Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 14/07/2021) 24/11/2021, n. 36403

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4419-2020 R.G. proposto da:

L.M., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Antonio PIRRELLI, ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via L. Mantegazza, n. 24, presso lo studio del Dott. Marco GARDIN;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (C.F. (OMISSIS)), in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. MYCS3/2019 della Commissione tributaria regionale del LA depositata in data 19/06/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 14/07/2021 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Svolgimento del processo
che:

– in controversia relativa ad impugnazione di una intimazione di pagamento relativa a 38 cartelle di pagamento e 2 avvisi di debito emessa da Equitalia Sud s.p.a. nei confronti di L.M., con la sentenza impugnata la CTR rigettava l’appello proposto dal contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado ritenendo, per quanto ancora qui di interesse, regolarmente notificati gli atti prodromici all’intimazione impugnata “consegnati in parte direttamente al destinatario ed in parte al familiare convivente o addetto alla casa, non necessitante, in quest’ultimo caso, diversamente da quanto sostenuto, l’invio di successiva raccomandata informativa”, ed infondata l’eccezione di prescrzione dei crediti tributari in quanto soggetti al termine di prescrizione decennale;

– avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato a due motivi, limitando l’impugnazione a solo otto cartelle di pagamento (espressamente elencate a pag. 12 del ricorso);

– replica con controricorso l’intimata /Agenzia delle entrate Riscossione;

– sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio;

– il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2946 e 2948 c.c. “per avere la Commissione Regionale affermato sussistere termine di prescrizione decennale in luogo di quello quinquennale con riferimento ai tributi erariali cristallizzati in atti amministrativi (cartelle e avvisi di pagamento) e non in atti giurisdizionali”.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, con riferimento soltanto a quattro cartelle di pagamento, un error in iudicando, ai sensi dell”art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè degli artt. 137 e 139 c.p.c., nonchè un (non meglio specificato) vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sostenendo che la CTR aveva “omesso di considerare nulla/inesistente la notifica dell’atto tributario nel difetto della prova della spedizione da parte del notificante e della ricezione da parte del notificando della lettera informativa di avvenuta notifica che si era resa obbligatoria in mancanza della consegna a mani proprie”.

3. Tale ultimo motivo, che per ragioni di ordine logico-giuridico va esaminato preliminarmente, è infondato e va rigettato in quanto la notifica delle cartelle di pagamento, per espressa ammissione dello stesso ricorrente e per come risulta dalla documentazione fotorìprodotta nel ricorso, in ossequio al principio di autosufficienza, è stata effettuata D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26, a persona di famiglia (suocera del contribuente) per cui non era necessario l’invio della raccomandata informativa.

4. Invero, questa Corte è ferma nel ritenere che “In tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, aì sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982 in quanto tale forma “semplificata” di notificazione sì giustifica, come affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 175 del 2018, in relazione alla funzione pubblicistica svolta dall’agente per la riscossione volta ad assicurare la pronta realizzazione del credito fiscale a garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato” (Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 28872 del 12/11/2018, Rv. 651834 – 01; conf. Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 10037 del 10/04/2019, Rv. 653680 – 01, secondo cui “In tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, mediante invio diretto della raccomandata con avviso di ricevimento da parte del concessionario, non è necessario l’invio di una successiva raccomandata informativa in quanto trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario, peraltro con esclusione della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 883, in quanto privo di efficacia retroattiva, e non quelle della L. n. 890 del 1982”).

5. In questa direzione, del resto, depone proprio il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, che consente agli ufficiali della riscossione di provvedere alla notifica della cartella mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, precisando che in caso di notifica “nelle mani proprie del destinatario o di persone di famiglia o addette alla casa, all’ufficio o all’azienda” (comma 2) o al “portiere dello stabile dov’è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda” del destinatario, la stessa si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da tali soggetti, prevedendo lo stesso art. 26, il rinvio al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, unicamente per quanto non regolato nello stesso articolo (cfr. Cass. n. 14196/2014, Cass. ord. n. 3254/16, Cass. n. 802 del 2018; conf. Cass. n. 12083 del 2016 e n. 29022 del 2017).

6. E d’altro canto, come affermato da Cass. n. 28872 del 12/11/2018, sopra citata, la Corte costituzionale, occupandosi della questione ha dichiarato, con la sentenza n. 175 del 2018, la conformità a Costituzione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, rilevando che “la semplificazione insita nella notificazione diretta”, consistente “nella mancanza della relazione di notificazione di cui all’art. 148 c.p.c. e alla L. n. 890 del 1982, art. 3” e nella “mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica (cosiddetta CAN)”, “anche se (…) comporta, in quanto eseguita nel rispetto del citato codice postale, uno scostamento rispetto all’ordinario procedimento notificatorio a mezzo del servizio postale ai sensi della L. n. 890 del 1982, non di meno (…) è comunque garantita al destinatario un’effettiva possibilità di conoscenza della cartella di pagamento notificatagli ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1”. ha precisato il Giudice delle leggi che, seppure non sia prevista la relata di notifica, nella notificazione “diretta” ai sensi del citato art. 26 “c’è il completamento dell’avviso di ricevimento da parte dell’operatore postale che, in forma sintetica, fornisce la prova dell’avvenuta consegna del plico al destinatario o al consegnatario legittimato a riceverlo”. Inoltre, la mancata previsione di un obbligo di comunicazione di avvenuta notifica (ma solo nel caso in cui il plico sia consegnato dall’operatore postale direttamente al destinatario o a persona di famiglia o addetto alla casa, all’ufficio o all’azienda o al portiere), “non costituisce nella disciplina della notificazione”, nonostante tale “obbligo vale indubbiamente a rafforzare il diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost., commi 1 e 2) del destinatario dell’atto”, “una condizione indefettibile della tutela costituzionalmente necessaria di tale, pur fondamentale, diritto”.

7. In senso analogo si sono recentemente espresse anche le Sezioni unite di questa Corte nella sentenza n. 10012 del 2021 che, sempre in tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite servizio postale, ha ritenuto necessario l’invio della raccomandata informativa soltanto nelle ipotesi – nella specie non ricorrenti – di “irreperibilità o rifiuto di ricevere” l’atto da parte del destinatario e delle persone addette alla casa, precisando che, ai fini della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio, la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), ritenendo a tal fine insufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della stessa.

8. Il primo motivo, al cui esame deve quindi passarsi, è fondato nei limiti di cui appresso si dirà.

9. Il Supremo consesso di questa Corte ha affermato, nella sentenza n. 23397 del 2016 (seguita da numerose pronunce delle Sezioni semplici, tra cui Cass. n. 9906, n. 11800 e n. 12200 del 2018), che “Il principio, di carattere generale, secondo cui la scadenza del termine perentorio sancito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo, o comunque di riscossione coattiva, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito, ma non anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c., si applica con riguardo a tutti gli atti – in ogni modo denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali, ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, trìbutarie ed extratributarie, nonchè di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali, nonchè delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Pertanto, ove per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo”.

10. Secondo la citata pronuncia, quindi, la mancata impugnazione degli atti impositivi/esecutivi rende irretrattabili i crediti d’imposta, senza incidere sul relativo termine prescrizionale, che è quello ordinario decennale salvo che non sia per essi espressamente previsto ex lege un termine inferiore; ne consegue che nel caso di specie la CTR ha correttamente interpretato tale principio ritenendo soggetto a prescrizione decennale tutti i crediti erariali, nella specie IVA (cfr. Cass. n. 8256 del 2019, non massimata, e la giurisprudenza ivi richiamata), IRPEF (Cass. n. 9906 del 2018) ed IRAP (Cass. n. 1543 del 2018), il cui termine prescrizionale è chiaramente decennale.

11. A diversa conclusione, invece, deve pervenirsi con riferimento agli interessi e alle sanzioni collegati ai predetti tributi, il cui termine di prescrizione, diversamente da quanto risulta dal tenore dell’impugnata sentenza, è quello quinquennale.

12. Invero il D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, comma 3, stabilisce che “il diritto alla riscossione della sanzione irrogata si prescrive nel termine di cinque anni”. A sua volta l’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4, prevede che “si prescrivono in cinque anni: (…) gli interessi e, in generale, tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”. Orbene, questa Corte ha, sul punto, avuto modo di puntualizzare che “il diritto alla riscossione delle sanzioni amministrative pecuniarie previste per la violazione di norme tributarie, derivante da sentenza passata in giudicato, si prescrive entro il termine di dieci anni, per diretta applicazione dell’art. 2953 c.c., che disciplina specificamente ed in via generale la cosiddetta “actio iudicati”, mentre, se la definitività della sanzione non deriva da un provvedimento giurisdizionale irrevocabile”, come nel caso di specie, “vale il termine di prescrizione di cinque anni, previsto dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 20, atteso che il termine di prescrizione entro il quale deve essere fatta valere l’obbligazione tributaria principale e quella accessoria relativa alle sanzioni non può che essere di tipo unitario” nell’ipotesi di esistenza del giudicato (cfr. Cass., Sez. U., n. 25790 del 2009; conf. Cass. n. 5837 del 2011; Cass. n. 5577 del 2019). E’ stato, altresì, precisato in materia di interessi dovuti per il ritardo nell’esazione dei tributi che il relativo credito, integrando un’obbligazione autonoma rispetto al debito principale e suscettibile di autonome vicende, rimane sottoposto al proprio termine di prescrizione quinquennale fissato dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4 (Cass. n. 30901 del 2019; Cass. n. 14049 del 2006; v. anche Cass. n. 12740 del 2020, con riferimento al termine quinquennale di prescrizione sia delle sanzioni che degli interessi).

13. Conclusivamente, quindi, il primo motivo di ricorso va rigettato mentre va accolto il secondo limitatamente agli interessi e alle sanzioni, con cassazione della sentenza impugnata e rinvio alla CTR territorialmente competente che, attenendosi ai suesposti principi giurisprudenziali, provvederà a verificare il compimento del termine di prescrizione quinquennale con esclusivo riferimento alle sanzioni e agli interessi applicati alle otto cartelle di pagamento impugnate, nonchè alla regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso nei termini di cui in motivazione, rigetta il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 14 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 novembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 08/09/2021) 23/11/2021, n. 36215

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STALLA Giacomo M. – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. CIRESE Marina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20953/2016 proposto da:

Equitalia Servizi Di Riscossione Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, Piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Fuschino Mario;

– ricorrente –

contro

Eta Estrusione Tecnologie Avanzate Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma V. Panama 74 presso lo studio dell’avvocato Iacobelli Gianni Emilio, rappresentato e difeso dall’avvocato Nebbia Giuseppe;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Equitalia Servizi Di Riscossione Spa, Data pubblicazione 23/11/2021 – intimata –

avverso la sentenza n. 112/2016 della COMM. TRIB. REG. MOLISE, depositata il 23/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/09/2021 dal consigliere Dott. MARINA CIRESE.

Svolgimento del processo
Estrusione Tecnologie Avanzate s.p.a. proponeva ricorso avverso l’iscrizione ipotecaria effettuata dall’Agente della Riscossione Equitalia Polis s.p.a. su beni di proprietà della società a fronte di un credito pari ad Euro 8.055.353,97, deducendo la nullità dell’atto per inesistenza della notifica, essendo stato l’avviso comunicato a mezzo raccomandata e non già con le forme previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60.

La CTP di Isernia con sentenza in data 29.12.2011 accoglieva il ricorso dichiarando l’inesistenza dell’atto, atteso che la notifica non era stata effettuata ritualmente, in assenza di relata di notifica, e rigettava la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c..

Interposto appello avverso detta pronuncia da parte di Equitalia Polis s.p.a., all’esito del giudizio in cui la società contribuente proponeva ricorso incidentale, la CTR del Molise, con sentenza in data 23.2.2016, rigettava entrambi gli appelli ritenendo che la notifica dell’iscrizione ipotecaria potesse avvenire solo mediante le forme di cui agli artt. 137 e ss. c.p.c. e che il comportamento dell’Agente della Riscossione non potesse essere connotato da colpa grave.

Avverso detta pronuncia proponeva ricorso per cassazione articolato in due motivi l’Agente per la riscossione. Parte intimata resisteva con controricorso e proponeva altresì ricorso incidentale articolato in due motivi.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso principale, rubricato “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60”, parte ricorrente deduceva l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto inesistente la notifica dell’avviso di iscrizione ipotecaria, in quanto atto non direttamente notificabile dall’Agente per la riscossione a mezzo del servizio postale secondo la procedura di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60.

2. Con il secondo motivo di ricorso principale rubricato “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 156 c.p.c., comma 3”, parte ricorrente deduceva che erroneamente la sentenza impugnata aveva ritenuto la notifica inesistente invece che nulla, con conseguente impossibilità di applicare l’art. 156 c.p.c., comma 3.

Va rilevato preliminarmente che la società contribuente nel controricorso ha rappresentato che l’ipoteca per cui è processo è stata integralmente cancellata da Equitalia Polis in data (OMISSIS) a seguito di diffida stragiudiziale del (OMISSIS), concludendo pertanto che sarebbe venuto meno l’interesse di Equitalia al ricorso ex art. 100 c.p.c. Ritiene tuttavia il Collegio che, a prescindere dalla circostanza che nel fascicolo d’ufficio non vi è alcun documento che attesti l’avvenuta cancellazione dell’ipoteca, permane in capo all’odierno ricorrente l’interesse ad impugnare.

Il principio contenuto nell’art. 100 c.p.c., secondo il quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario avervi interesse, si applica anche al giudizio di impugnazione, in cui l’interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di essa va desunto dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non può consistere nella sola correzione della motivazione della sentenza impugnata ovvero di una sua parte (Cassazione civile sez. II, 05/02/2020, n. 2670; Conforme a Cass. 27 gennaio 2012 n. 1236). Non è pertanto sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata e che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 12637 del 19/05/2008; Cass. Civ. Sez. Lav., 23.5.2008, n. 13373).

Nella specie l’avvenuta cancellazione dell’iscrizione ipotecaria non fa di per sè venir meno l’interesse del concessionario per la riscossione all’accertamento della legittimità dell’iscrizione ipotecaria, tanto più in presenza di una domanda risarcitoria della controparte che si assume basata proprio sulla contestazione di questa legittimità anche con riguardo alla fase dell’iscrizione.

Passando quindi ad esaminare il ricorso principale, il primo motivo è fondato.

La Suprema Corte – con sentenza della Sezione tributaria n. 16949/2014 – ha ribadito che la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica, rispondendo tale soluzione alla previsione di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, che prescrive altresì l’onere per il concessionario di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione di notifica o l’avviso di ricevimento, con l’obbligo di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione (vedi Cass. n. 9240/2019).

Quando il predetto ufficio si avvale di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598/2010; n. 911/2012; n. 19771/2013; 22151 del 2013; n. 16949/2014; n. 14146/2014; Cass. n. 3254/2016; 7184/2016; Cass. n. 10232/2016; n. 12083 del 2016 Cass. n. 14501/2016, Cass. n. 1304/2017; n. 704/2017; n. 19795 e n. 14501/2017; n. 8293/2018 v. anche Corte costituzionale del 23 luglio 2018 n. 175 che, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito – ha affermato la legittimità della notificazione diretta, da parte dell’agente della riscossione, della cartella di pagamento mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento).

Da tale impostazione, la stessa Corte fa discendere la conseguenza che, in tutti i casi di notifica postale diretta di un atto tributario, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento, e quindi in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico; l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione della notifica, anche laddove eseguita mediante consegna a persona diversa dal diretto interessato, ma comunque abilitata alla ricezione per conto di questi, si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal consegnatario.

Tale principio reiteratamente affermato da questa Corte con riguardo alla notifica delle cartelle esattoriali, si è ritenuto applicabile anche alla notifica degli avvisi di iscrizione ipotecaria (Cass. n. 21663 del 2015), alla cui stregua detta notifica può essere effettuata anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Ciò, in quanto il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, prevede una modalità di notifica integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva di soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di una apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantire, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario dell’atto. Tanto trova implicita conferma nel citato art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione (vedi Cass., Sez. 5, n. 17248/17).

Il secondo motivo del ricorso principale è assorbito.

Passando alla disamina del ricorso incidentale, lo stesso si articola in due motivi.

3. Con il primo motivo, rubricato “In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c.”, la società contribuente censurava la sentenza impugnata che negava la sussistenza dei presupposti ex art. 96 c.p.c., comma 2, atteso che l’agente della riscossione ha proceduto all’iscrizione dell’ipoteca in assenza di efficacia del titolo che era stato sospeso ed ha resistito nel processo per colpa grave.

4. Con il secondo motivo, rubricato “In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546, del 1992, art. 15, degli art. 91 e 92 c.p.c. nonchè del D.M. Giustizia n. 55 del 2014, la società contribuente deduceva che la CTR ha errato nel compensare le spese di lite nella misura del 50% ed ha errato nell’applicazione della tabella dei compensi.

Il primo motivo è infondato.

Parte ricorrente assume la violazione dell’art. 96 c.p.c. in quanto sussisterebbe la colpa grave dell’agente della riscossione nell’iscrivere l’ipoteca, per 16 milioni di Euro, nonostante la sospensione giudiziale della cartella prodromica, e nel resistere in giudizio senza provvedere (se non in data 27 Febbraio 2012 a seguito di ulteriore diffida stragiudiziale) alla cancellazione dell’iscrizione ipotecaria stessa. Tale comportamento avrebbe causato gravissimi e documentati danni alla società che si era vista negare vari finanziamenti bancari proprio per iscrizione pregiudizievole.

Va ritenuto tuttavia che, come recentemente affermato da questa Corte (Cass., Sez. 3, n. 23661/20), l’iscrizione di ipoteca, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77, sugli immobili del debitore e dei coobbligati al pagamento dell’imposta, non è riconducibile all’ipoteca legale prevista dall’art. 2817 c.c., nè è ad essa assimilabile, mancando un preesistente atto negoziale il cui adempimento il legislatore abbia inteso garantire; essa, peraltro, neppure può accostarsi all’ipoteca giudiziale disciplinata dall’art. 2818 c.c., con lo scopo di rafforzare l’adempimento di una generica obbligazione pecuniaria ed avente titolo in un provvedimento del giudice, in quanto quella in esame si fonda su di un provvedimento amministrativo” (Cass. 7/03/2016, n. 4464; v. anche Cass., ord., 20/12/2017, n. 30569).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’iscrizione ipotecaria prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77, non costituisce atto dell’espropriazione forzata ma va riferita ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria (Cass., S.U.., 18/09/2019) ed è atto solo preordinato all’esecuzione, avente funzione di garanzia e di cautela (Cass. 30/05/2018, n. 13618).

Ne consegue l’inapplicabilità dell’art. 96 c.p.c., comma 2, che fa espresso riferimento al caso in cui il giudice accerta l’inesistenza del diritto per cui è iscritta ipoteca giudiziale oppure è iniziata o compiuta l’esecuzione forzata.

Il secondo motivo di ricorso incidentale è assorbito dall’accoglimento del primo motivo del ricorso principale.

In conclusione, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo motivo e rigettato il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR del Molise, in diversa composizione, per la disamina delle altre questioni di legittimità della cartella ed a cui demanda altresì la regolamentazione delle spese di lite.

P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo, rigettato il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio alla CTR del Molise, in diversa composizione, cui demanda altresì la regolamentazione delle spese di lite;

dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, del doppio contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale effettuata da remoto, il 8 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2021


Il dipendente che va in pensione può monetizzare le ferie non godute se non ha potuto fruirle per esigenze di servizio

Con la sentenza n. 7640/2021, il Consiglio di Stato ha affermato che il dipendente che non ha fruito di ferie residue alla data di collocamento a riposo per raggiunti limiti di età ha diritto alla monetizzazione quando, in tempo utile rispetto alla cessazione dal servizio, abbia presentato istanze per la fruizione, ma siano state respinte dall’amministrazione per esigenze di servizio.
La vicenda, che riguarda un magistrato in pensione, ha un impatto rilevante su tutto il personale della pubblica amministrazione perché offre un’apertura delle disposizioni applicative, in ordine alla materia della monetizzazione delle ferie, fornite a suo tempo dai dicasteri competenti (da ultimo il parere della Funzione pubblica DFP n.76251/2020).
Il ricorrente chiedeva al proprio datore di lavoro la monetizzazione dei giorni di congedo ordinario non fruiti prima del suo collocamento a riposo per limiti di età (poco meno di cinquanta giorni), sul fondamento che egli aveva chiesto di poterne fruire ma si era visto sempre opporre dinieghi motivati da esigenze di servizio.
Il ministero della Giustizia ha negato la richiesta avanzata dal dipendente sulla base del tenore letterale dell’articolo 5, comma 8, del decreto legge 95/2012 (Spending review), dei pareri resi allora dal Dipartimento della Funzione pubblica, assentiti anche dalla Ragioneria generale dello Stato, nonché della linea interpretativa espressa dalla Corte costituzionale con sentenza 6 maggio 2016 n. 95.
La vicenda è arrivata sui tavoli della magistratura amministrativa. La pronuncia di primo grado ha accolto il ricorso presentato dal dipendente, ritenendo che la sopravvenuta impossibilità alla fruizione delle ferie, conseguente al collocamento a riposo d’ufficio, non fosse imputabile al dipendente. Così il dicastero ha promosso ricorso al Consiglio di Stato.
Per il Consiglio di Stato non è in contestazione l’interpretazione data dalla Corte costituzionale del divieto di monetizzazione delle ferie non godute, secondo cui esso si applica quando l’impossibilità a fruire delle ferie è correlata a un evento prevedibile incidente sul rapporto di impiego, come nel caso di collocamento a riposo d’ufficio, il quale consente di «programmare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore».
Nel caso di specie, la situazione è diversa. L’interessato, come è emerso dal dibattito processuale, si è attivato per fruire delle ferie residue, ma le sue istanze sono state rigettate dal datore di lavoro per ragioni di servizio.
Pertanto, si legge nella sentenza, il datore di lavoro pubblico che non abbia concesso il godimento delle ferie a causa del periodo lungo e continuativo richiesto e/o per l’assunzione di un incarico particolare in ragione di servizio, non può imputare al dipendente le conseguenze del rigetto, così come non può pretendere che il residuo ferie sia distribuito su un arco temporale più ampio, in ragione della durata del rapporto di lavoro.
Il dipendente che si sia attivato in tempi congrui e idonei per fruire delle ferie residue, tenendo presente la conosciuta data del collocamento a riposo, ha adempiuto a quanto di propria competenza; pertanto, se per ragioni organizzative e funzionali gli è stata negata l’astensione dal lavoro, gli compete il corrispondente economico dei giorni di ferie residui e non goduti


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/06/2021) 19/11/2021, n. 35641

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 4796/2015 R.G. proposto da:

P.A., in proprio e in qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Emanuele Coglitore e dall’avv. Mariagrazia Bruzzone, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3429/20/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia depositata in data 25 giugno 2014;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 giugno 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva accolto il ricorso presentato da P.A., in proprio e quale legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, avverso l’avviso di accertamento con il quale era stato rideterminato, con metodo induttivo, il reddito di impresa, per l’anno d’imposta 2006.

2. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza in epigrafe indicata, accolse l’impugnazione dell’Ufficio finanziario.

Osservò, in particolare, che:

a) risultava accertata la partecipazione del contribuente nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, quantomeno come legale rappresentante di fatto e sulla base del regime di responsabilità per le obbligazioni, previsto dall’art. 38 c.c.;

b) nessuna prova era stata fornita, per far ritenere la sua estraneità all’attività associativa, in ordine alla cessazione dell’attività ed alla cancellazione della associazione;

c) la notifica dell’avviso di accertamento era valida perchè legittimamente effettuata a mezzo servizio postale, con l’espletamento di tutte le formalità previste;

d) il riferimento dell’avviso di accertamento ad altri atti doveva ritenersi rituale, poichè ne era riprodotto il contenuto essenziale;

e) era rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione l’avvio del contraddittorio preventivo con il contribuente, in presenza di elementi utili e sufficienti, a propria disposizione, per l’accertamento della violazione contestata;

f) l’accertamento risultava legittimamente effettuato “in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno 2006 rispetto ai parametri di mercato”; mentre appariva “del tutto artefatto l’assunto della perdita dell’archivio contabile per lavori di demolizione eseguiti nella struttura e senza che alcuno dei responsabili avesse provveduto alla salvaguardia della documentazione”;

g) le operazioni di sponsorizzazione descritte nell’avviso impugnato erano state poste in essere al solo scopo di consentire alle imprese intestatarie delle fatture di beneficiare della deducibilità dei costi relativi, ai fini delle imposte dirette e dell’Irap, nonchè di detrarre la relativa I.V.A.;

e) a fronte di dichiarazione omessa per l’anno d’imposta in contestazione, l’Ufficio aveva determinato ricavi per operazioni inesistenti nella misura contestata, basandosi su presunzioni gravi, precise e concordanti rispetto alle quali nessuna prova contraria aveva fornito il contribuente.

3. Contro la suddetta decisione d’appello ha proposto ricorso per cassazione P.A., con cinque motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate, ritualmente intimata, ha depositato “atto di costituzione”.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e della L. n. 4 del 1929, art. 24, anche in relazione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, ed agli artt. 3, 53 e 97 Cost..

Lamenta che per il periodo d’imposta 2006 la fase istruttoria si era esaurita nell’invio di un questionario e nella successiva emissione dell’avviso di accertamento, in assenza di preventiva consegna di un verbale di chiusura delle operazioni di controllo, in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, che, al paragrafo 2, stabilisce il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento che possa arrecarle pregiudizio.

Sostiene, altresì, che non si pone in sintonia con il diritto dell’Unione una interpretazione che escluda l’applicabilità della L. n. 212 del 2000, rt. 12, comma 7, ai procedimenti di verifica “a tavolino” e che i giudici di appello sarebbero incorsi nei censurati vizi laddove hanno ritenuto insussistente la violazione del diritto al contraddittorio endoprocedimentale, perchè, ove fosse stato consegnato un processo verbale di chiusura delle indagini da parte degli organi di controllo, avrebbe potuto prospettare, prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano meramente pretestuose.

Con la memoria ex art. 378 c.p.c., il ricorrente, nell’insistere per l’accoglimento del mezzo di ricorso, prendendo le mosse dalla sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 24823 del 9 dicembre 2015, ha dedotto che l’avviso di accertamento afferisce anche all’I.V.A. e che, per quanto concerne la pretesa ai fini Ires e Irap, l’ordinamento interno deve comunque rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione Europea, con la conseguenza che l’interpretazione fornita dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite che giunge a limitare la piena tutela del diritto al contraddittorio preventivo, in dipendenza della natura non armonizzata dei tributi pretesi, implica una irragionevole disparità di trattamento, contraria al divieto delle cd. “discriminazioni a rovescio”, ossia “situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, e delle sue imprese, che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto Europeo”; ha, quindi, sollecitato una rimeditazione della questione, previa, se del caso, rimessione al vaglio delle Sezioni Unite.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55.

Fin dal ricorso introduttivo aveva eccepito l’illegittimità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, in quanto venivano richiamati atti non allegati e non conosciuti, neppure prodotti nel corso del giudizio di merito da parte dell’Agenzia delle entrate, ma i giudici di appello avevano assunto apoditticamente che il riferimento ad altri atti doveva ritenersi rituale, perchè ne era stato riprodotto il contenuto essenziale.

Evidenzia pure che, in violazione dell’art. 2697 c.c., i giudici di merito avevano accolto il gravame, ritenendo fondata nel merito la pretesa impositiva ed assolto l’onere probatorio da parte dell’Ufficio finanziario, senza tenere conto della mancata produzione in giudizio, da parte dell’Agenzia delle entrate, dei documenti oggetto di contestazione e, tra questi, delle fatture richiamate dalla stessa sentenza impugnata. In tal modo, i giudici regionali, ad avviso del ricorrente, avevano finito per avallare un’inferenza presuntiva non basata su fatti certi, in contrasto con l’art. 2727 c.c., che esige la ricorrenza di un “fatto noto” per fondare la prova per presunzioni.

Ad avviso del ricorrente era altresì ravvisabile la violazione dell’art. 2697 c.c., perchè si era ritenuto che l’onere di provare l’estraneità all’attività dell’associazione incombesse sul contribuente e perchè si era affermato che era emersa la sua partecipazione nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, nonostante l’assoluta mancanza di prove.

3. Con il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando che i giudici di appello hanno omesso di pronunciarsi sul motivo, dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con il quale era stata eccepita l’illegittimità dell’atto impositivo in quanto rivolto ad ente non più esistente, nonostante l’Agenzia delle entrate fosse a conoscenza dell’intervenuta cessazione dell’attività, nonchè sull’ulteriore motivo di intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva per il periodo d’imposta 2005. Nessun riferimento era, peraltro, contenuto in sentenza con riguardo all’altro motivo con il quale era stato contestato che l’associazione, essendo sportiva dilettantistica, aveva scelto il regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991.

4. Con il quarto motivo il contribuente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, nonchè dell’art. 137 c.p.c..

Rileva che nel giudizio di merito aveva eccepito la giuridica inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento, poichè mancava nella specie ogni intermediazione dell’agente di notificazione tra l’autore dell’atto ed il suo destinatario, ferma restando l’inoperatività della sanatoria del vizio di notificazione, stante l’intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva al momento della proposizione del ricorso.

5. Con il quinto motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e art. 11, comma 2, nonchè dell’art. 75 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – ribadisce che in secondo grado aveva preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello, in quanto non sottoscritto dal direttore dell’Ufficio, ma dal Capo Team ( C.A.) senza produzione di delega; inoltre aveva prodotto estratto del sito internet dell’Agenzia delle entrate dal quale non risultava che la predetta persona rivestisse la qualifica dirigenziale.

6. Il primo motivo è infondato.

6.1. Occorre premettere, in primo luogo, che nella vicenda in esame l’Amministrazione finanziaria non ha compiuto una verifica fiscale presso l’Associazione Calcio Mottese. L’avviso di accertamento, come sottolineato dallo stesso ricorrente, è stato adottato all’esito dell’invio di un questionario, sicchè la ripresa fiscale è riconducibile ad una ipotesi di accertamento cd. “a tavolino”, rispetto al quale è legittimo, anche ai fini del contraddittorio (in particolare per le imposte dirette), che il primo atto portato alla conoscenza del contribuente sia lo stesso avviso (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823).

Già da tale fatto deriva l’insussistenza di un obbligo generalizzato di redazione del processo verbale di constatazione, conclusione che questa Corte, del resto, ha ripetutamente ribadito, sottolineando che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione (Cass., sez. 5, 27/04/2018, n. 16546; Cass., sez. 5, 8/05/2019, n. 12094).

In ogni caso, non ha rilievo il richiamo alla L. n. 4 del 1929, art. 24, che, secondo la prospettazione del ricorrente, imporrebbe sempre l’adozione di un processo verbale con il quale siano contestate le violazioni finanziarie, avendo questa Corte precisato che “in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di I.V.A.), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. n. 4 del 1929, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento” (Cass., sez. 5, 11/12/2013, n. 27711; Cass., sez. 5, 29/12/2017, n. 31120), con la conseguenza che la redazione di un processo verbale di constatazione non è necessaria per rendere legittimo un successivo avviso di accertamento perchè è in esso che si esterna ciò che si è constatato.

6.2. E’ insegnamento di questa Corte che “Le garanzie procedimentali di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 6 e art. 12, comma 7, trovano applicazione solo al processo verbale di constatazione redatto a chiusura di operazioni di verifica condotte dagli organi dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali e non anche alle verifiche svolte a tavolino, ovvero senza accesso ai locali anzidetti” (Cass., sez. 6-5, 8/02/2017, n. 3408; Cass., sez. 5, 12/02/2014, n. 3142; Cass., sez. 6-5, 13/06/2014, n. 13588, la quale richiama la sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 18184 del 2013; Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823), ossia esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ciò, peraltro, indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non abbia comportato constatazione di violazioni.

6.3. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823 del 2015, hanno chiarito che “differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Sulla specifica questione la giurisprudenza di questa Corte non registra sentenze dissonanti, tanto che la pronuncia delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015 è stata seguita da molte altre conformi (ex multis, Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283; Cass., sez. 6-5, 25/01/2017, n. 1969; Cass., sez. 65, 14/03/2018, n. 6219; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. 6-5, 29/10/2018, n. 27421; Cass., sez. 5, 8/10/2020, n. 21695; Cass., sez. 5, 6/05/2021, n. 11913; Cass., sez. 5, 15/07/2021, n. 20157).

6.4. Ciò posto, vanno disattesi i dubbi sollevati dai ricorrenti in ordine alla legittimità della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (come interpretato dalla su menzionata decisione delle Sezioni unite n. 24823/2015), per contrasto con la normativa comunitaria ed i principi sanciti dalla Carta costituzionale.

Invero, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza citata (n. 24823 del 2015), il dato testuale della L. n. 212 del 2000, detto art. 12, comma 7, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole “verifiche in loco”, è da ritenersi “non irragionevole”, in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”.

Siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica (“in loco” e “a tavolino”), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza della ipotizzata incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720). Con riferimento all’art. 3 Cost., deve parimenti escludersi una questione di costituzionalità, per la duplicità di trattamento giuridico tra “tributi armonizzati” e “tributi non armonizzati”, atteso che, come viene evidenziato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contraddittorio procedimentale.

Del resto, poichè il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’I.V.A., non può ritenersi che una soluzione in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia I.V.A., diversa da quella espressa per i tributi diretti, crei un vulnus al principio di non discriminazione sul versante comunitario, nè a quello della ragionevolezza sul piano interno (cfr. Corte di Giustizia, 17 marzo 2007, causa C-35/05; Cass., sez. 5, 27/09/2013, n. 22132; Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720).

6.5. Tale assetto risulta, dunque, coerente sia con i principi costituzionali che con la normativa comunitaria che risulta garantita in ambito giurisdizionale attraverso la cd. “prova di resistenza” di cui al principio indicato dalle Sezioni unite con la decisione n. 24823 del 2015, attraverso la verifica delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato ed ancora che “l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (in senso conforme, anche Cass., sez. 6-5, 18/03/2016, n. 5502).

Non si ravvisano, dunque, ragioni per discostarsi dai principi sopra enunciati e per rimettere nuovamente la questione all’esame delle Sezioni Unite.

6.6. Nel caso di specie, alla stregua di quanto sopra esposto, il contraddittorio endoprocedimentale invocato non trova applicazione quanto alle imposte dirette, dal momento che non risulta dalla lettura del ricorso e della sentenza che sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale dell’Associazione.

In relazione alla ripresa I.V.A., a cui pure si riferisce l’avviso di accertamento, l’obbligo del contraddittorio in linea di principio sussiste, ma questo Collegio deve rilevare che il contribuente non ha assolto correttamente alla c.d. prova di resistenza, in quanto, pur richiamando in ricorso le censure svolte con il ricorso introduttivo, ha omesso di indicare le specifiche circostanze che avrebbero rappresentato se fosse stato promosso dall’Ufficio il contraddittorio nei suoi confronti.

Avendo piuttosto il contribuente genericamente affermato che se gli fosse stato consegnato un processo verbale a chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo avrebbe potuto prospettare, sin dalla fase istruttoria e prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano pretestuose, deve escludersi che lo stesso abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbero potuto far valere, sicchè, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, (Cass., sez. 5, 23/01/2020, n. 1505; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. un., n. 24823 del 2015, cit.), la sentenza impugnata va esente dalle censure ad essa rivolte.

7. Infondato è il terzo motivo, che va esaminato con priorità perchè concernente un error in procedendo, in quanto gli specifici motivi di gravame formulati nel giudizio di merito (illegittimità dell’atto impositivo perchè rivolto ad ente non più esistente, decadenza dell’Amministrazione dall’esercizio della funzione impositiva per l’anno d’imposta 2005, assoggettamento dell’Associazione Sportiva dilettantistica al regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991), sui quali la C.T.R. non si è espressamente pronunciata, devono intendersi implicitamente disattesi dai giudici di appello.

Non ricorre, infatti, il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto. (Cass., sez. 6 – 1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191).

8. Anche il quarto motivo deve essere respinto.

8.1. Dalla illustrazione della censura emerge che, nel caso di specie, la notifica è avvenuta direttamente a mezzo del servizio postale.

Costituisce ormai principio consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta dell’atto impositivo, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (ex multis, Cass., sez. 5, 4/04/2018, n. 8293) e, pertanto, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l’avviso di accertamento senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890 attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c..

Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto, pervenuto all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (cfr. Cass., sez. 5, 6/06/2012, n. 9111).

8.2. La L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, modificando la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, ha aggiunto, per quanto qui interessa, la previsione che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente “può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982. A decorrere, pertanto, dal 15 maggio 1998 (data di entrata in vigore della citata L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere “direttamente” alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale (Cass., sez. 5, 10/06/2008, n. 15284). Ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata. In caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto, il regolamento postale (nel caso di specie, la circolare n. 70/2001 oggetto: poste – condizioni generali del servizio postale – D.M. 9 aprile 2001, su g.u. n. 95 del 24.4.2001), contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limita a prevedere, all’art. 32, che, per gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate), “in caso di assenza all’indirizzo indicato, il destinatario e le altre persone abilitate a ricevere l’invio” possono “ritirarlo presso l’ufficio postale di distribuzione, entro i termini di giacenza previsti dall’art. 49”.

8.3. Come chiarito da questa Corte, “in tema di notificazione dell’atto impositivo effettuata a mezzo posta direttamente dall’Ufficio finanziario, al fine di garantire il bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, deve farsi applicazione in via analogica della regola dettata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore, decorrendo da tale momento il termine per l’impugnazione dell’atto notificato” (Cass., sez. 6- 5, 2/02/2016, n. 2047), in quanto il regolamento del servizio di recapito non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza (Cass., sez. 5, 28/05/2020, n. 10131; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642).

La Corte costituzionale, con la sentenza del 23 settembre 1998, n. 346, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui non prevedeche, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento. Tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale riguarda la diversa modalità di notificazione a mezzo posta curata dall’Ufficiale Giudiziario, alla quale si applica la disciplina di cui alla L. n. 890 del 1982, compreso la norma in oggetto (Cass., sez. 5, 28/07/2010, n. 17598, che ha confermato la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva ritenuto valida la notifica dell’invito al contraddittorio endoprocedimentale ai fini dell’accertamento con adesione del D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, effettuata con raccomandata, non ritirata presso l’ufficio postale, senza che ad essa fosse seguito l’invio della raccomandata informativa previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, così come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1998).

Il differente iter notificatorio si spiega con la diversità delle fattispecie poste a confronto, comportando la notifica diretta a mezzo del servizio postale un procedimento più agile e semplificato, a tutela delle ragioni del fisco di preminente interesse pubblico. Come evidenziato di recente dalla Corte costituzionale (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175, che ha ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, nonostante la mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica – CAN – e l’inapplicabilità della L. n. 890 del 1982, art. 7, come modificato con la L. n. 31 del 2008), il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque garantito dal fatto che colui, che assuma in concreto la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile, può chiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove comprovi, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, la sussistenza di detta situazione.

8.4. La C.T.R., concludendo che la notifica degli avvisi di accertamento, effettuata a mezzo del servizio postale è valida perchè sono state espletate tutte le formalità previste, non è incorsa nelle denunciate violazioni di legge.

9. Il quinto motivo è infondato.

9.1. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio, nelle controversie di competenza delle commissioni tributarie, all’ufficio del Ministero delle finanze – oggi ufficio locale dell’agenzia fiscale- nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore (Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 6338) o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi per ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze (Cass., sez. 5, 28/05/2008, n. 13908; Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 3058), senza necessità di speciale procura.

Qualora non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, le questioni relative agli effettivi poteri del firmatario dell’appello si possono porre solo in chiave di non appartenenza del firmatario all’ufficio appellante o di usurpazione di tali poteri, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà.

9.2. Tale interpretazione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138) è conforme al principio di effettività della tutela giurisdizionale, più volte richiamato anche dalla Corte costituzionale – oltre che da questa suprema Corte (Cass., Sez. U, 14/02/2006, nn. 3116 e 3118; Cass., sez. 5, 25/10/2006, n. 22889)- che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità.

Questa Corte ha, altresì, affermato che la legittimazione processuale dell’Ufficio locale trova fondamento nella disciplina regolatrice della materia, costituita dal D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 2, che ha istituito le Agenzie Fiscali, rimandando allo Statuto la fissazione dei principi generali relativi all’organizzazione ed al funzionamento dell’Agenzia e nello Statuto e, poi, nel Regolamento di amministrazione delle Agenzie delle Entrate, che hanno stabilito che gli Uffici locali dell’Agenzia corrispondono ai preesistenti Uffici delle Entrate e che agli Uffici locali sono attribuite le funzioni operative ed, in particolare, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso; la legittimazione dell’Ufficio locale trae fondamento dalla norma statutaria delegata – Reg., art. 5, comma 1 -, esistente per effetto della norma delegante D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1.

Deve, quindi, ritenersi ammissibile l’atto d’appello proposto dal competente ufficio dell’agenzia delle entrate, recante in calce la firma di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, non essendo a tal fine necessaria l’esibizione della delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado (Cass., sez. 5, 21/03/2014, n. 6691; Cass., sez. 6-5, 26/07/2016, n. 15470; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27570; Cass., sez. 5, 31/01/2019, n. 2901; Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138).

9.3. Nel caso di specie, il ricorrente ha eccepito che il Capo Team che ha sottoscritto l’atto di appello non rivestisse la qualifica di dirigente, ma, poichè non è in contestazione l’appartenenza del sottoscrittore all’Ufficio finanziario, la doglianza, in applicazione dei principi su esposti, va respinta.

10. Il secondo motivo è infondato in relazione a tutti i profili di doglianza denunciati.

10.1. Il ricorrente contesta che la C.T.R., ritenendo del tutto legittima la ripresa a tassazione operata per l’anno 2006, non abbia fatto buon governo dei criteri dettati in materia di ripartizione dell’onere della prova, nè delle norme che regolano la prova presuntiva.

Giova, sul punto, precisare che, in ipotesi quale quella di specie di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, i poteri accertativi dell’Ufficio trovano fondamento e disciplina non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nella diversa previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 (accertamento d’ufficio). A tal fine l’Ufficio, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, determina il reddito complessivo del contribuente, con facoltà di ricorso a presunzioni c.d. “supersemplici”, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (da ultimo, Cass., sez. 5, 20/01/2017, n. 1506; Cass., sez. 5, 16/07/2020, n. 15167; Cass., sez. 5, 4/02/2021, n. 2581).

Le argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata non si pongono in contrasto con il principio di diritto innanzi richiamato, dal momento che, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte dell’Associazione sportiva, i giudici di appello hanno ritenuto del tutto corretta la rideterminazione induttiva dei ricavi operata dall’Amministrazione finanziaria, in mancanza di prova dell’esistenza di costi relativi all’attività commerciale, non fornita dal contribuente sul quale gravava il relativo onere, e della assenza di riscontri che potessero supportare l’assunto della perdita dell’archivio contabile in occasione dei lavori di demolizione eseguiti nella struttura.

10.2. La Commissione regionale ha, inoltre, ritenuto provata la partecipazione del ricorrente nelle vicende operative dell’Associazione sportiva non riconosciuta e, quindi, sussistente una sua responsabilità quale legale rappresentante di fatto; l’apprezzamento in fatto svolto dai giudici regionali, non censurato sotto il profilo motivazionale, non può essere rimesso in discussione in questa sede, non essendo ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., che è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 3, 29/05/2018, n. 13395).

10.3. Peraltro, le censure svolte, anche laddove si assume una presunta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., sono sostanzialmente volte a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale rispetto a quella operata dalla C.T.R., non consentita in questa sede. Occorre, sul punto, rammentare che la censura in ordine al corretto utilizzo del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità o contraddittorietà del ragionamento decisorio (Cass., sez. 1, 26/02/2020, n. 5279), sicchè, sotto tale profilo, la doglianza in esame è inammissibile perchè si risolve in una valutazione alternativa degli indizi e del materiale probatorio, in assenza di specifiche deduzioni circa fatti di cui sia stato omesso l’esame e che valgano ad evidenziare l’irrazionalità delle valutazioni espresse nella sentenza impugnata.

11. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.

Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite, in assenza di attività difensiva della Agenzia delle entrate.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/06/2021) 19/11/2021, n. 35640

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 4795/2015 R.G. proposto da:

P.A., in proprio e in qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, e M.G., in proprio e nella qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Emanuele Coglitore e dall’avv. Mariagrazia Bruzzone, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3428/20/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia depositata in data 25 giugno 2014;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 giugno 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva accolto i ricorsi riuniti presentati da P.A. e M.G., in proprio e quali legali rappresentanti della Associazione Calcio Mottese, avverso gli avvisi di accertamento con i quali era stato rideterminato, con metodo induttivo, il reddito di impresa, per l’anno d’imposta 2005, considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007.

2. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza in epigrafe indicata, accolse l’impugnazione.

Osservò, in particolare, che:

a) risultava accertata la partecipazione dei contribuenti nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, quantomeno come legali rappresentanti di fatto e sulla base del regime di responsabilità per le obbligazioni, previsto dall’art. 38 c.c.;

b) nessuna prova era stata fornita, per far ritenere la estraneità dei contribuenti all’attività associativa, in ordine alla cessazione dell’attività ed alla cancellazione della associazione;

c) la notifica degli avvisi di accertamento era valida perchè legittimamente effettuata a mezzo servizio postale, con l’espletamento di tutte le formalità previste;

d) il riferimento dell’avviso di accertamento ad altri atti doveva ritenersi rituale, poichè ne era riprodotto il contenuto essenziale;

e) era rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione l’avvio del contraddittorio preventivo con il contribuente, in presenza di elementi utili e sufficienti, a propria disposizione, per l’accertamento della violazione contestata;

f) l’accertamento risultava “legittimamente effettuato in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno in questione rispetto ai parametri di mercato, mentre appariva del tutto artefatto l’assunto della perdita dell’archivio contabile per lavori di demolizione eseguiti nella struttura e senza che alcuno dei responsabili avesse provveduto alla custodia della documentazione”;

g) le operazioni di sponsorizzazione descritte nell’avviso impugnato erano state poste in essere al solo scopo di consentire alle imprese intestatarie delle fatture di beneficiare della deducibilità dei costi relativi, ai fini delle imposte dirette e dell’Irap, nonchè di detrarre la relativa I.V.A.;

e) a fronte di dichiarazione omessa per l’anno d’imposta in contestazione, l’Ufficio aveva determinato ricavi per operazioni inesistenti nella misura contestata, basandosi su presunzioni gravi, precise e concordanti rispetto alle quali nessuna prova contraria avevano fornito i contribuenti.

3. Contro la suddetta decisione d’appello hanno proposto ricorso per cassazione P.A. e M.G., con sei motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate, ritualmente intimata, ha depositato “atto di costituzione” al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i contribuenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e della L. n. 4 del 1929, art. 24, anche in relazione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, ed agli artt. 3, 53 e 97 Cost..

Lamentano che per il periodo d’imposta 2005 la fase istruttoria si era esaurita nell’invio di un questionario e nella successiva emissione degli avvisi di accertamento, in assenza di preventiva consegna di un verbale di chiusura delle operazioni di controllo, in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, e che un’interpretazione che escluda l’applicabilità del citato art. 12, comma 7, ai procedimenti di verifica cd. “a tavolino” non si pone in sintonia con i principi comunitari.

Con la memoria ex art. 378 c.p.c., i ricorrenti, nell’insistere per l’accoglimento del mezzo di ricorso, prendendo le mosse dalla sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 24823 del 9 dicembre 2015, hanno dedotto che l’avviso di accertamento afferisce anche all’I.V.A. e che, per quanto concerne la pretesa ai fini Ires e Irap, l’ordinamento interno deve comunque rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione Europea, con la conseguenza che l’interpretazione fornita dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite che giunge a limitare la piena tutela del diritto al contraddittorio preventivo, in dipendenza della natura non armonizzata dei tributi pretesi, implica una irragionevole disparità di trattamento, contraria al divieto delle cd. “discriminazioni a rovescio”, ossia “situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, e delle sue imprese, che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto Europeo”; hanno, quindi, sollecitato una rimeditazione della questione, previa, se del caso, rimessione al vaglio delle Sezioni Unite.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 e art. 42, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55 e art. 56, comma 5, nonchè dell’art. 112 c.p.c..

Pur avendo fin dal ricorso introduttivo eccepito l’illegittimità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, in quanto venivano richiamati atti non allegati e non conosciuti, ed in particolare le fatture asseritamente emesse e rinvenute presso la L.D.V. s.r.l. e presso l’impresa individuale Doratura Metalli di S.G., riconducibili agli anni d’imposta 2006 e 2007, i giudici di appello avevano assunto apoditticamente che il riferimento, contenuto nell’atto impositivo, ad altri atti doveva ritenersi rituale, perchè ne era stato riprodotto il contenuto essenziale.

Si dolgono, inoltre, che, in violazione dell’art. 2697 c.c., neppure la C.T.R. ha attribuito rilevanza alla mancata produzione in giudizio, da parte dell’Agenzia delle entrate, delle fatture rinvenute nel corso degli accessi mirati nei confronti della L.D.V. s.r.l. e della impresa individuale Doratura Metalli di S.G.; piuttosto, modificando la motivazione dell’avviso di accertamento, i giudici di appello erano giunti ad affermare che l’accertamento risultava legittimamente effettuato “in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno in questione” (ossia nel 2005), sebbene nell’atto impositivo si facesse riferimento a fatture che avrebbero “concorso alla determinazione della base imponibile ai fini delle II.DD e IVA per gli anni d’imposta 2006 e 2007” – la cui esistenza era sempre stata contestata – non tenendo conto che il reddito d’impresa asseritamente “conseguito” nel 2005 era stato determinato “considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007” ed avallando un’inferenza presuntiva non basata su fatti certi, in contrasto con l’art. 2727 c.c., che esige la ricorrenza di un “fatto noto” per fondare la prova per presunzioni.

3. Con il terzo motivo i contribuenti censurano la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nella parte in cui i giudici di secondo grado hanno affermato che era emersa la loro partecipazione nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, pur a fronte della prova, fornita nel giudizio di merito, della cessazione dell’attività dell’Associazione, intervenuta in data 31 maggio 2011, come da comunicazione inoltrata all’Agenzia delle entrate ed all’Ufficio Siae competente.

4. Con il quarto motivo denunciano la violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando che i giudici di appello avrebbero omesso di pronunciarsi sul motivo, dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con il quale era stata eccepita l’illegittimità dell’atto impositivo in quanto rivolto ad ente non più esistente, nonchè sull’ulteriore motivo di intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva per il periodo d’imposta 2005. Nessun riferimento, secondo i ricorrenti, era peraltro contenuto in sentenza con riguardo all’altro motivo con il quale era stato contestato che l’associazione, essendo sportiva dilettantistica, aveva scelto il regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991.

5. Con il quinto motivo deducono violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, nonchè dell’art. 137 c.p.c..

Nel giudizio di merito avevano eccepito la giuridica inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento, ferma restando l’inoperatività della sanatoria del vizio di notificazione, stante l’intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva al momento della proposizione del ricorso, nel gennaio 2012.

6. Con il sesto motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e art. 11, comma 2, nonchè dell’art. 75 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – ribadiscono che in secondo grado avevano preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello, in quanto non sottoscritto dal direttore dell’Ufficio, ma dal Capo Team ( C.A.) senza produzione di delega; inoltre, avevano prodotto estratto del sito internet dell’Agenzia delle entrate dal quale non risultava che la predetta persona rivestisse la qualifica dirigenziale.

7. Il primo motivo è infondato.

7.1. Occorre premettere, in primo luogo, che nella vicenda in esame l’Amministrazione finanziaria non ha compiuto una verifica fiscale presso l’Associazione Calcio Mottese. L’avviso di accertamento, come sottolineato dagli stessi ricorrenti, è stato adottato all’esito dell’invio di un questionario, sicchè la ripresa fiscale è riconducibile ad una ipotesi di accertamento cd. “a tavolino”, rispetto al quale è legittimo, anche ai fini del contraddittorio (in particolare per le imposte dirette), che il primo atto portato alla conoscenza del contribuente sia lo stesso avviso (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823).

Già da tale fatto deriva l’insussistenza di un obbligo generalizzato di redazione del processo verbale di constatazione, conclusione che questa Corte, del resto, ha ripetutamente ribadito, sottolineando che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione (Cass., sez. 5, 27/04/2018, n. 16546; Cass., sez. 5, 8/05/2019, n. 12094).

In ogni caso, non ha rilievo il richiamo alla L. n. 4 del 1929, art. 24, che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, imporrebbe sempre l’adozione di un processo verbale con il quale siano contestate le violazioni finanziarie, avendo questa Corte precisato che “in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di IVA), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. n. 4 del 1929, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento” (Cass., sez. 5, 11/12/2013, n. 27711; Cass., sez. 5, 29/12/2017, n. 31120), con la conseguenza che la redazione di un processo verbale di constatazione non è necessaria per rendere legittimo un successivo avviso di accertamento perchè è in esso che si esterna ciò che si è constatato.

7.2. E’ insegnamento di questa Corte che “Le garanzie procedimentali di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 6 e art. 12, comma 7, trovano applicazione solo al processo verbale di constatazione redatto a chiusura di operazioni di verifica condotte dagli organi dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali e non anche alle verifiche svolte a tavolino, ovvero senza accesso ai locali anzidetti” (Cass., sez. 6-5, 8/02/2017, n. 3408; Cass., sez. 5, 12/02/2014, n. 3142; Cass., sez. 6-5, 13/06/2014, n. 13588, la quale richiama la sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 18184 del 2013; Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823), ossia esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ciò, peraltro, indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non abbia comportato constatazione di violazioni.

7.3. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823 del 2015, hanno chiarito che “differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Sulla specifica questione la giurisprudenza di questa Corte non registra sentenze dissonanti, tanto che la pronuncia delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015 è stata seguita da molte altre conformi (ex multis, Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283; Cass., sez. 6-5, 25/01/2017, n. 1969; Cass., sez. 65, 14/03/2018, n. 6219; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. 6-5, 29/10/2018, n. 27421; Cass., sez. 5, 8/10/2020, n. 21695; Cass., sez. 5, 6/05/2021, n. 11913; Cass., sez. 5, 15/07/2021, n. 20157).

7.4. Ciò posto, vanno disattesi i dubbi sollevati dai ricorrenti in ordine alla legittimità della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (come interpretato dalla su menzionata decisione delle Sezioni unite n. 24823 del 2015), per contrasto con la normativa comunitaria ed i principi sanciti dalla Carta costituzionale.

Invero, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza citata (n. 24823 del 2015), il dato testuale della L. n. 212 del 2000, detto art. 12, comma 7, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole “verifiche in loco”, è da ritenersi “non irragionevole”, in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”.

Siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica (“in loco” e “a tavolino”), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza della ipotizzata incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720) Con riferimento all’art. 3 Cost., deve parimenti escludersi una questione di costituzionalità, per la duplicità di trattamento giuridico tra “tributi armonizzati” e “tributi non armonizzati”, atteso che, come viene evidenziato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contraddittorio procedimentale.

Del resto, poichè il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’I.V.A., non può ritenersi che una soluzione in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia I.V.A., diversa da quella espressa per i tributi diretti, crei un vulnus al principio di non discriminazione sul versante comunitario, nè a quello della ragionevolezza sul piano interno (cfr. Corte di Giustizia, 17 marzo 2007, causa C-35/05; Cass., sez. 5, 27/09/2013, n. 22132; Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720).

7.5. Tale assetto risulta, dunque, coerente sia con i principi costituzionali che con la normativa comunitaria che risulta garantita in ambito giurisdizionale attraverso la cd. “prova di resistenza” di cui al principio indicato dalle Sezioni unite con la decisione n. 24823 del 2015, attraverso la verifica delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato ed ancora che “l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (in senso conforme, anche Cass., sez. 6-5, 18/03/2016, n. 5502). Non si ravvisano, dunque, ragioni per discostarsi dai principi sopra enunciati e per rimettere nuovamente la questione all’esame delle Sezioni Unite.

7.6. Nel caso di specie, alla stregua di quanto sopra esposto, il contraddittorio endoprocedimentale invocato non trova applicazione quanto alle imposte dirette, dal momento che non risulta dalla lettura del ricorso e della sentenza che sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale dell’Associazione.

In relazione alla ripresa I.V.A., a cui pure si riferisce l’avviso di accertamento, l’obbligo del contraddittorio in linea di principio sussiste, ma questo Collegio deve rilevare che i contribuenti non hanno assolto correttamente alla c.d. prova di resistenza, in quanto, pur richiamando in ricorso le censure svolte con il ricorso introduttivo, hanno omesso di indicare le specifiche circostanze che avrebbero rappresentato se fosse stato promosso dall’Ufficio il contraddittorio nei loro confronti.

Avendo piuttosto i contribuenti genericamente affermato che se fosse stato loro consegnato un processo verbale a chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo avrebbero potuto prospettare, sin dalla fase istruttoria e prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano pretestuose, deve escludersi che essi abbiano assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbero potuto far valere, sicchè, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, (Cass., sez. 5, 23/01/2020, n. 1505; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. un., n. 24823 del 2015, cit.), la sentenza impugnata va esente dalle censure ad essa rivolte.

8. Infondato è il quarto motivo, che va esaminato con priorità perchè concernente un error in procedendo, in quanto gli specifici motivi di gravame formulati nel giudizio di merito (illegittimità dell’atto impositivo perchè rivolto ad ente non più esistente, decadenza dell’Amministrazione dall’esercizio della funzione impositiva per l’anno d’imposta 2005, assoggettamento dell’Associazione Sportiva dilettantistica al regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991), sui quali la C.T.R. non si è espressamente pronunciata, devono intendersi implicitamente disattesi dai giudici di appello.

Non ricorre, infatti, il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto. (Cass., sez. 6 – 1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191).

9. Anche il quinto motivo deve essere respinto.

9.1. Dalla illustrazione della censura emerge che, nel caso di specie, la notifica è avvenuta direttamente a mezzo del servizio postale.

Costituisce ormai principio consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta dell’atto impositivo, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (ex multis, Cass., sez. 5, 4/04/2018, n. 8293) e, pertanto, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l’avviso di accertamento senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890 attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c..

Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto, pervenuto all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (cfr. Cass., sez. 5, 6/06/2012, n. 9111).

9.2. La L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, modificando la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, ha aggiunto, per quanto qui interessa, la previsione che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente “può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982.

A decorrere, pertanto, dal 15 maggio 1998 (data di entrata in vigore della citata L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere “direttamente” alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale (Cass., sez. 5, 10/06/2008, n. 15284). Ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata. In caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto, il regolamento postale (nel caso di specie, la Circolare n. 70 del 2001 oggetto: poste – condizioni generali del servizio postale – D.M. 9 aprile 2001 su G.U. n. 95 del 24.4.2001), contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limita a prevedere, all’art. 32, che, per gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate), “in caso di assenza all’indirizzo indicato, il destinatario e le altre persone abilitate a ricevere l’invio” possono “ritirarlo presso l’ufficio postale di distribuzione, entro i termini di giacenza previsti dall’art. 49”.

9.3. Come chiarito da questa Corte, “in tema di notificazione dell’atto impositivo effettuata a mezzo posta direttamente dall’Ufficio finanziario, al fine di garantire il bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, deve farsi applicazione in via analogica della regola dettata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore, decorrendo da tale momento il termine per l’impugnazione dell’atto notificato” (Cass., sez. 6- 5, 2/02/2016, n. 2047), in quanto il regolamento del servizio di recapito non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza (Cass., sez. 5, 28/05/2020, n. 10131; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642).

La Corte costituzionale, con la sentenza del 23 settembre 1998, n. 346, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento. Tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale riguarda la diversa modalità di notificazione a mezzo posta curata dall’Ufficiale Giudiziario, alla quale si applica la disciplina di cui alla L. n. 890 del 1982, compreso la norma in oggetto (Cass., sez. 5, 28/07/2010, n. 17598, che ha confermato la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva ritenuto valida la notifica dell’invito al contraddittorio endoprocedimentale ai fini dell’accertamento con adesione D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, effettuata con raccomandata, non ritirata presso l’ufficio postale, senza che ad essa fosse seguito l’invio della raccomandata informativa previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, così come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1998).

Il differente iter notificatorio si spiega con la diversità delle fattispecie poste a confronto, comportando la notifica diretta a mezzo del servizio postale un procedimento più agile e semplificato, a tutela delle ragioni del fisco di preminente interesse pubblico. Come evidenziato dalla Corte costituzionale (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175, che ha ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, nonostante la mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica – CAN – e l’inapplicabilità della L. n. 890 del 1982, art. 7, come modificato con la L. n. 31 del 2008), il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque garantito dal fatto che colui che assuma in concreto la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile, può chiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove comprovi, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, la sussistenza di detta situazione. 9.4. La C.T.R., concludendo che la notifica degli avvisi di accertamento, effettuata a mezzo del servizio postale è valida perchè sono state espletate tutte le formalità previste, non è incorsa nelle denunciate violazioni di legge.

10. Il sesto motivo è infondato.

10.1. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio, nelle controversie di competenza delle commissioni tributarie, all’ufficio del Ministero delle finanze – oggi ufficio locale dell’agenzia fiscale – nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore (Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 6338) o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi per ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze (Cass., sez. 5, 28/05/2008, n. 13908; Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 3058), senza necessità di speciale procura.

Qualora non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, le questioni relative agli effettivi poteri del firmatario dell’appello si possono porre solo in chiave di non appartenenza del firmatario all’ufficio appellante o di usurpazione di tali poteri, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà.

10.2. Tale interpretazione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138) è conforme al principio di effettività della tutela giurisdizionale, più volte richiamato anche dalla Corte costituzionale – oltre che da questa suprema Corte (Cass., sez. U, 14/02/2006, n. 3116 e Cass. n. 3118 del 2006; Cass., sez. 5, 25/10/2006, n. 22889) – che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità.

Questa Corte ha, altresì, affermato che la legittimazione processuale dell’Ufficio locale trova fondamento nella disciplina regolatrice della materia, costituita dal D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 2, che ha istituito le Agenzie Fiscali, rimandando allo Statuto la fissazione dei principi generali relativi all’organizzazione ed al funzionamento dell’Agenzia e nello Statuto e, poi, nel Regolamento di amministrazione delle Agenzie delle Entrate, che hanno stabilito che gli Uffici locali dell’Agenzia corrispondono ai preesistenti Uffici delle Entrate e che agli Uffici locali sono attribuite le funzioni operative ed, in particolare, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso; la legittimazione dell’Ufficio locale trae fondamento dalla norma statutaria delegata – Reg., art. 5, comma 1 -, esistente per effetto della norma delegante D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1.

Deve, quindi, ritenersi ammissibile l’atto d’appello proposto dal competente ufficio dell’agenzia delle entrate, recante in calce la firma di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, non essendo a tal fine necessaria l’esibizione della delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado (Cass., sez. 5, 21/03/2014, n. 6691; Cass., sez. 6-5, 26/07/2016, n. 15470; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27570; Cass., sez. 5, 31/01/2019, n. 2901; Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138).

10.3. Nel caso di specie, i ricorrenti hanno eccepito che il Capo Team che ha sottoscritto l’atto di appello non rivestisse la qualifica di dirigente, ma, poichè non è in contestazione l’appartenenza del sottoscrittore all’Ufficio finanziario, la doglianza, in applicazione dei principi su esposti, va respinta.

11. Il secondo motivo è infondato in relazione a tutti i profili di doglianza denunciati.

11.1. Il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, deve ritenersi assolto anche attraverso la motivazione per relationem alle risultanze dell’indagine condotta dai verificatori (pacifica è la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla piena legittimità di tale forma di motivazione: ex multis Cass., sez. 5, 5/04/2013, n. 8399; Cass., sez. 5, 5/02/2009, n. 2749).

In via generale, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (L. n. 212 del 2000, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3. Il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti richiamati nell’avviso per integrare la motivazione, ma non anche gli eventuali altri atti il cui contenuto sia (quantomeno nella parte rilevante) già riportato nell’avviso o che siano in esso meramente menzionati, ove la motivazione sia già sufficiente (e la loro menzione abbia, pertanto, mero valore “narrativo”): ne deriva che, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta per il contribuente dimostrare l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui quello impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’avviso impugnato, sia necessaria ad integrarne la motivazione (v. Cass., sez. 5, 18/12/2009, n. 26683).

11.2 n giudice d’appello ha dunque correttamente affermato, in base ad un accertamento in fatto che i ricorrenti non hanno specificamente censurato sotto il profilo del vizio di motivazione, che gli avvisi erano adeguatamente motivati, e ciò perchè contenevano, come emerge dall’avviso di accertamento riprodotto dagli stessi contribuenti nel ricorso per cassazione in omaggio al principio di autosufficienza, il riferimento al processo verbale di constatazione del 29 aprile 2011, peraltro notificato anche ad P.A., ed agli accessi mirati del 21 aprile 2011 e del 19 aprile 2011 eseguiti nei confronti delle società L.D.V. s.r.l. e della impresa individuale Doratura Metalli di S.G.. Tanto bastava, infatti, a giustificare l’azione di recupero di maggiore imposta ed a porre l’Associazione sportiva dilettantistica ed il legale rappresentante in grado di apprestare le proprie difese, sia limitandosi alla mera negazione dei fatti costitutivi della pretesa, sia contrastando gli atti impositivi mediante acquisizione di eventuale ulteriore documentazione idonea a smentire le risultanze della verifica.

11.3. Peraltro, la questione relativa all’esistenza della motivazione dell’atto impositivo, quale requisito formale di validità dell’avviso di accertamento (L. n. 212 del 2000, art. 7), va nettamente distinta da quella attinente, invece, alla indicazione ed alla effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (cfr. Cass., sez. 5, 1/08/2000, n. 10052), indicazione che non è richiesta – come dianzi osservato – quale elemento costitutivo della validità dell’atto e che rimane disciplinata dalle regole processuali proprie della istruzione probatoria, le quali trovano applicazione nello svolgimento dell’eventuale giudizio introdotto dal contribuente per ottenerne l’annullamento.

La produzione in giudizio delle fatture emesse dall’Associazione Calcio Mottese e rinvenute nel corso degli accessi mirati di cui si è detto ricade, quindi, nell’ambito degli oneri probatori e non dei requisiti di validità dell’atto impositivo.

11.4. Sotto tale ultimo profilo, i ricorrenti contestano che la C.T.R., ritenendo del tutto legittima la ripresa a tassazione operata per l’anno 2005, non abbiano fatto buon governo dei criteri dettati in materia di ripartizione dell’onere della prova, nè delle norme che regolano la prova presuntiva.

Giova, sul punto, precisare che, in ipotesi quale quella di specie di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, i poteri accertativi dell’Ufficio trovano fondamento e disciplina non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nella diversa previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 (accertamento d’ufficio). A tal fine l’Ufficio, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, determina il reddito complessivo del contribuente, con facoltà di ricorso a presunzioni c.d. “supersemplici”, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (da ultimo, Cass., sez. 5, 20/01/2017, n. 1506; Cass., sez. 5, 16/07/2020, n. 15167; Cass., sez. 5, 4/02/2021, n. 2581).

Le argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata non si pongono in contrasto con il principio di diritto innanzi richiamato, dal momento che, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte dell’Associazione sportiva, i giudici di appello hanno ritenuto del tutto corretta la rideterminazione induttiva dei ricavi operata dall’Amministrazione finanziaria, ottenuta considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007, in mancanza di prova dell’esistenza di costi relativi all’attività commerciale, non fornita dalle parti contribuenti sulle quali gravava il relativo onere, e della assenza di riscontri che potessero supportare l’assunto della perdita dell’archivio contabile in occasione dei lavori di demolizione eseguiti nella struttura.

La sentenza non incorre, pertanto, nelle violazioni denunciate con il mezzo in esame.

12. Anche il terzo motivo va disatteso.

12.1. La Commissione regionale ha ritenuto provata la partecipazione dei ricorrenti nelle vicende operative dell’Associazione sportiva non riconosciuta e, quindi, sussistente una responsabilità degli odierni ricorrenti quali legali rappresentanti di fatto; in difetto di prova contraria, non offerta dai ricorrenti, l’apprezzamento in fatto svolto dai giudici regionali, non censurato sotto il profilo motivazionale, non può essere rimesso in discussione in questa sede, non essendo ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., che è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 3, 29/05/2018, n. 13395).

12.2. Peraltro, le censure svolte, anche laddove si assume una presunta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., sono sostanzialmente volte a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale rispetto a quella operata dalla C.T.R., non consentita in questa sede. Occorre, sul punto, rammentare che la censura in ordine al corretto utilizzo del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità o contraddittorietà del ragionamento decisorio (Cass., sez. 1, 26/02/2020, n. 5279), sicchè, sotto tale profilo, la doglianza in esame è inammissibile perchè si risolve in una valutazione alternativa degli indizi e del materiale probatorio, in assenza di specifiche deduzioni circa fatti di cui sia stato omesso l’esame e che valgano ad evidenziare l’irrazionalità delle valutazioni espresse nella sentenza impugnata.

13. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

Nulla deve disporsi in merito alle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva della Agenzia delle entrate.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2021


OK del Garante Privacy alla piattaforma digitale per la notifica degli atti

Parere favorevole del Garante per la privacy sullo schema di decreto che regola il funzionamento della piattaforma per la notificazione degli atti della pubblica amministrazione a cittadini e imprese. Il nuovo sistema, sviluppato per rendere più efficienti ed economiche le comunicazioni aventi valore legale, dovrà comunque garantire la riservatezza dei documenti e la privacy delle persone coinvolte.

In base alla bozza di Dpcm, predisposto dal Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, le pubbliche amministrazioni potranno avvalersi di un’unica piattaforma, gestita da PagoPa, attraverso la quale contattare i soggetti interessati su tre tipologie di domicilio digitale, ovvero indirizzi Pec appositamente individuati. Sono state previste anche modalità alternative di notifica e di accesso alla documentazione per garantire il servizio anche ai cittadini, magari quelli più anziani, che non dispongono ancora di un indirizzo Pec oppure di un’identità digitale Spid o della Cie (Carta di identità elettronica), necessarie per accedere alla piattaforma.

Nel corso delle interlocuzioni con il Garante, sono state individuate varie misure per rafforzare la protezione dei dati dei cittadini. Sono stati innanzitutto definiti i ruoli dei diversi soggetti coinvolti nella gestione della piattaforma e stabilite procedure affinché comunicazioni private non vengano recapitate ad un domicilio digitale di lavoro ed eventualmente lette da collaboratori d’ufficio.

Particolari tutele sono state previste nel caso in cui l’interessato, destinatario degli atti, abbia deciso di delegare un altro soggetto – ad esempio un parente, un Caf o un commercialista – a scaricare per lui la documentazione, al fine di evitare accessi non autorizzati effettuati anche in tempi successivi alla delega.

Poiché il trattamento dei dati effettuato per la notifica di atti con la nuova piattaforma digitale presenta rischi elevati per i diritti e le libertà degli interessati, PagoPa dovrà sottoporre al Garante, prima di avviare il servizio, una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati che individui anche le misure tecniche e organizzative di dettaglio necessarie ad assicurare la sicurezza e la correttezza del trattamento.


Le modifiche del codice della strada e di altre norme sulla circolazione stradale

Modifiche delle norme del codice della strada e di altre norme sulla circolazione stradale previste dalla Legge di conversione del decreto legge n° 121 del 10/09/2021

Modifiche all’applicazione dell’art. 213 del Codice della Strada

… la medesima comunicazione reca altresì l’avviso che, se l’avente diritto non assumerà la custodia del veicolo nei successivi cinque giorni, previo pagamento dei relativi oneri di recupero e custodia, il veicolo sarà alienato anche ai soli fini della sua rottamazione.

… Nel caso di veicoli sequestrati in assenza dell’autore della violazione, per i quali non sia stato possibile rintracciare contestualmente il proprietario o altro obbligato in solido, e affidati a uno dei soggetti di cui all’articolo 214-bis, il verbale di contestazione, unitamente a quello di sequestro recante l’avviso ad assumerne la custodia, è notificato senza ritardo dall’organo di polizia che ha eseguito il sequestro. Contestualmente, il medesimo organo di polizia provvede altresì a dare comunicazione del deposito del veicolo presso il soggetto di cui all’articolo 214-bis mediante pubblicazione di apposito avviso nell’albo pretorio del comune ove è avvenuto l’accertamento della violazione. Qualora, per comprovate difficoltà oggettive, non sia stato possibile eseguire la notifica e il veicolo risulti ancora affidato a uno dei soggetti di cui all’articolo 214-bis, la notifica si ha per eseguita nel trentesimo giorno successivo a quello di pubblicazione della comunicazione di deposito del veicolo nell’albo pretorio del comune ove è avvenuto l’accertamento della violazione.

Leggi: STRALCIO Modifiche CdS (nov 2021)


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 21-10-2021) 16-11-2021, n. 7640

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 2297 del 2021, proposto da Ministero della Giustizia, in persona del ministro pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio presso i suoi uffici in Roma, via dei Portoghesi 12;

contro

-OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avvocato Alessandro Lipani, con domicilio digitale p.e.c. indicato nei registri di giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania – Sede di Napoli (sezione prima) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente la domanda di monetizzazione del congedo ordinario non goduto;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del dottor -OMISSIS-;

Viste le memorie e tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 21 ottobre 2021 il consigliere Fabio Franconiero e uditi per le parti gli avvocati delle parti, come da verbale di udienza;

Svolgimento del processo
1. Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Campania – Sede di Napoli il dottor -OMISSIS-, già magistrato ordinario, ora in congedo, chiedeva che fosse accertato il suo diritto alla monetizzazione dei giorni di congedo ordinario non fruiti negli anni 2017 e 2018, prima del suo collocamento a riposo per limiti di età, avvenuto nell’agosto del 2018, dopo che questo gli era stato negato dal Ministero della giustizia, con provvedimento della Direzione generale magistrati in data -OMISSIS- (-OMISSIS-), di cui chiedeva l’annullamento.

2. A fondamento del diniego impugnato era posto l’art. 5, comma 8, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95 (Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini; convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 135), a tenore del quale le ferie “sono obbligatoriamente fruit(e) secondo quanto previsto dai rispettivi ordinamenti e non danno luogo in nessun caso alla corresponsione di trattamenti economici sostitutivi. La presente disposizione si applica anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età”. Nella nota di diniego erano inoltre richiamate la giurisprudenza e la prassi ministeriale formatesi in relazione alla disposizione di legge, in base alle quali la monetizzazione può essere riconosciuta in “ipotesi eccezionali”, ovvero nei soli casi in cui “l’impossibilità di fruire delle ferie, sia stata imprevedibile e non riconducibile in alcun modo al dipendente”. Per il Ministero della giustizia questa ipotesi non era ravvisabile in caso di collocamento a riposo per limiti di età, da considerarsi invece un fatto “da sempre prevedibile da parte del magistrato”.

3. Nel contraddittorio con il Ministero il Tribunale amministrativo accoglieva il ricorso, ed annullato il diniego accertava il diritto del -OMISSIS- a ricevere “il trattamento economico equivalente ai giorni di ferie non goduti”. Ciò sul rilievo che nel caso di specie il ricorrente aveva richiesto di fruire dei giorni di congedo spettantigli (per un totale di 47) e si era visto sempre opporre dinieghi motivati da esigenze di servizio, per cui l’impossibilità sopravvenuta conseguente al collocamento a riposo d’ufficio non poteva essere a lui imputata.

4. Per la riforma della sentenza di primo grado il Ministero della giustizia ha proposto appello, al quale resiste il ricorrente.

Motivi della decisione
1. Nel censurare la pronuncia di primo grado di accoglimento del ricorso, l’appello del Ministero della giustizia premette che con sentenza 6 maggio 2016, n. 95, la Corte costituzionale ha interpretato il citato art. 5, comma 8, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, nel senso che il divieto di monetizzazione in esso contenuto opera ogniqualvolta l’impossibilità di fruire delle ferie “sia riconducibile a una scelta o a un comportamento del lavoratore (dimissioni, risoluzione) o a eventi (mobilità, pensionamento, raggiungimento dei limiti di età), che comunque consentano di pianificare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore”; e che per contro esulano dal suo ambito di applicazione “le vicende estintive del rapporto di lavoro non imputabili alla volontà delle parti”. In questa linea l’appello ricorda che in fattispecie analoghe la giurisprudenza amministrativa ha respinto la domanda del magistrato di monetizzazione delle ferie formulata a ridosso del collocamento a riposo d’ufficio, non seguita dalla relativa fruizione per l’intervenuta cessazione del rapporto di impiego per tale causa (viene richiamata, e prodotta in allegato all’appello, la sentenza del 10 febbraio 2016, n. 1712, del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio – Sede di Roma).

2. Tanto premesso, l’appello sostiene che la presente fattispecie avrebbe caratteristiche in termini con quelle del precedente ora richiamato, dal momento che il -OMISSIS- ha formulato una prima domanda di ferie il 21 ottobre 2017, respinta perché “il periodo richiesto era troppo esteso e non coerente con le esigenze di servizio”; e una seconda domanda il 19 febbraio 2018, quando il ricorrente era nel frattempo stato nominato membro della commissione di concorso a magistrato, su sua domanda; la domanda è stata quindi respinta su parere contrario del presidente della commissione di concorso. Al riguardo si sottolinea che a fronte del primo rigetto il -OMISSIS- avrebbe potuto frazionare i periodi di congedo e che il secondo rigetto non può essere ritenuto “equivalente a “rifiuto del datore di lavoro” ai sensi della giurisprudenza sopra citata”. Ad ulteriore dimostrazione dell’imputabilità al ricorrente l’appello ricorda che per il personale di magistratura ordinaria il congedo ordinario deve normalmente essere fruito in coincidenza con il periodo di sospensione feriale, salve diverse ragioni di servizio, e che è ammessa la possibilità di superare il termine massimo dato dal primo semestre dell’anno successivo (art. 15 della L. 11 luglio 1980, n. 312 – Nuovo assetto retributivo-funzionale del personale civile e militare dello Stato) per oggettiva e comprovata impossibilità. La sentenza di primo grado avrebbe perciò errato nel considerare a favore del -OMISSIS- le “isolate” istanze di ferie del 2017 e 2018, senza invece valutare quanto sul punto dedotto da essa resistente, e cioè che “non risultano agli atti altre istanze, nel lungo lasso di tempo in cui l’interessato avrebbe potuto (e dovuto) organizzarsi con largo anticipo per poter fruire della ferie, sapendo che sarebbe stato collocato a riposo”. Sulla base di ciò, l’appello conclude nel senso che il ricorrente, in vista del collocamento a riposto previsto per l’agosto del 2018, era nelle condizioni di programmare le proprie ferie residue in modo da esaurire quelle maturate a suo favore prima della cessazione del rapporto di impiego, per cui lo stesso non può fondatamente addurre l’impossibilità a lui non imputabile in funzione della monetizzazione.

3. Le censure così sintetizzate sono infondate.

4. Deve premettersi che non è in contestazione l’interpretazione del divieto di monetizzazione delle ferie non godute sancito dal più volte menzionato art. 5, comma 8, del D.L. 6 luglio 2012, n. 95, data dalla Corte costituzionale con sentenza 6 maggio 2016, n. 95, richiamata dall’amministrazione appellante, secondo cui esso si applica quando l’impossibilità di fruire delle ferie è correlata ad un evento prevedibile incidente sul rapporto di impiego, come nel caso di collocamento a riposo d’ufficio, il quale consente di “programmare per tempo la fruizione delle ferie e di attuare il necessario contemperamento delle scelte organizzative del datore di lavoro con le preferenze manifestate dal lavoratore”.

5. Nel caso di specie non è tuttavia possibile ritenere che l’interessato non si sia attivato a tale scopo. E’ infatti pacifico, e provato per documenti, che il -OMISSIS- ha chiesto di fruire delle ferie residue del 2017 e di quelle maturate nel 2018 fino al collocamento a riposo, e che nondimeno le istanze sono state respinte. Come deduce quest’ultimo nella propria memoria difensiva, la circostanza in questione vale a distinguere il caso oggetto del presente giudizio da quello invece deciso nel precedente del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio richiamato dal Ministero appellante (sentenza 10 febbraio 2016, n. 1712), nella cui motivazione si legge che il magistrato ricorrente in quel giudizio non aveva provato “di essere stato nella oggettiva impossibilità, per fatto a lui non imputabile, di godere delle suddette ferie. Né ha documentato di aver, in ipotesi, chiesto di poter usufruire del periodo di ferie del 2015 ed eccezionalmente, anche di quello del 2014, e di essersi visto opporre un rifiuto per esigenze di servizio o per altri motivi”. Nel caso oggetto del presente giudizio il ricorrente si è infatti attivato per evitare di perdere i giorni di ferie ancora da fruire, ed in particolare sia i residui giorni del 2017 che per quelli maturati nel 2018, anno di collocamento a riposo.

6. Il Ministero della giustizia sostiene nondimeno che le due istanze di ferie non sarebbero sufficienti a dimostrare l’oggettiva impossibilità per il magistrato di fruire del congedo spettantegli, e che, in particolare, a fronte del primo rigetto lo stesso ricorrente avrebbe potuto rimodulare il residuo annuale del 2017 di 27 giorni, richiesto al di fuori del periodo di sospensione feriale, mentre il secondo, giustificato dalle evidenti esigenze connesse all’attività della commissione di concorso a magistrato ordinario, non sarebbe imputabile al datore di lavoro, e comunque va fatto risalire alla disponibilità in precedenza data dal ricorrente ad essere nominato commissario.

7. Entrambe le deduzioni vanno respinte.

Deve in contrario affermarsi che il duplice rigetto per ragioni di servizio delle domande di ferie, che come esposto in precedenza non è contestato, è al contempo sufficiente a dimostrare che l’impossibilità di fruire delle ferie a causa del sopravvenuto collocamento a riposo d’ufficio non è imputabile al lavoratore, ma alla stessa amministrazione, in ragione delle esigenze di organizzazione del lavoro su cui tale duplice rigetto si fonda. Al medesimo riguardo sono invece irrilevanti le specifiche ragioni addotte in sede di diniego delle due domande di ferie, posto che ai fini della verifica dei presupposti relativi al diritto alla monetizzazione è sufficiente riscontrare se in vista di una causa di cessazione del rapporto di impiego prevedibile il lavoratore si sia attivato per quanto in suo potere per evitare di giungervi con periodi di congedo dal lavoro non ancora fruiti.

8. Per contro, nell’imputare l’impossibilità di fruizione al magistrato che nondimeno abbia richiesto di fruire delle ferie a lui spettanti il Ministero della giustizia pone a carico dello stesso un onere di allegazione e prova diabolico, concernente le modalità che in ipotesi avrebbero potuto rendere le sue domande accoglibili. Un simile argomentare ribalta impropriamente sul lavoratore la ricerca di soluzioni atte a contemperare l’esigenza di riposo con quelle di organizzazione del servizio, le quali invece spettano in via esclusiva alla parte datoriale.

9. Evidentemente da respingere è poi l’assunto secondo cui l’incarico di commissario per il concorso a magistrato ordinario, pacificamente afferente ai doveri d’ufficio del magistrato stesso, costituisca ragione sufficiente per ritenere che l’impossibilità di fruire delle ferie sia a questo imputabile piuttosto che non all’amministrazione della giustizia, competente sul reclutamento dei magistrati e quindi sull’indizione e lo svolgimento dei relativi concorsi. Deve in particolare escludersi che possa essere imputata alla disponibilità in precedenza dichiarata dal ricorrente ad assumere l’incarico in questione l’impossibilità di fruire delle ferie ancora spettantegli a tale momento, poiché ancora una volta con tale argomentare l’espletamento di compiti rispondenti alle esigenze dell’amministrazione viene indebitamente fatto gravare sul lavoratore sotto il profilo della mancata fruizione del congedo che questi aveva invece richiesto.

10. In forza dei rilievi svolti rimane dunque confermato l’accertamento svolto sul punto decisivo nella presente controversia dalla sentenza di primo grado, e cioè che la mancata fruizione delle ferie non è imputabile al -OMISSIS-, pur a fronte del prevedibile collocamento a riposo, dal momento che quest’ultimo si era attivato per tempo per esaurire le ferie non ancora fruite, ma si era sempre visto opporre un rifiuto dall’amministrazione.

11. In conclusione l’appello deve essere respinto. Le spese di causa sono regolate secondo soccombenza e liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e condanna il Ministero della giustizia a rifondere al dottor -OMISSIS- le spese di causa, liquidate in € 3.000,00, oltre agli accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 ottobre 2021 con l’intervento dei magistrati:

Fabio Franconiero, Presidente FF, Estensore

Federico Di Matteo, Consigliere

Alberto Urso, Consigliere

Giuseppina Luciana Barreca, Consigliere

Anna Bottiglieri, Consigliere


Dati personali: ora si possono “vendere”

Approvato il decreto che, nell’attuare la Direttiva UE 2019/770, prevede anche che i dati personali potranno essere scambiati con beni e servizi

Il 29 ottobre il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto con il quale si attua la Direttiva Europea 2019/770 del 20 maggio 2019, che si occupa di disciplinare determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali.
Il decreto, dopo il capo I del titolo III della parte IV del Codice del Consumo, aggiunge il capo I-bis dedicato ai “contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali” composto dagli articoli che vanno dall’art. 135 octies al 135-vicies ter.
Tali modifiche saranno in vigore a partire dal 1° gennaio 2022.
La novità di maggiore rilievo del provvedimento è rappresentata dalla codificazione dello scambio del dato personale con beni e servizi digitali.
Il dato personale diventa merce di scambio
Il decreto, come annuncia l’art. 1, disciplina alcuni aspetti relativi ai contratti di fornitura di contenuto digitale o di servizi digitali che vedono coinvolti il professionista da un lato e il consumatore dall’altro. Tali aspetti riguardano la conformità del contenuto digitale o del servizio digitale al contratto, i rimedi esperibili in caso di difetto di conformità al contratto o di mancata fornitura, le modalità in cui tali rimedi possono essere esercitati e la modifica del contenuto o del servizio digitale.
Il primo articolo, tra le varie definizioni, contiene anche quella relativa ai “dati personali”, come definiti dall’articolo 4, punto 1), del regolamento (UE) 2016/679.
Il comma 4 dell’art. 1 prevede infatti che: “Le disposizioni del presente capo si applicano altresì nel caso in cui il professionista fornisce o si obbliga a fornire un contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si obbliga a fornire dati personali al professionista, fatto salvo il caso in cui i dati personali forniti dal consumatore siano trattati esclusivamente dal professionista ai fini della fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale a norma del presente capo o per consentire l’assolvimento degli obblighi di legge cui è soggetto il professionista e quest’ultimo non tratti tali dati per scopi diversi da quelli previsti.”
In pratica quindi con questo decreto si apre la strada allo scambio di dati in pagamento del servizio e non come fornitura di dati, come avviene oggi, effettuata ai fini dell’utilizzo del servizio.
Come sappiamo però non tutti i dati sono uguali, quelli sensibili infatti sono soggetti a regole particolari. Per questo la prima domanda che ci si pone è se anche questo tipo di dato potrà essere utilizzato come moneta di scambio.
Il testo del decreto non fornisce una risposta chiara, anche se al riguardo sembra rassicurare il contenuto dell’art.135-novies (che verrà inserito nel codice del consumo), il quale prevede che le disposizioni nazionali ed europee in materia di protezione dei dati personali (Regolamento (UE) 2016/679), il dlgs n. 101/2018 e il dlgs n. 196/2003 “si applicano a qualsiasi dato personale trattato in relazione ai contratti di cui all’articolo 135-octies, comma 3. In caso di conflitto tra le disposizioni del presente capo e quelle del diritto dell’Unione in materia di protezione dei dati personali, prevalgono queste ultime.”
Sembra quindi, a una prima lettura, che il dato personale, anche se trattato come moneta per acquistare beni e servizi, è sottoposto alla tutela prevista dalla normativa interna ed europea.


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 23-03-2021) 11-11-2021, n. 33285

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina – M. –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. ANTEZZA F. – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9568/2015 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, domicilia;

– ricorrente –

contro

F.E., (C.F.: (OMISSIS)), nato a (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avv. Cristina Flaccomio, con domicilio eletto presso il citato difensore (con studio in Roma, via G. La Farina n. 6);

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale per l’Umbria n. 625/01/2014), pronunciata il 23 settembre 2014 e depositata il 13 ottobre 2014;

udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 23 marzo 2021 dal Consigliere Fabio Antezza.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate (“A.E.”) ricorre, con due motivi, per la cassazione della sentenza, indicata in epigrafe, di rigetto dell’appello dalla stessa proposto avverso la sentenza n. 93/01/2013, emessa dalla CTP di Terni, che aveva accolto l’impugnazione dell’avviso di accertamento IVA, IRPEF e IRAP, per l’anno 2006.

2. Il Giudice di primo grado, in particolare, dichiarò nullo l’atto impositivo, emesso anche all’esito di un accesso domiciliare nel corso del quale fu rinvenuta documentazione bancaria fonte di successive indagini finanziarie, per la violazione del termine dilatorio di sessanta giorni di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, (c.d. “statuto dei diritti del contribuente”), con conseguente assorbimento delle altre questioni ed eccezioni.

3. La CTR, con la sentenza oggetto di attuale impugnazione, rigettò l’appello dell’A.E. confermando la statuizione impugnata.

Nel dettaglio, sempre per quanto emerge dalla sentenza impugnata e dagli atti di parte, il Giudice d’appello ritenne violato il contraddittorio endoprocedimentale, sotto il profilo del rispetto del termine dilatorio di cui innanzi, in quanto, a fronte di un PVC consegnato al contribuente il 24 ottobre 2011 all’esito anche di accesso domiciliare, l’avviso di accertamento fu sottoscritto (emanato) il 21 dicembre 2011, quindi ante tempus ed in assenza di particolare e motivata urgenza.

Diversamente da quanto prospettato dall’A.E., la Commissione ritenne difatti ininfluente, ai fini del rispetto del termine in oggetto, che nella specie la notificazione dell’atto impositivo fosse avvenuta oltre il sessantesimo giorno dal rilascio del PVC (in particolare, il 28 dicembre 2011) ed escluse la sussistenza di un caso di particolare e motivata urgenza, non potendosi identificare esso nella mera imminente scadenza del termine decadenziale con riferimento all’adozione dell’avviso di accertamento (perché non annoverabile tra gli eventi imprevedibili).

4. Come premesso, avverso la sentenza di secondo grado l’A.E. ha proposto ricorso fondato su due motivi, sostenuto da memoria, ed il contribuente si è difeso con controricorso (sostenuto da memorie), con il quale prospetta anche profili di “inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso” oltre che inammissibilità dei singoli motivi.

Motivi della decisione
1. Priorità logico-giuridica ha la disamina della questione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’eccezione è inconferente in ragione della esposizione sommaria dei fatti di causa che, anche per ragioni di specificità in termini di “autosufficienza”, ha necessitato della riproduzione, nelle loro parti essenziali, tanto della relazione di notificazione dell’avviso di accertamento quanto della sentenza impugnata, ed in merito al prospettato passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

1.1. Infondata è altresì l’eccezione di giudicato della sentenza di primo grado.

Il contribuente, in sostanza, deduce l’inammissibilità dell’appello, alla quale conseguirebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, in forza del mancato deposito della fotocopia della ricevuta di spedizione del ricorso in appello per raccomandata a mezzo del servizio postale, in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 e art. 16, comma 3, (applicabili al processo d’appello anche in forza dell’art. 53, medesimo D.Lgs.). L’appellante, in particolare, a detta dello stesso controricorrente, avrebbe depositato, nei termini di cui al citato art. 22, solo la fotocopia del relativo avviso di ricevimento (pag. 5 del controricorso).

Il rilievo non è pertinente anche se, differentemente da quanto prospettato dal ricorrente, con riferimento ad esso non si pone, nella specie, questione d’inammissibilità, potendo questa Corte comunque rilevare d’ufficio una causa d’inammissibilità dell’appello che il Giudice di merito non abbia riscontrato, con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza di secondo grado, non potendosi riconoscere al gravame inammissibilmente spiegato alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione (ex plurimis, limitando i riferimenti solo alle statuizioni più recenti: Cass. sez. 2, 19/10/2018, n. 26525, Rv. 650843-01; Cass. sez. 1, 07/07/2017, n. 16863, Rv. 644842-01).

Come emerge dagli atti processuali, conoscibili da questa Corte in ragione della natura processuale della questione in esame, oltre che dal ricorso e dal controricorso (comprese le depositate memorie), nella specie trattasi di notificazione diretta eseguita da “messo notificatore speciale” ( F.D.) dell’A.E. a mezzo posta, L. n. 890 del 1982, ex art. 14 (sulla legittimità costituzionale del citato art. 14 si vedano, in termini generali, Corte Cost., n. 104 del 2019 e Corte Cost., n. 2 del 2020; per l’utilizzabilità del procedimento di notificazione diretta anche con riferimento al ricorso in appello innanzi alle CTR, si vedano, ex plurimis: Cass. sez. 5, 13/07/2016, n. 14273, Rv. 640538-01; Cass. sez. 5, 30/12/2015, n. 26053, Rv. 638459-01; Cass. sez. 5, 18/11/2011, n. 24245, Rv. 620276-01).

Nella specie, la relata apposta dal messo attesta, facente piena prova fino a querela di falso (Cass. sez. 5, 13/02/2008, n. 3433, Rv. 601914-01), la notificazione a mezzo del servizio postale in data 25 novembre 2013. A ciò deve aggiungersi, peraltro, che l’avviso di ricevimento, depositato già in sede di merito e, come esplicitato dallo stesso controricorrente, nei termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 oltre ad indicare la detta data di spedizione in forma manoscritta (quindi giuridicamente irrilevante per i presenti fini), reca il timbro postale relativo alla consegna del plico a familiare convivente del destinatario (con successiva emissione della CAN) indicante la data del successivo 26 novembre 2013.

Sicché, in relazione alla sentenza di primo grado depositata il 7 maggio 2013 (per quanto emerge da ricorso e controricorso), il rispetto dei termini per impugnare (considerato anche il periodo di sospensione feriale) nella specie emerge in forza di plurime circostanze.

Esso, difatti, risulta in forza dell’attestazione di cui alla relata del messo autorizzato dall’A.E. (cfr. Cass. n. sez. 5, 13/02/2008, n. 601914-01), in quanto recante la data del 25 novembre 2013, ma anche dalla data di ricezione del plico emergente dall’avviso di ricevimento (depositato nei termini di cui al citato art. 22), perchè certificata dall’agente postale come avvenuta il 26 novembre 2013 (conformemente a quanto statuito, ex plurimis, da Cass. Sez. U, 29/05/2017, n. 13452, Rv. 644364-03, e, tra le successive conformi, da Cass. sez. 6-5, 11/05/2018, n. 11559, Rv. 648380-01, oltre che da Cass. sez. 5, 08/10/2020, n. 21683, in motivazione, la quale, riprendendo le argomentazioni di cui alle citate Sezioni Unite, ribadisce la necessità che la produzione di copia dell’avviso di ricevimento avvenga, a pena di inammissibilità, nei termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 per la costituzione del ricorrente).

2. Nel merito (cassatorio) il ricorso è infondato.

3. Con i due motivi di ricorso, suscettibili di trattazione congiunta in ragione della connessione delle questioni inerenti i relativi oggetti, si deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nonchè (motivo n. 1) del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42.

Ci si duole (motivo n. 1), in sostanza, dell’interpretazione data dalla CTR alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nel senso per cui l’emanazione del provvedimento impositivo, alla quale si riferisce il termine dilatorio in oggetto, coinciderebbe con l’emissione dell’atto e, quindi, con la sua sottoscrizione, e non con la sua successiva notificazione. Per l’A.E., in sintesi, l’atto sottoscritto e non notificato (e, con esso, la pretesa erariale) non avrebbe data certa; esso, in termini maggiormente categorici, non potrebbe considerarsi atto “perfetto”.

In subordine, per l’ipotesi di infondatezza della censura di cui innanzi, con il motivo n. 2 la ricorrente prospetta una rivisitazione dell’approdo costituito da Cass. Sez. U, 29/07/2013, n. 18184, Rv. 627474-01, ravvisante, quale ipotesi di nullità del provvedimento impositivo, l’omesso rispetto del termine dilatorio, qualora lo si legga nel senso dell’irrilevanza, ai fini di essa, della prova che “la mancata partecipazione al procedimento del contribuente avrebbe portato alla enunciazione di un atto diverso (in ulteriore subordine, si sollecita questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE).

Le prospettazioni di cui innanzi sono argomentate in ragione di principi costituzionali (collaborazione, buona fede, buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa), in forza di statuizioni della Corte di giustizia (Corte giust., sentenza 3 luglio 2014, in cause riunite C-129/13 e C-130/13) nonchè, a dire della ricorrente, dall’ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 156 del 9 luglio 2014.

3.1. I motivi in esame sono infondati anche se ammissibili, differentemente da quanto prospettato dal controricorrente che, invece, difendendosi in ordine al motivo n. 1 di ricorso, inammissibilmente, mira sostanzialmente a sindacare, con controricorso, la decisione d’appello per non aver rilevato una presunta novità della domanda tradottasi in motivo d’appello che, peraltro, neanche prospetta di aver dedotto in secondo grado. La risoluzione della questione di cui alla seconda doglianza, invece, al momento della decisione da parte della CTR (e finanche al momento della proposizione del ricorso per cassazione) era ancora in fieri nella giurisprudenza di legittimità, con conseguente non operatività, nella specie, dell’art. 360 bis c.p.c..

3.2. Nel merito cassatorio, occorre muovere da Cass. Sez. U, 29/07/2013, n. 18184, Rv. 627474-01, per la quale l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus. Ciò in quanto trattasi di termine posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante, come chiarito dalle Sezioni Unite, non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio.

Successivamente, Cass. Sez. U., 09/12/2015, n. 24823 ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito. Non sussiste, poi, alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino” (e sempre che, nella specie si sia effettivamente trattato di tale tipo di indagini).

3.3. Premesso il quadro normativo di riferimento, in merito all’ambito di operatività del termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, anche in rapporto alla c.d. “prova di resistenza”, il collegio ritiene di dare continuità ai principi di recente sanciti e ribaditi da questa Corte (ex plurimis: Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 701, Rv. 652456-01, Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 702, in motivazione, e Cass. sez. 5, 11/09/2019, n. 22644, Rv. 655048-01), alla luce di una lettura dei citati approdi delle Sezioni Unite nel quadro costituzionale ed Eurounitario di riferimento e, quindi, in applicazione dei due principi cardine del diritto comunitario regolanti il diritto fondamentale al contraddittorio endoprocedimentale (con conseguente insussistenza dei presupposti del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sollecitato dalla ricorrente). Tali sono il principio di equivalenza, in virtù del quale le modalità previste per l’applicazione del tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi procedimenti amministrativi per tributi di natura interna, ed il principio di effettività, non dovendo la disciplina nazionale rendere in concreto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, derivandone che il contribuente deve essere posto nelle condizioni di esercitare il contraddittorio (si vedano: CGUE 18 dicembre 2008 C-349/07 Sopropè – Organizagoes de Calgado Lda contro Fazenda Pública; CGUE 3 luglio 2014 C-129 e 130/13 Kamino International Logistics BV e Da tema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financien, p. 75; CGUE 8 marzo 2017, Euro Park Service C-14/16 p. 36, in materia di rimborsi; CGUE 9 novembre 2017, Ispas C-298/16 p.p. 30,31, resa proprio sull’IVA; CGUE 20 dicembre 2017, Preqù Italia srl C-276/16, p. 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale).

3.4. Orbene, proprio dando continuità ai principi giurisprudenziali sopra esposti, ai fini dell’interpretazione dell’art. 12, comma 7, in oggetto questa Corte ha osservato, in primo luogo, che la norma non a caso non distingue tra tributi armonizzati e non. In via generale, infatti, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, è già stata operata dal legislatore una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio, attraverso la comminatoria espressa di nullità dell’atto impositivo nel caso di mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni per consentire al contribuente l’interlocuzione con l’Amministrazione finanziaria, a far data dalla conclusione delle operazioni di controllo.

Tale disciplina nazionale, quindi, già a monte, ingloba la “prova di resistenza”, nel pieno rispetto della giurisprudenza della CGUE (Kamino, cit., p. 80; Sopropè, cit., p. 37).

Siffatta interpretazione è al tempo stesso rispettosa anche dei principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale civile, amministrativo e tributario, secondo cui la regola della strumentalità delle forme, ai fini del rispetto del contraddittorio, viene meno in presenza di un’espressa sanzione di nullità comminata dalla legge per la violazione in questione.

In secondo luogo, coerentemente con quanto precede, è stato evidenziato da questa Corte, con le statuizioni innanzi già citate, che l’operatività della “prova di resistenza”, di cui alle citate Sezioni Unite del 2015, non può che essere circoscritta al caso di assenza di un’espressa previsione del legislatore nazionale di nullità per violazione del contraddittorio. Solo in assenza di un’espressa sanzione di nullità introdotta dal legislatore per il caso di violazione del contraddittorio, vi può difatti essere spazio per il giudice affinchè possa operare una valutazione ex post, caso per caso, sull’intervenuto rispetto del contraddittorio o meno.

A quanto innanzi si è aggiunta, quale ulteriore logica conseguenza, che, anche per i tributi armonizzati, scatta la prova di resistenza ai fini del contraddittorio endoprocedimentale nel solo caso in cui la normativa interna non preveda la sanzione della nullità.

Specularmente, ove il legislatore già preveda tale sanzione non opera il riferimento alla prova di resistenza.

In conclusione, ai fini delle imposte armonizzate, la prova di resistenza non opera nelle tre ipotesi in cui nei confronti del contribuente sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, dovendosi applicare solo nel caso di verifiche a tavolino.

Ne consegue in definitiva che la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, effettua, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio già operata dal legislatore, attraverso la previsione espressa di una nullità per mancato rispetto del termine dilatorio che già, a monte, ingloba la “prova di resistenza”, sia con riferimento ai tributi armonizzati che in ordine a quelli non armonizzati (non effettuando la norma alcuna distinzione in merito alle conseguenze sanzionatorie).

Sicchè, anche per i tributi armonizzati, tra i quali, come nella specie, l’IVA, scatta la prova di resistenza, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, solo nel caso di mancata previsione da parte della normativa interna della sanzione della nullità, invece prevista dal citato art. 12, comma 7, per l’ipotesi della violazione del termine dilatorio.

3.5. L’applicazione alla fattispecie concreta dei principi di cui innanzi implica che correttamente la CTR ha ritenuto operante il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, quindi non necessaria la prova di resistenza (anche per l’IVA), trattandosi di provvedimento impositivo, avviso di accertamento IVA (tributo armonizzato), IRPEF e IRAP (tributi non armonizzati), emesso all’esito di accesso domiciliare.

Parimenti infondata è la censura che si incentra sull’interpretazione del riferimento che il citato comma 7 fa all’emanazione dell’atto ante tempus, in continuità all’orientamento di legittimità attualmente consolidatosi ed in linea con il descritto quadro normativo di riferimento (in forza del consapevole superamento del precedente difforme costituito da Cass. sez. 5, 09/07/2014, n. 15648, Rv. 632232-01).

L’atto impositivo sottoscritto dal funzionario dell’ufficio in data anteriore alla scadenza del termine di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, ancorchè, come nella specie, notificato successivamente alla sua scadenza, è difatti illegittimo, atteso che la norma tende a garantire il contraddittorio procedimentale consentendo al contribuente di far valere le sue ragioni quando l’atto impositivo è ancora in fieri, integrando, viceversa, la notificazione una mera condizione di efficacia dell’atto amministrativo ormai perfetto e, quindi, già emanato (in termini si vedano anche Cass. sez. 5, 31/07/2018, n. 20267, Rv. 650151-01; Cass. sez. 6-5, 12/07/2017, n. 17202, Rv. 644932-01; Cass. sez. 6-5, 07/03/2016, n. 5361, in motivazione; Cass. sez. 6-5, 28/05/2015, n. 11088, in motivazione).

3.6. La lettura del citato art. 12, comma 7, innanzi evidenziata, emergente tanto delle ripercorse Sezioni unite del 2015 quanto dall’ulteriore sintetizzata elaborazione di questa Corte, implica, in questa sede, per la rilevanza con riferimento alla fattispecie, il necessario superamento di quanto statuito da Cass. sez. 5, 26/11/2014, n. 633378-01.

Per tale ultima decisione (comunque antecedente agli approdi di legittimità innanzi riportati), “in tema di contenzioso tributario, deve considerarsi inammissibile per carenza d’interesse concreto del ricorrente la censura relativa al mancato rispetto del termine di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, qualora, in caso di avviso di accertamento emanato prima, ma notificato successivamente alla sua scadenza, il contribuente non abbia formulato alcuna osservazione nei sessanta giorni successivi al rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, attesa l’assenza di un effettivo pregiudizio all’esercizio dei mezzi di tutela accordati dalla legge e, cioè, della possibilità di far valere le proprie ragioni nella fase amministrativa dell’accertamento” (cfr., massima ufficiale).

Da un lato, difatti, tale statuizione implicitamente accede all’orientamento, ora prevalente, consolidato ed in questa sede ribadito, per il quale rileva, ai fini del rispetto del termine dilatorio, il momento dell’emissione del provvedimento inteso in termini di sottoscrizione di esso.

Per altro verso, però, la detta decisione, facendo derivare l’inammissibilità (per carenza d’interesse) della censura relativa alla violazione del citato art. 12, comma 7, dalla mancata formulazione di osservazioni nel termine dilatorio, non si mostra in linea con il suesposto orientamento, pacifico, per il quale, in caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, il mero non rispetto del termine dilatorio implica nullità, cosi reintroducendo la c.d. “prova di resistenza”.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità, anche in ragione del descritto consolidarsi degli orientamenti oggetto delle questioni prospettate dalla ricorrente.

P.Q.M.
rigetta il ricorso, spese compensate.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 23-06-2021) 09-11-2021, n. 32950

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10354-2015 proposto da:

D.S.G., G.G. e G.P., nella qualità di eredi di G.D., e da S.D.R., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALBERICO II n. 4, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BORGIA, rappresentati e difesi dagli avvocati ANDREA LO CASTRO e CONCETTA BOSURGI;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI MESSINA, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato ope legis in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ARTURO MERLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 505/2014 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 10/04/2014 R.G.N. 264/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2021 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA.

Svolgimento del processo
CHE:

1. la Corte d’Appello di Messina ha respinto l’appello di S.D.R. e di G.D., entrambi direttori di sezione amministrativa inquadrati nell’area D posizione economica D3, avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda, proposta nei confronti del Comune di Messina, di pagamento della retribuzione di posizione e di risultato prevista dal CCNL 31.3.1999 e dal CCNL 22.1.2004 per i dipendenti del comparto regioni autonomie locali in favore dei titolari di posizione organizzativa di alta professionalità;

2. la Corte territoriale, richiamata la disciplina contrattuale, ha evidenziato che gli appellanti ne avevano invocato l’applicazione sostenendo di aver svolto attività comportanti funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e, pertanto, riconducibili alla previsione del CCNL 31 marzo 1999, art. 8, lett. a), per il personale del comparto autonomie locali;

3. il giudice d’appello ha accertato, in punto di fatto, che in realtà l’ente nel periodo in discussione non aveva ancora completato l’iter procedimentale previsto dalla contrattazione collettiva per l’istituzione delle posizioni organizzative ed ha aggiunto, richiamando giurisprudenza di questa Corte, che il diritto soggettivo può sorgere solo alle condizioni previste dal c.c.n.l. e quindi, prima dell’istituzione e del conferimento formale, il dipendente non può domandare né la retribuzione di risultato e di posizione né il risarcimento del danno da perdita di chances;

4. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso S.D.R. e gli eredi di G.D. sulla base di due motivi, illustrati da memoria, ai quali ha resistito con controricorso il Comune di Messina.

Motivi della decisione
CHE:

1. il ricorso denuncia, con il primo motivo, violazione ed errata del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, dell’art. 36 Cost., del CCNL 31 marzo 1999, artt. 8 e 9, del CCNL 22 gennaio 2004, art. 10, perché ha errato la Corte territoriale nel ritenere che la domanda dovesse essere respinta per il solo fatto che non fossero state ultimate le procedure previste dalla contrattazione collettiva in relazione alla istituzione ed al conferimento delle posizioni organizzative;

1.1. i ricorrenti, sulla premessa dell’applicabilità alla fattispecie del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 e dell’art. 36 Cost., sostengono di avere agito per ottenere la retribuzione adeguata alla qualità e quantità del lavoro prestato e di avere invocato i CCNL succedutisi nel tempo solo come parametro di riferimento per la quantificazione del compenso aggiuntivo, che andava riconosciuto, a prescindere dal conferimento dell’incarico con atto formale, in ragione della maggiore complessità dell’attività prestata e della più incisiva responsabilità che dalla stessa derivava;

2. la seconda censura, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, addebita al giudice d’appello l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia oggetto di discussione tra le parti nonché la violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost., comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU;

2.1. assumono i ricorrenti che la Corte territoriale ha del tutto omesso di considerare che l’iter amministrativo era stato già avviato e si trovava in una fase avanzata in quanto l’ente, oltre a deliberare l’istituzione delle posizioni organizzative, aveva anche individuato i criteri generali per la valutazione ed aveva istituito il Nucleo di valutazione;

3. il primo motivo di ricorso è infondato;

questa Corte ha più volte affermato (cfr. fra le tante Cass. nn. 15902/2018; 4890/2018; 28085/2017; 12724/2017; 12556/2017; 14591/2016; 2550/2015; 11198/2015) che il diritto del pubblico dipendente a percepire l’indennità di posizione sorge solo se la P.A. datrice di lavoro ha istituito la relativa posizione, perchè l’istituzione rientra nell’attività organizzativa dell’Amministrazione la quale deve tener conto delle proprie esigenze e soprattutto dei vincoli di bilancio, che, altrimenti, non risulterebbero rispettati laddove si dovesse pervenire all’affermazione di un obbligo indiscriminato;

3.1. è stato precisato anche che l’esclusiva rilevanza da attribuire all’atto costitutivo delle posizioni organizzative, adottato discrezionalmente, comporta che è da escludere che prima dell’adozione di tale atto sia configurabile un danno da perdita di chance per il dipendente che assuma l’elevata probabilità di essere destinatario dell’incarico e l’irrilevanza, ai suddetti fini, di eventuali atti preparatori endoprocedimentali nonché dell’espletamento di fatto di mansioni assimilabili a quelle della posizione non istituita;

3.2. i richiamati principi sono stati affermati da Cass. n. 11198/2015 e da Cass. n. 15902/2018 anche in relazione alla disciplina dettata dal CCNL 31.3.1999 di revisione del sistema di classificazione del personale per il comparto delle regioni e delle autonomie locali e si è evidenziato, in continuità con quanto già statuito da Cass. S.U. n. 16540/2008, che l’apparente diversità di formulazione delle disposizioni contrattuali rispetto a quelle relative ad altri comparti non legittima conclusioni diverse, in quanto le esigenze di servizio sono comunque valorizzate nell’art. 9, che subordina l’istituzione delle posizioni organizzate all’attuazione dei principi di razionalizzazione previsti dal D.Lgs. n. 29 del 1993 (all’epoca vigente), alla ridefinizione delle strutture e delle dotazioni organiche dell’ente, all’istituzione e attivazione dei servizi di controllo interno o dei nuclei di valutazione;

3.3. correttamente, pertanto, la Corte territoriale, all’esito dell’accertamento di fatto non censurabile in questa sede, ha escluso la fondatezza della domanda sul rilievo che la pretesa si riferiva alle funzioni esercitate in un arco temporale in cui non esisteva alcuna posizione organizzativa formalmente istituita dal Comune di Messina, perché l’iter era stato solo avviato dall’ente ed era ancora in corso, in ragione della complessità degli adempimenti e delle scelte organizzative da compiere;

3.4. i ricorrenti non prospettano argomenti che possano indurre il Collegio a rimeditare l’orientamento già espresso ed erroneamente richiamano il principio di diritto affermato da Cass. n. 8148/2018 che si riferisce a fattispecie non assimilabile a quella oggetto di causa perchè in quel caso faceva difetto solo il conferimento formale dell’incarico e le posizioni organizzative erano state formalmente istituite dall’ente, che aveva portato a compimento tutte le procedure, anche quelle inerenti la graduazione degli incarichi, necessario presupposto per l’attribuzione della retribuzione di posizione e di risultato;

4. il secondo motivo è inammissibile, sia perché la censura esula dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato da Cass. S.U. n. 8053/2014, sia in quanto le argomentazioni svolte sono prive della necessaria specifica attinenza al decisum;

la Corte territoriale, infatti, non ha omesso di considerare che l’iter era già stato avviato (pag. 3 della motivazione) bensì ha ritenuto la circostanza non decisiva alla luce dell’orientamento sopra richiamato, alla stregua del quale il diritto soggettivo può sorgere solo una volta ultimate le procedure ed istituite formalmente le posizioni, senza che possano assumere rilevanza “atti preparatori endoprocedimentali” (pag. 5 della motivazione);

5. in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

6. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dai ricorrenti.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021


Riunione del Consiglio Generale del 13.12.2021

Ai sensi dell’art. 15 dello Statuto, viene convocata la riunione Consiglio Generale che si svolgerà lunedì 13 dicembre 2021 alle ore 16:00 in modalità webinar in prima convocazione, e alle ore 18:00 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:

  1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2021;
  2. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2022;
  3. Approvazione quote di adesione ad A.N.N.A. per l’anno 2022;
  4. Rinnovo contrattuale 2019-2021: inquadramento Messi Comunali
  5. Attività formativa 2021/2022;
  6. Varie ed eventuali.

Leggi: GC 13 12 2021 Documentazione


Riunione Giunta Esecutiva del 11.12.2021

Ai sensi dell’art. 14 dello Statuto, viene convocata in PRESENZA la riunione della Giunta Esecutiva, che si svolgerà sabato 11 dicembre 2021 alle ore 8:30, in prima convocazione, e alle ore 10:30 in seconda convocazione, presso il Comune di Cesena – Palazzo Municipale – Piazza del Popolo 10, per deliberare sul seguente ordine del giorno:

  1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2021;
  2. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2022;
  3. Approvazione quote di iscrizione anno 2022;
  4. Rinnovo Contrattuale 2019-2021. Inquadramento Messi Comunali
  5. Convocazione Assemblea Generale ordinaria (Rinnovo Organi Istituzionali)
  6. Convocazione Assemblea Generale straordinaria (Modifiche allo Statuto)
  7. Attività formativa 2022;
  8. Varie ed eventuali.

 

Leggi: GE 11 12 2021 Documenti

Leggi: GE 11 12 2021 Verbale


Notifica decreto ingiuntivo: nulla o inesistente? Quali differenze

La Corte Suprema di Cassazione fa chiarezza sulla distinzione tra notifica nulla e notifica inesistente del decreto ingiuntivo e sulle conseguenze circa l’efficacia dell’atto

I rimedi per la notifica inesistente o nulla del decreto ingiuntivo

Con la sentenza n. 28573/2021, pubblicata il 18 ottobre 2021, la Corte Suprema di Cassazione ha fatto luce sulla differenza tra notifica nulla e notifica inesistente del decreto ingiuntivo, evidenziando le conseguenze procedurali che derivano da tale distinzione.

La vicenda trae origine da un caso di decreto ingiuntivo da notificare oltre i confini nazionali nei confronti di uno Stato estero, al fine di ottenere il pagamento di una commessa di lavori pubblici svolti da un’azienda italiana.

La notifica dell’atto in questione veniva effettuata via posta, tramite corriere internazionale. La consegna, però, veniva effettuata presso il Ministero della Giustizia del Paese estero, laddove il debitore risultava invece essere lo Stato, in qualità di committente dei lavori.

Per questa ragione, lo Stato estero, che successivamente era venuto a conoscenza dell’atto, agiva in giudizio per far dichiarare l’inefficacia del decreto ingiuntivo, poiché la notifica non risultava eseguita ai sensi dell’art. 644 c.p.c. A tal fine, proponeva ricorso ex art. 188 disp. att. c.p.c., ritenendo la notifica inesistente.

In aggiunta, proponeva anche opposizione tardiva contro il decreto ingiuntivo ex art. 650 c.p.c., sul presupposto che la notifica, qualora da considerarsi esistente, fosse comunque irregolare in quanto nulla.

È proprio questo il cuore della questione: la differenza tra notifica inesistente e notifica nulla. Le due patologie vanno fatte valere con due procedimenti differenti e danno origine a conseguenze diverse.

Infatti, con l’art. 188 disp. att. c.p.c. si mira a far valere l’inesistenza della notifica che comporta l’inefficacia del decreto ingiuntivo “a tutti gli effetti”.

Con il rimedio previsto dall’art. 650 c.p.c., invece, si instaura un normale giudizio di cognizione, analogo all’ordinaria opposizione a d.i. ex art. 645 c.p.c., in cui va accertata la validità del credito.

La Corte Suprema di Cassazione (successivamente adita dalle parti) offre un’interessante ricostruzione di tale distinzione.

Respinte entrambe le richieste in primo grado (e quindi ritenuta esistente, valida e tempestiva la notifica eseguita presso il Ministero estero), la Corte d’Appello successivamente adita riteneva esistente ma nulla la notifica, poiché il Ministero era considerato un ente semplicemente ricollegabile, ma pur sempre diverso, dallo Stato.

Ammetteva perciò l’opposizione tardiva, ma respingeva comunque nel merito le richieste del ricorrente nel conseguente giudizio di cognizione.

A questo punto, il Paese estero debitore adiva la Corte Suprema di Cassazione per vedere riconosciute le proprie ragioni e in particolare per ottenere la declaratoria di inesistenza della notifica.

Notifica nulla o inesistente: differenze

Con la sentenza in oggetto, che trovate allegata in fondo all’articolo, la Corte Suprema di Cassazione accoglieva il ricorso dello Stato estero, cogliendo l’occasione per evidenziare alcuni aspetti che distinguono una notifica nulla da una inesistente.

La questione è particolarmente importante perché, come ricorda la Corte Suprema di Cassazione, se la notifica viene considerata nulla diventa ammissibile l’opposizione tardiva, che dà accesso ad una fase di cognizione nel merito.

Invece, quando viene dichiarata l’inesistenza della notifica, l’atto di ingiunzione diviene inefficace poiché, in sostanza, si ritiene che il creditore non abbia avuto interesse a proseguire nel suo intento recuperatorio. Di conseguenza, alla dichiarazione di inesistenza non consegue alcuna fase di cognizione nel merito.

Al riguardo, la Corte Suprema di Cassazione ha rilevato che “la nozione di inesistenza della notificazione di un atto giudiziario è configurabile nei casi di totale mancanza materiale dell’atto, nonché nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità.”

“Tali elementi” – prosegue la Corte Suprema di Cassazione – “consistono:

  1. a) nell’attività di trasmissione, che deve essere svolta da un soggetto qualificato e dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato;
  2. b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi ex lege eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa”.

Sul punto la Corte Suprema di Cassazione richiamava anche le precedenti sentenze Cass. SS.UU. n. 14916 del 2016 e n. 29729 del 2019.

Nel caso concreto, la Corte Suprema di Cassazione ha accolto il ricorso, ritenendo inesistente (e non nulla) la notifica del d.i., poiché non effettuata presso i soggetti pubblici identificati da apposita convenzione internazionale (diversi dal Ministero), e pertanto da considerarsi «meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa», difettando quindi l’elemento essenziale della consegna dell’atto al destinatario.


SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO DI ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA (UE) 2019/770

SCHEMA DI DECRETO LEGISLATIVO DI ATTUAZIONE DELLA DIRETTIVA (UE) 2019/770 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO DEL 20 MAGGIO 2019 RELATIVA A DETERMINATI ASPETTI DEI CONTRATTI DI FORNITURA DI CONTENUTO DIGITALE E DI SERVIZI DIGITALI

IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
Visti gli articoli 76 e 87 della Costituzione;
Visto l’articolo 14 della legge 23 agosto 1988, n. 400;
Visti gli articoli 31 e 32 della legge 24 dicembre 2012, n. 234;
Vista la legge 22 aprile 2021, n. 53, recante delega al Governo per il recepimento delle direttive europee e l’attuazione di altri atti dell’Unione europea – Legge di delegazione europea 2019-2020, ed in particolare 1, comma 1 e l’allegato A, numero 11;
Vista la direttiva (UE) 2019/770 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2019 relativa a determinati aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali;
Visto il codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, e successive modificazioni;
Vista la preliminare deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del 29 luglio 2021;
Acquisiti i pareri delle competenti Commissioni della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica;
Vista la deliberazione del Consiglio dei ministri, adottata nella riunione del… ;
Sulla proposta del Presidente del Consiglio dei ministri e del Ministro della giustizia, di concerto con i Ministri dello sviluppo economico e dell’economia e delle finanze e degli affari esteri e della cooperazione internazionale;
Emana
il seguente decreto legislativo:
ART. 1
(Modifiche al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206)
1. Dopo il capo I del titolo III della parte IV del codice del consumo di cui al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, recante Codice del consumo, è inserito il seguente:
«Capo I-bis Dei contratti di fornitura di contenuto digitale e di servizi digitali
Art. 135-octies
(Ambito di applicazione e definizioni)
1. Il presente capo disciplina taluni aspetti dei contratti di fornitura di contenuto digitale o di servizi digitali conclusi tra consumatore e professionista, fra i quali la conformità del contenuto digitale o del servizio digitale al contratto, i rimedi in caso di difetto di conformità al contratto o di mancata fornitura, le modalità di esercizio degli stessi, nonché la modifica del contenuto digitale o del servizio digitale.
2. Ai fini del presente capo si intende per:
a) contenuto digitale: i dati prodotti e forniti in formato digitale;
b) servizio digitale:
1) un servizio che consente al consumatore di creare, trasformare, archiviare i dati o di accedervi in formato digitale; oppure

2) un servizio che consente la condivisione di dati in formato digitale, caricati o creati dal consumatore e da altri utenti di tale servizio, o qualsiasi altra interazione con tali dati;
c) beni con elementi digitali: qualsiasi bene mobile materiale che incorpora o è interconnesso con un contenuto digitale o un servizio digitale in modo tale che la mancanza di detto contenuto digitale o servizio digitale impedirebbe lo svolgimento delle funzioni del bene;
d) integrazione: il collegamento del contenuto o del servizio digitale con le componenti dell’ambiente digitale del consumatore e l’incorporazione in dette componenti affinché il contenuto digitale o il servizio digitale sia utilizzato nel rispetto dei requisiti di conformità
previsti dal presente capo;
e) professionista: qualsiasi persona fisica o giuridica, indipendentemente dal fatto che si tratti di un soggetto pubblico o privato, ovvero un suo intermediario, che agisca per finalità che rientrano nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, in relazione ai contratti oggetto dal presente capo, ivi compreso il fornitore di piattaforme se agisce per finalità che rientrano nel quadro della sua attività e in quanto controparte contrattuale del consumatore per la fornitura di contenuto digitale o di servizi digitali;
f) consumatore: la persona fisica di cui all’articolo 3, comma 1, lettera a);
g) prezzo: la somma di denaro o una rappresentazione digitale del valore dovuto come corrispettivo per la fornitura di contenuto digitale o di servizio digitale;
h) dati personali: i dati personali quali definiti all’articolo 4, punto 1), del regolamento (UE) 2016/679;
i) ambiente digitale: l’hardware, il software e le connessioni di rete di cui il consumatore si serve per accedere al contenuto digitale o al servizio digitale o per usarlo;
l) compatibilità: la capacità del contenuto digitale o del servizio digitale di funzionare con hardware o software con cui sono normalmente utilizzati contenuti digitali o servizi digitali dello stesso tipo, senza che sia necessario convertire il contenuto digitale o il servizio digitale;
m) funzionalità: la capacità del contenuto digitale o del servizio digitale di svolgere tutte le sue funzioni in considerazione del suo scopo;
n) interoperabilità: la capacità del contenuto digitale o del servizio digitale di funzionare con hardware o software diversi da quelli con cui sono normalmente utilizzati i contenuti digitali o i servizi digitali dello stesso tipo;
o) supporto durevole: ogni strumento che permetta al consumatore o al professionista di archiviare le informazioni che gli sono personalmente indirizzate, in modo da potervi accedere in futuro per un periodo di tempo adeguato alle finalità cui esse sono destinate e che permetta la
riproduzione identica delle informazioni archiviate.
3. Le disposizioni del presente capo si applicano a qualsiasi contratto in cui il professionista fornisce, o si obbliga a fornire, un contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore corrisponde un prezzo o si obbliga a corrispondere un prezzo.
4. Le disposizioni del presente capo si applicano altresì nel caso in cui il professionista fornisce o si obbliga a fornire un contenuto digitale o un servizio digitale al consumatore e il consumatore fornisce o si obbliga a fornire dati personali al professionista, fatto salvo il caso in cui i dati personali forniti dal consumatore siano trattati esclusivamente dal professionista ai fini della fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale a norma del presente capo o per consentire l’assolvimento degli obblighi di legge cui è soggetto il professionista e quest’ultimo non tratti tali dati per scopi diversi da quelli previsti.
5. Le disposizioni del presente capo si applicano anche se il contenuto digitale o il servizio digitale è sviluppato secondo le specifiche indicazioni del consumatore.
6. Fatti salvi gli articoli 135-decies, commi 1 e 2, e 135-septiesdecies, le disposizioni del presente capo si applicano anche al supporto materiale che funge esclusivamente da vettore di contenuto digitale.
Art. 135-novies
(Esclusioni)
1. Le disposizioni del presente capo non si applicano ai contenuti digitali o ai servizi digitali incorporati o interconnessi con beni di cui all’articolo 135-octies, comma 2, lettera c), e che sono forniti con il bene ai sensi di un contratto di vendita relativo a tali beni, indipendentemente dal fatto che detti contenuti digitali o servizi digitali siano forniti dal venditore o da un terzo.
Quando è dubbio che la fornitura del contenuto digitale incorporato o interconnesso o servizio digitale incorporato o interconnesso faccia parte del contratto di vendita, si presume che il contenuto digitale o il servizio digitale incorporato o interconnesso rientri nel contratto di vendita del bene.
2. Le disposizioni del presente capo non si applicano ai contratti concernenti:
a) la fornitura di servizi diversi dai servizi digitali, indipendentemente dal fatto che il professionista ricorra o meno a forme o mezzi digitali per ottenere il risultato del servizio o consegnarlo o trasmetterlo al consumatore;
b) servizi di comunicazioni elettroniche ai sensi dell’articolo 2, punto 4), della direttiva (UE) 2018/1972 ad eccezione dei servizi di comunicazioni interpersonale senza numero di cui all’articolo 2, punto 7), di tale direttiva;
c) servizi di assistenza sanitaria, per i servizi prestati da professionisti sanitari a pazienti, al fine di valutare, mantenere o ristabilire il loro stato di salute, ivi compresa la prescrizione, la somministrazione e la fornitura di medicinali e dispositivi medici, sia essa fornita o meno attraverso le strutture di assistenza sanitaria;
d) servizi di gioco d’azzardo, vale a dire servizi che implicano una posta di valore pecuniario in giochi di fortuna, compresi quelli con un elemento di abilità, come le lotterie, i giochi d’azzardo nei casinò, il poker e le scommesse, che vengano forniti mediante strumenti elettronici o qualsiasi altra tecnologia che facilita le comunicazioni e su richiesta individuale di un destinatario di tali servizi;
e) servizi finanziari, vale a dire qualsiasi servizio di natura bancaria, creditizia, assicurativa, servizi pensionistici individuali, di investimento o di pagamento;
f) software offerto dal professionista sulla base di una licenza libera e aperta, in cui il consumatore non corrisponde un prezzo e i dati personali forniti dal consumatore stesso sono trattati esclusivamente dal professionista al fine di migliorare la sicurezza, la compatibilità o l’interoperabilità del software specifico;
g) la fornitura di contenuto digitale se il contenuto digitale è messo a disposizione del pubblico con mezzi diversi dalla trasmissione di segnale quale parte di uno spettacolo o di un evento, come le proiezioni cinematografiche digitali;
h) contenuto digitale fornito da enti pubblici, a norma della direttiva 2019/1024 del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al riutilizzo dell’informazione del settore pubblico.
3. Fatto salvo quanto previsto dal comma 1, qualora un singolo contratto tra professionista e consumatore comprenda in un unico pacchetto elementi di fornitura di contenuto digitale o di un servizio digitale ed elementi relativi alla fornitura di altri beni o servizi, le disposizioni del presente capo si applicano unicamente agli elementi del contratto che riguardano il contenuto digitale o il servizio digitale. L’articolo 135-vicies semel non si applica se un pacchetto di servizi o di servizi e apparecchiature disciplinato dal codice europeo delle comunicazioni elettroniche
include elementi:
a) di un servizio di comunicazione elettronica a disposizione del pubblico che fornisce accesso a Internet, ovvero connettività a praticamente tutti i punti finali di Internet, a prescindere dalla tecnologia di rete e dalle apparecchiature terminali utilizzate;
b) o di un servizio di comunicazioni interpersonale che si connette a risorse di numerazione assegnate pubblicamente – ossia uno o più numeri che figurano in un piano di numerazione nazionale o internazionale – o consente la comunicazione con uno o più numeri che figurano in un piano di numerazione nazionale o internazionale.
4. Se il consumatore ha il diritto di risolvere qualsiasi elemento del pacchetto di cui al comma 3 prima della scadenza contrattuale concordata per ragioni di mancata conformità al contratto o di mancata fornitura, ha diritto di risolvere il contratto in relazione a tutti gli elementi del pacchetto.
5. In caso di conflitto tra le disposizioni del presente capo e una disposizione di un altro atto dell’Unione che disciplina uno specifico settore o oggetto, la disposizione di tale altro atto dell’Unione e quelle nazionali di recepimento prevalgono su quelle del presente capo.
6. Le disposizioni nazionali e quelle del diritto dell’Unione in materia di protezione dei dati personali, in particolare quanto previsto dal regolamento (UE) 2016/679, nonché dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101 e dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, si applicano a qualsiasi dato personale trattato in relazione ai contratti di cui all’articolo 135-octies, comma 3.
In caso di conflitto tra le disposizioni del presente capo e quelle del diritto dell’Unione in materia di protezione dei dati personali, prevalgono queste ultime.
7. Le disposizioni del presente capo non pregiudicano il diritto dell’Unione e nazionale sul diritto d’autore e sui diritti connessi.
Art. 135-decies
(Fornitura di contenuto digitale o servizio digitale e conformità al contratto)
1. Il professionista fornisce il contenuto digitale o il servizio digitale al consumatore. Salvo diverso accordo tra le parti, il professionista fornisce il contenuto digitale o il servizio digitale al consumatore senza ritardo ingiustificato dopo la conclusione del contratto.
2. Il professionista ha adempiuto l’obbligo di fornitura quando:
a) il contenuto digitale o qualunque mezzo idoneo per accedere al contenuto digitale o per scaricarlo è reso disponibile o accessibile al consumatore, o all’impianto fisico o virtuale scelto a tal fine dal consumatore;
b) il servizio digitale è reso accessibile al consumatore o a un impianto fisico o virtuale scelto all’uopo dal consumatore.
3. Il professionista fornisce al consumatore beni che soddisfano i requisiti di cui ai commi 4 e 5, nonché quelli di cui agli articoli 135-undecies e 135-duodecies in quanto compatibili, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 135-terdecies.
4. Per essere conforme al contratto il contenuto digitale o il servizio digitale deve possedere i seguenti requisiti soggettivi, ove pertinenti:
a) corrispondere alla descrizione, alla quantità e alla qualità previste dal contratto e presentare funzionalità, compatibilità, interoperabilità e le altre caratteristiche previste dal contratto;
b) essere idoneo ad ogni uso particolare voluto dal consumatore e che è stato da questi portato a conoscenza del professionista al più tardi al momento della conclusione del contratto e che il professionista ha accettato;
c) essere fornito con tutti gli accessori, le istruzioni, anche in merito all’installazione e l’assistenza ai clienti, come previsti dal contratto; e
d) essere aggiornato come previsto dal contratto.

5. Oltre a rispettare i requisiti soggettivi di conformità, il bene per essere conforme al contratto  di vendita deve possedere i seguenti requisiti oggettivi, ove pertinenti:
a) essere adeguato agli scopi per cui sarebbe abitualmente utilizzato un contenuto digitale o un servizio digitale del medesimo tipo, tenendo conto, se del caso, dell’eventuale diritto dell’Unione e nazionale e delle norme tecniche esistenti, oppure, in mancanza di tali norme tecniche, dei codici di condotta dell’industria specifici del settore applicabili;
b) essere della quantità e presentare la qualità e le caratteristiche di prestazione, anche in materia di funzionalità, compatibilità, accessibilità, continuità e sicurezza, che si ritrovano abitualmente nei contenuti digitali o nei servizi digitali dello stesso tipo e che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, tenuto conto della natura del contenuto digitale o del servizio digitale, tenendo conto di eventuali dichiarazioni pubbliche rese da o per conto dell’operatore economico o di altri soggetti nell’ambito dei precedenti passaggi della catena contrattuale distributiva, soprattutto nei messaggi pubblicitari e nell’etichettatura, a meno che il professionista non dimostri, anche alternativamente, che:
1) non era a conoscenza e non poteva ragionevolmente essere a conoscenza della dichiarazione pubblica in questione;
2) al momento della conclusione del contratto, la dichiarazione pubblica era stata rettificata nello stesso modo, o in modo paragonabile, a quello in cui era stata resa; oppure
3) la decisione di acquistare il contenuto digitale o il servizio digitale non poteva essere influenzata dalla dichiarazione pubblica;
c) ove pertinente, essere fornito assieme agli eventuali accessori e istruzioni che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi di ricevere; e
d) essere conforme all’eventuale versione di prova o anteprima del contenuto digitale o del servizio digitale messa a disposizione dal professionista prima della conclusione del contratto.
Art. 135-undecies
(Obblighi del professionista e condotta del consumatore)
1. Il professionista è obbligato a tenere informato il consumatore sugli aggiornamenti disponibili, anche di sicurezza, necessari al fine di mantenere la conformità del contenuto digitale o del servizio digitale, e a fornirglieli, nel periodo di tempo:
a) durante il quale il contenuto digitale o il servizio digitale deve essere fornito a norma del contratto, se questo prevede una fornitura continua per un determinato periodo di tempo; oppure
b) che il consumatore può ragionevolmente aspettarsi, date la tipologia e la finalità del contenuto digitale o del servizio digitale e tenendo conto delle circostanze e della natura del contratto, se questo prevede un unico atto di fornitura o una serie di singoli atti di fornitura.
2. Se il consumatore non installa entro un congruo termine gli aggiornamenti forniti dal professionista ai sensi del comma 1, il professionista non è responsabile per qualsiasi difetto di conformità derivante unicamente dalla mancanza dell’aggiornamento pertinente, a condizione
che:
a) il professionista abbia informato il consumatore della disponibilità dell’aggiornamento e delle conseguenze della mancata installazione dello stesso da parte del consumatore; e
b) la mancata installazione o l’installazione errata dell’aggiornamento da parte del consumatore non è dovuta a carenze delle istruzioni di installazione fornite dal professionista.
3. Se il contratto prevede che il contenuto digitale o il servizio digitale sia fornito in modo continuativo per un determinato periodo di tempo, l’obbligo di assicurare la conformità del contenuto digitale o il servizio digitale permane per l’intera durata di tale periodo.
4. Non vi è difetto di conformità ai sensi del comma 1 o dell’articolo 135-decies, comma 5, se, al momento della conclusione del contratto, il consumatore era stato specificamente informato del fatto che una caratteristica particolare del contenuto digitale o del servizio digitale si discostava dai requisiti oggettivi di conformità previsti da tali disposizioni e il consumatore ha espressamente e separatamente accettato tale scostamento al momento della conclusione del contratto.
5. Salvo diverso accordo tra le parti, il contenuto digitale o il servizio digitale è fornito nella versione più recente disponibile al momento della conclusione del contratto.
ART. 135-duodecies
(Errata integrazione del contenuto digitale o del servizio digitale)
1. L’eventuale difetto di conformità che deriva da un’errata integrazione del contenuto digitale o del servizio digitale nell’ambiente digitale del consumatore deve essere considerato difetto di conformità del contenuto digitale o del servizio digitale se:
a) il contenuto digitale o servizio digitale è stato integrato dal professionista o sotto la sua responsabilità; oppure
b) il contenuto digitale o il servizio digitale richiedeva integrazione da parte del consumatore e l’errata integrazione è dovuta a una carenza delle istruzioni di integrazione fornite dal professionista.
ART. 135-terdecies
(Diritti dei terzi)
1. I rimedi di cui all’articolo 135-octiesdecies si estendono ai casi di impedimento o limitazione d’uso del contenuto o del servizio digitale in conformità a quanto previsto dall’articolo 135-decies, commi 4 e 5, conseguenti ad una restrizione derivante dalla violazione di diritti dei terzi, in particolare di diritti di proprietà intellettuale, fatte salve altre disposizioni previste dall’ordinamento giuridico in tema di nullità, annullamento o altre ipotesi di scioglimento del contratto.
ART. 135-quaterdecies
(Responsabilità del professionista)
1. Il professionista è responsabile per la mancata fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale conformemente all’articolo 135-decies, commi 1 e 2.
2. Qualora un contratto preveda un unico atto di fornitura o una serie di singoli atti di fornitura, il professionista è responsabile per qualsiasi difetto di conformità a norma degli articoli 135-decies, commi 4 e 5, 135-undecies, 135-duodecies e 135-quindecies, esistente al momento della fornitura, fatto salvo quanto previsto dall’articolo 135-undecies, comma 1, lettera b).
3. Il professionista è responsabile solamente per i difetti di conformità che si manifestano entro due anni a decorrere dal momento della fornitura, fatto salvo l’articolo 135-undecies, comma 1, lettera b).
4. L’azione diretta a far valere i difetti sussistenti al momento della fornitura e non dolosamente occultati dal professionista si prescrive, in ogni caso, nel termine di ventisei mesi da tale momento, ove risultino evidenti entro tale termine.
5. Se il contratto prevede la fornitura continuativa per un periodo di tempo, il professionista risponde di un difetto di conformità, a norma degli articoli 135-decies, commi 4 e 5, 135-undecies e 135-duodecies se il difetto si manifesta o risulta evidente nel periodo di tempo durante il quale il contenuto digitale o il servizio digitale deve essere fornito a norma del contratto.
6. L’azione diretta a far valere i difetti emersi nel corso della fornitura e non dolosamente occultati dal professionista si prescrive, in ogni caso, nel termine di ventisei mesi dall’ultimo atto di fornitura.
Art. 135-quindecies
(Diritto di regresso)
1. Il professionista, quando è responsabile nei confronti del consumatore a causa della mancata fornitura di un contenuto digitale o di un servizio digitale o per l’esistenza di un difetto di conformità imputabile ad un’azione o ad un’omissione di una persona nell’ambito dei passaggi precedenti della medesima catena contrattuale distributiva ha diritto di regresso nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili facenti parte della suddetta catena distributiva.
2. Il professionista che abbia ottemperato ai rimedi esperiti dal consumatore può agire, entro un anno dall’esecuzione della prestazione, in regresso nei confronti del soggetto o dei soggetti responsabili per ottenere la reintegrazione di quanto prestato.
Art. 135-sexiesdecies
(Onere della prova)
1. L’onere della prova riguardo al fatto se il contenuto digitale o il servizio digitale sia stato fornito in conformità dell’articolo 135-decies, commi 1 e 2, è a carico del professionista.
2. Nei casi di cui all’articolo 135-quaterdecies, comma 2, l’onere della prova della conformità al contratto del contenuto digitale o del servizio digitale al momento della fornitura è a carico del professionista per un difetto di conformità che risulti evidente entro il termine di un anno dal momento in cui il contenuto digitale o il servizio digitale è stato fornito.
3. Nei casi di cui all’articolo 135-quaterdecies, comma 5, l’onere della prova della conformità al contratto del contenuto digitale o il servizio digitale durante il periodo di tempo in cui avviene la fornitura è a carico del professionista per un difetto di conformità che si manifesta entro tale periodo.
4. I commi 2 e 3 non si applicano se il professionista dimostra che l’ambiente digitale del consumatore non è compatibile con i requisiti tecnici del contenuto digitale o del servizio digitale e se ha informato il consumatore di tali requisiti in modo chiaro e comprensibile prima della conclusione del contratto.
5. Il consumatore collabora con il professionista per quanto ragionevolmente possibile e necessario al fine di accertare se la causa del difetto di conformità del contenuto digitale o del necessario servizio digitale al momento specificato dall’articolo 135-quaterdecies, commi 2 o 5, a seconda dei casi, risieda nell’ambiente digitale del consumatore. L’obbligo di collaborazione è limitato ai mezzi tecnicamente disponibili che siano meno intrusivi per il consumatore. Se il consumatore non collabora e se il professionista ha informato il consumatore dei requisiti inerenti il necessario ambiente digitale in modo chiaro e comprensibile prima della conclusione del contratto, l’onere della prova riguardo all’esistenza del difetto di conformità al momento di cui all’articolo 135-quaterdecies, commi 2 e 5 è a carico del consumatore.
Art. 135-septiesdecies
(Rimedio per la mancata fornitura)
1. Se il professionista ha omesso di fornire il contenuto digitale o il servizio digitale conformemente all’articolo 135-decies, commi 1 e 2, il consumatore invita il professionista a fornire il contenuto digitale o il servizio digitale. Se il professionista omette nuovamente di fornire il contenuto digitale o il servizio digitale entro un termine congruo oppure entro un ulteriore termine espressamente concordato dalle parti, il consumatore ha il diritto di risolvere il contratto.
2. Il comma 1 non trova applicazione e il consumatore ha il diritto di risolvere immediatamente il contratto se:
a) il professionista ha dichiarato, o risulta altrettanto chiaramente dalle circostanze, che non fornirà il contenuto digitale o il servizio digitale;
b) il consumatore e il professionista hanno convenuto, o risulta evidente dalle circostanze che accompagnano la conclusione del contratto, che un tempo specifico per la fornitura è essenziale per il consumatore e il professionista omette di fornire il contenuto digitale o il servizio digitale
entro o in tale momento.
3. Se il consumatore risolve il contratto a norma dei commi 1 e 2, si applicano le disposizioni previste dagli articoli da 135-noviesdecies a 135-vicies.
Art. 135-octiesdecies
(Rimedi per difetti di conformità)
1. In caso di difetto di conformità del bene, il consumatore ha diritto al ripristino della conformità, o a ricevere una congrua riduzione del prezzo, o alla risoluzione del contratto sulla base delle condizioni stabilite nel presente articolo.
2. Il consumatore ha diritto al ripristino della conformità del contenuto digitale o del servizio digitale, a meno che ciò non sia impossibile o imponga al professionista costi che sarebbero sproporzionati, tenuto conto di tutte le circostanze del caso e, in particolare, delle seguenti:
a) il valore che il contenuto digitale o servizio digitale avrebbe in assenza di difetto di conformità; e
b) l’entità del difetto di conformità.
3. Il professionista rende il contenuto digitale o il servizio digitale conforme ai sensi del comma 2, entro un congruo termine a partire dal momento in cui è stato informato dal consumatore in merito al difetto di conformità, senza spese e senza notevoli inconvenienti per il consumatore, tenuto conto della natura del contenuto digitale o del servizio digitale e dell’uso che il consumatore intendeva farne.
4. Il consumatore ha diritto a una riduzione proporzionale del prezzo a norma del comma 5 se il contenuto digitale o il servizio digitale è fornito in cambio del pagamento di un prezzo, o alla risoluzione del contratto conformemente al comma 6, in uno dei casi seguenti:
a) il rimedio del ripristino della conformità del contenuto digitale o del servizio digitale è impossibile o sproporzionato ai sensi del comma 2;
b) il professionista non ha ripristinato la conformità del contenuto digitale o del servizio digitale ai sensi del comma 3;
c) si manifesta un difetto di conformità, nonostante il tentativo del professionista di ripristinare la conformità del contenuto digitale o servizio digitale;
d) il difetto di conformità è talmente grave da giustificare un’immediata riduzione del prezzo o risoluzione del contratto; oppure

e) il professionista ha dichiarato, o risulta altrettanto chiaramente dalle circostanze, che non procederà al ripristino della conformità del contenuto digitale o del servizio digitale entro un congruo termine o senza notevoli inconvenienti per il consumatore.
5. La riduzione del prezzo è proporzionale alla diminuzione di valore del contenuto digitale o del servizio digitale fornito al consumatore rispetto al valore che avrebbe se fosse stato conforme.
Se il contratto stabilisce che il contenuto digitale o il servizio digitale deve essere fornito per un determinato periodo di tempo in cambio del pagamento di un prezzo, la riduzione di prezzo si applica al periodo di tempo in cui il contenuto digitale o il servizio digitale non è stato conforme.
6. Se il contenuto digitale o il servizio digitale è stato fornito in cambio del pagamento di un prezzo, il consumatore non ha diritto di risolvere il contratto se il difetto di conformità è di lieve entità. L’onere della prova riguardo al fatto che il difetto di conformità è di lieve entità è a carico del professionista.
Art. 135-noviesdecies
(Risoluzione del contratto)
1. Il consumatore esercita il diritto alla risoluzione del contratto mediante una dichiarazione al venditore in cui manifesta la volontà di risolvere il contratto.
2. In caso di risoluzione del contratto il professionista rimborsa al consumatore tutti gli importi versati in esecuzione del contratto. Tuttavia, se il contratto prevede la fornitura del contenuto digitale o del servizio digitale in cambio del pagamento di un prezzo e per un periodo di tempo, e il contenuto digitale o il servizio digitale è stato conforme per un periodo di tempo prima della risoluzione del contratto, il professionista rimborsa al consumatore solo la parte dell’importo pagato corrispondente al periodo in cui il contenuto digitale o il servizio digitale non è stato conforme e qualsiasi parte del prezzo pagato in anticipo dal consumatore relativa al periodo di durata del contratto rimanente se il contratto non fosse stato risolto.
3. Per quanto riguarda i dati personali del consumatore, il professionista è tenuto a rispettare gli obblighi derivanti dal regolamento (UE) 2016/679 nonché dal decreto legislativo n. 101 del 2018.
4. Il professionista si astiene dall’utilizzare qualsiasi contenuto diverso dai dati personali che sia stato fornito o creato dal consumatore nell’ambito dell’utilizzo del contenuto digitale o del servizio digitale fornito dal professionista, fatto salvo il caso in cui tale contenuto:
a) sia privo di utilità al di fuori del contesto del contenuto digitale o del servizio digitale fornito dal professionista;
b) si riferisca solamente all’attività del consumatore nell’utilizzo del contenuto digitale o del servizio digitale fornito dal professionista;
c) sia stato aggregato dal professionista ad altri dati e non possa essere disaggregato o comunque non senza uno sforzo sproporzionato; o
d) sia stato generato congiuntamente dal consumatore e altre persone, e altri consumatori possano continuare a utilizzare il contenuto.
5. Ad eccezione delle situazioni di cui al comma 4, lettere a), b) o c), il professionista mette a disposizione del consumatore, su richiesta dello stesso, contenuti diversi dai dati personali, che sono stati forniti o creati dal consumatore durante l’utilizzo del contenuto digitale o del servizio
digitale fornito dal professionista. Il consumatore ha il diritto di recuperare dal professionista tali contenuti digitali gratuitamente e senza impedimenti, entro un congruo lasso di tempo e in un formato di uso comune e leggibile da dispositivo automatico.
6. Il professionista può impedire qualsiasi ulteriore utilizzo del contenuto digitale o del servizio digitale da parte del consumatore, in particolare rendendogli il contenuto digitale o il servizio digitale inaccessibile o disattivando il suo account utente, fatto salvo quanto previsto al comma 5.
7. In seguito alla risoluzione del contratto, il consumatore si astiene dall’utilizzare il contenuto digitale o il servizio digitale e dal metterlo a disposizione di terzi.
8. Se il contenuto digitale è stato fornito su un supporto materiale, il consumatore lo restituisce al professionista, su richiesta e a spese di quest’ultimo, senza indebito ritardo. Se il professionista decide di chiedere la restituzione del supporto materiale, è tenuto a presentare la richiesta entro quattordici giorni a decorrere dal giorno in cui il professionista è stato informato della decisione del consumatore di risolvere il contratto.
9. Il consumatore non è tenuto a pagare per l’uso del contenuto digitale o del servizio digitale nel periodo precedente la risoluzione del contratto durante il quale il contenuto digitale o il servizio digitale non è stato conforme.
Art. 135-vicies
(Rimborso al consumatore)
1. Eventuali rimborsi dovuti al consumatore dal professionista a norma dell’articolo 135-octiesdecies, commi 4 e 5, o dell’articolo 135-noviesdecies, comma 2, dovuti alla riduzione del prezzo o alla risoluzione del contratto sono effettuati senza ritardo ingiustificato e, in ogni caso,
entro quattordici giorni dal giorno in cui il professionista è informato della decisione del consumatore di esercitare il diritto del consumatore a una riduzione di prezzo o il suo diritto alla risoluzione dal contratto.
2. Il professionista effettua il rimborso utilizzando lo stesso mezzo di pagamento usato dalla risoluzione del consumatore per pagare il contenuto digitale o il servizio digitale, salvo che il consumatore consenta espressamente all’uso di un altro mezzo e non debba sostenere alcuna spesa relativa al rimborso.
3. Il professionista non impone al consumatore alcuna commissione in relazione al rimborso.
Art. 135-vicies semel
(Modifica del contenuto digitale o del servizio digitale)
1. Se il contratto prevede che il contenuto digitale o il servizio digitale sia fornito o reso accessibile al consumatore per un certo periodo di tempo, il professionista può modificare il contenuto digitale o il servizio digitale oltre a quanto è necessario per mantenere la conformità del contenuto digitale o del servizio digitale a norma degli articoli 135-decies, commi 4 e 5, e 135-undecies, se sono soddisfatte le condizioni seguenti:
a) il contratto consente tale modifica e ne fornisce una motivazione valida;
b) tale modifica è realizzata senza costi aggiuntivi per il consumatore;
c) il consumatore è informato in modo chiaro e comprensibile della modifica; e
d) nei casi di cui al comma 2, il consumatore è informato, con un anticipo ragionevole su un supporto durevole, sulle modalità e il momento in cui viene effettuata la modifica, nonché circa il suo diritto di recedere dal contratto conformemente al comma 2 o circa la possibilità di mantenere il contenuto digitale o il servizio digitale senza tale modifica secondo quanto previsto al comma 4.
2. Il consumatore ha il diritto di recedere dal contratto qualora tale modifica incida negativamente sull’utilizzo del contenuto digitale o del servizio digitale o sull’accesso allo stesso da parte del consumatore, a meno che tali conseguenze negative siano trascurabili. In tal caso, il consumatore ha diritto a recedere dal contratto gratuitamente entro un termine di trenta giorni dalla data di ricevimento dell’informazione o, se successivo, dal momento in cui il contenuto digitale o il servizio digitale è stato modificato dal professionista.
3. Se il consumatore recede dal contratto conformemente al comma 2 del presente articolo, si applicano gli articoli 135-noviesdecies e 135-vicies.
4. I commi 2 e 3 del presente articolo non si applicano se il professionista ha consentito che, applicando senza costi aggiuntivi, il consumatore mantenga il contenuto digitale o il servizio digitale senza modifica e se è preservata la conformità del contenuto digitale o del servizio digitale.
Art. 135-vicies bis
(Carattere imperativo delle disposizioni)
1. Salvo quanto altrimenti disposto dal presente capo, è nullo ogni patto, anteriore alla comunicazione al professionista del difetto di conformità, o dell’informazione del consumatore da parte del professionista circa la modifica del contenuto digitale o del servizio digitale, volto ad escludere o limitare a danno del consumatore, anche in modo indiretto, i diritti riconosciuti dal presente capo. La nullità può essere fatta valere solo dal consumatore e può essere rilevata d’ufficio dal giudice.
2. Il professionista può sempre offrire al consumatore condizioni contrattuali di maggior tutela rispetto a quanto previsto dalle disposizioni del presente capo.
3. È nulla ogni clausola contrattuale che, prevedendo l’applicabilità al contratto di una legislazione di uno Stato non appartenente all’Unione europea, abbia l’effetto di privare il consumatore della protezione assicurata dal presente capo, laddove il contratto presenti uno stretto collegamento con il territorio di uno Stato membro dell’Unione europea.
Art. 135-vicies ter
(Tutela in base ad altre disposizioni)
1. Per quanto non previsto dal presente capo, si applicano le disposizioni del codice civile in tema di formazione, validità ed efficacia dei contratti, comprese le conseguenze della risoluzione del contratto e il diritto al risarcimento del danno.
2. Per gli aspetti disciplinati dal presente capo non si applicano altre disposizioni aventi l’effetto di garantire al consumatore un livello di tutela diverso.”.
ART. 2
(Disposizioni finali)
1. Le modifiche apportate al decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206, dall’articolo 1, comma 1 del presente decreto acquistano efficacia a decorrere dal 1° gennaio 2022 e si applicano alle forniture di contenuto digitale o di servizi digitali che avvengono a decorrere da tale data, fatta
eccezione per gli articoli 135-quindecies e 135-vicies semel che si applicano ai contratti conclusi a decorrere da tale data.
2. Il Ministero dello sviluppo economico informa la Commissione europea, entro 60 giorni dall’entrata in vigore del presente decreto, delle disposizioni adottate nella materia disciplinata dalla direttiva (UE) 2019/770 e qualsiasi successiva modifica della normativa interna.
ART. 3
(Disposizioni finanziarie)
1. Dall’attuazione delle disposizioni di cui al presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti previsti dal presente decreto con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili
a legislazione vigente.
Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare