Notifica cartella: il Messo Comunale/Notificatore non può farsi rappresentare

Per il Giudice di Pace di Roma è violata la L. 112/1999 se il messo notificatore che deposita la cartella esattoriale al Comune non coincide con quello che effettua il tentativo di notifica della stessa.
Irrituale la notifica della cartella di pagamento se, dalla relata di notifica, risulta che la stessa è stata materialmente depositata presso la Casa Comunale a cura del messo notificatore, per temporanea assenza della destinataria, ma trattasi di un soggetto diverso dal messo notificatore che ha tentato la notifica al contribuente occupandosi di spedire la “raccomandata informativa” (CAD).
Tra l’altro, è sempre necessaria la prova dell’effettiva ricezione della raccomandata informativa al contribuente, cosa che non avviene qualora risulti completamente in bianco il frontespizio della ricevuta nel riquadro relativo al mancato recapito. I vizi che conducono all’annullamento della cartella di pagamento travolgono, inoltre, il preavviso di fermo amministrativo collegato alla stessa.
Lo ha chiarito il Giudice di Pace di Roma nella sentenza 12374/2021 pronunciandosi sull’opposizione avanzata dalla proprietaria di un’autovettura contro il provvedimento di preavviso di iscrizione di fermo amministrativo relativo, tra l’altro, a una cartella di pagamento.
In prima battuta il magistrato sottolinea l’ammissibilità dell’opposizione proposta richiamando l’orientamento affermato dalla Corte di Cassazione Sezioni Unite (cfr. sent. n. 11087/2010) e ritenendo sussistente la competenza in materia del Giudice di Pace.
Nel merito, il ricorso viene ritenuto fondato. Dalla relata di notifica risulta che la suddetta cartella è stata depositata presso la Casa Comunale a cura del messo notificatore per temporanea assenza della destinataria.
Tuttavia, in atti vi sono due avvisi di deposito non solo riportanti date diverse, ma ognuno sottoscritto da un diverso messo notificatore. Pertanto, rileva il giudice onorario, non vi è coincidenza tra il messo notificatore che ha effettuato la notifica della cartella in esame e quello che ha depositato presso la Casa Comunale.
Ciò rappresenta un’anomalia stante la previsione di cui all’art. 45 della L. 112/1999: tale norma prevede testualmente che “il concessionario per la notifica delle cartelle di pagamento e degli avvisi contenenti l’intimazione ad adempiere può nominare uno o più messi notificatori”, soggiungendo inoltre che “il messo notificatore esercita le sue funzioni dei comuni compresi nell’ambito del concessionario che lo ha nominato e non può farsi rappresentare né sostituire”.
In aggiunta, il giudice capitolino ribadisce il principio della prova dell’effettiva ricezione della “raccomandata informativa”. Come evidenzia la sentenza, emerge che l’ultimo avviso della spedizione sia stato inviato alla ricorrente, ma non vi è prova della ricezione.
In giudizio, infatti, è stata prodotta una ricevuta il cui frontespizio, nel riquadro relativo al mancato recapito, risulta completamente in bianco, senza data e firma. Di conseguenza si ritiene che l’Agenzia delle Entrate – Riscossione non abbia provato la regolare notifica della cartella di pagamento sottesa all’atto impugnato.
Pertanto, l’Agenzia delle Entrate-Riscossione non ha dimostrato il regolare espletamento dell’attività inerente al fermo amministrativo, con la conseguenza che, per effetto della mancata notifica della cartella di pagamento, la procedura risulta non valida sotto il profilo formale e sostanziale.
L’annullamento della cartella di pagamento relativa al preavviso di fermo impugnato, ha come conseguenza altresì l’integrale annullamento dello stesso preavviso di fermo, il quale costituisce un atto unico dell’esattore che lo esegue ai sensi della nota dell’Agenzia delle Entrate n. 57413 del 09.04.2003, la quale prevede, in caso di mancato pagamento, l’iscrizione del provvedimento di fermo dei beni iscritti nei pubblici registri del debitore.


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 13-07-2021) 30-07-2021, n. 21970

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Primo Presidente f.f. –

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. ACIERNO Maria – Presidente di Sez. –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6178-2019 proposto da:

M.A., ME.TI., elettivamente domiciliati in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati NICOLA SCOTTI GALLETTA, MARCO SCOTTI GALLETTA ed ANTONIO SCOTTI GALLETTA;

– ricorrenti –

contro

ZINCONIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL CORSO 504, presso lo studio dell’avvocato NICOLA IELPO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

F.S., B.D.O.J.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2/2019 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 07/01/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/07/2021 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

lette le conclusioni scritte Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, la quale chiede che le Sezioni Unite accolgano il primo motivo di ricorso, con assorbimento delle restanti censure.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 18 marzo 2008, la Spinone s.r.l. chiese l’accertamento della simulazione o, in subordine, la revoca ex art. 2901 c.c. di due successivi contratti di compravendita, conclusi l’uno in data 11 aprile 2005 e l’altro il 15 aprile 2005, aventi ad oggetto il medesimo immobile, il primo stipulato tra i venditori Me.Ti. ed M.A. e l’acquirente F.S., ed il secondo tra quest’ultima e B.D.O.J..

Il Tribunale di Tempio Pausania accolse la domanda di simulazione assoluta dei due contratti di compravendita.

Con sentenza del 7 gennaio 2019, n. 2, la Corte d’appello di Cagliari, sezione di Sassari, adita dai soccombenti, ha respinto l’impugnazione.

La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che non fosse inesistente, nè nullo l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, proposto dalla Spinone s.r.l., rappresentata dall’amministratrice unica D.P.C., sebbene tale società fosse stata cancellata dal registro delle imprese sin dal 23 luglio 2004, a seguito di fusione per incorporazione nella Zinconia s.r.l., e ciò per un duplice argomento: perchè la fusione comporta, a norma dell’art. 2504-bis c.c., una mera vicenda evolutivo-modificativa del medesimo soggetto, che permane e conserva la propria identità, pur in un diverso assetto organizzativo; perchè, in ogni caso, l’incorporante si è costituita all’udienza del 6 maggio 2011 innanzi al Tribunale, ratificando l’operato dell’amministratrice della incorporata, donde l’efficacia sanante degli atti compiuti dal falsus procurator.

Nel merito, ha ritenuto infondato sia il motivo concernente la simulazione dell’intero contratto di compravendita del bene immobile, sebbene in comproprietà con la M., non debitrice della società istante, sia il motivo sull’esistenza di idonei elementi a prova della simulazione.

Avverso questa sentenza i soccombenti hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

Si difende con controricorso la Zinconia s.r.l..

Proposta la trattazione presso la Sezione VI-3, con ipotizzato rigetto del primo motivo di ricorso per la permanenza in vita del soggetto incorporato, su istanza dei ricorrenti la causa è stata rimessa dal Primo Presidente alle Sezioni unite con decreto del 25 settembre 2020, essendosi riscontrato un contrasto di giurisprudenza, con riguardo alla legittimazione processuale della società incorporata cancellata dal registro delle imprese.

Il Procuratore generale ha chiesto l’accoglimento del primo motivo, con assorbimento degli altri due.

Entrambe le parti hanno depositato la memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
I. – I motivi.

I motivi del ricorso possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione o falsa applicazione dell’art. 1722 c.c., comma 1, n. 4, e art. 2495 c.c., comma 2, nonchè dell’art. 83 c.p.c., art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 2 e 4, e art. 164 c.p.c., in quanto, essendo stata cancellata la Spinone s.r.l. dal registro delle imprese per incorporazione ed essendosi, quindi, estinta, il suo ex amministratore unico, ormai decaduto dalla carica, non avrebbe potuto agire in giudizio per conto della società, nè rilasciare la procura al difensore, ma il giudizio avrebbe dovuto essere, semmai, proposto dalla società incorporante, cui il diritto di credito si è trasferito a seguito della fusione; invece, la sentenza di primo grado è stata resa nei confronti della Spinone s.r.l. ed i ricorrenti solo nell’eseguire le visure camerali, in vista dell’atto di appello, si sono avveduti della cancellazione della società dal registro delle imprese sin dal 23 luglio 2004, a seguito di fusione per incorporazione nella Zinconia s.r.l.. In definitiva, l’atto di citazione e l’intero procedimento sono inesistenti o, in subordine, viziati da nullità assoluta, in quanto la vocatio in ius proviene da soggetto inesistente; nè la corte d’appello avrebbe potuto ritenere sanato il rapporto processuale mediante la costituzione in giudizio della Zinconia s.r.l. in primo grado;

2) in via subordinata, violazione e falsa applicazione dell’art. 1413 c.c. e art. 100 c.p.c., oltre ad omesso esame di fatto decisivo, non avendo la sentenza impugnata considerato la circostanza della comproprietà dell’immobile in capo alla M., non in comunione dei beni con il Me., e della quale la società attrice non era creditrice, onde al più si sarebbe potuta dichiarare la simulazione del contratto solo per la quota del 50%;

3) sempre in via subordinata, falsa applicazione degli artt. 1414 e 2729 c.c., oltre ad omesso esame di fatto decisivo, quanto alla prova della simulazione, che non avrebbe potuto essere dichiarata sulla base degli insufficienti elementi presuntivi in atti.

II. – La “sorte” della società incorporata o fusa.

Gli argomenti esposti dalla corte del merito impongono di ricostruire i profili societari delle operazioni c.d. straordinarie, ed in particolare della fusione.

1. – Le operazioni sociali straordinarie.

1.1. – Le modificazioni che possono interessare il soggetto collettivo e la sua attività, pur nella permanenza dei soci e dell’intrapresa economica sul mercato, sono varie e di diversa intensità, da minima a massima.

Ci si vuol riferire a quelle varie operazioni che, usualmente di competenza dell’assemblea straordinaria, ma a volte anche degli amministratori, comportano un profilo di riorganizzazione dell’impresa e, dunque, ricevono una disciplina ad hoc, atta a renderla giuridicamente più agile ed economicamente meno onerosa, riducendo i costi di transazione.

Si va dal mutamento della denominazione, la quale lascia sussistere il medesimo soggetto, sia pure diversamente nominato; alla cessione e all’affitto di azienda o di ramo d’azienda, ove muta il gestore della stessa, senza modificazione nè soggettiva del concedente, nè oggettiva dell’azienda come universitas facti, quale complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.), arrestandosi l’efficacia della vicenda modificativa al solo trasferimento della proprietà o godimento dell’azienda (art. 2556 c.c.); alla trasformazione, la quale del pari, sebbene sotto un’altra forma, lascia permanere l’ente nella sua originaria identità; sino alla fusione ed alla scissione, in cui, al contrario, almeno in alcuni casi e per taluni dei soggetti partecipanti (società incorporate, società fuse, società scissa che assegni l’intero suo patrimonio a più società), il mutamento è radicale, con la scomparsa di essi dalla scena giuridica, allo stesso modo dello scioglimento e della liquidazione della società, seguite dalla cancellazione dal registro delle imprese.

1.2. – Pertanto, è stato da tempo chiarito che il mutamento della denominazione sociale configura una modificazione dell’atto costitutivo (Cass. 28 giugno 1997, n. 5798), ma non determina l’estinzione dell’ente e la nascita di un nuovo diverso soggetto giuridico, comportando solo l’incidenza su di un aspetto organizzativo della società (fra le tante, Cass. 29 dicembre 2004, n. 24089); del pari, si è precisato che, in caso di trasferimento della sede sociale all’estero, un mutamento di identità non potrebbe essere ricollegato al contemporaneo cambiamento della denominazione sociale, che non fa venir meno la “continuità” giuridica della società (Cass. 28 settembre 2005, n. 18944).

Nelle società di persone, parimenti, il mutamento della ragione sociale per effetto della sostituzione del socio, come accade per l’unico socio accomandatario ex art. 2314 c.c., determina esclusivamente una modificazione dell’atto costitutivo, ma non la nascita o il mutamento della società in un soggetto giuridico diverso, onde essa non si estingue, nè sorge una diversa società (Cass. 29 luglio 2008, n. 20558; Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826, sia pure massimata, erroneamente, con riguardo alla medesimezza del soggetto nella trasformazione; Cass. 13 aprile 1989, n. 1781; con qualche episodica incertezza: cfr. Cass. 2 luglio 2004, n. 12150, in tema di contenzioso tributario).

Gli stessi principi sono sottesi ad altre decisioni, pur rese in una prospettiva diversa, quale la tutela della denominazione in presenza del mutamento dell’oggetto sociale (Cass. 13 marzo 2014, n. 5931) ed a fronte della prospettata perdita dell’avviamento dovuta al mutamento del nome (Cass. 17 luglio 2007, n. 15950).

1.3. – La cessione di azienda è, del pari, evento che non tocca l’identità soggettiva del cedente e del cessionario, provvedendo agli artt. 2558 c.c. e ss. unicamente a regolamentare il subentro nei contratti, diritti ed obblighi aziendali e fermo restando, sul piano processuale, il regime della successione a titolo particolare nel diritto controverso, laddove ne ricorrano gli estremi: come tale, essa è presupposta nelle pronunce rese in materia (per tutte, Cass., sez. un., 28 febbraio 2017, n. 5054; v., fra le altre, Cass. 10 dicembre 2019, n. 32134).

1.4. – Nella trasformazione – ove il cambiamento organizzativo è più intenso, trattandosi di modificare il tipo sociale o, addirittura, di trascorrere da una struttura societaria ad un’altra che non sia tale, e viceversa – resta che l’operazione comporta soltanto il mutamento formale dell’organizzazione societaria già esistente, non la creazione di un nuovo ente che si distingue dal vecchio, sicchè l’ente trasformato, quand’anche consegua la personalità giuridica di cui prima era sprovvisto (o al converso la perda), non si estingue per rinascere sotto altra forma, nè dà luogo ad un nuovo centro d’imputazione di rapporti giuridici, ma sopravvive alla vicenda modificativa, senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità soggettiva; il patrimonio (mobile ed immobile) della società trasformata resta di proprietà della medesima società, che non cambia, pur nella sua nuova veste e denominazione (v. Cass. 3 agosto 1988, n. 4815).

Tutte le successive decisioni hanno confermato tale principio: osservandosi, ad esempio, che la trasformazione della società in nome collettivo in società in accomandita semplice comporta soltanto il mutamento formale di un’organizzazione societaria già esistente, senza la creazione di un nuovo soggetto distinto da quello originario, onde non incide sui rapporti sostanziali e processuali che al soggetto fanno capo (Cass. 25 marzo 1992, n. 3713).

Lo stesso si reputa nelle ipotesi di trasformazione da società personale a società di capitali (Cass. 12 novembre 2003, n. 17066; Cass. 4 novembre 1998, n. 11077), da società per azioni a s.r.l (Cass. 3 gennaio 2002, n. 26; Cass. 23 aprile 2001, n. 5963), da s.r.l. a società per azioni (Cass. 13 settembre 2002, n. 13434), e così via.

Sino a ribadire costantemente che la trasformazione di una società in un altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell’estinzione del soggetto e nella correlativa creazione di uno diverso, ma configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto (cfr., e plurimis, Cass., sez. un., 31 ottobre 2007, n. 23019; nonchè es. Cass. 19 maggio 2016, n. 10332; Cass. 20 giugno 2011, n. 13467; Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826; Cass. 13 settembre 2002, n. 13434; Cass. 23 aprile 2001, n. 5963, ed altre).

1.5. – Lo scioglimento della società, con la sua cancellazione dal registro delle imprese – per esplicito dettato normativo, all’evidenza volto a superare il regime di “diritto vivente” della permanenza in vita sino all’esaurimento di tutti i rapporti pendenti – comporta, invece, l’estinzione della società (art. 2495 c.c.), con subentro dei soci a mò di successori universali per le eventuali sopravvenienze o sopravvivenze non contemplate nel bilancio di liquidazione (Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060 e Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072).

2. – Il fenomeno della fusione di società.

Con tali fenomeni deve essere, a questo punto, confrontata la fusione di società.

Ai sensi dell’art. 2501 c.c., la fusione si attua mediante la costituzione di una nuova società o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre.

La peculiarità dell’operazione, analogamente alla scissione, sta nella prosecuzione dei soci nell’attività d’impresa mediante una diversa struttura organizzativa, una volta, evidentemente, venuto meno l’interesse, l’utilità o la possibilità di perseguirla con la società dapprima partecipata.

Sebbene i soci e i patrimoni dei conferenti restino sempre i medesimi che, a suo tempo, avevano concorso all’originario progetto economico mediante la costituzione della primigenia società, si ha che, in seguito, il perseguimento delle finalità economico-patrimonial-finanziarie, nell’esercizio dell’autonomia negoziale garantita dall’art. 41 Cost., avrà indotto ad una riorganizzazione di quella intrapresa, ancora più radicale rispetto ad altre, sopra prospettate.

Diversa certamente la situazione si presenta, dunque, in paragone a quella del mero scioglimento della società: dove l’entità economica viene liquidata e cessa di operare sul mercato, senza nessun subentro di un altro soggetto o la continuazione dell’impresa.

Non si può disconoscere pertanto che – al contrario che nello scioglimento e liquidazione della società – con la fusione l’operazione economica abbia il significato opposto: non l’uscita dal mercato, ma la permanenza dei soci sul medesimo, sia pure in forme diverse.

E, tuttavia, occorre pur ragionare se la società originaria – sia essa liquidata, incorporata o fusa – a seguito della cancellazione dal registro delle imprese si estingua come organizzazione e come soggetto dell’ordinamento giuridico, oppure no.

A riguardo dell’operazione di fusione, un certo disorientamento si è creato all’interno della Corte, donde la rimessione alle Sezioni unite. La ricerca del superamento delle incertezze, a fronte di soluzioni non sistematiche, è particolarmente auspicabile, considerando che la questione può involgere non soltanto ogni tipo di giudizio in cui sia parte una società, ma che anche altri settori dell’ordinamento, diversi dal diritto societario, sono suscettibili di seguire la stessa disciplina (cfr. es. art. 42-bis c.c., in tema di fusione e scissione di associazioni e fondazioni).

2.1. – La tesi della natura evolutivo-modificativa con sopravvivenza della società incorporata o fusa.

2.1.1. – E’ stata affermata, poco dopo l’entrata in vigore della riforma introdotta dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la tesi secondo cui, ai sensi del nuovo art. 2504-bis c.c., la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, nè crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo.

Si tratta della nota ordinanza Cass., sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637, la quale ha così escluso che la fusione per incorporazione determini l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 300 c.p.c..

Per vero, dall’intera motivazione dell’ordinanza, resa in sede di regolamento di giurisdizione (su contratto d’appalto di servizi di biglietteria e distribuzione pubblicitaria, relativo alle manifestazioni promosse dalla Fondazione Accademia di Santa Cecilia, e che dichiarò la giurisdizione del giudice amministrativo) – procedimento in cui la ricorrente aveva chiesto fosse dichiarata, ai sensi dell’art. 300 c.p.c., l’interruzione del processo di cassazione, in conseguenza della fusione per incorporazione della società stessa in altra società azionaria – emerge trattarsi di un’affermazione ad abundantiam, secondaria sia quanto al capo specifico, sia nel contesto della complessiva decisione.

In sostanza, la corte ha affermato dapprima il principio di diritto, secondo cui l’estinzione della società, ricorrente per cassazione, dopo il ricorso non determina l’interruzione del giudizio, dominato ormai dall’impulso d’ufficio; e, poi, ha smentito anche l’esistenza della premessa minore, aggiungendo che l’incorporazione non aveva prodotto l’estinzione della società incorporata, con conseguente disapplicazione radicale dell’istituto della interruzione del processo.

Se pure, pertanto, l’affermazione sulla mancata estinzione del soggetto incorporato non integri propriamente un obiter dictum quale passaggio della decisione estraneo al thema decidendum – dal momento che è almeno dubbio se, nel sillogismo giudiziario, volto in tal caso alla pronuncia processuale di interruzione del giudizio, debba costituire primario antecedente logico il presupposto di diritto (l’interruzione del processo non si applica in cassazione) o quello di fatto (la società non era estinta) – resta che l’affermazione non era necessitata.

2.1.2. – La tesi è stata, da allora, seguita da plurime decisioni, le quali hanno fatto proprio il pedissequo richiamo alla “vicenda meramente evolutivo-modificativa”, con esclusione dell’effetto successorio ed estintivo.

Si tratta di pronunce che, per lo più, hanno inteso risolvere questioni processuali, senza indagare le sottese tematiche societarie, ma guidate dal non celato fine di evitare aggravio di incombenti per le parti, ritardi nel processo o formalismi, reputati dal collegio privi di valore a tutela di posizioni od interessi sostanziali e, quindi, vitandi.

Così, quanto alla posizione processuale attiva della parte, alla società incorporata è stato attribuito il potere di impugnazione (fra le altre, cfr. Cass. 16 settembre 2016, n. 18188, che ha riformato la sentenza della corte di appello, la quale aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da società già cancellata dal registro delle imprese per fusione).

Con riguardo alla posizione processuale passiva, numerose pronunce hanno affermato che la società incorporata o fusa possa essere convenuta in giudizio.

Al riguardo, peraltro, una decisione (Cass., sez. un., 17 settembre 2010, n. 19698) non attiene alla fusione post riforma, ma a quella anteriormente perfezionatasi. Essa si occupa di una vicenda processuale in cui sia l’atto di citazione, sia l’appello erano stati notificati alla società incorporata, nonostante la precedente iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione, concludendo per la radicale nullità “sia della vocatio in ius che della notifica dell’atto di citazione, dirette nei confronti di un soggetto non più esistente”, reputate “radicalmente nulle, non essendo stata tale nullità, rilevabile d’ufficio, neppure sanata dalla costituzione in giudizio del soggetto incorporante. Ne consegue l’inesistenza delle sentenze di primo e di secondo grado”. Dunque, la decisione non costituisce precedente, ai fini della questione in esame, in quanto attiene a vicenda ante riforma del 2003, pur avendo reputato necessario confutare, in presenza di estinzione, l’effetto interruttivo del processo a seguito di fusione.

Quanto all’essere la società incorporata destinataria dell’atto di impugnazione, una sentenza di poco posteriore alle citate Sezioni unite del 2006 ritenne ammissibile il ricorso per cassazione, in presenza della notificazione alla società parte del giudizio di merito, ma ormai incorporata in altra prima della notificazione del ricorso (Cass. 23 giugno 2006, n. 14526). La sentenza richiama due precedenti, in tema di mutamento dei soci e di trasformazione (Cass. 13 agosto 2004, n. 15737; Cass. 29 dicembre 2004, n. 24089), assimilando tali fenomeni, per vero diversi, alla fusione; inoltre, come questa Corte ha già rilevato (v. Cass. 15 febbraio 2013, n. 3820), la pronuncia espressamente intese solo tutelare l’affidamento dell’impugnante nella sopravvivenza della società estinta.

La successiva sentenza delle Sezioni unite del 14 settembre 2010, n. 19509 ha affermato, ancora però in una fusione anteriore al 2004, che la società incorporata si estingue, e, ciò nonostante, non è nullo l’atto d’appello indirizzato alla società estinta e notificato presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, enunciando il principio per cui l’impugnazione è valida, se l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità della giuridica mediante la notificazione dello stesso; l’accento, qui, è posto sull’affidamento dell’altra parte processuale.

Nello stesso filone si iscrivono – stavolta con riguardo al testo come modificato nel 2003 – le ordinanze del 18 novembre 2014, n. 24498 e del 12 febbraio 2019, n. 4042, le quali hanno reputato ammissibile l’appello proposto nei confronti della società incorporata.

Altre recenti sentenze richiamano il principio dell’effetto c.d. evolutivo-modificativo, quando, però, ciò non sarebbe stato necessario: l’una, in quanto non occorreva negare l’estinzione dell’incorporata, per reputare che, a seguito della fusione, si abbia la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato o incorporante, essendo ciò il lineare portato della disposizione ex art. 2504-bis c.c. (Cass. 16 maggio 2017, n. 12119); l’altra, avendo invero reputato ammissibile il ricorso per cassazione da parte di società che aveva, sì, deliberato la fusione per incorporazione prima del ricorso, ma a quel momento non era stata ancora cancellata dal registro delle imprese, evento occorso solo dopo la notificazione del ricorso (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32208); la terza, perchè reputa collegati fra di loro in modo necessario due concetti, che in realtà non lo sono, quando afferma che “L’art. 2501 c.c., proprio perchè nulla prevede in termini di estinzione della società incorporata, induce a ritenere che la società incorporante, in quanto centro unitario di imputazione dei rapporti preesistenti, cioè di tutte le posizioni attive e passive già facenti capo all’incorporata, abbia anche la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l’attività della seconda”, ai soli fini della diversa questione dell’attribuzione alla società incorporante della qualifica di responsabile dell’inquinamento ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 253, Codice dell’ambiente (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32142).

Non possono rinvenirsi dei precedenti, invece, in quelle pronunce in materia tributaria (cfr. Cass. 4 marzo 2021, n. 5953; Cass. 23 luglio 2020, n. 15757; Cass. 17 luglio 2019, n. 19222), dove vigono, a quei fini, i principi della neutralità e della simmetria fiscale della fusione e della scissione di società (artt. 172 e 173 t.u.i.r.), i quali perseguono l’obiettivo di evitare che si pervenga alla incorporazione di società inattive a fini elusivi e alla fusione di “scatole vuote” o piene solo di perdite da portare “in dote” all’incorporante, esigendosi che la società abbia una residua efficienza, nell’ambito della c.d. disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale di cui al L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis, inserito dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1.

2.2. – La tesi dell’estinzione con effetto devolutivo-successorio.

Di contro, una pluralità di decisioni ha mostrato una certa difficoltà a seguire la tesi opposta, distaccandosene gradualmente.

Di recente, così, si è enunciato il principio (Cass. 19 maggio 2020, n. 9137) secondo cui, ove la società sia incorporata in altra, la legittimazione attiva all’impugnazione spetta alla società incorporante.

Altra di poco anteriore decisione (Cass. 2 marzo 2020, n. 5640, non massimata) conclude per l’inammissibilità della domanda proposta dalla società incorporata, in quanto reputa legittimata all’azione la sola società incorporante; peraltro, in motivazione contiene un richiamo al dictum delle Sezioni unite del 2006, in concreto disatteso.

Già in precedenza, si era cominciato ad affermare che solo la società incorporante, non l’incorporata estinta per incorporazione, possa essere la destinataria dell’atto di impugnazione: premesso che il nuovo art. 2504-bis c.c. ha sancito il subentro in tutti i rapporti preesistenti anche processuali “all’evidente fine di evitare irragionevoli interruzioni del giudizio, contrarie, peraltro, ai principi del giusto processo”, essa ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto contro società già incorporata in altra (Cass. 15 febbraio 2013, n. 3820).

Nello stesso senso ha ragionato una successiva decisione, la quale ha ritenuto necessaria destinataria dell’impugnazione, in quanto esclusiva legittimata processuale passiva, la società incorporante, e non la incorporata, soggetto non più esistente a seguito della fusione: perchè l’art. 2504-bis c.c. prevede “la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l’attività della seconda, non già la permanenza in vita della società incorporata fino alla cessazione dei rapporti che la riguardano, che implicherebbe anche una anomala e non prevista prorogatio sine die dei suoi organi rappresentativi” (Cass. 24 maggio 2019, n. 14177, pur richiamando, in motivazione, precedenti di orientamento vario ed ancora il tema dell’affidamento dell’altra parte del processo).

Possono ricordarsi, all’interno dei presupposti logico-giuridici di tale orientamento, anche le recenti decisioni (Cass. 21 febbraio 2020, n. 4737; Cass. 19 giugno 2020, n. 11984) che, nel ragionare sulla fallibilità della società scissa nella scissione totalitaria, hanno respinto la tesi della scissione come fenomeno operante solo una modificazione dell’atto costitutivo, invece che successorio ed estintivo della società scissa.

Si tratta, dunque, di precedenti alquanto sporadici ed occasionali.

2.3. – Ricostruzione del sistema. Come è noto, il legislatore interno non ha dettato una disposizione specifica volta alla qualificazione giuridica della fusione societaria, nè ha indicato i suoi effetti sul piano soggettivo.

La ricostruzione del sistema positivo esige l’esame, condotto mediante i criteri ermeneutici imposti dall’art. 12 preleggi, della disciplina complessiva della fusione e degli elementi normativi evincibili dal sistema del codice civile e delle leggi speciali, in una col diritto interno dovendosi, altresì, tenere conto delle direttive comunitarie ed Eurounitarie, trattandosi di materia armonizzata.

2.3.1. – Come sopra esposto, le tesi sono state ispirate dal testo letterale – ante e post riforma del diritto societario, introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003 – dell’art. 2504-bis c.c..

L’art. 2502 c.c. del 1942, comma 4 prevedeva che “la società incorporante o quella che risulta dalla fusione assume i diritti e gli obblighi delle società estinte”.

Si affermava dunque senz’altro – sul solco dell’elaborazione risalente al codice di commercio del 1882, che faceva riferimento, in tema di fusione, alle società che “cessano di esistere” (art. 194, comma 2) ed alle “società estinte” (art. 196) – che la fusione societaria realizza un fenomeno di successione a titolo universale, in virtù del quale si determina l’estinzione della società incorporata (in caso di fusione per incorporazione) o di tutte le società fuse (in caso di fusione propria) e la successione, rispettivamente della società incorporante o della nuova società risultante dalla fusione, in tutti i rapporti giuridici.

Nella successiva evoluzione, l’art. 2504-bis c.c., comma 1, introdotto dal D.Lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, art. 13, dispose, sugli effetti della fusione, che “(l)a società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte”.

Il legislatore, peraltro, in tale occasione ritenne che non fosse suo compito prendere posizione sulla natura giuridica della fusione. Afferma, invero, la Relazione del Ministro di grazia e giustizia, concernente il D.Lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, che una più analitica descrizione degli effetti della fusione “è sembrata da un lato superflua, dall’altro inopportuna, in base all’assunto che il compito del legislatore è quello di disciplinare il procedimento di fusione, piuttosto che quello di definire la natura giuridica dell’istituto, prendendo posizione sul dibattito fra coloro che ravvisano nella fusione un fenomeno di successione in universum ius e coloro che invece lo considerano alla stregua di una peculiare modificazione dell’atto costitutivo” (art. 13).

La disposizione attuale, introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003, recita sugli “Effetti della fusione”: “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.

Su tale diversa formulazione, taluni studiosi, seguiti dai precedenti sopra ricordati, hanno ritenuto di fondare la tesi della natura non estintiva della società incorporata o fusa in forza della fusione.

Può rilevarsi sin d’ora come si è trattato, da un lato, della migliore individuazione e descrizione dei soggetti fusi o incorporati; dall’altro lato, della più esplicita precisazione che tutti i rapporti proseguono, sia sostanziali, sia processuali, in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione; resta il riferimento ai diritti ed obblighi assunti.

Orbene, la detta modifica letterale è alquanto anodina allo scopo di fondare una tesi così radicale, qual è quella della vita sempiterna della società incorporata o fusa, che permarrebbe ad aeternum nonostante la irreversibile riorganizzazione – materiale e giuridica operata.

A ben vedere, poi, questa tesi potrebbe ritenersi in contrasto con lo stesso dettato letterale della nuova disposizione: che, se è vero abbia eliminato la parola “estinte”, ha però, nel contempo, ed in modo assai meno equivoco, anche stabilito che tutti i rapporti, sia sostanziali, sia processuali, proseguono in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione: “proseguono”, in quanto ne muta appunto il titolare, sebbene l’oggettivo rapporto resti il medesimo.

Ciò in piena coerenza, pertanto, con le varie forme di successione di un soggetto ad un altro come controparte contrattuale o nel singolo rapporto obbligatorio; mentre la “prosecuzione” dei rapporti processuali è disposizione del tutto coincidente con quella dell’art. 110 c.p.c., il quale prevede che il processo prosegue nei confronti del successore universale e che presuppone, tutto all’opposto, l’estinzione della parte originaria del processo.

Insomma, è perfettamente condivisibile l’idea che l’espressione “proseguendo in tutti i rapporti” non autorizzi a ritenere che il soggetto incorporato non sia estinto; ed, anzi, in forza del diritto positivo, in particolare processuale, è proprio il contrario, laddove la norma del codice di rito sancisce che “il processo è proseguito” ad opera o nei confronti di chi ha assunto tutti i rapporti della parte venuta meno: il quale, nell’usuale linguaggio giuridico, viene denominato successore universale.

2.3.2. – E’, altresì, singolare che di tale pretesa dirompente novità la legge delega o la Relazione alla riforma del diritto societario non facciano parola, nè altro emerga dai lavori preparatori e dalle stesse riunioni della commissione ministeriale, incaricata della stesura dei decreti legislativi delegati, richiamandosi, piuttosto, nella Relazione al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il “rispetto dei vincoli di derivazione comunitaria”.

2.3.3. – Ma ancor più stridente, sul piano sistematico, è la conclusione della mancata estinzione e permanenza, come soggetto giuridico, della società incorporata, se si considera l’innovativa questa sì – soluzione sancita nel contempo dall’art. 2495 c.c., comma 2, in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese.

E’ la nota questione degli effetti della cancellazione: prima della riforma del 2003 ritenuta non costitutiva dell’estinzione, reputandosi la società in vita sino all’integrale estinzione di tutti i rapporti attivi e passivi; dopo la riforma, in espressa contrapposizione a quel “diritto vivente”, voluta quale spartiacque definitivo tra la vita e la scomparsa della persona giuridica, che non può esistere dopo la cancellazione, ma si estingue definitivamente.

Non è qui il luogo per indagare il tema della possibile applicazione dell’art. 2191 c.c., ove l’iscrizione della cancellazione fosse stata disposta, per avventura, al di fuori delle condizioni previste dalla legge o dell’effettivo esaurimento di tutti i rapporti giuridici.

Il punto qui di rilievo è un altro: ovvero che, nel mentre la scelta del legislatore della riforma societaria è stata quella, drastica, dell’estinzione dell’ente dopo la cancellazione dal registro delle imprese ai sensi dell’art. 2495 c.c., per la fusione si pretenderebbe il contrario, quanto alla società incorporata o fusa, che pur abbia provveduto – a seguito dell’iscrizione dell’atto di fusione ai sensi dell’art. 2504 c.c. – alla cancellazione dal registro delle imprese.

E’ singolare, anzi, che l’itinerario degli interpreti abbia seguito, al riguardo, un filo logico opposto a quello adoperato per la fusione: qui si passa, dalla ricostruzione giurisprudenziale di una permanenza in vita della società cancellata sino all’esaurimento di tutti i rapporti pendenti (allo scopo di risolvere le ardue questioni delle sopravvivenze e sopravvenienze attive e passive), alla smentita dal legislatore del 2003 con la nota frase “(f)erma restando l’estinzione della società”, posta in esordio del comma 2 dell’art. 2495 c.c.; là, dalla natura estintiva della fusione, tratta dal testo originario dell’art. 2504-bis c.c., si sarebbe passati ad un effetto solo modificativo senza estinzione, sebbene la società fusa o incorporata sia stata cancellata dal registro delle imprese.

E’ noto, inoltre, che l’effetto estintivo derivante dall’iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese si produce non soltanto quando essa segua al procedimento di scioglimento e liquidazione, ma anche quando alla cancellazione si pervenga per altre vie: come, ad esempio, quando la società non abbia depositato i bilanci per tre esercizi, ai sensi dell’art. 2490 c.c., comma 6, o, per le società partecipate pubbliche, del D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, art. 20.

Sarebbe, dunque, distonico con il sistema ordinamentale delle società escludere l’effetto estintivo, nonostante la nuova situazione del registro delle imprese, ed ipotizzare un’eccezione così radicale, come quella della permanenza in vita della società incorporata o fusa, dalle parole della nuova disposizione, non sorrette da nessun altro elemento di sistema.

2.3.4. – Ulteriori spunti si traggono da altre norme in tema di procedimento di fusione.

L’art. 2504 c.c., comma 2, dispone che l’atto di fusione debba essere depositato per l’iscrizione nell’ufficio del registro delle imprese di ciascuna delle società partecipanti alla fusione; gli effetti giuridici si producono dal momento dell’adempimento delle formalità pubblicitarie, concernenti il deposito per l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione previsto dalla norma, avente efficacia costitutiva.

Ma l’art. 2504 c.c., comma 3, stabilisce che il “deposito relativo alla società risultante dalla fusione o di quella incorporante non può precedere quelli relativi alle altre società partecipanti alla fusione”: ciò conferma, secondo logica giuridica, che il definitivo ente societario – sia quello preesistente in tal modo riorganizzato, sia il soggetto nuovo – non possa “convivere” con la perdurante personalità giuridica ed autonoma soggettività delle società fuse o incorporate, le quali debbono quindi, come struttura formale, estinguersi prima.

E’ vero che il momento di produzione degli effetti della fusione può non coincidere con la pubblicità dell’atto di fusione, atteso che può non esservi coincidenza, anche per volontà delle parti, fra il momento di espletamento della pubblicità di cui all’art. 2504 c.c., comma 2, e quello della produzione degli effetti della concentrazione.

Ciò, però, non vuol dire altro che, per volontà delle parti assecondata dalle disposizioni normative, l’estinzione della società incorporata sarà rinviata a quel momento.

2.3.5. – E’ appena il caso di rilevare che la questione dell’assoggettabilità a fallimento della società incorporata o fusa (ma lo stesso ordine di concetti vale per la società interamente scissa) solo in parte interseca quella della sua esistenza: dal momento che ivi vige il disposto speciale della L. Fall., art. 10, il quale, in perfetta equiparazione al debitore persona fisica, sancisce la fallibilità degli imprenditori, individuali come collettivi, alle condizioni che sia trascorso non oltre un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese e che l’insolvenza si sia manifestata anteriormente alla medesima o nel termine detto; la ratio generale di tale disposizione è nota, onde non necessita discornerne in questa sede.

In tal modo, per quanto riguarda le società, può fallire un “ente” che non è più tale, entro un anno dall’evento estintivo.

Si richiama il principio per cui “un fenomeno di riorganizzazione societario… come pure, più in generale, di modificazione della struttura conformativa del debitore, non può, come principio, realizzare una causa di sottrazione dell’impresa dalla soggezione alle procedure concorsuali”; ed il tema della soggezione della società fusa o scissa alle procedure concorsuali “non risulta propriamente attenere al piano dell’organizzazione societaria dell’impresa… Attiene, piuttosto, al piano dell’operatività dell’impresa e dei suoi rapporti coi terzi, contraenti e creditori” (cfr. Cass. 21 febbraio 2020, n. 4737).

Dunque, che la società possa essere assoggettata a fallimento dopo la fusione o la scissione, ancorchè cancellata dal registro delle imprese, non è elemento normativo a favore della tesi della sua sopravvivenza alla cancellazione; se proprio se ne voglia trarre un indizio, è allora piuttosto elemento in senso contrario, atteso che solo una norma speciale come quella della L. Fall., art. 10 ha potuto sancire un simile precetto.

Ed al riguardo, si noti, si è stabilito il principio di diritto che, ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio L. Fall., ex art. 15, il ricorso per la dichiarazione di fallimento di una società già incorporata per fusione ed il relativo decreto di convocazione debbano essere notificati all’ente incorporante, che ne prosegue tutti i rapporti anche processuali anteriori alla fusione, pur conservando la suddetta società la propria identità per l’eventuale dichiarazione di fallimento (Cass. 11 agosto 2016, n. 17050; e v. Cass., 18 febbraio 2007, n. 2210).

2.3.6. – Appaiono anodine, ai fini in discorso, tutte quelle disposizioni dell’ordinamento positivo, che prevedono il subentro e la continuità dei rapporti a seguito delle operazioni di fusione per incorporazione: ciò, al pari di quanto esposto circa la scarsa significanza del regime di traslazione dei rapporti, enunciato dallo stesso art. 2504-bis c.c..

Invero, nessun indizio contrario all’estinzione potrebbe rinvenirsi in quelle disposizioni sparse, dell’ordinamento positivo o del “diritto vivente”, in cui si sancisce la prosecuzione di tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società incorporata, fusa o scissa.

Al riguardo, si possono considerare l’art. 1902 c.c., sulla fusione tra imprese assicuratrici, secondo cui il contratto di assicurazione “continua con l’impresa assicuratrice che risulta dalla fusione o che incorpora le imprese preesistenti”; le regole che, ad integrazione di quanto previsto dalla citata disposizione, detta il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 168, Codice delle assicurazioni private, stabilendo che il trasferimento di portafoglio “non è causa di risoluzione dei contratti, ma i contraenti… possono recedere”, a talune condizioni; l’art. 2112 c.c., il cui comma 5 dispone che il rapporto di lavoro continua in caso di fusione, al pari che nel trasferimento d’azienda.

Altresì, usualmente gli interpreti enumerano il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 29, sulla responsabilità delle persone giuridiche, secondo cui, nel caso di fusione, “l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione”; il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 32, il quale, ove la società risultante dalla fusione sia responsabile per reati da essa commessi, consente al giudice di ritenere la reiterazione nell’illecito anche in relazione alle condanne pronunciate nei confronti degli enti partecipanti alla fusione, per i reati commessi anteriormente ad essa.

Vi si aggiunge, per i profili processuali, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 42, che, nel caso di fusione o di scissione dell’ente originariamente responsabile, dispone che “il procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della scissione, che partecipano al processo, nello stato in cui lo stesso si trova” (Cass. pen. 22 giugno 2017, n. 41768 ha ritenuto l’ente incorporante destinatario, a fini della corretta instaurazione del contraddittorio, della citazione a giudizio, contenente le ragioni da cui inferire il titolo di responsabilità, restando valida la contestazione dell’imputazione formulata con riferimento alla persona giuridica originariamente responsabile dell’illecito); mentre il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 70 intende espressamente chiarire che, nel caso di fusione o scissione dell’ente responsabile, “il giudice dà atto nel dispositivo che la sentenza è pronunciata nei confronti degli enti risultanti dalla trasformazione o fusione ovvero beneficiari della scissione, indicando l’ente originariamente responsabile” e che la “sentenza pronunciata nei confronti dell’ente originariamente responsabile ha comunque effetto anche nei confronti degli enti indicati”.

Norme, quelle degli artt. da 29 a 33 D.Lgs. citato, ritenute manifestamente non incostituzionali in relazione agli artt. 27, 29, 76 e 117, in riferimento all’art. 7 della Cedu, Cost., nonchè coerenti con l’orientamento della Corte di giustizia (Corte di giustizia dell’Unione Europea 5 marzo 2015, C-343/13, Modelo Continente Hipermercados SA), la quale, in materia di responsabilità amministrativa ed in presenza di fusione con incorporazione della società responsabile, ha osservato che il trasferimento della responsabilità amministrativa alla società incorporante deriva dalla direttiva comunitaria 78/855/CEE relativa alle fusioni delle società per azioni (Cass. pen. 12 febbraio 2016, n. 11442).

Nell’ambito delle leggi speciali, il D.Lgs. 10 settembre 1993, n. 385, art. 57, comma 4, t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia, prevede che i privilegi e le garanzie esistenti “a favore di banche incorporate da altre banche, di banche partecipanti a fusioni con costituzione di nuove banche ovvero di banche scisse conservano la loro validità e il loro grado, senza bisogno di alcuna formalità o annotazione, a favore, rispettivamente, della banca incorporante, della banca risultante dalla fusione o della banca beneficiaria del trasferimento per scissione”.

In tema di sistemi di garanzia per i depositanti, il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 96-quater.3 dispone che, in caso di fusione o scissione, se “alcuni depositi della banca cedente divengono protetti da un sistema di garanzia diverso rispetto a quello a cui aderisce la banca cedente, il sistema cui aderisce la banca cedente trasferisce all’altro i contributi ricevuti… in proporzione all’importo dei depositi protetti trasferiti”.

Mentre il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 127-quater, t.u. dell’intermediazione finanziaria, stabilisce che, quando gli statuti contemplano la c.d. maggiorazione del dividendo a favore degli azionisti stabili, se la cessione delle azioni comporta la perdita del beneficio, non così “in caso di successione universale, nonchè in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni”; del pari, in caso di “fusione o scissione della società che abbia emesso le azioni… i benefici si trasferiscono sulle azioni emesse dalle società risultanti”.

Analogamente, per la figura della c.d. maggiorazione del voto, secondo il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 127-quinquies il diritto di voto maggiorato di regola “è conservato in caso di successione per causa di morte nonchè in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni”, passando alla società incorporante.

Regole ispirate agli stessi concetti prevede il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 127-sexies, quanto alle azioni a voto plurimo preesistenti della società quotata.

In materia tributaria, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 172, comma 4, t.u. sulle imposte dirette, stabilisce che “dalla data in cui ha effetto la fusione la società risultante dalla fusione o incorporante subentra negli obblighi e nei diritti delle società fuse o incorporate relativi alle imposte sui redditi”: dove, si noti, il comma 10 del medesimo art. 172 compie un espresso riferimento ai “soggetti che si estinguono per effetto delle operazioni medesime”.

Affine la ratio del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 15, che detta disposizioni in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie: in caso di fusione o scissione, la “società o l’ente risultante dalla trasformazione o dalla fusione, anche per incorporazione, subentra negli obblighi delle società trasformate o fuse relativi al pagamento delle sanzioni”.

E si potrebbe continuare.

Ma quel che qui si vuol dire è che si tratta di disposizioni speciali, rispetto al quadro generale disegnato dall’art. 2504-bis c.c., le quali palesano null’altro che la continuità nei rapporti giuridici: non certamente, invece, la contestuale sopravvivenza del loro originario titolare.

2.3.7 – L’interpretazione sistematica secondo il diritto comunitario ed Eurounitario conduce a risultati ancora più univoci.

Trattandosi di un’area armonizzata del diritto societario sul piano Europeo, l’interprete nazionale non può che tenerne conto: il principio dell’interpretazione conforme comporta invero il dovere di scegliere, tra le diverse interpretazioni possibili di un enunciato del diritto interno, quella che sia maggiormente idonea ad allinearla al dettato della norma comunitaria, anche orientando la lettura della disciplina nazionale in modo che essa non conduca a scelte di fondo radicalmente differenti rispetto a quelle compiute in altri Stati membri. Ciò perchè il fenomeno della fusione è unitario, onde la disciplina finale non può non essere omogenea, nelle sue linee essenziali e portanti, avendo una comune radice: sarebbe, invero, distonico sostenere in teoria (e gestire in pratica) effetti delle fusioni societarie diversi, a seconda che essi si producano nell’ordinamento italiano o in altri ordinamenti dell’Unione, come avverrebbe ove una società fosse esistente per il primo ed estinta per i secondi.

Dunque, indipendentemente dall’avere il legislatore interno del 2003 ripreso il dato testuale delle direttive comunitarie, queste esercitano il loro vincolo sull’interpretazione, alla stregua del principio secondo cui le norme interne devono essere interpretate conformemente al diritto comunitario, alla luce della sua lettera e finalità, per raggiungere il risultato previsto da questo.

In tal senso, vale appena ricordare, è la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, la quale afferma il reiterato principio secondo cui “dalla necessità di garantire tanto l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto il principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione del diritto dell’Unione, la quale non contenga alcun rinvio espresso al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del proprio significato e della propria portata, devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione Europea, di un’interpretazione autonoma e uniforme, da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e della finalità perseguita dalla normativa in questione” (e plurimis, Corte di giustizia dell’Unione Europea 7 agosto 2018, cause riunite C-61/17, C-62/17 e C-72/17, Bichat, punto 29; 11 maggio 2017, C-59/16, The Shirtmakers BV, punto 21; 1 dicembre 2016, C-395/15, Daouidi, punto 50; 29 ottobre 2015, C-174/14, Saudagor, punto 52; 5 marzo 2015, n. 343/13, Modelo Continente Hipermercados SA, punto 27).

a) Orbene, iniziando dalla terza direttiva 78/855/CEE del consiglio del 9 ottobre 1978, relativa alle fusioni tra società per azioni, l’art. 3 definisce la fusione come “l’operazione con la quale una o più società, tramite uno scioglimento senza liquidazione, trasferiscono ad un’altra l’intero patrimonio attivo e passivo mediante l’attribuzione agli azionisti della o delle società incorporate di azioni della incorporante…”.

E l’art. 19 dispone: “La fusione produce ipso iure e simultaneamente i seguenti effetti: a) il trasferimento universale, tanto tra la società incorporata e la società incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell’intero patrimonio attivo e passivo della società incorporata alla società incorporante; b) gli azionisti della società incorporata divengono azionisti della società incorporante; c) la società incorporata si estingue”.

Compare dunque, a partire dalla III direttiva, sia l’effetto traslativo successorio, sia l’effetto estintivo per la società incorporata.

La direttiva 78/855/CEE è stata abrogata, a far data dal 1 luglio 2011, dalla direttiva 2011/35/Ue del parlamento Europeo e del consiglio, del 5 aprile 2011, relativa alle fusioni delle società per azioni. Come risulta dal suo considerando 1, quest’ultima direttiva è intesa, per motivi di chiarezza e razionalizzazione, a procedere alla codificazione della direttiva 78/855, che era stata modificata più volte in modo sostanziale. L’art. 19, par. 1, della direttiva 2011/35 riprende l’art. 19, par. 1, della direttiva 78/855 in termini identici.

Così, anche l’art. 23 di tale direttiva, con riferimento alla fusione mediante costituzione di una nuova società, afferma che “le espressioni “società partecipanti alla fusione” o “società incorporata” indicano le società che si estinguono”.

b) Indicazioni ancor più stringenti si traggono dalla disciplina delle fusioni transfrontaliere, dove l’interesse alla omogeneità degli effetti in tutti i Paesi è il presupposto, essendo la possibilità di operare al di là dei confini nazionali parte delle alternative di sviluppo offerte alle società.

L’art. 14 della direttiva 2005/56/CE, relativa alle fusioni transfrontaliere delle società di capitali, dispone per la fusione per incorporazione che “la società incorporata si estingue” e che nella fusione mediante costituzione di nuova società “le società che partecipano alla fusione si estinguono”.

Ulteriore indizio si trae dalla stessa nozione di “fusione”, contenuta nell’art. 2: la quale è definita volta a volta (indipendentemente dalla forma per incorporazione o per costituzione di una società nuova) come l’operazione mediante la quale le società trasferiscono “all’atto dello scioglimento senza liquidazione, la totalità del loro patrimonio attivo e passivo ad altra società”: la prima, in sostanza, automaticamente si scioglie, pur senza seguire il procedimento di liquidazione, proseguendo altrove i propri rapporti e titolarità, e poi scompare.

La direttiva 56/2005/CE è stata attuata dal D.Lgs. 30 maggio 2008, n. 108, il cui art. 16, sul punto, si limita a stabilire che “La fusione transfrontaliera produce gli effetti di cui all’art. 2504-bis c.c., comma 1”, con rinvio dunque a norma già parte del diritto interno.

La direttiva 2017/1132/UE, pubblicata il 30 giugno 2017 ed entrata in vigore il successivo 20 luglio 2017, come da ultimo novellata dalla direttiva 2019/2121/UE del 27 novembre 2019, ha offerto una codificazione del diritto Europeo societario, mediante l’unificazione in un unico testo delle precedenti direttive in materia societaria. Per quanto qui interessa, sia gli artt. 105 e 109, sia l’art. 131, rispettivamente sugli “Effetti della fusione ” e sugli “Effetti della fusione transfrontaliera”, continuano dunque a prevedere che “la società incorporata si estingue” e “le società che partecipano alla fusione si estinguono”, per le prime precisandosi “ipso iure e simultaneamente”.

Anche l’art. 29 del reg. (CE) n. 2157/2001 del Consiglio dell’8 ottobre 2001, in materia di costituzione di una società Europea per fusione, e l’art. 33 del reg. (CE) n. 1435/2003 del Consiglio del 22 luglio 2003, in materia di costituzione di una società cooperativa Europea per fusione, prevedono espressamente l’estinzione delle società incorporate o che si fondono “ipso iure e simultaneamente”.

In particolare, si fa notare in dottrina che la formula utilizzata nelle direttive recepisce quella impiegata nell’art. 236-3 del Code de Commerce francese, nella circolarità che contraddistingue la formazione della normativa Europea; la giurisprudenza e la casistica Europee confermano come la società incorporata viene meno sotto un profilo formale.

Se ciò avviene negli ordinamenti armonizzati, non può dunque che favorirsi la medesima interpretazione nel diritto interno.

Tutto ciò, pur in presenza del caveat con riguardo ai concetti delle fonti sovranazionali, nonchè del noto pragmatismo che impronta le relative decisioni – basti pensare al contenuto della sentenza Corte di giustizia 5 marzo 2015, C-343/13, cit., dove la Corte riconosce che la società incorporata si estingue dal punto di vista formale per effetto della fusione, tuttavia valorizzando lo scioglimento senza liquidazione e senza dissoluzione della realtà economica, al fine di affermare, a fini antielusivi, che la società incorporante non rimane uguale a sè stessa e che si verifica “la trasmissione, alla società incorporante, dell’obbligo di pagare l’ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa” – fornisce dunque un imprescindibile dato interpretativo.

2.4. – Conclusioni.

Gli aspetti “sostanziali” della vicenda della fusione societaria che si possono riassumere in quelli della concentrazione, della successione e dell’estinzione – non possono essere disgiunti da quelli “processuali”: occorre, infatti, stabilire una coerenza fra di essi, derivando peraltro i profili processuali dalla questione concreta che venga all’esame nel giudizio.

a) Concentrazione.

Non vi è dubbio che la fusione, dando vita ad una vicenda modificativa dell’atto costitutivo per tutte le società che vi partecipano, determini un fenomeno di concentrazione giuridica ed economica (ve n’è traccia espressa nel diritto positivo: v. la L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 5) o “integrazione” o “compenetrazione”, dal quale consegue che i rapporti giuridici, attivi e passivi, di cui era titolare la società incorporata o fusa, siano imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante o la società risultante dalla fusione.

L’operazione è connotata da irreversibilità, secondo il chiaro disposto dell’art. 2504-quater c.c., che vieta la pronuncia d’invalidità della fusione, una volta eseguite le iscrizioni ai sensi dell’art. 2504 c.c., comma 2.

La fusione comporta un’ampissima riorganizzazione aziendale.

Beni, persone e capitali vengono diversamente destinati, secondo il programma economico per tempo approfonditamente elaborato nel progetto di fusione, nessun elemento formale rimanendo uguale a se stesso. Solo i soci mantengono tale veste (salvo il loro diritto di recesso): dal momento che essi divengono titolari di una quota del capitale della incorporante o della società risultante dalla fusione, secondo quel rapporto matematico e proporzionale che è il “rapporto di cambio”, richiamato dall’art. 2501-ter c.c..

Che la fusione sia inquadrabile tra le vicende modificative dell’atto costitutivo delle società partecipanti è senz’altro corretto, ma questo non è, tuttavia, l’unico effetto della fusione: il fatto che la (diversa) società, incorporante o risultante dalla fusione, assuma i diritti e gli obblighi delle società interessate sta in sè ad indicare che gli effetti sono certamente più pregnanti di quelli riconducibili ad una semplice modificazione dell’atto costitutivo.

Tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi, vengono ormai imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante, e la società incorporata viene cancellata dal registro delle imprese.

b) Estinzione.

Onde, se tutti i rapporti passano ad altro soggetto, con cancellazione dal registro delle imprese, quello primigenio non li conserva, ma si estingue.

Se, quanto ai rapporti giuridici, provvede l’art. 2504-bis c.c., chiarendo che essi proseguono tutti in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione, quale successore per legge esplicitamente identificato, si ha, nel contempo, che le persone fisiche (soci, esponenti aziendali, dipendenti) perdono il loro ruolo originario (derivando la loro sorte dal progetto di fusione) e le persone giuridiche – diverse dalla incorporante o risultante dalla fusione – si estinguono.

Cessano, infatti, per la società incorporata, la sede sociale, la denominazione, gli organi amministrativi e di controllo, il capitale nominale, le azioni o quote che lo rappresentano, e così via; in una parola, la primigenia organizzazione di dissolve e nessuna situazione soggettiva residua.

Ora, se nessuna posizione giuridica soggettiva residua in capo alla società incorporata, non ha significato affermare la permanenza di un soggetto, privo di rapporti o situazioni soggettive di sorta nella propria sfera giuridica, ivi compreso quello con chi lo rappresenti o determini; la sua permanenza nell’ambito dell’ordinamento giuridico, senza poter essere titolare di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, si ridurrebbe a quella di un’entità astratta.

Le società incorporate o fuse non restano, pertanto, soggetti del mercato, non le si vede ciononostante proporre cause civili o esservi convenute.

Se così non fosse, si potrebbe ad esempio giungere ad ammettere in giudizio una difesa duplice, ed anche contraddittoria, in relazione alle medesime posizioni soggettive, da parte dell’incorporata e dell’incorporante: come potrebbe ben accadere sul piano degli interessi sostanziali, visto che i soci della prima resterebbero, allora, quelli che tali erano al momento dell’atto di fusione, mentre i soci dell’incorporante sarebbero anche altri e sempre variabili, potendo quindi rappresentare posizioni di interesse difformi rispetto ad uno stesso rapporto giuridico.

Non ha dunque pregio sostenere che, nonostante la completa “rivoluzione” o, come recitano la direttive, “dissoluzione” aziendale con la chiusura o l’inglobamento di uffici o filiali, le riassegnazioni di personale, la cessazione dalla carica di tutti gli esponenti aziendali, l’annullamento delle azioni, la consegna di altre azioni secondo il rapporto di cambio, e molto altro – l’ente, come soggetto giuridico, permanga sul mercato e sia titolare di diritti ed obblighi.

Occorre, in definitiva, tenere distinto il profilo negoziale del contratto di società da quello giuridico-formale dell’originario soggetto di diritto dal primo scaturito, distinguendo tra la società come insieme di rapporti, che prosegue in una diversa organizzazione, dalla società come ente, che si estingue.

Come, al momento della stipulazione dell’atto costitutivo anche di società personale e, per le persone giuridiche, subordinatamente alla iscrizione della costituzione nel registro delle imprese, si distinguono – da un lato – il contratto di società concluso tra i soci fondatori, quale esercizio dell’autonomia negoziale privata ex art. 1322 c.c., che con lo statuto fissa e regolamenta gli aspetti della futura comune intrapresa economica, e – dall’altro lato – la contestuale nascita di un nuovo soggetto di diritti, autonomo centro d’imputazione di tutti i rapporti attivi e passivi afferenti quella attività: così, specularmente, al momento della stipula dell’atto di fusione, iscritto nel registro delle imprese delle diverse società partecipanti e seguito dalla cancellazione dell’iscrizione delle società incorporate o fuse, i soci – da un lato – modificano l’originario contratto sociale mediante la delibera di fusione ed i successivi adempimenti, ma – dall’altro lato – provocano, nel contempo, la “scomparsa” dalla scena giuridica dell’originario soggetto di diritto, quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, ossia la sua estinzione.

Alla successione dei soggetti sul piano giuridico-formale si affianca, sul piano economico-sostanziale, una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale, benchè secondo nuovi assetti e piani industriali.

L’estinzione riguarda solo la società incorporata, la quale non sopravvive quale flatus, ma si estingue; resta, invece, come soggetto giuridico l’incorporante, dal momento che la modificazione soggettiva attiene soltanto alla titolarità dei rapporti giuridici, che facevano capo alla prima.

Certamente quindi, sotto il profilo strutturale, la fusione si presenta come una modificazione degli statuti sociali delle società interessate, mediante le rispettive deliberazioni di approvazione del progetto di fusione (art. 2502 c.c.): destinate però ad apportare, all’originario regolamento di interessi fra i soci di ciascuna società fusa o incorporata, una innovazione decisamente radicale, posto che scompare quella “forma” di esercizio dell’impresa, a favore di altro involucro formale.

Occorre in definitiva concludere che, dal momento dell’iscrizione della cancellazione della società incorporata dal registro delle imprese, questa si estingue, quale evento uguale e contrario all’iscrizione della costituzione di cui all’art. 2330 c.c.; restano le persone fisiche – amministratori, sindaci, dipendenti, soci – che perdono, però, tale veste, ove non vengano riassorbiti nella società incorporante o risultante dalla fusione.

c) Successione.

Non si prospetta una mera vicenda modificativa, ricorrendo invece una vera e propria dissoluzione o estinzione giuridica, contestuale ad un fenomeno successorio.

La fusione realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati. La successione universale, come vicenda giuridica, ben si attaglia invero anche a quella fra enti, avente ad oggetto un patrimonio unitariamente considerato e non soltanto elementi che lo compongono.

La fusione non è, in sè, operazione che mira a concludere tutti i rapporti sociali (come la liquidazione), nè unicamente a trasferirli ad altro soggetto con permanenza in vita del disponente (come il conferimento in società, la cessione dei crediti o dei debiti, la cessione di azienda, etc.), quanto a darvi prosecuzione, mediante il diverso assetto organizzativo: ma ciò non può essere sminuito ed artificiosamente ridotto ad una vicenda modificativa senza successione in senso proprio in quei rapporti.

Riorganizzazione e concentrazione, da un lato, ed estinzione e successione, dall’altro lato, non sono concetti incompatibili ed antitetici. In sostanza, si verificano entrambi gli effetti, l’estinzione e la successione, senza distinzione sul piano cronologico, derivando entrambe dall’ultima delle iscrizioni previste dall’art. 2504 c.c. (salva la possibilità di stabilire una data diversa ex art. 2504-bis c.c., commi 2 e 3).

d) Legittimazione processuale.

Alla stregua di quanto esposto, la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato fonda la legittimazione attiva dell’incorporante ad agire e proseguire nella tutela dei diritti e la sua legittimazione passiva a subire e difendersi avverso le pretese altrui, con riguardo ai rapporti originariamente facenti capo alla società incorporata; viceversa quest’ultima, non mantenendo la propria soggettività dopo l’avvenuta fusione e la cancellazione dal registro delle imprese, neppure vanta una propria autonoma legittimazione processuale attiva o passiva.

e) Fusione in corso di causa.

Le ragioni sottese al precedente orientamento furono, come si è visto, in primis quelle di evitare l’interruzione del processo, che è ripetutamente sembrato opportuno evitare, attese le peculiarità di una fusione societaria (cfr. Cass., sez. un., 17 settembre 2010, n. 19698; Cass., sez. un., 14 settembre 2010, n. 19509; e v. Cass., sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637): l’argomento di fondo è incentrato sugli interessi tutelati e l’assenza di pericolo per il diritto alla difesa nel processo.

Tali ragioni non possono essere disconosciute e ciò induce il Collegio ad una precisazione al riguardo.

In ragione del subentro omnicomprensivo in tutte le situazioni giuridiche attive e passive delle società, incorporate o fuse, da parte della società in esito della fusione, questa va assimilata alla successione universale fra persone fisiche. In via di principio, perciò, alla fusione, divenuta efficace in corso di causa, in mancanza di disposizioni derogatorie troverebbe applicazione il regime degli artt. 110 e 300 c.p.c., con l’interruzione del processo e la sua prosecuzione dal successore universale o in suo confronto, previa riassunzione, quale fenomeno riconducibile al “venir meno” della parte, di cui all’art. 110 c.p.c..

Tuttavia, in presenza di fusione sopraggiunta nel corso del giudizio, la dizione dell’art. 2504-bis c.c. – secondo cui in tutti i rapporti giuridici delle società incorporate “anche processuali” vi è una “prosecuzione” dell’incorporante – vale ad evitare ex lege l’interruzione stessa, dato che l’incorporata ne prosegue senza soluzione di continuità i rapporti, anche processuali.

In tal modo è dato leggere la modificazione operata nel 2003, al più limitato, ma opportuno fine di superare gli inconvenienti prodotti dall’interruzione del processo in caso di fusione di società, evitando l’applicazione dell’istituto, allora non congruente allo scopo.

Onde, sul punto, il precedente orientamento che escludeva l’interruzione del processo va confermato con riguardo alla fusione delle società post riforma del 2003, dovendo in tal modo ricostruirsi il portato dell’art. 2504-bis c.c., attesa l’esigenza di ragionevole durata del processo e l’assenza della lesione di interessi di qualsiasi parte.

Nel caso della fusione, dunque, è la legge stessa a disporre, mediante l’art. 2504-bis c.c., che il processo non debba essere interrotto: ma ciò non perchè la società incorporata, fusa o scissa sia ancora esistente, ma semplicemente perchè la incorporante, la società risultante dalla fusione o le società beneficiarie sono, di volta in volta, i soggetti divenuti titolari sia di quel rapporto sostanziale, sia del corrispondente c.d. rapporto processuale, ossia del giudizio che quello abbia ad oggetto.

La ratio degli artt. 299 ss. c.p.c. conferma tale ricostruzione: posto che, se l’istituto dell’interruzione del processo mira a tutelare sia la parte colpita dall’evento interruttivo, sia la controparte, ai fini della migliore esplicazione del diritto di difesa di entrambe (art. 24 Cost.), tale esigenza non si avverte, o in ogni caso è ex lege recessiva, a fronte della superiore esigenza di continuità nei rapporti sostanziali e processuali, a fini di certezza.

In tal modo, l’esclusione dell’interruzione del processo limita le conseguenze della fusione sul processo, dovendosi allora, ad onere della incorporante, provare soltanto tale sua qualità ai fini della legittimazione, ove intenda compiere atti processuali.

III. – Introduzione della causa da parte di società estinta per incorporazione con successivo intervento della incorporante. Principio di diritto.

1. – In conseguenza di quanto esposto, non sussiste la facoltà di intraprendere un giudizio in capo al soggetto estinto per fusione.

Una società ormai estinta non è soggetto di diritti e neppure ha la capacità e la legittimazione processuale per farli valere, essendo stati trasferiti alla società incorporante o risultante dalla fusione.

Ne deriva che, ove essa intraprenda un giudizio, ciò avviene sulla base di una valutazione operata dai precedenti organi, i quali però non sono ormai più tali, spettando una simile valutazione all’esclusiva titolare, la società incorporante, per mezzo del suo legale rappresentante. Se la perduranza di quei rapporti giuridici nel soggetto incorporante o unificato giustifica, da un lato, il medesimo ad agire per tutelarli, al fine di vedere realizzate le sue pretese, dall’altro lato non autorizza però la società incorporata o fusa a farle valere essa stessa.

Non si dà dunque applicazione dell’istituto della ratifica degli atti compiuti dal falsus procurator, perchè qui non è tale il rappresentante, ma diverso è l’effettivo titolare del diritto.

2. – Quest’ultimo, però, ha la facoltà di intervenire in giudizio, una volta che il medesimo sia stato ormai instaurato dal non legittimato.

Si è già affermato dalla Corte che la facoltà concessa ad ogni interessato di intervenire nel processo, pendente tra altri soggetti, per far valere un diritto proprio nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse, sussiste indipendentemente dalla effettiva esistenza, nel soggetto che ha inizialmente proposto la domanda giudiziale, delle condizioni necessarie all’esperimento di essa, sicchè il soggetto legittimato ad intervenire può sostituirsi al non legittimato, anche nel corso del processo, nell’esercizio dell’azione giudiziale.

Ciò in quanto il rapporto processuale, che si costituisce mediante l’intervento della parte legittimata a far valere la pretesa avanzata in giudizio da un soggetto carente della legittimazione attiva, non dipende dalla sorte dell’originario rapporto costituito dall’attore, poichè il vero legittimato rispetto all’oggetto della lite, della quale è parte il non legittimato, ha una posizione sostanziale autonoma, con la conseguenza che la sorte del rapporto processuale posto in essere mediante l’intervento non è subordinata a quella dell’originario rapporto su cui si è innestato (cfr. Cass. 26 marzo 2010, n. 7300; Cass. 24 dicembre 1993, n. 12777; Cass. 13 dicembre 1990, n. 11828).

In tal modo, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., si realizza l’intervento volontario del legittimato e la conseguente sua sostituzione nel processo da questi promosso e che esiste come struttura formale, secondo le regole proprie dell’intervento in giudizio.

L’azione a tutela di un diritto già facente capo alla società fusa, e poi trasferito alla società incorporata, può dunque essere da questa proposta nelle forme dell’intervento in giudizio.

Ove il nuovo ente intenda esperire tale intervento, dovrà rilasciare mandato al difensore ai fini del conferimento dello ius postulandi, secondo le regole generali di cui agli artt. 82 c.p.c. e ss., trattandosi di un soggetto giuridico diverso.

3. – Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto:

“La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, avendo facoltà della società incorporante di spiegare intervento in corso di causa, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., nel rispetto delle regole che lo disciplinano”.

IV. – Decisione sui motivi di ricorso.

1. – Alla luce del principio predetto, il primo motivo è infondato, anche se la motivazione della sentenza impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

Nella specie, la Spinone s.r.l., essendosi fusa per incorporazione nella Zinconia s.r.l. il 23 luglio 2004, con contestuale cancellazione dal registro delle imprese, era priva di capacità e legittimazione processuale nel marzo del 2008, quando ha intrapreso il presente giudizio, essendosi già estinta ed avendo, da lungo tempo, cessato i suoi organi amministrativi dalle funzioni di legale rappresentanza.

Sorti dubbi di legittimazione al riguardo, nel corso del primo grado la società incorporante si è costituita, facendo proprio il giudizio.

Nel prosieguo, quindi, è stata accolta la domanda di simulazione proposta, come azionata anche dall’interventore in giudizio: il giudice di primo grado ha dichiarato la simulazione del contratto ed il giudice d’appello ha espressamente escluso ogni nullità del processo, sia per la natura meramente modificativo-evolutiva della fusione, sia per l’avvenuta costituzione in causa della società incorporante.

Ne deriva che, mutata la motivazione alla stregua del principio enunciato, il primo motivo va respinto.

2. – Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili.

La corte del merito ha condiviso l’accertamento, in punto di fatto operato dal tribunale, relativo alla volontà delle parti di non trasferire affatto la proprietà del bene oggetto delle due compravendite consecutive, dunque reputate simulate in via assoluta.

La ratio decidendi, espressa nella decisione impugnata, si fonda su di una triplice valutazione: la proposizione dell’azione di simulazione con riguardo alla compravendita nella sua interezza e non pro quota, la mancata censura circa la consapevole partecipazione della comproprietaria M. alla simulazione e l’irrilevanza, in tale situazione, dell’insussistenza di una posizione debitrice in proprio della medesima. Valutazioni che, però, il secondo motivo non censura.

Il terzo motivo, dal suo canto, non individua l’errore di giudizio o la regola di diritto che sarebbe stata male applicata.

Onde entrambi si scontrano con le valutazioni fattuali, compiute dai giudici di merito, in una inammissibile contestazione sull’esito della valutazione nel merito delle prove in atti, mentre il vizio di omesso esame di fatto decisivo è dedotto in termini inosservanti del relativo paradigma.

In conclusione, il ricorso va respinto.

V. – Spese.

Le spese vengono interamente compensate, attesa la novità del principio enunciato.

P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa per intero le spese del giudizio.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 13 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2021


Giudice di Pace Roma – Sentenza 12374-2021

Sentenza 12374-2021 Giudice di Pace Roma


La P.E.C. europea

Finalità della P.E.C. europea

L’idea della P.E.C. europea nasce quando il Consiglio Europeo, nelle conclusioni del 27 maggio 2011, invita la Commissione Europea a dare il suo contributo al mercato unico, creando le condizioni necessarie per il riconoscimento reciproco e transfrontaliero di funzioni essenziali come quelle che hanno a che fare con i servizi elettronici di recapito.

A specificarlo è il Regolamento UE 910/2014 “in materia di identificazione elettronica e servizi fiduciari per le transazioni elettroniche nel mercato interno” che nel considerando n. 66 precisa: “È essenziale prevedere un quadro giuridico per agevolare il riconoscimento transfrontaliero tra gli ordinamenti giuridici nazionali esistenti relativi ai servizi elettronici di recapito certificato. Tale quadro potrebbe aprire inoltre per i prestatori di servizi fiduciari dell’Unione nuove opportunità di mercato per l’offerta di nuovi servizi elettronici di recapito certificati paneuropei.”

Cos’è la P.E.C. europea

Dalla premessa appare chiaro che la P.E.C. europea è un servizio di recapito frontaliero certificato o molto più semplicemente è uno strumento elettronico che permette di recapitare messaggi certificati in tutta Europa. Il servizio P.E.C. disponibile in Italia, infatti, ad oggi consente di recapitare messaggi di posta elettronica certificata con lo stesso valore legale di una raccomandata con ricevuta di ritorno, solo sul territorio italiano. Grazie alla nuova P.E.C. europea tutto questo può varcare i confini. Si potranno di conseguenza inviare e-mail certificate con valore legale di una raccomandata postale in tutta Europa.

Per fare questo però è necessario adottare schemi interoperabili di eDelivery, ossia di recapito elettronico che risultino conformi ai criteri fissati dall’European Telecommunications Standards Institute (ETSI).

I criteri elaborati dall’Agid

I criteri necessari per rendere le caselle P.E.C. italiane valide in tutta Europa, sono stati elaborati dall’Agid e resi noti il 14 giugno 2021 con il documento “REM SERVICES – Criteri di adozione degli standard ETSI – Policy IT“.

Documento che ha infatti lo scopo di “definire le nuove Regole tecniche conformi ai requisiti funzionali previsti per un servizio elettronico di recapito certificato qualificato dal Regolamento eIDAS, con il quale i gestori italiani si potranno presentare non solo sul mercato interno, ma anche nell’ambito territoriale di applicazione del Regolamento eIDAS beneficiando delle presunzioni legali ivi previste.”

Alla realizzazione del documento hanno preso parte i più importanti gestori di caselle elettroniche certificate presenti in Italia: Aruba, Actalis, Consiglio Nazionale del Notariato, Notartel, InfoCert, InnovaPuglia, Irideos, ITnet, Namirial, Poste Italiane, Register.it, Sogei, Telecom Italia Trust Technologies, Uninfo, AssoCertificatori.

Solo quando saranno terminati i test, che coinvolgono nel 40 soggetti in 15 Paesi UE sarà possibile un dialogo tra i fornitori dei servizi P.E.C. e un utilizzo effettivo della P.E.C. europea da parte di imprese, cittadini e istituzioni.

Requisiti dei servizi di recapito certificato

Tralasciando la parte tecnica del documento dell’Agid, che interesserà senza dubbio gli addetti ai lavori, è necessario ricordare che i criteri indicati nel documento dell’Agenzia per l’Italia Digitale sono stati elaborati nel rispetto di quanto sancito dal Regolamento UE 910-2014, che all’art. 44 si preoccupa di definire i requisiti necessari che devono possedere i servizi elettronici di recapito certificato qualificato.

La norma suddetta richiede in particolare la pluralità dei fornitori, la capacità di garantire un livello elevato di sicurezza per quanto riguarda l’identificazione del mittente, così come del destinatario, prima della trasmissione dei dati. L’invio e la ricezione devono essere inoltre garantiti da una firma elettronica avanzata o da un sigillo elettronico per escludere modifiche non rilevabili dei dati (qualsiasi modifica ai dati necessaria al fine d’inviarli o riceverli è chiaramente indicata al mittente e al destinatario dei dati stessi). Data e ora d’invio e ricezione e qualsiasi modifica dei dati devono essere infine indicate da una validazione temporale elettronica qualificata.

Effetti giuridici del recapito certificato

Il precedente art. 43 del Regolamento UE 910-2014 si occupa invece di definire quelli che sono gli effetti giuridici di un servizio elettronico di recapito certificato.

La norma a questo proposito dispone che i dati inviati e ricevuti tramite un servizio elettronico di recapito certificato sono ammissibili come prova nei procedimenti giudiziali anche se hanno forma elettronica e anche se non “soddisfano i requisiti del servizio elettronico di recapito certificato qualificato.”

I dati inviati e ricevuti tramite servizio elettronico di recapito certificato qualificato inoltre beneficiano della presunzione:

  • d’integrità;
  • dell’invio di tali dati da parte del mittente identificato;
  • della loro ricezione da parte del destinatario identificato;
  • di accuratezza della data e dell’ora dell’invio;
  • della ricezione indicata dal servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

Circolare 4/2021 – Notificazione di atti finanziari a contribuenti con residenza estera

Breve sintesi dell’evoluzione dell’art. 60 relativamente all’oggetto
L’art. 60 del DPR 29.9.1973 n. 600, che regola la notifica degli atti in materia di imposte dirette, la cui applicazione è stata successivamente estesa anche alle materie relative a imposta di registro, ipotecaria e catastale, successioni e donazioni e IVA, nella sua formulazione iniziale escludeva, fra l’altro, all’art. 60, comma 1, lettera f) il ricorso alla procedura prevista dall’art. 142 c.p.c. concernente la notificazione a soggetti non residenti, né dimoranti, né domiciliati nella Repubblica.
Successivamente, la Corte Costituzionale con sentenza n. 366 del 24.10.2007, dichiarava l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c ) e f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), e dell’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nella parte in cui prevede, nel caso di notificazione a cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria in base all’iscrizione nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (A.I.R.E.), che le disposizioni contenute nell’articolo 142 del codice di procedura civile non si applicano.
In realtà nelle more dell’esame della questione di costituzionalità sollevata in relazione alle norme sopra citate, era stato emanato il D.L. 4 luglio 2006, n. 223 il quale aveva introdotto nell’art. 60, 1° comma, la lettera e-bis) il cui testo si riporta di seguito:
e-bis) è facoltà del contribuente che non ha la residenza nello Stato e non vi ha eletto domicilio ai sensi della lettera d), o che non abbia costituito un rappresentante fiscale, comunicare al competente ufficio locale, con le modalità di cui alla stessa lettera d), l’indirizzo estero per la notificazione degli avvisi e degli altri atti che lo riguardano; salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione degli avvisi o degli atti è eseguita mediante spedizione a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.
Infine, il D.L. 25 marzo 2010, n. 40 ha disposto l’introduzione dei commi 4 e 5 nell’art. 60, regolando compiutamente la notificazione a contribuenti italiani con residenza estera: di seguito il testo dei commi aggiunti.
4. Salvo quanto previsto dai commi precedenti ed in alternativa a quanto stabilito dall’articolo 142 del codice di procedura civile, la notificazione ai contribuenti non residenti è validamente effettuata mediante spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’indirizzo della residenza estera rilevato dai registri dell’Anagrafe degli italiani residenti all’estero o a quello della sede legale estera risultante dal registro delle imprese di cui all’articolo 2188 del codice civile. In mancanza dei predetti indirizzi, la spedizione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento è effettuata all’indirizzo estero indicato dal contribuente nelle domande di attribuzione del numero di codice fiscale o variazione dati e nei modelli di cui al terzo comma, primo periodo. In caso di esito negativo della notificazione si applicano le disposizioni di cui al primo comma, lettera e).(1)
5. La notificazione ai contribuenti non residenti è validamente effettuata ai sensi del quarto comma qualora i medesimi non abbiano comunicato all’Agenzia delle entrate l’indirizzo della loro residenza o sede estera o del domicilio eletto per la notificazione degli atti, e le successive variazioni, con le modalità previste con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate. La comunicazione e le successive variazioni hanno effetto dal trentesimo giorno successivo a quello della ricezione.
Pertanto, in base al testo vigente dell’art. 60, la notifica rivolta al contribuente non residente può essere effettuata tramite spedizione dell’atto con raccomandata A.R. all’indirizzo estero segnalato ai sensi del comma 1, lett. e bis), oppure, in assenza di questa comunicazione, ai sensi del 4 comma.
Ovviamente l’incombenza è a carico dell’Agenzia delle Entrate, a cui le comunicazioni di cui sopra sono dirette da parte del contribuente.
Modalità operative di notificazione.
In pratica i casi che possono presentarsi al Messo Comunale a cui viene richiesta la notifica di un atto rivolto a contribuente italiano residente all’estero sono i seguenti:
  1) sull’atto sono riportate le generalità del destinatario legate ad un indirizzo situato all’interno del Comune per cui il Messo Comunale è territorialmente competente; in tal caso, qualora dall’esame dei registri anagrafici risulti un’iscrizione all’A.I.R.E. (Anagrafe Italiani Residenti all’Estero), si potrà desumere che gli uffici dell’Agenzia delle Entrate non siano a conoscenza di tale situazione. Si procederà pertanto con la restituzione dell’atto indicando contestualmente l’indirizzo estero risultante dai registri A.I.R.E., e sottolineando l’obbligo di rispettare il dettato dell’art. 60, 1° comma lett. e-bis) o, in alternativa del 4° comma dello stesso articolo;
  2) sull’atto viene riportato correttamente, accanto alle generalità del contribuente, l’indirizzo estero risultante dai registri A.I.R.E. In tal caso la notificazione all’estero non è andata a buon fine o l’Agenzia delle Entrate, pur avendo provveduto alla spedizione dell’atto mediante lettera raccomandata A.R. all’indirizzo estero non è ancora a conoscenza dell’esito e richiede comunque al Messo Comunale di notificare l’atto nell’ultima residenza anagrafica in Italia. Ciò avviene generalmente al fine di evitare la decadenza del diritto che viene fatto valere tramite l’atto di accertamento. Infatti, se l’avviso di ricevimento collegato alla raccomandata estera venisse restituito oltre il termine di decadenza previsto per la notifica, con la dicitura “trasferito”, “sconosciuto” o equivalente, la notifica non potrebbe considerarsi perfezionata e la pretesa giuridica dell’Agenzia dell’Entrata verrebbe a decadere.
Al fine di non incorrere in questa eventualità, viene pertanto richiesto al Messo Comunale di notificare l’atto nell’ultima residenza nel territorio italiano, ricercando un’eventuale abitazione, ufficio o azienda all’interno del territorio comunale.
In tal caso si raccomanda al Messo Comunale di non applicare direttamente la procedura di cui all’art. 60, 1° comma, lett. e) ma di procedere preventivamente alle doverose ricerche per lo meno presso l’ultima abitazione conosciuta del contribuente che potrebbe rivelarsi come il luogo presso cui lo stesso dimora di fatto in occasione dei suoi rientri sul territorio italiano e dove, sempre a titolo esemplificativo, hanno ancora la propria residenza il coniuge, i genitori, i figli etc.
In tal caso la procedura adottata potrà essere quella prevista dall’art. 139 o 140 del codice di procedura civile: ciò in quanto l’art. 60 del DPR 29.9.1973 n. 600 fa riferimento al domicilio fiscale e non alla residenza anagrafica, anche se questi nella maggioranza dei casi coincidono.
Vale probabilmente la pena sottolineare che il requisito che legittima la notificazione presso l’abitazione del parente del destinatario non è il mero vincolo parentale ma il fatto che l’abitazione del parente possa essere considerata anche abitazione del destinatario della notifica, per cui saranno le dichiarazioni raccolte dal messo che potranno confermare una simile situazione, dichiarazioni che sarà bene riportare in relata al fine di giustificare la scelta del luogo di notificazione.
Va inoltre ricordata l’applicazione delle disposizioni della lett. b-bis dell’art. 60 e di conseguenza l’invio della raccomandata informativa dell’avvenuta notificazione presso l’abitazione considerata dimora di fatto del destinatario.
Ovviamente, qualora dalle ricerche effettuate non emerga l’esistenza di abitazione, ufficio o azienda del contribuente all’interno del territorio comunale, si procederà ai sensi dell’art. 60, 1° comma, lett. e), mediante deposito dell’atto presso la Casa Comunale e contestuale affissione di un avviso di deposito all’albo on line per la durata di 8 gg.
È inoltre consigliabile precisare in relata che si procede ai sensi della lett. e) e del 4° comma, ultimo periodo dell’art. 60 DPR 600/1973, per sottolineare il fatto che è stata tentata anche la notifica estera con esito negativo.
Si suggerisce infine, nel caso di prossimità del termine di decadenza, di contattare comunque gli uffici finanziari per agevolare e concordare le eventuali decisioni in merito alle procedure da adottare.

_______________
(1) La Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 20256 del 22 agosto 2017, ha concluso che la notificazione degli atti agli italiani residenti all’estero è validamente effettuata mediante spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento all’indirizzo della residenza estera rilevato dai registri A.I.R.E., non essendo necessario seguire la procedura più articolata prevista dall’articolo 142 c.p.c.

Scarica: Circolare 2021-004 Notificazione di atti finanziari a contribuenti con residenza estera


Conservazione dei documenti informatici: definiti i nuovi criteri per la fornitura del servizio

E’ stato adottato dall’AgID (Agenzia per l’Italia Digitale) il regolamento che definisce i nuovi criteri per la fornitura del servizio di conservazione dei documenti informatici, fissando in un apposito allegato i requisiti generali nonché i requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione necessari per la fornitura del servizio.
Il regolamento integra quanto già definito nell’ambito delle Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione del documento informatico, emanate a settembre 2020.

Il provvedimento, determinazione n. 455/2021, composto di due allegati tecnici, è stato emanato secondo quanto previsto dall’art. 34, comma 1-bis del D.Lgs. n. 82/2005, come integrato e modificato dal Decreto Semplificazione (D.L. 76/2020), convertito con L. n. 120/2020 ed entrerà in vigore il 1° gennaio 2022, data a partire dalla quale è abrogata la circolare n. 65/2014.

Il Decreto Semplificazione ha apportato numerose modifiche al Codice dell’amministrazione digitale (CAD), tra cui alcune relative al servizio di conservazione dei documenti informatici. In particolare l’art. 34, comma 1-bis, prevede che:

“Le pubbliche amministrazioni possono procedere alla conservazione dei documenti informatici:

a) all’interno della propria struttura organizzativa;

b) affidandola, in modo totale o parziale, nel rispetto della disciplina vigente, ad altri soggetti, pubblici o privati che possiedono i requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione individuati, nel rispetto della disciplina europea, nelle Linee guida di cui all’art. 71 relative alla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici nonché in un regolamento sui criteri per la fornitura dei servizi di conservazione dei documenti informatici emanato da AgID, avuto riguardo all’esigenza di assicurare la conformità dei documenti conservati agli originali nonché la qualità e la sicurezza del sistema di conservazione.”.

La conservazione dei documenti informatici per conto delle pubbliche amministrazioni da parte di soggetti esterni deve, quindi, uniformarsi – nel rispetto della disciplina europea – alle Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici nonché ad un regolamento, adottati entrambi dall’Agenzia per l’Italia digitale (AgID), che segnano il superamento del precedente meccanismo di accreditamento dei conservatori.

In quest’ottica, il regolamento determina i nuovi criteri per la fornitura del servizio di conservazione dei documenti informatici, fissando in un apposito allegato i requisiti generali nonché i requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione necessari per la fornitura del servizio, ad integrazione di quanto già definito nell’ambito delle Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione del documento informatico, emanate a settembre 2020.

Il regolamento prevede, altresì, l’istituzione di un marketplace per i servizi di conservazione quale sezione autonoma del Cloud Marketplace cui possono iscriversi i soggetti, pubblici e privati, che intendono erogare il servizio di conservazione dei documenti informatici per conto delle pubbliche amministrazioni. L’iscrizione al marketplace non è obbligatoria ma i conservatori che intendono partecipare a procedure di affidamento da parte delle pubbliche amministrazioni devono ugualmente possedere i requisiti previsti nel presente regolamento e sono sottoposti all’attività di vigilanza di AgID.

Innanzitutto l’art. 2 del regolamento sancisce che i soggetti che intendono erogare il servizio di conservazione dei documenti informatici per conto delle pubbliche amministrazioni devono possedere i requisiti generali nonché i requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione specificati all’interno dell’allegato A denominato “Requisiti per l’erogazione del servizio di conservazione per conto delle pubbliche amministrazioni”. Gli stessi soggetti possono richiedere l’iscrizione al marketplace per i servizi di conservazione, che sarà istituito da AgID come sezione autonoma del Cloud Marketplace, disciplinato dalle Circolari AgID n. 2 e n. 3 del 9 aprile 2018 (art. 3).

Tale iscrizione non è obbligatoria ma le amministrazioni che affidano il servizio di conservazione dei documenti informatici a soggetti non iscritti nella sezione “servizi di conservazione” del Cloud Marketplace hanno l’obbligo di trasmettere ad AgID i relativi contratti entro trenta giorni dalla stipula affinché l’Agenzia possa svolgere le attività di verifica dei requisiti generali nonché dei requisiti di qualità, di sicurezza e organizzazione di cui all’allegato A al regolamento (art. 7).

Leggi: Regolamento sui criteri per la fornitura dei servizi di conservazione dei documenti informatici 2021


La notifica presso la sede legale dell’ente è sempre corretta

Secondo i supremi giudici, tale luogo prevale anche sulla sede effettiva o “di direzione”, per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria
La Corte Suprema di cassazione ha ribadito che è onere del contribuente indicare all’Amministrazione finanziaria il proprio domicilio fiscale e tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni, non potendosi addossare all’Agenzia delle entrate l’onere di ricercare il contribuente fuori dall’ultimo domicilio noto e legittimandola, pertanto, in caso di inadempimento del contribuente, ad eseguire la notificazione nella forma semplificata di cui all’articolo 60, lettera e) del Dpr 600/1973. Questi i contenuti della sentenza n. 14579, depositata il 25 maggio 2021.
Una sas impugnava una cartella di pagamento, consequenziale a un’iscrizione a ruolo effettuata a titolo provvisorio, ex articolo 15 del Dpr 602/1973, nella formulazione pro tempore, stante la pendenza del giudizio di primo grado avverso l’atto impositivo con cui veniva accertato dall’erario l’indebito utilizzo di crediti di imposta.
La Commissione Tributaria Provinciale di Caserta, dichiarava inammissibile il ricorso, in quanto tardivo. La sas proseguiva nella richiesta di annullamento avanti alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, che rigettava il gravame della parte privata.
In particolare, la C.T.R. riteneva corretta la notificazione della cartella di pagamento, presso la sede legale della contribuente, costituente anche “domicilio fiscale”, effettuata per irreperibilità del destinatario ad una certa data. Inoltre, specificava il giudice d’appello che, per quanto ci occupa, ai sensi dell’articolo 60, lettera e) del Dpr 600/1973 è sufficiente l’affissione dell’avviso all’albo comunale, senza invio della raccomandata, con conseguente irrilevanza della notificazione eseguita a termini dell’articolo 145 c.p.c..
Il Contribuente proponeva ricorso per cassazione affidandolo a quattro motivi di diritto, di cui solo il primo viene considerato dalla suprema Corte.
In questo senso, la sas deduceva, in relazione all’articolo 360, primo comma, c.p.c., violazione e/o falsa applicazione dell’articolo 60, primo comma, lettera c) del Dpr 600/1973 e dell’articolo 145 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata aveva ritenuto di far decorrere il termine per l’impugnazione della cartella dalla notificazione alla società presso la sede legale e non dalla, successiva, notificazione al legale rappresentante. Deduceva, infatti, la società ricorrente che la notificazione si sarebbe dovuta eseguire presso la sede effettiva, quale luogo dove si svolgeva l’attività di direzione, risultando la stessa in luogo diverso da quello ritenuto dalla C.T.R. della Campania.
Lamentava, altresì, che il procedimento notificatorio di cui all’articolo 60, comma primo, lettera e) del Dpr citato non poteva ritenersi concluso per effetto della mera affissione, ma richiedeva necessariamente la ricezione della raccomandata informativa, in assenza della quale il procedimento non poteva ritenersi perfezionato.
La Corte Suprema di Cassazione, nel rigettare il ricorso della parte privata, rileva l’infondatezza del primo motivo dedotto, posto che non era stato censurato l’accertamento in fatto, compiuto dal giudice del merito, secondo cui il luogo che coincide con la sede legale costituisce domicilio fiscale del contribuente, luogo che prevale su diverse indicazioni di domicilio, per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta a controllare l’esattezza del domicilio eletto (Cassazione nn. 9567/2020; 4675/2020; 25450/2019; 17198/2019; 25680/2016; 15258/2015).
L’orientamento, secondo i togati di legittimità, è conforme al principio secondo cui è onere del contribuente indicare all’ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni – come, del resto, in caso di fallimento, prevede l’articolo 49 della legge fallimentare nei confronti dell’organo concorsuale – non potendosi addossare all’Amministrazione finanziaria l’onere di ricercare il contribuente fuori dall’ultimo domicilio noto e legittimandola, pertanto, in caso di inadempimento del contribuente, ad eseguire la notificazione nella forma semplificata di cui all’articolo 60, lettera e) del Dpr 600/1973 (Cassazione n. 11504/2018).
La Corte di legittimità passa poi, a trattare la doglianza relativa alla dedotta necessità dell’invio della raccomandata informativa, in caso di notificazione effettuata a termini dell’articolo 60, comma 1, lettera e) del Dpr 600/1973.
In questo senso, osserva la Corte Suprema di Cassazione, l’insegnamento giurisprudenziale è concorde nell’affermare la ritualità della notificazione, ove il Messo Comunale abbia eseguito le opportune ricerche nell’ambito del Comune di domicilio fiscale e non abbia rinvenuto l’ufficio o l’azienda del contribuente, ancorché vi sia stato il mero deposito dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, né di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune (Cassazione nn. 3378/2020; 5902/2019; 25095/2006; 9922/2003).
L’orientamento richiamato, in ultima analisi, è conforme al principio secondo cui è onere del contribuente comunicare all’Amministrazione finanziaria gli spostamenti del domicilio fiscale dichiarato.
In questo senso, infatti, la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che “la disciplina delle notificazioni degli atti tributari si fonda sul criterio del domicilio fiscale e sull’onere preventivo del contribuente di indicare all’Ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e di tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni, sicché il mancato adempimento, originario o successivo, di tale onere di comunicazione legittima l’Ufficio procedente ad eseguire le notifiche comunque nel domicilio fiscale per ultimo noto, eventualmente nella forma semplificata di cui alla lett. e) dell’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973″ (Cassazione n. 23509/2016)”.
Ciò proprio nell’ottica enunciata dall’articolo 10 dello Statuto del contribuente, secondo cui i rapporti tra contribuente e Amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede.


Tribunale di Modena, Sez. Lav., 23 luglio 2021, n. 2467

N. 529/2021 R.G.

TRIBUNALE DI MODENA
SEZIONE LAVORO

Il Collegio dell’intestato Tribunale, composto dai seguenti Magistrati:
dott.ssa Emilia SALVATORE Presidente
dott. Vincenzo CONTE Giudice Relatore
dott. Andrea MARANGONI Giudice
nel procedimento di reclamo N. 529/2021 R.G.
promosso da

A.DD., nata a OMISSIS;
R.E.M. nata a OMISSIS; entrambe rappresentate e difese dagli Avv.ti Monica Seri e Mauro Sandri;
RECLAMANTI
contro
G. SOCIETÀ COOPERATIVA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede in OMISSIS, rappresentata e difesa dall’Avv. Prof. Enrico Gragnoli e dall’Avv. Luca Zaccarelli;
RECLAMATA

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

premesso che:
– il procedimento è stato trattato nelle forme “cartolari” ex art. 221, comma 8, L. n. 77/2020;
– le parti hanno depositato note scritte nel termine concesso; rilevato che:
– con ricorso ex art. 700 c.p.c. del 24.03.2021, A.DD. e R.E.M. chiedevano dichiararsi la nullità/invalidità/illegittimità del provvedimento di sospensione cautelativa dal servizio e dalla retribuzione – adottato dalla datrice di lavoro in data 27.01.2021 – e, per l’effetto, condannarsi G. Soc. Coop. a riammetterle nel proprio posto di lavoro con le stesse mansioni e la stessa qualifica e a corrispondere le retribuzioni dovute dal giorno della sospensione all’effettiva ripresa dell’attività lavorativa;
– le ricorrenti deducevano: 1) di essere dipendenti e socie della cooperativa, con mansioni di fisioterapiste di livello D2, in servizio presso la Casa di Residenza per Anziani “Gu.” di Modena; 2) che la convenuta consegnava la documentazione relativa alla vaccinazione anti Sars-Cov-2 (modulo consenso informato, nota informativa allegata e modulo di valutazione anamnestica); 3) che in data 30.12.2020 restituivano il modulo di consenso “sottoscrivendo il diniego”; 4) di avere partecipato a riunioni informative organizzate dalla datrice di lavoro in data 31.12.2020 e in data 04.01.2021; 5) che nel corso delle riunioni veniva trasmesso un intervento registrato del medico competente, dott.ssa Giorgia M.; 6) di avere richiesto ulteriori informazioni sui rischi/benefici della vaccinazione e di non aver ricevuto alcun riscontro dalla datrice di lavoro; 7) che nell’esercizio dell’attività lavorativa utilizzavano i D.P.I. forniti dalla cooperativa; 8) che in data 27.01.2021 il responsabile delle Risorse Umane consegnava il provvedimento di sospensione dal lavoro e dalla retribuzione sino ad effettuazione completa della vaccinazione anti Covid-19;

rilevato che:
– la cooperativa G. eccepiva l’inammissibilità delle domande risarcitorie e l’infondatezza in fatto e in diritto del ricorso;

rilevato che:
– il ricorso cautelare veniva rigettato con ordinanza del 19.05.2021;
– il giudice di prime cure affermava la sussistenza di un dovere solidaristico a carico del prestatore di lavoro, implicante “precisi doveri di cura e sicurezza per la tutela dell’integrità psico-fisica propria e di tutti i soggetti terzi con cui entra in contatto”; lo stesso giudice, inoltre, evidenziava che la mancata vaccinazione del personale sanitario rendeva impossibile la fruizione della prestazione lavorativa da parte del datore di lavoro, quale soggetto civilmente responsabile, ai sensi degli artt. 2043 e 2087 cod. civ., per i danni patiti dal personale dipendente e dai terzi;
– l’ordinanza reclamata escludeva l’applicazione della disciplina introdotta con il D.L. n. 44/2021;

rilevato che:
– A.DD. e R.E.M. proponevano tempestivo reclamo, ribadendo le precedenti doglianze e lamentando la contraddittorietà dell’ordinanza in punto alla questione dell’applicazione del D.L. n. 44/2021 (ora L. n. 76/2021); esse, infine, dichiaravano di rinunciare alla domanda di risarcimento danni.

1. Sul periculum in mora
considerato che:
– è incontroverso in atti che: a) le ricorrenti sono dipendenti della Cooperativa G. e lavorano presso la Casa di Residenza per Anziani “Gu.” di Modena con mansioni di fisioterapista; b) le due lavoratrici non si sono sottoposte al trattamento sanitario della vaccinazione contro il virus Sars-Cov-2; c) con provvedimento del 27.01.2021 la cooperativa G. ha disposto la sospensione cautelativa dal lavoro e dalla retribuzione delle ricorrenti (cfr. doc.ti 1,2, ricorrenti); d) la datrice di lavoro non dispone di posti liberi e strutture aziendali ove collocare le lavoratrici non vaccinate, né la stessa è in grado di affidare mansioni che non prevedano contatti con l’utenza; e) le reclamanti non hanno documentato infermità o condizioni cliniche ostative all’inoculazione del vaccino;

considerato che:
– in tema di tutela cautelare atipica, il provvedimento d’urgenza richiesto dal lavoratore ex art. 700 c.p.c. presuppone che ricorrano congiuntamente i requisiti del cd. fumus boni iuris, ossia l’evidente fondatezza della pretesa e del periculum in mora, costituito dal fondato motivo di temere che durante il tempo occorrente per far valere il diritto in via ordinaria, questo sia minacciato da un pregiudizio imminente e irreparabile, e dunque non ristorabile per equivalente. Il provvedimento dev’essere rifiutato allorquando manchi anche uno solo dei predetti requisiti;
– il pregiudizio irreparabile, richiesto dall’art. 700 c.p.c., deve essere inteso non solo nel senso di irreversibilità del danno alla situazione soggettiva di cui si invoca la cautela ma anche come insuscettibilità di ottenere tutela piena ed effettiva della situazione medesima all’esito del giudizio di merito. Tale requisito non può ricorrere con riferimento ai diritti derivanti dai rapporti obbligatori, essendo questi per loro natura suscettibili in ogni caso di riparazione economica. L’esistenza del periculum in mora “deve essere accertata caso per caso in relazione all’effettiva situazione socio economica del “lavoratore”, talché il ricorrente è tenuto ad allegare e provare circostanze (in ordine alla sua situazione familiare, alla necessità di affrontare spese indilazionabili, alla compromissione del suo equilibrio psico fisico) dalle quali emerga che la perdita del posto di lavoro o la mancata assunzione – e quindi la conseguente perdita (o mancata acquisizione) della retribuzione – possa configurarsi come fonte di pregiudizio irreparabile, così da permettere alla controparte l’esercizio di un’effettiva difesa ed al giudice di operare una verifica finalizzata alla tutela di un pregiudizio concretamente e non teoricamente irrimediabile, non potendo il “periculum in mora” reputarsi esistente “in re ipsa” neppure nel fatto stesso della disoccupazione” (Tribunale S. Maria Capua V., sez. lav., 13/05/2010);
– la mera perdita della retribuzione non concretizza di per sé il pregiudizio imminente ed irreparabile di cui all’art. 700 c.p.c., trattandosi di danno sempre risarcibile ex post. Siffatto presupposto si realizza, per contro, allorquando la perdita della fonte di reddito incida su diritti essenziali del lavoratore, tali da richiedere un immediato soddisfacimento, quali il diritto ad un’esistenza libera e dignitosa, il diritto alla salute ovvero altri diritti insuscettibili di risarcimento per equivalente, come, ad esempio, il diritto alla formazione, all’elevazione professionale o all’immagine. Ne discende che il lavoratore che agisce in via d’urgenza deve allegare le circostanze di fatto in relazione alle quali il provvedimento datoriale produce – in concreto – effetti lesivi di carattere irreparabile che non possono reputarsi insiti nella mera circostanza della perdita della retribuzione.

rilevato che:
– parte ricorrente afferma che “nel caso che ci occupa è pienamente integrata la lesione del diritto al lavoro quale effetto della sospensione illegittima e contra legem a cui si lega il venir meno della retribuzione che ha privato le reclamanti di una fonte importante di sostentamento per la loro famiglia. […] Dalla data della sospensione (27/01/2021) ad oggi, le reclamanti sono state private di quattro mesi di retribuzione: 4 mesi che hanno inciso e incideranno negativamente anche nella loro sfera patrimoniale. Privare la loro famiglia di una fondamentale fonte di reddito è motivo di pregiudizio sia imminente sia irreparabile. Il periculum in mora, nel caso di perdita della retribuzione va considerato in re ipsa”;

ritenuto che:
– l’allegazione attorea è lacunosa. La documentazione versata in atti non consente di ricostruire la situazione patrimoniale e reddituale del nucleo familiare delle due lavoratrici. Esse hanno dichiarato che le rispettive famiglie sono state private “di una fondamentale fonte di reddito” ma non vi è prova in atti della retribuzione mensile percepita dai congiunti. Non sono state prodotte le attestazioni ISEE e le dichiarazioni dei redditi dei componenti della famiglia, né documentazione equipollente (es. buste paga) comprovante il reddito complessivo del nucleo famigliare o la disponibilità di risorse economiche idonee a garantire una vita dignitosa. E’ quindi impossibile verificare se il provvedimento datoriale abbia creato una situazione di indigenza economica, impedendo alle ricorrenti di far fronte ai bisogni della vita quotidiana, propri e dei componenti del nucleo familiare.
Non vi è neppure la prova della lesione irreversibile di un diritto di natura non patrimoniale. Il pregiudizio deve essere connotato dalla irreperabilità e non può ritenersi in re ipsa per il solo fatto dell’interruzione temporanea della prestazione lavorativa. E’ necessario che la sospensione dal lavoro determina una compromissione irreversibile di posizioni soggettive di carattere assoluto, con ripercussioni negative nella sfera personale e psico-fisica del lavoratore. Difetta l’allegazione dei danni alla sfera professionale, in termini di mancata progressione di carriera o di dequalificazione professionale, correlati alla temporanea inibizione all’espletamento delle mansioni di fisioterapista.
La carenza del periculum in mora conduce al rigetto del ricorso, venendo meno uno dei requisiti della tutela invocata.

2. Sul fumus boni iuris
ritenuto che:
– si appalesa insussistente anche il requisito del fumus boni iuris. Il Collegio condivide la ricostruzione sistematica proposta dal giudice di prime cure, rispondente ad un ragionevole ed equo contemperamento dei contrapposti interessi, tutti di rilevanza costituzionale.
Nell’ordinanza reclamata si evidenzia chiaramente come la determinazione datoriale non abbia in alcun modo conculcato il diritto delle ricorrenti di rifiutare la somministrazione del vaccino anti Sars Covid-2. Il diritto alla libertà di autodeterminazione, che trova copertura costituzionale negli artt. 2 e 32, deve essere bilanciato con altri diritti di rilevanza costituzionale. L’inserimento del lavoratore nel contesto sociale – id est microcosmo lavorativo – impone un bilanciamento con il diritto alla salute dei pazienti della struttura sanitaria (soggetti fragili, con pregresse e invalidanti patologie) e degli altri dipendenti, nonché con il principio di libera iniziativa economica ex art. 41 Cost. La Corte Costituzionale ha confermato la natura ambivalente della tutela costituzionale della salute, da una lato quale diritto all’autodeterminazione del singolo e dall’altro quale interesse della collettività: “l’art. 32 Cost. postula il necessario contemperamento del diritto alla salute del singolo (anche nel suo contenuto di libertà di cura) con il coesistente e reciproco diritto degli altri e con l’interesse della collettività (da ultimo sentenza n. 268 del 2017) […] Dunque, i valori costituzionali coinvolti nella problematica delle vaccinazioni sono molteplici e implicano, oltre alla libertà di autodeterminazione individuale nelle scelte inerenti alle cure sanitarie e la tutela della salute individuale e collettiva (tutelate dall’art. 32 Cost.)” (Sent. n. 5/2018, analogamente Sent. n. 267/2017); analogamente Sent. n. 258/1994: “Tali considerazioni meritano attenta riflessione ma non possono essere correttamente apprezzate se non in necessario bilanciamento con la considerazione anche del parallelo profilo che concerne la salvaguardia del valore (compresente come detto nel precetto costituzionale evocato) della salute collettiva, alla cui tutela – oltre che, (non va dimenticato) a tutela della salute dell’individuo stesso – sono finalizzate le prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie.”
A fronte del principio di solidarietà collettiva, gravante sulla generalità dei consociati (compresi i lavoratori), deve ritenersi legittima la scelta datoriale che, nel contemperare i suddetti principi, disponga la temporanea sospensione dal lavoro e dalla retribuzione del dipendente, in luogo dell’interruzione del rapporto di lavoro (tutelato dall’art. 4 Cost.), onde preservare l’incolumità degli utenti della struttura sanitaria e del personale dipendente (compresa la salute del lavoratore attinto dal provvedimento di sospensione). Trattasi di misura connotata da una evidente finalità precauzionale, in quanto diretta a prevenire la diffusione del contagio all’interno della RSA. Il datore di lavoro si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali. L’art. 2087 cod. civ., quale diretta estrinsecazione dell’art. 32 Cost., impone al datore di lavoro di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che, secondo la migliore scienza ed esperienza, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica del prestatore di lavoro. Allo stato, la vaccinazione contro il Covid-19 costituisce la misura più idonea ad evitare, in modo statisticamente apprezzabile, il rischio di trasmissione della malattia e dell’infezione all’interno dell’azienda.
La direttiva UE n. 2020/739 del 03.06.2020 (recepita con l’art. 4, D.L. n. 125/2020, conv. dalla L. n. 159/2020) ha incluso il Covid-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche nell’ambiente di lavoro, estendendo le misure di prevenzione previste dalla direttiva 2000/54/CE, recepita dal D. Leg. n. 81/2008. La disciplina emergenziale ha qualificato come infortunio il contagio da Covid nei luoghi di lavoro (art. 42, comma 2, D.L. n. 18/2020), prevedendo una presunzione semplice di origine professionale per gli operatori sanitari, in ragione del rischio biologico specifico e del costante contatto con l’utenza (cfr. Circolare INAIL 13/2020). Anche il Piano vaccinale conferma che gli ospiti delle residenze sanitarie assistenziali “sono ad alto rischio di malattia grave a causa dell’età avanzata, la presenza di molteplici coomorbilità”, soggetti “considerati ad elevata priorità per la vaccinazione”, insieme agli operatori sanitari e sociosanitari.
La mancata vaccinazione, pur non assumendo rilievo disciplinare, comporta conseguenze in ordine alla valutazione oggettiva dell’idoneità alle mansioni. In ragione della tipologia delle mansioni espletate (cura e assistenza a persone anziane e con molteplici patologie) e della specificità del contesto lavorativo e dell’utenza della RSA, è possibile sostenere che l’assolvimento dell’obbligo vaccinale inerisca alle mansioni del personale sanitario. Il rifiuto della somministrazione, non giustificato da cause di esenzione e da specifiche condizioni cliniche, costituisce impedimento di carattere oggettivo all’espletamento della prestazione lavorativa. Tale opzione esegetica è avallata dallo jus superveniens, poiché l’art. 4, comma 1 del D.L. n. 44/2021 (conv. L n. 76/2021) stabilisce che “La vaccinazione costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative rese dai soggetti obbligati”. La novella legislativa (obbligo legale di vaccinazione e sospensione dalla retribuzione in caso impossibilità di repechage) corrobora, sul piano meramente interpretativo, la ricostruzione sistematica testé esposta. La disciplina del citato D.L. non è applicabile al caso di specie, perché successiva all’adozione del provvedimento di sospensione qui contestato. La legge n. 76/2021 non è retroattiva, sicché la fattispecie in esame resta assoggettata al principio tempus regit actum. Vanno quindi respinte tutte le doglianze relative alla mancata adozione – e violazione – della procedura amministrativa prevista dal citato art. 4, affidata ad una apposita autorità pubblica (Azienda sanitaria locale). Né si ravvisano violazioni della privacy, atteso che le ricorrenti hanno restituito alla cooperativa il modulo del consenso informato, “sottoscrivendo il diniego” alla vaccinazione, come dalle stesse riconosciuto a pagina 3 del ricorso ex art. 700 c.p.c. (punto n. 6).
L’efficacia del vaccino anti-Covid è attestata dalla normativa primaria (art. 1, comma 457, L. n. 178/2020) e dal Piano strategico nazionale adottato con Decreto del ministro della Salute del 02.01.2021. La profilassi vaccinale, infatti, viene considerata dal legislatore e dalle autorità sanitarie efficace e fondamentale misura di contenimento del contagio. E’ fatto notorio che la vaccinazione per cui è causa costituisce strumento idoneo ad evitare l’evoluzione della malattia. Nel rapporto del Gruppo di lavoro dell’ISS si legge: “Gli studi clinici condotti finora hanno permesso di dimostrare l’efficacia dei vaccini nella prevenzione delle forme clinicamente manifeste di COVID-19, anche se la protezione, come per molti altri vaccini, non è del 100%. Inoltre, non è ancora noto quanto i vaccini proteggano le persone vaccinate anche dall’acquisizione dell’infezione. È possibile, infatti, che la vaccinazione non protegga altrettanto bene nei confronti della malattia asintomatica (infezione) e che, quindi, i soggetti vaccinati possano ancora acquisire SARS-CoV-2, non presentare sintomi e trasmettere l’infezione ad altri soggetti. Ciononostante, è noto che la capacità di trasmissione da parte di soggetti asintomatici è inferiore rispetto a quella di soggetti con sintomi, in particolare se di tipo respiratorio” (cfr. pag. 11; doc. 12 ricorrente).
Le autorità regolatorie hanno autorizzato la somministrazione vaccinale per larghe fasce di popolazione, circostanza che esclude l’asserita natura sperimentale del vaccino anti-Covid. Allo stato non vi sono evidenze scientifiche che comprovino l’inadeguatezza dei vaccini attualmente in uso e il rischio di danni irreversibili a lungo termine. Le reazioni avverse più frequenti (dolore in sede di iniezione, stanchezza, cefalea, mialgia e brividi) sono generalmente di lieve o moderata intensità e si risolvono entro pochi giorni dalla vaccinazione (cfr. doc. 11 ricorrente; caratteristiche vaccino Pfizer Biontech).
Per tutte le ragioni esposte deve essere rigettato il ricorso di A.DD. e R.E.M. .

3. Sulle spese di lite
La novità delle questioni affrontate e le incertezze interpretative giustificano la compensazione integrale delle spese di lite, ai sensi dell’art. 92 c.p.c.

P.Q.M.

1) RIGETTA il reclamo;
2) DICHIARA integralmente compensate le spese di lite.

Modena, 23 luglio 2021
Il Giudice Estensore Il Presidente
Dott. Vincenzo Conte Dott.ssa Emilia Salvatore


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 04/05/2021) 21/07/2021, n. 20766

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8619-2014 proposto da:

CINQUE TERRE NEL SOLE DI G.A. & C SAS, elettivamente domiciliato in ROMA, L.GO MESSICO 7, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO TEDESCHINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANIELE GRANARA;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA NORD SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli, avvocati ERSILIO GAVINO e GIOVANNI CALISI;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI GENOVA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 61/2013 della COMM.TRIB.REG.LIGURIA, depositata il 26/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE MATTEIS STANISLAO, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
CHE:

1. La società “Cinque Terre nel Sole” s.a.s di G.A. & C”, ricorre sulla base di cinque motivi, illustrati nelle memorie difensive, per la cassazione della sentenza n. 61/2913, depositata il 28.09.2013, con la quale la CTR della Liguria, nel confermare la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso della società, rigettava il gravame proposto da quest’ultima, confermando la legittimità della cartella emessa, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 36 bis per il recupero dell’Iva, anche se non preceduta dalla comunicazione dell’esito della liquidazione, nonchè la tempestività della notifica della cartella al coobbligato, cessionario dell’azienda, la ritualità della notifica disposta a mezzo posta ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 e la regolarità della cartella esattoriale sebbene priva della sottoscrizione del responsabile, in quanto emessa in epoca antecedente alla entrata in vigore della L. n. 31 del 2008. Con successivo ricorso impugnava l’iscrizione di ipoteca conseguente all’omessa opposizione della cartella da parte della società M.H..

Sia l’ente concessionario che l’Agenzia delle Entrate hanno replicato con controricorso.

La concessionaria ha depositato memorie illustrative in prossimità dell’udienza. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
CHE:

2. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 bis e 60 nonchè della L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 7; per avere i giudici regionali ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento anche se non preceduto dalla notifica della comunicazione dell’esito della liquidazione nè alla cedente (società cessata il 19.10.2019) nè ad essa, atteso che, ancorchè si trattasse di controllo automatizzato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis troverebbe applicazione il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis il quale prevede che, se dai controlli automatici emerge un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione, l’esito della liquidazione è comunicato ai sensi di cui all’art. 80, comma 6, al contribuente; ribadisce che il comma 6 stabilisce, a sua volta, che “l’Ufficio prima della iscrizione a ruolo invita il contribuente a versare le somme dovute entro trenta giorni dal ricevimento dell’avviso, con applicazione della sopra tassa del 30% della somma non versta o versta in meno”. Detta disposizione, ad avviso della contribuente, trova conferma nella L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, che impone all’amministrazione finanziaria, in caso di incertezze su aspetti rilevanti delle dichiarazioni, l’obbligo di invitare il contribuente a fornire i chiarimenti necessari.

Sostiene che il preventivo invito le avrebbe consentito di predisporre difese in relazione all’erroneo comportamento della società Hotel H di M.H. & C s.a.s. (predisposizione della dichiarazione in fase di cessazione della società) e sia della ditta individuale di H. M. (presentazione della dichiarazione Iva senza il modulo relativo alla società estinta), comè si inferirebbe dalle controdeduzioni dell’Agenzia delle Entrate depositate nel giudizio di merito.

Deduce che, a tal proposito, aveva dedotto l’omessa motivazione della cartella a cui non risultava allegato l’atto richiamato, vale a dire la dichiarazione IVA della cedente e che, se avesse ricevuto la dovuta comunicazione, avrebbe provveduto alla rettifica della dichiarazione Iva delle società cedenti con compensazione del debito IVA della società con il credito IVA maturato dalla ditta individuale, azzerando quasi totalmente il debito iscritto a ruolo.

Ribadisce, altresì, che l’incertezza che impone la notifica della previa comunicazione può riguardare anche l’eventuale risultanza di un omesso pagamento (pag. 29 del ricorso).

3. La seconda censura prospetta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 bis e 60, della L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 7 e degli artt. 1310 e 2064 c.c.; per avere i giudici regionali affermato la rilevanza degli effetti della notifica di un atto impeditivo della decadenza anche nei confronti del coobbligato in solido dell’obbligazione tributaria. Rileva la società ricorrente l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di riscossione in quanto la cartella di pagamento, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 25 deve essere notificata a pena di decadenza entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con la conseguenza che la notifica della cartella doveva essere effettuata entro il 31 dicembre 2005, mentre quella notificata alla società “Cinque Terre nel sole” risaliva al dicembre 2010. Al riguardo, la società contribuente assume che alcuna disposizione tributaria prevede una deroga alle norme civilistiche, con la conseguenza che l’ente finanziario non può esigere dalla cessionaria i debiti tributari della cedente notificando la cartella solo a quest’ultima.

4.Insiste, con il terzo motivo, nel censurare la L. n. 212 del 2000, art. 7 la ricorrente insiste nell’affermare l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per la carente indicazione del responsabile del procedimento sia nella cartella che nella iscrizione ipotecaria.

5. Il quarto mezzo prospetta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 per avere la CTR affermato la legittimità della notifica dell’atto impositivo a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento direttamente da parte del concessionario per la riscossione; dovendo, al contrario, il concessionario predisporre le operazioni notificatorie attraverso i soggetti abilitati, i messi comunali e gli ufficiali della riscossione.

6.Con l’ultima censura che deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, la contribuente contesta l’affermazione del giudicante secondo il quale l’appello era stato formulato genericamente, avendo essa richiamata sia il ricorso introduttivo che le memorie depositate nel primo grado e “tenendo conto delle osservazioni esposte sulla base delle ragioni e dei motivi di opposizione”.

7. Il primo motivo è destituito di fondamento.

Dalla sentenza impugnata risulta l’esclusione dell’obbligo della previa comunicazione dell’esito della liquidazione per il caso di recupero di somme non versate sulla base della dichiarazione del contribuente, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis sostenendo che la L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, fa riferimento alle sole ipotesi in cui sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, con ciò escludendo che, nel caso di specie, si vertesse in detta ultima fattispecie. Il che trova conferma nell’affermazione della stessa contribuente che si rinviene a pag. 29 del ricorso laddove si afferma la necessità della previa comunicazione anche nelle ipotesi in cui difetti l’incertezza nella dichiarazione IVA. Detto assunto trova riscontro alcuna nella giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo la quale “la notifica della cartella di pagamento a seguito di controllo automatizzato è legittima anche se non preceduta dalla comunicazione del c.d. “avviso bonario” D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, comma 3, nel caso in cui non vengano riscontrate irregolarità nella dichiarazione; nè il contraddittorio endoprocedimentale è invariabilmente imposto dalla L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, il quale lo prevede soltanto quando sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, situazione, quest’ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti al citato art. 36 bis, che implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo” (Cass. 33344/2019; n. 17479 del 28/06/2019; n. 8619/2018; n. 4360/2017; n. 11292 del 31/05/2016; n. 3154 del 2015; n. 8342 del 2012).

Peraltro, l’allegazione secondo la quale sarebbe mancata la dichiarazione Iva (in realtà non risultante in modo chiaro dalla sentenza impugnata), non trova conforto nella giurisprudenza di questa Corte laddove afferma che “In caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è consentita l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e la consequenziale emissione di cartella di pagamento, potendo il fisco operare, con procedure automatizzate, un controllo formale che non tocchi la posizione sostanziale della parte contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi nonchè da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi dell’anagrafe tributaria, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54-bis e 60” (v. S.U.. n. 17758/2016; Cass. n. 4392/2018).

8. Parimenti destituito di fondamento è il secondo motivo di ricorso.

E’ orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità quello che alla stregua della disciplina dettata dal codice civile con riguardo alla solidarietà fra coobbligati, applicabile – in mancanza di specifiche deroghe di legge – anche alla solidarietà tra debitori d’imposta, l’avviso di accertamento (ovvero l’atto impositivo) validamente notificato solo ad alcuni condebitori spiega, nei loro confronti, tutti gli effetti che gli sono propri, mentre, nei rapporti tra l’Amministrazione finanziaria e gli altri condebitori, cui non sia stato notificato o sia stato invalidamente notificato, lo stesso, benchè inidoneo a produrre effetti che possano comportare pregiudizio di posizioni soggettive dei contribuenti, quali il decorso dei termini di decadenza per insorgere avverso l’accertamento medesimo, determina pur sempre l’effetto conservativo d’impedire la decadenza per l’Amministrazione dal diritto all’accertamento, consentendole di procedere alla notifica, o alla sua rinnovazione, anche dopo lo spirare del termine all’uopo stabilito(v. Cass. n. 2545/2018; n. 13248 del 25/05/2017; n. 1463/2016; N. 16945 del 2008).

Pur riferendosi all’ipotesi dell’emanazione di un atto impositivo, il principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale è evidentemente riferibile anche alla diversa ipotesi, quale quella in esame, del termine decadenziale previsto per l’emissione della cartella esattoriale dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25.

Evidente ne è infatti l’eadem ratio legis et juris. Pacifico e comunque accertato in fatto dal giudice tributario di appello, che nel caso di specie il termine decadenziale è stato rispettato nei confronti dell’obbligato principale. Del resto nell’analoga fattispecie concreta della dichiarazione congiunta dei redditi dei coniugi, questa Corte ha già avuto modo di affermare, conformemente, l’equiparabilità dell’atto della riscossione a quello impositivo rispetto al termine decadenziale, nello specifico senso – che qui rileva – della sufficienza anche ad uno soltanto dei coobbligati solidali, della notifica dell’uno ovvero dell’altro entro tale termine, trovando applicazione l’art. 1310 c.c., comma 1, ancorchè si tratti di decadenza e non di prescrizione (v. Sez. 5, n. 27005 del 21/12/2007 e n. 1463 del 27/01/2016). Vero è tuttavia che altra giurisprudenza di questa stessa Corte in campo civilistico ha diversamente affermato che “In tema di solidarietà tra coobbligati, dell’art. 1310 c.c., il comma 1 dettato in materia di prescrizione, non è applicabile anche in tema di decadenza, non solo per la chiarezza del testo normativo, riferito solo alla prescrizione, ma anche per la profonda diversità dei due istituti” (Sez. 2, Sentenza n. 16945 del 20/06/2008, Rv. 604067 – 01; conforme, Sez. 2, Sentenza n. 8288 del 19/06/2000, Rv. 537735 – 01).

Vi è però da tener conto della diversità e della specialità della disciplina tributaria, in particolare procedimentale, trattandosi di attività di diritto pubblico (dunque ben diversa da quella di diritto privato sicuramente de-procedimentalizzata) regolata da sue proprie norme, quali appunto quella che risulta applicabile nel caso di specie (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 1), secondo l’interpretazione che sopra si è profilata, ovvero quella analoga in materia sanzionatoria di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, comma 2.

Pertanto, la tempestiva notifica della cartella di pagamento nei confronti di uno dei condebitori, sebbene inidonea a pregiudicare le posizioni soggettive degli altri obbligati in solido, impedisce che si produca nei confronti degli stessi la decadenza di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 in quanto, in materia tributaria, a differenza di quella civile, trova applicazione, anche in detta ipotesi, l’art. 1310 c.c., comma 1, sebbene dettato in tema di prescrizione, in ragione della specialità della relativa disciplina procedimentale, trattandosi di attività di diritto pubblico regolata da norme proprie.

Infine, in caso di cessione di azienda, l’art. 2650 c.c., comma 2, che prevede che dei debiti dell’azienda risponda anche l’acquirente, purchè essi risultino dai libri contabili obbligatori – non trova applicazione con riferimento ai debiti tributari, atteso che, data la loro particolare natura, i medesimi non sono equiparabili a quelli di diritto comune. Ne discende che l’acquirente dell’azienda non può sottrarsi alla responsabilità per i debiti inerenti all’azienda ceduta, deducendo che i medesimi non siano stati iscritti nei registri contabili obbligatori (Cass. n. 16473/2008).

9. La terza censura è infondata.

Giova sottolineare come questa Corte si è assestata sul principio secondo il quale “la cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1 giugno 2008, non è affetta da nullità, atteso che il D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, – convertito dalla L. n. 31 del 2008 – ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 riferite ai ruoli consegnati a decorrere dalla predetta data” (ex plurimus, Cass. n. 27856/2018) Se il medesimo vizio è riferito non già solo alla cartella di pagamento, ma altresì ad atto affatto diverso, segnatamente, alla iscrizione ipotecaria notificata dalla concessionaria, peraltro in epoca anteriore al 1 giugno 2008, non è consentito estendere il disposto dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, conv., con modif., in L. n. 31 del 2008 ad atti diversi dalle cartelle; pertanto, non trova alcuna base giuridica la proposta estensione dell’obbligo in questione ad un atto diverso, quale è l’iscrizione ipotecaria, funzionalmente distinto dalla cartella di pagamento, disciplinata dal D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 26 atto quest’ultimo destinato a portare a conoscenza del contribuente il ruolo, limitatamente alla partita iscritta a suo carico, e con il quale si avanza la pretesa impositiva (v. Cass. n. 23672/2018).

L’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’agente della riscossione non è richiesta dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 (cd. Statuto del contribuente) a pena di nullità, in quanto tale sanzione è stata introdotta per le sole cartelle di pagamento dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, conv., con modif., in L. n. 31 del 2008 (Cass. n. 1150/2019; n. 11856/2017).

10. Il quarto mezzo non merita accoglimento.

In relazione alla notifica a mezzo del servizio postale, la Suprema Corte – con sentenza della Sezione tributaria n. 16949/2014 – ha ribadito che la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica, rispondendo tale soluzione alla previsione di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 che prescrive altresì l’onere per il concessionario di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione di notifica o l’avviso di ricevimento, con l’obbligo di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione(v, Cass. n. 9240/2019).

Quando il predetto ufficio si avvale di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598/2010; n. 911/2012; n. 19771/2013; 22151 del 2013; n. 16949/2014; n. 14146/2014; Cass. n. 3254/2016; 7184/2016; Cass. n. 10232/2016; n. 12083 del 2016 Cass. n. 14501/2016, Cass. n. 1304/2017; n. 704/2017;; n. 19795 e n. 14501/2017; n. 8293/2018 v. anche Corte costituzionale del 23 luglio 2018 n. 175 che, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, – Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito – ha affermato la legittimità della notificazione diretta, da parte dell’agente della riscossione, della cartella di pagamento mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento).

Da tale impostazione, la stessa Corte fa discendere la conseguenza che, in tutti i casi di notifica postale diretta di un atto tributario, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento, e quindi in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico; l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione della notifica, anche laddove eseguita mediante consegna a persona diversa dal diretto interessato, ma comunque abilitata alla ricezione per conto di questi, si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal consegnatario.

11. L’ultimo mezzo non supera il vaglio di ammissibilità, in assenza di trascrizione dei motivi dell’appello ovvero della localizzazione dell’atto di gravame nel fascicolo del giudizio di merito, non essendo idonea a confutare la statuizione del giudice di appello la mera affermazione della ricorrente di aver richiamato le attività difensive del primo grado (Cass. n. 122664/2012) In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla refusione delle spese sostenute dalla concessionaria che liquida in Euro 7.000,00, oltre rimborso forfettario, Euro 200,00 per esborsi, e accessori come per legge; Euro 6.000,00 in favore dell’Agenzia delle Entrate, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, all’udienza tenuta mediante collegamento da remoto, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, conv. con modif. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, il 4 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021


Notifica atti presso il domicilio fiscale dell’imprenditore individuale

La Corte Suprema di cassazione in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati a un’impresa individuale. Si ribadisce che l’obbligo tributario fa capo alla persona fisica dell’imprenditore
Nel caso di impresa individuale, non può essere riconosciuta alcuna soggettività, o autonoma imputabilità, diversa da quella del suo imprenditore, atteso che essa si identifica con il suo titolare sia sotto l’aspetto sostanziale sia sotto quello processuale.
L’obbligazione tributaria, quindi, fa capo alla persona fisica dell’imprenditore, destinatario della pretesa fiscale.
Ne discende che la notificazione a mezzo posta di tutti gli eventuali avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, va compiuta nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditore. Questo, salvo il caso di consegna in mani proprie.

E’ quanto ricordato dalla Suprema Corte di Cassazione, sezione tributaria civile, nel testo della sentenza n. 20650 depositata il 20 luglio 2021.


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 09-06-2021) 20-07-2021, n. 20650

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176;

sul ricorso iscritto al n. 25933/2012 R.G. proposto da:

G.F., rappresentata e difesa dall’Avv. Cristiana Toscano e dall’Avv. Salvatore Coletta, con domicilio eletto in Roma, viale Mazzini, n. 114/B, presso lo studio di quest’ultimo;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, con sede in (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione staccata di Latina, n. 130/39/12 depositata il 2 aprile 2012;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 9 giugno 2021 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate notificò a G.F., titolare di un’impresa individuale di “abbigliamento fascia fine/lusso”, un avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2004, con il quale, sulla base dell’applicazione degli studi di settore di cui al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, accertò maggiori ricavi per Euro 69.409,00, con i conseguenti maggior reddito, ai fini dell’IRES, maggior valore della produzione netta, ai fini dell’IRAP, e maggior volume d’affari, ai fini dell’IVA, oltre agli interessi e alle correlative sanzioni.

2. L’avviso di accertamento fu impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Latina (hinc anche: “CTP”), che rigettò il ricorso della società contribuente.

3. Avverso tale pronuncia, G.F. propose appello alla Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione staccata di Latina (hinc anche: “CTR”), deducendo, tra l’altro, che “la notifica dell’invito (a comparire) avrebbe dovuto essere eseguita non presso la sua residenza (per altro errata, via (OMISSIS) snc, invece che via (OMISSIS)) ma in via (OMISSIS) sede dell’impresa” (così la sentenza impugnata).

Nelle controdeduzioni, l’Agenzia delle entrate, “quanto alla notifica dell’invito, ne affermava la regolarità avendo provveduto all’invio dello stesso con raccomandata del 3.4.09 (al domicilio fiscale della ricorrente in base al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58), che l’addetto alla consegna, vista la temporanea assenza della contribuente, aveva provveduto ad inserire nella cassetta della posta e ad inviare comunicazione di avvenuto deposito con raccomandata (allegata) del 10.4.09 consegnata dal portalettere nella stessa data” (così la sentenza impugnata).

4. La CTR rigettò l’appello della contribuente con la motivazione che “(I)l collegio condivide la tesi giurisprudenziale e anche dottrinaria che attribuisce agli studi di settore natura di elementi atti a fondare presunzioni semplici, con la conseguenza che il mero scostamento del reddito dichiarato da quello risultante dagli studi di settore non ne consente l’automatica applicazione; del resto, sulla questione all’esame anche le SS. UU. della Corte di Cassazione (Sentenza n. 26635 del 18. 12.2009) hanno ritenuto che la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore e dei parametri è basata su “presunzioni semplici”, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata “ex lege” in relazione ai soli risultati di tali strumenti. Tuttavia, evidenziato ciò, nella fattispecie non sono riscontrabili illegittimità di sorta; l’accertamento è infatti basato su elementi di notevole rilevanza, e pertanto non può che condividersi la sentenza impugnata e quindi la tesi esposta dai primi giudici sia in relazione alla eccepita carenza di motivazione ritenuta infondata che alla notifica dell’invito al contraddittorio in effetti eseguita correttamente al domicilio fiscale della ricorrente (via (OMISSIS) snc) come del resto indicato nella dichiarazione dei redditi, nonché, nel merito, alle varie incongruenze riscontrate e sopra specificate”.

4. Avverso tale sentenza della CTR – depositata il 2 aprile 2012 ricorre per cassazione G.F., che affida il proprio ricorso, notificato l’8/9-12 novembre 2012, a tre motivi.

5. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, notificato il 20/21 dicembre 2012.

6. Con ordinanza adottata nell’adunanza camerale del 28 marzo 2019, vista la richiesta di sospensione del giudizio avanzata, ai sensi del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6, comma 10, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136, da G.F., questa Corte sospese il giudizio fino al 10 giugno 2019, rinviando la causa a nuovo ruolo.

G.F. non risulta essersi poi avvalsa della definizione agevolata della controversia ai sensi del citato del D.L. n. 119 del 2018, art. 6.

7. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni motivate, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione della L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 3-bis, e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, comma 3, e art. 60, comma 1, “in relazione” alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, per avere la CTR ritenuto la validità della notificazione dell’invito a comparire, previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, nonostante fosse stata effettuata: a) nel domicilio fiscale della persona fisica G.F. anziché nel domicilio fiscale dell’impresa di cui essa era titolare; b) all’indirizzo del domicilio fiscale della persona fisica G.F. “in suo possesso (Via (OMISSIS))” anziché “all’indirizzo corretto (contrada (OMISSIS))”.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione dell’art. 149 cit. codice, e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, “in relazione” alla L. n. 212 del 2000, art. 6, per avere la CTR ritenuto la validità della notificazione dell’invito a comparire, previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, nonostante: a) “sulla busta presumibilmente contenente l’invito si legge solo un indirizzo incompleto (Via (OMISSIS)) ed un timbro “Atto non ritirato entro 6 mesi, che dovrebbe configurare una attestazione di compiuta giacenza, senza però menzione del compimento di tutte le prescrizioni di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, per la validità della compiuta giacenza”; b) “anche l’avviso di spedizione (CAD), compilato in modo assai criptico e senza l’osservanza delle formalità di legge porta lo stesso incompleto indirizzo e la menzione (casella barrata con crocetta) di una “immissione in cassetta dello stabile”, laddove in sito sussistono una pluralità di stabili non identificati da civici. Peraltro, non è dato di comprendere se sia stata svolta una effettiva ricerca del destinatario di altro soggetto abilitato a ricevere la notifica”.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “omessa e insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia”, segnatamente, sul “se il contraddittorio non si sia svolto a causa dei vizi di notifica dell’invito o per fatto e colpa del contribuente”, in quanto “i Giudici di appello hanno optato per la seconda ipotesi (…) senza procedere alla disamina approfondita dei lamentati vizi di notifica, senza esaminare attentamente i documenti postali prodotti e senza controllare il rispetto delle norme di legge che presiedono alla attività notificatoria in caso di notifiche a mezzo posta”.

4. Il primo motivo non è fondato sotto entrambi i profili in cui si articola.

4.1. Quanto al primo di essi (riassunto sopra sub a), questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che all’impresa individuale non può essere riconosciuta alcuna soggettività, o autonoma imputabilità, diversa da quella del suo imprenditore, in quanto essa si identifica con il suo titolare sia sotto l’aspetto sostanziale sia sotto l’aspetto processuale (Cass., 30/05/2007, n. 12757; nello stesso senso, Cass., 15/01/1981, n. 344).

Quindi, nel caso di impresa individuale, l’obbligazione tributaria fa capo alla persona fisica dell’imprenditore, che è il destinatario della pretesa fiscale (Cass., 17/04/2013, n. 9256, la quale ha anche precisato che l’obbligazione tributaria non fa capo neppure alla ditta, che è solo un elemento distintivo dell’impresa).

Da tanto discende immediatamente che – posto che, salvo il caso di consegna in mani proprie, la notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente “deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c) – nel caso di impresa individuale, poiché il destinatario della pretesa tributaria e, quindi, degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente (tra i quali l’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis), è la persona fisica dell’imprenditore, la notificazione di tutti i predetti atti deve essere fatta nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditore.

Nessun error in iudicando ha pertanto commesso la CTR nell’escludere l’invalidità della notificazione dell’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, in quanto effettuata nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditrice individuale G.F..

4.2. Quanto al secondo profilo del motivo (riassunto sopra sub b), dalla sentenza impugnata risulta che l’invito a comparire fu notificato nel domicilio fiscale della contribuente “via (OMISSIS) s.n.c. (…) come (…) indicato nella dichiarazione dei redditi”.

Tanto rilevato, nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio che, in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio, non corrisponde l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto, sicché, in caso di originaria difformità, non importa se per errore o per malizia, tra residenza anagrafica e domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, la notificazione dell’avviso di accertamento perfezionata presso quest’ultimo indirizzo (anche mediante compiuta giacenza) si deve ritenere valida (Cass., 20/05/2021, n. 13843; in senso analogo, Cass., 14/12/2016, n. 25680).

Pertanto, nessun error in iudicando ha commesso la CTR nell’escludere l’invalidità della notificazione dell’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, in quanto effettuata dall’amministrazione finanziaria presso l’indirizzo indicato dalla contribuente nella dichiarazione dei redditi.

5. Il secondo motivo è inammissibile nel primo profilo e non fondato nel secondo profilo in cui è articolato.

5.1. Il primo profilo (riassunto sopra sub a) è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Questa Corte ha affermato il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, ove sia contestata la rituale notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, “per il rispetto del principio di autosufficienza, è necessaria la trascrizione integrale delle retate e degli atti relativi al procedimento notificatorio, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza in base alla sola lettura del ricorso, senza necessità di accedere a fonti esterne allo stesso” (Cass., 30/11/2018, n. 31038; in senso analogo, tra le tante, Cass., 28/02/2017, n. 5185, 05/11/2019, n. 28483, 13/11/2019, n. 29404).

Nel caso di specie, premesso che, nella notificazione a mezzo posta, l’attestazione della sussistenza delle condizioni di legge per la notificazione “per compiuta giacenza” – in particolare: temporanea assenza del destinatario e mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere il piego – è fatta dall’ufficiale postale non sulla busta contenente l’atto da notificare ma sull’avviso di ricevimento del piego raccomandato (L. n. 890 del 1982, art. 8, nel testo applicabile ratione temporis), la ricorrente non ha adempiuto l’onere nè di trascrivere tale avviso di ricevimento nè di allegarlo al ricorso (ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

5.2. Quanto al secondo profilo del motivo (riassunto sopra sub b), l’infondatezza di esso discende dal fatto che, sull’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cosiddetta CAD) – depositato dalla ricorrente insieme con il ricorso vi è l’attestazione dell’ufficiale postale sia della temporanea assenza del destinatario, sia della mancanza di altre persone abilitate a ricevere il piego sia, infine, dell’immissione della comunicazione nella cassetta della corrispondenza dello stabile di “via (OMISSIS)”.

Tenuto conto che, da un lato, come specificato nella sentenza impugnata, la contribuente, nella dichiarazione dei redditi, aveva indicato quale proprio indirizzo di domicilio fiscale “via (OMISSIS) s.n.c.” – e, quindi, un indirizzo privo di numero civico – e, dall’altro lato, che l’ufficiale postale, avendo attestato la temporanea assenza della destinataria, aveva necessariamente individuato la sua abitazione (ancorché priva del numero civico), ne discende che il procedimento di notificazione dell’invito a comparire si deve ritenere regolarmente perfezionato con la prova del ricevimento della CAD. 6. Il terzo motivo è inammissibile.

Premesso che al presente ricorso si applica l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo di tale articolo sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, questa Corte ha chiarito che il “fatto”, controverso e decisivo per il giudizio, ivi menzionato deve essere inteso come “un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico” e non è assimilabile, in alcun modo, a una “questione” o una “argomentazione” (Cass., 08/10/2014, n. 21152, 03/10/2018, n. 24035).

Nel caso di specie, la ricorrente ha dedotto l’asserita omissione o insufficienza della motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla valutazione, compiuta dalla CTR, circa la validità o no della notificazione dell’invito a comparire, cioè circa un elemento che, palesemente, non concreta un “fatto” nel senso storico-naturalistico precisato dal ricordato principio di diritto, bensì una questione giuridica (già proposta, sotto il profilo della violazione di legge, con i due precedenti motivi).

7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

8. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e sono liquidate come indicato in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 30-04-2021) 20-07-2021, n. 20736

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3815/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

M.G., rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Russo ed elettivamente domiciliato in Roma, via Aureliana n. 25, presso l’avv. Arianna Scione e l’avv. Antonia Scione;

– controricorrente –

Per la cassazione della sentenza della C.T.R. per la Campania, n. 6132/28/14, depositata in data il 17/6/2014 e non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30 aprile 2021 dal relatore Dott.ssa Valeria Pirari.

Svolgimento del processo
che:

1. In seguito ad accertamento nei confronti di M.G. relativo all’anno di imposta 2005, divenuto definitivo per mancata impugnazione, fu emessa nei confronti del predetto una cartella di pagamento, notificatagli il 8/6/2011, con la quale gli fu chiesto il pagamento della somma iscritta a ruolo.

Impugnato il predetto atto dal contribuente, che deduceva di non avere mai ricevuto la notifica dell’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2005 in essa indicato ed eccepiva la prescrizione dell’azione di accertamento per essere stata detta notifica effettuata il 8/6/2011, oltre il termine di decadenza del 31/12/2010, la C.T.P. di Caserta, avendo reputato la regolarità della notifica dell’atto presupposto, rigettò il ricorso con sentenza n. 286/09/2012, depositata il 3/5/2012, che fu riformata dalla C.T.R. per la Campania, adita dallo stesso contribuente, con sentenza n. 6132/28/14, depositata il 17/6/2014.

2. Contro quest’ultima decisione, l’Agenzia delle Entrate propone dunque ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi. Il contribuente si è difeso con controricorso, illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione delle norme sulla notificazione a mezzo posta e degli artt. 2700 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto non completa la procedura di notificazione dell’avviso di accertamento per mancato deposito dell’originale della ricevuta di ritorno, senza considerare che il duplicato tiene luogo dell’originale e che l’avviso di ricevimento, parte integrante del procedimento notificatorio, è munito di fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c., in quanto avente natura di atto pubblico, sicchè la contestazione dell’attendibilità del duplicato deve avvenire mediante querela di falso.

2. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 6, introdotto dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, commi 2-quater e 2-quinques, convertito dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 139 c.p.c., comma 4, e art. 149 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere la C.T.R. fondato la nullità dell’avviso di accertamento sulla carente allegazione della ricevuta di ricezione dell’avviso spedito dall’ufficiale giudiziario, senza considerare che la comunicazione di avvenuta notifica (C.A.N.), richiesta all’agente postale che consegni il piego a persona diversa dal destinatario, è una raccomandata senza ricevuta di ritorno e che la notificazione si perfeziona con la consegna dell’atto e non con la consegna della C.A.N., essendo richiesta come formalità l’indicazione nell’avviso di ricevimento dell’atto consegnato il numero della raccomandata della comunicazione di avvenuta notifica e la data dell’invio.

3.1 I due motivi, da trattare congiuntamente in ragione della stretta connessione, sono fondati.

La C.T.R. ha infatti fondato l’accoglimento dell’appello del contribuente sulla reputata irregolarità del procedimento notificatorio dell’avviso di accertamento, costituente atto presupposto della cartella impugnata, rilevando la mancata produzione dell’originale dell’avviso di ricevimento, il carente contenuto del suo duplicato, siccome privo della sottoscrizione del ricevente e della specificazione del suo nominativo, e l’omessa allegazione dell’avvenuta ricezione dell’avviso spedito dall’Ufficiale giudiziario.

Tali argomentazioni non si confrontano però con i principi espressi da questa Corte in ordine alla prova del perfezionamento della notifica eseguita a mezzo posta, come di seguito riportati.

Va innanzitutto detto che, in tema di notifiche a mezzo posta, nell’ipotesi di smarrimento o distruzione dell’avviso di ricevimento, l’unico atto idoneo a provare l’avvenuta notificazione è, ai sensi del D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, art. 8, (non abrogato nè modificato, neanche implicitamente, a seguito dell’emenda della L. n. 890 del 1982, art. 6, introdotta dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. e, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461), il duplicato rilasciato dall’Ufficio postale, che, peraltro, non deve essere sottoscritto dalla persona alla quale il piego era stato consegnato, assumendo rilevanza il registro di consegna attestante l’avvenuta ricezione dell’avviso originario, del quale il duplicato deve essere una riproduzione fedele in quanto contenente tutte le indicazioni proprie dello stesso, compresa quella afferente al soggetto che ha ricevuto l’atto (Cass., Sez. 5, 06/06/2018, n. 14574; Cass., Sez. 3, 30/1/2019, n. 2551; Cass., Sez. 5, 15/10/2020, n. 22348), nè il nominativo del soggetto che ha ricevuto l’atto notificando, purchè il giudice, attraverso le indicazioni in esso contenute, sia posto nelle condizioni di verificare in quali esatti termini e, nel caso, a mani di quale soggetto, il recapito dell’atto si sia perfezionato (in tal senso, Cass., 30/1/2019, n. 2551), atteso che la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto, si presume iuris tantum dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica e che incombe sul destinatario, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria e, in particolare, l’inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità suindicate (Cass., Sez. 5, 30/10/2018, n. 27587).

Peraltro, tale duplicato, alla medesima stregua dell’originale ha natura di atto pubblico e, pertanto, fa piena prova ex art. 2700 c.c., in ordine alle dichiarazioni delle parti ed agli altri fatti che l’agente postale, mediante la sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento, attesta essere avvenuti in sua presenza, sicchè il destinatario che intenda contestare l’avvenuta notificazione è tenuto a proporre querela di falso nei confronti di detto atto (Cass., Sez. 5, 06/06/2018, n. 14574; Cass., Sez. 5, 15/10/2020, n. 22348).

Pertanto, alla luce di tali principi deve ritenersi erroneo il ragionamento seguito dai giudici di merito, i quali non hanno considerato nè la valenza probatoria del duplicato prodotto, nè l’irrilevanza della mancata sottoscrizione dello stesso, nè la idoneità dello sbarramento della casella dicente “incaricato” al fine di porre il giudice nelle condizioni di verificare a mani di quale soggetto la consegna del plico fosse avvenuta.

3.2 Quanto alla raccomandata c.d. “informativa”, va innanzitutto premesso come il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, sulle imposte sui redditi, a sua volta menzionato dalla normativa in materia di imposte indirette e di riscossione (così come del resto nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, in tema di processo tributario, salva la disposizione di cui all’art. 17), nel rinviare alle norme processualcivilistiche attraverso il richiamo all’art. 137 c.p.c. e ss., ad eccezione degli artt. 142, 143, 146, 150 e 151, non applicabili in ragione della specificità della materia, e salve le regole e gli adattamenti in esso previsti, consenta di ritenere operante anche per gli atti sostanziali l’art. 149 c.p.c., in tema di notificazioni mezzo del servizio postale, integrato dalle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, il cui art. 14, regola la notifica degli atti tributari sostanziali e della riscossione.

Tale rinvio fa salve, come si è detto, alcune deroghe, tra le quali spiccano sia quella sancita dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, comma 1, come modificato dalla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, secondo cui la notifica deve essere eseguita, in via preferenziale, direttamente dagli Uffici a mezzo del servizio postale e soltanto in via residuale, quando la prima risulti impossibile attraverso i canoni ordinari della notificazione, attraverso l’intermediazione dell’agente notificatore, come da regola generale, sia quella che, accanto alla tradizionale figura dell’ufficiale giudiziario, annovera, tra i soggetti che fungono da intermediari nell’attività informativa degli atti recettizi dell’Amministrazione finanziaria, i messi comunali e i messi speciali autorizzati dall’ufficio finanziario di appartenenza, i quali soli, alla stregua della lettura combinata delle norme processualcivilistiche e di quelle speciali, possono avvalersi del procedimento notificatorio tributario, essendo invece l’ufficiale giudiziario tenuto al rispetto dei principi del codice di procedura civile.

Ciò detto, va evidenziato come, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., l’Ufficiale giudiziario che non abbia potuto eseguire la consegna per irreperibilità o incapacità o rifiuto delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c., a ricevere l’atto, sia tenuto a depositarne copia nella casa del Comune in cui la notificazione deve essere eseguita, affiggendo avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e a dargliene notizia con raccomandata con avviso di ricevimento.

Quest’ultimo incombente è stato introdotto anche con riguardo alla notifica a mezzo posta dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 4, lett. c), n. 1), convertito, con modificazioni, dalla L. 14 marzo 2005, n. 80, che ha sostituito integralmente L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, i commi 2, 3 e 4, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione, pronunciata dalla Corte Cost. con la sentenza n. 346 del 1998, che aveva reputato contrastare con i principi di uguaglianza e di diritto di difesa la precedente previsione, nella parte in cui, in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario oppure per inidoneità o assenza o rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, come indicate alla medesima L., art. 7, commi 2 e 3, imponeva all’agente postale di depositare l’atto presso l’ufficio e di rilasciarne avviso mediante affissione alla porta d’ingresso o immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, senza prevedere che gli si desse anche comunicazione del tentativo di notifica mediante raccomandata con avviso di ricevimento, oltre a stabilire che, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, il piego fosse restituito al mittente dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

Questa disposizione era stata infatti considerata dalla Corte costituzionale gravemente pregiudizievole per il notificatario in quanto contrastante con i diritti di uguaglianza e di diritto di difesa, posto che egli, a causa della sua assenza dall’abitazione, azienda o ufficio, protrattasi per oltre dieci giorni o di mancanza delle persone indicate dall’art. 7, non si sarebbe più trovato nelle condizioni di ritirare il piego o comunque avrebbe versato in una situazione di notevole difficoltà nell’individuare l’atto notificatogli, diversamente da quanto previsto in caso di notificazione eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c..

Da ciò deriva, dunque, l’introduzione, nelle notifiche postali, dell’obbligo di avviso, al destinatario, del deposito dell’atto e delle formalità seguite, con l’indicazione secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2, ovvero dalla data di ritiro del piego se anteriore. Successivamente, con sentenza n. 3 del 2010, è stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale anche dell’art. 140 c.p.c., laddove, per come interpretato dal diritto vivente, prescriveva che la notifica si intendeva perfezionata con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione, essendo stato ritenuto che tale disposizione, facendo decorrere i termini per la tutela in giudizio del destinatario da un momento anteriore alla concreta conoscibilità dell’atto notificato, attuava un “non ragionevole bilanciamento tra gli interessi del notificante, su cui ormai non gravano più i rischi connessi ai tempi del procedimento notifica torio, e quelli del destinatario, in una materia nella quale le garanzie di difesa e di tutela del contraddittorio devono essere improntate a canoni di effettività e di parità, dando luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla fattispecie, normativamente assimilabile, della notificazione di atti giudiziari a mezzo posta, disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8”.

Tale intervento della Corte costituzionale ha sostanzialmente determinato un nuovo scostamento tra le due discipline, quella di cui all’art. 140 c.p.c., e quella di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, come affermato anche da questa Corte, atteso che, “mentre le notificazioni a mezzo del servizio postale si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego contenente l’atto da notificare, ove anteriore”, viceversa, l’art. 140 c.p.c., all’esito della sentenza n. 3 del 2010 della Corte cost., “fa esplicitamente coincidere tale momento con il ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare, non l’effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell’atto presso la casa comunale e a porre il destinatario in condizione di ottenere la consegna e di predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini eventualmente pendenti per la reazione giudiziale”, senza che tale difformità si esponga a dubbi di legittimità costituzionale, posto che “non è predicabile un dovere costituzionale del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili sul piano degli effetti e degli interessi della disciplina, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali (inclusa la disciplina delle notificazioni) a condizione che non siano lesi i diritti di difesa” (in questi termini Cass., Sez. 2, 4/3/2020, n. 6089).

Diversa fattispecie è quella prevista, invece, dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, abrogato dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. f), come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461, a decorrere dal 1 gennaio 2018 e, pertanto, applicabile alla fattispecie ratione temporis, secondo cui “se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata”, che si riferisce all’ipotesi in cui la consegna avvenga a mani del familiare convivente, di persona addetta alla casa o al servizio del destinatario o di portiere dello stabile e che, in assenza di una prescrizione normativa di utilizzo della raccomandata con avviso di ricevimento, può essere legittimamente effettuata con raccomandata semplice (Cass., Sez. 3, 22/5/2015, n. 10554).

A questo proposito, questa Corte ha affermato che “anche alla comunicazione di avvenuta notifica di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7 – e ad onta del minor livello di garantismo che caratterizza la disciplina della sua trasmissione postale (raccomandata semplice), rispetto a quello che caratterizza la disciplina della trasmissione postale della comunicazione di avvenuto deposito di cui all’art. 140 c.p.c. (raccomandata a.r.), debba applicarsi il principio.., secondo cui l’attestazione di avvenuto invio di una raccomandata, con l’indicazione del solo numero (ossia senza che si precisi a chi, ed in quale indirizzo, essa sia stata spedita), copre con fede privilegiata soltanto la dichiarazione di avvenuto invio di una raccomandata con quel numero; con la conseguenza che, in tal caso, la prova del fatto che la stessa sia stata spedita al destinatario della notifica, presso il suo indirizzo, va fornita, da chi è interessato a dimostrare la ritualità della notifica, producendo la relativa ricevuta di spedizione o deducendo altro idoneo mezzo di prova” (Cass., Sez. 2, 12/7/2018, n. 18472).

Con specifico riguardo alla notifica di atto impositivo (o processuale) tramite servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, questa Corte, a sezioni unite, ha da ultimo affermato la necessità di distinguere tra l’ipotesi regolata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, e art. 140 c.p.c., connotata dal fatto che l’atto notificando non sia stato consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, e sia soltanto depositato presso l’ufficio postale (ovvero, nella notifica codicistica, presso la casa comunale), e quella eseguita ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 4, e dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., in cui la consegna dell’atto notificando sia avvenuta a persona diversa, stabilendo che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio debba essere fornita dal notificante attraverso la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD), soltanto nel primo caso, stante l’insufficienza dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima (Cass., Sez. U, 15/4/2021, n. 10012), e non anche nel secondo.

La scelta di maggior rigore dettata dal legislatore in proposito, allorchè impone l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) e la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento (C.A.D.), trova giustificazione, ad avviso della Corte, nella comparazione di tale procedura notificatoria con quella prevista, tra le modalità di notifica curate dall’Ufficiale giudiziario, dall’art. 140 c.p.c., e basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), mentre la procedura semplificata stabilita per i casi di consegna a soggetto diverso dal destinatario dell’atto, consistente nell’invio al destinatario di una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto notificando (C.A.N.), è dovuta alla ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) aventi con esso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a questo fine (Cass., Sez. U, 15/4/2021, n. 10012, in motivazione).

Sul punto, è stata peraltro ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 7, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non richiede, per il perfezionamento della notifica a mezzo posta effettuata mediante consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario, la “ricezione” della raccomandata cd. informativa, come invece previsto nel caso di notifica a persone irreperibili ex art. 140 c.p.c., ed L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, atteso che la mancata estensione alla notifica, eseguita ai sensi del citato art. 7, degli interventi additivi richiesti dalla Corte costituzionale (sentenza del 14/1/2010 n. 3), al fine di equiparare i procedimenti notificatori di cui all’art. 140 c.p.c., ed L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, trova ragione nella evidente diversità fenomenica contemplata dalle norme in comparazione – nell’un caso essendo stata eseguita la consegna dell’atto a persona abilitata e riceverlo, nell’altro difettando del tutto la materiale consegna dell’atto notificando – cui consegue la diversità degli adempimenti necessari al perfezionamento delle rispettive fattispecie notificatorie, nella prima ipotesi costituiti dalla sola “spedizione” della raccomandata, nell’altra occorrendo un quid pluris inteso a compensare il maggior deficit di conoscibilità, costituito dalla effettiva ricezione della raccomandata, ovvero, in assenza di ricezione, dal decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento (Cass., Sez. 3, 7/6/2018, n. 14722).

Ciò comporta che, essendo stata, nella specie, la consegna del plico eseguita a mani di un incaricato, come risulta dallo sbarramento di tale voce, nessun obbligo aveva il notificante di inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno a titolo informativo, essendo a tal fine sufficiente l’invio di una raccomandata “semplice”, come nei fatti accaduto.

Deriva da quanto detto la fondatezza di entrambi i motivi.

4. In conclusione, accolti i motivi proposti e cassata la sentenza impugnata, la causa deve essere rinviata alla C.T.R. per la Campania anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie le censure proposte, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.T.R. per la Campania anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021


Valido l’atto notificato all’indirizzo indicato nella denuncia dei redditi anche se diverso dalla residenza anagrafica

In tema di accertamento delle imposte sui redditi, se il contribuente indica nella dichiarazione dei redditi un indirizzo diverso dalla residenza anagrafica, deve ritenersi corretta la notificazione dell’avviso di accertamento effettuata presso il recapito indicato dal contribuente all’amministrazione in sede di dichiarazione, anche se diverso da quello risultante dai pubblici registri anagrafici.
Così ha deciso la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 20017 del 14 luglio 2021.
Il caso attiene alla presunta illegittimità della notifica di un avviso di accertamento nei confronti di una contribuente, da cui era scaturita una cartella di pagamento. Nel ricorso proposto avverso l’atto de qua la contribuente ha denunciato l’irritualità della notifica dell’avviso di accertamento, effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi Mod. 730.
Il ricorso è stato respinto sia in primo che in secondo grado. In particolare, i giudici della CTR hanno dichiarato che nel caso di specie è applicabile l’art. 58, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, sicché per gli uffici finanziari la dichiarazione contenuta nel Mod. 730 era vincolante ai fini dell’individuazione del domicilio fiscale del contribuente cui fare riferimento per la notifica degli atti impositivi.
La contribuente ha così proposto ricorso avverso la decisione d’appello, lamentando violazione e falsa applicazione degli artt. 58 e 60 del D.P.R. 600/1973.
Nella sentenza in commento i giudici della sezione tributaria di legittimità hanno respinto le doglianze della contribuente, sulla premessa che la disciplina della notifica degli atti tributari è particolarmente rilevante perché ha la funzione di portare a conoscenza del destinatario il contenuto di un determinato atto contenente la pretesa erariale.
La procedura di notifica va necessariamente coordinata con i principi generali dettati nella legge n. 212 del 2000, a tenore del quale l’amministrazione finanziaria deve, in linea generale, assicurare l’effettiva conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui destinati, e ciò nel rispetto dei canoni di collaborazione, cooperazione e buona fede a cui devono essere improntati i rapporti tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente.
Lo Statuto dei diritti del contribuente intende in questo modo affermare il principio generale per cui, per tutti gli atti dell’amministrazione destinati al contribuente, deve essere garantito un grado di conoscibilità il più elevato possibile.
Ciò premesso l’art. 60, primo comma, lett. c), del d.P.R. n. 600 del 1973 stabilisce che, “salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” e l’art. 58, primo comma, dello stesso d.P.R. n. 600 del 1973, a sua volta, dopo avere stabilito che agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato, prevede, al secondo comma, che le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato “hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte”, mentre quelle non residenti “hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato”.
Nell’ipotesi in cui ci sia difformità tra residenza anagrafica e la residenza indicata nella dichiarazione dei redditi, la Corte di Cassazione ha chiarito la validità della notifica effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, e ciò anche quando il perfezionamento della notifica sia avvenuto tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto, nonostante tale indicazione sia difforme rispetto alle risultanze anagrafiche.
Pertanto, in linea con i principi a cui si ispira la legge n. 212 del 2000, che, all’art. 10, sancisce che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria “sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”, deve ritenersi corretta una notificazione effettuata presso un recapito coincidente con quello palesato dal contribuente all’amministrazione finanziaria, anche se diverso da quello risultante dai pubblici registri anagrafici.
In senso conforme si cita la sent. n. 20939/2019 in cui il Collegio ha affermato che “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la notificazione dell’avviso effettuata presso la residenza anagrafica invece che presso il diverso indirizzo indicato dal contribuente nella dichiarazione dei redditi, situato sempre nel medesimo comune di domicilio fiscale, non è valida, atteso che tale indicazione equivale ad elezione di domicilio, ai sensi del combinato disposto degli artt. 58 e 60 del D.P.R. n. 600 del 1973”. (in tal senso cfr. Cass. nn. 23024 e 15258 del 2015, e n. 14280/2018).
In questo caso, la contribuente aveva indicato nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 presentata per l’anno in contestazione un domicilio fiscale, presso il quale l’Agenzia delle entrate ha effettuato la notifica dell’avviso di accertamento.
Pertanto, il domicilio indicato in dichiarazione costituiva l’unico recapito conosciuto dall’Amministrazione per procedere alla notifica dell’atto impositivo, cosicché tale indicazione, in difetto di diversa comunicazione, da parte della contribuente, effettuata con le modalità prescritte dal richiamato art. 60, primo comma, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, non può che equivalere ad elezione di domicilio all’indirizzo indicato in dichiarazione.
Per tale ragione la Suprema Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dalla contribuente confermando la legittimità della notifica dell’atto impositivo.


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 14-05-2021) 14-07-2021, n. 20017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sui ricorso iscritto al n. 14042/15 R.G. proposto da:

P.S., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’avv. Giuseppe Martino, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Domenico Martino, in Roma, alla via Vittorio Veneto, n. 7;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

e nei confronti di:

EQUITALIA CENTRO S.P.A., in persona del legale rappresentante;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria dell’Abruzzo n. 1342/07/14 depositata in data 4 dicembre 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 maggio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. P.S. propose appello avverso la sentenza n. 209/4/14, pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti che aveva rigettato il ricorso proposto dalla stessa contribuente avverso la comunicazione di Equitalia Centro s.p.a. n. (OMISSIS) del (OMISSIS) di avvio dell’attività di riscossione delle somme relative all’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate ai fini del recupero di maggiore IRPEF in relazione all’anno d’imposta 2007.

A sostegno dell’impugnazione la contribuente eccepì il vizio di motivazione della sentenza di primo grado con riguardo alla statuizione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e la erroneità della pronuncia nella parte in cui aveva ritenuto rituale la notifica dell’avviso di accertamento.

2. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo respinse il gravame.

Precisato, preliminarmente, che l’impugnazione aveva ad oggetto sia la comunicazione di Equitalia Centro s.p.a. sia l’avviso di accertamento, ritenne infondato il motivo di appello con cui la contribuente aveva dedotto l’irritualità della notifica dell’avviso di accertamento, effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 dell’anno 2011 alla contrada (OMISSIS) di (OMISSIS), per presunta violazione delle formalità prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. d).

In particolare, i giudici di appello osservarono che tale ultima disposizione, a seguito della modifica operata dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. a), n. 2, convertito dalla L. n. 122 del 2010, disponendo che doveva farsi con “apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate” l’elezione di domicilio “presso una persona o un ufficio nel Comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano”, costituiva ipotesi del tutto diversa dal caso in esame che concerneva l’elezione di domicilio fatta dalla contribuente in un Comune ((OMISSIS)) diverso da quello di residenza ((OMISSIS)). Al caso in esame, secondo i giudici di merito, doveva applicarsi al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, sicchè per gli uffici finanziari la dichiarazione contenuta nel Mod. 730 era vincolante ai fini dell’individuazione del domicilio fiscale del contribuente cui fare riferimento per la notifica degli atti impositivi, in conformità al principio enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 1484 del 1998.

Disatteso, infine, il terzo motivo di appello, con il quale era stata denunciata la violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, confermarono la sentenza di primo grado laddove aveva ritenuto che la notifica dell’avviso di accertamento fosse stata validamente effettuata presso il domicilio fiscale indicato dalla contribuente nella dichiarazione Mod. 730 dell’anno 2011, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione per tardività della stessa che si ripercuoteva anche sulla impugnazione della comunicazione di Equitalia Centro s.p.a..

3. Contro la suddetta decisione d’appello P.S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

La contribuente in prossimità dell’adunanza camerale ha depositato memoria ex art. 380-bis 1. c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo – rubricato: Violazione e/o erronea applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 60 e 58, dell’art. 24 Cost., nonchè dell’art. 47 c.c., anche in relazione alla L. n. 212 del 2000, art. 6, nonchè di ogni altra norma e principio in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli atti impositivi tributari la ricorrente sostiene che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, accorda al contribuente la facoltà di eleggere un domicilio speciale limitatamente ad “atti, contratti, denunzie e dichiarazioni”, come reso palese dallo specifico riferimento alle “parti”, ossia a coloro che nella stipula di atti e contratti intendono, per quel determinato affare, analogamente alla previsione di cui all’art. 47 c.c., comma 1, che le comunicazioni e le notifiche vengano loro effettuate in quel luogo; tale facoltà, secondo la ricorrente, è prevista in deroga al domicilio generale, fiscale, coincidente con la residenza anagrafica, citato art. 58, ex comma 2.

Aggiunge che tale conclusione è suffragata dallo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, che non richiama l’art. 58, e che detta una disciplina, del tutto autonoma, applicabile alle notificazioni degli avvisi di accertamento e degli atti tributari impositivi, riconoscendo, alla lett. d), al contribuente la facoltà di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel Comune del proprio domicilio fiscale e stabilendo, nel secondo periodo della medesima lett. d), la modalità di esercizio dell’anzidetta facoltà.

Secondo la prospettazione difensiva di parte ricorrente, ulteriori elementi esegetici che corroborano tale interpretazione si rinvengono nell’intervento legislativo operato con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. a), convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, con il quale, stralciando ogni riferimento alla dichiarazione annuale dei redditi, si è inteso sancire la prevalenza del criterio dell’effettiva residenza e privare di effetti – ai fini della notificazione degli avvisi di accertamento e degli atti tributari impositivi – il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi; il termine “dichiarazioni” contenuto nel citato art. 58, comma 4, non può essere inteso nel senso di “dichiarazioni dei redditi”, ma piuttosto nel senso di dichiarazioni che rendono le parti in seno a determinati atti pubblici o privati – ovvero con specifici atti separati.

La norma cui occorre fare riferimento ai fini della notificazione degli avvisi di accertamento, aggiunge la ricorrente, è costituita dal citato art. 60, che deve essere coordinato con la L. n. 212 del 2000, art. 6, secondo cui occorre sempre assicurare l’effettività della conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui notificati.

Contesta, quindi, alla C.T.R. di avere erroneamente ritenuto applicabile il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, senza tenere conto delle allegazioni fattuali svolte dalle quali emergeva che alla data di notifica dell’avviso di accertamento, avvenuta in data (OMISSIS) a mezzo posta per compiuta giacenza con immissione dell’avviso in cassetta in data (OMISSIS), risultava iscritta all’anagrafe del Comune di (OMISSIS) ed era effettivamente residente in tale città, il che aveva comportato che l’atto impositivo non era entrato nella sua sfera di conoscibilità.

2. Con il secondo motivo si deduce violazione e/o erronea applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 6, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Richiamata la sentenza n. 216 del 6 luglio 2004 della Corte Costituzionale, che ha affermato che la L. n. 212 del 2000, art. 6, rappresenta una chiave di lettura della legislazione tributaria, la contribuente afferma che uno dei principi espressi da tale disposizione normativa è quello dell’effettività della conoscenza legale, da parte del contribuente, degli atti tributari destinati ad essere notificati, principio che porta a ritenere che la notifica eseguita a mezzo posta perfezionatasi con la compiuta giacenza nel domicilio indicato nella dichiarazione reddituale non possa considerarsi entrata nella sfera di conoscibilità del contribuente.

3. Con il terzo motivo, censurando la decisione impugnata per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), lamenta che i giudici di appello hanno del tutto trascurato che la presunta notificazione dell’avviso di accertamento è avvenuta con modalità tali che il medesimo atto, oltre a non essere pervenuto a conoscenza della contribuente, neppure è entrato nella sua sfera di conoscibilità, trattandosi di notificazione effettuata a mezzo posta per compiuta giacenza ed in luogo diverso da quello di residenza o di domicilio. Assume che se i giudici di appello avessero tenuto conto di tali fatti rilevanti e decisivi, l’esito del giudizio sarebbe stato diverso.

4. I primi tre motivi, strettamente connessi perchè vertenti sulla medesima questione, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

4.1. Occorre premettere che la notificazione, le cui modalità sono stabilite normativamente, ha la funzione di portare a conoscenza del destinatario il contenuto di un determinato atto, effetto questo che riveste particolare rilievo in ambito tributario laddove la notificazione concerne un atto che contiene una pretesa impositiva.

La procedura di notifica, che è regolata da diverse disposizioni normative con riguardo a tutte le categorie di atti tributari, va necessariamente coordinata con il principio generale dettato dalla L. n. 212 del 2000, art. 6 (cd. Statuto del contribuente), a tenore del quale l’amministrazione finanziaria deve, in linea generale, assicurare l’effettiva conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui destinati, e ciò nel rispetto dei canoni di collaborazione, cooperazione e buona fede a cui devono essere improntati i rapporti tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente.

Questa Corte, al riguardo, ha già affermato che, prima che il contribuente abbia conoscenza degli atti che incidono sulla sua posizione debitoria o creditoria nei confronti del Fisco, gli atti stessi non possono produrre effetti (Cass., sez. 5, 30/03/2001, n. 4760; Cass., sez. U, 5/10/2004, n. 19854, con riguardo alla sanatoria dei possibili vizi della notificazione e dei suoi effetti). Si è, in particolare spiegato (Cass., sez. 5, 16/03/2011, n. 6113), che “è vero che, con la locuzione “effettiva conoscenza”, il legislatore non ha inteso garantire al contribuente l’assoluta certezza della conoscenza, avendo la disciplina della notificazione da sempre legato ad essa la conoscibilità legale, così come palesato, nello specifico, dalla previsione di chiusura del citato art. 6, comma 1, secondo cui “restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”. E tuttavia resta inteso – come osservato in dottrina – che non coglierebbe il significato della previsione concludere che essa, facendo salve le disposizioni sulla notificazione, si riferisce esclusivamente agli atti per i quali il legislatore non prevede il procedimento notificatorio sebbene una mera comunicazione. In sostanza, la corretta esegesi dell’art. 6, comma 1, resta nel senso che esso intende assicurare l’effettiva conoscenza di tutti gli atti destinati al contribuente, ancorchè restino ferme le disposizioni in materia di notifica. Tale voluta solennità equivale a dire che lo statuto ha inteso affermare che a tutti gli atti dell’amministrazione destinati al contribuente (finanche, quindi, a quelli notificati) deve essere garantito un grado di conoscibilità il più elevato possibile”.

In questo senso, d’altro canto, si è mossa anche la Corte costituzionale la quale, con la sentenza n. 360 del 2003, ha dichiarato illegittimo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., nella parte in cui prevedeva che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, avessero effetto ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, con la precisazione che “un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato e, quindi, l’esercizio del suo diritto di difesa”.

4.2. Fatta questa premessa, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), stabilisce che, “salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” e lo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 1, a sua volta, dopo avere stabilito che agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato, prevede, al comma 2, che le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato “hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte”, mentre quelle non residenti “hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato”.

Anche se, in linea generale, ai fini della notificazione si deve avere riguardo alle risultanze anagrafiche che riguardano il contribuente destinatario dell’atto, non può sottacersi che lo stesso art. 60, comma 3, alla cui stregua “le variazioni e le modificazioni di indirizzo risultanti dai registri anagrafici “hanno effetto” ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica”, non può condurre a ritenere che l’Ufficio finanziario sia onerato, prima di notificare un atto al contribuente, del controllo, mediante una verifica sui registri anagrafici, dell’attualità dell’indicazione della residenza contenuta nella dichiarazione dei redditi, nè che detta indicazione sia priva di effetti ai fini della notifica degli atti tributari.

Tale conclusione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 14/12/2016, n. 25680), renderebbe del tutto priva di scopo l’indicazione della residenza nella dichiarazione dei redditi, prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4 (che recita: “negli atti, contratti, denunzie e dichiarazioni che vengono presentate agli uffici finanziari deve essere indicato il comune di domicilio fiscale delle parti, con la precisazione dell’indirizzo solo ove espressamente richiesto”) e, soprattutto, non si porrebbe in linea con l’univoco indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della propria residenza, o, comunque, di un domicilio diverso da quello di residenza, deve essere effettuata in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve conformare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (Cass., sez. 5, 10/05/2013, n. 11170; Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 29/11/2013, n. 26715, nella quale ultima si legge che “ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio o sede fiscale ed un determinato rappresentante legale, non corrisponde l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto”).

Le considerazioni esposte impongono dunque di tenere nettamente distinta l’ipotesi del cambio di residenza da quella di una originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi. Infatti, in quest’ultimo caso, questa Corte ha ripetutamente ribadito la validità della notifica effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, e ciò anche quando il perfezionamento della notifica sia avvenuto tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto, nonostante tale indicazione sia difforme rispetto alle risultanze anagrafiche (Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 14/12/2016, n. 25680; Cass., sez. 6-5, 10/04/2018, n. 8747; Cass., sez. 5, 15/05/2019, n. 12905; Cass., sez. 6-5, 10/10/2019, n. 25450).

Nelle pronunce da ultimo richiamate, si è evidenziato, da un lato, che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la competenza territoriale dell’ufficio accertatore è determinata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 31, con riferimento al domicilio fiscale indicato dal contribuente, la cui variazione, comunicata nella dichiarazione annuale dei redditi, costituisce pertanto atto idoneo a rendere noto all’Amministrazione il nuovo domicilio non solo ai fini delle notificazioni, ma anche ai fini della legittimazione a procedere, che spetta all’ufficio nella cui circoscrizione il contribuente ha indicato il nuovo domicilio” e, dall’altro, che “tale ius variandi dev’essere peraltro esercitato in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario: pertanto, il contribuente che abbia indicato nella propria denuncia dei redditi il domicilio fiscale in un luogo diverso da quello precedente, non può invocare detta difformità, sfruttando a suo vantaggio anche un eventuale errore, al fine di eccepire, sotto il profilo dell’incompetenza per territorio, l’invalidità dell’atto di accertamento compiuto dall’ufficio finanziario del domicilio da lui stesso dichiarato” (Cass., sez. 5, 10/03/2006, n. 5358; Cass., sez. 5, 10/05/2013, n. 11170; Cass., sez. L, 21/12/2015, n. 25680).

In sostanza, proprio in coerenza con i principi a cui si ispira la L. n. 212 del 2000, che, all’art. 10, sancisce che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria “sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”, deve ritenersi corretta una notificazione effettuata presso un recapito coincidente con quello palesato dal contribuente all’amministrazione, anche se diverso da quello risultante dai pubblici registri anagrafici.

4.3. Alla luce del quadro normativo sopra delineato e della lettura delle medesime disposizioni normative operata da questa Corte, non è utile invocare la modifica dell’art. 60, comma 1, lett. d), introdotta dal D.L. n. 78 del 2010, art. 38, comma 4, lett. a), n. 2, convertito dalla L. n. 122 del 2010, che ha eliminato la facoltà di far dipendere l’elezione di domicilio espressamente dalla dichiarazione dei redditi annuale, facendola dipendere da apposita comunicazione effettuata al Comune a mezzo di lettera raccomandata con avviso di accertamento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate.

Infatti, la disposizione invocata, come modificata, riguardante la facoltà riconosciuta al contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti che lo riguardano, ha solo diversamente disciplinato tale facoltà, escludendo che essa debba risultare espressamente dalla dichiarazione dei redditi e richiedendo apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

4.4. Come accertato dai giudici di merito e non contestato dalla ricorrente, nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 presentata per l’anno in contestazione, il domicilio indicato era quello di (OMISSIS) in (OMISSIS), presso il quale l’Agenzia delle entrate ha effettuato la notifica dell’avviso di accertamento che ha preceduto la comunicazione di avvio dell’attività di riscossione da parte di Equitalia Centro s.p.a.

Pertanto, nel caso in esame, il domicilio indicato in dichiarazione costituiva l’unico recapito conosciuto dall’Amministrazione per procedere alla notifica dell’atto impositivo, cosicchè tale indicazione, in difetto di diversa comunicazione, da parte della contribuente, effettuata con le modalità prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, richiamato art. 60, comma 1, lett. d), non può che equivalere ad elezione di domicilio all’indirizzo indicato in dichiarazione.

L’elezione di domicilio effettuata dalla contribuente nella dichiarazione per l’anno 2008 si è perfezionata in epoca anteriore alla entrata in vigore della novella di cui al D.L. n. 78 del 2010, e, pertanto, essa era pienamente efficace e produttiva di effetti al momento della notificazione dell’atto impositivo, avvenuta il 26 ottobre 2012, ed imponeva all’Amministrazione finanziaria di eseguire la notifica presso l’indirizzo indicato in dichiarazione, a nulla rilevando che a quella data la contribuente risultasse ancora iscritta all’anagrafe del Comune di (OMISSIS), alla via (OMISSIS).

5. Con il quarto motivo – rubricato: violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, e del L. n. 241 del 1990, art. 21-septies – rilevabilità d’ufficio della nullità assoluta ovvero dell’inesistenza giuridica dell’avviso di accertamento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – la contribuente, dopo avere fatto riferimento alla sentenza n. 37 del 25 febbraio 2015, della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, art. 1, comma 1, evidenzia che per effetto di tale declaratoria di incostituzionalità sono illegittimi i ripetuti conferimenti, da parte dell’Agenzia delle entrate, di incarichi dirigenziali ai funzionari delle Agenzie delle entrate senza il ricorso alla procedura del concorso pubblico.

Poiché, nel caso di specie, l’avviso di accertamento era stato sottoscritto, su delega del Direttore provinciale, C.R., dal Capo Ufficio F.A.B., il quale era intervenuto ad adiuvandum per sostenere le ragioni dell’Agenzia delle entrate nel giudizio di appello proposto innanzi al Consiglio di Stato, nell’ambito del quale era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, ritenuta fondata con la suddetta sentenza n. 37/2015, doveva dichiararsi l’inesistenza giuridica ovvero la nullità assoluta dell’impugnato avviso di accertamento.

5.1. La censura è inammissibile.

5.2. Come statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 22810 del 2015, “per le ipotesi di nullità dell’atto tributario, di qualsiasi natura esse siano, compresa, quindi, quella di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, opera il principio generale di conversione in mezzi di gravame. Le forme di invalidità dell’atto tributario, ove anche dal legislatore indicate sotto il nomen di nullità, non sono rilevabili d’ufficio, nè possono essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di cassazione (Cass., sez. 5, 16/02/2015, n. 18448). La conversione delle ipotesi di nullità in mezzi di gravame avverso l’atto fiscale è una conseguenza della struttura del processo tributario, che vede la contestazione della pretesa fiscale suscettibile di essere prospettata solo attraverso specifici motivi di impugnazione dell’atto che la esprime.

Il giudizio tributario, difatti, è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio circoscritto alla verifica della legittimita della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado (cfr. per tutte Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25756)”.

Nella fattispecie la nullità, qui prospettata dalla parte ricorrente, per come emerge dalla stessa descrizione dello svolgimento del processo evincibile dal ricorso, non era stata eccepita quale motivo di ricorso avverso gli avvisi di accertamento, sicchè ogni indagine sulla stessa è preclusa in sede di legittimità.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al rimborso, in favore della Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite con riguardo ad Equitalia Centro s.p.a., essendo questa rimasta intimata.

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 10-03-2021) 14-07-2021, n. 20074

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20766/2016 proposto da:

G.E., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE TRASTEVERE 244, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO FASSARI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Z.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FOLENGO TEOFILO, 49, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARINACI, rappresentato e difeso dall’avvocato WALTER FALCONIERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 555/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/03/2021 dal Consigliere Dott. ELISA PICARONI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che chiede di respingere il proposto ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Lecce, con la sentenza n. 555 del 2016, pubblicata il 7 giugno 2016 e notificata il 16 giugno 2016, ha rigettato l’appello proposto da G.E. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce – sezione distaccata di Nardò n. 510 del 2010, e nei confronti di Z.D..

1.1. Il Tribunale aveva dichiarato inammissibile l’opposizione proposta dalla G., ai sensi dell’art. 650 c.p.c., avverso il decreto ingiuntivo che le intimava di pagare la somma di Euro 11.745,39 in favore dello Z..

2. La Corte d’appello ha confermato la decisione, sul rilievo che la notificazione del decreto ingiuntivo era stata eseguita correttamente in data 18 aprile 2008, presso la residenza anagrafica della G., con le forme di cui all’art. 140 c.p.c., con la compiuta giacenza in data 17 maggio 2007 (recte 2008); che eventuali contestazioni delle risultanze della relazione di notificazione avrebbero dovuto formare oggetto di querela di falso; che non erano ravvisabili situazioni di impedimento oggettivo – riconducibili al caso fortuito o alla forza maggiore – della conoscenza dell’atto da parte della destinataria, che, pertanto, l’opposizione al decreto ingiuntivo notificata in data 29 luglio 2008 era tardiva.

3. G.E. ricorre per la cassazione della sentenza sulla base di quattro motivi, ai quali resiste Z.D. con controricorso. Il Pubblico mistero ha concluso per il rigetto del ricorso. La ricorrente ha depositato memoria in prossimità della Camera di consiglio.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo è denunciata violazione dell’art. 140 c.p.c., perché l’avviso di ricevimento non era completo, essendo stata omessa dall’agente postale l’indicazione relativa alla verifica in loco della solo temporanea assenza della destinataria dal luogo di residenza.

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione dell’art. 148 c.p.c. e art. 2700 c.c., per censurare l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui le risultanze della relazione di notificazione avrebbero dovuto essere contestate con la querela di falso. In realtà, nella specie non v’erano attestazioni di cui contestare la veridicità, in quanto, come già evidenziato con il primo motivo, l’avviso di ricevimento non recava alcuna attestazione. L’agente postale si era limitato a dichiarare di avere applicato il procedimento notificatorio previsto dall’art. 140 c.p.c., senza altra indicazione.

3. Con il terzo motivo è denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame del fatti decisivo rappresentato dalla mancata indicazione della spedizione della raccomandata di avviso dell’avvenuta notificazione del decreto ingiuntivo, nonché del mancato svolgimento delle verifiche sulla irreperibilità della destinataria e della relativa attestazione.

4. Con il quarto motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, omessa pronuncia sulla esistenza del nesso tra la mancata tempestiva conoscenza dell’atto oggetto di notificazione e l’irregolarità della notificazione.

5. Il ricorso è fondato con riferimento ai motivi primo e terzo, con assorbimento dei rimanenti.

5.1. In premessa si rileva che, diversamente da quanto prospettato nelle conclusioni scritte del Pubblico ministero, la parte ricorrente non è incorsa nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per non avere trascritto l’avviso di ricevimento nel corpo del ricorso.

Come evidenziato nella memoria di parte ricorrente, il ricorso indica specificamente e localizza i documenti sui quali sono fondate le doglianze, e quindi assolve l’onere richiamato (ex plurimis, Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726; più di recente, Cass. 11/01/2016, n. 195).

6. In materia di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., secondo l’orientamento consolidato di questa Corte – a partire da Sezioni Unite n. 458 del 2005 – ai fini del perfezionamento della notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non è sufficiente l’allegazione dell’avvenuta spedizione dell’avviso di ricevimento della raccomandata con cui il destinatario viene notiziato dell’avvenuto deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve avere luogo, ma è necessario che dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, si possa ricavare che l’atto è pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario.

In tal senso, si trova affermato che l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso a casa comunale deve recare l’annotazione, da parte dell’agente postale, dell’accesso presso il domicilio del destinatario e delle ragioni della mancata consegna, non essendo sufficiente la sola indicazione del deposito del plico presso l’ufficio postale (Cass. 30/01/2019, n. 2683, che ha confermato la nullità della notifica di un ricorso introduttivo di primo grado in quanto l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa, pur allegato all’atto, non risultava compilato nella parte relativa alla mancata consegna del plico al domicilio).

Secondo altre pronunce, invece, non occorre che dall’avviso di ricevimento della raccomandata informativa risulti precisamente documentata l’effettiva consegna della raccomandata, ovvero l’infruttuoso decorso del termine di giacenza presso l’ufficio postale, né che l’avviso contenga, a pena di nullità dell’intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto da esso risultare, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso (Cass. 12/12/2018, n. 32201; Cass. 27/02/2012, n. 2959).

E’ stato ulteriormente affermato che, in tema di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la raccomandata cosiddetta informativa, poiché non tiene luogo dell’atto da notificare, ma contiene la semplice “notizia” del deposito dell’atto stesso nella casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, sicché occorre per la stessa rispettare solo quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria (Cass. 18/12/2014, n. 26864, che ha escluso che la mancata specificazione, sull’avviso di ricevimento, della qualità del consegnatario e della situazione di convivenza o meno con il destinatario determinasse la nullità della notificazione).

7. Nella fattispecie in oggetto, dall’esame degli atti, consentito ed anzi dovuto a fronte della deduzione di error in procedendo (per tutte, Cass. 30/07/2016, n. 16164), risulta che la raccomandata con avviso di ricevimento è stata spedita ma non anche “recapitata” alla destinataria, prima della restituzione al mittente per compiuta giacenza.

E se, certamente, dell’avvenuta spedizione fa fede fino a querela di falso l’attestazione contenuta sull’avviso stesso recante l’indicazione del cronologico, della data di spedizione, del nome della destinataria e del luogo di destinazione, diversamente è a dirsi con riferimento all’esito della spedizione che è rimasto ignoto, poiché l’avviso non reca alcuna indicazione riguardo alle ragioni della mancata consegna della raccomandata.

Il procedimento di notificazione ex art. 140 c.p.c., non può pertanto ritenersi completato – anche nella prospettiva meno formalista, che esige comunque che dall’avviso risulti il trasferimento, il decesso del destinatario o “altro fatto impeditivo” della conoscibilità dell’avviso stesso – e la notifica del decreto ingiuntivo è nulla, con le conseguenti implicazioni in ordine all’ammissibilità dell’opposizione ex art. 650 c.p.c..

8. Nei limiti precisati sussistono i vizi di violazione dell’art. 140 c.p.c. e di omesso esame dell’avviso di ricevimento denunciati con i motivi primo e terzo, il cui accoglimento assorbe i rimanenti motivi ed impone la cassazione della sentenza impugnata con rinvio al giudice designato in dispositivo, il quale procederà ad un nuovo esame della domanda, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso, assorbiti i rimanenti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, a seguito di riconvocazione, il 5 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021