Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 17/09/2020) 01/12/2020, n. 27400

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34553-2018 proposto da:

COMUNE DI SANDRIGO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 318, presso lo studio dell’avvocato SCIUBBA LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato MOLLO RUGGERO;

– ricorrente –

contro

T.R., elettivamente domiciliato in ROMA, Piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato ZUCCOLLO MAURIZIO;

– controricorrenti –

avverso l’ordinanza n. 22865/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 26/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/09/2020 dal Consigliere Dott. STALLA GIACOMO MARIA;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. DE MATTEIS che ha chiesto rigettarsi il ricorso. Conseguenze di legge;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
p. 1.1 Il Comune di Sandrigo (VI) propone ricorso per revocazione, ex art. 391-bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4), dell’ordinanza della sesta sezione civile-tributaria n. 22865 del 26 settembre 2018, con la quale questa Corte di Cassazione ha ritenuto tardivo il ricorso per cassazione dal Comune proposto – nei confronti del contribuente T.R. per il recupero dell’Ici 2009 non versata – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale Veneto n. 1092/5/2016 del 12 ottobre 2016. Ciò perchè tale ricorso per cassazione era stato consegnato per la notifica il 10 aprile 2017 e, dunque, oltre la scadenza (12 febbraio 2017) del termine ‘brevè di impugnazione, la cui applicazione nella specie conseguiva alla notificazione della sentenza di appello – direttamente al Comune – in data 14 dicembre 2016 (come da ricevuta di consegna e timbro di protocollo dell’ufficio ricevente, in atti).

Contrariamente a tale assunto, la notificazione in questione non era idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione, dal momento che il Comune aveva partecipato al giudizio di appello, non in proprio, ma con il patrocinio di un professionista di fiducia, Dott. B.M., presso il cui studio in Bologna aveva eletto domicilio D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17.

La Corte di Cassazione, travisando la situazione di fatto, non si era dunque avveduta di quest’ultima elezione di domicilio, con conseguente inidoneità della notificazione della sentenza direttamente all’amministrazione comunale a fare nella specie decorrere il termine breve di impugnazione.

p. 1.2 Per l’ipotesi di accoglimento dell’istanza di revocazione e conseguente apertura della fase rescissoria del procedimento, il Comune ripropone in questa sede l’originario motivo di ricorso per cassazione, così esposto: – violazione e falsa applicazione – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – del D.L. n. 102 del 2013, art. 2, comma 5-ter conv. in L. n. 124 del 2013; D.L. n. 70 del 2011, art. 7, comma 2-bis, conv. in L. n. 106 del 2011; D.L. n. 201 del 2011, art. 13, comma 14 e 14-bis conv. in L. n. 214 del 2011; D.L. n. 216 del 2011, art. 29, comma 8, conv. in L. n. 14 del 2012; D.M. 26 luglio 2012, art. 5. Per avere la Commissione Tributaria Regionale erroneamente attribuito efficacia retroattiva quinquennale all’istanza del contribuente di assegnazione all’immobile in sua proprietà – fatto oggetto dell’avviso di recupero Ici 2009 opposto – della categoria catastale di ruralità A6 o D10, nonostante che tale efficacia fosse dalla legge riconosciuta unicamente alle istanze presentate all’agenzia delle entrate entro il 30 settembre 2012, mentre nel caso di specie tale domanda era stata presentata soltanto in data 21 febbraio 2014.

Resiste il contribuente con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

p. 2. L’istanza di revocazione è fondata.

Essa si basa sul rilievo secondo cui la Corte di Cassazione avrebbe nella specie applicato il termine breve ex artt. 325-326 c.p.c. facendolo decorrere dalla notificazione della sentenza di appello direttamente presso gli uffici comunali, nonostante che il Comune impositore avesse partecipato al giudizio di merito, ed ivi eletto domicilio, tramite un proprio difensore esterno. Sennonchè, in tanto sarebbe stato applicabile il termine breve di impugnazione, in quanto la notificazione della sentenza di appello fosse regolarmente avvenuta, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, presso il domicilio eletto, e non direttamente presso gli uffici comunali.

Si osserva nel ricorso per revocazione: “si è convinti che nel pronunciare l’ordinanza di cui si chiede la revocazione tale rilevante circostanza sia sfuggita: infatti se la Corte Suprema di Cassazione avesse preso atto della costituzione del Comune nel giudizio di appello a mezzo del Dott. M.B. e la relativa elezione di domicilio presso il suo studio, certamente non avrebbe ritenuto la consegna della sentenza direttamente all’ufficio tributi del Comune significativa ai fini della decorrenza del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c.”.

Ebbene, nella peculiarità della fattispecie, si ritiene che l’errore così prospettato dal ricorrente abbia in effetti natura revocatoria ex art. 395 c.p.c., n. 4).

Occorre partire dal dato normativo secondo cui “vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.

L’errore revocatorio deve dunque cadere – per regola generale, valevole anche nel caso di revocazione di sentenze di legittimità ex artt. 391-bis e 391-ter c.p.c., recettivi di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 17/1986 e 36/1991 – su un ‘fattò; esso si concreta in una falsa percezione della realtà, a sua volta indotta da una ‘svistà di natura percettiva e sensoriale.

Proprio per tale sua natura, questa falsa percezione della realtà – che nel procedimento di cassazione concerne necessariamente i soli atti interni al giudizio di legittimità, ossia quelli che la corte esamina direttamente nell’ambito del motivo di ricorso o delle questioni rilevabili d’ufficio: Cass. 4456/15, ord. – deve emergere in maniera oggettiva ed immediata dal solo raffronto tra la realtà fattuale e la realtà rappresentata in sentenza; e ciò con riguardo tanto a fatti materiali (o storici, o empirici) di natura sostanziale, quanto agli eventi del processo.

Nel caso in esame l’ordinanza della corte di cassazione ricostruisce (esattamente) le modalità dell’avvenuta notificazione della sentenza di appello presso un impiegato comunale (“corredata del timbro dell’ufficio accettante e del numero di protocollo dell’amministrazione comunale, nonchè della sigla dell’impiegato addetto alla ricezione”), senza tuttavia menzionare il dato di fatto (pacifico in atti) che il Comune avesse partecipato al giudizio di merito con il ministero di un difensore ‘esternò, presso il quale aveva eletto domicilio.

Che non si sia trattato dell’esito di una determinata valutazione giuridica (di certo irrilevante ai fini revocatori ex art. 395 c.p.c., n. 4, cit.) si desume dal fatto che l’affermazione di idoneità della notifica di specie a far decorrere il termine breve di impugnazione fa seguito, nell’ordinanza in questione, alla esclusiva considerazione delle sue modalità di esecuzione presso l’ente comunale (come sè questo fosse rimasto contumace nei gradi di merito, ovvero vi avesse partecipato con un difensore interno e domicilio presso l’ente stesso), non anche dell’essenziale elemento (prettamente fattuale) dell’avvenuta domiciliazione presso un difensore esterno.

Elemento fattuale, quest’ultimo, la cui omissione ha indotto una rappresentazione della realtà processuale frontalmente difforme dal vero.

Ulteriore conferma di ciò deriva dal fatto che la conclusione alla quale è giunta l’ordinanza in esame viene confortata (quanto ad idoneità della notificazione all’ente ad ingenerare in questo la conoscenza legale della sentenza di appello e, di conseguenza, a far decorrere il termine breve di impugnazione) dalla citazione del precedente di cui in Cass.ord.10851/18, che appunto concerneva proprio un caso, erroneamente assimilato al presente, di mancata costituzione del Comune nei gradi di merito.

Anche il richiamo a questo precedente di legittimità, in altri termini, induce a ritenere che la pronuncia di tardività del ricorso per cassazione sia logicamente derivata proprio dal mancato rilievo delle ‘verè modalità di costituzione in giudizio e domiciliazione del Comune nei gradi di merito (profilo, questo, rimasto del resto del tutto estraneo al contraddittorio delle parti).

Pacifica è l’incidenza decisoria di tale mancato rilievo, stante l’inidoneità della notifica in oggetto (non conforme alla disciplina degli artt. 285 e 170 c.p.c., nè integrante consegna a mani D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, in quanto non eseguita nei confronti di soggetto legale rappresentante dell’ente) a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c..

p. 3. Accedendo dunque alla fase rescissoria del giudizio, si ritiene che il ricorso per cassazione del Comune debba trovare accoglimento sotto il dedotto profilo della violazione normativa.

Non vi sono ragioni per discostarsi da quanto stabilito da Cass. SSUU n. 18565/09, secondo cui (in motiv.): “in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’immobile che sia stato iscritto nel catasto fabbricati come rurale, con l’attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10), in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dal D.L. n. 557 del 1993, art. 9, conv. con L. n. 133 del 1994, e successive modificazioni, non è soggetto all’imposta ai sensi del combinato disposto del D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1-bis, convertito con modificazioni dalla L. n. 14 del 2009, e del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 2, comma 1, lett. a). L’attribuzione all’immobile di una diversa categoria catastale deve essere impugnata specificamente dal contribuente che pretenda la non soggezione all’imposta per la ritenuta ruralità del fabbricato, restando altrimenti quest’ultimo assoggettato ad ICI: allo stesso modo il Comune dovrà impugnare l’attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10 al fine di potere legittimamente pretendere l’assoggettamento del fabbricato all’imposta”. A tale orientamento hanno fatto seguito innumerevoli pronunce di legittimità (tra cui, Cass. nn. 7102/10; 8845/10; 20001/11; 19872/12; 5167/14), successivamente confermate – nel senso della ininfluenza dello svolgimento o meno, nel fabbricato, di attività diretta alla manipolazione o alla trasformazione di prodotti agricoli, rilevando unicamente il suo classamento – tra le altre, da Cass. n. 16737/15 e da Cass. n. 7930/16.

Va altresì osservato come quanto stabilito dalle SSUU nella sentenza cit. si sia fatto carico anche dei profili di jus superveniens riconducibili all’emanazione sia del D.L. n. 557 del 1993, art. 9, comma 3-bis dell’art. 9 conv. in L. n. 133 del 1994, come introdotto dal D.L. n. 159 del 2007, art. 42-bis conv. in L. n. 222 del 2007; sia del D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1-bis conv. in L. n. 14 del 2009.

Con la conseguenza che nemmeno in base a questa normativa – salva l’ipotesi di mancato accatastamento – è dato al giudice tributario di accertare in concreto, incidentalmente, il carattere rurale del fabbricato di cui si sostenga l’esenzione da Ici.

La stessa conclusione va, infine, riaffermata (così Cass. 7930/16 cit. ed innumerevoli altre) pur alla luce dell’ulteriore jus superveniens (D.L. n. 70 frl 2011, conv. in L. n. 106 del 2011; D.L. n. 201 del 2011 conv. in L. n. 214 del 2011; D.L. n. 102 del 2013 conv. in L. n. 124 del 2013) che ha attribuito al contribuente la facoltà di presentazione di domanda di variazione catastale per l’attribuzione delle categorie di ruralità A/6 e D/10, con effetto per il quinquennio antecedente.

Si tratta infatti di disposizioni che rafforzano l’orientamento esegetico già adottato dalle SSUU nel 2009, in quanto disciplinano le modalità (di variazione-annotazione) attraverso le quali è possibile pervenire alla classificazione della ruralità dei fabbricati, anche retroattivamente, onde beneficiare dell’esenzione Ici; sulla base di una procedura ad hoc che non avrebbe avuto ragion d’essere qualora la natura esonerativa della ruralità fosse dipesa dal solo fatto di essere gli immobili concretamente strumentali all’attività agricola, a prescindere dalla loro classificazion catastale conforme.

Tutto ciò posto, l’efficacia retroattiva quinquennale dell’attribuzione di ruralità ai sensi della citata normativa sopravvenuta (2011/2006) concerne le istanze autocertificate a tal fine presentate, come disposto dal D.M. Finanze 26 luglio 2012, art. 2, comma 2 “entro e non oltre il 30 settembre 2012”; ferma restando la possibilità di ottenere anche successivamente la variazione catastale di ruralità con le ordinarie procedure classificatorie Docfa (D.M., comma 6, cit.), ma senza l’effetto retroattivo subordinato all’osservanza delle formalità di cui alla citata disciplina speciale.

La sentenza di appello va dunque cassata con rinvio alla CTR del Veneto che, in diversa composizione, applicherà tali principi alla fattispecie in oggetto.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del presente procedimento.

P.Q.M.
La Corte Revoca l’ordinanza della corte di cassazione n. 22865/18;

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto in diversa composizione, anche per le spese.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2020

 


La notifica via PEC non è sempre valida

La CTP di Roma ribadisce l’invalidità della notifica delle cartelle di pagamento effettuata da un indirizzo p.e.c. delle Entrate inidoneo a legittimarla

Molti contribuenti laziali che hanno ricevuto una cartella di pagamento dall’Agenzia delle entrate potranno tirare un respiro di sollievo grazie a una conferma di recente arrivata dalla Commissione tributaria provinciale di Roma con la sentenza n. 9274/2020.
Essa ha infatti ribadito che l’indirizzo p.e.c. “notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it” non è idoneo a essere utilizzato come mezzo per fare una notifica valida.
Tale indirizzo, del resto, non risulta dai registri ufficiali Reginde o Indice PA e non può essere riferito all’agente della riscossione neanche facendo ricorso al sito web dell’Agenzia delle entrate.
Come già specificato in più occasioni dalla giurisprudenza, invece, la notificazione via p.e.c., per essere valida, deve essere fatta esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante che risulti da pubblici elenchi. In caso contrario, la cartella di pagamento deve considerarsi inesistente.


PERSEO – opzione passaggio da TFS a TFR

Si informano i Sigg. dipendenti in regime previdenziale di trattamento di fine servizio (TFS), assunti prima dell’1/1/2001, che il Fondo di previdenza complementare Perseo Sirio per i lavoratori della Pubblica Amministrazione ha reso nota la possibilità di iscriversi al Fondo entro il 31.12.2020 per non perdere alcune peculiarità descritte nella brochure informativa sotto riportata.

Se interessati, potete contattare direttamente il Fondo di Previdenza Complementare e visitarne il sito:
sito:              https://www.fondoperseosirio.it/ 
campagna TFR:        https://campagnatfr.fondoperseosirio.it/
numero telefono:         06 85304484
mail:               consulenza@perseosirio.it
orari:              Lun-Ven 9.30-13.00

Leggi: Comunicato PERSEO – opzione passaggio da TFS a TFR
Leggi: Brochure 2020


Comm. trib. prov. Lazio Roma Sez. XIII, Sent., 24-11-2020, n. 9274

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI ROMA

TREDICESIMA SEZIONE

riunita con l’intervento dei Signori:

MAFFEI CORRADO – Presidente

PATRONE FRANCESCO – Relatore

D’ORSO LUIGI – Giudice

ha emesso la seguente

SENTENZA

– sul ricorso n. 6896/2019

depositato il 24/05/2019

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n.(…)

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n.(…)

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n.(…)

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n.(…)

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n.(…)

contro:

AG.ENTRATE – RISCOSSIONE – ROMA

difeso da:

(…)

proposto dal ricorrente:

(…)

difeso da:

PROIETTI TOPPI GIAN LUCA

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Premessa.

(…) ha proposto in data 6.2.2019 ricorso avverso la cartella di pagamento n.(…) notificatagli in data 8.1.2019, riferita a crediti di natura tributaria (ICI, IMU e tasse automobilistiche), in relazione a tre ruoli differenti.

Si tratta, in particolare, delle pretese relative ai seguenti ruoli:

1. (…), riferito all’accertamento n. (…), notificato il 22.5.2015, per ICI 2010 e all’accertamento n. (…), notificato il 22.5.2015, per ICI 2011;

per 2. (…), riferito all’accertamento n. (…), notificato il 26.11.2015, per IMU 2012 e all’accertamento n. (…), notificato il 26.11.2015, per IMU 2012;

per 3. (…), riferito a tassa automobilistica per l’anno 2016.

Il ricorrente, costituitosi in data 24.5.2019, eccepisce in primo luogo la decadenza dell’agente della riscossione dal potere di notificare la cartella di pagamento relativa agli, avvisi di accertamento per gli anni di imposta 2010 e 2011, dal momento che la cartella avrebbe dovuto essere notificata entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo (art. 1.183 L. n. 296 del 2006); anche ove detti avvisi si considerassero effettivamente e ritualmente notificati nella data indicata in cartella (19.5.2015), quest’ultima avrebbe dovuto essere notificata entro il 31 dicembre 2018; ne deriva che la notifica della cartella, avvenuta in data 8.1.2019, deve considerarsi tardiva.

La società ricorrente eccepisce inoltre che la cartella di pagamento deve considerarsi inesistente, essendo stata notificata attraverso una mail certificata spedita da un indirizzo pec sconosciuto (“notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it”), in quanto non risultante dai registri ufficiali né riferibile all’agente della riscossione anche attraverso il ricorso a fonti aperte; cita in ausilio giurisprudenza della Corte di Cassazione e della CTP Roma (sent. 601 e 2799/2020) e CTP Perugia (sent. 379/2019).

L’indirizzo “notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it” utilizzato per la notifica della cartella impugnata non sarebbe oggettivamente e con certezza riferibile all’Agenzia delle Entrate Riscossione, non risultando nell’elenco del Reginde – (Registro Generale degli Indirizzi Elettronici gestito dal Ministero della Giustizia) – né nella pagina ufficiale del sito internet di Agenzia Entrate Riscossione, né nella pagina della CCIAA, né in quella di INDICEPA, Indice delle Pubbliche Amministrazioni.

Un ulteriore motivo di ricorso concerne la mancata consegna da parte dell’agente della riscossione dei ruoli, oggetto di espressa impugnazione unitamente a quella delle cartella di pagamento, così impedendo un controllo sulla correttezza del titolo esecutivo.

Chiede pertanto l’annullamento degli atti impugnati, con vittoria di spese da distrarsi a, favore del difensore avv. G.L.P.T., dichiaratosi antistatario.

Agenzia delle Entrate-Riscossione, costituitasi in data 27.6.2019, chiede di ordinare la chiamata in causa dell’ente impositore Roma Capitale e di respingere il ricorso, con vittoria di spese.

Con memorie illustrative presentate prima dell’udienza la società ricorrente, nel ribadire quanto esposto in ricorso, chiede – stante la mancata contestazione da parte del concessionario della riscossione – di applicare il noto principio di non contestazione e di accogliere il ricorso, senza che occorra estendere il giudizio all’ente impositore, essendo state rilevate questioni di esclusiva pertinenza dell’ente riscossore.

All’udienza del 13 ottobre 2020 la Commissione ha deciso come in atti.

Fatto e diritto.

Il ricorso è fondato.

La cartella di pagamento impugnata deve considerarsi inesistente, essendo stata notificata – come dimostrato dalla documentazione prodotta dalla società ricorrente – attraverso una casella PEC spedita da un indirizzo di posta certificata (“notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it”) non risultante dai registri ufficiali Reginde o Indice PA, né riferibile all’agente della riscossione neanche attraverso il ricorso al sito web dell’Agenzia.

Come già ritenuto da altra recentissima sentenza di questa Commissione (sent. 601/38/20), dalla sentenza della CTP Perugia 379/19 e dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 17346/19, “la notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”; nel caso concreto, essendosi fornita la dimostrazione, che la cartella è stata spedita da un indirizzo mail diverso da quelli contenuti nei pubblici elenchi, deriva che la notificazione dell’atto impugnato deve considerarsi inesistente.

Attesa la peculiarità della vicenda sussistono giustificati motivi per compensare le spese di lite.

P.Q.M.
accoglie il ricorso. Spese compensate.

Deciso in Roma, il 13 ottobre 2020.


Riunione del Consiglio Generale del 19.12.2020

Ai sensi dell’art. 13 dello Statuto, viene convocata la riunione del Consiglio Generale che si svolgerà sabato 19 dicembre 2020, in modalità webinar, alle ore 8:00 in prima convocazione, e alle ore 10:00 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:

1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2020;
2. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2021;
3. Nuovo sito web;
4. Attività formativa 2020/2021;
5. Varie ed eventuali.

Leggi: Verbale CG del 19 12 2020

 


Multa annullata se notificata oltre 90 giorni dall’accertamento

Il Giudice di Pace di Ivrea annulla la sanzione: il verbale per violazione del C.d.S. è stato notificato oltre il termine di 90 giorni dall’accertamento in caso di mancata immediata contestazione
Va annullato il verbale per violazione del Codice della Strada notificato oltre il termine di 90 giorni dall’accertamento previsto dalla legge in caso di mancata immediata contestazione dell’infrazione. Lo ha deciso il Giudice di Pace di Ivrea in una sentenza depositata il 4 novembre 2020, accogliendo l’opposizione a sanzione amministrativa di una conducente, multata per violazione dell’articolo 146 del Codice della Strada, infrazione rilevata tramite strumentazione “Redvolution”.
Nel dettaglio, l’opponente ha chiesto l’annullamento del verbale eccependo, tra l’altro, l’avvenuta prescrizione del termine di notifica dello stesso. Doglianza che il magistrato onorario ritiene meritevole di accoglimento.
Come si legge nella sentenza, il verbale inerente la violazione di norme del Codice della Strada, qualora la contestazione non avvenga nell’immediatezza del fatto, dovrà essere notificato entro 90 giorni dalla data della sua commessa infrazione.
Si tratta di una regola imposta dall’art. 201 del Codice della Strada in quale prescrive, qualora la violazione non possa essere immediatamente contestata, che il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati della violazione e con la indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata, debba, entro novanta giorni dall’accertamento, essere notificato all’effettivo trasgressore o ad altro soggetto (cfr. art. 196 C.d.S.) quando questi non sia stato identificato.
Una conclusione ribadita anche dalla Suprema Corte che, nella sentenza n. 7066/2018, ha ribadito che, “qualora sia impossibile procedere alla contestazione immediata, il verbale deve essere notificato al trasgressore entro il termine fissato dall’art. 201 C.d.S. (novanta giorni, a seguito della modifica apportata con l’art. 36 della legge n. 120/2010), salvo che ricorra l’ipotesi prevista dall’ultima parte del citato art. 201, e cioè che non sia individuabile il luogo dove la notifica deve essere eseguita per mancanza dei relativi dati nel Pubblico registro automobilistico o nell’Archivio nazionale dei veicoli o negli atti dello stato civile”.
Nel caso in esame, la notifica, riferita a un verbale del 21 novembre 2019, è stata eseguita in data 27 febbraio 2020. È di tutta evidenza, secondo il giudice onorario, che la notifica del provvedimento è stata fatta oltre il termine di 90 giorni previsto dalla legge in caso di mancata immediata contestazione dell’infrazione.
Ancora, nella specie, la mancata tempestiva notifica del verbale non risulta imputabile all’amministrazione convenuta, avendo questa provveduto all’invio dello stesso al corretto indirizzo anagrafico della ricorrente, nei tempi previsti. Tuttavia, le Poste hanno restituito il plico al Comune che lo ha rinotificato, purtroppo oltre il termine di 90 giorni dall’infrazione.
Ciononostante, ha concluso il magistrato, la non tempestiva notifica dell’infrazione non può essere neppure imputabile alla ricorrente e dunque le relative conseguenze non potranno incidere negativamente sulla stessa. Da qui l’annullamento del provvedimento e la decisione di compensare le spese.


Riunione della Giunta Esecutiva del 21.11.2020

Ai sensi dell’art. 13 dello Statuto, viene convocata la riunione della Giunta Esecutiva che si svolgerà sabato 21 novembre 2020, in presenza, alle ore 8:00 presso il Comune di Cesena – Palazzo Municipale – Piazza del Popolo 10, in prima convocazione, e alle ore 10:00 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:
1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2020;
2. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2021;
3. Nuovo sito web;
4. Attività formativa 2020/2021;
5. Varie ed eventuali.

Causa nuove disposizioni governative relative al Covid 19, la riunione si terrà in modalità on line alle ore 8:00 in prima convocazione, e alle ore 10:30 in seconda convocazione

Leggi: GE 21 11 2020 Verbale

 


Se si rinuncia alla pausa pranzo i buoni pasto non sono dovuti

Per la Corte di Cassazione non ha diritto ai buoni pasto il/la dipendente che, rinunciando alla pausa pranzo, fa venir meno il presupposto necessario al loro riconoscimento.

La Corte di Cassazione con la sentenza n. 22985/2020 ha chiarito un concetto semplice e logico: nel momento in cui il lavoratore rinuncia alla pausa pranzo, non può pretendere il controvalore dei buoni pasto. Gli stessi hanno natura assistenziale e non retributiva, per cui se il dipendente sceglie di non fruire della pausa, che costituisce il presupposto per la concessione dei buoni, non può poi pretendere dal datore il controvalore in denaro. 
Un’addetta alla cancelleria del ministero della Giustizia presta servizio dal 2001 al 2005 dalle ore 8.00 alle ore 15.12, per cinque giorni la settimana, rinunciando alla pausa pranzo, con il consenso della Amministrazione di appartenenza. In questo periodo la lavoratrice non ha percepito i buoni pasto, per cui agisce in giudizio per ottenerne il valore in denaro e il conseguente risarcimento del danno. Il Tribunale però rigetta la domanda e la Corte d’Appello conferma la decisione di primo grado in quanto l’art. 4 del CCNL prevede che per usufruire dei buoni pasto è necessario effettuare la pausa pranzo.
La Corte d’Appello giustifica la propria decisione, richiamando anche la circolare del Ministero della Giustizia del 10 febbraio 1998, che all’art. 3, comma 3 prevede che i buoni pasti spettino anche: “al dipendente che articola il proprio orario di lavoro su cinque giorni settimanali (secondo la disciplina prevista dall’art. 22, l. n. 724/1994, come modificata dall’art. 6, comma 5, d.l. n. 79/1997, convertito in l. n. 140/1997), per ogni giorno di prolungamento dell’orario ordinario oltre le sei ore con la pausa per il pranzo. Tale condizione è ovviamente correlata alle concrete modalità di distribuzione dell’orario di lavoro nell’arco di cinque giorni”.


Riunione della Commissione Normativa del 06.11.2020

Ai sensi dell’art. 4 dello Statuto, viene convocata la riunione della Commissione Normativa che si svolgerà on line venerdì 6 novembre 2020 alle ore 21:30, per deliberare sul seguente ordine del giorno:
1. Valutazione procedure informatiche corsi on line 2020;
2. Varie ed eventuali.

Leggi: Modalità di accesso ai corsi on line

 


Condannato l’ente che diffonde dati personali di un dipendente

La Corte di Cassazione ha ribadito che un ente pubblico deve pagare i danni morali per la diffusione delle note professionali negative di una dipendente
Una dipendente ha impugnato dinanzi al Tribunale il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali dell’ottobre 2012 con cui era stato respinto il reclamo da essa proposto per lamentare l’illecito trattamento di propri dati personali e sensibili commesso ai suoi danni dalla Dirigente della sede INPDAP, ora INPS, nel 2011.
Secondo la ricorrente, la predetta Dirigente aveva trattato dati personali riservati in modo illecito, disponendo che la comunicazione degli addebiti professionali mossi nei suoi confronti e contenuti in alcune note dirigenziali, preliminari alla revoca della sua posizione di “capo area pensioni”, avvenisse brevi manu e a vista, a mezzo di addetto alla segreteria non preposto al trattamento di dati personali, senza alcuna precauzione o cautela, come “l’inserimento in un plico o in una busta, in violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11 del punto 5.3. delle “Linee guida in materia di trattamento dei dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” del 14/6/2007 e delle norme INPDAP, Protocollo relazioni sindacali, punto B.3″.
Inoltre, la ricorrente aveva lamentato il fatto che la Dirigente, in occasione di un incontro sindacale per la discussione della bozza di un ordine di servizio per la riorganizzazione della sede, aveva dichiarato a verbale che l’ordine di servizio era stato preparato consultando alcuni soggetti coinvolti nella stesura del provvedimento, che erano quindi venuti a conoscenza di suoi dati personali e sensibili e di pesanti addebiti relativi alla sua professionalità.
Tanto premesso, la ricorrente ha dedotto la nullità e l’ingiustizia del provvedimento del Garante, chiedendone l’annullamento, l’accertamento dell’illegittimità del trattamento dei propri dati personali e la condanna dell’INPS e dello stesso Garante per la protezione dei dati personali al risarcimento dei danni.
All’esito dell’istruttoria il Tribunale ha annullato il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali dell’ottobre 2012, ha accolto parzialmente la domanda risarcitoria, condannando l’INPS a pagare alla ricorrente la somma di euro 10.000,00 e ha respinto la domanda risarcitoria nei confronti del Garante; ha condannato l’INPS a rifondere le spese di lite alla ricorrente, compensando le spese fra di essa e il Garante.
Con riferimento in particolare alla parte del ricorso, l’INPS denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e dell’art. 2050 c.c. nonché dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7, in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge.
L’INPS sostiene che per potersi apprezzare una lesione ingiustificabile in tema di dati personali, suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale di cui al D.Lgs. n. 196 del 2003, ex D.Lgs. n. 196 del 2003, non è sufficiente la mera violazione ma occorre una violazione sensibilmente offensiva, in difetto di dimostrazione di un pregiudizio significativo sofferto in conseguenza.
Nella fattispecie mancava in concreto la prova della gravità della lesione e della serietà del danno.
L’orientamento giurisprudenziale più recente, condiviso anche dal Tribunale e conforme agli indirizzi della Corte di Cassazione (n. 207 del 8 gennaio 2019), riconduce l’illecito trattamento di dati personali ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva, anche alla luce dell’esplicito rinvio compiuto dalla legge (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 applicabile pro tempore) all’art. 2050 c.c..
Pertanto, il danneggiato che lamenti la lesione dell’interesse non patrimoniale può limitarsi a dimostrare l’esistenza del danno e del nesso di causalità rispetto al trattamento illecito, mentre spetta al danneggiante titolare del trattamento, eventualmente in solido col responsabile, dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno. Questo schema è parzialmente confermato anche nel nuovo GDPR (articolo 82.3 GDPR) che, sulla base del principio di responsabilizzazione (accountability) addossa al titolare del trattamento dei dati – eventualmente in solido con il responsabile il rischio tipico di impresa (art. 2050 c.c.).
Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione in tema di onere della prova, in caso di illecito trattamento dei dati personali, il pregiudizio non patrimoniale non è in re ipsa, ma deve essere allegato e provato da parte dell’attore, a pena di uno snaturamento delle funzioni della responsabilità aquiliana. La posizione attorea è tuttavia agevolata dal regime più favorevole dell’onere della prova, descritto all’art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano [Detta anche aquiliana (dalla lex Aquilia del 287 a.C., che per prima disciplinò, nel diritto romano, la responsabilità ex delicto), è la responsabilità civile che sorge in conseguenza del compimento di un fatto illecito, doloso o colposo, che cagioni ad altri un ingiusto danno (art. 2043 del c.c.)]., nonché dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità.
Per altro verso, il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato) alla stregua dei parametri generali scolpiti dalle sentenze gemelle delle Sezioni Unite n. 2697226975 dell’11 novembre 2008; infatti anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex articolo 2 Cost., di cui la regola di tolleranza della lesione minima costituisce intrinseco precipitato, sicché determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del Codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva.
Il relativo accertamento di fatto è tuttavia rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale.
Il titolare del trattamento, per non incorrere in responsabilità deve dimostrare che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile e non può limitarsi alla prova negativa di non aver violato le norme (e quindi di essersi conformato ai precetti), ma occorre la prova positiva di aver valutato autonomamente il rischio di impresa, purché tipico, cioè prevedibile, e attuato le misure organizzative e di sicurezza tali da eliminare o ridurre il rischio connesso alla sua attività. In ogni caso, come lo stesso Istituto ricorrente riconosce, l’accertamento del danno non patrimoniale è un accertamento di fatto, “rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale” (cfr. sent. 16133/2014).
La Corte di Cassazione osserva che la pronuncia impugnata non si è sottratta alla corretta applicazione dei principi illustrati, richiedendo l’allegazione e la prova da parte della parte danneggiata del danno-conseguenza, e ribadendo che il danno risarcibile non si identificava con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le sue conseguenze causali.
Ciò ha condotto il Tribunale ad escludere un danno biologico per lesione dell’integrità psico-fisica ma a ravvisare un danno non patrimoniale da sofferenza morale, pure dedotto da parte attrice e ritenuto dimostrato sulla base di un ragionamento presuntivo fondato su regole di esperienza.
Nel respingere la parte del ricorso la Corte di Cassazione con la sentenza n. 19328, del 17 settembre 2020, evidenzia che nel risarcimento i giudici hanno comunque tenuto conto dell’ambiente circoscritto all’ufficio in cui era circolare la notizia.


Stop a cartelle e pignoramenti per il 2020

È stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il decreto legge sulle “Disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale”
Con la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale n. 260 del 20 ottobre del decreto legge n. 129  sulle “Disposizioni urgenti in materia di riscossione esattoriale” diventa ufficiale lo stop dell’attività degli Agenti di riscossione fino al termine del 2020. Il provvedimento entra in vigore dal giorno successivo alla sua ufficialità. Il decreto sospende i termini di notifica e di pagamento relativi ai principali atti della riscossione relativi alle entrate tributarie e non tributarie.

A fornire dettagliate spiegazioni sui casi delle nuove notifiche di atti di pagamento che il decreto Agosto aveva lasciato irrisolto ci pensano i chiarimenti nuove faq che l’Agenzia delle entrate-Riscossione: il concessionario della riscossione spiega che fino al 31 dicembre non vi saranno notifiche, nemmeno via Pec, di cartelle di pagamento, avvisi di addebito e di ogni altro atto della riscossione.

Restano sospesi fino alle fine dell’anno anche gli obblighi derivanti dai pignoramenti presso terzi effettuati prima della data di entrata in vigore del decreto Rilancio (19/5/2020), su stipendi, salari, altre indennità relative al rapporto di lavoro o impiego, nonché a titolo di pensioni e trattamenti assimilati. Per quanto riguarda i pagamenti sospesi tutti i versamenti oggetto di sospensione dovranno essere effettuati entro il 31 gennaio 2021.

La proroga, però, non abbraccia tutte le cartelle esattoriali. Ad esempio per le rate in scadenza nel 2020 della rottamazione-ter e del saldo e stralcio, il termine di pagamento rimane fissato al 10 dicembre 2020, come previsto dal dl n. 34/2020 decreto rilancio. Lo slittamento delle notifiche riguarda solo i carichi trasmessi all’Agenzia delle Entrate Riscossione dall’8 marzo fino al 31 dicembre 2020, sempre che non rientrino tra quelli interessati dalla proroga introdotta dal decreto Rilancio. Restano valide le proroghe già definite, mentre alcune cartelle in via di scadenza o di prescrizione non sono comprese: ad esempio l’Imu e la Tari, il bollo auto o altre entrate patrimoniali, come i contributi previdenziali.

Per questi tributi e tasse subentra ora la proroga di 12 mesi, limitatamente ai termini di prescrizione e decadenza a fine 2021 e ai carichi affidati all’Ader in tutto il periodo di sospensione.
Ancora c’è una proroga specifica che riguarda i carichi, relativi alle entrate tributarie e non tributarie, affidati all’agente della riscossione durante il periodo di sospensione. Vengono prorogati di 12 mesi il termine per la perdita del diritto al discarico ovvero la procedura che consente all’agente della riscossione di “liberarsi” del carico ricevuto, comunicando all’ente creditore l’inesigibilità della pretesa; i termini di decadenza e prescrizione in scadenza nell’anno 2021 per la notifica delle cartelle di pagamento.

Nel primo caso è stabilito che l’agente della riscossione non può chiedere il discarico, e pertanto resta responsabile verso l’ente affidante, se non ha notificato la cartella di pagamento prima del nono mese successivo a quello di ricezione del ruolo. Il decreto legge interviene su tale disposizione, prevedendo un differimento di 12 mesi riferito a tale scadenza; la proroga opera però sempre e unicamente per gli affidamenti eseguiti all’agente della riscossione nel periodo dall’8 marzo al 31 dicembre 2020.


Furbetti del cartellino, denunciati 8 dipendenti Asl Roma5

ROMA, 27 OTT – Alcuni non facevano neppure ingresso nella sede ma figuravano al lavoro, altri si allontanavano dopo aver “strisciato” regolarmente il proprio badge nel dispositivo di registrazione delle presenze installato all’ingresso della “Casa della Salute” di Zagarolo. Sono otto i dipendenti dell’Asl Roma 5 ai quali i finanzieri del Comando Provinciale di Roma hanno notificato l’avviso di conclusione delle indagini, emesso dalla Procura della Repubblica di Tivoli. In seguito ad alcune segnalazioni, le Fiamme Gialle della compagnia di Frascati hanno monitorato i loro movimenti, posizionando delle telecamere nei pressi dell’apparecchiatura “marcatempo” e pedinandoli per diversi giorni. Le immagini registrate hanno confermato i sospetti, riprendendo i dipendenti che appena timbrato il cartellino si allontanavano per alcune ore dal posto di lavoro per sbrigare faccende personali. Le indagini – ha reso noto la Guardia di Finanza – hanno permesso di appurare l’esistenza di un sistema consolidato incentrato su uno scambio di favori che in alcuni casi avrebbe fatto simulare la presenza per l’intero turno, grazie ai colleghi compiacenti che “strisciavano” il badge a inizio e fine giornata. Gli 8 denunciati dovranno rispondere di truffa ai danni dell’Ente di appartenenza e falsa attestazione di presenza in servizio.(ANSA).


Schede DPCM 24.10.2020

Leggi: SCHEDE-NUOVO-DPCM-24-OTTOBRE

Leggi: DPCM 24-10-2020

Leggi: Gazzetta Ufficiale n° 265 del 25-10-2020


La Corte di Cassazione conferma che la notifica dopo le 21 si perfeziona il giorno stesso

Per la Suprema Corte alla notifica via PEC si applica la scissione soggettiva degli effetti a seguito dell’intervento della Consulta. Tempestiva la notifica dell’opposizione a D.I. oltre le ore 21
Deve ritenersi tempestiva la notifica dell’opposizione all’ingiunzione avvenuta oltre le ore 21 con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto. Ciò in quanto la Corte Costituzionale, con la sentenza 75/2019, ha bocciato l’art. 16 septies del D.L. 179/12 nella parte in cui prevede che la notifica telematica effettuata fra le 21 e le 24 si perfezioni anche per il notificante alle ore 7 dell’indomani.
Se, da un lato, il differimento al giorno seguente appare giustificato nei confronti del destinatario, mirando alla tutela del suo diritto al riposo in una fascia oraria in cui sarebbe altrimenti costretto a continuare a controllare la casella di posta elettronica, dall’altro appare irragionevole penalizzare il mittente impedendogli di utilizzare appieno il termine utile per impugnare e approntare la propria difesa.
Lo ha ribadito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22136/2020 accogliendo il ricorso dell’opponente sconfitto in entrambi i giudizi di merito.
Nel dettaglio, la Corte territoriale, condividendo il giudizio del giudice a quo, riteneva tardiva l’opposizione in quanto proposta con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto, ma oltre le ore 21.
Di conseguenza, la notifica si sarebbe perfezionata alle ore 7 del giorno successivo, vale a dire il quarantunesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo, da qui la tardività e la conseguente inammissibilità.
La Suprema Corte ribalta il risultato e riassume l’orientamento prevalente in materia, prendendo le mosse dalla previsione di cui all’art. 16-quater, comma 3, del D.L. n. 179/2012, convertito dalla Legge n. 221 del 2012.
Tale norma dispone che la notifica eseguita con modalità telematica a mezzo di posta elettronica certificata “si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione” prevista dall’art. 6, comma 1, del d.P.R. 68/2005, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista al comma 2 della medesima norma.
Ancora, l’art. 16-septies del D.L. n. 179 cit. aggiunge che la notificazione eseguita con modalità telematica è assoggettata alla norma prevista dall’art. 147 c.p.c. (secondo il quale, nella vigente formulazione, le notificazioni non possono farsi prima delle ore 7 e dopo le ore 21) e che tale notifica, quando è eseguita dopo le ore 21, si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo.
Tuttavia, sempre in materia di notifiche eseguite con modalità telematiche, gli Ermellini ritengono indispensabile rammentare come il quadro sia cambiato a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale.
La Consulta, con la sentenza n. 75/2019, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo (per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.) proprio l’art. 16-septies del D.L. n. 179/2012 nella parte in cui prevede che “la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta”.
La “fictio iuris” che conduce al differimento al giorno seguente degli effetti della notifica eseguita dal mittente tra le ore 21 e le ore 24, infatti, appare giustificata nei confronti del destinatario, poiché il divieto di notifica telematica dopo le ore 21, previsto dalla prima parte dell’art. 16 septies, tramite il rinvio all’art. 147 c.p.c., mira a tutelare il suo diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) nella quale egli sarebbe altrimenti costretto a continuare a controllare la casella di posta elettronica.
Al contrario, non può dirsi altrettanto giustificata nei confronti del mittente. Infatti, si legge nella sentenza, il medesimo differimento comporta un irragionevole vulnus al pieno esercizio del diritto di difesa (segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare), poiché gli impedisce di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa, che, nel caso di impugnazione, scade (ai sensi dell’art. 155 c.p.c.) allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno, senza che ciò sia funzionale alla tutela del diritto al riposo del destinatario e nonostante che il mezzo tecnologico lo consenta.
In aggiunta, secondo il Collegio, la restrizione delle potenzialità (accettazione e consegna sino alla mezzanotte) che caratterizzano e diversificano il sistema tecnologico telematico rispetto al sistema tradizionale di notificazione legato “all’apertura degli uffici” sia intrinsecamente irrazionale, venendo a recidere l’affidamento che lo stesso legislatore ha ingenerato nel notificante immettendo il sistema telematico nel circuito del processo.


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 30-06-2020) 21-10-2020, n. 22985

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10583-2017 proposto da:

L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. FILIBERTO 166, presso lo studio degli avvocati ANTONIO CORVASCE, SOFIA PASQUINO, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 4628/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/10/2016 R.G.N. 4202/2013.

Svolgimento del processo
CHE:

1. L.A., dipendente del Ministero della Giustizia addetta alla cancelleria Gip del Tribunale di Roma, ha prestato servizio dal 2001 al 2005, sulla base di un orario giornaliero dalle 8 alle 15,12, per cinque giorni la settimana, rinunciando, con il consenso dell’Amministrazione, alla pausa pranzo;

la L., non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto giornalieri, ha agito giudizialmente per ottenere il pagamento del controvalore pecuniario, oltre al risarcimento del danno, con domanda che è stata respinta dal Tribunale di Roma, la cui sentenza è stata poi confermata dalla Corte d’Appello della medesima città;

la Corte d’Appello affermava che l’art. 4 del CCNL di riferimento condizionava il riconoscimento del buono pasto all’effettuazione della pausa pranzo, cui invece la ricorrente aveva rinunciato;

d’altra parte, aggiungeva la Corte, la circolare ministeriale del 10.2.1998, nel riconoscere la possibilità del dipendente di rinunciare alla pausa, ma con mantenimento del diritto al buono pasto, si riferiva al caso di recupero in soli due giorni delle ore non effettuate nella sesta giornata settimanale, con orario di lavoro di nove ore e restava subordinato ad esigenze di servizio;

nel caso di specie nulla era risultato in ordine alla ricorrenza di ragioni organizzative di interesse dell’Amministrazione nell’accogliere la domanda della L. di rinuncia alla pausa pranzo e dunque, al di là del fatto che la circolare non poteva rivestire effetti normativi, comunque non ricorrevano neppure i presupposti da essa indicati;

2. la L. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, resistiti da controricorso del Ministero.

Motivi della decisione
CHE:

con il primo motivo la ricorrente afferma la violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, L. n. 724 del 1994, art. 22, D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8, L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11, L. n. 334 del 1997, art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 29 del 1996, art. 52 della Circolare 10 febbraio 1998 ed inoltre dell’Accordo Sindacale 30.4.1996, integrato dall’Accordo 12.12.1996, nonchè dell’art. 19, comma 4 CCNL (orario di lavoro) e dell’art. 7, comma 1 CCNL 12.1.1996;

1.1 il motivo è infondato;

come è noto, il diritto alla fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, finalizzata ad alleviare, in mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa (Cass. 28 novembre 2019, n. 31137; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290);

esso, data tale natura, dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentano il riconoscimento;

in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso ad una pausa, destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che quella pausa sia in concreto fruita;

le norme primarie (L. n. 334 del 1997, art. 3, comma 1, e L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11) si limitano del resto a rinviare, per le regole di attribuzione dei buoni pasto, ad appositi accordi collettivi;

nel caso di specie i presupposti del diritto sono fissati dall’art. 4, comma 2, dell’accordo collettivo sul riconoscimento dei buoni pasto, secondo cui “il buono pasto viene attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 19, comma 4, del CCNL, all’interno della quale va consumato il pasto”;

l’art. 19, comma 4, del CCNL del 1995, ivi richiamato, stabilisce a propria volta che “dopo massimo sei ore continuative di lavoro deve essere prevista una pausa che comunque non può essere inferiore ai 30 minuti”, previsione sostanzialmente analoga a quella dell’art. 7, comma 1, CCNL 1996 cui fa parimenti riferimento il motivo di ricorso;

questa Corte, interpretando norme di formulazione sostanzialmente identica a quelle appena evidenziate, seppure in relazione all’area dirigenziale, ha in effetti ritenuto che “in materia di trattamento economico del personale del comparto Ministeri, il cosiddetto buono pasto non è, salva diversa disposizione, elemento della retribuzione “normale”, ma agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale”, la quale quindi “spetta solo ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 4 dell’accordo di comparto del personale appartenente alle qualifiche dirigenziali del 30 aprile 1996, che ne prevede l’attribuzione ai dipendenti con orario settimanale articolato su cinque giorni o turnazioni di almeno otto ore, per le singole giornate lavorative in cui il lavoratore effettui un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la pausa all’interno della quale va consumato il pasto, dovendosi interpretare la regola collettiva nel senso che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione di riconoscimento del buono pasto” (Cass. 14290/2012 cit.);

nel caso di specie è pacifico che la pausa pranzo non sia stata fruita, per rinuncia ad essa della lavoratrice, evidentemente al fine di poter terminare anticipatamente, nel primo pomeriggio, la prestazione di lavoro;

pertanto, in mancanza di pause, non sono integrati gli estremi cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione;

1.2 il motivo, nella parte in cui denuncia la “violazione e/o falsa applicazione della Circolare 10 febbraio 1998” è invece inammissibile;

è noto infatti che le circolari non sono fonte del diritto ma semplici presupposti chiarificatori della posizione espressa dalla P.A. su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889), sicchè la loro ipotetica violazione non è denunciabile in cassazione sotto il profilo (art. 360 c.p.c., n. 3) della violazione o falsa applicazione di norme di diritto (Cass. 10 agosto 2015, n. 16644; Cass. 30 maggio 2005, n. 11449), nè la censura è stata fatta come violazione dei criteri ermeneutici (art. 1362 ss. c.c.) relativi ad atti unilaterali (amministrativi nella specie);

1.3 nè ha rilievo la veridicità o meno della rinuncia della L. ai buoni pasto, da essa negata, in quanto è sufficiente che vi sia stata rinuncia alle pause, quale elemento necessario al riconoscimento del diritto;

quanto poi all’argomento sviluppato dalla ricorrente secondo cui l’articolazione dell’orario, nel pubblico impiego, non potrebbe mai basarsi su esigenze personali del lavoratore, esso non muta le conclusioni da assumere;

è indubbio infatti che la P.A. possa negare il consenso alla rinuncia alla pausa pranzo, se ciò entri in contrasto con le proprie esigenze di servizio, ma ciò non significa che una tale articolazione oraria, se derivante da richiesta del lavoratore, non risalga ad un’autonoma decisione di quest’ultimo della quale, se l’effetto sia quello di far venire meno uno dei presupposti per la fruizione dei buono pasto, lo stesso non possa lamentarsi nei riguardi del proprio datore di lavoro;

non può poi affermarsi la coincidenza della rinuncia alla pausa concomitante con l’esigenza di un servizio ininterrotto, di cui alla Circolare, con il consenso ad una rinuncia alla pausa prospettata dal dipendente e cui la P.A. si limiti a consentire, in quanto in quest’ultimo caso non vi è la ineludibile esigenza amministrativa di un servizio ininterrotto, ma solo l’accettazione di esso come tale, per avallare la domanda del dipendente;

1.4 altra questione è se l’organizzazione oraria comunque definita risulti eventualmente in contrasto con la disciplina sui riposi e le pause, tra cui le norme, citate dalla ricorrente nel motivo, di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 22 e D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8;

ciò tuttavia potrebbe avere rilievo non sul diritto a percepire i buoni pasto, che dipende dal verificarsi dei corrispondenti e specifici presupposti, ma semmai rispetto ad eventuali danni, anche alla persona, che dovessero essere derivati dall’indebita modalità di organizzazione del lavoro, ma non è questo l’oggetto del contendere quale impostato in causa;

2. il secondo motivo afferma, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., sostenendo che alla ricorrente sarebbe spettato il risarcimento del danno per equivalente derivante da inadempimento della controparte;

l’inadempimento, anche in tale motivo, è identificato nel rifiuto di corrispondere i buoni pasto, ma è evidente l’insostenibilità dell’assunto, in quanto se i buoni pasto non erano dovuti, tale inadempimento non può esservi, mentre del tutto evanescente e non meglio specificato risulta, nei tratti concreti ulteriori rispetto ad un inadempimento che in sè non vi è stato, il richiamo, parimenti contenuto nel motivo, ai principi di buona fede e correttezza;

il terzo motivo è dedicato infine alla denuncia di violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2697 c.c. e 115 e 414 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) oltre che all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5);

nel corpo del motivo si censura in realtà esclusivamente il fatto che i giudici di appello non abbiano ammesso le prove pur articolate nel ricorso di primo grado e sulle quali la ricorrente aveva insistito anche con l’atto di appello;

il motivo è del tutto generico, non indicando neppure il contenuto di tali prove, sicchè ne è palese l’inammissibilità;

3. al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020