E’ famiglia di fatto ogni coppia in cui c’è reciproca assistenza. Senza distinzione di sesso

La Corte di Cassazione ha scritto, nero su bianco, che una coppia va considerata come una famiglia se vi è una certa “stabilità del rapporto”. Secondo la Corte di Cassazione, infatti, nel concetto di famiglia si devono includere tutte le coppie tra le quali “siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”. Il principio è stato enunciato della seconda sezione penale facendo riferimento all’art. 572 c.p. che punisce i maltrattamenti in famiglia. Secondo i Supremi Giudici il richiamo alla famiglia contenuto in tale norma “deve intendersi riferito ogni consorzio di persone fra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti”, appunto, stabili rapporti di assistenza e solidarietà. Il caso esaminato dalla Corte di Cassazione riguarda un uomo che i giudici di merito avevano già condannato ad un anno e otto mesi di reclusione per vari reati tra cui quello di maltrattamenti in famiglia. Ricorrendo in Cassazione la sua difesa aveva sostenuto che l’art.572 c.p. si potesse applicare soltanto alle famiglie conviventi “more uxorio”. Di diverso avviso la Cassazione che ha sottolineato come la norma riguarda invece anche le famiglie di fatto. Su questo sito il testo della Sentenza.


P.A. e affidamento diretto a società miste: non serve la Doppia procedura, purché si rispettino le regole di evidenza pubblica

Il ricorso a una duplice procedura sia per la selezione del socio privato della società a capitale misto sia per l’aggiudicazione della concessione a detta società sarebbe tale da disincentivare gli enti privati e le autorità pubbliche dalla costituzione di partenariati pubblico-privati istituzionalizzati.

Corte Giust. CE Sentenza 15/10/2009, n. Causa C-196/2009

Gli artt. 43 CE, 49 CE e 86 CE non ostano all’affidamento diretto di un servizio pubblico che preveda l’esecuzione preventiva di determinati lavori, come quello di cui trattasi nella causa principale, a una società a capitale misto, pubblico e privato, costituita specificamente al fine della fornitura di detto servizio e con oggetto sociale esclusivo, nella quale il socio privato sia selezionato mediante una procedura ad evidenza pubblica, previa verifica dei requisiti finanziari, tecnici, operativi e di gestione riferiti al servizio da svolgere e delle caratteristiche dell’offerta in considerazione delle prestazioni da fornire, a condizione che detta procedura di gara rispetti i principi di libera concorrenza, di trasparenza e di parità di trattamento imposti dal Trattato CE per le concessioni.

Sebbene la mancanza di gara nel contesto dell’aggiudicazione di servizi risulti inconciliabile con gli artt. 43 CE e 49 CE e con i principi di parità di trattamento e di non discriminazione, l’individuazione dei criteri di scelta del socio privato consentono di ovviare a detta situazione, dal momento che i candidati devono provare, oltre alla capacità di diventare azionisti, anzitutto la loro perizia tecnica nel fornire il servizio nonché  i vantaggi economici e di altro tipo derivanti dalla propria offerta.

In considerazione che i criteri di scelta del socio privato si riferiscono non solo al capitale da quest’ultimo conferito, ma altresì alle capacità tecniche di tale socio e alle caratteristiche della sua offerta in considerazione delle prestazioni specifiche da fornire, e dal momento che al socio in questione viene affidata, come nella fattispecie di cui alla causa principale, l’attività operativa del servizio di cui trattasi e, pertanto, la gestione di quest’ultimo, si può ritenere che la scelta del concessionario risulti indirettamente da quella del socio medesimo effettuata al termine di una procedura che rispetta i principi del diritto comunitario, cosicché non si giustificherebbe una seconda procedura di gara ai fini della scelta del concessionario.

Il ricorso, in tale situazione, a una duplice procedura, in primo luogo, per la selezione del socio privato della società a capitale misto e, in secondo luogo, per l’aggiudicazione della concessione a detta società sarebbe tale da disincentivare gli enti privati e le autorità pubbliche dalla costituzione di partenariati pubblico-privati istituzionalizzati, come quelli di cui trattasi nella causa principale, a motivo della durata inerente alla realizzazione di siffatte gare e dell’incertezza giuridica per quanto attiene all’aggiudicazione della concessione al socio privato previamente selezionato.

Occorre precisare che una società a capitale misto, pubblico e privato, come quella di cui trattasi nella causa principale deve mantenere lo stesso oggetto sociale durante l’intera durata della concessione e che qualsiasi modifica sostanziale del contratto comporterebbe un obbligo di indire una gara (v., in tal senso, sentenza 19 giugno 2008, causa C 454/2006, pressetext Nachrichtenagentur, Racc. pag. I 4401, punto 34).


La colpa del lavoratore ed il rischio elettivo nella dinamica infortunistica

In linea generale, ai fini dell’indennizzabilità dell’infortunio ai sensi dell’art. 2 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 è necessaria la sussistenza di un nesso eziologico fra attività lavorativa e rischio; in tale ambito, è ormai consolidato che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l’insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l’imprenditore, all’eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l’esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo “tipico” ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell’evento.

Dunque, la colpa – neppure quando esclusiva – del lavoratore non osta all’operatività dell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, salvo il limite del “rischio elettivo”, inteso quale scelta di un comportamento abnorme, volontario e arbitrario da parte lavoratore, tale da condurlo ad affrontare rischi diversi da quelli inerenti alla normale attività, secondo l’apprezzamento del fatto al riguardo compiuto dal giudice di merito.

Il rischio, se può non essere quello proprio, normalmente e tipicamente insito nelle mansioni svolte dall’assicurato, non può essere totalmente estraneo all’attività lavorativa, privo cioè di qualsiasi rapporto o attinenza con essa, come nel caso di rischio elettivo, scaturito cioè da una scelta arbitraria del lavoratore il quale, mosso da impulsi personali, crei ed affronti volutamente una situazione diversa da quella inerente all’attività lavorativa, pur latamente intesa, ponendo cosi in essere una causa interruttiva di ogni nesso fra lavoro, rischio ed evento.

Secondo il giudice di legittimità, costituisce rischio elettivo la deviazione, puramente arbitraria ed animata da finalità personali, dalle normali modalità lavorative, che comporta rischi diversi da quelli inerenti le usuali modalità di esecuzione della prestazione. Tale genere di rischio – che è in grado di incidere, escludendola, sull’occasione di lavoro – si connota, precisa la Corte, per il simultaneo concorso dei seguenti elementi:
a) presenza di un atto volontario ed arbitrario, ossia illogico ed estraneo alle finalità produttive;
b) direzione di tale atto alla soddisfazione di impulsi meramente personali;
c) mancanza di nesso di derivazione con lo svolgimento dell’attività lavorativa


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 02-10-2009) 22-10-2009, n. 40727

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAGANO Filiberto – Presidente

Dott. NUZZO Laurenza – Consigliere

Dott. PRESTIPINO Antonio – Consigliere

Dott. GALLO Domenico – Consigliere

Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

avv. Putzolu Domenico del foro di Tempio Pausania nell’interesse di T.L., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in data 2 maggio 2006;

Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere Dott. Domenico Gallo;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, Dr. Giuseppe Febbraro, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

osserva:

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 2 maggio 2006, la Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, in parziale riforma della sentenza del Gup presso il Tribunale di Tempio Pausania, in data 15 novembre 2005, riduceva ad anni uno e mesi otto di reclusione la pena inflitta a T.L. per i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza privata e ricettazione.

La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di sussistenza dell’elemento oggettivo di ciascun reato, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti, provvedendo soltanto a ridurre la pena inflitta per riportarla ad equità.

Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando tre motivi di gravame con i quali deduce:

1) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato di cui all’art. 672 c.p e vizio della motivazione sul punto;

2) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al reato di violenza privata di cui al capo b);

3) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato di cui all’art. 648 c.p e vizio della motivazione sul punto.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati.

Per quanto riguarda il primo motivo, in punto di configurabilità dei presupposti di cui all’art. 572 c.p., la questione è manifestamente infondata. Non v’è dubbio, infatti, che la tutela apprestata dalla norma penale si estenda anche alla famiglia di fatto. Secondo l’insegnamento di questa Corte: “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo” (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 20647 del 29/01/2008 Cc. (dep. 22/05/2008) Rv. 239726;

Sez. 6, Sentenza n. 21329 del 24/01/2007 Ud. (dep. 31/05/2007) Rv.

236757; nel senso che sia sufficiente solo la stabilità del rapporto: Sez. 3, Sentenza n. 44262 del 08/11/2005 Ud. (dep. 05/12/2005) Rv. 232904).

Per quanto riguarda le questioni dedotte con il secondo ed il terzo motivo, con le quali si deducono violazione di legge e vizi della motivazione, occorre rilevare che il vaglio logico e puntuale delle risultanze processuali operato dai Giudici di appello non consente a questa Corte di legittimità di muovere critiche, né tantomeno di operare diverse scelte di fatto. Le osservazioni del ricorrente non scalfiscono l’impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di manifesta illogicità della stessa; nella sostanza, al di là dei vizi formalmente denunciati, esse svolgono, sul punto dell’accertamento della responsabilità, considerazioni in fatto insuscettibili di valutazione in sede di legittimità, risultando intese a provocare un intervento in sovrapposizione di questa Corte rispetto ai contenuti della decisione adottata dal Giudice del merito. E’ il caso di aggiungere che la sentenza di secondo grado va necessariamente integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti, pronunciata in prime curo, derivandone che i giudici di merito hanno spiegato, in maniera adeguata e logica, le risultanze confluenti nella certezza del pieno coinvolgimento dell’imputato nella commissione del reato ritenuto a suo carico.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2009


Circolare 2009-010 Notificazione atti finanziari ad iscritto A.I.R.E.

Sulle notificazioni al contribuente residente all’estero ed il cui indirizzo è conoscibile dall’amministrazione finanziaria, in quanto iscritto all’A.I.R.E., la Corte Costituzionale si è pronunciata il 07/11/2007 con la sentenza n. 366.

Sentenza Corte Costituzionale n. 366 del 7.11.2007

(Notificazione ad iscritto A.I.R.E.)

Sulle notificazioni al contribuente residente all’estero ed il cui indirizzo è conoscibile dall’amministrazione finanziaria, in quanto iscritto all’A.I.R.E., la Corte Costituzionale si è pronunciata il 07/11/2007 con la sentenza n° 366.

La Corte Costituzionale era chiamata a decidere sulla costituzionalità del D.P.R. 600/1973 (sul combinato disposto dei suoi articoli 58, 59 e 60 che erano in contrasto con l’articolo 142 del CPC) laddove non sempre consentivano la conoscibilità reale dell’atto da parte del contribuente residente all’estero in quanto le notificazioni disciplinate da detto D.P.R. dovevano essere effettuate SOLO nel territorio dello Stato.

Con la citata sentenza n° 366/2007 la Corte Costituzionale ha però preso in esame il testo dell’articolo 60 del DPR 600/1973 ante riforma (L. 248/2006), senza potersi sostanzialmente esprimere sull’eventuale non costituzionalità delle novità introdotte dalla lettera e-bis dal decreto Bersani che consente al contribuente di comunicare l’indirizzo estero per la notifica degli atti a lui destinati.

La Corte Costituzionale fa solo cenno alle modifiche introdotte dal legislatore (L. 248/2006) precisando che la dichiarazione di incostituzionalità della norma analizzata resta, invece, circoscritta nel testo post riforma , all’ipotesi che il contribuente iscritto AIRE non abbia inviato la comunicazione di cui alla lettera e-bis .

Per tal motivo la sentenza in esame deve essere interpretata nel senso di ritenere possibile la notificazione all’estero mediante la sola raccomandata A.R. nel caso previsto dalla lettera e-bis dell’articolo 60 del DPR 600/1973 per i cittadini italiani che hanno comunicato, nelle forme prescritte, al competente ufficio locale dell’Amministrazione Finanziaria il loro indirizzo all’estero e ai sensi dell’art. 142 c.p.c. per gli iscritti AIRE che non abbiano fatto tale comunicazione.

Nonostante questa linea interpretativa non abbia trovato unanimi consensi come associazione la riteniamo quella più condivisibile.

Sulla nostra linea sono anche alcune circolari, emanate da Equitalia e dall’Agenzia delle Entrate, che disciplinano la notificazione delle cartelle esattoriali.

Le citate circolari (Equitalia DSR/NC/2008/003 del 30 gennaio 2008 Prot. 1994 e DSR/NC/2008/010 Prot. 1994 nonché quella dell’Agenzia delle Entrate prot. 2008/29815 del 13 marzo 2008) danno indicazioni indirette sulla questione in quanto parlano dell’art. 26 del D.P.R. 602/73 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) che, a sua volta, rimanda alle modalità di notificazione ex art. 60 del D.P.R. 600/73.

La nostra interpretazione, come quella di Equitalia e dell’Agenzia delle Entrate, si basa sulla considerazione che la lettera e-bis non modifica il precetto dell’articolo 60 del D.P.R. 600/1973 ma rappresenta una modalità aggiuntiva e come tale va considerata.

Per tale motivo questa sentenza si applica anche rispetto l’attuale formulazione dell’articolo 60 del D.P.R. 600/1973.

Detto ciò, dobbiamo considerare le diverse situazioni da fronteggiare nel caso concreto.

Infatti, l’atto che giunge al Messo Comunale per la notificazione, può:

  1. 1. riportare il solo indirizzo in Italia del contribuente,
  2. 2. riportare l’indirizzo in Italia del contribuente ma anche quello all’estero, ovvero l’indicazione che trattasi di contribuente residente all’estero.

 

Si deve, pertanto, presumere che, nel primo caso l’Agenzia delle Entrate NON sa ancora della residenza estera del contribuente, mentre nel secondo ne è già a conoscenza e si presume abbia già rispettate TUTTE le procedure di sua diretta competenza.

Il secondo caso, però, può far sorgere qualche perplessità.

Abbiamo detto, infatti, che la Corte Costituzionale è intervenuta con la sentenza n° 366/2007 per garantire la notificazione all’estero presso la residenza, anche se “dichiarata” ai fini AIRE, del contribuente ma è opportuno tenere presente che la stessa non ha interessato quella parte dell’articolo 58 del D.P.R. 600/1973 che prevede un trattamento “speciale” per coloro che si sono trasferiti in un paese a fiscalità privilegiata (i cosiddetti “paradisi fiscali“ di cui al comma 2 bis dell’articolo 2 del D.P.R. 917/1986 ed al D.M. 04/05/1999).

Poiché in questo caso la residenza estera deve essere provata con particolari modalità, in mancanza di tali prove per il fisco italiano detto contribuente continua a mantenere la residenza in Italia a tutti gli effetti, indipendentemente dalle risultanze anagrafiche italiane.

Può inoltre succedere, che la notificazione all’estero sia già stata tentata dal fisco con esito negativo e di conseguenza quell’indirizzo non sia più identificabile come la residenza all’estero del contribuente che, resosi, sostanzialmente irreperibile (all’estero) rientra nella tipologia disciplinata dalla lettera e) dell’articolo 60.

In considerazione di quanto fino ad ora detto il Messo Comunale non potrà ritenere la mera iscrizione all’A.I.R.E. di un contribuente come necessitante di una notificazione presso l’indirizzo estero.

In pratica cosa deve fare in questi casi il Messo Comunale?

 1) Quando è il Messo Comunale che, tramite indagini anagrafiche, scopre che il contribuente è iscritto A.I.R.E. (ferma restando la possibilità di notifica in mani proprie o mediante consegna presso abitazioni, uffici o aziende del contribuente nell’eventualità possano essere presenti nel territorio), dovrà restituire l’atto all’amministrazione finanziaria evidenziando nella relata negativa tale circostanza

conseguentemente

l’amministrazione finanziaria tenterà la notificazione all’estero ai sensi dell’articolo 142 C.P.C.. Nell’eventualità, invece, avesse omesso di controllare (o rilevare) se il contribuente aveva già effettuato la comunicazione prevista dalla lettera e-bis) dell’articolo 60 del D.P.R. 600/1973, dopo averne verificata l’esistenza, procederà alla notificazione mediante invio di raccomandata A.R. E’ appena il caso di far notare comunque che la notifica all’estero dovrà essere effettuata direttamente dall’amministrazione finanziaria.

2) Quando l’atto giunge al Messo Comunale con indicato l’indirizzo in Italia del contribuente ma anche quello all’estero, ovvero l’indicazione che trattasi di contribuente residente all’estero, dopo avere esclusa l’esistenza di abitazioni, uffici o aziende del destinatario nel Comune di competenza si procederà alla notificazione ai sensi della lettera e) dell’articolo 60 del D.P.R. 600/1973.

Alcuni Uffici Anagrafe iscrivono le persone fisiche all’AIRE (che sono sempre e solo persone fisiche), le quali possono anche non avere mai avuto una residenza reale in Italia. A volte li “collocano” in un “indirizzo di “fantasia” (cioè non esistente nella realtà) di quel Comune per poter meglio identificare (dal punto di vista informatico) la sezione elettore territorialmente competente dove, potenzialmente, farli votare.

ATTENZIONE

Le modalità operative cui abbiamo fatto riferimento partono dal presupposto che l’ufficio finanziario che ci ha inviato l’atto abbia agito “correttamente”.

Nella realtà dei fatti, però, dobbiamo purtroppo costatare che, a volte, alcuni operatori dell’amministrazione finanziaria non sono sempre a conoscenza del corretto iter da osservare riguardo alla questione qui trattata o che sono commessi degli involontari errori procedurali.

Questo, quindi, non sempre ci consente di operare con serenità, per cui a volte può essere opportuno sincerarsi della “vera e consapevole volontà” dell’ufficio finanziario inviante contattandolo, anche tramite fax, al fine di dirimere i possibili dubbi circa l’esatto quadro della situazione.

Il precitato contatto è opportuno avvenga anche quando la restituzione dell’atto (non notificato) dovesse avvenire in prossimità dalla scadenza dei termini di prescrizione poiché NON è escludibile, a priori, che il Messo Comunale debba invece procedere, nell’immediatezza, alla notifica ai sensi della lettera e) dell’articolo 60 del D.P.R. 600/1973 nonostante l’iscrizione del contribuente all’A.I.R.E..

Leggi: Circolare 2009-010 Notificazione atti finanziari ad iscritto AIRE


Corte Costituzionale Sentenza n. 275 del 19.10.2009

La lavoratrice che lavora oltre i 60 anni non deve comunicarlo

 

Presidente AMIRANTE – Redattore MAZZELLA

Camera di Consiglio del 07/10/2009 Decisione del 19/10/2009

Deposito del 29/10/2009 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate:

Art. 30 del decreto legislativo 11/04/2006, n. 198.

Atti decisi:

ord. 91/2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco  AMIRANTE       Presidente

– Ugo               DE SIERVO        Giudice

– Paolo            MADDALENA               “

– Alfio              FINOCCHIARO             “

– Alfonso        QUARANTA                  “

– Luigi              MAZZELLA                   “

– Gaetano        SILVESTRI                   “

– Sabino           CASSESE                    “

– Maria Rita    SAULLE                       “

– Giuseppe      TESAURO                    “

– Paolo Maria   NAPOLITANO               “

– Giuseppe      FRIGO                         “

– Alessandro  CRISCUOLO                 “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), promosso dal Tribunale di Milano nel procedimento vertente tra Caterina Giovinazzo e la Manutencoop Facility Management S.p.A., con ordinanza del 1° dicembre 2008, iscritta al n. 91 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza emessa il 1° dicembre 2008, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il lavoratore di sesso maschile – l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la re cedibilità ad nutum di quest’ultimo dal rapporto di lavoro.

Riferisce il rimettente che, con ricorso ex art. 414 c.p.c., la signora Caterina Giovinazzo aveva convenuto in giudizio l’impresa Manutencoop Facility Management S.p.A., per impugnare il licenziamento a lei intimato in data 9 maggio 2007. La ricorrente aveva esposto di essere stata licenziata in data 9 maggio del 2007 per avere raggiunto l’età pensionabile, senza anticipatamente manifestare la propria intenzione di volere proseguire nel rapporto di lavoro. La difesa di parte ricorrente, insistendo per l’accertamento della illegittimità del recesso, aveva sollevato eccezione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 4, 27 e 35 della Carta costituzionale, della disposizione di cui all’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198, che, a suo dire, aveva reintrodotto lo stesso onere di comunicazione già dichiarato incostituzionale con ripetuti pronunciamenti della Corte costituzionale (sentenze n. 138 del 1986, n. 498 del 1988 e n. 256 del 2002).

Il rimettente ricorda che la Corte costituzionale aveva dichiarato dapprima l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge n. 604 del 1966 e di altre disposizioni connesse (sentenza n. 137 del 1986), «nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per questo motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno d’età, anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo», giudicando ormai venute meno quelle ragioni e condizioni che in precedenza potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo, e, di riflesso, illegittima qualsiasi disposizione che differenziasse l’applicazione dei diritti di tutela del posto di lavoro alla condizione di essere lavoratore uomo, ovvero lavoratrice donna.

In seguito, anche l’onere, introdotto dall’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), di comunicare anticipatamente al datore di lavoro la propria intenzione di proseguire a lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, era stato parimenti dichiarato incostituzionale.

Detti principi, prosegue il rimettente, venivano poi ulteriormente ribaditi dalla pronunzia n. 256 del 2002, laddove si afferma, in sintesi, che «i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 37, primo comma, non consentono di regolare l’età lavorativa della donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite massimo di età, ma anche riguardo alle condizioni per raggiungerlo».

Sennonché, riferisce il Tribunale di Milano, il legislatore, tramite l’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), nel ribadire il pieno diritto delle donne lavoratrici di continuare a lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, di fatto ha reintrodotto le disposizioni in materia di preventiva dichiarazione di opzione al datore di lavoro, nel senso di subordinare il diritto della donna lavoratrice alla stabilità del rapporto di lavoro fino al sessantacinquesimo anno di età, ad una esplicita e preventiva manifestazione di volontà.

Tanto premesso, il Tribunale rimettente dubita che la pure constatata esistenza di una normativa di carattere previdenziale più favorevole per le donne, possa essere tale da giustificare una tutela differenziata in materia di licenziamenti.

Infatti, le argomentazioni che avevano già in passato indotto la Corte costituzionale a dichiarare illegittima e priva di una logica giustificatrice l’introduzione di un obbligo per le lavoratrici donne, quale condizione per rendere applicabile la normativa vincolistica sui licenziamenti, non solo appaiono al rimettente di rinnovata attualità, ma addirittura rafforzate proprio alla luce delle penetranti modifiche che si sono venute a determinare nel mercato del lavoro e nella struttura della società italiana (ed europea), che sempre più valuta come radicalmente inattuale qualsiasi differenziazione di norme e/o di trattamenti in funzione del sesso.

Nella fattispecie, quindi, siccome la richiesta opzione discrimina la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del rapporto di lavoro e, quindi, la diminuita tutela della lavoratrice in tema di licenziamento, sussisterebbe la violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro.

2. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato ed ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

Secondo la difesa erariale, la circostanza che la facoltà della donna di restare in servizio sino all’età massima prevista per gli uomini sia subordinata, dall’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, all’onere di una preventiva comunicazione al datore di lavoro non sarebbe discriminatoria rispetto all’uomo né sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost. né sotto il profilo della violazione dell’art. 37 Cost., essendo mutato il quadro normativo di riferimento rispetto alla sentenza n. 498 del 1988.

Essendo, infatti, facoltà della lavoratrice avvalersi o meno della possibilità di prolungare il rapporto di lavoro fino al limite massimo di 65 anni, subordinare la continuazione del rapporto ad una tempestiva comunicazione al datore di lavoro, afferma l’Avvocatura, si giustifica perfettamente con le esigenze organizzative di questo e la necessità per lo stesso di conoscere per tempo le determinazioni del proprio dipendente in proposito.

Parimenti infondato, per il Presidente del Consiglio, sarebbe anche l’ulteriore parametro costituzionale invocato a sostegno della denunciata incostituzionalità della norma e basato su una presunta discriminazione delle donne lavoratrici in assenza di un analogo obbligo per i lavoratori. Infatti, la previsione dell’obbligo della comunicazione per le sole donne si giustificherebbe sempre con l’originaria diversa disciplina in materia di età pensionabile.

Secondo il Presidente del Consiglio, poiché è riconosciuta solo alle lavoratrici donne la possibilità prolungare la propria età lavorativa fino a quella prevista per gli uomini, in un’ottica di parificazione totale tra i due sessi, ma nella salvaguardia di vecchi principi e diritti, e non prevedendosi un’analoga possibilità di prolungamento del rapporto di lavoro per gli uomini, come tali tenuti ad andare in pensione al raggiungimento dei 65 anni, l’obbligo della comunicazione non potrebbe che essere imposto alla sole donne, non essendo concepibile un obbligo di comunicazione per una facoltà non riconosciuta.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Milano dubita, con riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il lavoratore di sesso maschile – l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la recedibilità ad nutum da parte di quest’ultimo dal rapporto di lavoro.

2. – Nella legislazione precedente, il principio di cui all’art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), che sanciva la radicale inapplicabilità della tutela contro i licenziamenti illegittimi alle lavoratrici che fossero rimaste in servizio oltre il raggiungimento della loro età pensionabile (allora prevista in 55 anni), era stato temperato successivamente dall’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), in base al quale, alla maturazione di detta età pensionabile, le lavoratrici ben potevano restare in servizio fino al raggiungimento dell’età lavorativa massima prevista per gli uomini (all’epoca 60 anni), a condizione che comunicassero tale loro opzione al datore di lavoro tre mesi prima del raggiungimento dell’età pensionabile.

Le ora riportate disposizioni avevano formato oggetto di due successivi interventi da parte di questa Corte. Con la sentenza n. 137 del 1986, sul presupposto che l’avvento di nuove tecnologie e metodi di produzione e di riforme intervenute nel campo del diritto del lavoro aveva reso il lavoro femminile meno usurante e più sicuro, era stato dichiarato illegittimo, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 37 Cost., l’art. 11 della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui prevedeva il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno di età anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo. In altri termini, si riconosceva, alla medesima lavoratrice, la scelta se essere collocata a riposo alla stessa età degli uomini, conservando la piena tutela contro il licenziamento ingiustificato, o se andare in pensione anticipatamente.

Restava tuttavia in vigore la previsione, contenuta nell’art. 4 della legge n. 903 del 1977, dell’onere, per la donna che scegliesse di restare in servizio oltre l’età pensionistica, di comunicare al datore di lavoro tale opzione tre mesi prima della data di scadenza, pena la perdita da parte della stessa della tutela contro i licenziamenti ingiustificati. Ebbene, anche tale previsione, in tutto corrispondente a quella oggetto dell’odierna questione, veniva dichiarata illegittima, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, con la sentenza n. 498 del 1998, “nella parte in cui subordina il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, all’esercizio di un’opzione in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di maturazione dei predetti requisiti”. Nella citata pronuncia, la Corte affermava che anche la previsione di un simile onere discrimina «la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto […], non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e […] risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro», e ribadiva che «l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione».

3. – La questione sottoposta ora all’esame della Corte è fondata in relazione ai medesimi parametri degli artt. 3 e 37 della Costituzione.

Nessuna delle disposizioni di legge intervenute in materia nell’arco temporale intercorso tra le disposizioni dichiarate illegittime da questa Corte e l’odierna questione di costituzionalità ha in alcun modo alterato i termini del problema.

Nel periodo indicato, ben vero, si è realizzato, a più scaglioni, un complessivo spostamento in avanti dell’età pensionistica di uomini e donne. L’art. 1 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), emesso in attuazione di tale legge, ha infatti disposto, secondo quanto indicato in una tabella allegata al decreto stesso poi sostituita dall’art. 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), per il periodo compreso tra il primo gennaio 1994 e il 31 dicembre 1999, una elevazione graduale dei limiti di età rispettivamente previsti per gli uomini e per le donne (compresa, per i primi, tra i sessantuno e i sessantaquattro anni e per le donne tra i cinquantasei e i cinquantanove anni) fino a pervenire, con la disciplina “a regime”, decorrente dal 1° gennaio 2000, alla introduzione del limite di sessantacinque anni di età per gli uomini e sessanta anni per le donne.

Tali interventi normativi, tuttavia, non hanno inciso sulla persistente validità delle precedenti statuizioni di questa Corte, in quanto non hanno determinato alcuna alterazione della portata e dell’incidenza della disposizione oggi censurata, identica a quella già dichiarata incostituzionale.

Infatti, come questa Corte ha già chiarito nella sentenza n. 256 del 2002, «le innovazioni introdotte […] non hanno violato il principio costituzionale della parità tra uomo e donna riguardo all’età lavorativa, più volte affermato da questa Corte in quanto sancito dagli artt. 3 e 37 della Costituzione. Infatti, mentre le diverse disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità di fare ricorso al pensionamento c.d. posticipato, originariamente introdotto dall’art. 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, non contengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei due sessi, le altre disposizioni hanno esclusivamente innalzato i limiti della età pensionabile perpetuando in riferimento a tale età, sia pure con uno spostamento in avanti, la differenza già esistente tra uomini e donne, la quale continua a costituire un giustificato beneficio per queste ultime, ma non hanno in alcun modo reintrodotto per le donne la correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa.».

4. – La disposizione censurata con l’odierno incidente di costituzionalità, ha dunque introdotto, in un contesto normativo non alterato, per quanto rileva in questa sede, dalle pur numerose novità legislative apportate, una norma dal medesimo contenuto precettivo dell’art. 4 della legge n. 903 del 1977, la cui illegittimità costituzionale è stata dichiarata da questa Corte con la citata sentenza n. 498 del 1998. Tale disposizione, nel subordinare il riconoscimento della tutela contro il licenziamento ingiustificato al rispetto di un onere di comunicazione perfettamente coincidente con quello già dichiarato illegittimo da questa Corte, realizza la medesima discriminazione tra lavoro maschile e lavoro femminile già stigmatizzata in tale occasione.

Anche nella disposizione oggi censurata, l’onere di comunicazione posto a carico della lavoratrice, infatti, condizionando il diritto di quest’ultima di lavorare fino al compimento della stessa età prevista per il lavoratore ad un adempimento – e, dunque, a un possibile rischio – che, nei fatti, non è previsto per l’uomo, compromette ed indebolisce la piena ed effettiva realizzazione del principio di parità tra l’uomo e la donna, in violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando nuovamente leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro.

Né la reintroduzione di un istituto, quale l’onere di comunicazione, già dichiarato illegittimo da questa Corte può essere ritenuta giustificata in ragione di una maggiore considerazione delle esigenze organizzative del datore di lavoro, dato che, proprio per effetto dell’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale, quest’ultimo, nell’organizzare il proprio personale dovrà considerare come normale la permanenza in servizio della donna oltre l’età pensionabile e come meramente eventuale la scelta del pensionamento anticipato, nella prospettiva, già indicata da questa Corte, della tendenziale uniformazione del lavoro femminile a quello maschile.

5. – Va dunque dichiarata, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti individuali.

6. – Le questioni relative agli artt. 4 e 35 della Costituzione restano assorbite.

per questi motivi

la corte costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti individuali.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2009.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


Adeguamento dell’indennità di trasferta spettante agli ufficiali giudiziari

Adeguate a partire dal 2 novembre prossimo le indennità di trasferta degli ufficiali giudiziari. Sulla Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato il decreto 1 ottobre 2009 del ministro della giustizia Angelino Alfano recante appunto “Adeguamento dell’indennità di trasferta spettante agli ufficiali giudiziari”. L’adeguamento, come previsto dal dpr 30 maggio 2002, n. 115, calcolato in relazione alla variazione percentuale dei prezzi al consumo per le famiglie di operai e impiegati verificatasi nel triennio 1° luglio 2006-30 giugno 2009, è pari a +5,5.

DECRETO 1 ottobre 2009
Adeguamento dell’indennità di trasferta spettante agli ufficiali giudiziari.
(GU n. 231 del 5-10-2009) 

IL CAPO DEL DIPARTIMENTO
dell’organizzazione giudiziaria del personale e dei servizi del Ministero della giustizia di concerto con
IL RAGIONIERE GENERALE DELLO STATO

      Visto   l’art.  20,  punto  3  del  decreto  del  Presidente  della  Repubblica 30  maggio  2002,  n.  115,  relativo al Testo unico delle discipline  legislative  e  regolamentari  in  materia  di  spese  di giustizia,   il  quale  prevede  che  con  decreto  dirigenziale  del Ministero della giustizia, di concerto con il Ministero dell’economia  e  delle Finanze,  si  provveda  all’adeguamento  dell’indennità di trasferta   degli  ufficiali  giudiziari,  in  base  alla  variazione dell’indice  dei  prezzi  al  consumo  per le famiglie di operai e di impiegati,   accertata   dall’Istituto   nazionale  di  statistica  e verificatasi nell’ultimo triennio;
Visti  gli  articoli  133  e  142  del decreto del Presidente della Repubblica 15 dicembre 1959, n. 1229, e successive modificazioni;
Visti  gli  articoli  26  e  35  del  decreto  del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115;
Considerato che l’adeguamento previsto dal succitato art. 20, punto 3 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, calcolato  in  relazione  alla  variazione  percentuale dei prezzi al consumo  per  le  famiglie  di  operai  e  impiegati verificatasi nel triennio 1° luglio 2006-30 giugno 2009, e’ pari a +5,5;
Visto  il  decreto  interdirigenziale  del  5 agosto 2008, relativo all’ultima  variazione dell’indennità di trasferta per gli ufficiali giudiziari;
Decreta:
Art. 1.

1.  L’indennità  di trasferta dovuta all’ufficiale giudiziario per il viaggio di andata e ritorno è stabilita nella seguente misura:
a) fino a 6 chilometri € 1,65;
b) fino a 12 chilometri € 3,00;
c) fino a 18 chilometri € 4,14;
d) oltre  i  18  chilometri,  per ogni percorso di 6 chilometri o frazione  superiore  a  3  chilometri  di  percorso successivo, nella misura di cui alla lettera c), aumentata di € 0,88.
2.  L’indennità di trasferta dovuta all’ufficiale giudiziario, per  il  viaggio  di  andata  e  ritorno  per ogni atto in materia penale, compresa la maggiorazione per l’urgenza è cosi’ corrisposta:
a) fino a 10 chilometri € 0,45;
b) oltre i 10 chilometri fino a 20 chilometri € 1,11;
c) oltre i 20 chilometri € 1,65.


TESSERAMENTO 2010

TESSERAMENTO 2010
La Giunta Esecutiva, nella seduta del 16.05.2009, ha deliberato le quote per il tesseramento 2010 che rimangono pressoché invariate:
Le tipologie delle quote di adesione all’Associazione A.N.N.A. per l’anno 2010 sono:
Tipo A – Messi Comunali: € 60,00
Tipo B – Messi del Giudice di Pace e di Conciliazione: € 60,00;
Tipo C – Ufficiali Giudiziari: € 60,00;
Tipo D – Messi Provinciali: € 60,00;
Tipo E – Messi Notificatori di cui alla legge Finanziaria del 2007 € 60,00
Tipo F – Addetti di Polizia Municipale € 60,00
Tipo G – Avvocati e 100,00
Tipo H – Ex Messi Comunali non più in attività e 30,00 con esclusione della copertura assicurativa;
Tipo I – Comuni fino a 10.000 abitanti: e 100,00;
Tipo L – Comuni con popolazione da 10.001 a 100.000 abitanti: e 150,00;
Tipo M – Comuni con popolazione oltre i 100.001 abitanti: € 200,00;
Tipo N – Altri Enti (Consorzi di servizi, Unioni, ecc.): € 250,00;
Tipo O – Soggetti privati ai sensi dell’art. 8 dello Statuto dell’Associazione: € 250,00
L’iscrizione delle tipologie A, B, C, D, E, F, G comprendono la copertura assicurativa oltre alle agevolazioni previste dalle convenzioni che l’Associazione ha già stipulato e che effettuerà;
L’iscrizione dell’Ente oltre ad avere, su richiesta, la fornitura gratuita del software di gestione delle notifiche MC3 LIGHT e le agevolazioni previste dalle convenzioni che l’Associazione ha già stipulato e che effettuerà, avrà l’iscrizione gratuita all’Associazione se sottoscriverà la convenzione sulla formazione. Tale schema di convenzione potrà essere adattata alle singole situazioni.


Pubblico impiego: in pensione con 40 anni di contributi

Si estende la possibilità delle pubbliche amministrazioni di mandare in pensione i propri dipendenti: i 40 anni di anzianità per far scattare il recesso unilaterale sono conteggiati sui contributi e non più sul servizio effettivo come era previsto all’art. 6 comma 3 della legge delega n.15/2009 che aveva modificato, restringendolo, l’ambito di applicazione della norma introdotta dalla manovra finanziaria nell’estate del 2008. Di conseguenza, dal 5 agosto scorso è possibile mandare in pensione – con atto unilaterale – i dipendenti pubblici con 40 anni di contributi. Lo stabilisce la legge 3 agosto 2009 n. 102 di conversione del decreto anticrisi (78/2009). Al fine di chiarire le ricadute sui destinatari della legge n. 15/2009, in vigore da marzo ad agosto di quest’anno, e per meglio illustrare l’ambito di applicazione della norma, il ministro per la Pubblica Amministrazione e l’Innovazione, Renato Brunetta, ha emanato il 16 settembre scorso una apposita circolare che conferma in generale quanto già illustrato con la circolare n. 10 del 2008. La nuova circolare chiarisce che la norma si applica anche ai dirigenti, con la sola esclusione dei magistrati, dei professori universitari e dei dirigenti medici responsabili di struttura complessa. Per i comparti difesa, sicurezza ed esteri, la determinazione dei criteri e delle modalità di applicazione è demandata ad appositi decreti del Presidente del Consiglio. La circolare n. 4/2009 chiarisce inoltre il carattere eccezionale dell’intervento limitato al triennio 2009-2011. La norma è immediatamente applicabile ed è valida fino al 31 dicembre 2011. L’amministrazione, si legge nella circolare, esercita la facoltà di risoluzione unilaterale nell’ambito del potere datoriale con l’unica condizione del preavviso di 6 mesi.


Circolare 2009-009 La notificazione alle persone giuridiche secondo l’articolo 145 c.p.c. e l’articolo 60 del D.P.R. 600/1973

La notificazione alle persone giuridiche secondo il combinato disposto dell’articolo 145 c.p.c. e dell’articolo 60 del D.P.R. 600/1973

All’indomani della modifica operata dalla L. 263/2005 all’articolo 145 c.p.c., si pose subito il problema della sua applicabilità quando la notificazione debba essere eseguita ai sensi dell’art. 60 del D.P.R. 600/1973.

Poiché non era possibile ovviamente far riferimento a specifiche sentenze, data la novità delle variazioni apportate, scegliemmo di aderire come Associazione ad autorevole interpretazione che sembrava ragionevolmente adatta a risolvere i problemi che si stavano ponendo.

Le novità apportate, infatti, consentivano l’alternatività del destinatario della notificazione (società presso la sede o legale rappresentante presso la sua residenza o domicilio), non sottoposta più al previo tentativo di notifica presso la sede della persona giuridica e introducevano una norma di chiusura del procedimento, affidata in precedenza solo alle interpretazioni giurisprudenziali.

Il problema che si poneva, infatti, era fino a che punto potesse pesare la facoltà di scegliere il destinatario della notificazione, cioè la libertà di recarsi presso la sede della società o presso il rappresentante della stessa alla sua residenza o domicilio, nel procedimento di notifica dell’atto finanziario.

L’altro problema che si poneva era che il vincolo del domicilio fiscale, quale luogo di notificazione avrebbe potuto impedire l’esecuzione della notifica presso l’abitazione, ufficio o azienda del legale rappresentante, impedendo pure la successiva adozione dell’articolo 140 c.p.c. o della lettera e) dell’articolo 60 (in luogo del 143 c.p.c.) nei suoi confronti, nel caso di non coincidenza dei domicili fiscali della società e del rappresentante della stessa, con conseguente stallo della situazione.

L’interpretazione in questione sembrava risolvere tutti questi problemi poiché partendo dalla considerazione che vi è una immedesimazione organica tra società e suo rappresentante legale e stante l’alternatività delle due figure nella nuova versione dell’articolo 145 c.p.c., si riteneva possibile procedere alla notificazione al Legale Rappresentante, con spiegamento dei suoi effetti verso la società, anche se lo stesso avesse avuto residenza in altro comune, divenendo quello il domicilio fiscale di riferimento. Ciò quindi consentiva di assolvere il precetto della lettera c) dell’articolo 60 riguardo l’invalicabilità del domicilio fiscale del destinatario dell’atto, poiché la scelta del destinatario determinava parallelamente il domicilio fiscale entro cui realizzare la notificazione.

In conseguenza di questo ragionamento non vi sarebbe stato più alcun ostacolo a giungere alla notificazione ai sensi dell’articolo 140 c.p.c. o della lettera e) dell’articolo 60 (in sostituzione dell’articolo 143 c.p.c.) vista la piena applicabilità dell’ultimo comma dell’articolo 145 c.p.c.

Assunta questa linea di condotta, siamo rimasti in attesa di sentenze che potessero confermare tale interpretazione o confutarla. Dall’entrata in vigore della modifica dell’articolo 145 c.p.c. sono in effetti uscite diverse sentenze, che però si sono espresse su notificazioni avvenute ante modifica e quindi senza entrare specificatamente nel merito della questione.

Tuttavia quello che ci ha spinto a ripensare alle modalità di notifica che qui stiamo trattando è proprio dovuto al fatto che le sentenze anche più recenti (sull’applicazione del combinato disposto dell’articolo 60 e articolo 145 c.p.c.) non avendo ritenuta necessaria alcuna menzione sulle modifiche apportate, hanno così implicitamente riconosciuto una sostanziale immutatezza del precetto ante e post modifica, tale almeno da non consentire la notifica fuori dal domicilio fiscale della società.

Tale dubbio ha come naturale conseguenza la ricerca nell’articolo 60, di un’interpretazione della norma che possa escludere o confermare che il limite del domicilio fiscale di cui alla lettera c), sia osservato solo a condizione che la notificazione avvenga nel comune ove ha sede la persona giuridica.

Una importante considerazione va fatta circa il temine  «destinatario» usato nella formulazione della lettera c) dal legislatore poiché, avulso dal contesto e considerando un’interpretazione puramente letterale del termine, la notificazione ad altro destinatario quale si configurerebbe quella presso il legale rappresentante, soddisferebbe il criterio dettato dalla lettera c), anche se questi risiedesse in altro comune.

Ciò può essere vero però se al termine «destinatario» (cui la lettera c) si riferisce) non sia possibile attribuire il significato che invece sarebbe più corretto di «contribuente».

Perché tale distinzione dovrebbe fare la differenza?

Perché il contribuente è uno ed uno solo, è cioè l’intestatario dell’atto cui il tributo si riferisce. Come sappiamo, infatti, la società è da considerarsi un soggetto giuridico ed economico distinto dal suo rappresentante e a seconda del tipo di società, il legale rappresentante potrà anche non dover far fronte in caso di bisogno, con le proprie risorse, alla pretesa tributaria.

Ma come possiamo essere sicuri che il legislatore abbia voluto intendere «contribuente»?

Se leggiamo attentamente il disposto della lettera c) e lo confrontiamo con quello della lettera e), vedremo che nella prima si statuisce che: «… salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie , la notificazione deve essere fatta nel comune di domicilio fiscale del destinatario»; nella seconda invece si dice: «… quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente …»

Possiamo notare che la seconda, facendo riferimento alla prima, dà l’interpretazione del termine «destinatario», che precisamente deve intendersi come «contribuente» poiché il riferimento è fatto allo stesso comune.

Per tal motivo, dovendo fare riferimento al domicilio fiscale del «contribuente», tale essendo la società e non il legale rappresentante, non è possibile scegliere il domicilio fiscale del secondo quale altro luogo diverso ove eseguire la notificazione.

A suffragio di tale interpretazione e della volontà del legislatore, possiamo notare che nell’unico caso previsto dall’art. 60, di sostituibilità del destinatario della notifica e cioè quello della lettera d), notifica al domiciliatario, il legislatore si è premurato di circoscrivere la scelta del domicilio eletto sempre all’interno dello stesso domicilio fiscale del contribuente.

E’ inoltre difficilmente sostenibile che il legislatore abbia voluto usare il termine «destinatario» col preciso intento di consentire un’interpretazione diversa da «contribuente» posto che nell’articolo 60, la stessa lettera e) che consente la notificazione per mancanza di abitazione, ufficio o azienda, non comprendendo il termine sede, conferma l’assenza di norme operative specifiche per il soggetto diverso dalla persona fisica.

Poiché la norma non è stata organizzata considerando un possibile diverso soggetto di riferimento per la notificazione, tranne che ad esempio quello espressamente previsto nella lettera d) con le specifiche limitazioni del caso risultava implicita l’equiparazione del «destinatario» al termine «contribuente».

E’ solo grazie all’interpretazione giurisprudenziale che è stato successivamente possibile ritenere applicabile la lettera e) pure alle persone giuridiche, presso la sede.

L’ulteriore problema che si pone in riferimento alle considerazioni iniziali, dunque è se possa l’applicazione dell’art. 145 c.p.c. nell’attuale stesura, consentire di giungere alla conclusione della notificazione, quando il domicilio fiscale del «contribuente» non coincida con la residenza o domicilio del Legale Rappresentante.

Vediamo, infatti, che la notificazione con la procedura degli irreperibili momentanei o assoluti, cioè l’articolo 140 c.p.c. o 143 c.p.c. (lettera e) dell’art. 60 del DPR 600/1973 per gli atti finanziari), è prevista esplicitamente solo per il legale rappresentante e pur tuttavia non dicendo nulla sulla notificazione presso la sede neppure pone ostacoli alle altre possibilità indicate dalla giurisprudenza.

All’art. 60, comma 1, possiamo giovarci della seguente considerazione e cioè che al procedimento ordinario vengono applicate delle modifiche.

Ora trattandosi di legge speciale, la stessa non può essere sacrificata al tentativo di piena applicabilità degli articoli del c.p.c., richiamati sì dalla norma, ma pur sempre modificati dalle variazioni al procedimento del codice di rito previste dall’art. 60.

Di conseguenza ci si deve chiedere a quali norme far riferimento per giungere alla realizzazione della notifica, nel caso in cui non si possa procedere alla notifica al legale rappresentante quando questi risieda in Comune diverso da quello del «contribuente».

Come è stato detto all’inizio, la soluzione già esiste. La Corte Suprema di Cassazione si era, infatti, già espressa sull’applicabilità dell’articolo 140 c.p.c. e della lettera e) (art. 60 DPR 600/1973), facendo riferimento alla sede della società, ante modifica dell’art. 145 c.p.c. e così ha continuato a fare nelle più recenti sentenze (Cass. civ., sez. V, 9.1.2009, n. 216, Cass. 10177/2009, Cass. civ., sez. V, 10.3.2008, n. 6325).

Diversamente, quando sede della società e legale rappresentante sono all’interno dello stesso comune, nell’impossibilità di notificare presso la sede e presso la residenza o domicilio del rappresentante, si procederà nei suoi confronti come disposto dall’ultimo comma dell’articolo 145 c.p.c.

In conclusione, dunque, si ritiene che l’art. 145 c.p.c., possa essere applicato senza differenziazioni tra atti amministrativi e atti finanziari da notificarsi ai sensi dell’articolo 60 del D.P.R. 600/1973, solo se il legale rappresentante abbia abitazione, ufficio o azienda nello stesso comune di domicilio fiscale della società.

In caso contrario, mentre per gli atti amministrativi in genere, si potrà notificare anche nel comune di residenza o domicilio del legale rappresentante, arrivando all’adozione nei suoi confronti pure dell’articolo 140 c.p.c. e dell’articolo 143 c.p.c. secondo le modalità indicate nel 3° comma dell’articolo 145 c.p.c., per gli atti finanziari di cui sopra e nella stessa eventualità appena prospettata, si dovrà procedere all’adozione, dettata dal caso concreto, dell’articolo 140 c.p.c. o dell’articolo 60 lettera e) nei confronti della società presso la sua sede legale.

Leggi: Circolare 2009-009 145 c.p.c. Atti Finanziari


Concessionario per la riscossione: nulla la notifica della cartella a chi dice di conoscere il destinatario

La Corte di Cassazione, sez. trib., è intervenuta in materia di notificazioni eseguite dal Fisco, statuendo un principio piuttosto rigoroso con la sentenza n. 15525 del 2 luglio 2009,.

La vicenda trae origine dal ricorso del concessionario per la riscossione avverso la sentenza di secondo grado, che accoglieva l’eccezione di nullità della cartella di pagamento per invalidità della notifica, in quanto seppur notificata presso la sede legale della società, tale notifica avveniva nelle mani di una persona qualificatasi conoscente dell?imprenditore, pregiudicando così l’effettiva conoscibilità dell’atto da parte dello stesso.

Infatti, secondo i Giudici, l’aver notificato l’atto presso la sede legale della società nelle mani di una persona che dice di conoscere i vertici aziendali non è sufficiente a far sì che la notifica sia ritenuta valida, in quanto il rispetto delle regole dettate dal codice di procedura civile, ed in questo caso dell’art. 145 c.p.c., deve essere rigoroso.

L?art. 145 del c.p.c., infatti, dispone che “la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”.

La Suprema Corte, infatti, ha precisato che “se la notifica era stata effettuata ai sensi di questa norma presso la sede della società, la notifica andava eseguita ai soggetti ivi indicati e non certamente, come nel caso di specie, a persona qualificatasi quale conoscente del rappresentante legale”.

I Giudici di legittimità hanno, poi, colto l?occasione per ribadire un altro importante principio di diritto, statuito per la prima volta dalle Sezioni Unite, con la sentenza n. 16412 del 25 luglio 2007, secondo il quale “in materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce vizio procedurale che comporta la nullità della notifica dell’atto consequenziale notificato”.

Con tale sentenza, la Suprema Corte ha senza dubbio dato un segnale forte, posto che sulla base di tale vizio di invalidità della notificazione la società contribuente non dovrà versare le maggiori imposte dovute non essendole state, peraltro, neanche attribuite le spese di giudizio.

Peraltro, si ritiene che il principio di diritto espresso nella suddetta sentenza sia suscettibile di applicazione generale in materia di notifica di atti impositivi, cosicché il contribuente, sulla scorta di tale giurisprudenza, ogni qualvolta riscontri che la norma di riferimento non sia stata rispettata rigorosamente, potrà eccepire con successo l’invalidità della notifica, travolgendo così l’intera pretesa tributaria vantata dalla controparte.

La Cassazione ha sottolineato, così, come il pieno rispetto delle regole processuali debba essere imposto anche al concessionario, pena l’invalidità dell’atto esattivo da questa emesso, in guisa ad una tanto sospirata parità di trattamento delle parti, soprattutto in relazione alla valutazione delle conseguenze giuridiche sottese ai comportamenti da questi posti in essere, non sempre pienamente conformi alle norme di legge e non sempre giudicate con la medesima severità.


Corte Suprema di Cassazione: multe nulle se il numero civico è sbagliato

Sono nulle le multe se vengono notificate indicando un numero civico sbagliato. Lo ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione, II° sez. Civ. con la sentenza n. 19323/2009 che ha accolto le richieste di un automobilista a cui era stata recapitata una cartella esattoriale che gli intimava di pagare tre sanzioni amministrative di cui non era mai stato portato a conoscenza. La Corte Suprema di Cassazione, nelle motivazioni della sentenza,spiega che le raccomandate “non erano state recapitate ma erano state restituite per compiuta giacenza”. In una delle notifiche però “risultava errato il civico presso il quale risultava essere stata fatta la ricerca da parte dell’ufficiale notificante”. In primo grado il Giudice di Pace non aveva voluto sentire ragioni ed aveva ritenuto che l’automobilista dovesse comunque pagare quelle multe. Il caso è così finito in Cassazione dove l’automobilista ha fatto notare la presenza di diversi errori di notifica e tra questi l’errata indicazione del numero civico. Accogliendo il ricorso la Corte ha annullando la cartella esattoriale mettendo in chiaro che “non si può prescindere dalla verifica dell’esito del procedimento notificatorio (rilevabile solo dall’avviso di ricevimento) ai fini di considerare regolare o meno la notifica del verbale, non potendosi escludere in linea generale che l’avviso di deposito-giacenza dell’atto non sia in effetti pervenuto alla conoscenza dell’interessato, privandolo così della possibilità di tutelare i propri diritti”.


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 22-05-2009) 07-09-2009, n. 19315

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere

Dott. SALVATO Luigi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.V., con domicilio eletto in Roma, Via Monte Santo n. 14 presso gli Avv.ti Sergio Falcone e Pierfrancesco Rina, rappresentato e difeso dall’Avv. RINA Vincenzo, come da procura in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

per la cassazione del decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 3 novembre 2005.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del giorno 22 maggio 2009 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio Zanichelli;

Viste le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo e il rigetto degli altri.

Svolgimento del processo
M.V. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che ha accolto parzialmente il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo iniziato avanti al Tribunale di Napoli nel settembre del 1988 e ancora pendente alla data di presentazione della domanda.

L’Amministrazione non ha svolto difese.

La causa è stata assegnata alla Camera di consiglio essendosi ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso con cui si lamenta che la Corte abbia ritenuto ragionevole una durata di quattro anni per il processo avanti al Tribunale è manifestamente fondato.

Premesso infatti che “La Corte Europea dei diritti dell’uomo, ai cui principi il giudice nazionale deve tendenzialmente uniformarsi nella determinazione della durata ragionevole del procedimento, ha in linea di massima stimato tale durata in anni tre per quanto riguarda il giudizio di primo grado ed in anni due per quello di secondo grado;

da questi parametri il giudice può discostarsi riconoscendo una durata ragionevole maggiore o minore in considerazione della maggiore o minore complessità dei procedimento” (Cassazione civile, sez. 1^, 3 aprile 2008, n. 8521), non appare congrua la motivazione adottata per scostarsi dagli standard, posto che la Corte si è limitata ad accennare alla “natura” del procedimento e alla “istruttoria necessaria” senza minimamente indicare perché l’una e l’altra abbiano comportato un impegno straordinario.

Manifestamente fondato è anche il secondo motivo con cui si lamenta l’insufficiente quantificazione dell’indennizzo per il danno morale conseguente all’ingiustificata durata del processo, liquidato dal giudice del merito in Euro 500,00 in ragione d’anno.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito come la valutazione dell’indennizzo per danno non patrimoniale resti soggetta – a fronte dello specifico rinvio contenuto nella L. n. 89 del 2001, art. 2 – all’art. 6 della Convenzione, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, e, dunque, debba conformarsi, per quanto possibile, alle liquidazioni effettuate in casi similari dal Giudice europeo, sia pure in senso sostanziale e non meramente formalistico, con la facoltà di apportare le deroghe che siano suggerite dalla singola vicenda, purché in misura ragionevole (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2004, n. 1340); in particolare, detta Corte, con decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004 (v., in particolare, le pronunce sul ricorso n. 62361/01 proposto da Riccardi Pizzati e sul ricorso n. 64897/01 Zullo), ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione dell’indennizzo, ferma restando la possibilità di discostarsi da tali limiti, minimo e massimo, in relazione alle particolarità della fattispecie, quali l’entità della posta in gioco e il comportamento della parte istante (cfr., ex multis, Cass., Sez. 1^, 26 gennaio 2006, n. 1630). A tali principi non si è adeguata la Corte d’appello che ha liquidato un importo notevolmente inferiore senza darsi carico di motivare lo scostamento.

Il terzo motivo con cui si censura la liquidazione delle spese è assorbito, stante la necessità di procedere ad una nuova liquidazione.

Il ricorso deve dunque essere accolto e cassata la sentenza impugnata nei limiti precisati. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto la causa può essere decisa nel merito e pertanto, ritenuto che non sussistano motivi per discostarsi dallo standard minimo indicato dalla Corte europea in Euro 1.000,00 in ragione d’anno e che debba tenersi conto solo del periodo di anni tredici eccedente quello ritenuto ragionevole di anni tre e non dell’intera durata del processo (Cassazione civile, sez. 1^, 14 febbraio 2008, n. 3716;

Cassazione civile, sez. 1^, 19 novembre 2007, n. 23844) pendente da sedici anni alla data della domanda, il Ministero della Giustizia deve essere condannato al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 13.000,00 oltre interessi nella misura legale dalla data della domanda, oltre che delle spese del giudizio di primo grado che si liquidano in complessivi Euro 1.080,00 di cui Euro 480,00 per diritti, Euro 500,00 per onorari e Euro 100,00 per spese.

Tenuto conto dell’accoglimento solo parziale, le spese del giudizio di legittimità possono essere compensata per un mezzo e poste a carico per la differenza dell’Amministrazione.

P.Q.M.
la Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo, cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di M.V. della somma di Euro 13.000,00 oltre interessi nella misura legale dalla data della domanda; compensa per un mezzo le spese del giudizio di legittimità e condanna l’Amministrazione alla rifusione in favore del ricorrente delle spese del giudizio di merito che liquida in complessivi Euro 1.080,00 e del 50% delle spese di questa fase che, per l’intero, liquida in complessivi Euro 900, di cui Euro 700 per onorari, il tutto oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2009


Circolare 008/2009: Notificazione ai militari in attività di servizio

Dalla semplice lettura dell’articolo 146 c.p.c., si evince che allorché il militare in servizio non riceva l’atto notificatogli in mani proprie, si dovrà provvedere ad inviare una copia al Pubblico Ministero, che ne cura l’invio al Comandante del Corpo al quale il militare appartiene, rispettando le formalità previste dall’art. 49 delle norme attuative del c.p.c., per assicurare l’effettiva conoscenza dell’atto al destinatario (che per la particolarità del lavoro svolto può subire diversi e improvvisi spostamenti che possono anche dover rimanere segreti).

Per questo motivo il legislatore, come spiega la Corte Suprema di Cassazione con sentenza n. 3316 del 14/05/1983  sez. civ., ha introdotto questa formalità, la cui mancata esecuzione comporta che la notificazione dell’atto processuale in un luogo o a persona diversa o in modo diverso da quello prescritto è affetta non da giuridica inesistenza, bensì da nullità.

Si precisa che, ai fini della notificazione ai sensi dell’art. 146 c.p.c., per militari si intendono:

a)          quelli la cui qualità sia esplicitata negli atti pervenuti ai fini della notificazione,

b)          quelli la cui qualità sia dichiarata dal consegnatario;

c)          quelli in attività di servizio.

La formulazione dell’art. 146 c.p.c. prevede che se la notificazione non viene effettuata in mani proprie (si ricorda che la notificazione a mani proprie si intende anche quella per rifiuto di ricevere l’atto) si devono osservare le disposizioni degli articoli 139 c.p.c. e seguenti.

Tale affermazione include, quindi, la possibilità di notificare l’atto ai sensi degli artt. 140, 141, 143 e 149 c.p.c..

E’ evidente che se il militare abita presso una caserma sarà ben difficile che non si trovi un addetto al ritiro degli atti che accetti di ricevere la copia per il destinatario; potrebbe però non accettarla se dichiara che il militare destinatario è sconosciuto o è stato trasferito.

In questo caso, quindi, non potremo considerare l’indirizzo della caserma quale indirizzo di abitazione del destinatario: il passaggio conseguente è raccogliere informazioni circa la nuova destinazione.

Come sappiamo, tuttavia, non sempre tale informazione può essere efficacemente raccolta, poiché come riconosce la Corte Suprema di Cassazione nella sopra citata sentenza, in quanto il militare può essere in missione segreta.

Quindi, se il notificatore versa nell’oggettiva impossibilità di fare riferimento ad altro indirizzo, saremo nella situazione prevista dall’art. 143 c.p.c..

Si potrebbe a questo punto obbiettare che non si può ritenere sconosciuta in assoluto l’abitazione del militare in servizio, tuttavia per quanto possiamo essere d’accordo su tale affermazione, con riguardo all’attività del notificatore, la Corte Suprema di Cassazione ha precisato che l’ignoranza deve essere oggettiva, ma non nel senso che ci si debba spingere ad indagini che eccedono dalla normale diligenza; è necessario che l’ignoranza non possa essere superata nonostante le indagini possibili nel caso concreto con l’uso della normale diligenza (Corte Cass. Civ. Sez. Lav. 21/08/1987 n. 6994).

Si deve, pertanto, considerare applicabile in questi casi l’art. 143 c.p.c..

 Si ricorda che la notifica prevista dall’art. 146 c.p.c. non è applicabile per gli atti finanziari che si notificano con le modalità di cui all’art. 60 del DPR 600/1973, in quanto specificamente escluso dalla norma [lettera f) dell’art. 60 del dpr 600/1973].

Vedasi: T.A.R. Lazio n.9961 del 10.11.2008

Leggi: Circolare 2009-008 Notificazione ai militari in attività di servizio


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 27-02-2009) 07-09-2009, n. 19323

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15472-2006 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BELSIANA 71, presso lo studio dell’avvocato OCCHIPINTI MARIO, che lo rappresenta e difende, giusta mandato ad litem in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso l’AVVOCATURA COMUNALE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARZOLO RICCARDO, giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

BANCA MONTE dè PASCHI DI SIENA SPA – nella qualità di Concessionaria del Servizio Nazionale di Riscossione per la Provincia di Roma;

– intimata –

avverso la sentenza n. 18392/2005 del GIUDICE DI PACE di ROMA del 12.4.05, depositata il 27/04/2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/02/2009 dal Consigliere Relatore Dott. IPPOLISTO PARZIALE;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Fulvio UCCELLA che ha concluso visto l’art. 375 c.p.c., comma 2, per il rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
C.S. impugna la sentenza 18392 del 2005 Giudice di Pace di Roma, pubblicata il 27 aprile 2005, con la quale veniva respinto il suo ricorso avverso la cartella esattoriale n. (OMISSIS) con la quale il Comune di Roma, per il tramite del relativo concessionario del servizio di riscossione, intimava il pagamento di Euro 331,09 per la iscrizione a ruolo di tre sanzioni amministrative mai portate a sua conoscenza. Le raccomandate non erano state recapitate ma erano state restituite “per compiuta giacenza”. In una delle notifiche risultava anche errato il civico o l’interno presso il quale risultava essere stata fatta la ricerca da parte dell’ufficiale notificante.

Il Giudice di Pace rigettava l’opposizione, ritenendo regolari le notifiche del verbale di accertamento. In particolare osservava che in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario si era provveduto al deposito degli atti presso la casa comunale, dandosi comunicazione di tanto con raccomandata con avviso di ritorno. Tali formalità risultavano degli atti perchè la “compiuta giacenza si riferisce proprio alle raccomandate con ricevuta di ritorno”.

L’odierno ricorrente articola due motivi di ricorso. Resiste con controricorso la parte intimata.

Attivatasi procedura ex art. 375 c.p.c., il Procuratore Generale invia requisitoria scritta nella quale conclude con richiesta di rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Il ricorrente lamenta quanto segue.

Col primo motivo deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto con particolare riferimento all’art. 140 c.p.c.. Sostiene che la notifica ai sensi dell’art. 140 del c.p.c. si perfeziona con il compimento di tutti gli adempimenti richiesti dalla citata disposizione: deposito dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso di deposito sulla porta dell’abitazione e invio della notizia di tale deposito a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento. Nel caso in questione dalla documentazione in atti risultavano dubbi in ordine al luogo nel quale l’ufficiale giudiziario aveva svolto attività prevista dall’art. 140 c.p.c.. La mancata affissione alla porta dell’abitazione del destinatario dell’avviso di deposito della casa comunale rendeva giustificata l’inesistenza della notifica. Inoltre, a giudizio del ricorrente, non è sufficiente il solo invio della raccomandata ma è necessario anche che l’atto di avviso dell’avvenuto deposito pervenga nell’effettiva conoscenza del destinatario.

Con il secondo motivo vengono dedotti vizi di motivazione. Il ricorso è fondato e va accolto.

Il ricorrente aveva dedotto un vizio di notifica dei verbali di infrazione al Codice della Strada, posti a fondamento della cartella esattoriale opposta. A fronte dell’eccepita mancata ricezione dei verbali in questione, il Giudice di Pace ha rilevato che dovevano ritenersi intervenute le relative notificazioni, perchè risultava inviata la raccomandata con la quale si era data notizia al notificando del deposito dell’atto presso il Comune e della tentata precedente notifica presso la sua abitazione per sua (momentanea) irreperibilità. Il Giudice di Pace ha, quindi, implicitamente concluso che ai fini della notifica dell’atto non è necessaria l’allegazione agli atti degli avvisi di ricevimento della predetta raccomandata, soltanto dai quali si sarebbe potuto rilevare l’effettiva conclusione del procedimento notificatorio.

Tale conclusione appare errata, non potendosi prescindere dalla verifica dell’esito del procedimento notificatorio (rilevabile solo dall’avviso di ricevimento) ai fini di considerare regolare (o meno) la notifica del verbale, non potendosi escludere in linea generale che l’avviso di deposito-giacenza dell’atto non sia in effetti pervenuto alla conoscenza dell’interessato, privandolo così della possibilità di tutelare i propri diritti.

A tali conclusioni è sostanzialmente giunta questa Corte, anche per effetto degli interventi della Corte costituzionale sul procedimento notificatorio, seppure con riferimento agli effetti della notifica effettuata per atti processuali, nei quali l’avviso di ricevimento, che conclude il procedimento notificatorio ex art. 140 c.p.c., è (o deve essere) nella disponibilità del notificante con le conseguenze che questa Corte ha tratto in tali situazioni (vedi per tutte Sezioni Unite 2005 n. 458 e successive).

Nel caso in questione occorre osservare che il procedimento notificatorio ha riguardo al verbale per infrazione al Codice della Strada, per le quali restano applicabili le norme processuali civili, in virtù dello specifico richiamo contenuto nell’art. 201 C.d.S., comma 1.

Ai fini, quindi, della successiva emissione della cartella esattoriale è necessario documentare la regolarità della notifica del verbale presupposto, che, se eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non può prescindere dal relativo avviso. Ove questo non risulti, come nella specie, allegato alla cartella esattoriale, in sede di opposizione, nel caso di deduzione della mancata conoscenza del relativo verbale, l’onere della relativa prova non può non far carico che all’Amministrazione nella cui disponibilità esclusiva si trova il documento in questione. Sicchè, il mancato deposito degli avvisi di ricevimento della notifica ex art. 140 c.p.c., se non giustificato, non può che determinare l’assoluta incertezza in ordine alla corretta conclusione del procedimento notificatorio con conseguente accoglimento sul punto del relativo motivo di opposizione.

Nel caso in questione, quindi, il Giudice di Pace avrebbe dovuto rilevare la nullità della notifica di verbali posti a fondamento della cartella esattoriale ed accogliere l’opposizione, posto che, in assenza di notifica valida nel termine di cui all’art. 201 C.d.S., comma 1, ai sensi del comma 5, stesso art. “l’obbligo di pagare la somma dovuta… si estingue”.

Il ricorso va accolto e il provvedimento impugnato cassato.

Sussistendone i presupposti, ai sensi dell’art. 384 c.p.c. questa Corte può pronunciare sul . merito, e, in accoglimento dell’opposizione originariamente proposta, annulla la cartella esattoriale opposta.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE accoglie il ricorso, cassa senza rinvio il provvedimento impugnato e, decidendo nel merito, in accoglimento dell’opposizione originariamente proposta al Giudice di Pace, annulla la cartella esattoriale opposta. Condanna la parte intimata alle spese di giudizio, liquidate in complessivi 400,00 Euro per onorari Euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2009