come, per la notifica ex art. 143 c.p.c., sia necessario dimostrare una ricerca fattiva del domicilio, attività che andrà attestata o documentata
È nulla la notifica della multa ex art. 143 c.p.c. qualora sia mancata una ricerca fattiva del domicilio del destinatario, secondo canoni di normale diligenza e buona fede, e neppure tale attività sia stata attestata o documentata. Ciò impedisce di cristallizzare il verbale in titolo esecutivo. Il notificante, infatti, è tenuto a conformare la propria condotta all’ordinaria diligenza per vincere l’ignoranza in cui versi circa la residenza, il domicilio o la dimora del notificando.
Lo ha rammentato il Giudice di Pace di Terracina nella sentenza n. 80/2020 (sotto riportata) pronunciandosi sull’opposizione contro una cartella esattoriale di pagamento. L’opponente riteneva non si fosse legittimamente cristallizzato in titolo esecutivo il verbale elevato dalla Polizia locale in quanto la notifica ex art. 143 c.p.c. sarebbe stata nulla.
Una doglianza condivisa dal magistrato onorario il quale precisa che, per notificare un atto ai sensi dell’art. 143 c.p.c. è necessario che sia dimostrata una ricerca fattiva del domicilio e che tale attività di ricerca sia attestata o documentata.
Nel caso di specie, evidenzia il giudice, sarebbe stata sufficiente una semplice e rapida consultazione dei dati dell’ufficio anagrafe del comune di residenza risultante per venire a conoscenza dell’indirizzo di trasferimento dell’opponente.
In pratica, il Comune opposto non ha conformato la propria condotta all’ordinaria diligenza (Cass. ord. n. 19012/2017) e da ciò consegue un abuso della procedura di notificazione che risulta illegittima e affetta dal vizio della nullità. Questo rappresenta un ostacolo insormontabile al mutamento in titolo esecutivo del verbale oggetto della notifica viziata.
Si tratta di una decisione che si conforma a quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità in diverse occasioni. Per i giudici del Palazzaccio, in tema di notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca e indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass., ord. n. 9793/2019).
Alla stregua di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto nulla la notificazione ex art. 143 c.p.c. che l’ufficiale giudiziario abbia completato limitandosi al riscontro dell’assenza del destinatario nel luogo risultante dal certificato anagrafico senza fornire indicazione di alcuna ulteriore ricerca svolta (Cass. n. 8638/2017). Indagini e ricerche che possono sostanziarsi in verifiche presso l’ufficio anagrafe o, addirittura, semplicemente nella raccolta, da parte di altri residenti o vicini di casa di informazioni negative circa la reperibilità in quel luogo del destinatario dell’atto.
Tra l’altro, la Suprema Corte ha chiarito che “la relata di notificazione fa fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni che riguardano l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente e limitatamente ai soli elementi positivi di essa, mentre non sono assistite da pubblica fede le attestazioni negative, come l’ignoranza circa la nuova residenza del destinatario della notificazione”.

Leggi: Giudice di Pace di Terracina 2020


Accertamento, la notifica dell’atto guarda alla data della proroga

Secondo la circolare 25/E/2020 dell’Agenzia delle Entrate non è prevista alcuna proroga della decadenza di un anno per il contraddittorio preventivo, se il termine è già posticipato oltre il 31 dicembre 2020.
Decreto Rilancio, la circolare multiquesito n. 25/E dell’Agenzia delle Entrate, pubblicata il 20 agosto 2020, fornisce ulteriori chiarimenti sulle novità introdotte. Dal bonus per le partite IVA fino alla sospensione delle scadenze fiscali, ecco le risposte principali ai dubbi di imprese ed intermediari.
Alcune delle novità contenute nella circolare n. 25/E arrivano ormai fuori tempo massimo; è il caso, ad esempio, dei chiarimenti sui contributi a fondo perduto, considerando che la scadenza per fare domanda era fissata al 13 agosto 2020.
Tra i punti contenuti nella circolare n. 25/E dell’Agenzia delle Entrate, ampio spazio è dedicato alla sospensione delle scadenze relative alla riscossione, così come ai crediti d’imposta introdotti dal decreto Rilancio, dal bonus sanificazione fino a cessione e sconto in fattura previsti per i bonus casa 2020.
Il documento di prassi risponde ai quesiti presentati dalle associazioni di categoria, da operatori e altri contribuenti sulle norme contenute nel Decreto Rilancio, approvato il 19 maggio scorso e convertito in legge lo scorso 17 luglio 2020.
Dal taglio dell’IRAP, al contributo a fondo perduto, fino ad arrivare alla sospensione dei termini processuali e le spese di sanificazione degli ambienti di lavoro.
Tra le novità da evidenziare, per quel che riguarda il bonus per la sanificazione degli ambienti di lavoro, in scadenza il 7 settembre 2020, viene chiarito che restano fuori dal credito d’imposta le spese sostenute per l’ordinaria pulizia dei condizionatori.
Concorre, invece, al calcolo del credito d’imposta riconosciuto la pulizia effettuata per aumentare la capacità filtrante del ricircolo, ad esempio sostituendo i filtri esistenti con altri di classe superiore.
Per la corretta individuazione delle spese rientranti nel credito d’imposta, saranno gli operatori della sanificazione a dover predisporre una certificazione che attesti che le attività effettuate siano in linea con le indicazioni contenute nei Protocolli di regolamentazione, e che quindi siano finalizzate ad eliminare o ridurre la presenza del virus che ha determinato l’emergenza Covid-19.
Il bonus per la sanificazione degli ambienti di lavoro è soltanto uno dei temi trattati nella circolare n. 25 dell’Agenzia delle Entrate.
Tra gli ulteriori chiarimenti forniti, viene specificato che il bonus sugli affitti commerciali spetta anche a chi esercita attività di B&B con partita IVA, in relazione al canone di locazione corrisposto al proprietario, ed anche se l’immobile sia ad uso residenziale e non commerciale.
Per l’individuazione degli affitti ammissibili al credito d’imposta rileva che l’immobile sia strumentale all’attività svolta in via imprenditoriale.

Leggi: Circolare_n._25_20_08_2020


È il destinatario a dover dimostrare che il plico notificato era vuoto

Se l’atto è stato regolarmente consegnato, l’agente della riscossione non deve né fornire prove sul contenuto della raccomandata né depositare l’originale o la copia integrale della cartella recapitata
In caso di notifica di cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, in conformità al principio di “vicinanza della prova”, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova.
Questo il principio affermato dalle due ordinanze della Corte di Cassazione n. 14935 e n. 14941 del 14 luglio scorso, ove la Corte ha altresì confermato che, in caso di contestazioni, neppure grava sull’agente della riscossione l’onere di depositare l’originale o la copia integrale della cartella.
Le vicende processuali
Nel caso di cui all’ordinanza n. 14935, la Commissione tributaria regionale della Campania (sentenza n. 6120/22/2018) aveva confermato la pronuncia di prime cure che aveva accolto il ricorso proposto da un contribuente avverso una cartella di pagamento inviata a mezzo del servizio postale con plico raccomandato.
Nello specifico, la Ctr osservava che, nonostante la contestazione mossa dal contribuente, l’agente della riscossione non aveva assolto all’onere, asseritamente gravante sul mittente, di provare il contenuto del plico raccomandato.
Questa statuizione veniva censurata dall’agente in sede di legittimità.
Analogamente, nella seconda fattispecie, il giudice di appello (Ctr Piemonte, sentenza n. 1526/7/2018) aveva concluso per l’irregolarità della notifica della cartella impugnata, rilevando che “non vi è alcun documento che provi il collegamento tra la fotocopia della spedizione e ricevuta della raccomandata e le cartelle apparentemente notificate… Non vi è poi regolare attestazione di notifica da parte dell’ufficiale postale notificante perché non vi è indicazione della qualifica del firmatario della ricevuta o dell’ufficiale postale notificante”.
Nel ricorso dinanzi al Collegio di legittimità, la sentenza impugnata veniva censurata laddove aveva ritenuto necessaria, per la validità della notifica, la produzione delle cartelle di pagamento nella loro integralità, nonché l’indicazione sull’avviso di ricevimento della qualifica del firmatario.
Le pronunce della Corte
Entrambi i ricorsi dell’agente della riscossione sono stati accolti.
Sul punto controverso, l’ordinanza n. 14935 precisa che, dopo talune oscillazioni, si è ormai consolidato l’orientamento per il quale, in caso di notifica di cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento “fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova”.
Identica statuizione si rinviene nell’ordinanza n. 14941, ove in aggiunta viene altresì ricordato che l’eccezione sulla regolarità della notifica di una cartella di pagamento può essere superata da parte dell’agente della riscossione producendo copia della stessa, “senza che abbia l’onere di depositarne né l’originale …, né la copia integrale, non essendovi alcuna norma che lo imponga o che ne sanzioni l’omissione con la nullità della stessa o della sua notifica”.
Osservazioni
La disciplina della notificazione della cartella di pagamento, ma in generale anche quella degli atti tributari, prevede che la fase finalizzata a portare legalmente a conoscenza del destinatario l’atto che lo riguarda possa essere realizzata, oltre che tramite agente notificatore il quale si reca personalmente presso il recapito dell’interessato per effettuare la consegna, anche attraverso la spedizione del documento in busta chiusa a mezzo raccomandata postale con avviso di ricevimento.
Questa possibilità, relativamente alla cartella, è prevista dall’articolo 26 del Dpr n. 602/1973 che, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, consente all’agente della riscossione di procedervi anche in via diretta, ovvero senza intermediazione di un agente notificatore qualificato, fattispecie in cui dunque si applica la disciplina delle raccomandate “ordinarie”, anziché quella delle raccomandate “per atti giudiziari” di cui alla legge n. 890/1982 (da ultimo, Cassazione, pronunce nn. 11311, 10954, 10585, 9429, tutte del 2020).
Laddove, in sede giurisdizionale, l’interessato, pur riconoscendo di essere stato destinatario di una notificazione postale, adduca, ad esempio, che la busta ricevuta era vuota oppure che la stessa conteneva dei fogli bianchi o, comunque, un atto diverso da quello che il mittente afferma spedito, si pone il problema di stabilire su quale dei soggetti del rapporto controverso debba gravare la relativa prova.
Al riguardo, appare in via di progressivo consolidamento l’orientamento secondo il quale incombe sul destinatario dell’atto notificato in via diretta a mezzo del servizio postale, che non contesti l’avvenuta ricezione, ma deduca che la busta recapitata era priva di contenuto, l’onere di dimostrare le proprie asserzioni.
Questa regola, confermata dalle ordinanze in commento, è stata già espressa tra le altre dalle pronunce della Corte di Cassazione nn. 28528/2019, 33563/2018 e 16528/2018.
In particolare, nell’ultima pronuncia richiamata, si legge che la riferita conclusione si giustifica in ragione del principio generale “di vicinanza della prova”, considerato che “la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato)… che al momento dell’apertura il plico era in realtà privo di contenuto” (questa affermazione si rinviene in seguito, tra le altre, in Cassazione, nn. 6562/2020, 30787/2019 e 23706/2019).


Violenza in coppia stabile è maltrattamento in famiglia

Le vessazioni tra persone che hanno un rapporto consolidato equivalgono a quelle tra sposati
Violenza in coppia stabile è maltrattamento in famiglia (Cassazione 40727/2009)
Le vessazioni e le violenze sul partner sono sempre da considerarsi maltrattamenti in famiglia tutelati dalla legge penale purché si tratti di coppie stabili anche se non sposate o conviventi.
Lo ha stabilito la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione confermando una sentenza della Corte di Appello di Cagliari che aveva condannato un signore per il reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti della compagna.

La Suprema Corte, respingendo il ricorso dell’imputato contro la sentenza di appello, ha affermato che “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 del codice penale. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”.

La sentenza costituisce un ulteriore passo in avanti in materia di tutela della c.d. “famiglia di fatto”, cioè delle unioni tra soggetti non uniti dal vincolo del matrimonio. È utile ripercorrerne brevemente le tappe.

A differenza che in campo civile, nel quale le coppie di fatto non sono pienamente equiparate a quelle unite in matrimonio, con la sola eccezione per quanto riguarda i figli naturali, nel diritto penale la nozione di famiglia deve considerarsi più estesa, giungendo a ricomprendere anche le coppie stabili conviventi, come del reato espressamente previsto dalla norma incriminatrice prevista dall’art. 572 del codice penale, che punisce “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”. A tale evoluzione ha contribuito la Corte di Cassazione, estendendo la tutela penale a tutti i soggetti conviventi, anche se non “more uxorio”, compresi quindi i conviventi per ragioni di lavoro o di cortesia (ad es. i domestici). Pertanto risponde del reato di maltrattamenti in famiglia chiunque tenga comportamenti molesti o vessatori nei confronti di un soggetto convivente, sia esso partner, figlio o ospite convivente.

La sentenza odierna compie un passo ulteriore, richiamando l’orientamento giurisprudenziale più recente, che arriva a comprendere anche i soggetti non conviventi, purché tra di essi, per strette relazioni e consuetudini di vita, “siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”. La Corte di Cassazione introduce, quindi, nella tutela penale dai maltrattamenti un ulteriore elemento, quello della stabilità del rapporto. Famiglia è pertanto l’unione coniugale, l’unione civile o di fatto ma anche l’unione caratterizzata dalla stabilità.
Coppie sempre da tutelare penalmente, dunque, purché siano stabili.


Cartella esattoriale, notifica nulla se effettuata con PEC non presente in pubblici elenchi

La Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, con sentenza n. 379/19 (testo in calce), depositata in data 26 agosto 2019, ha sancito che è “nulla la notifica della cartella esattoriale” dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, laddove provenga “da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nei pubblici registri”.
I fatti del processo
Il contenzioso tributario in commento nasceva dall’impugnazione, da parte del contribuente, di un atto di pignoramento presso terzi (art. 72-ter, D.P.R. n. 602/1973[1]), nonché di un atto di intervento all’interno della stessa procedura esecutiva, a mente dei quali veniva sottoposto ad esecuzione forzata la somma di €. 240.000,00, a titolo di debiti tributari, relativa alla presunta notifica di cartelle esattoriali imputate alla società debitrice.
Sul punto, il ricorrente, nel proprio atto introduttivo, lamentava – tra i vari spunti difensivi volti ad annullare la pretesa erariale – anche l’omessa notificazione delle cartelle esattoriali richiamate negli atti esecutivi ricevuti e chiedeva al Collegio l’annullamento del debito erariale[2].
Il punto centrale della difesa del contribuente
Il ricorrente, dunque, al fine di annullare integralmente il debito erariale – nelle more del giudizio – rilevava che la notifica delle cartelle esattoriali era insanabilmente viziata (nella forma giuridica della nullità), in quanto l’Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non aveva utilizzato la PEC attribuita all’Agenzia delle Entrate – Riscossione, presente nell’elenco ufficiale “IPA” (Indice delle Pubbliche Amministrazioni[3]), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì un irrituale ed ignoto indirizzo[4].
Sul punto, in tema di notifica a mezzo PEC, l’art. 26, D.P.R. n. 602/73, l’art. 16-ter del D.L. 179/2012, convertito in Legge n. 221/2012 recita testualmente: “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto”, ovvero “IPA”, “Reginde”, “Inipec”.
Orbene: la verifica, effettuata dal ricorrente, in relazione all’indirizzo di Posta Certificata dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, evidenziava che all’esattore notificante era stato assegnato un indirizzo PEC differente, rispetto a quello utilizzato nelle notifiche in contestazione.
Sulla scorta di tali notizie, emergeva la considerazione che l’indirizzo PEC in commento, ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it era l’unico valido e pertanto utilizzabile legittimamente dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione per scopi notificatori con validità legale delle cartelle esattoriali tributarie.
Per cui, dall’analisi dei documenti versati in atti dall’esattore nel corso del giudizio, di contro, si evinceva che le cartelle di pagamento (impugnate contestualmente agli atti di pignoramento) erano state trasmesse da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nel mentovato pubblico registro, il tutto in palese violazione della richiamata normativa[5].
Alla luce di quanto sopra esposto, il ricorrente insisteva affinché la Commissione Tributaria Provinciale di Perugia accertasse l’illegittimità del procedimento di notifica delle cartelle di pagamento impugnate.
L’indirizzo PEC del notificante non proviene dagli Elenchi Pubblici: la notifica è viziata ed insanabile (Cass., ord. n. 17346/2019)
In materia di notifica di atti civili, la Suprema Corte, con la recente ordinanza n. 17346/2019, aveva osservato che la notifica effettuata con modalità telematiche è da considerarsi viziata, se il notificante utilizza il proprio “indirizzo di posta elettronica certificata” non risultante da pubblichi elenchi, a mente dell’art. 3-bis, Legge n. 53/1994.
Nel contenzioso in parola la parte processuale (ricorrente) “aveva fatto la notificazione utilizzando un indirizzo non risultante dai predetti elenchi”.
Sul punto il contribuente, richiamando “una serie di pronunce e orientamenti […] finalizzati a chiarire la questione”, insisteva affinché venisse accertata la validità della notifica; in breve, secondo la tesi difensiva della parte privata, l’elemento dirimente era che la notifica pec “giunga a compimento”, giacché “il meccanismo telematico” possa garantire la “certezza della procedura di recapito”.
I giudici della S.C. (Consigliere Relatore, Dott. Francesco Terrusi), dichiarando inammissibile il ricorso, hanno censurato la condotta notificatoria del ricorrente, il quale non ha “specificato come sia stata in concreto eseguita la notificazione […] in ordine all’effettuazione ad un indirizzo non risultante dai predetti elenchi”.
A ben vedere, secondo la difesa del contribuente, tale principio “civilistico” meritava legittimo ingresso anche all’interno delle notifiche tributarie, poiché la casella PEC di destinazione di un atto (civile o tributario) è fondamentale al pari di quella del mittente, il quale è onerato da utilizzare un proprio indirizzo PEC presente nei pubblici registri, pena la nullità della stessa notifica[6].
La decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Perugia
Ritornando alla disamina della sentenza tributaria in commento, i giudici perugini hanno dunque accolto il ricorso del contribuente, accertando l’illegittimità del debito erariale imputato al cittadino, giacché la casella PEC, adoperata dall’Ente della Riscossione in sede di notifica delle cartelle esattoriali, è collegata ad “un soggetto che non si conosce, e cioè da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nei pubblici registri”.
In effetti, proseguono i giudici di prime cure, “l’art. 26, D.P.R. n. 602/1973, l’art. 16-ter del D.L. 179/2012, recita testualmente: ‘a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti […] si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto”, ovvero “IPA”, “Reginde”, “Inipec”.
Nel caso in esame, l’Ente della Riscossione non aveva utilizzato l’indirizzo ufficiale presente in IPA (Indice delle Pubbliche Amministrazioni), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì notifica.acc.umbria@pec.agenziariscossione.gov.it.
In conclusione, dai documenti versati in atti dall’esattore è pertanto emerso il fatto storico inconfutabile che le cartelle di pagamento erano state trasmesse da un indirizzo PEC differente da quello contenuto nel pubblico registro (IPA) per la notifica dei provvedimenti esattivi di natura tributaria; tale scenario risultava in contrasto con la richiamata normativa, pertanto le contestate notifiche erano da ritenersi prive di effetti giuridici, di conseguenza gli atti impugnati erano da ritenersi nulli.

Più di recente, tale orientamento è stato confermato anche dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma con la sentenza n. 2799/2020, che si è espressa con i seguenti termini: “L’eccezione sollevata dalla ricorrente, contrariamente all’assunto dell’Ufficio è fondata perché, come risulta dalla copia della notifica prodotta dalla parte, essa notifica è stata spedita da un indirizzo Pec non riconducibile all’Agenzia delle Entrate Riscossione presente nell’elenco ufficiale “IPA” (Indice delle Pubbliche Amministrazioni”), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì un irrituale ed ignoto indirizzo ((…)).
La notifica della cartella esattoriale è insanabilmente nulla (nella forma giuridica della nullità), in quanto l’Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non aveva utilizzato la PEC attribuita all’Agenzia delle Entrate – Riscossione.

[1] A maggior chiarezza della sentenza in commento, è opportuno precisare che i richiamati atti impugnati dalla società contribuente (l’atto di pignoramento e l’atto di intervento, unitamente ai prodromici provvedimenti), si fondano sulla mancata ed invalida previa notificazione dei titoli esecutivi.
La Suprema Corte a Sezioni Unite, come noto, ha risolto la questione concernente il riparto di giurisdizione in merito all’opposizione agli atti esecutivi, ove questi abbiano ad oggetto l’irregolarità formale della notificazione del presupposto titolo esecutivo, pronunciando il seguente principio di diritto:” in materia di esecuzione forzata tributaria, sussiste la giurisdizione del giudice tributario nel caso di opposizione agli atti esecutivi riguardante l’atto di pignoramento, che si assume viziato per l’omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento (o degli atti presupposti dal pignoramento) , ove venga impugnata anche la prodromica cartella di pagamento per vizio di notifica” (Cass. SS. UU. n. 13913/17);
[2] In materia della conoscenza effettiva di un atto amministrativo “inoltrato” al contribuente, la sentenza n. 19704/15 della Corte di Cassazione, SS. UU. ha affermato il principio del cittadino ad esercitare il proprio diritto di accesso alla tutela giurisdizionale avverso tutti quegli atti che siano stati invalidamente ed irritualmente notificati, posta la natura recettizia degli atti amministrativi, essendo del tutto irrilevante l’eventuale istanza di rateazione presentata dal contribuente e/o successivo pagamento parziale del debito a ruolo, come da insegnamento giurisprudenziale di legittimità sul punto (Cass. n. 3347/17, Cass. n. 7820/17, Cass. n. 18/18);
[3] https://www.indicepa.gov.it/documentale/index.php;
[4] Nel caso giudiziario in commento, il contribuente constatava, alla luce della produzione documentale versata in atti da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, che quest’ultima (in sede di notifica via PEC delle citate cartelle esattoriali) aveva utilizzato l’indirizzo telematico notifica.acc.umbria@pec.agenziariscossione.gov.it (non presente nell’elenco ufficiale “IPA”); da tale circostanza di fatto, il ricorrente aveva eccepito il vizio di notifica delle cartelle esattoriali impugnate contestualmente agli atti del pignoramento;
[5] Peraltro, sulla questione affrontata dai giudici perugini, il ricorrente – all’interno delle memorie illustrative – segnalava la sentenza n. 401/19 pronunciata dalla C.T.P. di Taranto, a mezzo della quale i Giudici tarantini avevano affermato che: “[…] è doveroso segnalare che la Legge in tema di notifica a mezzo PEC, dispone:
[…] b) l’indirizzo PEC del mittente e del destinatario della notifica tramite PEC dovranno essere presenti nei pubblici elenchi, come richiesto dall’art. 16 ter cit. […]
E cioè: INDICE PA, REGINDE, INI PEC.
La verifica, effettuata direttamente da questa Commissione, dell’indirizzo PEC certificato della Soget evidenzia che […] ad esso sono assegnati i seguenti indirizzi di posta elettronica certificata:
– da REGINDE: cancellerie.sogetspa@pec.it
– da INI PEC: amministrazione.sogetspa@pec.it
– da INDICE IPA: direzione.sogetspa@pec.it
l suindicati indirizzi sono pertanto gli unici validi per la Soget per scopi notificatori con validità legale.
Dai documenti versati in atti si evince che la ingiunzione è stata inviata in semplice file.pdf e da indirizzo PEC (info@sogetspa.it) diverso da quelli contenuti negli anzidetti pubblici registi, il tutto in palese violazione della innanzi richiamata normativa; in conseguenza il procedimento di notifica è inesistente o irrimediabilmente nullo e con esso anche l’ingiunzione che si assume così notificata”;
[6] Su tale questione, il contribuente – all’interno dei propri atti difensivi – eccepiva che laddove il soggetto notificante adoperi un indirizzo PEC “ignoto”, la contestata attività di notifica debba essere qualificata – in primo luogo – come giuridicamente inesistente, dunque non sanabile con l’impugnazione “diretta” della cartella esattoriale; in realtà i giudici perugini hanno inserito l’invocato vizio nella categoria delle nullità. Tale considerazione impone al difensore del contribuente un’attenta scelta circa lo strumento processuale da coltivare per la tutela dei diritti dell’interessato. In effetti, sulla scorta dell’art. 156, comma 3, c.p.c., il quale prevede che “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”, laddove venga impugnata direttamente la cartella esattoriale, la cui notifica è caratterizzata dal vizio in oggetto, l’impugnazione del citato provvedimento neutralizzerà irrimediabilmente l’eccezione sollevata. Per tale ragione, è indubbiamente più valido attendere l’atto successivo (intimazione di pagamento, preventiva iscrizione ipotecaria, pignoramento, etc.), al fine di contestare la notifica PEC proveniente da un indirizzo diverso da quello inserito nei pubblici registri.

Leggi: CTP PERUGIA, SENTENZA N. 379-2019


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 27-02-2020) 19-08-2020, n. 17373

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 03493/2013 R.G. proposto da Equitalia Sud s.p.a. (C.F. 11210661002), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Ivana Carso, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Antonella Fiorini, in Roma via Costabella 26. – ricorrente –

contro

C.S. (C.F. (OMISSIS)), in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso da se stesso, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Paolo Panariti, in Roma via Celimontana 38. – controricorrente –

e contro

Agenzia delle Entrate (C.F. 80224030587), in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliata presso i suoi uffici in Roma via dei Portoghesi 12. – resistente –

Avverso la sentenza n. 50/08/2012 della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, depositata il giorno 15 giugno 2012.

Sentita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 27 febbraio 2020 dal Consigliere Giuseppe Fichera.

Svolgimento del processo
C.S. impugnò l’avviso di intimazione e la presupposta cartella di pagamento, notificato da Equitalia E.TR. s.p.a., per IRPEF, IRAP ed IVA, anno d’imposta 2001.

L’impugnazione venne respinta in primo grado; proposto appello da C.S., la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con sentenza resa il giorno 15 giugno 2012, lo accolse.

Avverso la detta sentenza, Equitalia Sud s.p.a., già Equitalia E.TR. s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque mezzi, cui ha risposto con controricorso C.S., mentre l’Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione in giudizio.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso Equitalia Sud s.p.a. eccepisce la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 24 e 57, poichè la commissione tributaria regionale erroneamente non ha dichiarato l’inammissibilità del motivo di appello avanzato dal C., in ordine ai vizi dell’avviso di ricevimento della notifica della cartella impugnata.

2. Con il secondo motivo lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso che il giudice di appello, invece di dichiarare l’inammissibilità dei motivi di gravame, ha pronunciato sulle doglianze dell’appellante proposte tardivamente.

2.1. I due motivi, bisognosi di esame congiunto, sono entrambi infondati.

E’ noto che nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma dell’impugnazione dell’atto fiscale, l’indagine sul rapporto sostanziale è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione, che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado (Cass. 13/04/2017, n. 9637; Cass. 02/07/2014, n. 15051; Cass. 15/10/2013, n. 23326).

Ne consegue che il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti in ricorso, il cui ambito può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti, ammissibile, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 24, esclusivamente in caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione”.

Ed è altrettanto pacifico che, nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale (Cass. 29/12/2017, n. 31224).

2.2. Nella peculiare vicenda all’esame della Corte, tuttavia, dalla lettura degli atti processuali risulta che il concessionario della riscossione depositò la propria memoria di costituzione in giudizio, con i relativi documenti, compresa la relata di notifica della cartella impugnata, addirittura successivamente all’udienza di discussione D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 34, quando la causa era stata già posta in decisione dal collegio in camera di consiglio.

Dunque, è all’evidenza come il contribuente non venne posto in condizione di formulare motivi aggiunti avverso gli atti impugnati, per l’assorbente considerazione che il concessionario della riscossione depositò gli atti rilevanti, ben oltre i termini fissati per la sua costituzione in giudizio e financo per la produzione – entro venti giorni prima dell’udienza di discussione – di nuovi documenti D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 32, comma 1.

Ne discende che il primo atto difensivo con il quale il contribuente venne posto in condizione di proporre motivi aggiunti avverso l’atto impositivo impugnato, concernenti i vizi della notifica della cartella impugnata, deve individuarsi esattamente nel ricorso in appello innanzi alla commissione tributaria regionale, restando esclusa la lamentata inammissibilità dei motivi articolati nel detto atto.

3. Con il terzo motivo deduce violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 19 e 21, atteso che il giudice di merito non ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso introduttivo, poichè formulato oltre il termine di decadenza fissato dalla legge per l’impugnazione degli atti impositivi.

3.1. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che una volta accertato il vizio – sia esso di inesistenza o di nullità – della notifica della cartella impugnata, è all’evidenza come non possa decorrere alcun termine decadenziale, avendo il contribuente il diritto di impugnare, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992 cit., art. 19, comma 3, l’atto non notificato unitamente al successivo atto effettivamente notificato.

4. Con il quarto motivo si duole del vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in cui è incorso il giudice d’appello, avendo omesso di motivare in ordine alle ragioni che inducevano a ritenere viziato l’avviso di ricevimento relativo alla notifica della cartella impugnata.

5. Con il quinto mezzo lamenta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, avendo la commissione tributaria regionale ritenuto inesistente la notifica della cartella impugnata, sol perchè nell’avviso di ricevimento non era stato identificata la persona che si era ricevuto l’atto e il medesimo atto risultava altresì privo della sottoscrizione dell’agente postale.

5.1. I due motivi, connessi per il comune oggetto, sono entrambi infondati.

In tema di notificazione per mezzo del servizio postale, questa Corte ha già affermato che l’avviso di ricevimento, prescritto dall’art. 149 c.p.c., è il solo documento idoneo a provare sia la consegna, sia la data di questa, sia l’identità della persona a mani della quale la consegna è stata eseguita. Consegue che la mancanza di sottoscrizione dell’agente postale sull’avviso di ricevimento del piego raccomandato rende inesistente e non soltanto nulla la notificazione, rappresentando la sottoscrizione l’unico elemento valido a riferire la paternità dell’atto all’agente postale (Cass. 08/11/2013, n. 25138; Cass. 21/05/1992, n. 6146).

In direzione contraria non vale richiamare l’orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte, a tenore del quale l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento, restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa (Cass. S.U. 20/07/2016, n. 14916).

Nella vicenda in discussione, infatti, avendo il giudice di merito accertato che l’avviso di ricevimento non risultava sottoscritto dall’agente postale, non resta consentito attribuire la paternità dell’atto ad un “soggetto qualificato” e, quindi, a ricondurre il vizio della cartella nell’alveo della mera nullità.

In ogni caso, pure a ritenere che la notifica in esame fosse nulla e non invece inesistente, come sostenuto dal giudice di merito, va evidenziato che siffatta invalidità non potrebbe giammai ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo, ex art. 156 c.p.c., essendo incontroverso che la cartella non venne impugnata dal contribuente nei termini di rito e, quindi, non potendosi comunque affermare che il plico pervenne effettivamente nella sfera di conoscenza del destinatario.

6. Le spese del giudizio seguono la soccombenza tra la ricorrente e il controricorrente, mentre nulla va statuito per l’Agenzia delle Entrate, la quale non ha depositato controricorso. Sussistono i presupposti per l’applicazione nei confronti della ricorrente del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, considerato che la notifica del ricorso si è perfezionata solo in data 31 gennaio 2013 (Cass. 10 luglio 2015, n. 14515).

P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal controricorrente, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese generali al 15% ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2020


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 05-03-2020) 13-08-2020, n. 17061

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 163/2014 R.G. proposto da:

Equitalia Sud s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Ottaviano n. 42, presso lo studio dell’avv. Bruno Lo Giudice, rappresentato e difeso dall’avv. Michele Di Fiore giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.R.A., elettivamente domiciliato in Salerno, via M. Conforti n. 1, presso lo studio dell’avv. Marco Esposito, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 269/07/13, depositata il 20 maggio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 marzo 2020 dal Consigliere Giacomo Maria Nonno.

Svolgimento del processo
Che:

1. con la sentenza n. 269/07/13 del 20/05/2013, la Commissione tributaria regionale della Campania (di seguito CTR) dichiarava inammissibile l’appello proposto da Equitalia Sud s.p.a. avverso la sentenza n. 10/18/12 della Commissione tributaria provinciale di Napoli (di seguito CTP), che aveva accolto il ricorso di D.R.A. nei confronti di una iscrizione ipotecaria effettuata nei suoi confronti quale socio di Linea In s.r.l.;

1.1. la CTR motivava la declaratoria di inammissibilità dell’appello dell’Agente della riscossione osservando che, tenuto conto della mancata costituzione in giudizio dell’ente creditore e della mancata allegazione agli atti di causa della ricevuta di ritorno della notifica dell’appello da parte di Equitalia Sud s.p.a. all’Agenzia delle entrate, sussisteva “la violazione del contraddittorio”;

2. Equitalia Sud s.p.a. impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo;

3. D.R.A. resisteva con controricorso mentre l’Agenzia delle entrate non si costituiva in giudizio e restava, pertanto, intimata.

Motivi della decisione
Che:

1. con l’unico motivo di ricorso Equitalia Sud s.p.a. deduce la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 49 e art. 53, comma 2, nonchè dell’art. 331 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, evidenziando che la CTR, preso atto della mancanza di prova della notificazione dell’atto di appello all’Agenzia delle entrate, litisconsorte necessario, avrebbe erroneamente dichiarato l’inammissibilità dell’appello invece di assegnare un termine per l’integrazione del contraddittorio;

2. il motivo, oltre che ammissibile essendo stato formulato nel contesto di un ricorso che contiene la sufficiente indicazione delle ragioni di fatto e di diritto sul quale lo stesso si fonda, è altresì fondato;

2.1. è pacifico che Equitalia Sud s.p.a. abbia proposto impugnazione sia nei confronti di D.R.A. che nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in qualità di ente impositore, e che entrambi abbiano partecipato al giudizio di primo grado davanti alla CTP;

2.2. la CTR ha ritenuto l’inammissibilità dell’appello in quanto, pur essendosi perfezionata la notifica dell’appello nei confronti del contribuente, Equitalia Sud s.p.a. non ha depositato la ricevuta di ritorno attestante l’intervenuta notifica del ricorso nei confronti dell’Agenzia delle entrate;

2.3. peraltro, l’assenza di prova della notifica nei confronti di un litisconsorte necessario qual è l’ente impositore, quanto meno sotto il profilo processuale, è idonea a determinare la nullità della notificazione e, quindi, la mancata impugnazione della sentenza della CTP nei suoi confronti, ma non già l’inammissibilità dell’appello tempestivamente introdotto con la regolare notificazione nei confronti dell’altro litisconsorte;

2.4. la mancata impugnazione nei confronti di un litisconsorte necessario, infatti, non implica l’inammissibilità del gravame: per giurisprudenza assolutamente pacifica, la tempestiva impugnazione nei confronti dell’altro o degli altri litisconsorti conserva l’effetto di impedire il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e impone al giudice di disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso (Cass. n. 8065 del 21/03/2019; Cass. n. 27927 del 31/10/2018; Cass. n. 19910 del 27/07/2018; Cass. n. 18364 del 31/07/2013; Cass. n. 11552 del 14/05/2013; Cass. n. 3071 del 08/02/2011);

3. la sentenza di appello va, dunque, cassata e la causa va rimessa alla CTR della Campania, in diversa composizione, affinchè disponga l’integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso e provveda anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, affinchè disponga l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Agenzia delle entrate e provveda sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2020


Riunione della Giunta Esecutiva del 05.09.2020

Ai sensi dell’art. 13 dello Statuto, viene convocata la riunione della Giunta Esecutiva che si svolgerà sabato 12 settembre 2020 alle ore 8:00 presso il Comune di Cesena – Palazzo Municipale – Piazza del Popolo 10, in prima convocazione, e alle ore 10:00 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:
1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2020;
2. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2021;
3. Nuovo sito web;
4. Attivazione piattaforma Zoom;
5. Attività formativa 2020/2021;
6. D.L. 16 luglio 2020, n. 76, Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale, Art. 26. Piattaforma per la notificazione digitale degli atti della pubblica amministrazione;
7. Varie ed eventuali.

Per motivi di carattere organizzativo la riunione viene anticipata a

sabato 5 settembre 2020 

Leggi: Documentazione GE 05 09 2020

Leggi: GE 05 09 2020 Verbale