Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 23/06/2015) 24/06/2015, n. 3202

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4843 del 2015, proposto da:

Istituto di Istruzione Superiore “N.D.F.” – “G.Prestia”Di Vibo Valentia – Ipsia “G.Prestia”, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi 12;

contro

T. e Costruzioni Servizi-Società Cooperativa, C. Srl, Consorzio I. e Servizi-Società Cooperativa, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’avv. Giovanni Battista Conte, con domicilio eletto presso Giovanni Battista Conte in Roma, Via E.Q. Visconti 99;

nei confronti di

Provincia di Vibo Valentia – Stazione Unica Appaltante, Provincia di Vibo Valentia, Cpl Polistena, E.F.C. Srl;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CALABRIA – CATANZARO :SEZIONE I n. 00554/2015, resa tra le parti, concernente

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di T. e Costruzioni Servizi-Società Cooperativa, di C. Srl, di Consorzio I., di Servizi-Società Cooperativa;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2015 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti l’avvocato Conte e l’avvocato dello Stato Basilica;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Considerato che sussistono i presupposti per pronunciare sentenza in forma semplificata atteso che il contraddittorio è integro, l’istruttoria è completa, le parti sono state avvertite ai sensi dell’art. 60 c.p.a. e la definizione del giudizio dipende dalla risoluzione di una pregiudiziale questione di diritto;

Ritenuto che è fondato il primo motivo di appello con cui si lamenta la nullità della notifica del ricorso di primo grado perché avvenuta direttamente presso l’Istituto scolastico e non presso l’Avvocatura dello Stato (che nel relativo giudizio dinanzi al Tribunale amministrativo regionale non si è costituito);

Ritenuto, in particolare, che:

– gli istituti scolastici, sebbene forniti della personalità giuridica, rimangono Amministrazioni dello Stato, come tali soggetti al patrocinio obbligatorio ed esclusivo dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi dell’art.1 t.u. 30 ottobre 1933 n.1611;

– a tale conclusione non osta il riconoscimento della personalità giuridica, in quanto, come la giurisprudenza ha avuto modo di precisare (cfr. Cass. 10982/96), la personalità giuridica è rilevante nei confronti dei terzi, finalizzata all’imputazione alla scuola delle attività negoziali e della responsabilità civile, e quindi ad una maggiore agilità di operazioni, ma nei confronti dello Stato, l’istituto dotato di personalità giuridica permane nella sua qualità di organo, sia pure con l’autonomia riconosciuta (cfr. anche Cass., sez. III 2605/1997);

– in senso contrario non può richiamarsi l’indirizzo giurisprudenziale che, invece, con riferimento alle Università, ha ritenuto facoltativo e non obbligatorio il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato: le Università, a differenze degli istituti scolastici, sono, infatti, enti pubblici non statali e soltanto tale qualifica giustifica la conclusione che qualifica come “facoltativo” il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato;

– non rileva neanche la previsione normativa contenuta nell’articolo unico del D.P.R. 26 novembre n. 1027 che, non senza ambiguità, prevede che l’Avvocatura dello Stato “può assumere” la rappresentanza e la difesa degli istituti professionali per l’industria e l’artigianato. Tale disposizione, che ha rango regolamentare, non può, infatti, prevalere sulle norme di rango primario (art. 1 R.D. n. 1611 del 1933) che per tutte le Amministrazioni dello Stato prevedono l’obbligatorietà e l’esclusività del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato;

Considerato, quindi, che la nullità della notifica determina l’inammissibilità del ricorso di primo grado, per non essere lo stesso stato notificato, nel termine di decadenza, all’Amministrazione resistente;

Ritenuto, infine, che la peculiarità e la parziale novità della questione di diritto giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio;

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, dichiara inammissibile il ricorso di primo grado.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 giugno 2015 con l’intervento dei magistrati:

Filippo Patroni Griffi, Presidente

Maurizio Meschino, Consigliere

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

Gabriella De Michele, Consigliere

Roberta Vigotti, Consigliere

 


Incostituzionalità della sanzione per i compensi ai pubblici dipendenti

La Corte Costituzionale con la recente Sentenza n. 98 del 5 giugno 2015, nel risolvere la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale Ordinario di Ancona, ha dichiarato incostituzionale l’articolo 53, comma 15, del Decreto Legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che “I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9”.

Nello specifico, è stata dichiarata incostituzionale la sanzione comminata agli enti pubblici ed ai soggetti privati che, avendo conferito un incarico professionale ad un dipendente pubblico, non comunicano, nei termini di legge (ovvero entro il 30 aprile di ciascun anno), i compensi erogati nell’anno precedente.

Riguardo a tale sanzione ponendo l’accento su di un’attività di verifica che era stata intrapresa dalla Guardia di Finanza, volta a sanzionare coloro che, avendo affidato un incarico professionale retribuito ad un professionista che ricopriva il ruolo di docente universitario a tempo pieno, avevano aggiudicato il suddetto incarico senza la previa autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza del pubblico dipendente, contrariamente a quanto previsto dalla normativa vigente, nonché omettevano la comunicazione dei compensi.

A seguito di tale attività ispettiva, gli “sfortunati” clienti del professionista-docente universitario si erano così visti notificare un verbale di contestazione con l’irrogazione di una sanzione pari al doppio del compenso corrisposto al professionista, con la possibilità di presentare entro 30 giorni scritti difensivi e documenti o di pagare entro 60 giorni un terzo della sanzione prevista per la violazione.

Si era, pertanto, avuto modo di sottolineare come, proprio in considerazione dell’effettiva violazione commessa e, in particolare, in considerazione dell’esimente dell’incolpevole errore sul fatto, nel caso in cui il soggetto non era al corrente della qualifica di dipendente pubblico della persona al quale era stato aggiudicato l’incarico ed erogato il compenso, si trattava di una sanzione quanto mai ingiusta e del tutto esorbitante.

Ora la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale la norma che prevedeva l’applicazione della sanzione per la mancata comunicazione dei compensi, sulla base di una serie di motivazioni.

Innanzitutto, la Corte Costituzionale ha posto in evidenza come la legge delega, sulla cui base è stata adottata la disciplina di cui alla disposizione denunciata, non conteneva alcuna indicazione relativa alla possibilità di introdurre sanzioni amministrative pecuniarie in caso di omissione della comunicazione dei compensi.

Ciò nonostante, l’articolo 26 del Decreto Legislativo n. 80 del 1998, nell’introdurre rilevanti modificazioni all’articolo 58 del Decreto Legislativo n. 29 del 1983, accanto alla previsione della sanzione per mancata richiesta di autorizzazione da parte del dipendente a svolgere l’opera professionale, ha previsto, altresì, la sanzione per omessa comunicazione dei compensi all’amministrazione di appartenenza, entro il 30 aprile di ciascun anno.

Al riguardo, la Corte Costituzionale ha così correttamente osservato come “Non può, infatti, presupporsi che, in una direttiva intesa a conferire al legislatore delegato il compito di prevedere come obbligatoria una determinata condotta, sia necessariamente ricompresa – sempre e comunque – anche la facoltà di stabilire eventuali correlative sanzioni per l’inosservanza di quest’obbligo, posto che, in linea di principio, la sanzione non rappresenta affatto l’indispensabile corollario di una prescrizione e che quest’ultima può naturalmente svolgere, di per sé, una propria autosufficiente funzione, richiedendo e ottenendo un’esauriente ed efficace osservanza”.

Ed ancora, è stato rilevato come la sanzione per omessa comunicazione dei compensi finisce per risultare particolarmente vessatoria, in considerazione che la stessa sarebbe un inutile doppione di quella già prevista per la mancata previa autorizzazione dell’incarico, riguardando entrambe inadempimenti di carattere puramente formale.

Allo stesso modo, tale sanzione si pone in contrasto con i principi di proporzionalità ed adeguatezza che devono, in linea generale, essere osservati anche nella disciplina delle sanzioni amministrative.

La norma è stata, pertanto, dichiarata incostituzionale perché in contrasto con gli articoli 3 e 76 della Costituzione.

Corte costituzionale

Sentenza 5 giugno 2015, n. 98

Presidente: Criscuolo – Redattore: Grossi

[…] nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale ordinario di Ancona nel procedimento vertente tra R.G. ed altre e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale di Ancona, con ordinanza del 20 febbraio 2014, iscritta al n. 152 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti l’atto di costituzione di R.G. ed altre, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2015 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi l’avvocato Giovanni Paolo Businello per R.G. ed altre e l’avvocato dello Stato Barbara Tidore per il Presidente del Consiglio dei ministri.

RITENUTO IN FATTO

1.- Il Tribunale ordinario di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, solleva – in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, e in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) nonché alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) – questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall’art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), nella parte in cui dispone che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».

Premette il Tribunale di essere chiamato a decidere sull’opposizione proposta da alcuni soggetti privati avverso una serie di ordinanze-ingiunzione emesse dall’Agenzia delle entrate per sanzioni amministrative pecuniarie irrogate, a norma dell’art. 6 del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140, per avere conferito a due dipendenti della Marina militare incarico di attività professionale senza la preventiva autorizzazione dell’amministrazione di appartenenza, negli anni 2008 e 2009, e per non aver comunicato alla stessa amministrazione i compensi erogati nei medesimi anni.

Risulta pacifico – sottolinea il giudice a quo – che i ricorrenti non abbiano adempiuto agli obblighi di comunicazione prescritti per chi conferisca incarichi a pubblici dipendenti, a norma dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001; così come risulta pacifico che essa medesima fosse a conoscenza del fatto che i propri collaboratori erano dipendenti pubblici militari.

Dopo aver riprodotto il testo di diversi commi dell’art. 53 in discorso e in contrasto alla tesi degli opponenti (secondo cui «non dovrebbe ricevere sanzione, per i militari, l’omessa comunicazione all’amministrazione di appartenenza dei compensi erogati imposta dal comma 11 del citato art. 53, in quanto il comma 6, che regola l’ambito di applicazione della norma, fa riferimento ai commi da 7 a 13, escludendo, dunque, il comma 15, contenente l’apparato sanzionatorio, differentemente da quanto disposto nella versione precedente del predetto comma 6 che richiamava, al contrario, anche i commi fino al 16»), il Tribunale reputa che l’eliminazione, dal comma 6 dell’articolo impugnato, del riferimento al comma 15 si giustifichi per il fatto che la sanzione per l’omessa comunicazione «non viene irrogata ai dipendenti pubblici, ma soltanto ai soggetti che si avvalgono della loro opera»; con la conseguente piena applicabilità nei confronti di questi ultimi delle sanzioni previste – in caso di omessa comunicazione, da parte dell’ente conferente, dei compensi erogati ogni anno – dall’art. 6 del d.l. n. 79 del 1997 in relazione ai dipendenti destinatari di incarichi retribuiti. Troverebbe, quindi, applicazione, nel caso di specie, la normativa di cui al comma 15 dell’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001.

Ripercorsa la disciplina delle leggi-delega n. 59 del 1997 e n. 421 del 1992, dalla prima richiamata, il giudice rimettente osserva come l’art. 26 del d.lgs. n. 80 del 1998, nell’introdurre importanti modifiche all’art. 58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), abbia, da un lato, sostituito «l’obbligo della mera comunicazione dell’incarico con l’obbligo di ottenere la previa autorizzazione» dell’amministrazione, prevedendo, correlativamente, che la sanzione amministrativa si applichi «all’inadempimento all’obbligo di autorizzazione»; dall’altro lato, introdotto «un’altra identica [sanzione] anche in caso di inottemperanza all’obbligo di comunicazione dei compensi erogati».

Dalla riportata normativa emergerebbe come «la legge delega non contenesse alcun riferimento alla possibilità di introduzione di sanzioni amministrative in caso di inottemperanza agli obblighi di pubblicità degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti», malgrado anche le sanzioni amministrative rispondano al principio di legalità e richiedano, perciò, se disposte in base a una legge di delega, l’enunciazione di precisi criteri direttivi. D’altra parte, pur ricorrendo «ad un apprezzamento in precedenza espresso dallo stesso legislatore», si ricaverebbe che l’ipotesi di un illecito amministrativo, già introdotta dal legislatore nella precipua materia, era stata limitata «espressamente alla condotta relativa alla mancata comunicazione dell’incarico, con esclusione, invece, della diversa ma conseguente condotta della mancata comunicazione di compensi».

D’altra parte, dovendo le disposizioni della delega essere interpretate secondo il criterio della ragionevolezza, questo non sarebbe stato, nella specie, rispettato: sia per la previsione di una doppia sanzione, «peraltro particolarmente afflittiva nel quantum», sia perché «le esigenze di buon andamento della p.a., di trasparenza e di compatibilità dell’incarico privato con l’impiego pubblico» sarebbero garantite già «dalla necessità di ottenere la previa autorizzazione», «ponendosi l’obbligo aggiuntivo della comunicazione dei compensi come un mero adempimento accessorio».

La doppia sanzione, d’altra parte, porrebbe «il soggetto che, per ignoranza o negligenza, non abbia chiesto la previa autorizzazione all’incarico nell’alternativa di perseguire nell’illecito, con rischio di comminazione della doppia sanzione, laddove scoperto, o di autodenunciarsi, provvedendo alla comunicazione del compenso», «con conseguente violazione del diritto di difesa ex art. 24 Cost.».

2.- Si sono costituiti in giudizio i soggetti ricorrenti nel giudizio principale, chiedendo una declaratoria di illegittimità costituzionale della norma denunciata.

Dopo la rievocazione dei fatti di causa e delle difese ivi dispiegate, viene dedotto il vizio di difetto di delega, sottolineando come la giurisprudenza costituzionale non abbia mancato di puntualizzare che, anche per le sanzioni amministrative, i criteri della delega «devono essere precisi e vanno rigorosamente interpretati», dovendosi, nella specie, escludere che la valutazione della necessità di una sanzione possa trarsi da un apprezzamento in precedenza espresso dal legislatore, in ragione del principio della successione delle leggi nel tempo.

Richiamato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, si chiede l’accoglimento della questione anche in riferimento al dedotto profilo di violazione del criterio di ragionevolezza.

3.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto di dichiarare inammissibile e comunque di respingere la proposta questione.

Osserva l’Avvocatura generale che l’introduzione di una fattispecie di illecito è un ordinario strumento di normazione per rafforzare la tutela dei beni protetti, sicché tali fattispecie rappresenterebbero un coerente sviluppo delle indicazioni fornite dal legislatore delegante.

Quanto alla pretesa violazione del principio di ragionevolezza, il giudice rimettente avrebbe trascurato di considerare la distinta offensività delle due condotte sanzionate: mentre, infatti, l’acquisizione del preventivo consenso mirerebbe ad evitare possibili conflitti di interesse, l’obbligo della comunicazione dei compensi risponderebbe alla finalità «di aggiornamento costante della banca dati presso il Dipartimento della Funzione Pubblica, utilizzata per il monitoraggio degli incarichi extraistituzionali».

Gli aspetti relativi all’esercizio del diritto di difesa, infine, sarebbero irrilevanti – la società opponente era a conoscenza della qualità di dipendenti pubblici delle persone occupate – e comunque infondati, posto che, se l’ignoranza inescusabile della norma regolativa dell’illecito non è esimente, a maggior ragione non potrebbe parlarsi di una violazione del diritto di difesa.

4.- In prossimità dell’udienza, le parti private costituite hanno depositato una “memoria illustrativa” per contrastare gli argomenti svolti dall’Avvocatura generale, ribadendo richieste e conclusioni già rassegnate nell’atto di costituzione.

CONSIDERATO IN DIRITTO

1.- Il Tribunale ordinario di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, solleva, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 77 della Costituzione, e in relazione alla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa) nonché alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), questione di legittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), «nella versione introdotta» dall’art. 26 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione nelle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’articolo 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59).

Secondo il giudice rimettente, la legge di delegazione, sulla cui base è stata adottata la disciplina di cui alla disposizione denunciata, non conteneva alcuna indicazione relativa alla possibilità di introdurre sanzioni amministrative pecuniarie per l’inosservanza dei previsti obblighi di pubblicità degli incarichi conferiti ai pubblici dipendenti e di comunicazione dei relativi compensi.

Le disposizioni della delega, d’altra parte, non sarebbero state interpretate secondo il criterio della ragionevolezza: sia per la previsione di una doppia sanzione, «peraltro particolarmente afflittiva nel quantum», sia perché «le esigenze di buon andamento della p.a., di trasparenza e di compatibilità dell’incarico privato con l’impiego pubblico» sarebbero garantite già «dalla necessità di ottenere la previa autorizzazione», «ponendosi l’obbligo aggiuntivo della comunicazione dei compensi come un mero adempimento accessorio».

Costituendosi in giudizio, i soggetti ricorrenti nel giudizio principale hanno chiesto una declaratoria di illegittimità costituzionale.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto, invece, di dichiarare inammissibile e comunque di respingere la proposta questione.

2.- La questione è fondata.

2.1.- Come si è accennato in parte narrativa, il Tribunale rimettente censura la previsione di cui all’art. 53, comma 15, del d.lgs. n. 165 del 2001, nella parte in cui è stabilito che i soggetti di cui al comma 9 – vale a dire gli enti pubblici economici e i privati che conferiscono incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione della amministrazione di appartenenza, e che omettano le comunicazioni di cui al comma 11 (a norma del quale «entro quindici giorni dalla erogazione del compenso per gli incarichi di cui al comma 6, i soggetti pubblici o privati comunicano all’amministrazione di appartenenza l’ammontare dei compensi erogati ai dipendenti pubblici») – sono assoggettati alle sanzioni di cui allo stesso comma 9; il quale, a sua volta, prevede l’applicazione dell’art. 6, comma 1, del decreto-legge 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 1997, n. 140 e successive modificazioni ed integrazioni, che stabilisce una «sanzione pecuniaria pari al doppio degli emolumenti corrisposti sotto qualsiasi forma a dipendenti pubblici».

Nella prospettazione del giudice rimettente, le censure fanno essenzialmente leva sulla circostanza che, nei confronti degli enti o dei privati che conferiscano incarichi retribuiti a dipendenti pubblici senza la previa autorizzazione, si applicherebbe una doppia sanzione, di eguale ammontare: una prima sanzione per il conferimento dell’incarico senza autorizzazione ed una seconda sanzione per l’omessa tempestiva comunicazione dell’ammontare dei compensi, per la quale ultima si profilerebbe, fra l’altro, una sorta di obbligo di “autodenuncia” da parte del terzo datore di lavoro, non sintonica con il diritto di difesa.

Il nucleo della doglianza ruota intorno al dedotto vizio di carenza di “copertura” della disposizione impugnata rispetto alle direttive della legge di delega, la quale non conterrebbe indicazioni tali da legittimare la previsione del contestato meccanismo sanzionatorio – in sé, particolarmente afflittivo – specie se interpretate alla luce del principio di ragionevolezza, alla stregua del quale deve essere apprezzata la coerenza della normativa delegata rispetto ai corrispondenti criteri direttivi.

2.2.- Lo specifico quadro normativo di riferimento appare, peraltro, particolarmente complesso, data la significativa stratificazione delle varie disposizioni succedutesi nel tempo e l’innesto di discipline di varia fonte, definitivamente confluite in quella di cui al d.lgs. n. 165 del 2001, destinato a svolgere una funzione, in parte, meramente ricognitiva e riepilogativa: a norma, infatti, dell’art. 1, comma 8, della legge 24 novembre 2000, n. 340 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), richiamato nel preambolo del predetto decreto legislativo, il Governo era stato delegato «ad emanare un testo unico per il riordino delle norme, diverse da quelle del codice civile e delle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, che regolano i rapporti di lavoro dei dipendenti di cui all’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, secondo quanto disposto dall’articolo 7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, apportando le modifiche necessarie per il migliore coordinamento delle diverse disposizioni».

Il medesimo preambolo fa poi riferimento all’art. 2 della legge n. 421 del 1992, con il quale il Governo aveva ottenuto (comma 1) la delega ad emanare, entro la data ivi fissata, «uno o più decreti legislativi, diretti al contenimento, alla razionalizzazione e al controllo della spesa per il settore del pubblico impiego, al miglioramento dell’efficienza e della produttività, nonché alla sua riorganizzazione», sulla base di una serie di criteri direttivi, fra i quali viene in questa sede in particolare evidenza quello sancito alla lettera p): che il Governo potesse «prevedere che qualunque tipo di incarico a dipendenti della pubblica amministrazione possa essere conferito in casi rigorosamente predeterminati» e che, tuttavia, «l’amministrazione, ente, società o persona fisica che hanno conferito al personale dipendente da una pubblica amministrazione incarichi previsti dall’articolo 24 della legge 30 dicembre 1991, n. 412, entro sei mesi dall’emanazione dei decreti legislativi di cui al presente articolo, siano tenuti a comunicare alle amministrazioni di appartenenza del personale medesimo gli emolumenti corrisposti in relazione ai predetti incarichi, allo scopo di favorire la completa attuazione dell’anagrafe delle prestazioni prevista dallo stesso articolo 24».

In attuazione della richiamata delega legislativa era stato emanato il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’art. 2 della L. 23 ottobre 1992, n. 421), il quale sotto l’art. 58 – divenuto, poi, l’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 – prevedeva (comma 6) l’obbligo di comunicazione degli incarichi conferiti da privati o enti pubblici a dipendenti delle pubbliche amministrazioni, in attuazione dell’anagrafe delle prestazioni, di cui al già richiamato art. 24 della legge n. 412 del 1991; nonché (comma 7) l’obbligo di comunicazione dei relativi compensi, senza, tuttavia, la previsione di alcun genere di sanzioni.

Veniva successivamente emanata la legge-delega n. 59 del 1997, anch’essa espressamente richiamata nel preambolo del d.lgs. n. 165 del 2001, la quale, peraltro, non conteneva alcun principio o criterio direttivo avente attinenza o interferenza specifica con il tema qui in discorso.

Subito dopo la promulgazione di quest’ultima legge di delega, veniva emanato il d.l. n. 79 del 1997, come convertito dalla legge n. 140 del 1997, il cui art. 6 introduceva nel sistema, per la prima volta, la previsione di una sanzione amministrativa nei confronti dei soggetti pubblici o privati che non avessero ottemperato all’obbligo di cui all’art. 58, comma 6, del già citato d.lgs. n. 29 del 1993: vale a dire l’obbligo di comunicazione alle amministrazioni di appartenenza degli incarichi conferiti, da privati o enti pubblici, ad appartenenti alle pubbliche amministrazioni.

Dunque, come esattamente messo in luce dal Tribunale rimettente, al momento della approvazione del decreto legislativo n. 80 del 1998, adottato in esercizio della delega di cui alla predetta legge n. 59 del 1997, il quadro normativo vigente prevedeva l’applicazione di sanzioni amministrative nei confronti di coloro che avessero omesso di comunicare alle amministrazioni di appartenenza gli incarichi conferiti a pubblici dipendenti, ma non sanzionava in alcun modo la mancata comunicazione dei compensi erogati.

L’art. 26 del predetto d.lgs. n. 80 del 1998, nell’introdurre rilevanti modificazioni all’art. 58 del d.lgs. n. 29 del 1993, sostituiva l’obbligo della mera comunicazione dell’incarico con quello della previa autorizzazione da parte della amministrazione di appartenenza e, correlativamente, stabiliva l’applicazione della sanzione amministrativa per l’inadempimento di tale obbligo (comma 9).

Ma – ed è questo il dato qui di maggior interesse – con il medesimo art. 26 il legislatore delegato ha ritenuto di introdurre, per la prima volta, una identica sanzione anche per l’ipotesi in cui i soggetti conferenti incarichi non autorizzati avessero omesso di comunicare alle amministrazioni stesse, «entro il 30 aprile di ciascun anno», l’ammontare dei «compensi erogati nell’anno precedente» (commi 11 e 15).

Tale ultima disciplina – recepita, al pari dell’altra, nel nuovo decreto delegato e oggetto della attuale denuncia – risulta, dunque, non riconducibile a princìpi o criteri direttivi enunciati nelle leggi di delega succedutesi nel tempo: ciò in contrasto con gli orientamenti della giurisprudenza di questa Corte in tema di rapporti tra disciplina delegante, di competenza del Parlamento, e disciplina delegata, affidata alle scelte – a discrezionalità “circoscritta” – del Governo.

2.3.- Può, infatti, rammentarsi come si sia, in più occasioni, puntualizzato che i vincoli derivanti dall’art. 76 Cost., per l’esercizio della funzione legislativa da parte del Governo, non inibiscano a quest’ultimo l’emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo o un completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, dovendosi escludere che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica di previsioni stabilite dal primo (tra le tante pronunce, più di recente, la sentenza n. 229 del 2014). Ove così non fosse, del resto, al legislatore delegato verrebbe riservata una funzione di rango quasi regolamentare, priva di autonomia precettiva, in aperto contrasto con il carattere, pur sempre primario, del provvedimento legislativo delegato.

La delega legislativa, in altri termini, non esclude qualsiasi discrezionalità del legislatore delegato, destinata a risultare più o meno ampia in relazione al grado di specificità dei criteri fissati dalla legge di delega: sicché la valutazione dell’eccesso, o del difetto, nell’esercizio della delega, va compiuta in rapporto proprio alla ratio della delega medesima, onde stabilire se la norma delegata sia coerente (sentenza n. 119 del 2013) o compatibile con quella delegante.

È, tuttavia, del pari evidente che, ove – come nella situazione di specie – si discuta della predisposizione, da parte del legislatore delegato, di un meccanismo di tipo sanzionatorio privo di espressa indicazione nell’ambito della delega, lo scrutinio di “conformità” tra le discipline appare particolarmente delicato. Non può, infatti, presupporsi che, in una direttiva intesa a conferire al legislatore delegato il còmpito di prevedere come obbligatoria una determinata condotta, sia necessariamente ricompresa – sempre e comunque – anche la facoltà di stabilire eventuali correlative sanzioni per l’inosservanza di quest’obbligo, posto che, in linea di principio, la sanzione non rappresenta affatto l’indispensabile corollario di una prescrizione e che quest’ultima può naturalmente svolgere, di per sé, una propria autosufficiente funzione, richiedendo e ottenendo un’esauriente ed efficace osservanza.

Né potranno risultare trascurabili, nella vicenda normativa in esame, alcuni ulteriori rilievi. La previsione della sanzione per l’omessa comunicazione dei compensi corrisposti a dipendenti delle pubbliche amministrazioni per incarichi non previamente autorizzati finisce per risultare particolarmente vessatoria, atteso che la sanzione si duplica rispetto a quella già prevista – nella stessa, grave misura – per il conferimento degli incarichi senza autorizzazione, con un effetto moltiplicativo raccordato ad un inadempimento di carattere formale.

La sanzione, in altri termini, per la violazione di un obbligo che appare del tutto “servente” rispetto a quello relativo alla comunicazione del conferimento di un incarico – previsto in funzione delle esigenze conoscitive della pubblica amministrazione, connesse, come si è più volte sottolineato, al funzionamento della anagrafe delle prestazioni, tenuto anche conto delle modifiche apportate all’art. 53 del d.lgs. n. 165 del 2001 ad opera dell’art. 1, comma 42, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) – viene a sovrapporsi irragionevolmente – perequando fra loro situazioni del tutto differenziate, per gravità e natura – a quella prevista per la violazione di un obbligo di carattere sostanziale.

Il che, fra l’altro, conferisce alla sanzione “accessoria” di cui qui si discute – posta a carico, per di più, di un soggetto comunque terzo rispetto al rapporto di servizio tra pubblica amministrazione e dipendente – un carattere di automatismo e di non graduabilità non poco contrastante con i princìpi di proporzionalità ed adeguatezza che devono, in linea generale, essere osservati anche nella disciplina delle sanzioni amministrative.

In quanto adottata in contrasto con gli artt. 3 e 76 Cost., la disposizione censurata deve, pertanto, essere dichiarata costituzionalmente illegittima, restando assorbiti i profili di censura relativi agli altri parametri evocati.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 53, comma 15, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), nella parte in cui prevede che «I soggetti di cui al comma 9 che omettono le comunicazioni di cui al comma 11 incorrono nella sanzione di cui allo stesso comma 9».


Percorso formativo in house – Latisana (UD) – 10.07.2015

Locandina Latisana 2015LA NOTIFICA ON LINE

Venerdì 10 luglio 2015

Comune di Latisana

Sala Consiliare
Piazza Indipendenza 74

Orario:  9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00

con il patrocinio del Comune di Latisana

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Durì Francesco

  • Resp. Messi Comunali del Comune di Udine
  • Membro della Giunta Esecutiva  di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

 Programma:

Il Messo Comunale

· Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

· Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi
  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010
  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

  • Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)
  • La PEC
  • La firma digitale
  • La notificazione a mezzo posta elettronica
  • “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)
  • Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)
  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

  • · La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy
  • Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007  (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)

Vedi: Attività di formazione anno 2015


La notifica a mezzo p.e.c. deve ritenersi esca fuori dal modello legale delle notificazioni

La notifica a mezzo p.e.c., se non espressamente prevista da una norma, deve ritenersi esca fuori dal modello legale delle notificazioni e nessuna norma autorizza possa avvenire la notifica di un accertamento e/o di una rettifica a mezzo p.e.c. Trattandosi di inesistenza della notifica e non di nullità non può trovare applicazione la sanatoria per avvenuta presentazione del ricorso.

Commiss. Trib. Prov. Lombardia Milano Sez. XXI, 24/06/2014, n. 6087


Garante Privacy: attenzione ad inviare le email senza eliminare i dati sensibili

Il Garante per la protezione dei dati personali, in un provvedimento del 23 aprile, ha stabilito che è illecito inoltrare una mail con informazioni sulla salute e il numero di cellulare della persona che l’ha inviata senza averla prima informata e avere avuto il suo consenso.

Nel caso in esame, una donna, collaboratrice di una società di consulenza e assistenza informatica, si è rivolta al Garante Privacy lamentando l’illecito trattamento dei dati personali contenuti in una email inviata ad un conoscente di una agenzia immobiliare, per promuovere la sua attività di consulenza.

La email, contenente sia informazioni di natura promozionale oltre che il numero di cellulare della reclamante e informazioni relative ad una operazione che avrebbe dovuto affrontare, dopo esser stata parzialmente modificata dai collaboratori di due società, era stata inoltrata ad oltre 200 affiliati commerciali, senza cancellare le informazioni personali che la donna aveva inserito.

Tale condotta, avvenuta in assenza di informativa e di adeguati presupposti giustificativi, avrebbe integrato, a detta dell’interessata, un’indebita divulgazione dei propri dati personali e sensibili, aggravata dal disagio provocatole dalle numerose telefonate ricevute nei giorni successivi all’intervento ad opera di alcuni franchisee, ormai al corrente delle sue condizioni di salute, oltre che del relativo numero di cellulare, anch’esso riportato nell’email allegata.

Inoltre, sottolinea l’Autorità, la documentazione acquisita ha confermato, per espressa ammissione delle società, che la trasmissione della email è avvenuta senza informare l’interessata e, quindi, senza acquisire il relativo consenso.

In considerazione della ritenuta violazione degli articoli 13, 23 e 26 del Codice della Privacy, la reclamante ha chiesto al Garante di inibire alle due società l’ulteriore trattamento dei suoi dati personali e sensibili, disponendo altresì la relativa cancellazione.

Pertanto, l’Autorità ha dichiarato illecito il trattamento effettuato dalle due società relativamente ai dati personali e sensibili dell’interessata ed ha stabilito che la responsabilità fosse addebitabile alle società, in capo alle quali rimane il compito ed il potere di vigilare sui propri collaboratori.

Nel disporre il divieto, il Garante ha dunque prescritto alle società di adottare idonee misure atte a garantire una scrupolosa vigilanza sull’operato del personale, sensibilizzandolo al rispetto delle istruzioni ricevute sulla protezione dei dati personali.

(Garante per la protezione dei dati personali, Provvedimento 23 aprile 2015, n. 242)


Giornata di studio Ancona – 8.10.2015

Locandina Ancona 2015LA NOTIFICA ON LINE

Giovedì 8 ottobre 2015

Comune di Ancona

Aula Didattica

c/o Mole Vanvitelliana

Banchina Giovanni da Chio 28
Orario: 9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00
con il patrocinio del Comune di Ancona

Quote di partecipazione alla giornata di studio:

€ 132.00(*) (**) se il partecipante alla giornata di studio è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2014 con rinnovo anno 2015 già pagato al 31.12.2014. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
€ 202.00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2015 pagando la quota insieme a quella della giornata di studio. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
€ 272,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo la giornata di studio (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

Partecipazione di 2 o più dipendenti dello stesso Ente:

  • € 200,00 (*) (**) (***) per il primo partecipante
  • € 150,00 (*) (**) (***) per il secondo partecipante
  • € 65,00 (*) (**) (***) per il terzo e oltre partecipante
  • Tali quote comprendono l’iscrizione all’Associazione per l’anno 2015 a cui si deve aggiungere € 2,00 (Marca da Bollo) sull’unica fattura emessa.

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali,   comprensive  dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria della giornata di studio

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Giornata Ancona 2015 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art. 10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – comprensivo di  € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se la giornata di studio si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione alla giornata di studio potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione alla giornata di studio.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Asirelli Corrado 4Asirelli Corrado

  • Resp. Messi Comunali del Comune di Cesena (FC)
  • Membro della Giunta Esecutiva  di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Programma:

Il Messo Comunale

· Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

· Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi
  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010
  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

  • Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)
  • La PEC
  • La firma digitale
  • La notificazione a mezzo posta elettronica
  • “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)
  • Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)
  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

  • · La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy

· Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007  (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)

Nota bene: Qualora l’annullamento dell’iscrizione venga comunicato meno di cinque giorni prima dell’iniziativa, l’organizzazione si riserva la facoltà di fatturare la relativa quota, anche nel caso di non partecipazione alla giornata di studio.

Vedi: Attività di formazione anno 2015

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE ANCONA 2015

Scarica: Documentazione fiscale 2015

Vedi: Immagini della giornata di studio

Vedi: Video della giornata di studio

  1. Dichiarazione DURC
  2. Dichiarazione sulla tracciabilità dei pagamenti, L. 136/2010
  3. Documento d’Identità personale del Legale Rappresentante di A.N.N.A.
  4. Dichiarazione sostitutiva del certificato generale del casellario giudiziale e dei carichi pendenti
  5. Dichiarazione relativa alla fase di liquidazione delle fatture di competenza

 


Giornata di studio Andria (BT) – 2.10.2015

Locandina Corso aggiornamento Andria 2015LA NOTIFICA ON LINE

Giovedì 2 ottobre 2015

Comune di Andria (BT)

Chiostro di San Francesco
Via San Francesco 14
Orario: 9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00
con il patrocinio del Comune di Andria

Quote di partecipazione alla giornata di studio:

€ 132.00(*) (**) se il partecipante alla giornata di studio è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2014 con rinnovo anno 2015 già pagato al 31.12.2014. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
€ 202.00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2016 pagando la quota insieme a quella della giornata di studio. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
€ 272,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo la giornata di studio (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

Partecipazione di 2 o più dipendenti dello stesso Ente:

  • € 200,00 (*) (**) (***) per il primo partecipante
  • € 150,00 (*) (**) (***) per il secondo partecipante
  • € 65,00 (*) (**) (***) per il terzo e oltre partecipante
  • Tali quote comprendono l’iscrizione all’Associazione per l’anno 2015 a cui si deve aggiungere € 2,00 (Marca da Bollo) sull’unica fattura emessa.

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali,   comprensive  dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria della giornata di studio

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Giornata Andria 2015 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art. 10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – comprensivo di  € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se la giornata di studio si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione alla giornata di studio potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione alla giornata di studio.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Asirelli Corrado 4Asirelli Corrado

Resp. Messi Comunali del Comune di Cesena (FC)

Membro della Giunta Esecutiva  di A.N.N.A.

Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Programma:

Il Messo Comunale

· Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

· Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi
  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010
  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

  • Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)
  • La PEC
  • La firma digitale
  • La notificazione a mezzo posta elettronica
  • “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)
  • Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)
  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

  • · La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy

· Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007  (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)

Nota bene: Qualora l’annullamento dell’iscrizione venga comunicato meno di cinque giorni prima dell’iniziativa, l’organizzazione si riserva la facoltà di fatturare la relativa quota, anche nel caso di non partecipazione alla giornata di studio.

Vedi: Attività di formazione anno 2015

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE Andria 2015

Scarica: Documentazione fiscale 2015

Vedi: Immagini della giornata di studio

Vedi: Video della giornata di studio

  1. Dichiarazione DURC
  2. Dichiarazione sulla tracciabilità dei pagamenti, L. 136/2010
  3. Documento d’Identità personale del Legale Rappresentante di A.N.N.A.
  4. Dichiarazione sostitutiva del certificato generale del casellario giudiziale e dei carichi pendenti
  5. Dichiarazione relativa alla fase di liquidazione delle fatture di competenza

 


Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 14-04-2015) 28-05-2015, n. 2682

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm. sul ricorso numero di registro generale 1671 del 2015 proposto da C. snc di C.P. e D. (in seguito, C.), rappresentata e difesa dagli avvocati Stefano Comand, Michela Bacchetti e Gigliola Mazza Ricci, con domicilio eletto presso l’avv. Gigliola Mazza Ricci in Roma, Via di Pietralata n. 320;

contro

G.I. spa, rappresentata e difesa dagli avvocati Andrea Cudini e Nicola Nanni, con domicilio eletto presso l’avv. Nicola Nanni in Roma, Via della Giuliana, 73;

nei confronti di

Istituto Statale d’Istruzione Superiore “D.A.” di Gorizia (in seguito, l’Istituto) – Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (MIUR), rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. FRIULI-VENEZIA-GIULIA -TRIESTE, n. 39/2015, resa tra le parti, concernente affidamento servizio per fornitura di distributori automatici di snack, bevande calde e fredde presso Istituto scolastico;

visto il ricorso, con i relativi allegati;

visti gli atti di costituzione in giudizio della G.I. spa e dell’Istituto Statale d’Istruzione Superiore “D.A.” di Gorizia e del MIUR;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nella camera di consiglio del 14 aprile 2015 il cons. Marco Buricelli e uditi per le parti gli avvocati Comand e Cudini;

visti gli articoli 60 e 74 cod. proc. amm. ;

accertata la completezza del contraddittorio e dell’istruttoria e ritenuto, a scioglimento della riserva formulata al riguardo, di potere definire il giudizio nel merito con sentenza in forma semplificata e con motivazione abbreviata;

sentite sul punto le parti costituite;

richiamato quanto esposto dalle parti stesse negli atti difensivi;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Nell’agosto del 2014 l’Istituto Superiore d’Istruzione Statale D.A. di Gorizia ha indetto una gara, con il criterio di aggiudicazione dell’offerta economicamente più vantaggiosa, per la fornitura quinquennale del servizio di distribuzione automatica di snack e di bevande calde e fredde presso i locali dell’Istituto medesimo, prevedendo l’assegnazione di un massimo di 50 punti per l’offerta tecnica e di 30 per l’offerta economica.

Nell’àmbito dei criteri di valutazione dell’offerta tecnica era prevista, per quanto rileva in questo grado d’appello, l’attribuzione di “max punti 5” per “tempi diintervento per rifornimento”, e di “max punti 5” per “tempi di intervento per guasto”.

Alla gara hanno partecipato due concorrenti, la ditta C. e il G.I..

La commissione ha assegnato 10 punti (5 + 5) per le voci suddette sia alla C., sia al G.I., attribuendo al termine delle operazioni alla C. 50 punti per l’offerta tecnica e 23 per quella economica, per un totale di 73 punti, e alla società G.I. 50 punti per l’offerta tecnica e 17 per quella economica, per un punteggio complessivo di 67.

All’esito della gara il contratto è stato dunque aggiudicato alla C..

2. Il G.I. ha impugnato dinanzi al Tar Friuli Venezia Giulia aggiudicazione e atti presupposti e connessi, deducendo svariati motivi e chiedendo la declaratoria d’inefficacia del contratto eventualmente “medio tempore” stipulato e il diritto della ricorrente all’aggiudicazione ovvero al subentro nel contratto medesimo ai sensi degli articoli 121 e ss. cod. proc. amm. .

Con la sentenza in epigrafe il Tar, nella resistenza dell’Amministrazione e della C. ha, per quanto qui più rileva:

-respinto l’eccezione d’irricevibilità del ricorso per “tardiva notifica” dello stesso, formulata dalla C.;

-rigettato tutti i motivi fatta eccezione per quello attinente al dedotto “eccesso dipotere. Manifesta illogicità e erroneità dei presupposti di fatto”, relativo proprio ai 10 punti assegnati dalla commissione alla C. per le due voci dell’offerta tecnica relative ai tempi d’intervento per il rifornimento e ai tempi d’intervento per il guasto. L’impegno assunto dalla C. a intervenire, sia per il rifornimento, sia per il caso di guasto, in pochi secondi, è stato considerato in sentenza non serio, “perché la prestazione non può di certo essere adempiuta nello spazio temporale indicato dall’offerente, nemmeno volendo ipotizzare che personale e mezzi siano costantemente in attesa al di fuori dei locali dell’Istituto scolastico. Per di più si tratta di un’ipotesi assolutamente irragionevole, perché – secondo nozioni di comune conoscenza – non sostenibile economicamente…”. Venendo in discussione “unobbligo non suscettibile di essere adempiuto. Il che incide sulla affidabilità di colui che formula siffatta offerta…ne discende la illegittimità della scelta tecnico -discrezionale dell’Amministrazione di attribuire un punteggio, per di più un punteggio massimo, a un’offerta che lo stesso offerente, già a priori, sapeva sarebbe rimasta quanto a tempistica inadempiuta. L’inattendibilità della valutazione operatadalla commissione di gara emerge così pacificamente dalla documentazione versata in atti, che non può che conseguirne l’annullamento…” . Il giudice di primo grado, “ben conscio dei limiti del proprio sindacato nei confronti di atti di esercizio della discrezionalità tecnica da parte dell’Amministrazione”, ha giudicato la valutazione in parola “non semplicemente opinabile, ma assolutamente errata e illogica” nell’avere ritenuto “seria e affidabile” “una tempistica di intervento che non può assolutamente essere attuata”.

Accolto il ricorso in relazione al terzo motivo e annullata l’aggiudicazione alla C., la sentenza ha dichiarato l’inefficacia del contratto tra l’Istituto e la controinteressata “limitatamente alle prestazioni ancora da eseguirsi” e ha disposto il subentro del G.I. “nell’esecuzione della concessione”, non comportando, all’evidenza, “la sostituzione di un fornitore di snack e bevande…particolaridifficoltà tecnico -organizzative”, entro 15 giorni.

3. Appella la C., con due motivi.

Resiste il G.I..

L’Avvocatura dello Stato ha concluso per l’accoglimento dell’appello e l’annullamento della sentenza impugnata.

4. L’appello va respinto.

Entrambi i motivi dedotti sono infondati.

4.1. E’ anzitutto infondato, e perciò il Collegio può esimersi dal sottoporre a disamina le obiezioni svolte in rito sul punto dall’appellato G.I., il motivo d’appello della C. imperniato sull’affermata irricevibilità del ricorso al Tar del G.I. a causa della tardività della notifica -asseritamente nulla, in quanto effettuata per mezzo della posta elettronica certificata (PEC)- mancando, così si sostiene nell’appello, la prova del momento e della regolarità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado (che risulta depositato presso la segreteria del Tribunale amministrativo soltanto il 23 ottobre 2014, ovverosia oltre il termine di 30 giorni di cui all’art. 120, comma 5, del c.p.a.), in assenza dell’autorizzazione presidenziale di cui all’art. 52, comma 2, del c.p.a. , alla notificazione del ricorso via PEC.

L’appellante muove dall’assunto che l’art. 46 del D.L. 24 giugno 2014, n. 90, convertito con modificazioni nella L. 11 agosto 2014, n. 114, nell’aggiungere all’art. 16 quater del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito con modificazioni nella L. 17 dicembre 2012, n. 221, aggiunto dall’articolo 1, comma 19, L. 24 dicembre 2012, n. 228, un nuovo comma 3 bis, in base al quale “le disposizioni dei commi 2 e 3 non si applicano alla giustizia amministrativa”, avrebbe sancito l’inapplicabilità, al processo amministrativo, del meccanismo della notificazione in via telematica -a mezzo PEC dell’atto introduttivo del giudizio da parte degli avvocati (in mancanza dell’espressa autorizzazione presidenziale di cui all’art. 52, comma 2, del c.p.a. ). In particolare, nell’appello si enuncia la tesi per cui nel processo amministrativo il legale non può certificare la conformità delle copie di documenti spediti per via telematica e che la notifica per il destinatario del ricorso non si perfeziona nel momento in cui si genera la ricevuta, dato che regole tecniche e procedure utilizzate nel processo civile e disciplinate dal regolamento approvato con il D.M. 3 aprile 2013, n. 48, “non si applicano alla giustizia amministrativa”, che ne è stata espressamente esclusa.

La premessa interpretativa e le conclusioni non convincono.

In realtà, il sopra citato art. 46 esclude l’applicazione, al processo amministrativo, dei commi 2 e 3 non della L. 21 gennaio 1994, n. 53, ma dell’art. 16 quater del D.L. n. 179 del 2012, conv. con mod. nella L. n. 221 del 2012 il quale, al comma 2, demanda a un decreto del Ministro della giustizia l’adeguamento alle nuove disposizioni delle regole tecniche già dettate col D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, mentre al comma 3 stabilisce che le disposizioni del comma 1 “acquistano efficacia a decorrere dal quindicesimo giorno successivo alla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del decreto di cui al comma 2”.

La mancata autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, del c.p.a. non può considerarsi ostativa alla validità ed efficacia della notificazione del ricorso a mezzo PEC atteso che nel processo amministrativo trova applicazione immediata la L. n. 53 del 1994 (e, in particolare, per quanto qui più interessa, gli articoli 1 e 3 bis della legge stessa), nel testo modificato dall’art. 25 comma, 3, lett. a) della L. 12 novembre 2011, n. 183, secondo cui l’avvocato “può eseguire la notificazione di atti in materia civile, amministrativa e stragiudiziale … a mezzo della posta elettronica certificata”.

Nel processo amministrativo telematico (PAT) -contemplato dall’art. 13 delle norme di attuazione di cui all’Allegato 2 al cod. proc. amm. – è ammessa la notifica del ricorso a mezzo PEC anche in mancanza dell’autorizzazione presidenziale ex art. 52, comma 2, del c.p.a. , disposizione che si riferisce a “forme speciali” di notifica, laddove invece la tendenza del processo amministrativo, nella sua interezza, a trasformarsi in processo telematico, appare ormai irreversibile (sull’ammissibilità e sull’immediata operatività della notifica del ricorso a mezzo PEC nel processo amministrativo vanno segnalate le recentissime sentenze del Tar Campania -Napoli, n. 923 del 6 febbraio 2015 e del Tar Calabria -Catanzaro, n. 183 del 4 febbraio 2015).

Se con riguardo al PAT lo strumento normativo che contiene le regole tecnico -operative resta il DPCM al quale fa riferimento l’art. 13 dell’Allegato al c.p.a. , ciò non esclude però l’immediata applicabilità delle norme di legge vigenti sulla notifica del ricorso a mezzo PEC.

Sulle regole tecnico -operative applicabili, viene in rilievo il D.P.R. n. 68 del 2005, al quale fa riferimento l’art. 3 bis della L. n. 53 del 1994.

Nel caso in esame le norme di legge suddette, e l’art. 136 del c.p.a. , risultano essere state osservate dal G.I..

Considerato dunque che:

-risultano rispettate le previsioni di cui alla L. n. 53 del 1994 e all’art. 136 del c.p.a. ;

-i risultati della procedura comparativa erano stati pubblicati nel sito web dell’Istituto il 2 settembre 2014 e la notifica del ricorso di primo grado alla C. risulta regolarmente eseguita il 15 ottobre 2014;

-trova applicazione anche al “rito appalti”, in mancanza di disposizioni di segno contrario, la norma di carattere generale sulla sospensione feriale dei termini di cui all’art. 1 della L. n. 742 del 1969;

il primo motivo d’appello va respinto.

4.2. Nel dedurre, col secondo motivo, svariati profili del vizio di eccesso di potere che, peraltro, ruotano essenzialmente attorno al rilievo per cui il Tar avrebbe sostituito propri apprezzamenti e valutazioni a quelli della commissione, invadendo la sfera delle attribuzioni della P. A. , la C. rimarca in particolare che dalla relazione tecnica sui tempi d’intervento (doc. 4 fasc. app. ) si evince come la ditta intenda impegnarsi “in un servizio giornaliero di assistenzatecnica e ricarica dei distributori se necessario 2 volte al giorno” e come in aggiunta la ditta precisava che, su richiesta, era in grado d’intervenire in pochi secondi per il rifornimento e in caso di guasti, cosicché il punteggio assegnato all’offerta, “comecomplessivamente esposta nella relazione”, non era sindacabile in sede giurisdizionale e l’offerta tecnica non poteva essere considerata inattendibile o priva di serietà se valutata nel suo complesso. La sentenza di primo grado, nell’estrapolare e analizzare una parte soltanto dell’offerta della C., e nel non tener conto che anche i cinque minuti dichiarati dal G.I. per gli interventi risultano “inattuabili illogici e inattendibili”, sarebbe incorsa in un’inammissibile invasione della sfera riservata all’azione della P. A. . L’uguale punteggio -massimo- assegnato dalla commissione sia alla C. sia al G.I., se considerato sotto un profilo comparativo, non appare né irragionevole né affetto da macroscopici vizi logici o da errori manifesti o da disparità di trattamento. L’apprezzamento compiuto dalla commissione, rientrante nelle attribuzioni esclusive di quest’ultima, non poteva essere sostituito da un giudizio con il quale il Tar ha attribuito zero punti alla C. lasciando invariati i 10 punti riconosciuti al G.I..

Il motivo è infondato, La sentenza del Tar è corretta e va confermata.

In via preliminare e generale dev’essere rammentato che “costituisce jus receptum che le valutazioni operate dalle commissioni di gara delle offerte tecniche presentate dalle imprese concorrenti, in quanto espressione di discrezionalità tecnica, sono sottratte al sindacato di legittimità del giudice amministrativo, salvo che non siano manifestamente illogiche, irrazionali, irragionevoli, arbitrarie ovvero fondate su di un altrettanto palese e manifesto travisamento dei fatti (Cons. St., sez. V 26 marzo 2014, n. 1468; sez. III, 13 marzo 2012, n. 1409) ovvero ancora salvo che non vengono in rilievo specifiche censure circa la plausibilità dei criteri valutativi o la loro applicazione (Cons. St., sez. III, 24 settembre 2013, n. 4711). È stato al riguardo precisato anche (Cons. St., sez. VI, 7 maggio 2013, n. 2458) che gli atti amministrativi espressione di valutazioni tecniche sono suscettibili di sindacato giurisdizionale esclusivamente nel caso in cui l’amministrazione abbia effettuato scelte che si pongono in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica, aggiungendosi che non è sufficiente che la determinazione assunta sia, sul piano del metodo e del procedimento seguito, meramente opinabile, in quanto il giudice amministrativo non può sostituire – in attuazione del principio costituzionale di separazione dei poteri – proprie valutazioni a quelle effettuate dall’autorità pubblica, quando si tratti di regole (tecniche) attinenti alle modalità di valutazione delle offerte…” (Cons. Stato, sez. V, n. 257 del 2015).

Ciò posto, e guardando adesso più da vicino il caso in esame, nell’offerta tecnica la C. aveva dichiarato in maniera testuale, sui tempi di intervento per rifornimento, che “è nostra volontà impegnarci in un servizio giornaliero di assistenza tecnica e ricarica deidistributori se necessario 2 volte al giorno. Se richiesto si interviene in pochi secondi”; e, relativamente ai tempi di intervento per guasto, che “ciò che ci contraddistingue maggiormente è la garanzia al cliente di un’assistenza tempestiva ed efficiente utilizzando le più avanzate tecnologie, segnalando la chiamata al nostro automezzo più vicino a voi per l’intervento tecnico richiesto, in caso di guasto siamo presenti sul luogo entro pochissimi secondi essendo presenti in zona tutti i giorni…”.

La G.I. (v. p. 4.3. dell’offerta tecnica -tempi di intervento tecnico per guasto e per rifornimento) aveva dichiarato che “avendo una sede per il reparto tecnico in Gorizia, in caso di intervento tecnico urgente derivato da chiamata del cliente o dell’operatore addetto ai rifornimenti siamo in grado di intervenire entro 5 minuti dalla chiamata, in quanto i nostri distributori automatici possono essere dotati di telemetria remota. I rifornimenti sono garantiti giornalmente dal lunedì al sabato e i nostri operatori possono essere presenti entro 5 minuti dalla chiamata in quanto dotati di computer palmare e la chiamata arriva in tempo reale, oltremodo siamo sempre presenti dato che serviamo quasi tutti gli Istituti scolastici in Gorizia”.

La commissione, come detto, ha attribuito a entrambe le concorrenti punteggi identici (10 punti = 5 +5, il massimo previsto dalla “lex specialis”).

Senonchè, bene ha fatto il Tar, nell’evidenziare i passaggi salienti dell’offerta tecnica della C. sul punto, a sottolineare come “non si tratti di un impegno serio, perché la prestazione non può di certo essere adempiuta nello spazio temporale indicato dall’offerente, nemmeno volendo ipotizzare che personale e mezzi siano costantemente in attesa al di fuori dei locali dell’Istituto scolastico. Per di più si tratta di un’ipotesi assolutamente irragionevole, perché – secondo nozioni di comune conoscenza – non sostenibile economicamente…”; mettendo poi in rilievo che l’ assunzione, da parte della concorrente, di un “obbligo non suscettibile di essere adempiuto, il che incide sull’affidabilità di colui che formula siffatta offerta”, comporta la conseguente illegittimità della scelta tecnico -discrezionale “di attribuire un punteggio, per di più un punteggio massimo, a un’offerta che lo stesso offerente, già a priori, sapeva sarebbe rimasta quanto a tempistica inadempiuta”; valutazione della commissione palesemente inattendibile, “assolutamente errata e illogica” e non “semplicemente opinabile” laddove “ritiene seria e affidabile, e come tale meritevole di punteggio (per di più nella misura massima prevista dalla “lex specialis” di gara), una tempistica di intervento che non può assolutamente essere attuata”.

La struttura motivazionale della sentenza, che non si concreta in una sostituzione indebita alla commissione nell’esercizio di poteri valutativi riservati a quest’ultima e che non sconfina nel merito delle valutazioni rimesse alla commissione, essendosi il giudice di primo grado limitato a sindacare la (non) manifesta irragionevolezza degli apprezzamenti compiuti dalla commissione medesima, resiste alle critiche sollevate nel gravame.

Sotto un primo profilo, la sentenza ha giustamente posto in risalto quello che oggettivamente appare essere il nucleo essenziale, l’elemento preminente e caratterizzante l’offerta tecnica sotto l’aspetto dei “tempi di intervento”, vale a dire la tempistica d’intervento a richiesta “in loco”, asseritamente in “pochi secondi” per il rifornimento, e, in caso di guasti, “entro pochissimi secondi”.

Sotto un secondo profilo, se da un lato la tempistica d’intervento che “contraddistingue” l’offerta C. è oggettivamente inverosimile, e tale è stata giustamente considerata in sentenza, con il conseguente accertamento giudiziale della illegittimità della relativa attribuzione di punteggi, senza sconfinamenti nella sfera delle attribuzioni riservate alla P. A. ; dall’altro, il tempo d’intervento dichiarato dal G.I. (cinque minuti dalla chiamata), qualificato dal medesimo, in sede difensiva, come “adeguato alle sue possibilità e potenzialità imprenditoriali”, risulta comunque non manifestamente inattendibile, per come plausibilmente motivato nell’offerta tecnica mediante i già visti riferimenti al reparto tecnico in Gorizia (a un km. di distanza dall’Istituto) e alla costante presenza “in loco” di addetti dato che I. serve “quasi tutti gli Istituti scolastici in Gorizia”.

Inoltre la C. ha contestato per la prima volta in appello l’attendibilità dell’offerta tecnica di I. per ciò che attiene alla tempistica d’intervento quando invece l’odierna appellante avrebbe dovuto dedurre la ipotetica “inattuabilità illogicità e inattendibilità” dell’elemento dell’offerta dei “cinque minuti dalla chiamata” dichiarati dal G.I. quale “tempo d’intervento tecnico per guasto e rifornimento” proponendo, in modo speculare, ricorso in via incidentale.

In questa situazione, diversamente da quanto rimarcato dall’appellante, emerge il carattere abnorme dell’offerta tecnica “in parte qua”e la conseguente, palese inattendibilità della valutazione compiuta dalla commissione alla quale ha fatto seguito l’attribuzione, alla C., del punteggio in discussione, atti giustamente censurati dal giudice di primo grado senza che residuino spazi per rivalutazioni comparative.

Le conclusioni cui è pervenuto il Tar sono motivate in maniera puntuale e vanno condivise, fondandosi su considerazioni di carattere oggettivo ed evidente, senza che sia configurabile “l’invasione di campo” denunciata dall’appellante.

Il ricorso va dunque respinto e la sentenza impugnata confermata.

Le spese del grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano nel dispositivo, nei confronti dell’appellato G.I..

Spese compensate nei riguardi dell’Amministrazione, tenuto conto della posizione difensiva assunta dalla stessa.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sul ricorso in appello lo respinge confermando, per l’effetto, la sentenza impugnata.

Condanna l’appellante a rifondere alla G.I. le spese, i diritti e gli onorari del presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi Euro 3.000,00 (Euro tremila/00), comprensivi del rimborso delle spese generali, oltre a IVA e a CPA. .

Spese del grado di giudizio compensate nei riguardi dell’Amministrazione.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 14 aprile 2015 con l’intervento dei magistrati:

Stefano Baccarini, Presidente

Sergio De Felice, Consigliere

Giulio Castriota Scanderbeg, Consigliere

Roberta Vigotti, Consigliere

Marco Buricelli, Consigliere, Estensore


Giornata di studio Fiano Romano (RM) – 23.06.2015

Locandina Fiano Romano 2015LA NOTIFICA ON LINE

Martedì 23 giugno 2015

Comune di Fiano Romano (RM)

Orario: 9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00
con il patrocinio del Comune di Fiano Romano

Quote di partecipazione alla giornata di studio:

€ 132.00(*) (**) se il partecipante alla giornata di studio è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2014 con rinnovo anno 2015 già pagato al 31.12.2014. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad A.N.N.A. del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
€ 202.00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2015 pagando la quota insieme a quella della giornata di studio. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
€ 272,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo la giornata di studio (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

Partecipazione di 2 o più dipendenti dello stesso Ente:

  • € 200,00 (*) (**) (***) per il primo partecipante
  • € 150,00 (*) (**) (***) per il secondo partecipante
  • € 65,00 (*) (**) (***) per il terzo e oltre partecipante
  • Tali quote comprendono l’iscrizione all’Associazione per l’anno 2015 a cui si deve aggiungere € 2,00 (Marca da Bollo) sull’unica fattura emessa.

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali,   comprensive  dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria della giornata di studio

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Giornata Fiano 2015 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art. 10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – comprensivo di  € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se la giornata di studio si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione alla giornata di studio potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione alla giornata di studio.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Asirelli Corrado 4Asirelli Corrado

  • Resp. Messi Comunali del Comune di Cesena (FC)
  • Membro della Giunta Esecutiva  di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Programma:

Il Messo Comunale

· Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

· Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi
  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010
  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

  • Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)
  • La PEC
  • La firma digitale
  • La notificazione a mezzo posta elettronica
  • “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)
  • Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)
  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

  • · La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy

· Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007  (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)

Nota bene: Qualora l’annullamento dell’iscrizione venga comunicato meno di cinque giorni prima dell’iniziativa, l’organizzazione si riserva la facoltà di fatturare la relativa quota, anche nel caso di non partecipazione alla giornata di studio.

Vedi: Attività di formazione anno 2015

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE FIANO ROMANO 2015

Scarica: Documentazione fiscale 2015

Vedi: Immagini della giornata di studio

Vedi: Video della giornata di studio

  1. Dichiarazione DURC
  2. Dichiarazione sulla tracciabilità dei pagamenti, L. 136/2010
  3. Documento d’Identità personale del Legale Rappresentante di A.N.N.A.
  4. Dichiarazione sostitutiva del certificato generale del casellario giudiziale e dei carichi pendenti
  5. Dichiarazione relativa alla fase di liquidazione delle fatture di competenza

 


Corte Costituzionale sentenza n. 150-2015 Retribuzione festività

Presidente CARTABIA – Redattore SCIARRA

Udienza Pubblica del 26/05/2015       Decisione del 26/05/2015

Deposito del 14/07/2015 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate:

Art. 1, c. 224, della legge 23/12/2005, n. 266.

Massime:

Atti decisi:

ord. 64/2014

SENTENZA N. 150

ANNO 2015

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,

ha pronunciato la seguente SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), promosso dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, nel procedimento vertente tra E. ed altri e il Ministero della giustizia con ordinanza del 20 gennaio 2014, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2014 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2014.

Visti l’atto di costituzione di P. E. ed altri, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 26 maggio 2015 il Giudice relatore Silvana Sciarra;

uditi l’avvocato Ferdinando Emilio Abbate per P. E. ed altri e l’avvocato dello Stato Daniela Giacobbe per Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

  1. .– Con ordinanza, depositata il 20 gennaio 2014, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), per violazione dell’art.117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848.
    1. .– La Corte rimettente premette che, con sentenza depositata il 16 dicembre 2009, la Corte d’appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado emessa dal Tribunale di Viterbo, aveva accolto le opposizioni proposte dal Ministero della giustizia avverso i decreti ingiuntivi emessi in favore di alcuni dipendenti dello stesso Ministero, ritenendone infondata la pretesa diretta ad ottenere il compenso previsto dall’art. 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive), relativo alle festività coincidenti con la domenica. La Corte di cassazione precisa che la Corte d’appello aveva escluso il riconoscimento del compenso di cui al citato art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ed aveva riformato la sentenza di primo grado, sulla base del rilievo che l’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, norma di natura interpretativa o comunque dotata di efficacia retroattiva, aveva elencato il suddetto art. 5 fra le disposizioni inapplicabili al lavoro pubblico ai sensi dell’art. 69, comma 1, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), una volta stipulati i contratti collettivi nazionali di lavoro per il quadriennio 1998-2001.«salva l’esecuzione dei giudicati», formatisi fino alla data dell’entrata in vigore della medesima norma, violasse il divieto di ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia, influisse sulla definizione delle controversie giudiziarie in corso (art. 117, primo comma, Cost. e art. 6 della CEDU), ledesse l’autonomia e l’indipendenza della magistratura (art. 104 Cost.) ed il principio di imparzialità della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.).
    2. La Corte rimettente precisa, pertanto, di essere stata adita con ricorso proposto dai dipendenti del Ministero avverso la sentenza d’appello e ricorda che, fra l’altro, i ricorrenti avevano chiesto anche di sollevare questione di legittimità costituzionale del comma 224 dell’art. 1 in esame, ritenendo che la retroattività della citata norma, che si applica a fattispecie anteriori alla sua entrata in vigore,
    3. .– Ciò premesso, la Corte di cassazione, in linea preliminare, ritiene non sia possibile adottare un’interpretazione della disposizione censurata, che fa espressamente «salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge» (art. 1, comma 224, ultimo periodo), conforme alla CEDU. Né ritiene di poter accogliere la tesi della disapplicazione da parte del giudice comune di norme contrastanti con l’art. 6 della CEDU (ma anche con gli artt. 47, secondo comma, e 52, terzo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007), alla luce della costante giurisprudenza costituzionale e della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea. Pertanto, solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nella parte in cui, applicandosi anche ai processi pendenti, sarebbe intervenuto a determinare la modifica dell’esito di un giudizio in corso – nel quale si era riconosciuto il diritto dei dipendenti pubblici ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza delle festività con la domenica – a favore dell’amministrazione statale, parte in giudizio. E ciò senza che sussistessero gli “impellenti motivi di interesse generale” prescritti dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, in riferimento all’art. 6 della CEDU, per giustificare la deroga al principio di irretroattività della legge. Non sarebbero, infatti, riconducibili ai predetti motivi né le finalità di “razionalizzare” ed “omogeneizzare” il trattamento dei pubblici impiegati indicate dal Ministero, né le generiche esigenze di compressione della spesa pubblica connesse all’equilibrio del bilancio dello Stato.Il Collegio rimettente ricorda, inoltre, che la Corte costituzionale ha già avuto occasione più volte di ravvisare una coincidenza di impostazione fra la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo e la propria giurisprudenza (in specie, sentenza n. 264 del 2012) in ordine al divieto di retroattività della legge, secondo la quale il legislatore può emanare disposizioni retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti “motivi imperativi di interesse generale” ai sensi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
    4. Detta norma, pertanto, risulterebbe lesiva dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Quest’ultima ha, infatti, ripetutamente affermato che, nonostante non sia precluso al legislatore intervenire, mediante nuove disposizioni retroattive, a disciplinare diritti derivanti da leggi in vigore, i principi della preminenza del diritto e del processo equo di cui all’art. 6 della CEDU impediscono, tranne che per motivi di interesse generale non riconducibili a mere esigenze finanziarie, l’interferenza del legislatore nell’amministrazione della giustizia, con il proposito di influenzare la determinazione giudiziaria di una controversia azionata contro lo Stato.
    5. .– E’ intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o che venga dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata.Essa non contrasterebbe con l’art. 117, primo comma, Cost., in primo luogo perché la Corte europea dei diritti dell’uomo non avrebbe affermato il principio del divieto assoluto di leggi retroattive, ma avrebbe ritenuto legittimo l’intervento del legislatore che, per porre rimedio ad un’imperfezione tecnica della legge interpretata, avesse inteso, con legge retroattiva, ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore stesso. Alla luce di tutto ciò, la difesa statale ritiene che la norma censurata abbia un’indubbia natura di norma di interpretazione autentica dell’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001. Essa, infatti, tenderebbe a risolvere dubbi interpretativi sull’ambito di efficacia della predetta norma a seguito della stipulazione della seconda tornata di contratti collettivi in materia di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni. La specificazione di tale ambito di efficacia risponderebbe a precise esigenze di razionalizzazione e perequazione del sistema retributivo dei dipendenti pubblici, anche alla luce della ritenuta ragionevolezza della norma in base alla sentenza della Corte costituzionale n. 146 del 2008.
    6. Nella specie, l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che la norma di cui all’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, pur avendo efficacia retroattiva, non sia innovativa e sia rivolta a chiarire il significato di una legge precedente, ovvero ad esplicitare uno dei significati, tra quelli ragionevolmente ascrivibili alle statuizioni interpretate.
    7. .– Si sono costituite in giudizio le parti private del giudizio principale, chiedendo che venga dichiarata la manifesta infondatezza della questione sollevata in quanto una lettura adeguatrice e costituzionalmente orientata della norma censurata consentirebbe di escluderne la natura retroattiva. Ove intesa in tal modo, la predetta norma sarebbe, infatti, applicabile ai soli giudizi instaurati successivamente alla sua entrata in vigore e non, quindi, al giudizio principale.L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005 sarebbe in contrasto con i principi di parità delle armi, di certezza del diritto, nonché più in generale del diritto ad un giusto ed equo processo, sanciti dall’art. 6 della CEDU, principi che fanno parte anche dell’ordinamento giuridico europeo, per effetto del loro recepimento da parte del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009.
    8. Tale contrasto sussisterebbe per le seguenti ragioni: la disposizione censurata sarebbe inserita nel testo di una legge, la legge finanziaria per il 2006, destinata a tutt’altri fini; essa è intervenuta a distanza di cinque anni dal d.lgs. n. 165 del 2001 ed oltre quarantacinque anni dopo la legge n. 260 del 1949, quando sulla predetta legislazione si era formato un diritto vivente che, derivato dall’orientamento univoco della Corte di cassazione, riconosceva pacificamente ai lavoratori pubblici le pretese negate dalla norma in esame; essa risulterebbe solo formalmente interpretativa, essendo nella sostanza innovativa, in quanto il tenore letterale delle norme interpretate (d.lgs. n. 165 del 2001 e legge n. 260 del 1949) non comprenderebbe, fra le possibili combinate letture, l’interpretazione in parte qua fornita dal legislatore; infine, essa andrebbe a regolare fattispecie in cui lo Stato italiano è direttamente parte in causa.
    9. In via subordinata, le predette parti chiedono che sia dichiarata l’illegittimità costituzionale della norma oggetto di censura per violazione dell’art. 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 6 della CEDU.
  2. .– All’udienza pubblica, le parti costituite nel giudizio ed il Presidente del Consiglio dei ministri hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.
  3. Considerato in diritto
  1. .– La Corte di cassazione, sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), là dove prevede che «[t]ra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, è ricompreso l’articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sostituito dall’articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica. E’ fatta salva l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge».In particolare, la norma sarebbe intervenuta nel corso di un giudizio, al fine di determinare la modifica dell’esito dello stesso in favore dello Stato, parte del medesimo giudizio, in assenza di motivi imperativi di interesse generale, non potendosi configurare come tali né le finalità di “omogeneizzare” e “razionalizzare” il trattamento nel pubblico impiego, né le generiche esigenze finanziarie richiamate.
  2. Tale norma è censurata per violazione dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Essa, infatti, nella parte in cui stabilisce che l’art. 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), deve intendersi nel senso di escludere l’applicabilità ai lavoratori pubblici, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, dell’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, escludendo quindi il riconoscimento del diritto dei predetti ad un compenso aggiuntivo in caso di coincidenza delle festività con la domenica, anche con riguardo ai giudizi pendenti, conterrebbe una norma retroattiva, lesiva dei principi della preminenza del diritto e del processo equo di cui all’art. 6 della CEDU.
  3. .– La questione non è fondata nei termini di seguito precisati.
    1. .– Preliminarmente occorre riconoscere la fondatezza dell’assunto del rimettente secondo cui non è possibile una interpretazione della norma censurata che ne escluda la portata retroattiva e dunque l’applicabilità ai giudizi in corso, ivi compreso il giudizio principale. Il tenore letterale dell’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005 che, nel delimitare la propria sfera di
    2. applicazione, espressamente fa salva solo «l’esecuzione dei giudicati formatisi alla data di entrata in vigore della presente legge» (secondo periodo), impedisce di assegnare a detta norma un significato diverso da quello sospettato di illegittimità, non consentendo di attribuirle effetti solo pro futuro, poiché risulta ictu oculi il suo carattere retroattivo e la sua incidenza sul giudizio in corso. Questa Corte ha più volte affermato che l’onere dell’interpretazione conforme grava sul giudice «entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme» (sentenza n. 349 del 2007). Qualora ciò non sia possibile, ove cioè la verifica della praticabilità di una interpretazione della norma interna in senso conforme alla CEDU, realizzata dal giudice comune avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione, dia esito negativo, questi non può far altro che sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (sentenze n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 del 2009,). Questa soluzione si collega all’impossibilità di disapplicare la norma ritenuta in contrasto con la norma convenzionale, come affermato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (fra le altre, sentenze n. 80 del 2011 e n. 349 del 2007).
    3. .– Il suddetto contrasto con la norma convenzionale e, quindi, con l’art. 117, primo comma, Cost., tuttavia, non sussiste per i motivi che si precisano di seguito. Quest’ultima, nel dettare norme transitorie volte ad assicurare la graduale attuazione della riforma del lavoro pubblico, prescrive che, «[s]alvo che per le materie di cui all’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, gli accordi sindacali recepiti in decreti del Presidente della Repubblica in base alla legge 29 marzo 1983, n. 93, e le norme generali e speciali del pubblico impiego, vigenti alla data del 13 gennaio 1994 e non abrogate, costituiscono, limitatamente agli istituti del rapporto di lavoro, la disciplina di cui all’articolo 2, comma 2. Tali disposizioni sono inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, in relazione ai soggetti e alle materie dagli stessi contemplati. Tali disposizioni cessano in ogni caso di produrre effetti dal momento della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, dei contratti collettivi del quadriennio 1998-2001».Il d.lgs. n. 165 del 2001, seguito alla cosiddetta “seconda privatizzazione” del lavoro pubblico operata dalla legge 15 marzo 1997, n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), ha confermato l’impianto della riforma del 1993, diretta a «valorizzare la distinzione tra organizzazione della pubblica amministrazione, la cui disciplina viene affidata in primo luogo alla legge, e rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, tendenzialmente demandato allo strumento della contrattazione collettiva» (sentenza n. 313 del 1996; sentenza n. 88 del 1996), in linea con la configurazione della contrattazione collettiva come strumento di partecipazione. Questa Corte ha già avuto modo di desumere dalle indicate disposizioni che il legislatore «ha voluto riservare alla contrattazione collettiva l’intera definizione del trattamento economico, eliminando progressivamente tutte le voci extra ordinem» (sentenza n. 146 del 2008) al fine di realizzare, ad un tempo, l’obiettivo della contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico e della razionalizzazione del costo del lavoro pubblico, mediante il contenimento della spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica.Risulta, pertanto, evidente che la norma censurata si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario, cosicché la portata retroattiva della medesima non si rivela irragionevole, né si pone in contrasto con altri interessi costituzionalmente protetti (ex plurimis: sentenze n. 257 del 2011, n. 236 del 2009). Nella specie, l’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nell’escludere l’applicabilità ai lavoratori pubblici della norma recante la previsione del diritto ad una retribuzione aggiuntiva nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, all’indomani della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, non ha fatto altro che dare attuazione ad uno dei principi ispiratori dell’intero d.lgs. n. 165 del 2001. Tale è da intendersi la contrattualizzazione del rapporto di lavoro pubblico, principio cui era informata la norma interpretata (l’art. 69 del citato d.lgs. n. 165 del 2001), nella parte in cui disponeva, in via generale, l’inapplicabilità «delle norme generali e speciali del pubblico impiego», a seguito appunto della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997. La norma in questione ha chiarito – risolvendo una situazione di incertezza testimoniata dalla presenza di pronunce di segno contrastante (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 28 marzo 1981, n. 1803; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 10 gennaio 2011, n. 258; Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 5 luglio 2006, n. 15331) – che l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ha carattere imperativo. Esso è, pertanto, applicabile a tutti i lavoratori dipendenti dallo Stato, dagli enti pubblici e dai privati (Corte di cassazione, sezione lavoro, sentenza 22 febbraio 2008, n. 4667), rientrando fra le «norme generali […] del pubblico impiego», di cui l’art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001 stabilisce l’inapplicabilità a seguito della stipulazione dei contratti collettivi, in linea con il principio della onnicomprensività della retribuzione e del divieto di ulteriori corresponsioni, diverse da quelle contrattualmente stabilite (sentenza n. 146 del 2008). Per questi motivi dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950 ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dalla Corte di cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza di rimessione riportata in epigrafe.
    4. LA CORTE COSTITUZIONALE
    5. Alla luce di quanto detto, l’intervento interpretativo del legislatore non solo non contrasta con il principio di ragionevolezza «che ridonda nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento» (sentenza n. 209 del 2010), escluse da questa Corte già nella sentenza n. 146 del 2008 in considerazione della peculiarità del regime del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni delineato dal d.lgs. n. 165 del 2001 e dai contratti collettivi ivi richiamati, ma neppure determina una lesione dell’affidamento. Il testo originario rendeva, sin dall’inizio, plausibile, come si è già rilevato, una lettura diversa da quella che i destinatari della norma interpretata hanno ritenuto di privilegiare (sentenza n. 170 del 2008), coerente con i principi ai quali è informato il rapporto di lavoro pubblico. Né si ravvisa una lesione delle attribuzioni del potere giudiziario. La norma in esame, infatti, avendo natura interpretativa, ha operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, limitandosi a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l’esercizio di tale potestà deve attenersi, definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima (sentenza n. 170 del 2008), proprio al fine di assicurare la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico (sentenza n. 209 del 2010).
    6. Questa Corte ha più volte affermato che, posto che il divieto di retroattività della legge, pur costituendo fondamentale valore di civiltà giuridica, non è stato elevato a dignità costituzionale, salva la previsione dell’art. 25 Cost. per la materia penale, (fra le altre, sentenze n. 156 del 2014, n. 78 del 2012, n. 257 del 2011), deve riconoscersi come «al legislatore non sia […] precluso di emanare […] norme retroattive (sia innovative che di interpretazione autentica), “purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nella esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale che costituiscono altrettanti motivi imperativi di interesse generale ai sensi della giurisprudenza della Corte EDU” (sentenza n. 264 del 2012)» (sentenza n. 156 del 2014; così anche, ex plurimis, sentenze n. 78 del 2012, n. 15 del 2012). Questa Corte ha ritenuto che ciò accade allorquando una norma di natura interpretativa persegua lo scopo di chiarire situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo in ragione di un dibattito giurisprudenziale irrisolto o di ristabilire un’interpretazione più aderente all’originaria volontà del legislatore (sentenza n. 311 del 2009; così anche Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 23 ottobre 1997, National & Provincial Building Society ed altri contro Regno Unito), nonché di riaffermare l’intento originale del Parlamento (Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza 27 maggio 2004, OGIS-Institut Stanislas e altri contro Francia) a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini.
    7. L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nell’annoverare tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall’art. 69, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 165 del 2001) a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, in base al quale è riconosciuto il diritto ad una ulteriore retribuzione nel caso in cui le festività ricorrano di domenica, si pone in armonia con l’obiettivo di riconoscere alla sola fonte contrattuale il compito di definire il trattamento retributivo, eliminando tutte le voci extra ordinem. Come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, scrutinando la medesima norma, pur sotto altro profilo, si deve anche evidenziare la finalità del contenimento e della razionalizzazione della spesa per il settore del pubblico impiego, finalità «che è imposta dall’art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 […], e ribadita dall’art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 165 del 2001» (sentenza n. 146 del 2008).
    8. In questa prospettiva l’art. 2 del predetto d.l.lgs. n. 165 del 2001, nell’individuare le fonti di disciplina del lavoro pubblico, ha assegnato alla legge il compito di regolare, quanto meno nei principi, l’organizzazione degli uffici, demandando viceversa alla contrattazione collettiva la regolamentazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti. In particolare, al comma 2, ha statuito che «[i] rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto». Fra di esse c’è il comma 3 nel quale ha disposto che «[l]’attribuzione dei trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti […] collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali» e che «[l]e disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall’entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale».
    9. Il citato art. 69 si inserisce nel quadro della riforma del lavoro pubblico, introdotta con il decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell’organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell’articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ed ispirata, come già riconosciuto da questa Corte, «alle finalità di “accrescere l’efficienza delle amministrazioni in relazione a quella dei corrispondenti uffici e servizi dei paesi della Comunità europea”, di “razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli della finanza pubblica”, di “integrare gradualmente la disciplina del lavoro pubblico con quella del lavoro privato” (v. art. 1)» (sentenza n. 359 del 1993). Tale riforma «ha profondamente innovato la disciplina in precedenza posta dalla legge quadro sul pubblico impiego (legge 29 marzo 1983, n. 93), ricostruendo l’intera materia intorno ai nuovi principi della “privatizzazione” e della “contrattualizzazione” enunciati nell’art. 2, primo comma, lett. a), della legge n. 421 del 1992 e attuati, nel decreto n. 29 del 1993, mediante l’inquadramento dei rapporti d’impiego pubblico nella cornice del diritto civile e nella contrattazione collettiva e individuale» (sentenza n. 359 del 1993).
    10. L’art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005, nella parte in cui dispone che l’art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, come successivamente modificato, è una fra le disposizioni divenute inapplicabili a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, ai sensi dell’art. 69, comma 1, del d.l.gs. n. 165 del 2001, interviene sul contenuto di tale norma.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2015.

F.to:

Marta CARTABIA, Presidente Silvana SCIARRA, Redattore

Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 luglio 2015. Il Direttore della Cancelleria

F.to: Gabriella Paola MELATTI


Nuovo attacco informatico al nostro sito

attacchi-informatici-hackerNella giornata del 22 maggio 2015 abbiamo subito un nuovo attacco informatico che, nonostante le misure di sicurezza adottate, hanno oscurato il nostro sito web.

Tale oscuramento è durato poche ore avendo ripristinato in tempo record l’agibilità del sito. Purtroppo, però, sono stati cancellati alcuni file ed immagini che saranno ripristinate entro pochi giorni.

Si sente parlare molto di crimine informatico, o anche cybercrime, ma in cosa consiste esattamente? In realtà si tratta di un argomento complesso.

Analogamente al crimine tradizionale, quello informatico può assumere varie forme e essere perpetrato praticamente sempre e ovunque. I criminali che commettono questo tipo di crimini utilizzano una serie di metodi a seconda delle proprie capacità e scopi. Ciò non dovrebbe sorprendere: il crimine informatico è, dopotutto, semplice ‘crimine’ con l’aggiunta di qualche sorta di componente ‘informatico’.

Nel trattato del Consiglio d’Europa sulla criminalità informatica viene utilizzato il termine “cybercrime” per definire reati che vanno dai crimini contro i dati riservati, alla violazione di contenuti e del diritto d’autore [Krone, 2005]. Tuttavia, altri [Zeviar-Geese, 1997-98] suggeriscono una definizione più ampia che comprende attività criminose come la frode, l’accesso non autorizzato, la pedopornografia e il “cyberstalking” o pedinamento informatico. Il manuale delle Nazioni Unite sulla prevenzione e il controllo del crimine informatico (The United Nations Manual on the Prevention and Control of Computer Related Crime) nella definizione di crimine informatico include frode, contraffazione e accesso non autorizzato [Nazioni Unite, 1995].

Come si può vedere da queste definizioni, il crimine informatico può coprire una gamma molto ampia di attacchi. È importante comprendere le differenze tra i vari tipi di crimine informatico, in quanto ciascuno richiede un approccio diverso per migliorare la sicurezza del computer.

Prendendo spunto dalle varie definizioni, Symantec descrive concisamente il crimine informatico come un crimine commesso utilizzando un computer, una rete o un dispositivo hardware. Il computer o il dispositivo può essere l’agente, il mezzo o l’obiettivo del crimine.Un crimine può avere luogo sul solo computer o in combinazione con altre posizioni e luoghi.Per meglio comprendere l’ampia gamma di crimine informatico esistente è possibile dividerlo in due categorie definendolo, per lo scopo di questa ricerca, come crimine informatico di Tipo 1 e di Tipo 2.

Il crimine informatico di Tipo 1 presenta le seguenti caratteristiche:

  • Si tratta generalmente di un singolo evento se visto dalla prospettiva della vittima. Ad esempio, la vittima scarica inconsapevolmente un Trojan Horse che installa sul suo computer un keystroke logger, ovvero un programma che registra quanto viene digitato sulla tastiera. In alternativa, la vittima può ricevere un’e-mail contenente quello che sembra un collegamento a un sito noto, ma che è in realtà un sito ostile.
  • Il crimine informatico viene facilitato da programmi crimeware quali keystroke logger, virus, rootkit o Trojan Horse.
  • I difetti e le vulnerabilità dei software offrono spesso un punto di appoggio all’aggressore per perpetrare l’attacco. Ad esempio, i criminali che controllano un sito Web possono sfruttare una vulnerabilità del browser Web per introdurre un Trojan Horse nel computer della vittima.

Esempi di questo tipo di crimine informatico includono, tra gli altri, il phishing, il furto e la manipolazione di dati o servizi tramite azioni di hacking o virus, il furto di identità e le frodi bancarie o legate all’e-commerce.

Il crimine informatico di Tipo 2 comprende attività quali il cyberstalking e le molestie, le molestie ai minori, l’estorsione, il ricatto, la manipolazione dei mercati finanziari, lo spionaggio e le attività terroristiche, ma non si limitano solo a queste.Le caratteristiche del crimine informatico di Tipo 2 sono le seguenti:

  • È caratterizzato solitamente da una serie continua di eventi che prevedono ripetute interazioni con l’obiettivo.Ad esempio, la vittima viene contattata in una chat da qualcuno che, nel corso di un certo periodo di tempo, tenta di stabilire qualche tipo di relazione.Alla fine, il criminale sfrutta il legame che si è stabilito con la vittima per commettere un crimine.Un altro caso si verifica quando i membri di una cellula terroristica o di un’organizzazione criminale utilizzano messaggi in codice per comunicare in un forum pubblico e, ad esempio, pianificare attività criminose o concordare luoghi di riciclaggio di denaro sporco.
  • Tali attività vengono facilitate generalmente da programmi che non rientrano nella definizione di crimeware. Ad esempio, le conversazioni possono avvenire tramite client di messaggistica istantanea e i file possono essere trasferiti mediante FTP.
Si ringraziano i “naviganti” per il disagio che si è arrecato.

Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 05-03-2015) 22-05-2015, n. 10543

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30242-2011 proposto da:

CHARLES PHILIPPE PRESSE SOCIETA’ (OMISSIS), in persona del legale rappresentante p.t. sig. B.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato DE CURTIS CLAUDIA, rappresentata e difesa dagli avvocati DI SALVATORE SALVATORE, CARMINE RUSSO, ENRICO BONELLI giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

LEONARDO PUBLISHING SRL IN LIQUIDAZIONE (OMISSIS), in persona del liquidatore D.P., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. PUCCINI 10, presso lo studio dell’avvocato FERRI MARIO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CAFARO MARINA giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso il provvedimento della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositato il 18/10/2011 R.G.N. 1694/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2015 dal Consigliere Dott. FRANCO DE STEFANO;

udito l’Avvocato MARIO FERRI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – La srl Leonardo Publishing – poi in liquidazione – ottenne il 10.2.09 ingiunzione di pagamento in danno della Presse Charles Philippe dal tribunale di Parma per Euro 46.570,03 e, dichiaratane l’esecutività (con ordinanza 21.10.09) per inesistenza della notifica dell’opposizione dell’ingiunta in quanto eseguita a mezzo fax, la creditrice conseguì, riguardo ad essa, certificato di titolo esecutivo europeo in data 20.4.11.

La debitrice presentò istanza di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento CE n. 805/2004 del 21.4.2004, che fu però respinta con provvedimento del 23.6.11: il reclamo avverso il quale fu rigettato dalla corte di appello di Bologna.

Per la cassazione di quest’ultimo provvedimento, reso il 18.10.11 in proc. n. 1694/11 r.g., ricorre oggi, affidandosi a due motivi illustrati con memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ., la Presse Charles Philippe; resiste, con controricorso, la Leonardo Publishing srl in liq.ne.

Motivi della decisione
2. – La ricorrente, che fonda la sua difesa sull’inesistenza o nullità insanabile della notifica del decreto ingiuntivo n. 304/09 poi munito del certificato di titolo esecutivo europeo, articola due motivi.

2.1. Con il primo motivo, la Presse Charles Philippe si duole di violazione di legge – violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 18, comma 2, del Regolamento CE n. 805/2004 del 21.4.2004 – violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 4, 7 e 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13.11.2007 – violazione dell’art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3).

Al riguardo, essa:

– ripropone la censura di violazione degli artt. 2, 4, 7 e 15 del Regolamento CE n. 1393/2007, in quanto la notifica avrebbe dovuto seguire – a prevalenza di norme contenute in trattati bilaterali o nelle Convenzioni di Bruxelles del 27.9.68 e dell’Aja del 15.11.65 – unicamente a mezzo degli allegati standard al Regolamento stesso e tramite l’organo specificamente designato dallo Stato richiesto della notifica (nella specie, ufficiale giudiziario francese), anzichè – come nella specie accaduto – direttamente a mezzo posta;

– si duole dell’omessa pronunzia su tale eccezione ad opera della corte di appello;

– contesta la reputata sanabilità di un tale vizio, essendo malamente applicata la previsione di sanatoria di cui all’art. 18 del Regolamento n. 805 sul titolo esecutivo europeo, non contenuta però nel Regolamento n. 1393, successivo e speciale rispetto al primo.

2.2. Con il secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione di legge – violazione e falsa applicazione dell’art. 18, comma 2, Regolamento CE n. 805/2004 – violazione dei principi in tema di inesistenza delle notificazioni – violazione degli artt. 156 e 160 c.p.c. (in relazione all’art. 160 c.p.c., n. 3) – omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5).

Al riguardo, essa:

– nega essersi instaurato un procedimento giudiziario nel quale, indicata come debitrice, sia stata coinvolta in tempo utile per potersi difendere, attesa la riscontrata inesistenza della notifica dell’opposizione da essa proposta (che pare riferire alla stessa consegna dell’atto ed alla conoscenza legale dello stesso) e quindi per la mancata verifica dell’inesistenza a monte della notifica dello stesso decreto ingiuntivo;

– sottolinea mancare quest’ultima di tutti gli estremi dei requisiti essenziali per la sua qualificazione come atto del tipo o della figura giuridica considerati;

– sostiene che la combinata inesistenza delle due notifiche – del decreto ingiuntivo e dell’opposizione – ha impedito l’instaurazione di qualunque valido rapporto processuale;

– nega la sanatoria della prima inesistenza e l’applicabilità di qualunque conversione, diffondendosi sui rimedi concessi al debitore apparente e sulle conseguenze della prima sugli sviluppi processuali successivi.

3. – La controricorrente, premesso un richiamo alla non impugnabilità espressa del titolo esecutivo europeo ai sensi dell’art. 10, comma 3 del Regolamento n. 805, ribatte:

– quanto al primo motivo: che la corte territoriale ha preso in esame la doglianza lamentata come pretermessa, avendo ritenuto sanata la nullità originaria della notificazione diretta a mezzo posta, anzichè a mezzo ufficiale giudiziario francese; che va presa a riferimento, ai fini dell’art. 10 comma 1, lett. b), del Regolamento, la disciplina di quest’ultimo, pienamente rispettata con riguardo alle norme minime procedurali sulla configurabilità della non contestazione ad opera del debitore; che sul punto il debitore è stato posto in grado di opporsi, non rilevando che egli abbia poi male usato il relativo potere, sì da incorrere nell’estinzione del giudizio di opposizione in forza di un provvedimento coperto da giudicato formale e sostanziale anche per la successiva inerzia di esso ingiunto; che, al riguardo, del tutto idonea era la consegna di copia del monitorio all’ingiunta presso il suo recapito, eseguita a mezzo posta a termini degli artt. 13 e 14 del Regolamento n. 805;

– quanto al secondo motivo: che la notifica del monitorio ben poteva avere luogo a mezzo posta, ai sensi proprio del Regolamento n. 805/2004; che eventuali vizi di notifica ben potevano essere superati ai sensi dell’art. 18 di quest’ultimo, ove il comportamento del debitore nel corso del procedimento giudiziario dimostri che egli abbia ricevuto il documento da notificare personalmente ed in tempo utile per difendersi; che in effetti l’ingiunta aveva iscritto – peraltro tempestivamente – a ruolo l’opposizione al decreto ingiuntivo, prendendo posizione nel merito delle pretese avanzate contro di essa; che pertanto l’inesistenza della sua notifica – dipendendo dall’evidente difettosità dell’attività processuale successiva di cui egli era onerato – non inficia la piena possibilità, di cui ha potuto godere il debitore, di conoscere l’atto e di difendersi da esso.

4. – Il presente ricorso per cassazione, siccome dispiegato avverso il provvedimento, reso in camera di consiglio, dalla corte di appello sul reclamo avverso il diniego di revoca del (certificato di) titolo esecutivo europeo, è inammissibile per difetto del requisito di decisorietà e di definitività di quel provvedimento.

5. – Va premesso che, con il titolo esecutivo europeo, istituito con il Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, un titolo esecutivo – giudiziale o stragiudiziale – formatosi in uno dei Paesi membri dell’Unione Europea (ad eccezione della Danimarca, secondo quanto previsto dall’art. 2, comma o par. 3 del Regolamento stesso) può essere munito di uno speciale certificato che lo rende idoneo a fondare, quale titolo esecutivo appunto, un processo esecutivo in uno qualsiasi degli altri Stati membri dell’Unione.

La ratio dell’intera normativa è, con evidenza ricavabile dai considerando premessi al testo, l’agile apprestamento di uno strumento di facile e pronta eseguibilità in tutto il territorio dell’Unione sol che al debitore sia stata data la possibilità di contestare adeguatamente la pretesa della controparte e che di questa facoltà non si sia avvalso o non si sia avvalso fruttuosamente.

Importante tappa (verso il traguardo, di recente attinto, della definitiva soppressione di qualunque necessario controllo successivo da parte dello Stato membro richiesto dell’esecuzione, consacrato dal più recente Regolamento n. 1215/2012, divenuto efficace dal 10.1.15) nella creazione ed integrazione dello spazio giuridico europeo, esso comporta l’anticipazione a monte e cioè da parte dello Stato in cui si forma il titolo – con abbandono del tradizionale sistema dell’exequatur o del controllo a valle da parte dello Stato richiesto dell’esecuzione, per quanto sempre più attenuato o facilitato o perfino eventualizzato – del controllo di idoneità del titolo stesso a fungere da base legale di un processo esecutivo in altro Stato membro come se fosse stato lì emesso, sol che l’Autorità dello Stato in cui esso è formato rilevi la sussistenza di alcuni presupposti:

– in via preliminare, la non operatività degli speciali ambiti di esclusione previsti, non applicandosi il Regolamento in materia fiscale, doganale, amministrativa, di responsabilità dello Stato per atti od omissioni nell’esercizio di pubblici poteri, in materia di stato e capacità delle persone, di regime patrimoniale tra i coniugi, di testamenti e successioni, fallimenti e procedure concorsuali, sicurezza sociale ed arbitrato; e comunque nel rispetto delle norme in tema di competenza giurisdizionale espressamente previste, tra cui quelle in tema di assicurazioni e di contratti dei consumatori;

– in via principale, la non contestazione del credito pecuniario;

– ancora, il rispetto di norme procedurali minime (cc.dd. minima standard) all’interno del procedimento al cui esito il titolo è stato pronunziato, volte a dare contezza delle possibilità, per il debitore, di contestare la pretesa avversaria.

Nessun controllo sul merito o sul rito del titolo esecutivo è mai consentito al giudice dello Stato richiesto dell’esecuzione e questa non può essere negata, tranne l’eccezionale evenienza del conflitto con altra pronunzia tra le stesse parti (ovvero forse anche, ma soltanto in via di interpretazione e non senza contrasti, in quella di eventi sopravvenuti alla definitività del titolo).

Ai fini della qualifica di credito non contestato idoneo al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, il detto Regolamento (art. 3) esige:

– che il debitore quel credito non abbia mai contestato nel corso del procedimento giudiziario, in conformità alle relative procedure giudiziarie previste dalla legislazione dello Stato membro di origine;

ovvero:

– che il debitore non sia comparso o non si sia fatto rappresentare in un’udienza relativa a un determinato credito pur avendolo contestato inizialmente nel corso del procedimento, sempre che tale comportamento equivalga a un’ammissione tacita del credito o dei fatti allegati dal creditore secondo la legislazione dello Stato membro d’origine.

6. – Il titolo esecutivo europeo non corrisponde allora ad una procedura sui generis, ma si articola nella combinazione di due distinti atti o provvedimenti e cioè:

– da un lato, un titolo esecutivo domestico o nazionale, stragiudiziale (con alcune peculiarità e conseguenti esenzioni, indicate nei commi o par. 3 degli artt. 24 e 25 del Regolamento) oppure reso all’esito di una procedura giudiziale nazionale tipica, nella quale però siano state osservate, se del caso in aggiunta rispetto alle forme minimali sufficienti per la legislazione nazionale, norme procedurali minime da cui possa desumersi una non contestazione di concezione eurounitaria da parte del debitore ingiunto;

– dall’altro lato, un provvedimento formale che tale rispetto appunto riscontri e certifichi, provvedimento che esso solo potrà definirsi il vero e proprio certificato di titolo esecutivo europeo, evidentemente come quid pluris rispetto al primo.

Ma neppure l’eventuale mancato rispetto delle norme procedurali minime osta al rilascio del certificato (art. 18, comma o par. 1, del Regolamento n. 805 del 2004) se:

– la decisione sia stata notificata al debitore secondo le norme di cui agli artt. 13 o 14 del Regolamento stesso;

– ed il debitore abbia avuto la possibilità di ricorrere contro la decisione per mezzo di un riesame completo e sia stato debitamente informato con la decisione o con un atto ad essa contestuale delle norme procedurali per proporre tale ricorso, compreso il nome e l’indirizzo dell’istituzione alla quale deve essere proposto e, se del caso, il termine previsto;

– ed infine il debitore non abbia impugnato la decisione di cui trattasi conformemente ai relativi requisiti procedurali.

Ed ancora (art. 18, comma o par. 2, del Regolamento), neppure l’inosservanza, nel procedimento svoltosi nello Stato membro d’origine, dei requisiti procedurali di cui agli art. 13 o 14 osta al rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo se il comportamento del debitore nel corso del procedimento giudiziario dimostra che questi ha ricevuto il documento da notificare personalmente ed in tempo utile per potersi difendere.

– da un lato, esclude espressamente (art. 10, comma o par. 4) ogni impugnazione del certificato di titolo esecutivo europeo, cioè del (solo) provvedimento con cui lo Stato membro di origine attesta appunto la ricorrenza dei presupposti per la circolazione intraeuropea del titolo esecutivo domestico;

– dall’altro lato, ne ammette pure – ai sensi dell’art. 10, comma o par. 1, lett. b) – la revoca da parte del giudice del Paese membro di origine, se risulti manifestamente concesso per errore sui requisiti stabiliti nel Regolamento stesso, come pure la rettifica per divergenza tra i dati contenuti nel titolo nazionale e nel certificato;

– ed infine ne prevede la neutralizzazione mediante il rilascio di un certificato sulla sorte del titolo originario, che abbia perso in tutto o in parte la sua efficacia esecutiva (ai sensi dell’art. 6, comma o par. 2, del Regolamento in esame).

Tale regime consente di concludere che il certificato di titolo esecutivo europeo, costituito dal provvedimento ulteriore e distinto rispetto al titolo esecutivo nazionale, allora integra, cioè completa, quest’ultimo in modo da renderlo idoneo alla circolazione intraeuropea: tanto che la sua funzione può, se non altro descrittivamente, equipararsi ad una sorta di formula esecutiva intraeuropea o ad un provvedimento di funzione analoga a quello previsto dall’art. 647 cod. proc. civ.; in tal modo, esso ha una funzione dichiarativa evidentemente servente rispetto al titolo esecutivo cui accede, conferendogli il riconoscimento della sua idoneità a circolare nello spazio giuridico eurounitario; ma non risolve questioni, nè pronunzia su diritti ulteriori rispetto a quelli consacrati nel titolo in favore del creditore; si limita a certificarne l’idoneità a fondare l’esecuzione in dipendenza di un determinato sviluppo processuale.

In quanto tale, esso allora non ha natura decisoria, dovendo le contestazioni sulla concreta estrinsecazione del diritto di difesa del debitore farsi valere contro il titolo in sè considerato, ma esclusivamente coi mezzi di impugnazione previsti dall’ordinamento che lo ha prodotto o, in casi eccezionali, con il riesame previsto dallo stesso Regolamento 805, direttamente contro il titolo stesso e mai contro il certificato.

Tanto è reso manifesto dalla previsione dell’art. 19 del Regolamento, che ricollega la concedibilità del certificato di titolo esecutivo europeo alla previsione, nell’ordinamento dello Stato membro in cui il titolo esecutivo si forma, di strumenti processuali straordinari di riesame, in via di eccezione alla regola generale della non ulteriore impugnabilità, del titolo esecutivo in quanto tale; in particolare, tale norma prevede che debba essere possibile per il debitore impugnare non già il certificato di titolo esecutivo europeo, ma il titolo stesso, quando la domanda giudiziale o un atto equivalente o, se del caso, le citazioni a comparire in udienza siano stati notificati secondo una delle forme previste all’art. 14, e:

– o la notificazione non sia stata effettuata in tempo utile a consentirgli di presentare le proprie difese, per ragioni a lui non imputabili, oppure:

– il debitore non abbia avuto la possibilità di contestare il credito a causa di situazioni di forza maggiore o di circostanze eccezionali per ragioni a lui non imputabili, purchè in entrambi i casi agisca tempestivamente.

Tanto giustifica la conclusione che, purchè questa sia una facoltà intrinseca all’ordinamento processuale nazionale di produzione del titolo, il certificato di titolo esecutivo europeo non solo può essere comunque concesso, ma soprattutto resta insensibile alle relative problematiche, solo che di quegli strumenti avverso il titolo in sè considerato possa avvalersi il debitore, ricorrendone beninteso i presupposti.

E che sia onere del debitore rivolgere le sue critiche, anche se basate sulla concreta compressione del suo diritto di contestazione della pretesa avversaria, al titolo e non al certificato è confermato pure dalla già richiamata previsione dell’art. 6, comma o par. 2, del Regolamento, a mente del quale allorchè una decisione giudiziaria certificata come titolo esecutivo europeo non è più esecutiva o la sua esecutività è stata sospesa o limitata, viene rilasciato, su istanza presentata in qualunque momento al giudice d’origine, un certificato comprovante la non esecutività o la limitazione dell’esecutività utilizzando il modello di cui all’all.

4.

Il che porta a concludere che le contestazioni del debitore relative al processo conclusosi con il titolo esecutivo poi certificato come europeo vanno mosse appunto esclusivamente avverso il titolo esecutivo domestico e coi mezzi di impugnazione di questo, potendo solo in esito ad essi, una volta rimossane l’efficacia esecutiva, conseguire il risultato di elidere in radice quella del certificato europeo già rilasciato.

8. – La conclusione va applicata alla revoca (in francese, retrait;

in inglese, withdrawal) del certificato di titolo esecutivo europeo:

riservata dal Regolamento ai casi di concessione per manifesto errore sulla sussistenza dei requisiti di concedibilità.

Occorre, cioè, valutare la portata di questa previsione; ma va subito precisato che a tali fini risulta neutra la regolamentazione del relativo procedimento nelle forme di quello camera di consiglio, operata dalla Repubblica italiana mediante comunicazione alla competente autorità eurounitaria – la Commissione – ai sensi dell’art. 30, par. o commi 1 e 2 del Regolamento 805 (come si ricava dal c.d. atlante giudiziario civile, a tanto deputato dallo stesso Regolamento, al sito web (OMISSIS)).

Tale attribuzione – se pure rende applicabile il reclamo, in virtù della portata generale dell’art. 739 cod. proc. civ. – non esime dalla necessità di ricostruire comunque l’oggetto del procedimento e la natura del provvedimento che lo conclude suo oggetto, al fine di valutare i mezzi di tutela ulteriori in relazione alle situazioni giuridiche effettivamente coinvolte.

Accertato che le violazioni procedurali idonee ad inficiare la possibilità per il debitore di contestare il debito sono deducibili solo nel procedimento di riesame previsto dall’art. 19 del Regolamento avverso il titolo, esse non rilevano di per sè sole considerate, ma solo in quest’ultimo e solo per il caso in cui sia in concreto attivato: e, siccome tale procedimento di riesame ha chiaramente ad oggetto il titolo esecutivo domestico o nazionale e non anche il certificato di titolo esecutivo europeo, quelle violazioni vanno fatte valere contro il primo e non contro il secondo.

E, con tutta evidenza e con riferimento al caso in cui il titolo sia costituito – come nella fattispecie – da un decreto ingiuntivo, nell’ordinamento italiano l’ambito di operatività del riesame come disciplinato dall’art. 19 citato coincide sostanzialmente, ma in modo del tutto appagante, con l’opposizione prevista dall’art. 650 cod. proc. civ. Pertanto, per la sussistenza di una sede propria di contestazione, il provvedimento della corte di appello che definisce il reclamo avverso il diniego di revoca ai sensi dell’art. 10 del Regolamento non è suscettibile anche di ricorso straordinario per cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7.

Il sistema di impugnazione del complesso provvedimento in cui si articola il titolo esecutivo europeo (titolo domestico più certificato), delineato sopra al 7, impone quindi – anche a garanzia, in accordo con parte della dottrina, della massima funzionalità possibile all’istituto – di circoscrivere l’oggetto della revoca alla sola carenza evidente dei requisiti formali di rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo, tanto da limitarla ad un errore manifesto sulla sussistenza dei requisiti formali di rilascio e quindi del procedimento proprio e specifico di richiesta-esame- rilascio del certificato medesimo; qualunque ulteriore contestazione sul rito della formazione del titolo esecutivo, implicante la compressione del diritto del debitore di contestare il debito, ma pure sul merito della pretesa e per il caso sia ritenuta fondata l’indispensabile preliminare contestazione in rito, va ricondotta all’ambito di operatività dell’art. 19 del Regolamento 805 e, quindi, all’esperimento, se ancora possibile, degli strumenti straordinari di revisione del titolo in sè considerato.

Pertanto, in tale contesto e se correttamente interpretato, l’istituto della revoca non può involgere alcun diritto del debitore relativo al merito della pretesa od alla correttezza del rito seguito per l’emanazione del provvedimento costituente il titolo esecutivo:

diritto che è tutelato in altra e specifica sede. Così – cioè – il certificato non è di per sè stesso decisorio, perchè la tutela delle posizioni giuridiche relative alla violazione del diritto di difesa nel procedimento concluso con il titolo è riservata ad altri ambiti processuali, sol che il debitore se ne avvalga correttamente.

9. – Va a questa conclusione applicato il principio generale, oramai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte regolatrice, per il quale anche per i provvedimenti resi all’esito di un procedimento in camera di consiglio la carenza del carattere di decisorietà o di definitività li rende insuscettibili di ricorso per cassazione, pure ai sensi del comma settimo dell’art. 111 Cost., perchè questo è esperibile solo nei confronti di provvedimenti giurisdizionali lesivi di situazioni giuridiche sostanziali e per le quali non siano previste altre sedi processuali di tutela loro proprie (per tutte, v.

Cass. Sez. Un., 15 luglio 2003, n. 11026, ovvero 3 marzo 2003, n. 3073; nello stesso senso: Cass. 11 agosto 2004, n. 15487; Cass., ord. 11 marzo 2005, n. 5390; Cass. 7 ottobre 2005, n. 19643; Cass. 26 ottobre 2006, n. 23027; Cass. 1 agosto 2007, n. 16984; Cass. 12 giugno 2009, n. 13760; Cass., ord. 20 novembre 2010, n. 23578; Cass. 23 febbraio 2012, n. 2757; Cass. 13 settembre 2012, n. 15341; Cass. 19 febbraio 2014, n. 3883; i principi sono stati ribaditi in tema di opposizione esecutiva, tra l’te altre, da Cass. 24 ottobre 2011, n. 22033, come pure, in tema di condanna alle spese contenuta in un provvedimento cautelare ante causam, da Cass. 24 maggio 2011, n. 11370, oppure, in tema di ricorso avverso ordinanze di inammissibilità di appelli ai sensi dell’art. 348-bis cod. proc. civ., da Cass., ord. 17 aprile 2014, n. 8940).

Del resto, quand’anche la lesione di situazioni aventi rilievo processuale fosse prospettata quale compressione del diritto di azione, la pronunzia sull’osservanza delle norme che regolano il processo, disciplinando i presupposti, i modi e i tempi con i quali la domanda può essere portata all’esame del giudice, ha necessariamente la medesima natura dell’atto giurisdizionale cui il processo è preordinato e, pertanto, non può avere autonoma valenza di provvedimento decisorio e definitivo, se di tali caratteri quell’atto sia privo, stante la natura strumentale della problematica processuale e la sua idoneità a costituire oggetto di dibattito soltanto nella sede, e nei limiti, in cui sia aperta o possa essere riaperta la discussione sul merito.

Pertanto, il ricorso, proposto appunto contro un provvedimento reso all’esito di un procedimento in camera di consiglio come quello in esame, non è ammissibile neppure se articolato sulla prospettata violazione di norme processuali: e tanto va dichiarato in dispositivo.

10. – Questa conclusione non impedisce però di affrontare e risolvere comunque la questione di rito sottesa al ricorso.

Essa può qualificarsi di particolare importanza, siccome di rilevanza pratica notevole e suscettibile di riproporsi per il futuro in relazione ad una potenzialmente indefinita serie di concrete applicazioni nello spazio giuridico intraeuropeo o eurounitario sempre più fruito dagli operatori.

E la questione può essere definita pronunciando il principio di diritto ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ.: in particolare, la sottesa doglianza, come sollevata da parte ricorrente, è anche infondata, perchè la notifica a mezzo posta in altro Paese membro dell’Unione Europea di un decreto ingiuntivo è idonea a fondare il rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo sia ai sensi del Regolamento CE n. 805, sia ai sensi proprio del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13.11.2007, malamente invocato dall’odierna ricorrente in senso opposto.

10.1. La notifica a mezzo posta a tali fini sarebbe infatti valida, in primo luogo, ai sensi del Regolamento n. 805 del 2004.

Ed infatti:

– questo costituisce certamente lex specialis rispetto a quello del 2007, sicchè esso non è derogato dalla legge generale successiva;

– infatti, il primo non istituisce speciali procedure affiancate alle altre ordinarie ma solo esige – ai fini dell’attribuzione della qualità peculiare al titolo di idoneità a fondare l’esecuzione in ogni Paese membro – che in concreto in queste ultime siano state osservate specifiche modalità: poi prevedendo le caratteristiche della notifica del provvedimento domestico ai fini della sua certificabilità come titolo esecutivo europeo;

– pertanto, è l’osservanza delle norme dettate dal n. 805 a fondare idoneamente il rilascio del certificato del titolo esecutivo europeo e non già quella di altre norme, se del caso di diverso tenore;

– nella specie, sono rispettati i cc.dd. minima standards del Regolamento n. 805, con conseguente irrilevanza di ogni ulteriore approfondimento sulla nozione di inesistenza o di nullità insanabile e sugli effetti di essa sulla ritualità o meno dell’instaurazione del rapporto processuale;

– invero, una volta eseguita a mezzo posta, nel rispetto cioè quanto meno dell’art. 14 del Regolamento n. 805, la notifica del decreto ingiuntivo, quest’ultimo contenendo gli estremi dell’invito a costituirsi ritualmente per difendersi sotto pena di definitività dell’ingiunzione, si è per ciò stesso avuto il rispetto quanto meno dell’art. 18, comma 2, del Regolamento n. 805;

– in particolare, la possibilità di fruizione del tempo utile per difendersi è resa evidente dall’effettivo confezionamento di un atto di piena presa di posizione sul merito delle pretese;

– la reazione stessa indubbiamente vi è stata ed è stata completa;

– resta irrilevante l’inutilizzabilità in concreto a fini processuali di tale opposizione, la quale è dipesa dalla malaccorta condotta processuale dell’opponente, per la difettosa forma di estrinsecazione della reazione.

10.2. In secondo luogo, la notifica a mezzo posta a tali fini sarebbe infatti valida anche e proprio ai sensi del Regolamento n. 1393 del 2007 (applicabile agli Stati dell’Unione, ad eccezione della Danimarca, come ricordato all’art. 1, comma o par. 3).

Ed infatti:

– è questo stesso a consentire notificazione o comunicazione tramite i servizi postali, ovvero direttamente tramite altre persone competenti dello Stato membro richiesto, sempre che questo tipo di notificazione o di comunicazione diretta sia ammessa dalla legge di quello Stato membro;

– esso Regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale, ovvero di notificazione o comunicazione degli atti, che abroga il regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio prevede espressamente, al suo art. 14, che ciascuno Stato membro ha facoltà di notificare o comunicare atti giudiziari alle persone residenti in un altro Stato membro direttamente tramite i servizi postali, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o mezzo equivalente;

– esso stesso, al suo articolo 15 (notificazione o comunicazione diretta), precisa pure che chiunque abbia un interesse in un procedimento giudiziario può notificare o comunicare atti direttamente tramite gli ufficiali giudiziari, i funzionari o altre persone competenti dello Stato membro richiesto, sempre che questo tipo di notificazione o di comunicazione diretta sia ammessa dalla legge di quello Stato membro: ed al riguardo, la Repubblica francese ha comunicato di non opporsi alla possibilità di notificazione o comunicazione diretta (come si evince dalle informazioni ricavabili dall’atlante giudiziario europeo al sito (OMISSIS), operate ai sensi dell’art. 23, par. 1, del Regolamento n. 1393 del 2007);

– per le esigenze di semplificazione e di reciproco affidamento degli ordinamenti dei singoli Stati membri dell’Unione, che ispira ormai da almeno tre lustri la legislazione processualcivilistica comunitaria prima ed eurounitaria poi e che comunque pervade anche il Regolamento in esame (secondo quanto si ricava dai primi considerando al testo premessi, soprattutto il 7, il 9 e il 15), tale facoltà deve considerarsi posta su di un piano di piena equivalenza o perfetta equipollenza rispetto alle altre (considerando n. 17) ed il suo esercizio non può soffrire, senza violare la lettera e lo spirito della disposizione regolamentare abilitativa, limitazioni di sorta o interpretazioni che ne comportino la sostanziale vanificazione;

– il criterio ispiratore è quello della massima reciproca fiducia nell’efficienza e nella sufficienza del semplice servizio postale per la comunicazione o la notificazione degli atti, quando si tratta di rapporti tra due Stati membri;

– almeno in quest’ambito, deve allora bastare – fino a prova del contrario (così garantendosi il diritto del destinatario), nei limiti però in cui la legge dello Stato membro in cui l’attività richiesta si espleta (unica ad applicarsi, per principi generali confermati da tutte le disposizioni procedurali di volta in volta emanate) lo consente e, per quanto visto, nel caso del decreto ingiuntivo con l’opposizione prevista dall’art. 650 cod. proc. civ. – la cura con cui normalmente si espleta quel servizio a fondare il reciproco affidamento sulla funzionalità delle operazioni e sulla loro idoneità ad un’idonea tutela di entrambi i soggetti coinvolti, il mittente e il destinatario dell’atto;

– tale conclusione è conforme a quella della dottrina prevalente, la quale, con riferimento sia all’art. 14 del Regolamento CE 1348/00, sia all’art. 14 Reg. CE 1393/07, ritiene che l’espressione ciascuno Stato membro ha facoltà di … ecc. vada intesa come ellissi per gli organi a ciò preposti in ciascuno degli Stati membri hanno facoltà di … ecc.: del resto riconducendosi l’attività notificatoria degli organi statali espressamente ed istituzionalmente a ciò deputati, come appunto l’ufficio notifiche (o Ufficio N.E.P.), direttamente allo Stato;

– ed andranno, beninteso, solo osservate le disposizioni dello Stato membro nel quale la comunicazione o notificazione deve essere eseguita, che siano dettate, rispetto alle definizioni usuali di posta raccomandata, in modo speciale per le concrete modalità di esecuzione dei singoli atti previsti dalla legislazione di quello Stato: anche – o se non altro – per l’intuitiva impossibilità di pretendere che un funzionario postale di altro Stato applichi norme di un ordinamento che comunque, sul punto, rimane per lui straniero, quale quello peculiare di altro Stato membro dell’Unione, nella parte eccedente le disposizioni di rango eurounitario immediatamente applicabili.

10.3. Pertanto, va affermato, ai sensi dell’art. 363 cod. proc. civ., comma 3 il seguente principio di diritto: è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell’art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dall’art. 633 c.p.c. e ss., notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica.

11. – In definitiva, il ricorso va dichiarato inammissibile; ma l’assoluta novità della questione e la sua peculiare complessità, dipendente dall’interazione di diversi principi eurounitari con quelli nazionali, integrano una grave ed eccezionale ragione di compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese del giudizio di legittimità; letto l’art. 363 c.p.c., comma 3, pronuncia il seguente principio di diritto: è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell’art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dall’art. 633 c.p.c. e ss., notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della terza sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 5 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 19-03-2015) 22-05-2015, n. 10554

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Presidente –

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28468/2011 proposto da:

L.F.E. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO PICCARDI 4, presso lo studio dell’avvocato CORRADO PASCASIO, rappresentata e difesa dall’avvocato CAMPIONE FRANCO giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIPOL ASSICURAZIONI SPA (già UGF ASSICURAZIONI SPA), in persona del suo procuratore speciale Dott.ssa G.G., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE REGINA MARGHERITA 27 8, presso lo studio dell’avvocato FERRARO MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO GIOVE giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

COMUNE DI ROMA ROMA CAPITALE (OMISSIS), MARZIALI COSTRUZIONI SNC;

– intimati –

Nonché da:

ROMA CAPITALE (già COMUNE DI ROMA) (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore On.le A.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA FULCIERI P. DE CALBOLI 1, presso lo studio dell’avvocato MAURIZIO MORO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA MAGNANELLI giusta procura speciale in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– ricorrente incidentale –

contro

L.F.E. (OMISSIS), MARZIALI COSTRUZIONI GENERALI SRL, UGF ASSICURAZIONI SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 11042/2011 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 24/05/2011, R.G.N. 67187/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/03/2015 dal Consigliere Dott. GIUSEPPA CARLUCCIO;

udito l’Avvocato MAURIZIO MORO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale condizionato.

Svolgimento del processo
1. L.F.E. convenne in giudizio il Comune di Roma e chiese il risarcimento del danno conseguente alla caduta, a causa di una buca, sul marciapiede di una strada cittadina. Il Giudice di pace di Roma accolse la domanda e condannò al pagamento in solido, di circa Euro 3.500,00, il Comune e l’impresa di costruzioni Marziali Costruzioni snc, chiamata quale appaltatrice dei lavori di manutenzione dal Comune; condannò inoltre l’Assicurazione a manlevare l’impresa di costruzioni della predetta somma, escluso l’importo di franchigia.

Il Tribunale di Roma, in accoglimento dell’appello principale del Comune e di quelli incidentali dell’impresa e dell’assicurazione, nella contumacia della originaria attrice, in totale riforma della sentenza di primo grado, rigettò la domanda e condannò la L. alla restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado (sentenza del 24 maggio 2011).

2. Avverso la suddetta sentenza L. propone ricorso per cassazione affidato a tre motivi, esplicati da memoria.

Il Comune di Roma resiste con controricorso e propone ricorso incidentale condizionato, esplicato da memoria.

L’impresa appaltatrice e l’assicurazione non si difendono.

Motivi della decisione
La decisione riguarda i ricorsi riuniti, principale e incidentale, avverso la stessa sentenza.

1. Con il primo motivo si deduce la nullità del processo di appello, e della conseguente sentenza, per essersi svolto nella dichiarata contumacia della danneggiata, nonostante la nullità della notifica alla stessa dell’appello principale del Comune (primo profilo) e degli appelli incidentali dell’assicurazione (secondo profilo) e dell’impresa appaltatrice (terzo profilo).

Le censure non hanno pregio.

2. Si sostiene (quanto al primo profilo) la nullità della notifica dell’atto di appello, effettuata dal Comune ex art. 139 c.p.c., con ufficiale giudiziario, mediante consegna al portiere, con invio, ai fini dell’avviso della avvenuta notificazione al portiere, di raccomandata senza avviso di ricevimento.

Il Comune, nel controricorso, ammette la comunicazione senza avviso di ricevimento e sostiene che non occorre ai fini del perfezionamento della notifica.

Il giudice di merito, dopo la precisazione in udienza del Comune che la notificazione era stata fatta senza avviso di ricevimento, dichiarò la contumacia della L..

2.1. La questione all’attenzione della Corte è “se, ai fini del perfezionamento rispetto al destinatario della notifica dell’atto (ex art. 139 c.p.c., e L. n. 890 del 1982, ex art. 7), avvenuta nelle mani del portiere che, ai sensi dello stesse norme, rilascia ricevuta, sia necessario (come sostiene la ricorrente) o meno, che la raccomandata contenente l’avviso della avvenuta notificazione al portiere, sia stata fatta con avviso di ricevimento e, quindi, rispetto alla specie, se sia necessaria, o meno, la produzione dell’avviso di ricevimento con conseguenze sulla legittimità della dichiarazione di contumacia del destinatario”.

Ritiene il Collegio che la risposta al quesito debba essere negativa.

A sostegno vi sono argomenti letterali e sistematici.

2.2. In generale, è opportuno premettere che è oramai principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità quello secondo cui, la mancata spedizione dell’avviso, sia che si tratti di applicazione dell’art. 139 cit., che di applicazione dell’art. 7 cit., dopo la novella del 2008, costituisce non una mera irregolarità ma una nullità. Con la conseguenza che, fermi gli effetti della notifica per il notificante, la mancata spedizione dell’avviso rende nulla la notifica per il destinatario dello stesso (Cass. n. 17915 del 2008;

n. 1366 del 2010, n. 21725 del 2012; n. 6345 del 2013).

2.3. Nel disciplinare la notifica al destinatario dell’avviso di avvenuta notificazione dell’atto a persona diversa, il legislatore ha fatto riferimento letterale alla sola raccomandata, senza ulteriori specificazioni.

Tanto, sia per la notifica mediante ufficiale giudiziario (art. 139 c.p.c., comma 4) che per la notifica a mezzo posta (L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., aggiunto dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv. nella L. n. 31 del 2008).

Ha ritenuto, quindi, che nel caso di consegna dell’atto a portiere o vicini (art. 139 cit.) e di consegna dell’atto, con previsione più ampia, a persona diversa del destinatario (art. 7 cit.), la notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione debba essere fornita con la sola raccomandata.

2.4. Dall’analisi del sistema normativo delle notificazioni, nel quale si inseriscono le norme in argomento, emerge che la previsione della sola raccomandata senza avviso di ricevimento è rispondente ad una distinzione ragionevole dalle ipotesi nelle quali l’avviso di ricevimento è richiesto.

2.4.1. Infatti, il legislatore richiede espressamente l’avviso di ricevimento quando si tratti della notifica a mezzo posta dell’atto e non della comunicazione della notizia che la notificazione dell’atto è stata effettuata ad altra persona.

Così è richiesto l’avviso di ricevimento: per la notifica dell’atto a mezzo ufficiale postale, fatta al destinatario, a persona di famiglia, al portiere (art. 7 cit. commi da 1 a 5); per la notifica a mezzo posta effettuata dall’ufficiale giudiziario (art. 149 c.p.c.);

per la notifica dell’atto all’estero (art. 142 c.p.c.), secondo l’interpretazione della giurisprudenza, a specificazione del richiamo nella norma della sola raccomandata (Cass. n. 12834 del 2003).

2.4.2. Eccezionalmente, il legislatore richiede l’avviso di ricevimento anche quando non si tratti della notifica dell’atto ma della notizia da comunicare al destinatario. E lo fa quando l’atto è stato consegnato in luogo lontano dalla disponibilità del destinatario.

E’ l’ipotesi disciplinata dall’art. 140 c.p.c., rispetto alla notifica dell’atto fatta dall’ufficiale giudiziario nel caso di impossibilità della notifica per irreperibilità, incapacità, rifiuto delle persone legittimate a ricevere, dovendosi in tal caso depositare l’atto notificando presso il Comune e, tra l’altro, dare notizia dell’avvenuto deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ pure l’ipotesi analoga disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, come modificato dal D.L. n. 35 del 2005, conv. nella L. n. 8 del 2005, rispetto alla notifica fatta a mezzo posta, nel caso di impossibilità di effettuare la stessa per temporanea assenza, dovendosi in tal caso depositare l’atto notificando presso l’ufficio postale dando notizia al destinatario dell’avvenuto deposito mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

E’ opportuno mettere in evidenza che, dopo l’intervento della Corte costituzionale che ha riguardato l’art. 140 c.p.c., (sent. n. 3 del 2010), in entrambi i casi, la notificazione si ha per eseguita per il destinatario decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della notizia di avvenuto deposito o dalla data di ritiro del piego, se anteriore.

2.4.3. In definitiva, la previsione letterale della sola raccomandata senza avviso di ricevimento, quando si tratta di dare notizia al destinatario dell’avvenuta notifica dell’atto a persona che, secondo una ragionevole previsione, è a contatto con il destinatario, trova giustificazione della propria diversità nell’ambito di un sistema dove è richiesto sempre l’avviso di ricevimento per la notificazione dell’atto e dove lo stesso avviso viene richiesto qualora l’atto non si sia potuto consegnare a persona “vicina”, ma è stato depositato in un ufficio lontano dal normale accesso del destinatario.

Ed infatti, le persone che ricevono l’atto sono soggetti che, o per vincoli contrattuali o per vincoli parentali, secondo l’id quod plerumque accidit consegneranno l’atto al destinatario. Mentre, la maggiore estensione dell’avviso nel caso di notifica a mezzo posta (art.7 cit.) può trovare spiegazione nella diversa autorevolezza esterna normalmente riconosciuta dai destinatari all’ufficiale giudiziario rispetto all’ufficiale postale.

Inoltre, un ulteriore argomento, convince della ragionevolezza della soluzione scelta dal legislatore.

Come si è visto, nei casi eccezionali in cui è richiesto l’avviso di ricevimento nonostante si tratti solo di dare notizia e non di notificare l’atto, il sistema prevede oramai una disposizione di “chiusura”, che consente di considerare per eseguita la notificazione (dieci giorni dalla spedizione della raccomandata informativa, se non ritirato il plico). Invece, nel caso ora all’attenzione della Corte non esiste una norma di chiusura; con la conseguenza che, in caso di mancata ricezione personale dell’avviso si riaprirebbe astrattamente l’applicabilità delle norme previste per la notificazione a mezzo posta, procedendo all’infinito verso la ricerca della effettività della ricezione.

2.4.4. Nella giurisprudenza della Corte non vi sono pronunce espresse che vadano in direzione contraria. Infatti, l’affermazione contenuta in una massima (Cass. n. 23589 del 2008), secondo cui “In tema di sanzioni amministrative, nel caso di notifica a mezzo posta del verbale di accertamento dell’infrazione, ai sensi della L. n. 890 del 182, art. 7, – nel regime applicabile ratione temporis, prima della modifica introdotta dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 2 quater, conv. in L. n. 31 del 2008 – ove la consegna del piego, per l’assenza del destinatario, sia avvenuta nelle mani del custode dello stabile di residenza di quest’ultimo, non è necessario l’invio della raccomandata con ricevuta di ritorno. Tale adempimento, infatti, è stata introdotto dal D.L. citato ed è imposto per le notifiche successive all’entrata in vigore di quest’ultimo”, non corrisponde al principio di diritto utilizzato nella decisione. In particolare, come emerge dalla motivazione della sentenza, nell’escludere ratione temporis l’applicazione alla specie dell’art. 7, come novellato negli anni 2007/2008, per le notifiche a mezzo posta effettuate precedentemente, la Corte ha incidentalmente rilevato, aderendo senza motivazione alla prospettazione della ricorrente, che con la nuova norma sarebbe stata necessaria la raccomandata con avviso di ricevimento.

2.5. Il motivo è, pertanto, rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: “Nell’ipotesi di notifica dell’atto, a mezzo di ufficiale giudiziario, al portiere o al vicino (ex art. 139 c.p.c.), e nell’ipotesi di notifica dell’atto, a mezzo posta, a persona diversa dal destinatario (L. n. 890 del 1982, ex art. 7, come modificato nel 2007/2008) ai fini del perfezionamento della notifica, rispetto al destinatario, non è necessario che sia fatta con avviso di ricevimento la raccomandata diretta al destinatario e contenente la notizia della avvenuta notificazione dell’atto alle persone suddette; con la conseguenza che, nella specie, è stata legittimamente dichiarata la contumacia della parte, destinataria di atto di appello ricevuto dal portiere e della raccomandata, senza avviso di ricevimento, contenente la notizia dell’avvenuta consegna al portiere dell’atto”.

3. Sempre con il primo motivo, con un secondo e terzo profilo, si deduce la nullità della sentenza e del processo per nullità della notificazione degli appelli incidentali, disposta dal giudice, quando la danneggiata era stata dichiarata contumace.

Con riferimento alla notificazione dell’appello incidentale dell’assicurazione, la prospettazione della nullità, per essere stata fatta la notifica, personalmente alla danneggiata già dichiarata contumace (mentre non può rilevare la notifica, di cui si parla a pag. 3 del ricorso, dell’appello incidentale all’avvocato della danneggiata in primo grado, essendo già stata dichiarata la contumacia), a persona convivente, senza che risulti la prova dell’invio della seconda raccomandata, non può essere esaminata dalla Corte. Il ricorrente non chiarisce e omette il necessario rinvio agli atti processuali se la notificazione sia stata effettuata a mezzo posta o dall’ufficiale giudiziario; circostanza rilevante atteso che l’invio della seconda raccomandata sarebbe richiesto nel primo caso (art. 7 cit.) e non nel secondo (art. 139).

Con riferimento alla notificazione dell’appello incidentale dell’impresa (anche per questa essendo irrilevante la notificazione all’avvocato di primo grado), si assume che la notifica fu fatta personalmente a soggetto non meglio identificato, oltre la mancanza della seconda raccomandata. Ogni esame della questione resta preclusa dal totale assenza di riferimenti e rinvii agli atti processuali, per cui le modalità della notifica sono solo asserite, senza la possibilità per la Corte di verificarne la decisività.

Entrambi i profili, pertanto, sono inammissibili.

4. Nel merito, il Tribunale ha ritenuto non provato il nesso di causa tra la caduta e l’avvallamento sul marciapiede. Ha messo in evidenza:

che nessuno dei testi l’aveva vista inciampare nell’avvallamento, essendosi questi limitati a riferire che era presente un avvallamento nei pressi della caduta; che, secondo la stessa ammissione della danneggiata, stava camminando a passo veloce per raggiungere l’autobus; che camminava guardando l’autobus e, anche il marciapiede e, quindi senza la necessaria attenzione; che altro teste aveva affermato che l’avvallamento era comunque visibile.

4.1. La decisione è censurata invocando la violazione degli artt. 2043 e 2051 c.c., nonché degli artt. 115, 116 e 112 c.p.c., (secondo motivo) e omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione in ordine alla valutazione delle prove (terzo).

I motivi sono tutti inammissibili. Al di là della invocazione della violazione di legge, le censure si sostanziano nella critica alla valutazione delle risultanze istruttorie compiuta dal giudice con percorso argomentativo privo di vizi logici; quindi, essi consistono in una prospettazione di una diversa valutazione favorevole alla danneggiata, richiedendo inammissibilmente alla Corte di legittimità di farla propria compiendo un giudizio sul merito della causa.

Quanto alla invocata violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Tribunale emanato una pronuncia ultrapetita, disponendo la restituzione delle somme percepite in esecuzione della sentenza di primo grado, indistintamente, a favore di tutti gli appellanti e, quindi, anche a favore della Assicurazione, mentre sarebbero stati condannati in solido solo il Comune e l’impresa, evidente è la non conferenza della censura. Con la sentenza è stata disposta la restituzione delle somme percepite, naturalmente, a favore di chi le ha versate.

5. Il ricorso incidentale proposto dal Comune, in modo espressamente condizionato, con il quale si invoca la violazione dell’art. 112 c.p.c., deducendo di aver proposto appello incidentale alla sentenza di primo grado, la quale aveva ritenuto la responsabilità solidale del Comune e dell’impresa, mentre il Comune aveva agito in manleva, facendo valere l’esistenza di un contratto di appalto per la manutenzione, e che tale questione sarebbe restata assorbita nel giudizio di secondo grado per via del rigetto della domanda, resta assorbito.

6. In conclusione, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate secondo i parametri vigenti, seguono la soccombenza a favore del controricorrente. Non avendo gli altri intimati svolto attività difensiva, non sussistono le condizioni per la pronuncia in ordine alle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione decidendo sui ricorsi riuniti, rigetta il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale;

condanna la ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 1.800,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 marzo 2015.

Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2015


PRIVACY & LAVORO

Il Garante per la protezione dei dati personali ha predisposto un utile vademecum dal titolo “Privacy e lavoro” (leggi allegato a fondo pagina), che contiene le regole per il corretto trattamento dei dati personali dei lavoratori da parte dei datori di lavoro pubblici e privati.

Il vademecum verte sulla gestione e il corretto utilizzo dei dati sensibili dei lavoratori quali:

  • il cartellino identificativo
  • la bacheca aziendale
  • la pubblicazione del curriculum
  • la pubblicazione dei dati del lavoratore sui siti web e sulle reti interne
  • la gestione dei dati sanitari e dei dati biometrici
  • l’uso di internet e della posta aziendale
  • i controlli effettuati per motivi organizzativi o di sicurezza
  • i controlli a distanza ovvero la videosorveglianza e la geolocalizzazione.

Principi generali

Il datore di lavoro può trattare informazioni personali solo se strettamente indispensabili all’esecuzione del rapporto di lavoro. I dati possono essere trattati solo dal personale incaricato assicurando idonee misure di sicurezza per proteggerli da intrusioni o divulgazioni illecite.

Sul luogo di lavoro va assicurata la tutela dei diritti, delle libertà fondamentali e della dignità delle persone garantendo la sfera della riservatezza nelle relazioni personali e professionali. Le informazioni personali trattate possono riguardare – oltre all’attività lavorativa – la sfera personale e la vita privata dei lavoratori (es. dati residenza e recapiti telefonici) e dei terzi (es. dati relativi al nucleo familiare per garantire determinate provvidenze).

I trattamenti di dati personali devono rispettare il principio di necessità, secondo cui i sistemi informativi e i programmi informatici devono essere configurati riducendo al minimo l’utilizzo di informazioni personali e identificative.

Si deve inoltre rispettare il principio di correttezza, secondo cui le caratteristiche essenziali dei trattamenti devono essere rese note ai lavoratori. I trattamenti devono essere effettuati per finalità determinate, esplicite e legittime in base ai principi di pertinenza e non eccedenza.

Il trattamento di dati personali – anche sensibili – riferibili a singoli lavoratori è lecito, se finalizzato ad assolvere obblighi derivanti dalla legge, dal regolamento o dal contratto individuale di lavoro.

Leggi: VADEMECUM PRIVACY 2015


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 24-02-2015) 20-05-2015, n. 10272

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. ARMANO Uliana – rel. Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. CARLUCCIO Giuseppa – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 23061-2011 proposto da:

P.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 9, presso lo studio dell’avvocato DE ARCANGELIS GIORGIO, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

I.A., considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato BRUNI FABRIZIO, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4746/2010 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/11/2010 R.G.N. 7944/2004;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/2015 dal Consigliere Dott. ULIANA ARMANO;

udito l’Avvocato GIORGIO DE ARCANGELIS;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza depositata il 16 novembre 2010 la Corte di appello di Roma, ritenuta infondata l’eccezione di inammissibilità dell’appello per inesistenza della notifica dell’atto introduttivo, a modifica della decisione di primo grado, ha condannato P.G. al risarcimento del danno per negligente esercizio dell’attività professionale di commercialista in favore di I.A. nella misura di Euro 863,77, oltre interessi e rivalutazione Avverso detta sentenza propone ricorso P.G. con due motivi.

Resiste con controricorso I.A..

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo di ricorso si denunzia vizio di motivazione e violazione e falsa applicazione della L. n. 53 del 1994.

Sostiene la ricorrente che erroneamente la Corte d’appello ha rigettato l’eccezione di inesistenza della notificazione dell’atto di appello non tenendo in conto che alla relazione di notificazione mancavano tutti gli elementi costitutivi della stessa, vale a dire la indicazione della generalità del notificante, la sottoscrizione del notificante e la indicazione delle generalità della persona alla quale l’atto era stato consegnato. Con motivazione illogica e contraddittoria, la Corte di merito aveva ritenuto regolare la notificazione dell’atto ad opera dell’avvocato difensore, solo in considerazione della sottoscrizione dell’atto di appello da parte del difensore stesso.

Sostiene la ricorrente poi che nella relazione di notificazione mancava il nome ed il cognome del notificante; che la sottoscrizione di tale relazione non era riconducibile all’avvocato difensore; che mancava la certezza dell’identità della persona che aveva ricevuto l’atto.

Di conseguenza la notificazione doveva ritenersi inesistente e non suscettibile di sanatoria.

2. Il motivo è infondato L’atto di appello è stato notificato ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 4 direttamente dall’avvocato Fabrizio Bruni difensore dell’appellante I., mediante consegna di copia dell’atto nello studio dell’avvocato Giorgio De Arcangelis difensore domiciliatario di P.G..

Come correttamente ha ritenuto la Corte d’appello, non vi sono dubbi sull’identificazione dell’avvocato Fabrizio Bruni quale procedente alla notifica, sui rilievo chela relata è apposta all’atto di appello sottoscritto dallo stesso B. e contiene il richiamo al numero di registro cronologico ed alla autorizzazione del consiglio dell’ordine competente.

A ciò deve aggiungersi che l’atto di appello contiene la vidimazione per la notificazione diretta ai sensi dell’art. quattro della L. n. 53 del 1994 da parte del consiglio dell’ordine secondo quanto prevede l’art. 4, comma 2.

Infatti la notifica può essere eseguita mediante consegna di copia dell’atto nel domicilio del destinatario se questi ed il notificante sono iscritti nello stesso albo. In tal caso l’originale e la copia dell’atto devono essere previamente vidimati e datati dal consiglio dell’ordine nel cui albo entrambi sono iscritti.

L’atto risulta consegnato presso lo studio del difensore dell’appellato, a persona identificata come addetta alla ricezione, in quanto segretaria addetta al ritiro degli atti, che ha sottoscritto con firma leggibile.

3. Si osserva che la sottoscrizione del notificante è volta ad individuare senza incertezze l’identità di quest’ultimo e l’attribuzione a lui delle operazioni di notificazione, onde attestare la sussistenza in capo allo stesso dei requisiti soggettivi indispensabili.

Non può negarsi che tale identificazione può bene avvenire sulla base di elementi i quali, come nella specie, la vidimazione dell’atto di appello a cura dell’ordine degli avvocati per consentire la notifica diretta, la sottoscrizione dell’atto di appello da parte dell’avvocato notificante, l’indicazione numero di cronologico del numero di autorizzazione dell’ordine degli avvocati ed, immediatamente in sequenza, la relazione di notifica e la firma della persona abilitata a ricevere l’atto.

4. La Corte d’appello ha ritenuto poi,con doppia motivazione, sanabili eventuali nullità della notifica a seguito della costituzione in giudizio dell’appellata A tale proposito si osserva che la L. n. 53 del 1994, art. 11 qualifica come nulle le notificazioni” se mancano i requisiti soggettivi ed oggettivi ivi previsti, se non sono osservate le disposizioni di cui agli articoli precedenti e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica”.

Anche la seconda motivazione della Corte di merito è conforme alla legge, essendo possibile la sanatoria della notifica nulla. Le spese del giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 1.160,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori come per legge ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 maggio 2015