La formazione: BUSINNES O SERVIZIO?

L’attività del Messo Comunale è molto complessa anche in relazione ad una normativa contraddittoria e ad una giurisprudenza altalenante. Ciò spesso rende l’attività notificatoria oggetto di controversie il cui esito processuale vanifica l’attività del Messo Comunale.
In tale contesto, in attesa dell’auspicato Testo Unico delle Notifiche, l’esigenza di dover comunque eseguire delle notifiche determina la necessità per gli Enti di attivare momenti di formazione. Essa è elemento fondamentale al fine di una corretta e uniforme applicazione, a livello nazionale, delle norme, senza la quale le prassi locali contraddittorie si sprecano e generano solo confusione.
Oggi l’attività di formazione sul procedimento notificatorio è effettuata da diverse società ed associazioni. Purtroppo dobbiamo constatare che questa pluralità di offerta formativa, invece di aiutare chi lavora, sempre più spesso crea perplessità ed incertezze nei Messi Comunali, i quali potrebbero poi trovarsi a rispondere sia civilmente che penalmente del loro operato.
La formazione non deve essere legata esclusivamente a logiche di business, ma vista come un servizio che deve essere svolto sia nell’interesse degli Agenti Notificatori che dei destinatari della notifica. Appare pertanto di dubbia utilità l’attività di alcune società ed associazioni le quali, attraverso costosi corsi di formazione ovvero apparentemente gratuiti divulgano interpretazioni a poco dire “innovative”, se non addirittura in contrasto con il dettato normativo, per finalità più o meno secondarie non sempre cristalline.
Le varie figure che interagiscono nel processo di notificazione sono previste da diverse (troppe …) leggi, le quali stabiliscono, in alcuni casi, anche le modalità di nomina e le loro competenze. Nell’occasione si ribadisce che, relativamente almeno al Messo Comunale, non è previsto nessun corso obbligatorio di formazione con esame di idoneità finale, come invece alcune società di formazione e/o associazioni paventano in modo subdolo nella pubblicità dei propri corsi.
E’ altrettanto equivoca la pretesa di voler assegnare e/o cambiare il profilo del Messo Comunale in Messo Notificatore, figura prevista dalla Legge Finanziaria del 2007. E’ bene chiarire che la Legge predetta stabilisce in modo chiaro che i corsi di formazione per i Messi Notificatori (che si ribadisce sono figure diverse dai Messi Comunali) debbano essere organizzati a cura dell’Ente (il quale li può affidare anche a società di formazione esterne all’Ente) dopo aver individuato il personale che vi parteciperà. Sarà poi il superamento dell’esame di idoneità a dare al dirigente dell’Ufficio Tributi dell’Ente la facoltà di assegnare al dipendente la qualifica di Messo Notificatore che, lo ribadiamo, ha delle competenze limitate e diverse rispetto a quelle del Messo Comunale.
Questa Associazione ritiene, pertanto, che i corsi di formazione per Messi Notificatori debbano essere preceduti da un’esplicita e formale scelta dell’Ente di avvalersi di dette nuove figure con l’impegno, ad esame superato, a darvi seguito.
E’ appena il caso di segnalare che la mera attestazione di frequenza a corsi per Messi Notificatori che non rispettano i dettami della Legge Finanziaria 2007 è ininfluente e priva di qualsivoglia valore e pone sia chi effettua materialmente le notifiche che chi lo incarica di ciò di fronte a delle responsabilità di vario tipo non indifferenti.
Dalle considerazioni che precedono emerge la necessità di addivenire ad un confronto aperto e franco con tutti i soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’attività di notificazione, al fine di garantire una corretta formazione, differenziata, se del caso, a seconda dei soggetti destinatari. Si auspica, in ogni caso, una concordanza di interpretazione delle norme vigenti, tra i soggetti che si occupano di formazione in tale settore; noi, come ANNA (Associazione Nazionale Notifiche Atti), diamo in tal senso la nostra massima disponibilità.
Ad ogni buon fine ci teniamo a precisare che riteniamo maturi i tempi per arrivare ad un’unica figura notificatoria che, a nostro avviso, deve essere Pubblica, evitando l’illusione che la privatizzazione del Servizio Notifiche possa dare maggiori garanzie al richiedente e/o al destinatario della Notifica che invece abbisognano solo di norme chiare e semplici all’interno di un sistema di garanzie che solo la terzietà della Pubblica Amministrazione può dare.

Maggio 2009


Corso di aggiornamento per Messi Comunali – TERRACINA LT – 13.10.2009

L’attività del Messo Comunale è molto complessa anche in relazione ad una normativa contraddittoria ed una giurisprudenza altalenante. Ciò rende l’attività notificatoria spesso oggetto di controversie il cui esito processuale vanifica l’attività del Messo Comunale.
In tale contesto, in attesa dell’auspicato Testo Unico della Notifica, la necessità di soddisfare l’esigenza di procedure notificatorie chiare ed applicabili determina la necessità di attivare la formazione. Essa è elemento fondamentale al fine di una corretta applicazione delle norme senza la quale la confusione e le prassi contraddittorie si sprecano. Pertanto abbiamo realizzato il “Progetto di valorizzazione del Messo Comunale” che coinvolge i Messi Comunali di molte Regioni d’Italia.

Martedì 13 Ottobre 2009

Orario 9:00 – 13:00 14:00 – 17:00

Comune di Terracina

Villa Tomassini

Viale Europa 1

Terracina (LT)

Con il patrocinio del Comune di Terracina

Quote di partecipazione al corso:

Soci A.N.N.A.: € 150,00 (Iscritti alla data del 31.12.2008 con rinnovo anno 2009 al 28.02.2009. Sono esclusi i dipendenti di Enti e Comuni associati, che non siano iscritti individualmente) (*) (**)

Non iscritti ad A.N.N.A.: € 190,00 la quota ? comprensiva dell’iscrizione al Corso più l’iscrizione all’Associazione per l’anno 2009(*) (**). Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi ? anche l’assicurazione per colpa grave.

Solo frequenza al Corso: € 250,00 oltre I.V.A (*) (**)

La quota di iscrizione dovrà essere versata, al netto delle spese bancarie e/o postali, tramite:

Conto Corrente Postale n. 55115356

Conto Corrente Bancario:

Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Poste Italiane]Intestato a:

Associazione Nazionale Notifiche Atti

Codice fiscale: 93164240231

P.IVA: 03558920231

Causale: Corso Terracina 2009

(*) Se la fattura è intestata ad Ente Pubblico, la quota è esente IVA, ai sensi dell’art. 10, D.P.R. n. 633/1972 e successive modificazioni.

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.

I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Asirelli Corrado

Iscrizione on line


Lo stalking è legge

Pubblicata in G.U. la legge n. 38/2009: le modifiche della Camera non hanno investito le “disposizioni in materia di atti persecutori”, rimaste invariate rispetto al testo del Governo.

Legge 23/04/2009, n. 38

Il 22 aprile 2009 il Parlamento ha convertito in legge, con modificazioni, il d.l. 23 aprile 2009 n. 11, recante “misure urgenti in tema di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”. Le modifiche apportate al decreto legge dalla Camera non hanno peraltro investito le “disposizioni in materia di atti persecutori”, rimaste quindi invariate rispetto al testo del Governo.

Con tali disposizioni, come è noto, è stato introdotto l’art. 612 bis c.p. che prevede il reato di “atti persecutori”, il c.d. stalking. La norma punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Come abbiamo già osservato, la norma, non del tutto soddisfacente sotto il profilo della determinatezza, comporterà presumibilmente gravi difficoltà in fase di accertamento probatorio (su questo aspetto e, più in generale, per un primo commento alla normativa sia consentito rinviare a Della Bella, Le “disposizioni in materia di atti persecutori” contenute nel d.l. 11/2009: un articolato sistema di tutela per le vittime dello stalking che dimentica lo stalker, pubblicato su questo Quotidiano Giuridico il 27 febbraio 2009).

Ciò che già i primi provvedimenti in materia hanno consentito di evidenziare è un problema di possibile applicazione retroattiva della norma incriminatrice, legato alla natura di reato abituale propria dello stalking (cfr. Tribunale di Milano, sez. riesame, ordinanza 17 aprile 2009). In particolare, il problema che si è posto al Tribunale competente a decidere, in sede di riesame, sull’applicazione della custodia cautelare nei confronti del presunto stalker ha riguardato la possibilità di considerare integrato il reato, allorché le condotte abbiano avuto inizio prima dell?entrata in vigore della legge: nel provvedimento citato, il Tribunale ha ritenuto che ciò non integrasse una violazione del principio di irretroattività, poiché le condotte commesse successivamente all’entrata in vigore della norma, essendo collegate a quelle precedenti, avrebbero assunto una “rilevanza tipologica diversa”; conclusivamente, il Tribunale ha affermato che il reato debba ritenersi “commesso dopo l’entrata in vigore della legge se anche un solo atto è compiuto dopo l’entrata in vigore della legge stessa”.

Gli strumenti predisposti dal legislatore per contrastare il fenomeno dello stalking vanno per altro al di là della previsione di una nuova figura di reato: la tutela della vittima è infatti affidata anche ad un sistema articolato di provvedimenti con finalità preventiva, come l’ammonimento orale del questore (art. 8 d.l.), che può essere richiesto dalla vittima ancor prima della querela e la nuova misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima o dai suoi congiunti – art. 282 ter c.p.p. (art. 9 co. 1 d.l.). Sempre nell’ottica di garantire un’efficace azione di tutela della vittima è sancito l’obbligo delle forze dell’ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche di informare e indirizzare le vittime agli appositi centri antiviolenza previsti sul territorio (art. 11 d.l.) ed è infine prevista l’istituzione di un numero verde presso la Presidenza del Consiglio (art. 12 d.l.). La tutela della vittima “nel processo” è poi garantita dalla assunzione della sua testimonianza con incidente probatorio – art. 392 co. 1 bis c.p.p. al fine di limitare la reiterazione dei traumi subiti (art. 9 co. 4 d.l.).
Nell’Area Normativa il testo del provvedimento legislativo.


Notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno

La Corte Costituzionale con Ordinanza 24.04.2009, n. 116 ha giudicato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 166 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che le notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno vengano effettuate all’amministratore nominato.

In particolare, secondo il rimettente (Giudice Tutelare di Trieste), la disciplina che regola l’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, non sarebbe qualitativamente diversa dagli strumenti già approntati dal codice civile in materia di sostegno a soggetti deboli, quali l’interdizione e l’inabilitazione, dato che la differenza tra gli istituti non si baserebbe sulla gravità dell’infermità del soggetto assistito e che, di conseguenza, la limitazione operata dall’art. 166 cod. proc. pen. ai soli casi di interdizione ed inabilitazione, con riferimento alla assistenza del soggetto debole nella fase della notificazione e, quindi, della conoscenza di atti giudiziari, non sarebbe rispettosa del principio consacrato nell’art. 3 della Costituzione.

La Consulta ha concluso che il Giudice Tutelare ha fondato la questione di costituzionalità su una lettura errata della norma censurata e dello stesso tertium comparationis in quanto: “se è vero che l’art. 166 cod. proc. pen. dispone, per l’imputato interdetto, la notificazione degli atti processuali anche al tutore dello stesso, esso però, non prende affatto in considerazione l’ipotesi dell’inabilitazione, prevedendo unicamente che, nel caso in cui il processo sia sospeso dal giudice perché lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento ai sensi dell’art. 71, comma 1, cod. proc. pen., le notificazioni debbano essere effettuate anche al curatore nominato sulla base del predetto articolo” e dunque “tale notificazione integrativa, trascurata dal rimettente, è riferibile tanto agli imputati inabilitati, quanto a quelli sottoposti ad amministrazione di sostegno, purché il loro stato mentale sia tale da comprometterne effettivamente la loro piena e consapevole partecipazione al processo”.


Corte cost., Ord., (ud. 11-03-2009) 24-04-2009, n. 116

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco AMIRANTE Presidente

– Ugo DE SIERVO Giudice

– Paolo MADDALENA “

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

– Paolo GROSSI “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ORDINANZA

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 166 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Trieste nel procedimento penale a carico di S.S., con ordinanza del 21 maggio 2008, iscritta al n. 365 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell’11 marzo 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto che, con ordinanza del 21 maggio 2008, il Tribunale di Trieste ha sollevato, con riferimento agli artt. 3 e 111, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 166 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che le notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno vengano effettuate all’amministratore nominato;

che, riferisce il rimettente, nel procedimento penale a carico di S.S. per il reato di cui all’art. 424 cod. pen., dalla certificazione del casellario giudiziale era risultato che, in data 9 febbraio 2006, il Giudice tutelare di Trieste aveva dichiarato aperta l’amministrazione di sostegno a carico dell’imputato;

che il decreto di citazione era stato notificato nel domicilio eletto, a mani del difensore dell’imputato, che tuttavia aveva lamentato la mancata previsione, nell’art. 166 cod. proc. pen., che le notifiche vengano effettuate all’amministratore di sostegno, così come avviene per l’interdetto o per l’inabilitato, ove è statuita la notifica al tutore o al curatore;

che, secondo il rimettente, la disciplina che regola l’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, non sarebbe qualitativamente diversa dagli strumenti già approntati dal codice civile in materia di sostegno a soggetti deboli, quali l’interdizione e l’inabilitazione, dato che la differenza tra gli istituti non si baserebbe sulla gravità dell’infermità del soggetto assistito;

che, di conseguenza, la limitazione operata dall’art. 166 cod. proc. pen. ai soli casi di interdizione ed inabilitazione, con riferimento alla assistenza del soggetto debole nella fase della notificazione e, quindi, della conoscenza di atti giudiziari, non sarebbe rispettosa del principio consacrato nell’art. 3 della Costituzione;

che, invero, tra l’amministrazione di sostegno e gli istituti della tutela e della curatela non esisterebbe una differenza qualitativa o quantitativa tale da giustificare un diverso trattamento dell’assistito nel compimento di attività, nel caso in specie, fondamentali come la ricezione di atti giudiziari;

che la norma censurata si porrebbe anche in contrasto con l’art 111, primo e terzo comma, Cost., con specifico riferimento alla disciplina del giusto processo regolato dalla legge, in quanto violerebbe il diritto all’informazione relativo alla natura ed ai motivi dell’accusa elevata a carico di un soggetto ritenuto giudizialmente non in grado di provvedere ai propri interessi;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile per insufficiente descrizione della fattispecie o, comunque, infondata nel merito;

che, riferisce il Presidente del Consiglio, questa Corte, nella sentenza n. 440 del 2005, ha chiarito i peculiari presupposti dell’amministrazione di sostegno, giustificandone la ragion d’essere nella necessità di affidare al giudice, caso per caso, la valutazione della tutela più adeguata da accordare al soggetto bisognoso di assistenza, in modo proporzionato al suo grado di inabilità, e allo scopo di limitarne il meno possibile la sua capacità giuridica;

che, sottolinea il Presidente del Consiglio, resta sempre fermo il potere del giudice penale che abbia dei dubbi sull’effettiva conoscenza dell’atto di disporre gli accertamenti previsti dagli artt. 70 e 71 cod. proc. pen.; il che escluderebbe anche la violazione dell’art. 111 Cost.;

che, con memoria depositata successivamente, lo stesso Presidente del Consiglio illustrava ulteriormente le proprie conclusioni.

Considerato che il Tribunale di Trieste dubita, con riferimento agli artt. 3 e 111, primo e terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 166 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che le notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno siano effettuate all’amministratore nominato, contrariamente a quanto sarebbe disposto per il tutore dell’interdetto e per il curatore dell’inabilitato;

che, se è vero che l’art. 166 cod. proc. pen. dispone, per l’imputato interdetto, la notificazione degli atti processuali anche al tutore dello stesso, esso però, non prende affatto in considerazione l’ipotesi dell’inabilitazione, prevedendo unicamente che, nel caso in cui il processo sia sospeso dal giudice perché lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento ai sensi dell’art. 71, comma 1, cod. proc. pen., le notificazioni debbano essere effettuate anche al curatore nominato sulla base del predetto articolo;

che tale notificazione integrativa, trascurata dal rimettente, è riferibile tanto agli imputati inabilitati, quanto a quelli sottoposti ad amministrazione di sostegno, purché il loro stato mentale sia tale da comprometterne effettivamente la loro piena e consapevole partecipazione al processo;

che, pertanto, il rimettente fonda la sollevata questione di costituzionalità su una lettura errata della norma censurata e dello stesso tertium comparationis;

che la questione, dunque, per l’evidente erroneità del presupposto interpretativo, è manifestamente infondata (in tal senso, ordinanze n. 114 del 2007, n. 130 del 2006 e n. 100 del 2003).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 166 cod. proc. pen., sollevata, con riferimento agli artt. 3 e 111, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Trieste con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 aprile 2009.


LEGGE 23 aprile 2009, n. 38

LEGGE 23 aprile 2009, n. 38 (1).

Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori.

(1) Pubblicata nella Gazz. Uff. 24 aprile 2009, n. 95.

La Camera dei deputati ed il Senato della Repubblica hanno approvato;

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA

Promulga

la seguente legge:

Art. 1.

1. Il decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori, è convertito in legge con le modificazioni riportate in allegato alla presente legge.
2. La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale.
La presente legge, munita del sigillo dello Stato, sarà inserita nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge dello Stato.

Allegato
Modificazioni apportate in sede di conversione al decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11

All’articolo 1, comma 1, alla lettera b), capoverso «5.1)», sono aggiunte, infine, le seguenti parole: «nei confronti della stessa persona offesa».

All’articolo 2, comma 1:

alla lettera a), dopo le parole: «all’articolo 275, comma 3,» sono inserite le seguenti: «secondo periodo,» e le parole: «600-quinquies, 609-bis, escluso il caso previsto dal terzo comma, 609-quater e 609-octies» sono sostituite dalle seguenti: «e 600-quinquies»;

dopo la lettera a) è inserita la seguente:

«a-bis) all’articolo 275, comma 3, è aggiunto, infine, il seguente periodo: “Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano anche in ordine ai delitti previsti dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale, salvo che ricorrano le circostanze attenuanti dagli stessi contemplate”».

L’articolo 3 è sostituito dal seguente:

«Art. 3. – (Modifiche all’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354). – 1. All’articolo 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni, sono apportate le seguenti modificazioni:

a) il comma 1 è sostituito dai seguenti:

“1. L’assegnazione al lavoro all’esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione previste dal capo VI, esclusa la liberazione anticipata, possono essere concessi ai detenuti e internati per i seguenti delitti solo nei casi in cui tali detenuti e internati collaborino con la giustizia a norma dell’articolo 58-ter della presente legge: delitti commessi per finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, delitto di cui all’articolo 416-bis del codice penale, delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, delitti di cui agli articoli 600, 600-bis, primo comma, 600-ter, primo e secondo comma, 601, 602, 609-octies, qualora ricorra anche la condizione di cui al comma 1-quater del presente articolo, e 630 del codice penale, all’articolo 291-quater del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, e all’articolo 74 del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309. Sono fatte salve le disposizioni degli articoli 16-nonies e 17-bis del decreto-legge 15 gennaio 1991, n. 8, convertito, con modificazioni, dalla legge 15 marzo 1991, n. 82, e successive modificazioni.

1-bis. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per uno dei delitti ivi previsti, purché siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, altresì nei casi in cui la limitata partecipazione al fatto criminoso, accertata nella sentenza di condanna, ovvero l’integrale accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile, rendono comunque impossibile un’utile collaborazione con la giustizia, nonché nei casi in cui, anche se la collaborazione che viene offerta risulti oggettivamente irrilevante, nei confronti dei medesimi detenuti o internati sia stata applicata una delle circostanze attenuanti previste dall’articolo 62, numero 6), anche qualora il risarcimento del danno sia avvenuto dopo la sentenza di condanna, dall’articolo 114 ovvero dall’articolo 116, secondo comma, del codice penale.

1-ter. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi, purché non vi siano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva, ai detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 575, 600-bis, secondo e terzo comma, 600-ter, terzo comma, 600-quinquies, 628, terzo comma, e 629, secondo comma, del codice penale, all’articolo 291-ter del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 23 gennaio 1973, n. 43, all’articolo 73 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, e successive modificazioni, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, comma 2, del medesimo testo unico, e all’articolo 416 del codice penale, realizzato allo scopo di commettere delitti previsti dal libro II, titolo XII, capo III, sezione I, del medesimo codice, dagli articoli 609-bis, 609-quater e 609-octies del codice penale e dall’articolo 12, commi 3, 3-bis e 3-ter, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, e successive modificazioni.

1-quater. I benefici di cui al comma 1 possono essere concessi ai detenuti o internati per i delitti di cui agli articoli 609-bis, 609-ter, 609-quater e, qualora ricorra anche la condizione di cui al medesimo comma 1, 609-octies del codice penale solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui al quarto comma dell’articolo 80 della presente legge. Le disposizioni di cui al periodo precedente si applicano in ordine al delitto previsto dall’articolo 609-bis del codice penale salvo che risulti applicata la circostanza attenuante dallo stesso contemplata”;

b) al comma 2-bis, le parole: “di cui al comma 1, quarto periodo” sono sostituite dalle seguenti: “di cui al comma 1-ter”».

L’articolo 5 è soppresso.

All’articolo 6:

dopo il comma 2 è inserito il seguente:

«2-bis. Il comma 2 dell’articolo 2 del decreto-legge 16 settembre 2008, n. 143, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 novembre 2008, n. 181, si interpreta nel senso che non rientrano tra le somme di denaro ovvero tra i proventi ivi previsti, con i loro relativi interessi, quelli di complessi aziendali oggetto di provvedimenti di sequestro o confisca»;

i commi 3, 4, 5 e 6 sono soppressi.

Al capo I, dopo l’articolo 6 è aggiunto il seguente:

«Art. 6-bis. – (Reclutamento di ufficiali in servizio permanente dell’Arma dei carabinieri). – 1. Nell’anno 2009, per le esigenze connesse alla prevenzione e al contrasto della criminalità e al fine di garantire la funzionalità e l’operatività dei comandi, degli enti e delle unità, l’Arma dei carabinieri può procedere all’immissione in servizio permanente, a domanda, del personale in servizio di cui all’articolo 23, comma 1, del decreto legislativo 8 maggio 2001, n. 215, e successive modificazioni, che consegue tre anni di servizio a tempo determinato entro il 31 dicembre 2009, previo espletamento di procedure concorsuali, nel limite del contingente di personale di cui all’articolo 66, comma 5, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, ferma restando l’applicazione dell’articolo 3, comma 93, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, con progressivo riassorbimento delle posizioni soprannumerarie. Nelle more della conclusione delle procedure di immissione, l’Arma dei carabinieri continua ad avvalersi del personale di cui al precedente periodo nel limite del contingente stabilito dalla legge di bilancio».

Al capo II, dopo l’articolo 12 sono aggiunti i seguenti:

«Art. 12-bis. – (Norma di interpretazione autentica in materia di assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali). – 1. Gli articoli 1 e 4 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, si interpretano nel senso che le disposizioni ivi contenute non si applicano al personale delle Forze di polizia e delle Forze armate, che rimangono disciplinate dai rispettivi ordinamenti, fino al complessivo riordino della materia.

Art. 12-ter. – (Categorie dei dati da conservare di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 109). – 1. In considerazione delle esigenze di adeguamento all’evoluzione tecnologica che comportano diverse necessità di intervento sulle infrastrutture di rete degli operatori di comunicazioni elettroniche, le informazioni relative alle categorie dei dati da conservare di cui all’articolo 3 del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 109, relativi ai differenti casi di non risposta in “occupato” o “libero non risponde” o “non raggiungibile” o “occupato non raggiungibile” o altre fattispecie, sono rese disponibili dagli operatori di comunicazioni elettroniche nei tempi e con le modalità indicati nei commi 2 e 3.

2. Per le chiamate originate da rete mobile e terminate su rete mobile o fissa, i dati di cui al comma 1 devono essere resi disponibili dagli operatori di rete mobile a far data dal 31 dicembre 2009.

3. Per le chiamate originate da rete fissa e terminate su reti fisse o mobili, tenuto conto del processo in atto riguardante gli interventi di realizzazione e sviluppo delle reti di nuova generazione in tecnologia IP, le informazioni di cui al comma 1 relative alle chiamate senza risposta generate dai clienti collegati alle reti fisse in tecnologia IP sono rese disponibili dagli operatori di rete fissa gradualmente e compatibilmente con le caratteristiche tecniche delle reti di comunicazione elettronica di nuova generazione degli operatori interessati e comunque non oltre il 31 dicembre 2010».

All’articolo 13:

i commi 1 e 2 sono soppressi;

dopo il comma 4 è inserito il seguente:

«4-bis. Il Ministro dell’economia e delle finanze provvede al monitoraggio delle misure di cui all’articolo 4, anche ai fini dell’adozione dei provvedimenti correttivi di cui all’articolo 11-ter, comma 7, della legge 5 agosto 1978, n. 468, e successive modificazioni».

Le tabelle 1 e 2 sono soppresse.


Il lavoratore in malattia non può andare in motocicletta

Al lavoratore a casa in malattia è vietato andare in moto. Parola di Cassazione secondo la quale l’utilizzo del motociclo denota “scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura” e ne “ritarda la guarigione”. Applicando questo principio, la sezione Lavoro ha parzialmente accolto il ricorso della Clinic Center di Napoli che si era opposta alla reintegra di un suo dipendente, un aiuto medico specialista in geriatria assunto nella clinica part time, che, nel periodo di malattia per un’artrosi all’anca, era stato sorpreso a guidare una motocicletta per recarsi al mare a fare dei bagni e poi per raggiungere il Centro Futura dove svolgeva una seconda attività in qualità di direttore sanitario. Piazza Cavour non ha contestato tanto il secondo lavoro, che per quanto riguarda gli impieghi part time “non può essere ritenuta vietata tout court”, quanto il fatto che Giuseppe F., nonostante l’artrosi all’anca, si fosse messo alla guida di una moto di grossa cilindrata per recarsi prima in spiaggia e poi alla seconda attività lavorativa. Ebbene, secondo la Cassazione, un comportamento di questo tipo è indice di “scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute, oltreché dimostrativo del fatto che lo stato di malattia non è assoluto e non impedisce comunque l’espletamento di una attività ludica o lavorativa”.

Di diverso avviso era stata la Corte d’Appello di Napoli che, nel luglio 2005, aveva revocato il licenziamento del medico sostenendo che l’aver guidato una moto di grossa cilindrata e il fatto di essersi recato al mare a fare bagni non erano attività “il contrasto con gli obblighi di cura e riposo in modo da comprometterne ulteriormente la guarigione”. Contro la decisione favorevole al medico, la Clinic Center ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo, tra l’altro, che l’utilizzo della motocicletta in malattia per recarsi al mare non era un atteggiamento propriamente tipico di un malato. La sezione lavoro con sentenza 9474, ha accolto questo punto della protesta e ha ricordato che “l’espletamento di altra attività lavorativa ed extralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell’adempimento dell’obbligazione, posto che il fatto di guidare una moto di grossa cilindrata, di recarsi in spiaggia e di prestare una seconda attività lavorativa sono indici di una scarsa attenzione ai doveri di cura e ritardano la guarigione”. Sarà ora la Corte d’Appello di Napoli a dovere riesaminare il caso del medico che era stato reintegrato dopo il licenziamento nonostante si fosse messo in moto nel periodo di malattia.


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 24-02-2009) 21-04-2009, n. 9474

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente

Dott. ROSELLI Federico – rel. Consigliere

Dott. MONACI Stefano – Consigliere

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6496/2006 proposto da:

CLINIC CENTER S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL PARADISO 55, presso lo studio dell’avvocato DELLA CHIESA D’ISASCA FLAMINIA, rappresentato e difeso dall’avvocato RIZZO NUNZIO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.G.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SICILIA 235, presso lo studio dell’avvocato DI GIOIA GIULIO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3067/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 27/07/2005 R.G.N. 8314/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/2009 dal Consigliere Dott. DI NUBILA VINCENZO;

udito l’Avvocato RIZZO NUNZIO;

udito l’Avvocato ITALICO PERLINI per delega DI GIOIA GIULIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LO VOI Francesco, che ha concluso per: accoglimento per due motivi, assorbito il terzo.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato in data 4.12.2002, F.G. M. conveniva dinanzi al Tribunale di Napoli la spa Clinic Center ed esponeva di avere lavorato per la convenuta quale aiuto medico specialista in geriatria dal (OMISSIS), con rapporto di lavoro a tempo parziale di trenta ore settimanali; nel contempo, rivestiva la carica di direttore sanitario del Centro Futura srl., fino al (OMISSIS), circostanza questa nota alla Clinic Center. Dopo un periodo di malattia ((OMISSIS)) aveva ripreso servizio, ma in data (OMISSIS) aveva dovuto nuovamente assentarsi per l’insorgenza di coxoartrosi post-necrotica: pendente un ciclo riabilitativo consigliato in attesa di intervento chirurgico, la società gli contestava alcuni illeciti disciplinari; ricevuta la lettera di giustificazioni, lo licenziava per giusta causa. Egli impugnava il licenziamento e chiedeva la reintegra, in una col risarcimento del danno per avere riportato una crisi ansioso – depressiva a causa di tale licenziamento.

2. Previa costituzione ed opposizione della Clinic Center spa, il Tribunale respingeva la domanda attrice. Proponeva appello l’attore e la Corte di Appello, previa costituzione della convenuta, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, ordinando la reintegra del F. e la corresponsione delle retribuzioni “medio tempore” maturate; non riconosceva invece l’ulteriore danno richiesto dall’attore. Questa, in sintesi, la motivazione della sentenza di appello:

altro giudizio tra le parti, inerente al riconoscimento di mansioni superiori, non ha rilevanza nella presente controversia;

irrilevante è pure la mancata affissione del codice disciplinare, dato che le mancanze addebitate (simulazione dello stato di malattia, avere ritardato la guarigione, avere svolto attività concorrenziale) costituiscono mancanze inerenti ad ogni rapporto di lavoro e non tipiche dell’attività svolta dal datore di lavoro;

lo stato invalidante è accertato dal giudice di primo grado e sul punto la sentenza è passata in giudicato; il F. è stato visto mentre, perdurante la malattia, guidava una motocicletta, si recava al mare e quindi si portava presso il Centro Futura per prestare ivi la propria attività;

viene addebitato all’attore di avere, con tali comportamenti, ritardato la guarigione, ma di ciò non vi è prova; la terapia in acqua era consigliata, non risulta che la guida della motocicletta sia incompatibile col processo di guarigione;

l’attività presso il Centro Futura era nota alla Clinic Center;

essendo il F. assunto a tempo parziale; egli avrebbe potuto richiedere autorizzazione al riguardo, ma nella specie tale autorizzazione non era necessaria in ragione della consapevolezza della Clinic Center, dell’ampia tolleranza al riguardo esercitata ed infine al fatto che, se del caso, doveva essere contestata la mancata richiesta dell’autorizzazione e non la prestazione in sè;

gli ulteriori danni non erano ricollegabili con nesso causale al licenziamento.

3. Ha proposto ricorso per Cassazione la Clinic Center spa, deducendo tre motivi. Resiste con controricorso F.F.M.. La ricorrente ha presentato memoria integrativa.

Motivi della decisione
4. Col primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2697, 2730 e 2909 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5: erroneamente la Corte di Appello ha ritenuto che si sia formato il giudicato interno sul punto inerente alla (insussistente) dimostrazione dello stato di malattia; infatti la parte convenuta, totalmente vittoriosa in primo grado, non aveva l’onere di proporre appello incidentale, ma poteva limitarsi a riproporre in appello la questione ritenuta assorbita. In ogni caso, l’attività ludica e non, espletata dall’attore durante la presunta malattia, doveva essere ritenuta idonea a dimostrare che il F. ben avrebbe potuto prestare il proprio lavoro anche presso la Clinic Center. Il fatto di avere guidato in più occasioni una moto di grossa cilindrata, di essersi recato al mare a prendere bagni; di avere guidato l’autovettura, di essersi recato presso il Centro Futura, doveva far ritenere sussistente, quanto meno, un’attività dell’attore in contrasto con gli obblighi di cura e riposo, in modo da non compromettere ulteriormente la guarigione.

5. Il motivo è fondato nei limiti di cui “infra”. Si premette che la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale, ma può limitarsi a riproporre una questione che il giudice di primo grado abbia ritenuto “assorbita”. Nella specie, il Tribunale ha respinto la tesi della simulazione dello stato di malattia, ma l’ha superata addebitando al lavoratore un comportamento comunque illegittimo. La questione non è stata specificamente riproposta in appello, tanto è vero che la ricorrente richiamava genericamente tutte le deduzioni svolte in primo grado. Devesi pertanto ritenere che lo stato di malattia sia coperto da giudicato.

6. La Corte di Appello ha però ritenuto che i vari comportamenti ascritti al F. non fossero in contrasto coi doveri del dipendente durante il periodo di malattia. Ha perciò ritenuto che il fatto di avere guidato una motocicletta, nonostante la coxo-artrosi dell’anca, di avere preso bagni di mare e di avere comunque prestato una (limitata) attività presso il Centro Futura non fossero idonei a compromettere l’interesse del datore di lavoro ad una pronta guarigione del lavoratore. Quanto affermato dalla Corte di Appello appare in contrasto coi principi più volte affermati da questa Corte di Cassazione in ordine ai doveri del lavoratore durante la malattia.

Si veda al riguardo Cass. 7.6.1995 n. 6399: “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore”. 7. Si veda ancora Cass. 1.7.2005 n. 14046: “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva riconosciuto legittimo il licenziamento di un dipendente che era stato sorpreso a lavorare con mansioni di carico e scarico merci e servizio ai tavoli nel circolo ricreativo gestito dalla moglie durante un periodo di assenza dal servizio per distorsione al ginocchio)”. 7. Applicando i suddetti principi alla fattispecie in esame si ha che l’espletamento di altra attività lavorativa ed extralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell’adempimento dell’obbligazione, posto che il fatto di guidare una moto di grossa cilindrata, di recarsi in spiaggia e di prestare una seconda attività lavorativa sono di per sè indici di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltreché dimostrativi del fatto che lo stato di malattia non è assoluto e non impedisce comunque l’espletamento di una attività ludica o lavorativa.

8. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 1362 c.c. e segg., art. 2105 c.c., in relazione agli artt. 14 e 30 del CCNL di settore; della L.R. n. 377 del 1998 e vizio di motivazione: la Corte di Appello ha errato ritenendo che l’attività presso altro centro clinico fosse consentita, sulla base di una infondata interpretazione della norma contrattuale. La norma del CCNL, se intesa nel senso di autorizzare comunque un’attività in favore di terzi, è nulla per contrasto con l’art. 2105 cit.; in ogni caso il F. doveva chiedere l’autorizzazione.

9. Il motivo è infondato. L’argomentazione secondo la quale la norma contrattuale sarebbe nulla per contrasto con norma imperativa è nuova ed inammissibile. In ogni caso, trattandosi di rapporto di lavoro “part time”, la prestazione di ulteriore attività “part time” presso altro centro medico non può essere ritenuta vietata “tout court”. Ma diversa è la “ratio decidendi” della Corte di Appello:

muovendo dall’art. 30 del CCNL, essa ha ritenuto che non sussiste divieto di prestare la propria opera presso terzi in caso di lavoratori a tempo definito, essendo in tal caso sufficiente una richiesta di autorizzazione. Nella specie, come accerta la Corte di Appello, la Clinic Center era da tempo a conoscenza dell’ulteriore attività del F. – per circa dieci ore settimanali – e nulla aveva rilevato al proposito; circostanza questa tale da integrare gli estremi della tolleranza, ovvero da indurre a diversa e più tenue valutazione dell’infrazione nel giudizio di proporzionalità tra mancanza e sanzione. Il motivo si risolve quindi in una censura in fatto, inammissibile nel giudizio di legittimità, avendo la Corte di Appello giustificato il proprio convincimento sul punto con motivazione esauriente, immune da vizi logici o contraddizioni, talchè essa si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità 10. Col terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 300 del 1970, art. 18, e vizio di motivazione, per avere la Corte di Appello condannato essa Clinic Center al versamento delle retribuzioni globali di fatto, senza tenere conto dell’”aliunde perceptum” in ragione del rapporto di lavoro presso il Centro Futura.

11. Il motivo è manifestamente infondato e va rigettato. Trattasi infatti di rapporto di lavoro “part time”, onde quanto percepito in conseguenza di una diversa attività lavorativa per un orario di lavoro ulteriore non costituisce “aliunde perceptum” rispetto all’orario praticato presso la Clinic Center. La ricorrente avrebbe dovuto allegare e dimostrare la sussistenza di una diversa fonte di guadagno, sostitutiva della retribuzione dovuta dalla convenuta.

12. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata limitatamente al primo motivo del ricorso, che viene accolto, ed il processo va rinviato alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione, anche per le statuizioni circa le spese. Il principio di diritto è quello indicato al par. n. 7 che precede.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il primo motivo del ricorso, rigetta il secondo e il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 24 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2009


Entrata in Vigore del TESTO UNICO DELLA SICUREZZA

15 Maggio 2008 entra in vigore il testo di legge ad esclusione della predisposizione del documento di valutazione dei rischi.

29 Luglio 2008 entrano in vigore le disposizioni di cui agli articoli 17, comma 1, lettera a), e 28, (Valutazione dei Rischi, relativo ed aggiornamento, POS) nonché le altre disposizioni in tema di valutazione dei rischi che ad esse rinviano, ivi comprese le relative disposizioni sanzionatorie, previste dal D. Lgs. 81/08, fino a tale data continuano a trovare applicazione le disposizioni previdenti.

Le disposizioni di cui al titolo VIII, capo IV entrano in vigore alla data fissata dal primo comma dell’articolo 13, paragrafo 1, della direttiva 2004/40/CE.

Le disposizioni di cui al capo V del medesimo titolo VIII, entrano in vigore il 26 aprile 2010.

– D. Lgs. 81/08 del 09/04/2008 –


Il Resp. dell’Ufficio non può maltrattare il dipendente polemico

Rischia di essere condannato il capoufficio che risponde stizzito e mette in discussione le capacità lavorative di un dipendente che è solito polemizzare su tutto.
La Corte di Cassazione con la Sentenza n. 15752 del 15 aprile 2009, ha accolto il ricorso promosso da un dipendente nei confronti del Responsabile dell’ufficio, il quale aveva risposto con una missiva, contenente espressioni ingiuriose, ad alcune osservazioni, di carattere polemico, formulate dallo stesso dipendente.

Il ricorso è stato promosso dal dipendente contro la sentenza di appello, la quale, in riforma di quella di condanna pronunciata dal tribunale di Trani, assolveva con la formula “il fatto non costituisce reato” capo del Servizio igiene alimenti e nutrizione del comune di Barletta dall’addebito di diffamazione in danno di un dipendente.
Il reato era stato contestato al suddetto capo, per avere inviato al dipendente, dirigente medico del servizio e ad altri soggetti, una nota nella quale, con riferimento a una precedente richiesta di chiarimenti avanzata dallo stesso dirigente relativamente a vere o presunte inosservanze addebitate al medesimo quanto a procedure amministrative nell’ambito dell’attività d’istituto, si affermava, tra l’altro, che “l’insistenza con cui la S.V. chiede precisazioni e linee operative su argomenti che sono già stato oggetto di comunicazioni da parte degli scriventi e che non appaiono poi così difficili a capirsi, lascia spazio a valutazioni poco lusinghiere sulla Sua idoneità a ricoprire il ruolo affidatole. Così come non appare per nulla consono, tanto al Suo ruolo quanto a quello dei destinatari della Sua nota, il tono perentorio e ultimativo colì utilizzato”. Il ricorrente ha lamentato che il giudice del merito.
Avrebbe indebitamente acquisito, per attribuirgli altrettanto indebita rilevanza ai fini del decidere, un documento costituito da una protesta scritta inviata da una organizzazione sindacale al direttore generale della ASL per i comportamenti del ricorrente stesso. Inoltre, sempre ad avviso del ricorrente, il giudice del merito avrebbe ritenuto giustificate le espressioni contenute nella nota citata sopra sulla sola base della ritenuta addebitabilità al ricorrente dei rapporti conflittuali che si erano creati tra lui e il capo ufficio. Infine il ricorrente ha censurato la sentenza laddove la stessa si sarebbe fondata sull’indebito e apodittico rilievo, secondo il quale la situazione sarebbe nata dal carattere dello stesso ricorrente, presentato quale persona sofferente di vittimismo, portata alla polemica e incapace di instaurare rapporti di ufficio sereni e fattivi.
La Corte ha ritenuto il ricorso meritevole di accoglimento, in quanto, ciò che deve ritenersi censurabile è l’avvenuto riconoscimento, a fronte della non negata offensività delle espressioni contenute nella lettera incriminata, della valenza sostanzialmente scriminante che avrebbe assunto il pregresso comportamento del ricorrente, culminato nell’asseritamente pretestuosa richiesta di chiarimenti alla quale, con la missiva di cui sopra, era stata data risposta, senza che, peraltro, risulti neppure ben chiarito il ragionamento giuridico in base al quale si sarebbe pervenuti a tale conclusione, facendosi riferimento, nella parte conclusiva della sentenza impugnata, prima alla pretesa assenza di una “precisa volontà offensiva” e poi a un “pregresso comportamento provocatorio” della persona offesa.
Ad avviso della Corte, tali riferimenti, con riguardo ai quali va osservato, relativamente alla volontà offensiva, che non risulta in alcun modo specificato per quale ragione la stessa non potesse desumersi, contrariamente all’evidenza, dal tenore letterale delle espressioni adoperate, delle quali peraltro si riconosce, nella stessa sentenza impugnata, il carattere “poco opportuno”, relativamente al “pregresso comportamento provocatorio”.
In tale contesto la Corte ha ribadito che il giudice del merito non avrebbe tenuto nel dovuto conto la contiguità cronologica tra il “fatto ingiusto” e lo “stato d’ira” conseguente allo stesso il che appare tanto più grave in quanto, tra l’invio della nota e la risposta sarebbero passati ben nove giorni. In altri termini se la risposta fosse stata inviata subito dopo la missiva, si poteva invocare la discriminante dello stato d’ira.


Cass. civ. Sez. Unite, Ord., (ud. 17-03-2009) 16-04-2009, n. 9004

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. GEMELLI Torquato – Presidente Aggiunto

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente Aggiunto

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. FIORETTI Francesco M. – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

FALLIMENTO MG MONTAGGI GENERALI, in persona del Curatore pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLLINA 36, presso lo studio dell’avvocato JACONO GAETANO, rappresentato e difeso dall’avvocato MOSCATO ANGELO, per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COZZOLINO NICOLA e COZZOLINO REMIGIO S.N.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 151/2005 del TRIBUNALE di GELA, depositata il 03/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/03/2009 dal Consigliere Dott. ANGELO SPIRITO;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio MARTONE, il quale chiede che le Sezioni unite della Corte, in camera di consiglio, enuncino il principio secondo cui in caso di ricorso ordinario in cassazione – o di istanza di regolamento di competenza – l’obbligo, previsto a pena di improcedibilità dell’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, del deposito da parte del ricorrente della copia autentica della decisione impugnata con la relazione di notifica se questa è avvenuta – o del biglietto di cancelleria di comunicazione del deposito nel caso del regolamento – può essere adempiuto soltanto con il deposito contestuale al ricorso o comunque entro il termine a tal fine previsto dal precedente comma 1; con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
Il Fallimento M.G. Montaggi generali s.r.l. ha ottenuto, nei confronti della s.n.c. Cozzolino Nicola e Remigio, decreto ingiuntivo per somma di danaro costituente corrispettivo parziale della costruzione di un’imbarcazione da pesca, al quale s’è opposta l’ingiunta, eccependo, tra l’altro, l’incompetenza territoriale del giudice adito. L’eccezione è stata accolta dal Tribunale di Gela.

Il Fallimento propone istanza di regolamento di competenza notificata il (OMISSIS). La società Cozzolino non si difende nel procedimento. il procuratore Generale ha chiesto, ex art. 375 c.p.c., che il regolamento di competenza sia dichiarato inammissibile, perchè proposto oltre trenta giorni dopo il deposito della sentenza, senza che risulti dimostrato che la comunicazione della sentenza impugnata sia avvenuta il 17 maggio 2005. La ricorrente ha depositato memoria e documenti.

La terza sezione civile della Corte, rilevato sul punto un contrasto di giurisprudenza, con ordinanza del 19 febbraio 2008 ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, rilevando che la ricorrente ha documentato che la comunicazione della sentenza di incompetenza ebbe luogo il 17 maggio 2005, data utile per la proposizione del ricorso; l’elenco dei documenti è stato depositato il 20 novembre 2007; la produzione è stata notificata a controparte, ex art. 372 c.p.c., in data 14 novembre 2007 (come risulta dalla relata depositata il 26 novembre 2007 presso la cancelleria della sezione); chi propone ricorso per regolamento di competenza ha l’onere di depositare, nella cancelleria della Corte di Cassazione, a pena di improcedibilità, il ricorso e i documenti nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto (onere desumibile dal combinato disposto degli artt. 47 e 369 c.p.c.); l’art. 369 c.p.c., n. 2, stabilisce che insieme col ricorso deve essere depositata la copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta; in forza dell’art. 372 c.p.c., comma 2, il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, ma deve essere notificato, mediante elenco, alle altre parti.

Ciò premesso l’ordinanza di rimessione pone il problema se il ritardato deposito del biglietto di cancelleria attestante la data di ricevimento della comunicazione della sentenza di incompetenza possa aver luogo, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., unitamente alla memoria depositata dal ricorrente, previa notifica alla controparte della produzione effettuata. La causa è stata assegnata alle sezioni unite come questione di massima di particolare importanza.

Motivi della decisione
1. – LA QUESTIONE DI MASSIMA DI PARTICOLARE IMPORTANZA. 1 – Premessa.

La terza sezione civile ha reso tre ordinanze interlocutorie che affrontano il tema dell’improcedibilità del ricorso per cassazione stabilita dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2.

Più in particolare, due delle ordinanze interlocutorie (la n. 7950 del 27 marzo 2008 e la n. 9302 del 9 aprile 2008) riguardano il caso in cui il ricorrente dichiara nel ricorso che la sentenza impugnata gli è stata notificata in una certa data, ma si limita a depositare la copia autentica della sentenza senza la relazione di notificazione. Nè la copia della sentenza notificata è depositata (con apposito elenco notificato alla controparte) nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, fissato dall’art. 369 c.p.c., comma 1 per il deposito del ricorso stesso nella cancelleria della Corte. La terza ordinanza (n. 4229 del 19 febbraio 2008) pone, poi, lo stesso problema con riferimento al ricorso contenente l’istanza di regolamento di competenza ex art. 47 c.p.c., per il caso in cui la parte dichiara nel ricorso stesso che la sentenza le è stata comunicata in una certa data, ma omette di depositare, insieme con l’atto d’impugnazione (o, comunque, separatamente, ma nel suddetto termine di venti giorni), il biglietto di cancelleria dal quale risulti che effettivamente la comunicazione è avvenuta in quella data, non consentendo, così, alla Corte di delibare la tempestività del ricorso. In quest’ultimo caso, però, l’ordinanza pone il problema sotto il profilo del contrasto giurisprudenziale, rilevando che al maggioritario orientamento rigoristico si contrappongono sporadici precedenti che hanno ammesso degli equipollenti (sananti) rispetto al deposito della copia autentica della sentenza notificata, quale il reperimento della stessa nel fascicolo d’ufficio o della controparte, oppure la formazione del contraddittorio sul punto. Conviene subito dire che la problematica va trattata congiuntamente (come, peraltro, congiuntamente la trattano le ordinanze di rimessione), sia che si tratti di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., sia che si tratti di ricorso per regolamento di competenza ex art. 47 c.p.c.. Il disegno codicistico, nella sua struttura fondamentale, appare identico per entrambe (come, peraltro, esplicitamente affermato nel progetto Grandi), nel senso che l’istanza di regolamento di competenza risulta modellata secondo la forma ed i modi del ricorso per cassazione, con la sola riduzione dei termini di proposizione da sessanta a trenta giorni, ma pur sempre con l’imposizione al ricorrente di depositare, nel termine di venti giorni dalla notificazione, “il ricorso con i documenti necessari”. Richiamo, quest’ultimo, che inevitabilmente realizza il collegamento con l’art. 369 c.p.c. ed, in particolare, con l’onere per il ricorrente di depositare (tra l’altro) il biglietto di cancelleria dal quale risulti la data di avvenuta comunicazione del provvedimento impugnato. Il discorso successivo sarà, dunque, articolato in modo comune per entrambi i modelli processuali trattati.

2. – Lo stato della giurisprudenza in ordine agli adempimenti di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2.

E’ indiscusso che la previsione dell’onere di deposito, a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c., della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione (ove questa sia avvenuta) è funzionale al riscontro, da parte della Corte di cassazione, della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione; il quale, intervenuta la notificazione della sentenza, può essere fatto valere soltanto con l’osservanza del termine breve, salvaguardandosi, perciò, anche la tutela dell’esigenza pubblicistica del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale. Tuttavia, fin dai primi impatti applicativi di tale norma si sono sviluppati essenzialmente tre filoni giurisprudenziali correlati all’interpretazione della norma ed all’individuazione dei possibili meccanismi di riparazione dell’omissione del deposito dei documenti di cui al suo comma 2:

1) secondo un risalente, rigoroso indirizzo, il mancato deposito (nel richiamato termine) della copia autentica della decisione impugnata (in uno alla corrispondente relata di notificazione) comportava, in ogni caso, l’improcedibilità del ricorso, la quale andava dichiarata d’ufficio, senza che all’omissione potesse ovviarsi con il successivo deposito di detta copia nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c. e senza che, ai fini dell’esclusione dell’improcedibilità, potesse attribuirsi rilievo al deposito di tale copia effettuato da parte del controricorrente o all’esistenza, agli atti, di copia non autentica della decisione stessa (cfr. Cass. 3 luglio 1971, n. 2076; Cass. 26 febbraio 1980, n. 1333; Cass. 11 settembre 1980, n. 5246; Cass. 20 dicembre 1982, n. 7023; Cass. 12 gennaio 1983, n. 209; v. , altresì, con specifico riferimento all’istanza di regolamento di competenza, Cass. 7 marzo 1968, n. 747; Cass. 6 aprile 1971, n. 997; Cass. 28 gennaio 1972, n. 216; Cass. 19 settembre 1972, n. 2764; Cass. 24 novembre 1972, n. 3448; Cass. 18 maggio 1973, n. 1439; Cass. 22 maggio 1973, n. 1504; Cass. 7 giugno 1974, n. 1704; Cass. 31 luglio 1977, n. 3262; Cass. 20 gennaio 1984, n. 499; Cass. 7 aprile 1987, n. 3372);

2) ad avviso di un altro più liberale orientamento era stato statuito che l’obbligo del deposito, da parte del ricorrente, di copia autentica della sentenza impugnata (con la relata di notifica) si sarebbe dovuto considerare soddisfatto o quando tale deposito fosse avvenuto contestualmente a quello del ricorso per cassazione, o quando, pur in difetto di tale contestualità, fosse comunque stato effettuato con le modalità fissate dall’art. 372 c.p.c., comma 2, c.p.c. (cfr. Cass. 8 gennaio 1980, n. 125; Cass. 11 maggio 1981, n. 3121; Cass. 18 gennaio 1982, n. 343; Cass. 23 giugno 1986, n. 4172;

Cass. 4 luglio 1986, n. 4388; Cass. 21 ottobre 1995, n. 10959);

3) secondo un ulteriore indirizzo, schieratosi in una posizione intermedia tra i primi due orientamenti indicati, si sarebbe dovuto ritenere che l’onere del deposito della copia autentica della decisione impugnata (in uno alla relazione di notificazione), sanzionato a pena di improcedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c., era validamente assolto anche se non intervenuto in modo contestuale rispetto al deposito del ricorso stesso, purchè avvenuto nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso mediante le modalità previste dal cit. art. 372 c.p.c., comma 2 (Cass. 11 dicembre 1986, n. 7380; Cass. 19 dicembre 1996, n. 11361).

A dirimere le oscillazioni diffusesi sulla precisata questione intervennero le Sezioni unite, con la sentenza n. 11932 del 25 novembre 1998, la quale stabilì che la disposizione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2 non impedisce che il deposito della copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione sia effettuato separatamente rispetto al deposito del ricorso (ex art. 372 c.p.c., che consente il deposito autonomo di documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso e che può applicarsi estensivamente anche ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso stesso), purchè nel termine perentorio di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso. La stessa disposizione non consente, però, secondo l’ultimo precedente in commento, di evitare la sanzione dell’improcedibilità mediante equipollenti, quali il deposito da parte del controricorrente di copia della sentenza stessa o l’esistenza della medesima nel fascicolo d’ufficio.

In particolare, la pronunzia delle sezioni unite spiegò che l’indirizzo che ammette quegli equipollenti al deposito non è condivisibile, perchè si pone in inconciliabile contrasto con il dettato dell’art. 369 c.p.c., il quale sancisce l’improcedibilità del ricorso, senza alcuna eccezione, nel caso in cui la copia autentica della sentenza impugnata non sia depositata. Degli altri due indirizzi il più rigoroso è stato ritenuto inaccettabile, giacchè l’obbligo di legge deve ritenersi soddisfatto, sia se il deposito avvenga col ricorso, sia se si verifichi successivamente, purchè nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso stesso alle parti contro le quali esso è proposto (art. 369 c.p.c., comma 1). Lo scopo che si prefigge la norma è, infatti, quello di consentire la verifica della tempestività dell’atto d’impugnazione e la fondatezza dei suoi motivi; la sanzione d’improcedibilità colpisce, perciò, l’inosservanza del termine perentorio e non anche la mancanza di contestualità del ricorso e della decisione impugnata. La norma dell’art. 372 c.p.c., la quale consente il deposito autonomo di documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso, deve ritenersi estensibile ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso, considerato che l’art. 375 c.p.c., che prevede la pronuncia d’inammissibilità del ricorso in camera di consiglio, include logicamente anche la declaratoria d’improcedibilità. La giurisprudenza sviluppatasi successivamente sul tema si è uniformata, in modo nettamente prevalente, all’indirizzo tracciato dalla menzionata pronuncia delle Sezioni unite (in tal senso si sono orientate, soprattutto, Cass. 28 ottobre 2000, n. 14240; Cass. 30 marzo 2004, n. 6350; Cass. 22 luglio 2004, n. 13679; Cass. 1 ottobre 2004, n. 19654; Cass. 1 marzo 2005, n. 4248; Cass. 10 marzo 2005, n. 5263; Cass. 4 agosto 2005, n. 16375;

Cass. 18 gennaio 2006, n. 888; Cass. 12 febbraio 2007, n. 3008 e Cass. 12 giugno 2007, n. 13705).

In particolare, nel ribadire il principio, Cass. n. 19654 del 2004 ha escluso la rilevanza dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente, ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata, o, ancora, della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione.

Lo stesso quanto a Cass. n. 888 del 2006, la quale spiega che non è ammesso il recupero di una condizione di procedibilità mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso, la cui ammissibilità condurrebbe a far dipendere la procedibilità del ricorso dal tempo in cui lo stesso è deciso, introducendo nel sistema elementi di alea ed imprevedibilità che sarebbero gravemente pregiudizievoli del principio della certezza del diritto, finendo con il far dipendere il giudizio sull’osservanza delle forme e dei termini, e l’esito stesso del giudizio, da circostanze casuali ed imponderabili. Il termine dell’art. 369 c.p.c., in quanto perentorio, è inoltre improrogabile, e governato dalla regola generale di cui all’art. 153 c.p.c., con la conseguenza che la sanzione dell’improcedibilità non può essere evitata invocando il caso di forza maggiore o fatti imprevedibili non imputabili al ricorrente, essendo la decadenza impedita esclusivamente dall’esercizio del diritto. La conformità della norma in questione ai principi fondamentali dettati dalla Costituzione in relazione alla salvaguardia del diritto di difesa è stata recentemente riaffermata con l’ordinanza n. 22108 del 16 ottobre 2006, in virtù della quale risulta, per l’appunto, ribadito che è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, nella parte in cui stabilisce che il ricorso per cassazione è improcedibile quando il ricorrente non abbia depositato copia autentica del provvedimento impugnato, sollevata in riferimento all’art. 24 Cost., comma 2, e art. 111 Cost., in quanto la norma mira a garantire, non irragionevolmente, le esigenze di certezza della conformità della copia del provvedimento all’originale, stabilendo un adempimento che non è particolarmente complesso, e non si pone in contrasto con le regole che devono improntare il giusto processo e neppure ostacola apprezzabilmente l’esercizio del diritto di difesa.

Pur in presenza di questo quadro giurisprudenziale, sostanzialmente omogeneo nell’aderire all’indirizzo espresso dalla Sezioni unite con la sentenza n. 11932 del 1998, non sono mancate, nel corso successivo dell’elaborazione giurisprudenziale, delle sporadiche pronunce – evidenziate anche nell’ordinanza di rimessione n. 4229 del 2008 – con le quali è stato ripreso l’orientamento in base al quale può ritenersi legittima la producibilità dei documenti previsti dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, anche oltre il termine previsto dal primo comma della stessa norma, con l’espletamento delle modalità stabilite dall’art. 372 c.p.c., comma 2.

In proposito, con riguardo, ad esempio, all’istanza per regolamento di competenza, l’ordinanza n. 18019 del 17 dicembre 2002 (terza sezione) ha affermato il principio in base al quale “ove il ricorrente non abbia, depositato la copia autentica della ordinanza impugnata con il regolamento di competenza, la relativa istanza non può essere dichiarata, per ciò solo, improcedibile allorchè il fascicolo d’ufficio, tempestivamente richiesto dalla parte al cancelliere dell’ufficio a quo ai sensi dell’art. 47 c.p.c., comma 3, e pervenuto nella cancelleria della Corte di cassazione, contenga l’originale dell’ordinanza impugnata”.

Successivamente, con la più recente sentenza (della sez. tributaria) n. 2452 del 5 febbraio 2007, è stato ritenuto, in riferimento al ricorso in sede di legittimità in generale, che “nel giudizio di cassazione, l’onere, imposto dall’art. 372 c.p.c., comma 2, di notificare alle altre parti l’elenco dei documenti relativi all’ammissibilità del ricorso, che siano stati prodotti successivamente al deposito dello stesso, è inteso a garantire il contraddittorio sulla produzione di parte, e deve pertanto ritenersi adempiuto qualora risulti che tale contraddittorio è stato comunque assicurato: è conseguentemente ammissibile la produzione all’udienza di discussione della documentazione comprovante l’avvenuta notifica della sentenza di secondo grado, e quindi la decorrenza del termine breve per l’impugnazione, qualora tale produzione sia avvenuta alla presenza del difensore della controparte, intervenuto alla medesima udienza”.

Nella relativa motivazione, con riguardo all’aspetto concernente la ritualità della sopravvenuta produzione della sentenza impugnata all’udienza di discussione, si osserva che l’art. 372 c.p.c. prevede che il deposito della documentazione relativa all’ammissibilità del ricorso possa avvenire indipendentemente dal deposito del ricorso e del controricorso e perciò anche successivamente ad essi. E’ vero che in tal caso la norma citata prevede che la documentazione così prodotta venga notificata mediante elenco alle controparti, ma trattasi evidentemente di previsione intesa a garantire il contraddittorio sulla produzione di parte e perciò da ritenersi osservata ogni volta che sul punto il contraddittorio risulti essere stato comunque garantito. Nella specie il contraddittorio risultava garantito, posto che la produzione era avvenuta in udienza, alla presenza del difensore di controparte, che nulla aveva eccepito in proposito.

Da ultimo, con sentenza n. 7027 del 14 marzo 2008, la Sezione lavoro, pronunciandosi in generale sulla questione in esame, ha operato una distinzione tra gli effetti della mancata produzione della sola sentenza impugnata e quelli conseguenti all’omessa tempestiva allegazione congiunta della relata di notificazione, stabilendo che la sanzione dell’improcedibilità del ricorso per cassazione prevista dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, trova applicazione soltanto in riferimento alla prescrizione principale concernente l’onere di produzione di copia autentica della sentenza impugnata e non già rispetto alla ulteriore prescrizione di dettaglio riguardante la produzione della copia con la relazione di notificazione. Secondo la sentenza in commento, ad escludere l’applicazione della sanzione di improcedibilità rispetto alla ipotesi da ultimo menzionata militano plurime ragioni di ordine sistematico e segnatamente: a) la sanzione non sarebbe comunque idonea a garantire il perseguimento dello scopo di consentire la verifica d’ufficio della mancata formazione della cosa giudicata, essendo a tal fine funzionale soltanto l’esplicazione del contraddittorio; b) essa verrebbe irrogata, di regola, proprio quando la verifica del rispetto del termine breve di impugnazione sarebbe consentita dalla produzione della sentenza con la relata di notificazione ad iniziativa del controricorrente; d) ove il ricorrente indichi soltanto, senza documentarla, la data di notificazione della sentenza, non sarebbe ragionevole attribuire rilievo a tale dichiarazione soltanto per la parte pregiudizievole al ricorrente medesimo; c) nel caso di notificazione a mezzo del servizio postale, la sanzione risulterebbe priva di giustificazione giacché, da un lato, la relazione di notificazione non evidenzia affatto la data di perfezionamento della medesima e, dall’altro, la parte destinataria dell’atto non è in possesso, in genere, di un’esauriente ed inequivoca prova documentale di tale data, la cui produzione non è comunque prevista da alcuna norma.

3. – Le ordinanze interlocutorie della terza sezione civile. Tornando alle ordinanze interlocutorie della terza sezione civile, esse si fanno carico di riassumere il percorso giurisprudenziale seguito in quest’ultimo decennio dalla materia in trattazione, evidenziano contrasti o mere distonie emerse nel dibattito, per proporre (soprattutto le due riguardanti il ricorso per cassazione in generale) uno sforzo evolutivo che, in estrema sintesi, dia della improcedibilità una lettura che non faccia del dettato dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, un’altra forma d’inammissibilità e la consideri, invece, una prescrizione ordinata a consentire la prova dell’inammissibilità, sì da trovare integrazione nella norma dell’art. 372 c.p.c., alla stessa stregua di quanto è stato di recente affermato dalle Sezioni unite in ordine alla prova del completamento del procedimento di notificazione (Cass. sez. un. 14 gennaio 2008, n. 627).

Più in particolare, le ordinanze osservano che la funzione della norma è quella di consentire alla Corte, nel momento in cui si tratta di decidere sul ricorso, di stabilire se il ricorrente abbia rispettato, oltre al termine di decadenza di cui all’art. 327 c.p.c., anche il termine di cui all’art. 325 c.p.c., che decorre dalla data in cui la sentenza è notificata e se dunque il ricorso, quando è stato proposto, poteva esserlo o la sentenza era già passata in giudicato. La disposizione detterebbe cioè una norma sul procedimento, che ha una natura strumentale, quella di consentire di verificare se il dovere della Corte di pronunciarsi sul fondo del ricorso è stato reso operante, perché è stata osservata una della serie delle altre norme che dettano le condizioni di ammissibilità originaria del ricorso, in particolare quella sui termini della impugnazione (tant’è che la sanzione che la norma descrive come “improcedibilità” non va applicata, nonostante la avvenuta notificazione della sentenza e la mancata produzione della copia notificata, quante volte il ricorso è proposto nello spazio di sessanta giorni dalla data di pubblicazione della sentenza).

L’improcedibilità sanzionata dalla disposizione processuale in questione potrebbe essere, dunque, intesa – secondo le ordinanze in commento – in due modi: a) la si potrebbe dire una variante verbale dell’inammissibilità (ossia, il legislatore avrebbe inteso imporre la stessa sanzione per la mancata osservanza sia delle condizioni di ammissibilità del ricorso, che vanno osservate nel momento in cui è esso è proposto, sia delle forme imposte a fini di prova di quelle condizioni e la diversa nomenclatura sarebbe in sostanza dovuta ad una preoccupazione di tipo descrittivo, perché il secondo ordine di regole riguarda non il momento in cui il ricorso è proposto, ma il momento in cui va depositato); b) le si potrebbe attribuire, invece, un diverso valore, quello per cui nel momento in cui si tratta di decidere sul fondo del ricorso, la Corte non può procedere oltre nel suo esame, se non sia posta in condizione di verificare se un ricorso, in ipotesi ammissibile, lo sia effettivamente.

L’inosservanza del termine entro il quale va data prova delle condizioni di ammissibilità del ricorso descritte nella norma (ed in particolare di quella che si considera) diverrebbe, allora, rilevante nella fase di decisione del ricorso e la funzione strumentale della norma (di consentire la verifica del rispetto di date condizioni di ammissibilità) permetterebbe di dare rilievo a modalità alternative di accertamento.

Aggiungono le ordinanze che, per come la disposizione è formulata, la norma non impone al ricorrente di dichiarare, nel ricorso, a pena di inammissibilità, se la sentenza gli è stata notificata, ma solo, ed a pena di improcedibilità, di depositare la sentenza con la relazione di notificazione, se questa sia avvenuta. Di qui il possibile verificarsi di una serie di situazioni definite paradossali: a) la parte non dice che la sentenza le è stata notificata, sebbene lo sia stata, e non la produce; l’altra parte non solleva questione circa l’ammissibilità, perché il termine per l’impugnazione è stato rispettato, nè pone la questione dell’improcedibilità per mancato deposito della copia della sentenza notificata;

il rilievo di ufficio dell’improcedibilità e l’applicazione della sanzione sarebbero in questo caso impedite dall’atteggiamento processuale della parte che ne potrebbe profittare; b) la parte non dice che la sentenza le è stata notificata e non la produce; l’altra parte, che lo allega, ha l’onere di dimostrare che la sentenza è stata notificata; la sentenza notificata è prodotta e ne risulta che il termine per l’impugnazione è stato rispettato: se risultasse il contrario il ricorso sarebbe da dichiarare inammissibile; se si attribuisce in questo caso rilievo al fatto in sè che il ricorrente non ha depositato la copia nel termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1, si perverrebbe al risultato paradossale che si deve considerare la Corte impedita dall’esame del fondo del ricorso, nel momento stesso in cui è messa in grado di riscontrare che è ammissibile; c) la parte, che non vi è tenuta, dichiara che la sentenza le è stata notificata in una certa data, perchè la sentenza le è stata notificata, e intende far constare che il termine per la impugnazione è stato rispettato; l’altra parte, perchè non è in condizioni di provare il contrario non lo contesta;

l’applicazione della sanzione di improcedibilità è resa qui possibile dal fatto che il ricorrente confessa che la sentenza gli è stata notificata e perciò dal fatto che è possibile alla Corte rilevare di ufficio che la prescrizione imposta dall’art. 369 c.p.c. non è stata osservata; singolare situazione processuale, in cui le parti concordano sul fatto che la sentenza è stata notificata in data rispetto alla quale il successivo ricorso è tempestivo, che riceve un trattamento diverso da quello in cui lo stesso consenso si forma sul fatto che non sia stata notificata o il ricorso sia tempestivo rispetto alla data in cui lo è stata e le parti sono talmente d’accordo sul punto che ne tacciono. Come sarebbe paradossale che (in modo non diverso da quanto accade nel caso b) la Corte debba risultare impedita dall’esaminare il fondo del ricorso nel momento stesso in cui la parte dimostra la ammissibilità del ricorso, producendo la copia notificata, in risposta al preannunzio della sanzione di improcedibilità, che avrà dovuto esserle fatto con la relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c., applicabile al caso della dichiarazione di improcedibilità, non diversamente che al caso della, dichiarazione di inammissibilità (ambedue da comprendersi nella previsione di cui all’art. 375 c.p.c., n. 2, nel testo riformulato, come prima in base all’art. 138 disp. att.).

4. – La dottrina.

In dottrina, a fronte di autori che esaltano il carattere perentorio del termine fissato dall’art. 369 c.p.c. e la conseguente impossibilità di convalidare ogni atto intervenuto dopo la sua scadenza ed altri che escludono qualsiasi interferenza tra gli artt. 372 e 369 c.p.c. (così da negare pure la possibilità del deposito della sentenza impugnata separatamente dal ricorso e nel termine dell’art. 369 c.p.c., comma 1), altri, più recentemente, hanno aderito ad una ricostruzione meno rigida, individuando degli spazi di operatività di una possibile sanatoria dell’omissione riconducibile al mancato deposito tempestivo della copia autentica della decisione impugnata corredata della relata di notificazione, per come prescritto dal cit. art. 369 c.p.c.. E’ proprio questa dottrina che, nel fornire supporto alle ordinanze interlocutorie in commento, sostiene l’applicabilità alla specifica disciplina del ricorso per cassazione del generalissimo principio di strumentalità delle forme, con tutti i suoi corollari, ivi inclusa la generale sanabilità delle inosservanze di forme per raggiungimento dello scopo (consentire la verifica della tempestività del ricorso e la fondatezza dei suoi motivi). Ecco, dunque, che non sarebbe possibile individuare alcuna ragione sostanziale, riconducibile alle funzioni della Corte (o del p.m.), che imponga di anticipare tassativamente al momento del deposito del ricorso, o comunque nel termine per il deposito del ricorso stesso, la copia autentica della sentenza impugnata (con la relata di notifica, se avvenuta); per l’altro, che se tale copia autentica è stata depositata dal controricorrente o è inserita nel fascicolo d’ufficio, la Corte sarebbe perfettamente in grado, al momento della decisione (e il pubblico ministero al momento in cui deve esprimere le proprie conclusioni), di valutare la tempestività dell’impugnazione e la fondatezza dei motivi di ricorso, proprio come avrebbe fatto in ipotesi di deposito tempestivo da parte del ricorrente. Insomma, il deposito da parte del controricorrente e/o la presenza della sentenza nel fascicolo d’ufficio opererebbero come causa di sanatoria dell’improcedibilità per raggiungimento dello scopo dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, relativamente alle funzioni della Corte e del pubblico ministero.

5. – La soluzione della questione.

Dalla disamina che s’è svolta in precedenza appare evidente che intorno alla questione dibattuta si scontrano due grandi linee di pensiero: una che riconosce nel processo e nelle sue forme una funzione eminentemente pubblicistica, tesa a dettare regole che ne consentano l’ordinato svolgimento e che, come tali, non ammettono equipollenti e non sono disponibili dalle parti; un’altra, sostanzialistica, che guarda allo scopo della regola, alla strumentalità delle forme e, dunque, alla possibilità di sanarne gli effetti sanzionatori nel caso in cui quello scopo sia stato comunque raggiunto, oppure la relativa violazione non risulti contestata dalla parte che ne abbia interesse.

Non v’è dubbio che l’improcedibilità è una sanzione, certamente grave, stabilita dalla legge processuale nel caso in cui il contendente non assolva ad un onere che gli è imposto perché il processo prosegua. La parte è investita del potere di far procedere la propria azione, purché lo faccia secondo determinate modalità ed in determinati termini. Scaduti questi, il potere cessa e scatta la sanzione. Sul punto è imprescindibile il collegamento con l’art. 387 c.p.c., il quale sancisce che il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto “anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge”. Neppure v’è dubbio che la lettera della disposizione normativa della quale s’è finora discusso non offre spazi interpretativi. L’art. 369 c.p.c. sanziona con l’improcedibilità il tardivo deposito del ricorso, così come sanziona “sempre a pena d’improcedibilità” (la frase è significativa della continuazione di un unico discorso) il mancato deposito di una serie di atti, tra i quali il decreto di concessione del gratuito patrocinio, la copia autentica del provvedimento impugnato con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta, la procura, se questa è conferita con atto separato rispetto al ricorso, gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda. Con un deciso stacco, non è, invece, richiesto a pena di improcedibilità il deposito dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio alla cancelleria della Corte.

Il discorso sull’improcedibilità del ricorso per cassazione non può dunque prescindere dall’intero contesto in cui essa è sancita, dovendo riguardare tutte le ipotesi previste dalla disposizione normativa e non solo quella del n. 2, comma 2. Una prima riflessione proviene dalla risposta che fornì la Corte costituzionale (sent. n. 471 del 1992) quando questa stessa S.C. le rimise il giudizio di costituzionalità dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 3 dubitando della ragionevolezza della prescrizione di un termine perentorio per il deposito della procura speciale e stimando la correlata sanzione d’improcedibilità sproporzionata rispetto ad un onere che, sebbene legato da un rapporto di necessaria funzionalità rispetto al processo, costituiva pur sempre una formalità non finalizzata al perseguimento di un interesse connesso con la tutela di valori essenziali o comunque equivalenti a quello sacrificato. In quell’occasione il giudice delle leggi dichiarò inammissibile la questione di costituzionalità, sul rilievo che il giudice remittente, chiedendo di superare la perentorietà del termine previsto dall’art. 369 c.p.c., finiva in sostanza per domandare una pronunzia di tipo additivo, comportante la possibilità di applicare sanatorie al mancato o tardivo deposito della procura speciale, così introducendo nel processo innovazioni di carattere politico che solo al legislatore è consentito apportare.

Ed, infatti, il legislatore, ove riconosca la sussistenza in concreto di uno specifico interesse pubblico che ne giustifichi l’adozione, può legittimamente imporre all’esercizio di facoltà e di poteri processuali limitazioni temporali immutabili ed irreversibili, per il fatto che i termini perentori, cui sono connaturati i caratteri dell’improrogabilità e dell’insanabilità, tendono a garantire, oltre alla fondamentale esigenza di giustizia relativa alla celerità o alla speditezza dei processi, un’effettiva parità dei diritti delle parti in causa mediante il contemperamento dell’esercizio dei rispettivi diritti di difesa. Tendono a garantire, soprattutto, la certezza del giudicato.

Sembra al collegio che medesimo discorso debba farsi riguardo all’ipotesi dell’art. 369 c.p., comma 2, n. 2 (della cui legittimità costituzionale, come s’è già visto in precedenza, questa Corte non ha in passato dubitato).

Un discorso che, per altro verso, non può prescindere dalla specialissima caratteristica del giudizio di cassazione, dal suo rilievo costituzionale, dalla sua assoluta differenza rispetto ai giudizi di merito, dalla speciale procura della quale deve essere munito il difensore, dagli speciali motivi di impugnazione nei quali deve articolarsi il ricorso introduttivo, dalle speciali pronunzie attraverso cui la Corte si esprime. Non può omettersi di considerare che il fine del giudizio di cassazione è la nomofilachia (come esplicitamente rimarcato dalle recenti riforme legislative), che il caso concreto sottoposto al giudizio di legittimità non è altro che un’occasione perché la Corte enunci il principio di diritto ed eserciti così il suo potere regolatore. Come pure non deve essere trascurato il carattere altamente tecnico del dibattito instaurato con il ricorso, tant’è che il recente legislatore ha introdotto l’onere per il ricorrente di formulare quesiti di diritto a pena d’inammissibilità.

In quest’ottica, appare affatto ragionevole che il legislatore abbia imposto delle regole rigide a chi intende innescare un siffatto tipo di processo, che – si badi – dopo la fase introduttiva, retta dalle poche regole sulla procedibilità, si svolge tutto in maniera officiosa.

Tra queste regole v’è, appunto, quella che assegna al ricorrente l’onere di depositare in termine la sentenza impugnata con la relazione di notificazione, se questa v’è stata. Non è in discussione che la disposizione abbia lo scopo di consentire alla Corte di verificare la tempestività del ricorso e, dunque, un requisito d’ammissibilità. Sicuramente, se il ricorso o l’istanza di regolamento di competenza fossero proposti nel termine rispettivo di sessanta o di trenta giorni dal deposito del provvedimento impugnato neppure si porrebbe il problema del deposito del provvedimento stesso notificato o del biglietto di cancelleria da cui evincersi la relativa comunicazione. Così come neppure si pone il problema nel caso in cui il ricorrente non dichiari affatto che la sentenza gli è stata notificata e non la produca (in tal modo intendendo avvalersi del termine lungo per impugnare) e la controparte nulla eccepisca in merito.

Tuttavia, la circostanza che lo scopo della disposizione possa essere raggiunto anche in altri modi (attraverso gli equipollenti dei quali s’è ampiamente detto in precedenza) o che esso possa essere soddisfatto dalla mancata contestazione della controparte non può portare all’estrema conseguenza di disattivare la precisa ed in equivoca regola del rito.

Non c’è regola che non abbia un suo scopo e se non l’avesse sarebbe incostituzionale in quanto irragionevole, discriminatoria, impeditiva del giusto processo e della giustizia sostanziale. Qui il problema non è lo scopo (indiscusso), il problema sono i tempi. Ossia, v’è da chiedersi perché il legislatore abbia ristretto nei venti giorni un onere di deposito di atti che servono per verificare l’ammissibilità del ricorso; ammissibilità che potrebbe essere verificata anche dopo quel termine, prima della discussione, all’esito della discussione, al momento della decisione.

La risposta la si è già data in precedenza: perché quello di cassazione è un giudizio diverso e speciale rispetto a quello di primo e secondo grado, denotato da celerità, da semplicità, da quasi totale officiosità.

D’altronde, una volta scardinata la regola dell’improcedibilità, bisognerebbe ipotizzare l’uso senza tempo dello strumento dell’art. 372 c.p.c., oppure rimettere il gioco nelle mani del contraddittore.

Ma non solo, si potrebbe giungere ad estendere il dettato dell’art. 182 c.p.c. ed immaginare che il deposito degli atti possa essere effettuato dietro invito del giudice anche dopo l’inizio della discussione, se non addirittura al termine dell’udienza, attraverso l’emissione di un’ordinanza interlocutoria che rimetta la parte in termine per il deposito.

Tutto questo, l’estensione di forme di sanatoria all’art. 369 c.p.c. rimesse all’autonomia delle parti o all’intervento collaborativo del giudice, è immaginabile ed è possibile. Si possono eliminare tutte le cause d’improcedibilità o distinguere tra quelle sanzionate con termine perentorio e quelle sanabili, si può pensare al provvedimento di sanatoria in camera di consiglio o in udienza, si può fissare un termine finale per l’esercizio del potere giudiziale di regolarizzazione. Però, tutto questo può farlo solo il legislatore, perché – come ebbe a dire la già citata sentenza costituzionale – significa modificare l’attuale ruolo del giudice di legittimità ed, inoltre, scegliere discrezionalmente tra un’estrema molteplicità di modalità d’attuazione.

Se ci si pone in quest’ottica, appare chiaro che l’improcedibilità non è una “variante verbale dell’inammissibilità” (come ipotizzano due delle ordinanze interlocutorie in commento), non è una sorta di tagliola tesa dal legislatore al ricorrente, ma è la sanzione per la mancata osservanza di una regola imposta ai fini della prova delle condizioni di ammissibilità. Prova che il legislatore vuole che sia sin dall’inizio fornita dal ricorrente, in maniera da porre subito la Corte nella possibilità di delibare, anche mediante l’apposito procedimento camerale predisposto, l’ammissibilità del ricorso.

Se ci si pone in quest’ottica, i risultati ai quali si può pervenire attraverso l’applicazione del dettato normativo non sono affatto paradossali (ossia delle conclusioni che, per la contrarietà con le previsioni, appaiono sorprendenti ed incredibili) ma l’ovvia conseguenza sanzionatoria di un comportamento contrario ad una regola d’accesso (peraltro neppure estremamente gravosa) che il legislatore ha ritenuto appropriata al tipo di processo. E che il processo per cassazione richieda dei meccanismi selettivi d’accesso che ne favoriscano il rapido esito è una preoccupazione che tuttora affligge il legislatore, il quale di recente è intervenuto (ed in questi giorni si sta nuovamente adoperando) per introdurre nuovi sistemi filtranti. Neppure questa lettura della norma potrebbe dirsi contraria ai principi del giusto processo, costituzionalizzati dall’art. ili Cost. (come adombra una delle ordinanze di rimessione), posto che il giusto processo è quello “regolato dalla legge” e che, se per un verso deve tendere il più possibile al conseguimento di una giustizia sostanziale, per altro verso deve svolgersi in termini ragionevoli, per rispettare i quali è indispensabile porre preclusioni ed oneri a carico delle parti. Il principio di ragionevole durata del processo è stato definito “asse portante” (Cass. sez. un. n. 24883 del 2008, sulla nuova lettura dell’art. 37 c.p.c.) nella lettura delle norme processuali, che, per quanto rivolto al legislatore, ben può fungere da parametro interpretativo e costituzionale rispetto a quelle disposizioni del rito le quali – rispetto al fine primario del processo che consiste nella realizzazione del “diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita, oggetto della loro contesa” (v. Corte Cost. n. 77 del 2007 cit.) – prevedano rallentamenti o tempi lunghi, inutili passaggi di atti da un organo all’altro, formalità superflue non giustificate da garanzie difensive, nè da esigenze repressive o di altro genere. E non v’è dubbio che procrastinare fino al momento della discussione (o anche dopo) la produzione di atti utili all’indagine sull’ammissibilità, che la parte, invece, avrebbe potuto sin dall’inizio mettere a disposizione del giudice, senza sforzi particolarmente gravosi, comporta un inutile e dannoso rallentamento della procedura, senza per nulla, dall’altro verso, comprimere garanzie difensive o impedire il conseguimento di una risposta in ordine alla contesa.

Allora, ammettere equipollenti al tempestivo deposito contraddirebbe la previsione dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, quale adempimento che deve essere eseguito entro il termine per il deposito del ricorso, in funzione dell’ordinato e celere svolgimento del giudizio di cassazione ed, inoltre, metterebbe la sorte del giudizio di cassazione nelle mani del controricorrente, dalla cui decisione di produzione della suddetta copia con la relata dipenderebbe la procedibilità. Nè, in riferimento ai suddetti equipollenti, potrebbe giustificarsi l’esclusione della sanzione di improcedibilità sulla base del principio del raggiungimento dello scopo della previsione dell’indicata produzione, cioè considerandosi che diviene possibile la valutazione della tempestività dell’impugnazione. A tale applicazione di uno dei principi regolatori della disciplina generale delle nullità formali osta, infatti, la circostanza che l’adempimento dell’onere del deposito della copia con la relata di notifica è assoggettato, come si è detto, al termine di deposito del ricorso e, pertanto, lo scopo della previsione di tale onere (da identificarsi nella messa a disposizione della Corte di cassazione della copia della sentenza con la relata entro quel termine) non potrebbe apparire raggiunto per effetto del deposito avvenuto con il controricorso dell’intimato della copia con detta relata o della sua presenza nel fascicolo d’ufficio, collocandosi detti eventi dopo la scadenza di quel termine.

Un’ultima annotazione riguarda l’invito, fatto da due delle ordinanze di rimessione in commento, ad applicare alla fattispecie in trattazione gli stessi principi affermati dalla recente Cass. sez. un. 14 gennaio 2008, n. 627, in tema di produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario da notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c. La sentenza ha ritenuto che questa produzione è richiesta dalla legge esclusivamente in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio e ne ha fatto derivare che l’avviso non allegato al ricorso e non depositato successivamente può essere prodotto fino all’udienza di discussione di cui all’art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione prevista dal primo comma della citata disposizione, ovvero fino all’adunanza della Corte in camera di consiglio di cui all’art. 380 bis c.p.c., anche se non notificato mediante elenco alle altre parti ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2.

Il collegio ritiene che il richiamo a questa diversa vicenda non sia conferente. Infatti, in caso di notifica a mezzo posta, il deposito dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato rappresenta l’unica prova dell’effettivo compimento del procedimento notificatorio del ricorso e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio.

Come tale serve a dimostrare l’ammissibilità del ricorso e l’art. 372 c.p.c. stabilisce che “il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso”, laddove, invece, l’art. 369 c.p.c. assegna al ricorrente (a pena d’improcedibilità) l’onere di depositare (tra l’altro) la copia della sentenza notificata “insieme col ricorso”. Ecco perchè, nel primo caso, le sezioni unite hanno ritenuto che la produzione possa avvenire fino all’udienza di discussione e che l’omessa notifica dell’elenco di cui all’art. 372 c.p.c., comma 2, integri una violazione di carattere meramente formale, cui non consegue la inutilizzabilità del documento.

Si tratta, dunque, di due vicende affatto differenti che non possono soggiacere allo stesso trattamento.

In conclusione e riepilogando quanto finora detto, le sezioni unite intendono confermare la decisione alla quale pervennero già con la sentenza n. 11932 del 1998, che offre la soluzione più equilibrata per regolare la vicenda; e, dunque, il riscontro dell’osservanza, da parte della Corte di cassazione, si atteggia, evidentemente, in maniera diversa, secondo che la parte ricorrente alleghi espressamente (enunciando la circostanza nel ricorso) oppure implicitamente (producendo copia autentica della sentenza impugnata, recante la relata di notificazione idonea ai fini del decorso del termine per l’impugnazione) che la sentenza, contro cui ricorre, sia stata notificata; oppure non formuli alcuna allegazione.

Nel primo caso, (fermo che non pone problemi l’allegazione implicita, atteso che essa soddisfa senz’altro il precetto legislativo), l’allegazione espressa del ricorrente determina a suo carico l’onere (in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, citato n. 2 ed in ottemperanza alla regola di giudizio sull’onere della prova, applicata alla dimostrazione dei presupposti e delle condizioni di regolarità del processo) di depositare la copia autentica della sentenza con la relata di notificazione, unitamente al ricorso (o anche – a norma dell’art. 372 c.p.c., comma 2, applicabile estensivamente ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso – separatamente, ma comunque entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c.). Ove tale produzione non avvenga, la sanzione della improcedibilità non è eludibile, non solo per effetto della mancata contestazione da parte dell’intimato che abbia resistito al ricorso, ma anche attraverso equipollenti, come il deposito di una copia con la relata di notifica da parte del controricorrente o come la circostanza che nel fascicolo d’ufficio trasmesso dal giudice a quo risulti inserita una copia con detta relata.

Nell’ipotesi di mancata allegazione da parte del ricorrente del fatto dell’avvenuta la notificazione della sentenza impugnata e di produzione soltanto della copia autentica della sentenza stessa, la Corte di cassazione deve, invece, ritenere che il ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il termine lungo ed il suo potere di riscontro della tempestività di detto esercizio si accentrerà su tale verifica.

Qualora, tuttavia, o per eccezione dell’unica o di alcuna delle parti controricorrenti (che rilevino che, invece, era avvenuta la notificazione e producano la copia della sentenza con la relata della stessa) o, anche in difetto di tale eccezione, sulla base dell’esame delle produzioni delle parti (cioè sia del ricorrente, sia di parti controricorrenti) o anche dello stesso fascicolo d’ufficio, la Corte riscontri che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno dell’esercizio del diritto di impugnazione rispetto al termine breve decorrente da quella notificazione, essa deve rilevare che la parte ricorrente non ha ottemperato all’onere di deposito della copia notificata della sentenza e dichiarare la improcedibilità del ricorso (rilievo che precede quello dell’eventuale inammissibilità dell’impugnazione, eccepita o meno che sia, per l’intempestività del ricorso in relazione al termine breve dalla notificazione decorso). Per questi ultimi concetti, cfr. soprattutto la già citata Cass. n. 19654 del 2004.

Tutte le ragioni sopra esposte possono essere opportunamente adeguate al ricorso per regolamento di competenza, per quanto già affermato in precedenza sub I.1.. Sicché, posto che l’art. 47 c.p.c., nel sancire che, nel termine perentorio di venti giorni dalla notificazione del ricorso, la parte che propone l’istanza di regolamento “deve depositare nella cancelleria il ricorso con i documenti necessari”, fa inequivoco riferimento all’art. 369 c.p.c., bisogna ritenere che, a pena d’improcedibilità, la stessa parte, al fine di consentire alla Corte di verificare la tempestività dell’impugnazione, debba depositare il biglietto di cancelleria insieme con il ricorso, oppure con le modalità indicate dall’art. 372 c.p.c., comma 2, ma pur sempre nel termine di venti giorni stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1.

In sintesi, possono essere enucleati i seguenti principi:

– Nell’ipotesi in cui il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, la Corte di cassazione deve ritenere che il ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il cd. termine lungo e procedere all’accertamento della sua osservanza. Tuttavia, qualora o per eccezione del controricorrente o per le emergenze del diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio emerga che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, la Corte, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno del rispetto del termine breve, deve rilevare che la parte ricorrente non ha ottemperato all’onere del deposito della copia notificata della sentenza impugnata entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e dichiarare improcedibile il ricorso, atteso che il riscontro della improcedibilità del ricorso per cassazione precede quello dell’eventuale sua inammissibilità;

– La previsione – di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al primo comma della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di Cassazione – a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitatile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente od implicitamente, alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con la relata avvenuta nel rispetto dell’art. 372 c.p.c., comma 2 applicabile estensivamente, purchè entro il termine, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1, e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione.

In tema di ricorso per regolamento di competenza, l’obbligo del deposito, da parte del ricorrente, unitamente alla copia autentica della sentenza impugnata, del biglietto di cancelleria da cui desumere la tempestività della proposizione dell’istanza di regolamento (obbligo fissato, a pena di improcedibilità, dal combinato disposto dell’art. 47 c.p.c. e dell’art. 369 c.p.c., comma 2) può essere soddisfatto o mediante il deposito del predetto documento contestualmente a quello del ricorso per cassazione (come previsto, per l’appunto, dall’art. 369 c.p.c. citato, comma 2) oppure attraverso le modalità previste dall’art. 372 c.p.c., comma 2 (deposito e notifica mediante elenco alle altre parti), purché nel termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1.

Il ricorso per regolamento di competenza nella specie proposto deve essere, dunque, dichiarato improcedibile, siccome il biglietto di cancelleria non è stato depositato né insieme con il ricorso, né, separatamente, nel termine di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1.

La mancata difesa della parte intimata esime la Corte dal provvedere sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte dichiara improcedibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 17 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2009


Bilancio 2008

Atti relativi al Bilancio dell’Associazione dell’anno 2008 approvato dalla Giunta Esecutiva del 28.02.2009 e dall’Assemblea Generale del 10.04.2009

Vedi: Bilancio 2008


IL DRAMMA DEL TERREMOTO IN ABRUZZO

IL DRAMMA DEL TERREMOTO IN ABRUZZO
Tutti i Soci dell’Associazione, ed io con loro, vi siamo vicini, così il Presidente dell’Associazione Nazionale Notifiche Atti, Pietro Tacchini, si indirizza ai colleghi Messi Comunali dell’Abruzzo colpita dal terremoto. Alle persone terribilmente colpite nei loro cari, nelle loro case e nei loro luoghi di vita quotidiana dalla forza devastante del terremoto che si è abbattuto in Abruzzo desidero dire semplicemente: tutti i Soci, ed io con loro, vi siamo vicini nel vostro dolore, condividendo la vostra sofferenza.
Sono sicuro che lo Stato, eserciterà il massimo sforzo per
-conclude Tacchini – fronteggiare l’emergenza e darvi tutta la sicurezza per il futuro.


BUONA PASQUA!!!

 
Auguri di una Pasqua serena e piena di armonia. Che sia l’occasione per comprendere meglio noi stessi e chi ci circonda, e  di conseguenza  per condividere pacificamente con tutti la nostra quotidianità. Auguri a tutti Voi! 

Giro di vite contro i ritardi nella pubblica amministrazione

La Corte di Cassazione ha detto stop ai ritardi nella pubblica amministrazione e invita i dipendenti pubblici a rispondere subito ai cittadini. Lecita dunque la condanna di chi con il proprio silenzio o con risposte date in ritardo non evade le richieste dei cittadini.

La Corte, in particolare, ha convalidato una condanna per omissione di atti d’ufficio inflitta ad un ingegnere addetto ai servizi tecnici comunali che non aveva dato risposta a una formale richiesta di una cittadina. La donna che era stato oggetto di un provvedimento di espropriazione aveva chiesto al tecnico di prendere visione di un atto con cui la Regione aveva ceduto al Comune aree destinate alla realizzazione di un parcheggio. Nonostante la richiesta formale il tecnico non aveva mai dato una risposta esauriente e il caso finiva in Tribunale con conseguente condanna dell’Ingegnere per omissione di atti d’ufficio. La condanna è stata ora confermata dai giudici della Sesta Sezione Penale della Corte (sentenza 14466/2009) che hanno ritenuto sussistere la fattispecie prevista e punita dall’art. 328 c.p. ossia l’omissione di atti di ufficio. Rischia dunque una condanna penale il dipendente della Pubblica amministrazione che temporeggia davanti alle richieste di un cittadino oppure che resta in silenzio. Nelle motivazioni della sentenza la Corte di Cassazione spiega che ”Resta ingiustificato il silenzio omissivo del pubblico ufficiale perché, nell’economia del delitto di cui all’art. 328 c.p., una volta individuato l’interesse qualificato alla conoscenza da parte del richiedente, anche la risposta negativa dell’ufficio adito, in termini di indisponibilità, oppure di parziale disponibilità della documentazione richiesta, fa parte del contenuto dell’atto dovuto al cittadino, il quale, sull’informazione negativa, può organizzare la sua strategia di tutela, oppure rinunciare in modo definitivo ad ogni diversa sua pretesa”. La severità della norma, spiega la Corte, è ”posta a tutela del privato ed è strutturata in modo da impedire sacche di indebita inerzia nel compimento di atti dovuti”. Già la Corte d’appello aveva confermato la condanna di primo grado ed è risultato inutile il ricorso in Cassazione giacché gli Ermellini hanno avvertito che ”il silenzio omissivo del pubblico ufficiale” o gli eventuali ritardi nelle risposte al cittadino saranno puniti severamente.