Funzionari pubblici fannulloni? Il pedinamento è lecito e rischiano condanna per truffa

I funzionari pubblici debbono rispettare l’orario di lavoro e ciò anche se di fatto svolgono mansioni da dirigente.

Sulla scorta di tale premessa, la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione (Sent. n. 44912/2008) ha stabilito che sono leciti i controlli posti in essere nei loro confronti e ciò anche se questi consistono nel pedinamento da parte di un investigatore privato e, nel caso di accertata violazione dei loro doveri, rischiano una condanna per truffa.
In particolare, gli Ermellini hanno precisato che “la falsa attestazione del pubblico dipendente , circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata”.
Inoltre, la Corte ha ribadito il principio espresso per cui “la prestazione d’opera da parte del lavoratore subordinato a favore di terzi concorrenti costituisce una violazione dell’obbligo di fedeltà che, se è irrilevante sotto il profilo penale qualora compiuta fuori dal normale orario di lavoro, integra il reato di truffa se svolta nell’orario normale, da parte di soggetto che lucra la retribuzione, fingendo di svolgere il lavoro che gli è stato affidato, mentre svolge altra attività. Ne consegue che, ove sorga il giustificato dubbio che un dipendente incaricato di mansioni da espletare al di fuori dei locali dell’azienda in realtà si rende responsabile di un comportamento illecito di tale genere, è giustificato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati per verifiche al riguardo, né sono ravvisabili profili di illiceità a norma dell’art. 2, secondo comma, della legge n. 300 del 1970, il quale, prevedendo il divieto per il datore di lavoro di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell’attività lavorativa e il divieto per queste ultime di accedere nei locali dove tale attività è in corso, nulla dispone riguardo alla verifica dell’attività lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali da parte di soggetti non inseriti nel normale ciclo produttivo e che “le disposizioni degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei Lavoratori non implicano l’impossibilità di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi da quelli in essi previsti (ad esempio investigatori privati) in difetto di espliciti divieti al riguardo e in considerazione della libertà della difesa privata”.


La finanziaria 2009 diventa legge.

Dopo l’approvazione della Camera dello scorso 19 dicembre la legge finanziaria 2009 è legge ed entrerà in vigore a partire dal 1 gennaio 2009. L’approvazione è avvenuta in terza lettura senza il ricorso alla fiducia. Sono stati anche evitati, come avveniva in passato, quei micro-interventi che venivano aggiunti nel percorso del disegno di legge tra Camera e Senato, e che generalmente appesantivano il provvedimento. Il percorso più lineare della finanziaria di quest’anno è dovuto all’anticipazione della manovra avvenuta la scorsa estate che ha modificato la struttura del ddl introducendo anche il principio della triennalità ed eliminando le misure a sostegno dell’economia. La finanziaria 2009 prevede agevolazioni fiscali per le ristrutturazioni edilizie e per gli asili nido, stanzia le risorse per il rinnovo del ccnl nel pubblico impiego, stanzia il fondo per la cassa integrazione straordinaria e blocca le emissioni dei derivati da parte degli enti locali. Ecco in sintesi le principali misure contenute nella manovra.

La Cassa Integrazione Speciale (CIGS): Viene portato a 600 milioni il fondo della cassa integrazione speciale per il 2009. Il ministro del Lavoro, di concerto con il ministro dell’Economia, dovrà disporre entro il 31 dicembre 2009 i trattamenti di cassa integrazione guadagni straordinaria, di mobilità e di disoccupazione speciale, nel caso di programmi finalizzati alla gestione di crisi occupazionali, in deroga alla normativa vigente.

Contratti nel pubblico impiego: Vengono stanziati 2,8 miliardi per il rinnovo dei contratti nel pubblico impiego. A questa somma si aggiungono 200 milioni che provengono dalla razionalizzazione delle spese dei dipendenti, destinati a incentivi e premi.

Asili Nido: Le spese per il pagamento delle rette d’asilo potranno essere detratte al 19% dall’irpef. Il limite di spesa fissato per il calcolo della detrazione, è di 632 euro per un massimo di 120 euro di sconto a figlio (articolo 2, comma 6).

Le ristrutturazioni edilizie: Confermata la detrazione ai fini irpef del 36% per chi effettua lavori di ristrutturazione edilizia e Iva ridotta al 10% per interventi di recupero del patrimonio edilizio realizzati su fabbricati con prevalente destinazione abitativa privata.

Stop ai derivati degli enti locali: Per il 2009 gli enti locali non potranno emettere derivati. Saranno i regolamenti del ministero dell’Economia a individuare le tipologia dei contratti relativi agli strumenti finanziari derivati, che gli enti possono concludere.

Il fondo per le aree sottoutilizzate: Il FAS, Fondo per le aree sottoutilizzate sarà destinato al mezzogiorno per una quota dell’85%, il 15% andrà invece alle aree del centro nord. Annualmente il Governo presenterà una relazione per indicare l’ammontare delle risorse finanziarie disponibili per il fondo per le aree sottoutilizzate e quelle che saranno utilizzate a seguito delle delibere Cipe o in seguito a provvedimenti che contengono delle variazioni.

Patto di stabilità: Si ammorbidisce la disciplina del Patto di stabilità interno per gli enti locali, ed in particolare per quelli virtuosi che potranno anche utilizzare delle risorse ottenute attraverso le cessioni immobiliari. Inoltre gli investimenti in infrastrutture non saranno conteggiati nel patto di stabilità interno di regioni ed enti locali.

Scuola: Si conferma il fondo di 120 milioni per la scuola privata. Sarà il ministro dell’Istruzione a decidere come ripartire le risorse fra scuole pubbliche e scuole private.


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 07/11/2008) 17/12/2008, n. 29465

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Presidente

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – rel. Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro p.t.; AGENZIA delle ENTRATE; entrambi domiciliati in Roma in via dei Portoghesi n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui sono rappresentati e difesi;

– ricorrenti –

contro

S.L.;

– intimato –

AVVERSO la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 89.11.04, sez. 11 depos. il 14.12.04;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 7.11.2008 dal Consigliere Dott. BURSESE Gaetano Antonio;

udito l’avv. Maria Luisa Spina dell’Avvocatura Generale dello Stato;

Sentito il P.M. in persona del sost. P.G. Dott. De Nunzio Wladimiro, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t.; Agenzia delle Entrate ricorrevano per Cassazione avverso la rubricata sentenza della C.T.R. della Campania n. 89.11.04, che aveva accolto l’appello proposto dal contribuente S.L., con riferimento all’opposizione da lui proposta avverso l’avviso di accertamento di maggior reddito di partecipazione alla s.d.f.

(OMISSIS).

Il ricorso si fonda su di un solo motivo; non si è costituito l’intimato.

Motivi della decisione
L’amministrazione con il ricorso per Cassazione in esame, eccepisce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lsg. n. 546 del 1992, artt. 10 e 53 e dell’art. 350 c.p.c..

Sottolinea che….” all’epoca in cui era stato proposto l’appello erano già costituiti gli uffici delle entrate, ed in base al principio generale del domicilio fiscale del contribuente, l’ufficio territoriale competente era l’Ufficio (OMISSIS) e non già quello di (OMISSIS)”. “La mancata vocatio in ius dell’Ufficio competente aveva impedito la costituzione in appello di un valido rapporto processuale”. Tale insanabile vizio del ricorso in appello doveva essere rilevato d’ufficio dalla C.T.R. che doveva astenersi dall’esaminare il merito del ricorso e dichiararne, invece, l’inammissibilità”, ovvero “… avrebbe dovuto disporre la rinnovazione della notifica all’ufficio competente ai sensi dell’art. 350 c.p.c. onde consentire la rituale costituzione del contraddittorio in appello e l’esplicazione delle difese da parte dell’Ufficio legittimato a resistere”.

Occorre però precisare che l’amministrazione ricorrente, nello stesso ricorso in esame, aveva premesso, in punto “fatto” che il S. aveva proposto appello “….con ricorso notificato all’Ufficio delle Imposte Dirette ormai soppresso in luogo diverso dalla sede dell’Agenzia delle entrate – Ufficio (OMISSIS) – divenuto competente in relazione al rapporto controverso.” Ora a parte il contrasto tra le menzionate circostanze fattuali esposte dalla stessa ricorrente, non v’è dubbio che le doglianze sono comunque prive di fondamento. Invero ove la notifica dell’appello fosse stata effettuata presso il soppresso Ufficio delle II.DD., quando era già subentrata ad esso l’Agenzia delle Entrate, la notifica stessa doveva ritenersi regolare con riferimento a quanto previsto dall’art. 111 c.p.c. (Cass. Sez. U, n. 3116 del 14/02/2006). Quindi l’appello che il contribuente aveva proposto contro l’Ufficio delle II.DD. (parte nel giudizio di 1 grado) non era inammissibile in quanto quell’ufficio aveva di fatto partecipato al giudizio ed era legittimato processualmente in forza della norma sopra ricordata.

E’ parimenti regolare la notifica dell’atto di opposizione ove fosse stata eseguita – come indicato nel riportato motivo d’impugnazione – presso un ufficio periferico dell’Agenzia “non territorialmente competente” diverso da quello che aveva emesso l’atto impositivo, perchè tale evento non può comportare alcuna ipotesi di nullità o di decadenza dall’impugnazione, atteso il carattere unitario della stessa Agenzia delle Entrate e considerato inoltre il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità ed il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (Cass. Sez. U, n. 3116 del 14/02/2006).

Conclusivamente il ricorso dell’amministrazione concernente la questione meramente processuale è infondato e dev’essere pertanto rigettato; nulla per le spese.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2008


LEGITTIMO IL PIGNORAMENTO DIRETTO DEI CREDITI DEL DEBITORE DA PARTE DEL CONCESSIONARIO

La Corte Costituzionale con sentenza del 28-11-2008, n. 393 ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), il quale, all’alinea del comma 1, prevede che “Salvo che per i crediti pensionistici e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e sesto, del codice di procedura civile, l’atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, numero 4, dello stesso codice di procedura civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede”.

In particolare, secondo la Consulta, “va rilevato che la facoltà di scelta del concessionario tra due modalità di esecuzione forzata presso terzi non crea né una lesione del diritto di difesa dell’opponente né una rilevante disparità di trattamento tra i debitori esecutati, sia perché questi sono portatori di un interesse di mero fatto rispetto all’utilizzo dell’una o dell’altra modalità e possono in ogni caso proporre le opposizioni all’esecuzione o agli atti esecutivi di cui all’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973, sia perché non sussiste “un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole procedurali”.


Cass. pen. Sez. feriale, (ud. 26-08-2008) 05-12-2008, n. 45335

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE FERIALE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE ROBERTO Giovanni – Presidente

Dott. ESPOSITO Antonio – Consigliere

Dott. KOVERECH Oscar – Consigliere

Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L., n. in data (OMISSIS);

avverso Sentenza emessa in data 14.12.2007 dalla Corte d’Appello di Brescia;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso.

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Oscar KOVERECH. Udito il Procuratore Generale Dr. Giuseppe Febbraro che ha concluso per il rigetto del ricorso e la condanna alle spese.

Udito il difensore del ricorrente, avv. Araldi Erminio, che ha concluso per l’annullamento della impugnata sentenza.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Brescia, in riforma della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale di Mantova, con la quale B.L. era stato assolto dal reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica, dichiarava la responsabilità dello stesso e, riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, lo condannava alla pena di mesi uno e giorni dieci di reclusione, con la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna. Condannava altresì l’imputato al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio e al risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separata sede oltre alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza in giudizio della parte civile per il primo grado.

1.1. – Per una migliore comprensione dell’oggetto del presente giudizio di legittimità, si impone una sintetica ricostruzione della vicenda processuale.

L’imputato era stato chiamato a rispondere, nella sua qualità di socio accomandatario e legale rappresentante della s.a.s. Viastrade, del reato di cui all’art. 590 c.p., commi 2 e 3 in danno del lavoratore dipendente L.M.; quanto sopra per colpa consistita nella inosservanza della normativa antinfortunistica – e, in particolare, del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, – connessa alla utilizzazione, nel cantiere di lavori stradali della ditta in frazione (OMISSIS), di una macchina stabilizzatrice Wirtgen WR 2500 per lavori stradali che presentava il rischio di cesoiamento tra le parti laterali dello scudo di protezione del tamburo, tanto da cagionare lesioni personali gravissime al citato lavoratore il quale, avendo inserito il braccio destro nella zona pericolosa della macchina per sistemare un listello di legno proprio nel momento in cui un collega si accingeva a disporre l’abbassamento del suddetto scudo che, calando repentinamente, troncava di netto l’arto del L. il quale riportava lesioni (consistite nel distacco traumatico del braccio destro poi riattaccatogli con un intervento chirurgico) dalle quali derivavano pericolo di vita ed una malattia nel corpo, oltre ad una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni superiore ai quaranta giorni e all’indebolimento permanente della funzionalità del braccio.

1.1.1. – L’incidente era avvenuto il giorno 12.04.2001 nel sopra citato cantiere della s.a.s. Viastrade, dove alcuni operai stavano caricando la macchina operatrice livellatrice Wirtgen WR 2500 sull’apposito rimorchio perché doveva essere trasportata altrove.

Il cuore di questa macchina è costituito da un tamburo di fresatura munito di un elevato numero di utensili da taglio (denti) che, mentre ruota, fresa il materiale della pavimentazione stradale ed ha come protezione un tegolo per evitare che i sassi vadano a finire ai lati o nelle altre parti dell’ingranaggio. Alla cabina di guida si trovava M.N., mentre sul lato destro e sinistro del rimorchio, si trovavano, rispettivamente, il caposquadra G.A. e L.M..

1.1.2. – Il M. dichiarava in giudizio di aver condotto la macchina con il rullo e il tegolo alzati sul rimorchio percorrendo due rampe di carico secondo le indicazioni del G.. Una volta compiuto correttamente il posizionamento della macchina facendola appoggiare su due assi preventivamente collocate, aveva abbassato il tegolo. A operazione ultimata, aveva però sentito gridare che c’era L. con il braccio dentro e aveva quindi rialzato il tegolo.

Il L., al contrario, aveva riferito che la macchina era stata caricata con il tegolo abbassato e, poiché una delle due assi sulle quali doveva appoggiarsi si era spostata mettendosi di traverso, aveva detto al conducente di alzare il tegolo e lui aveva messo dentro un braccio per raddrizzare l’asse ma, proprio in quel momento, il tegolo era stato abbassato e gli aveva troncato di netto il braccio destro.

1.1.3. – In primo grado, il B. veniva assolto dal Tribunale di Mantova con sentenza in data 27.10.2006 sulla base, essenzialmente, delle seguenti considerazioni:

a) la macchina operatrice utilizzata in leasing dal B. era munita della dichiarazione CE di conformità ai requisiti essenziali di sicurezza;

b) nessun altro presidio di sicurezza si rendeva necessario a salvaguardia di ulteriori rischi prevedibili;

c) era fuori da ogni previsione che un lavoratore potesse introdurre un braccio sotto il tegolo alzato della macchina, anche perchè, per poterlo fare, il lavoratore avrebbe dovuto sdraiarsi a terra.

2. – All’esito del giudizio di appello, proposto a seguito di impugnazione del P.M (che aveva fatto propria la richiesta ex art. 572 c.p.p., di impugnazione della parte offesa), la Corte territoriale argomentava la condanna sulla base dei dati probatori emersi nell’istruttoria dibattimentale, dai quali emergevano, oltre al profilo di colpa specifica indicato nel capo di imputazione (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68) e valutato dal Tribunale di Mantova, anche altre violazioni della normativa infortunistica che, pur essendo richiamate nello stesso capo, non erano state valutate dal giudice di primo grado. I giudici dell’appello, in particolare, evidenziavano che l’infortunio si era verificato a causa della mancata osservanza delle cautele da adottare nell’utilizzo del mezzo, considerato che, come sottolineato dal manuale fornito al B. dalla ditta costruttrice, intorno alla macchina c’erano angoli che non si potevano bene osservare e che era quindi necessario impiegare del personale di sicurezza per tenerli sotto controllo; che, inoltre, il conducente avrebbe dovuto essere adeguatamente istruito sulla necessità di accertarsi che non ci fossero persone nelle zone di pericolo e di abbassare il rullo il più lentamente possibile, controllando costantemente la eventuale presenza di persone nel raggio di lavoro della macchina mediante personale di sicurezza che doveva rimanere nel campo di visuale del conducente medesimo.

L’addebito di colpa a carico del B., oltre alla generica contestazione ex art. 590 c.p., commi 2 e 3, veniva dunque individuato, sia sotto il profilo della violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68, – secondo il cui disposto “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono per quanto possibile essere protetti e segregati oppure provvisti di dispositivi di sicurezza” – sia sotto il profilo della carenza di informativa dei rischi specifici cui sono esposti i dipendenti, ritenuta connotata da gravità, “ove si consideri che il carico della fresa sul rimorchio non era operazione straordinaria, bensì consueta per non dire quotidiana, poichè la macchina non poteva spostarsi da sola da un luogo di lavoro ad un altro, ma doveva essere obbligatoriamente trasportata su un rimorchio”. 3. – Propone ricorso per Cassazione il B. deducendo quattro motivi basati sulla prospettazione della violazione di legge e del difetto di motivazione.

3.1. – In particolare, lamenta, con il primo motivo, la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) per inosservanza dell’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza ai sensi dell’art. 521 c.p.p. e nullità ex art. 522 c.p.p..

Sostiene il ricorrente che la condotta omissiva contestata al B. nel giudizio di secondo grado differisce da quella cui si riferisce il capo di imputazione, vale a dire, la “inosservanza della normativa antinfortunistica e, in particolare del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68”; la Corte d’Appello, in sostanza, avrebbe introdotto una ulteriore ipotesi di colpa consistita nella inosservanza, da parte dello stesso B., del disposto di cui all’art. 4, D.P.R. cit., addebitandogli la diversa condotta omissiva consistita “Dell’omettere di istruire adeguatamente i lavoratori sui particolari rischi cui erano esposti durante l’uso della macchina ed altresì nell’ esigere l’osservanza delle relative norme di sicurezza”. Ciò in violazione del diritto di difesa e della effettività del contraddittorio.

3.1.2. – Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) per avere i giudici di secondo grado erroneamente individuato la responsabilità dell’imputato a titolo di colpa specifica e violazione dell’art. 43 c.p. e D.P.R. n. 459 del 1996, artt. 1, 2 e 5, all. 1, 2, 3, 5.

Il ricorrente invoca un esonero totale di responsabilità del datore di lavoro derivante dalla normativa cautelare speciale di cui al D.P.R. n. 459 del 2006 che individua nel costruttore – e non nell’utilizzatore finale – il soggetto competente alla gestione del rischio.

3.1.3. – Con il terzo motivo lamenta (ex art. 606 c.p.p., lett. e)) la violazione dei criteri di valutazione della prova stabiliti dall’art. 192 c.p.p. per non avere la Corte d’appello “valutato diverse prove documentali, omettendo di dame conto in motivazione”.

Il ricorrente, nell’elencare una serie di prove documentali di cui la Corte di Appello avrebbe omesso la valutazione (quali, ad esempio, i bollettini di aggiornamento tecnico inviati dalla Wirtgen macchine s.r.l. solo nel (OMISSIS), contenenti ulteriori “avvertenze di pericolo”, non evidenziate in precedenza; la lettera con la quale, in data (OMISSIS), la Wirtgen Gmbh comunicava alla Wirtgen macchine s.r.l. la certificazione di conformità CE delle macchine prodotte e commercializzate dalla detta società; la lettera risalente al 7 luglio 2001 con la quale la Wirtgen segnalava alla Viastrade la situazione di pericolo di cesoiamento e di assestamento del mezzo sul rimorchio ai fini di trasporto) ribadisce la imputabilità del fatto a soggetto diverso (costruttore) sulla cui condotta lo stesso ricorrente era legittimato a fare “affidamento”. 3.1.4. – Con il quarto motivo si duole della mancanza della motivazione “quanto al contrasto tra la condanna prevista dall’estratto e la pena cui l’imputato è stato condannato in sentenza” nonché della “assoluta incertezza in ordine alla misura della pena inflitta”. 4. – Tutti i sopra esposti motivi si appalesano privi di fondamento e non meritano accoglimento. In realtà, il ricorrente, pur prospettando asserite violazioni di legge e pretese illogicità e carenze della motivazione, vorrebbe che la Corte esercitasse un inammissibile sindacato sull’apprezzamento fattuale della vicenda e, in particolare, sulla condotta dell’imputato e dell’infortunato, che esula dai poteri del giudice di legittimità, quando si è in presenza, come nella specie, di una motivazione rigorosa e convincente, in linea con i principi vigenti nella subiecta materia.

4.1. – Privo di fondamento risulta, in particolare, l’addebito formulato con il primo motivo, incentrato sulla violazione dell’art. 521 c.p.p..

Ciò in quanto, a parte il rilievo che la colpa specifica ascritta all’imputato (violazione del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, a norma del quale “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono per quanto possibile essere protetti e segregati oppure provvisti di dispositivi di sicurezza”) costituisce il risultato di un processo di codificazione di regole di comune prudenza, con la conseguenza che la contestazione o, per cosi dire, “aperta”, va comunque rilevato che la Corte d’appello fa esplicito richiamo anche alla violazione originariamente addebitata, ritenuta sussistente in quanto la macchina in questione si è infatti rivelata non conforme ai cosiddetti requisiti essenziali di sicurezza, come affermato dall’Ispettorato tecnico del ministero delle Attività Produttive nella nota 26.9.2002 e sostanzialmente riconosciuto dalla stessa ditta produttrice nel (OMISSIS) (come da missiva in atti che propone una integrazione delle norme di sicurezza). Il difetto era stato peraltro già rilevato dall’u.p.g. tanto che la macchina, nel (OMISSIS), venne restituita all’imputato previa installazione di un riparo nella zona di pericolo (v. pagg. 6/7 della sentenza impugnata).

Al riguardo, va altresì rilevato che, nei procedimenti per reati colposi, l’affermazione di responsabilità per un’ipotesi di colpa non menzionata nel capo di imputazione rientra pur sempre nella generica contestazione di colpa e, pertanto, lasciando inalterato il fatto storico, non viola le regole della immutabilità dell’accusa, in quanto la contestazione generica di colpa, benché ulteriormente specificata, pone il prevenuto nelle condizioni di difendersi da qualunque addebito, con la conseguente possibilità di ravvisare in sentenza elementi di colpa non indicati in contestazione.

Per aversi immutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad una incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio del diritto alla difesa.

Quando, come nella specie, nel capo di imputazione sono stati contestati elementi generici e specifici di colpa in materia di infortuni sul lavoro, costituisce giurisprudenza costante di questa Corte, quella della non sussistenza della violazione del richiamato principio ex art. 521 c.p.p., nel caso in cui il giudice del merito, accanto ad elementi specifici di colpa, ravvisi nell’ambito della colpa generica propria del datore di lavoro, l’ulteriore aspetto della omessa vigilanza intesa ad esigere che i lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi loro a disposizione (D.P.R. n. 547 del 1955, ex art. 4).

La Corte di merito si è limitata ad evidenziare un ulteriore aspetto di colpa specifica del datore di lavoro proprio in riferimento alle peculiarità del caso concreto senza, per questo, violare le regole della immutabilità dell’accusa con conseguente compromissione del diritto alla difesa (cfr. Cass. sez. 4^, 04.03.2004, n. 27851).

Va altresì rilevato che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, erroneamente interpretato dal ricorrente, non può parlarsi di violazione del principio di correlazione quando il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza si trovino in rapporto di continenza (nel senso che il maggiore comprende quello minore), mentre per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa e, quindi, “l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso “l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione” (Cass. SS. UU. 22.10.1996, n. 16).

In sostanza l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato;

la nozione strutturale di “fatto” contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata e decisione giurisdizionale risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (cfr. Sez. 4^, 15.01.2007, n. 10103, Sez. 4^, 25.10. 2005, n. 41663).

Alla luce delle suddette considerazioni, si ritiene che, nel caso di specie, non sia avvenuta una modificazione del fatto, né pertanto sia intervenuta violazione del principio di correlazione.

4.2. – Quanto al secondo motivo, incensurabile è l’apprezzamento del giudicante che ha ritenuto che, nella fattispecie, si sia verificata la concorrente responsabilità del datore di lavoro e della ditta costruttrice (oltre che dei colleghi di lavoro dell’infortunato), non attribuendo, per contro, valore esimente della responsabilità dell’imputato alla tesi difensiva dell’ “affidamento” che, secondo il ricorrente, ogni soggetto acquirente di apparecchi tecnologicamente complessi può fare “sulla corretta e prudente condotta di chi meglio conosce la macchina perché più attento ai dettagli tecnici di cui non è ragionevole attendersi la universale notorietà”.

Al riguardo va preliminarmente rilevato che, in tema di prevenzione infortuni, la disposizione di cui al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, che fissa le misure protettive per le macchine con riguardo alle zone di operazione in cui si compiono le normali attività durante le quali gli operai possono venire accidentalmente a contatto con gli organi lavoratori delle macchine, non è stata superata dalla previsione di cui al D.P.R. 24 luglio 1996, n. 459 (regolamento per l’attuazione delle direttive comunitarie concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relativamente alle macchine operataci), atteso che il citato art. 68 detta un principio di carattere generale che trova applicazione in tutti i casi nei quali vengono usate macchine pericolose (Cass., Sez. 3^, n. 18-12-2002, n. 5167, Sassi, rv 223377).

Invero, la disciplina normativa di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, citato art. 68 – nel prescrivere che in ogni caso ed in qualsiasi fase dell’uso di una macchina, il pericolo derivante dagli organi lavoratori della stessa deve essere rimosso mediante idonei sistemi di protezione, oppure, quando ciò non sia tecnicamente possibile, mediante l’adozione di dispositivi di sicurezza – non lascia comunque alcun margine di discrezionalità in ordine alla necessità di evitare il funzionamento della macchina stessa quando lo stesso costituisca pericolo per il lavoratore addetto (ex multis, Cass. Sez. 4^, n. 4066 del 23.02.1996, rv. 204978; Sez. 4^, 30.11.1992, n. 1208).

Valore assorbente, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro, riveste la considerazione che, tra i compiti di prevenzione che ad esso fanno capo, vi è anche quello di dotare il lavoratore di strumenti e macchinari dei tutto sicuri. In altri termini, il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non sarebbe sufficiente, per mandare esente da responsabilità il datore di lavoro, che non abbia assolto appieno il suddetto obbligo cautelare, neppure che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico, se il processo tecnologico sia cresciuto in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura (Cass. Sez. 4^, 11.12.2007, n. 6280; Sez. 4^, 10.11.2005, n. 2382, Minesso; Sez. 4^, 26.04.2000, Maniero ed altri).

Trattasi di affermazioni, pienamente condivisibili, che poggiano sul disposto dell’art. 2087 c.c. secondo cui l’imprenditore, al di là di ogni formalismo, è comunque tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa quelle misure che, sostanzialmente ed in concreto, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessario a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Secondo la sopra richiamata giurisprudenza di legittimità, si è in presenza, infatti, di una disposizione, utilmente qui richiamabile, che costituisce “norma di chiusura” rispetto alle disposizioni della legislazione antinfortunistica, comportando a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e di protezione dell’incolumità dei propri lavoratori e della stessa incolumità pubblica: obblighi che rendono esigibile, da parte del datore di lavoro, il dovere di impedire, mediante adeguato controllo e la predisposizione di ogni strumento a ciò necessario, che il bene o l’attività, sorgente di pericoli e rientrante nella sfera della sua signoria, possa provocare danni a chiunque ne venga a contatto, anche occasionalmente (Cass., Sez. 4^, 13.06.2000, Forti; Sez. 4^, 12.01.2005, Cuccù, secondo cui il datore di lavoro deve attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa:

tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, appunto, più generalmente, al disposto dell’art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante della incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, gli viene correttamente imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2).

In questa prospettiva, va pertanto rilevato che, nel caso di specie, eventuali concorrenti profili colposi addebitatali al fabbricante non elidono certamente il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Questo, del resto, in linea con la pacifica affermazione secondo cui è configurabile la responsabilità del datore di lavoro il quale introduce nell’azienda e mette a disposizione del lavoratore una macchina – che per vizi di costruzione possa essere fonte di danno per le persone – senza avere appositamente accertato che il costruttore, e l’eventuale diverso venditore, abbia sottoposto la stessa macchina a tutti i controlli rilevanti per accertarne la resistenza e l’idoneità all’uso, non valendo ad escludere la propria responsabilità la mera dichiarazione di avere fatto affidamento sull’osservanza da parte del costruttore delle regole della migliore tecnica (Cass., Sez. 4^, 03.07.2002, Del Bianco Barbacucchia).

4.3. – Le argomentazioni fin qui svolte sono utilizzabili per smentire anche la fondatezza del terzo motivo, ad ulteriore confutazione del quale giova aggiungere che appare del tutto inconferente sia il discorso relativo alla ulteriore certificazione “successiva” di conformità CE, considerato che, per quanto sopra esposto, la violazione è davvero macroscopica, tanto da sconfinare nella violazione di regole di comune prudenza, sia quello relativo alle mancate specifiche “avvertenze di pericolo” da parte della ditta costruttrice. A quest’ultimo riguardo, va rilevato che – a fronte di una colpa consistita nell’abbassamento del tegolo effettuato senza che chi diede l’ordine avesse ricevuto l’assicurazione che la vittima fosse al sicuro – alla voce “Pericolo” inserita nel manuale di Istruzioni, consegnato dalla ditta costruttrice unitamente alla macchina (e quindi in un momento antecedente all’infortunio de qua), erano previste precise cautele da adottare nell’utilizzo del mezzo, fra cui quella di “verificare che nessuno sia minacciato in caso di rovesciamento o di scivolamento della macchina” e che, comunque, si trattava di rischi evidenti anche a prescindere dalle istruzioni.

Invero, come logicamente argomentato dalla Corte territoriale, in esito a valutazione complessiva delle risultanze dibattimentali, nessuna chiara istruzione era stata data in tal senso e, a tutto concedere, anche ove impartita, nessuno si era accertato che fosse stata intesa in tutte le sue implicanze pratiche e che venisse poi rispettata.

Il carico della fresa sul rimorchio costituiva “operazione delicata e pericolosa sia per la mole e il peso del congegno sia per l’uso di assi da porre sulla rampa di carico (onde evitare il contatto metallo contro metallo) e che potevano per la pressione spostarsi e creare intralcio. Sarebbe stato quindi doveroso prevedere e disciplinare una procedura di caricamento che tutelasse appieno la incolumità dei lavoratori, se del caso, integrando quella fornita dal manuale, o dal personale Wirtgen. In verità, sarebbe bastato che l’imputato avesse una sola volta assistito a detta operazione di carico per rendersi conto dei rischi che si potevano determinare durante la fase di abbassamento del tegolo e della cesoia dentata, allorché, essendo la macchina già sul rimorchio, la zona di maggior rischio era ad altezza d’uomo e facilmente accessibile, perché non protetta. Nessun dubbio può pertanto essere sollevato, sulla concreta prevedibilità dell’evento lesivo”.

Anche alla luce delle suddette considerazioni, pertanto, deve considerarsi infondato l’assunto difensivo dell’esonero di responsabilità invocato dal ricorrente sulla base del marchio CE, non potendo ad esso ricollegarsi una presunzione assoluta di conformità della macchina alle norme di sicurezza, proprio per la prevedibilità ed evitabilità, nella ipotesi de qua, dell’evento lesivo.

Non può, infine, richiamarsi ai principi dell’affidamento il datore di lavoro che, in tema di sicurezza antinfortunistica, venga meno ai suoi compiti che comprendono, tra l’altro, l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinati lavori, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, ed anche il controllo continuo, congrue ed effettivo, nel sorvegliare e quindi accertare che quelle misure vengano, in concreto, osservate, non pretermesse per contraria prassi disapplicativa, e, in tale contesto, che vengano concretamente utilizzati gli strumenti adeguati, in termini di sicurezza, al lavoro da svolgere, controllando anche le modalità concrete del processo di lavorazione. Il datore di lavoro, quindi, non esaurisce il proprio compito nell’approntare i mezzi occorrenti all’attuazione delle misure di sicurezza e nel disporre che vengano usati, ma su di lui incombe anche l’obbligo di accertarsi che quelle misure vengano osservate e che quegli strumenti vengano utilizzati (tra le tante, Cass., Sez. 4^, 10.02.2005, Kapelj).

4.4. – Destituito di fondamento risulta infine il quarto motivo di ricorso relativo alla “assoluta incertezza” in ordine alla misura della pena inflitta.

Nella parte motiva dell’impugnato provvedimento emesso il 14.12.2007 e depositato il 28.12.2007, risulta ben specificato che, alla pena base (pari a mesi due di reclusione) inflitta all’imputato è stata applicata la riduzione di un terzo ex art. 62 bis c.p., con la conseguente irrogazione della pena in concreto pari a mesi uno e giorni dieci di reclusione. L’errore materiale espresso in dispositivo di condanna alla pena di mesi uno di reclusione è stato evidentemente emendato con la procedura della correzione di errore materiale ex art. 130 c.p.p. se è vero, come è vero, che nell’estratto contumaciale notificato all’imputato in data 18.02.2008 la pena irrogata risulta conforme a quella menzionata nella parte motiva del provvedimento pari a mesi uno e giorni dieci di reclusione. Nessun contrasto pertanto risulta tra la condanna irrogata e quella risultante dall’estratto contumaciale, non sussistendo la paventata e dedotta incertezza della pena inflitta.

4.5. – Per le sin qui illustrate ragioni il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 26 agosto 2008.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2008


Legittimo il pignoramento diretto dei crediti del debitore da parte del concessionario

Legittimo il pignoramento diretto dei crediti del debitore da parte del concessionario

La Corte Costituzionale con Ordinanza 05.12.08, n. 393, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), il quale, all’alinea del comma 1, prevede che “Salvo che per i crediti pensionistici e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e sesto, del codice di procedura civile, l’atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, numero 4, dello stesso codice di procedura civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede”.

In particolare, secondo la Consulta, “va rilevato che la facoltà di scelta del concessionario tra due modalità di esecuzione forzata presso terzi non crea né una lesione del diritto di difesa dell’opponente né una rilevante disparità di trattamento tra i debitori esecutati, sia perché questi sono portatori di un interesse di mero fatto rispetto all’utilizzo dell’una o dell’altra modalità e possono in ogni caso proporre le opposizioni all’esecuzione o agli atti esecutivi di cui all’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973, sia perché non sussiste “un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole procedurali””.


Cass. pen. Sez. II, (ud. 30-10-2008) 02-12-2008, n. 44912

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo – Presidente

Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere

Dott. IASILLO Adriano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.P., (n. il (OMISSIS));

avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, Sezione Penale, in data 02/04/2008;

Sentita la relazione della causa fatta, in Pubblica Udienza, dal Consigliere Dr. Adriano Iasillo;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Dr. Mura Antonio, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Udito il difensore che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
OSSERVA

Con sentenza del 06/07/2006, il Tribunale di Lecce – Sez. di Campi Salentina – dichiarò S.P. responsabile del reato di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, (capo A: Truffa aggravata ai danni del Comune di Novoli: firmava il registro delle presenze e poi si allontanava e andava a lavorare presso il suo esercizio commerciale), ed esclusa l’aggravante dell’abuso di prestazione di opera – concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti – lo condannò alla pena di mesi 6 di reclusione e Euro 200,00 di multa.

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame, ma la Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 02/04/2008, confermò la decisione di primo grado.

Ricorre per Cassazione l’imputato deducendo:

1) art. 606 c.p.p., lettera B). Erronea applicazione del T.U. Enti Locali, art. 109 (D.Lgs. n. 267 del 2001) in relazione agli artt. 3, 7, 8, 10 e 11 C.C.N.L. 31/03/1999 (Contratto relativo alla revisione del sistema di classificazione del personale del comparto Regioni – Autonomie Locali).

La difesa del ricorrente, con tale primo motivo, evidenzia che il S. non esercitava – parallelamente a quella di pubblico dipendente – un’autonoma attività commerciale, in quanto il “Mobilificio Sozzo” apparteneva alla figlia dell’imputato che lo gestiva direttamente avendo anche un idoneo titolo di studio (laurea in architettura). La difesa del ricorrente sostiene, poi, che il S. all’epoca dei fatti svolgeva a tutti gli effetti l’incarico di dirigente del Comune di Novoli e come tale non era vincolato all’orario (36 ore lavorative settimanali), ma ai risultati conseguiti. A riprova di ciò adduce: le dichiarazioni del Segretario generale e del Sindaco dello stesso Comune; il fatto che il S. avesse una retribuzione onnicomprensiva, con esclusione del riconoscimento del lavoro straordinario; che i risultati raggiunti dall’imputato erano soggetti ad una valutazione annuale e in caso di esito positivo di tale valutazione lo stesso aveva diritto ad una retribuzione di risultato (tra l’altro sempre percepita dal S.).

La difesa del ricorrente sottolinea che in ogni caso – prescindendo, quindi, dalle diverse e contrastanti interpretazioni sul ruolo svolto dal S., confermato nella settima qualifica funzionale (funzionario di categoria D) con profilo di Capo Settore AA. GG. – quanto sopra era quello che il S. riteneva essere corretto e ciò incide, con evidenza, sull’elemento psicologico del reato.

2) art. 606 c.p.p., lettera B). Erronea applicazione dell’art. 640 c.p.p., comma 2, n. 1, in relazione all’art. 43 c.p. e art. 47 c.p., comma 3, o subordinatamente agli artt. 5 e 43 c.p. essendo stato ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato.

Con questo secondo motivo di ricorso, la difesa dell’imputato approfondisce quanto già sopra accennato. In buona sostanza il ricorrente sostiene che seppure non si dovesse condividere l’interpretazione della disciplina giuridica del ruolo svolto dal S., sarebbe evidente che questi versi in una tipica situazione di errore sulla legge extra penale di cui all’art. 47 c.p., comma 3.

Se poi si dovesse ritenere che le disposizioni legislative che disciplinano l’operato e i doveri dei pubblici ufficiali o degli incaricati di un pubblico servizio non hanno natura di norme extra penali, allora la situazione sopra esposta rientrerebbe in pieno in una delle ipotesi scriminanti individuate – in relazione all’art. 5 c.p. – nella Sentenza della Corte Costituzionale del 24/03/1988 n. 364. Infatti alla luce di quanto evidenziato nel primo motivo di ricorso (assenza di norme che contraddicano l’interpretazione data al combinato disposto del T.U. Enti Locali, D.Lgs. n. 267 del 2001, art. 109 e artt. 3, 7, 8, 10 e 11 C.C.N.L. 31/03/1999; dichiarazioni Segretario Generale e Sindaco del Comune), sarebbe evidente che il S. abbia agito nella più assoluta buona fede e nella piena convinzione della liceità del suo comportamento. Verserebbe, quindi, in una situazione di ignoranza inevitabile, scusabile ex art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale di cui sopra.

3) art. 606 c.p.p., lettera B).

Erronea applicazione dell’art. 640 c.p.p. sotto altro profilo.

Secondo la difesa del ricorrente, in base alle prove raccolte, mancherebbero, nel caso di specie, gli artifizi e raggiri, essendo noto ai superiori del S. il suo comportamento ed essendo irrilevante la sua presenza fisica in ufficio, contando solo i risultati. In ogni caso qualora alla P.O. siano noti gli artifizi e raggiri non si può parlare di truffa (viene citata giurisprudenza di questa Corte sul punto).

Mancherebbe, infine, anche il danno e l’ingiusto profitto. Infatti il danno che deve essere economico ed effettivo non si è verificato nel caso di specie (viene citata giurisprudenza di questa Corte sul punto).

4) art. 606 c.p.p., lettera C). Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità (art. 191 c.p.p.) in quanto la decisione si fonda su prove acquisite in violazione del divieto discendente dal combinato disposto della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost..

La difesa del ricorrente eccepisce l’inutilizzabilità degli accertamenti effettuati dalla P.G. che hanno portato all’incriminazione del S., perchè posti in essere in violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost..

La difesa del ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento con o senza rinvio dell’impugnata sentenza.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia, come nel caso di specie, compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4, sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5, sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2, sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 c.p.p., lett. c) in relazione all’art. 581 c.p.p., lett. c), perché le doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Giudice di merito ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente per il delitto di cui sopra.

Invero la Corte di appello, richiamando anche le motivazioni del Tribunale, ha correttamente rilevato – contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso – che: 1) il mobilificio risulta nella titolarità di S.R., ma nell’effettiva gestione della figlia dell’imputato (pagina 4 impugnata sentenza). Sul punto si deve comunque sottolineare che la contestazione non ha per oggetto io svolgimento, da parte del S., di un’attività parallela a quella di pubblico dipendente, ma il fatto di far apparire di essere al lavoro (avendo firmato il registro delle presenze o timbrato il cartellino marcatempo) mentre in realtà si trovava altrove (nel caso di specie nel mobilificio gestito dalla figlia). Ed è proprio per questo fatto che è stato condannato; 2) che il S. era un funzionario (settima qualifica funzionale) e non un dirigente – come sostenuto dal ricorrente – tenuto al rispetto dell’orario di lavoro prestabilito. Il Giudice di merito ricava quanto sopra (pagine 5 e 6 dell’impugnata sentenza), non solo da un accurato esame del contratto e delle norme che lo regolano, ma anche da vari importanti e inequivoci fatti: chiarimento fornito dall’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni che ha specificato come il vigente contratto di lavoro dei dipendenti pubblici non attribuisca nè al datore di lavoro nè al dipendente il potere o il diritto all’autogestione dell’orario di lavoro settimanale (consentito al solo personale dirigenziale) e come al capo settore (qualifica rivestita dal S.) l’indennità integrativa speciale sostituisca l’eventuale lavoro straordinario svolto; comunicazione del Segretario Generale del Comune di Novoli al S., del numero di ore che lo stesso doveva recuperare a conferma dell’obbligo del rispetto dell’orario di lavoro; dichiarazione dello stesso Segretario Generale del Comune di Novoli che ha spiegato come ad un funzionario inquadrato nella settima qualifica funzionale (categoria D) possono essere attribuite alcune funzioni proprie dei dirigenti senza che ciò comporti la qualifica di dirigente (d’altronde questa considerazione del teste è supportata dal fatto che nel contratto che attribuisce al S. tali funzioni, si specifica che viene confermato l’inquadramento dell’imputato nella settima qualifica funzionale – categoria D – specificazione che logicamente esclude ogni dubbio sul fatto che il S. non fosse un dirigente); che il S., infatti, era tenuto alla firma del registro delle presenze o alla timbratura del cartellino marcatempo, operazione svolta dal ricorrente regolarmente e senza alcuna contestazione (contestazione che non vi è stata neppure per le richieste di recupero ore, a conferma della sua piena consapevolezza di tale obbligo) a riprova che lo stesso imputato era pienamente cosciente di essere un funzionario e non già un dirigente. Tali fatti confermano la piena sussistenza dell’elemento psicologico del reato – come correttamente rilevato dalla Corte territoriale nelle pagine 7 e 8 – e che non può ravvisarsi alcun errore sulla legge extra penale di cui all’art. 47 c.p., comma 3, o una situazione di ignoranza inevitabile, scusabile ex art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 24/03/1988 n. 364. Invero il ricorrente ha firmato il registro delle presenze (o ha timbrato il cartellino marcatempo) e si è poi assentato dal posto di lavoro più volte e per molte ore; se avesse ritenuto di non avere l’obbligo di rispettare l’orario di lavoro prestabilito avrebbe firmato il registro delle presenze solo alla fine dei suoi impegni personali e quando fosse stato di nuovo presente in ufficio. In effetti ha agito nel modo illecito di cui alla contestazione, avendo un evidente interesse economico a far risultare falsamente la sua presenza in ufficio, quando invece si trovava altrove per sbrigare suoi affari privati. Dalla ricostruzione di cui sopra emerge con chiarezza l’infondatezza delle altre censure della difesa del S. sulla mancanza degli artifizi e raggiri, del danno e dell’ingiusto profitto. Infatti tali censure – generiche e apodittiche – si fondano solo sulla diversa interpretazione data dall’imputato ai fatti di causa. Si deve osservare in proposito come sia indimostrata l’affermazione che la parte offesa fosse a conoscenza degli artifizi e raggiri. Invero il Sindaco del Comune ha solo riferito sulla disponibilità e sull’impegno del S. (si vedano pagine 11 e 12 del ricorso) e il Segretario Generale ha invece confermato la qualifica di funzionario del S. e in concreto ha chiesto il recupero delle ore non lavorate dal ricorrente delle quali aveva avuto conoscenza. Non si riesce quindi a capire da quali dichiarazioni o atti la difesa del ricorrente abbia tratto il convincimento che i rappresentanti del Comune fossero a conoscenza degli artifizi e raggiri commessi dall’imputato. Non è superfluo ricordare che la P.O. nel caso di specie è il Comune e che i rappresentanti di un Ente pubblico non potrebbero mai “autorizzare” o accettare passivamente un comportamento illecito del proprio dipendente. Quindi se avessero saputo della truffa commessa dal S. e non avessero agito avrebbero commesso a loro volta un reato. Per quanto riguarda il danno – sul quale il ricorrente si limita a generiche affermazione di principio sempre collegate alla sua particolare interpretazione dei fatti – si rileva che, peraltro, il palese ingiustificato protrarsi della assenza dal posto di lavoro dell’imputato (accertato dalla P.G. in tutti i quattro giorni oggetto “dell’osservazione”), ha realizzato una sospensione di fatto del rapporto di impiego che ha necessariamente prodotto un danno patrimoniale per l’Ente, chiamato a retribuire “frazioni” delle prestazioni giornaliere non effettuate, e con l’ulteriore danno (patrimoniale – anche in relazione alla retribuzione di risultato decisa ogni anno dall’apposito Nucleo di Valutazione e sempre corrisposta al S. – e di immagine) correlato alla mancata presenza del dipendente (tra l’altro Capo Settore AA.GG.) nel posto di lavoro, rimasto così sguarnito.

Circostanze tutte, quelle esposte, al cui risalto, agli effetti della configurazione del reato contestato, non può certo far velo l’eventuale difficoltà di quantificazione del danno, considerato che, nella specie, la relativa sussistenza ed apprezzabilità in termini economici è da reputarsi sussistente al di la di ogni ragionevole dubbio.

Si deve, infine, ricordare che questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che la falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata (Sez. 2, Sentenza n. 34210 del 06/10/2006 Ud. – dep. 12/10/2006 Rv. 235307).

Anche l’ultimo motivo di ricorso – inutilizzabilità degli accertamenti effettuati dalla P.G., che hanno portato all’incriminazione del S., perché posti in essere in violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost. – è manifestamente infondato. Infatti il ricorrente insiste nel confondere – nonostante la Corte di appello abbia già motivato esaustivamente e in modo logico e non contraddicono sull’infondatezza di tale eccezione; nonostante il risultato delle indagini di P.G. sia stato acquisito dal Giudice di merito su concorde richiesta delle parti e nonostante il principio di tassatività delle nullità e dell’inutilizzabilità – ciò che vale per i rapporti privatistici e ciò che vale in materia pubblicistica quale è quella penale. Invero le particolari limitazioni contenute negli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori riguardano solo il datore di lavoro (e non già il soggetto pubblico P.G.) e all’interno di quel particolare rapporto di natura privatistica, nel quale il legislatore – nel contemperare le esigenze del datore di lavoro di tutela del patrimonio aziendale e del dipendente di svolgere liberamente e dignitosamente il suo lavoro – ha cercato di tutelare quest’ultimo, ritenuto soggetto “debole”, da eventuali abusi. Si deve osservare che in ogni caso anche nell’ambito civilistico questa Suprema Corte ha stabilito il principio che “la prestazione d’opera da parte del lavoratore subordinato a favore di terzi concorrenti costituisce una violazione dell’obbligo di fedeltà che, se è irrilevante sotto il profilo penale qualora compiuta fuori del normale orario di lavoro, integra il reato di truffa se svolta nell’orario normale, da parte di soggetto che lucra la retribuzione, fingendo di svolgere il lavoro che gli è stato affidato, mentre svolge altra attività. Ne consegue che, ove sorga il giustificato dubbio che un dipendente incaricato di mansioni da espletare al di fuori dei locali dell’azienda in realtà si renda responsabile di un comportamento illecito di tale genere, è giustificato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati per verifiche al riguardo, nè sono ravvisagli profili di illiceità a norma della L. n. 300 del 1970, art. 2, comma 2, il quale, prevedendo il divieto per il datore di lavoro di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell’attività lavorativa e il divieto per queste ultime di accedere nei locali dove tale attività è in corso, nulla dispone riguardo alla verifica dell’attività lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali da parte di soggetti non inseriti nel normale ciclo produttivo. (Nella specie un istituto di credito aveva sottoposto a verifica l’operato di un suo funzionario incaricato di attività promozionale esterna, a causa dei sospetti suscitati dagli scarsissimi risultati conseguiti e l’aveva poi licenziato, essendo emerso che non intratteneva affatto i contatti personali indicati nei rapportini di servizio, pur non compiendo neanche attività a favore di terzi; questa S.C. ha confermato la sentenza impugnata, con cui era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento. Sez. L, Sentenza n. 10313 del 17/10/1998 – Rv. 519819 -). Inoltre “le disposizioni degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori non implicano l’impossibilità di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi da quelli in essi previsti (ad esempio investigatori privati) in difetto di espliciti divieti al riguardo e in considerazione della libertà della difesa privata” (Sez. L, Sentenza n. 10761 del 03/11/1997 – Rv. 509428 -) Infine “lo statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970), e specificamente i suoi artt. 2, 3 e 4, lungi dall’eliminare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile, ne ha disciplinato le modalità di esercizio, privando la funzione di vigilanza dell’impresa degli aspetti più “polizieschi”. In particolare non può contestarsi la legittimità dei controlli posti in essere da dipendenti di un’agenzia investigativa i quali, operando come normali clienti di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l’appropriazione della somma incassata da parte dell’addetto alla cassa” (Sez. L, Sentenza n. 9576 del 14/07/2001 – Rv. 548199 -).

E’ evidente che se addirittura il datore di lavoro, in presenza di fatti illeciti, può svolgere le attività di accertamento di cui sopra, nessuna limitazione può sussistere per la P.G. che in adempimento di un suo preciso dovere (art. 55 c.p.p.) imposto dalla necessità di tutelare la collettività dalla commissione degli illeciti più gravi previsti nel nostro ordinamento, quali, appunto, i reati, acquisisca e verifichi – come nel caso di specie – una “notitia criminis” con il compimento di atti che tra l’altro non hanno inciso minimamente sulla libertà personale del S. e addirittura al di fuori del posto di lavoro. D’altronde è lo stesso art. 13 Cost. – invocato dal ricorrente – a prevedere la possibilità di interventi della P.G. in campi e con provvedimenti ben più gravi (detenzione, ispezione e perquisizione) di un pedinamento e di un’osservazione. Sul punto questa Suprema Corte ha, tra l’altro, più volte affermato il principio condiviso dal Collegio, che le attività di osservazione, controllo e pedinamento svolte dalla polizia giudiziaria non sono intrusive della sfera privata, perché non limitano, diversamente dalle ispezioni, dalle perquisizioni e dai sequestri, la libertà morale del controllato. Tali attività vanno inquadrate nel novero dei mezzi destinati alla acquisizione di prove non disciplinate dalla legge, consentite dall’art. 189 c.p.p., senza necessità di decreto autorizzativo della autorità giudiziaria (Sez. 6, Sentenza n. 2072 del 03/06/1998 Cc. – dep. 07/07/1998 – Rv.

212220).

A fronte di quanto sopra evidenziato il ricorrente contrappone solo contestazioni, che non tengono conto delle argomentazioni del Corte di appello.

In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile il ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro Mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro Mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2008


Giustizia, al via i tribunali on-line

Il ministro per la Pubblica amministrazione e l’innovazione, Renato Brunetta, ed il ministro della Giustizia, Angelino Alfano, hanno firmato a Palazzo Chigi il 26 novembre 2008 un Protocollo d’intesa per la realizzazione di programmi d’innovazione digitale. Gli interventi previsti sono: – notificazioni telematiche delle comunicazioni e degli atti processuali ad avvocati e ausiliari del giudice; – rilascio telematico di certificati giudiziari e aumento degli sportelli sul territorio; trasmissione telematica delle notizie di reato tra forze di polizia e procure della Repubblica; – registrazione telematica degli atti giudiziari civili presso l’Agenzia delle Entrate; – accesso pubblico via rete alle sentenze ed ai dati dei procedimenti, in attuazione del Codice dell’Amministrazione digitale; – razionalizzazione, evoluzione e messa in sicurezza delle infrastrutture ICT, dei sistemi informatici e della rete di telecomunicazione della giustizia. L’obiettivo è di semplificare le modalità di svolgimento dei servizi che l’Amministrazione della Giustizia rende agli utenti, e in pari tempo ridurre i costi di funzionamento degli uffici, razionalizzare e rendere più efficienti le infrastrutture e le reti di trasmissione della Giustizia tramite il Sistema Pubblico di Connettività (SPC) e la rete privata delle Forze di Polizia per le funzioni di ordine e sicurezza pubblica.


Corte cost., Ord., (ud. 04-11-2008) 28-11-2008, n. 393

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Giovanni Maria FLICK Presidente

– Francesco AMIRANTE Giudice

– Ugo DE SIERVO “

– Paolo MADDALENA “

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
ORDINANZA

Nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 72-bis del decreto del Presidente della Repubblica del 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), promosso con ordinanza dell’11 dicembre 2007 dal Giudice dell’esecuzione del Tribunale di Genova nel giudizio vertente tra la s.r.l. PhD e la s.p.a. Equitalia Polis, iscritta al n. 87 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visti l’atto di costituzione della s.r.l. PhD, nonché gli atti di intervento di Francesco Carlo Rizzuto e del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 4 novembre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;

udito l’avvocato Francesco Carlo Rizzuto per la s.r.l. PhD e l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio riguardante un’opposizione agli atti dell’esecuzione esattoriale promossa dalla s.p.a. Equitalia Polis, agente della riscossione per la provincia di Genova, nei confronti della s.r.l. PhD, il giudice dell’esecuzione del Tribunale ordinario di Genova, con ordinanza depositata l’11 dicembre 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità dell’art. 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), il quale, all’alinea del comma 1, prevede che «Salvo che per i crediti pensionistici e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e sesto, del codice di procedura civile, l’atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, numero 4, dello stesso codice di procedura civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede»;

che il giudice rimettente premette che: a) il giudizio a quo si trova nella fase cautelare «prevista dall’art. 60, d.P.R. n. 602/1973», nella quale può essere disposta «legittimamente la sospensione della procedura esecutiva esattoriale, ove richiesto, qualora ricorrano gravi motivi e vi sia fondato pericolo di grave ed irreparabile danno»; b) devono essere respinte le eccezioni di mancata o tardiva «notifica del provvedimento ex art. 72-bis, d.P.R. n. 602/1973 con cui Equitalia S.p.A. […] ordinava a Banca Carige la consegna della somma versata sul conto corrente intestato al debitore»; c) «non appare violato, nel caso di specie, alcun principio né dispositivo di legge, essendo stato notificato l’atto di pignoramento anche al contribuente debitore e […] pertanto l’esecutato ha avuto la possibilità di venire a conoscenza della procedura e di far valere le sue ragioni con il presente ricorso ex art. 617 c.p.c.»;

che il rimettente – in accoglimento di una sola delle diverse eccezioni di legittimità costituzionale proposte dall’opponente – solleva questione di legittimità costituzionale del citato art. 72-bis, del d.P.R. n. 602 del 1973, in quanto esso, consentendo all’agente della riscossione di ordinare discrezionalmente al terzo il pagamento diretto, riconosce a detto agente una facoltà che, se esercitata (come nella specie), sottrae al controllo del giudice dell’esecuzione la procedura di espropriazione esattoriale mobiliare presso terzi di crediti del debitore e, perciò, crea una irragionevole disparità di trattamento nei confronti degli esecutati in procedure esattoriali alle quali, invece, sono applicabili le diverse modalità di esecuzione mediante previa citazione in giudizio del terzo, previste dagli artt. 543 e seguenti cod. proc. civ.;

che, sempre a sostegno della non manifesta infondatezza della sollevata questione, il rimettente aggiunge: a) che «il pignoramento eseguito in base alla norma censurata, con ordine coattivo di consegna immediata, in luogo di quello ex artt. 543 e segg. c.p.c., ha reso più gravosa e meno efficace per l’esecutato la sua difesa», perché se questo «avesse proposto opposizione dopo aver ricevuto la rituale citazione ex art. 543 c.p.c., nel tempo intercorrente tra la sua notifica e l’udienza di dichiarazione del terzo ex art. 547 c.p.c., qualora il g.e. avesse sospeso l’esecuzione ex art. 60, d.P.R. n. 602/1973, stante il disposto dell’art. 49, n. 2 del d.P.R. citato, […] sarebbe stato conseguentemente applicabile, per la parte per cui non provvede l’art. 60, d.P.R. n. 602/1973, l’art. 624 c.p.c.»; b) che, pertanto, «in caso di sospensione non reclamata ex art. 669-terdecies c.p.c., o disposta o confermata in sede di reclamo, il g.e., in caso di istanza dell’opponente, avrebbe dichiarato (non facoltativamente, secondo il tenore letterale della norma novellata), con ordinanza non impugnabile, l’estinzione della procedura, liberando di fatto la somma vincolata e non ancora assegnata» c) che «è di percezione immediata quanto la diversa scelta operata nel caso in esame dal concessionario procedente, la cui discrezionalità discende dalla norma, abbia creato una disparità di trattamento ove si consideri che, in caso di sospensione ed estinzione della procedura, il recupero della somma pignorata, già versata al procedente, sarebbe non poco oneroso per l’esecutato»;

che, secondo il giudice a quo, va «ritenuta altresì sussistente la rilevanza, nel presente giudizio, della norma censurata, per le circostanze di fatto e di diritto suesposte»;

che il rimettente, contestualmente alla rimessione degli atti a questa Corte, «sospende la procedura» esecutiva;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi non fondata la sollevata questione;

che l’interveniente premette che la norma censurata è stata introdotta dall’art. 2, comma 6, del decreto-legge 2 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286, che ha esteso a tutti i crediti del debitore erariale moroso la facoltà di riscossione coattiva diretta da parte del concessionario, prima limitata al solo caso del pignoramento del quinto dello stipendio, allo scopo di attribuire agli organi della riscossione poteri più incisivi ed efficaci per il mancato pagamento dei debiti tributari iscritti a ruolo, come tali certi, liquidi ed esigibili;

che, per la difesa erariale, la norma censurata non è contraria al parametro della ragionevolezza, non solo perché «appare del tutto proporzionata al conseguimento dell’obiettivo, ma anche perché la contestata discrezionalità dell’agente della riscossione nell’avvalersi o meno della facoltà che la legge gli riconosce non induce una disparità di trattamento tra debitori esecutati», i quali sono «titolari di un interesse di mero fatto rispetto all’utilizzo dell’una o dell’altra modalità»;

che i margini di discrezionalità riconosciuti all’agente della riscossione sarebbero «rigidamente vincolati, fortemente limitati e ben definiti dal profilo pubblicistico dell’esercizio della sua attività»; attività che egli dovrebbe improntare alla maggiore rapidità possibile «in un’ottica di indefettibile rafforzamento dell’efficienza operativa, della fruttuosità della riscossione tributaria e dell’effettivo contrasto del fenomeno della c.d. evasione da riscossione»;

che, in relazione alla pretesa violazione dell’art. 24 Cost., la difesa erariale rileva che la denunciata maggiore gravosità della posizione del debitore esecutato conseguirebbe ad una situazione di mero fatto, perché «l’eliminazione dell’udienza per la dichiarazione di quantità […] non incide sulla facoltà per il debitore esecutato di proporre opposizione all’esecuzione o agli atti esecutivi, nei limiti in cui ciò è consentito dall’art. 57 del d.P.R. 602/73, e di chiedere la sospensione dell’esecuzione, essendo il debitore, evidentemente, tra i destinatari della notifica dell’atto di pignoramento»;

che, anche sul piano delle concrete conseguenze fattuali della disciplina censurata – sempre per la difesa erariale – «la nuova forma di espropriazione presso terzi non ha prodotto sensibili differenze rispetto alla situazione preesistente», nella quale «la possibilità per il debitore esecutato di rientrare nella disponibilità del credito pignorato – non essendo la mera sospensione idonea a far cessare il vincolo determinato dal pignoramento – presuppone la dichiarazione di estinzione della procedura esecutiva e quindi, di norma, una sentenza resa all’esito di un giudizio di cognizione»;

che, pertanto, l’unica differenza fra la disciplina censurata e la disciplina ordinaria dell’espropriazione presso terzi sarebbe «che […] all’esito del giudizio di cognizione risulterà debitore il concessionario (che sarà, di regola, tenuto anche al risarcimento del danno) in luogo dell’originario debitor debitoris»; con la conseguenza di una maggiore tutela di fatto della posizione del debitore esecutato, in ragione della «istituzionale solvibilità del creditore erariale, che elimina in radice […] il rischio di ripetizione delle somme che, eventualmente, dovessero risultare riscosse sine titulo e di quelle conseguentemente dovute a titolo risarcitorio»;

che si è costituita la s.r.l. PhD, in liquidazione, opponente nel giudizio di esecuzione, rappresentata e difesa dall’avvocato Francesco Carlo Rizzuto, chiedendo l’accoglimento della sollevata questione;

che la parte privata, dopo aver premesso che il giudice a quo ha sospeso la procedura esecutiva, afferma che: a) la norma censurata – in quanto sottrae al giudice dell’esecuzione il potere «di verifica anche d’ufficio della validità ed efficacia dei titoli esecutivi» – si pone in contrasto con la legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), che «prevede espressamente che fisco e contribuente siano posti in condizioni di parità, nell’ottica di un giusto processo», nonché con l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che «prevede […] il diritto di ogni persona ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti a un tribunale indipendente ed imparziale, ai fini della determinazione sia dei suoi diritti che dei suoi doveri di carattere civile»; b) la medesima norma censurata non prevede «la contestuale notifica dell’atto di pignoramento, oltre che al terzo pignorato, anche al debitore»; c) nel procedimento di espropriazione presso terzi ordinario, qualora l’esecuzione sia sospesa prima che il terzo debitore corrisponda le somme all’agente della riscossione, il debitore esecutato che vede accolta la sua opposizione all’esecuzione ottiene lo svincolo dei crediti dal pignoramento, a prescindere dall’esistenza di altri debiti verso lo Stato; nel procedimento di espropriazione presso terzi disciplinato dalla norma censurata, invece, «le somme acquisite dal procedente o potranno essere riottenute in modo molto gravoso […] o non potranno essere riottenute affatto, qualora il contribuente abbia altri o maggiori debiti verso lo Stato, in quanto si applica la automatica compensazione ex lege»;

che è intervenuto in proprio Francesco Carlo Rizzuto, dichiarando di essere parte, quale debitore esecutato, di un procedimento analogo al giudizio a quo, pendente di fronte allo stesso Tribunale ordinario di Genova;

che, a sostegno dell’ammissibilità del suo intervento, afferma di essere portatore di un interesse personale, «in quanto la soluzione, favorevole o meno, della questione di legittimità costituzionale delle norme in materia di riscossione esattoriale incide indirettamente anche sulla propria posizione»;

che, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, la s.r.l. PhD, in liquidazione, ha ribadito quanto già dedotto nell’atto di costituzione.

Considerato che il giudice dell’esecuzione del Tribunale ordinario di Genova dubita – in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione – della legittimità dell’art. 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), il quale prevede che «Salvo che per i crediti pensionistici e fermo restando quanto previsto dall’articolo 545, commi quarto, quinto e sesto, del codice di procedura civile, l’atto di pignoramento dei crediti del debitore verso terzi può contenere, in luogo della citazione di cui all’articolo 543, secondo comma, numero 4, dello stesso codice di procedura civile, l’ordine al terzo di pagare il credito direttamente al concessionario, fino a concorrenza del credito per cui si procede»;

che, secondo il rimettente, la disposizione censurata víola gli evocati parametri, perché: a) crea una «disparità di trattamento nei confronti di esecutati in procedure esattoriali in ordine alla possibilità […] che la concessionaria per la riscossione applichi a sua discrezione tale modalità di esecuzione, riconoscendole una facoltà che discrimina irragionevolmente i debitori sottoposti a tale procedura “in luogo” di quella di cui agli artt. 543 e segg. C.p.c.»; b) «il pignoramento eseguito in base alla norma censurata, con ordine coattivo di consegna immediata, in luogo di quello ex artt. 543 e segg. c.p.c., ha reso più gravosa e meno efficace per l’esecutato la sua difesa», in quanto, ove questo «avesse proposto opposizione dopo aver ricevuto la rituale citazione ex art. 543 c.p.c., nel tempo intercorrente tra la sua notifica e l’udienza di dichiarazione del terzo ex art. 547 c.p.c., qualora il g.e. avesse sospeso l’esecuzione ex art. 60, d.P.R. n. 602/1973, stante il disposto dell’art. 49, n. 2 del d.P.R. citato, […] sarebbe stato conseguentemente applicabile, per la parte per cui non provvede l’art. 60, d.P.R. n. 602/1973, l’art. 624 c.p.c.», con l’ulteriore conseguenza che, «in caso di sospensione non reclamata ex art. 669-terdecies c.p.c., o disposta o confermata in sede di reclamo, il g.e., in caso di istanza dell’opponente, avrebbe dichiarato […], con ordinanza non impugnabile, l’estinzione della procedura, liberando di fatto la somma vincolata e non ancora assegnata»;

che, preliminarmente, deve essere dichiarato inammissibile l’intervento in proprio di Francesco Carlo Rizzuto, il quale riferisce di essere parte non nel giudizio a quo, ma in un giudizio analogo, nel quale il giudice non ha ritenuto di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma oggetto del presente giudizio;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale e i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura (ex plurimis, sentenza n. 96 del 2008; ordinanza pronunciata nell’udienza del 26 febbraio 2008 e ordinanza n. 414 del 2007);

che l’inammissibilità dell’intervento non viene meno in forza della pendenza di un procedimento analogo a quello principale, posto che l’ammissibilità di tale intervento contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’accesso delle parti a detto giudizio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo (ex plurimis, sentenza n. 220 del 2007; ordinanze pronunciate nelle udienze del 3 luglio 2007 e del 19 giugno 2007);

che la sollevata questione di legittimità costituzionale è manifestamente inammissibile;

che il rimettente riferisce che il giudizio a quo, avente ad oggetto un’opposizione del debitore esecutato all’esecuzione esattoriale promossa dall’agente della riscossione, si trova nella fase cautelare «prevista dall’art. 60, d.P.R. n. 602/1973»;

che, secondo tale disposizione, «Il giudice dell’esecuzione non può sospendere il processo esecutivo, salvo che ricorrano gravi motivi e vi sia fondato pericolo di grave e irreparabile danno»;

che, come questa Corte ha più volte affermato, il giudice ben può sollevare questione di legittimità costituzionale in sede cautelare, sia quando non provveda sulla domanda cautelare, sia quando conceda la relativa misura, purché tale concessione non si risolva nel definitivo esaurimento del potere cautelare del quale in quella sede il giudice fruisce (ex plurimis, sentenza n. 161 del 2008 e ordinanza n. 25 del 2006);

che, nel caso di specie, il rimettente non si è limitato a sospendere il giudizio cautelare, ma ha sospeso – con provvedimento che egli non dichiara essere soggetto a successiva conferma nel medesimo giudizio cautelare – il processo esecutivo ed ha, pertanto, accolto l’istanza di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 602 del 1973 proposta dalla parte opponente, così esaurendo definitivamente il proprio potere cautelare;

che la questione sollevata è, conseguentemente, priva di rilevanza nel giudizio a quo, perché il giudice, avendo sospeso la procedura esecutiva e non essendosi riservato di provvedere successivamente, in via definitiva, sull’istanza cautelare, non deve più fare applicazione della norma censurata;

che, a parte ciò, il giudice rimettente non ha neppure assolto l’onere di fornire un’adeguata motivazione circa la rilevanza della sollevata questione al fine di consentire a questa Corte di verificare la plausibilità di detta motivazione; che, infatti, il giudice a quo avrebbe dovuto precisare se – ai fini della concessione della richiesta misura cautelare – oltre al fumus boni iuris fondato sulla dedotta illegittimità costituzionale della disposizione censurata, sussistesse anche il requisito del periculum in mora richiesto dal menzionato art. 60 del d.P.R. n. 602 del 1973 (nel senso della necessità di motivazione anche sulla sussistenza del periculum in mora, sentenze n. 370 del 2008 e n. 108 del 1995);

che, invece, il rimettente non ha fornito alcuna motivazione circa il presupposto del periculum in mora per la sospensione della procedura esecutiva, essendosi limitato a menzionare genericamente l’esistenza di «gravi motivi» per tale sospensione;

che, anche a prescindere tali rilievi in punto di inammissibilità, va rilevato che la facoltà di scelta del concessionario tra due modalità di esecuzione forzata presso terzi non crea né una lesione del diritto di difesa dell’opponente né una rilevante disparità di trattamento tra i debitori esecutati, sia perché questi sono portatori di un interesse di mero fatto rispetto all’utilizzo dell’una o dell’altra modalità e possono in ogni caso proporre le opposizioni all’esecuzione o agli atti esecutivi di cui all’art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973, sia perché non sussiste «un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità di regole procedurali» (ex plurimis, ordinanze n. 67 del 2007 e n. 101 del 2006 ).

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile l’intervento di Francesco Carlo Rizzuto, in proprio;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 72-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), sollevata dal Tribunale ordinario di Genova, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2008.


3° Convegno nazionale: “Il Pianeta Notifiche”. Roma 21.11.2008

Il Convegno “Il Pianeta Notifiche”, svoltosi a Roma venerdì 21 novembre 2008, ha ufficializzato la partenza del nostro progetto “Testo Unico delle Notifiche”. Alla presenza di un’importante e qualificata presenza di colleghi, arrivata da tutta l’Italia, si è avviato un primo dibattito con le Segreterie Nazionali della Funzione Pubblica dei Sindacati CGIL, CISL e UIL. In tale contesto sono state presentate le linee guida per la redazione del “Testo Unico delle Notifiche“, sulle quali, in altre sedi, seguiranno ulteriori confronti con tutti i soggetti interessati, in primis il Parlamento ed il Governo. Gli interventi sono stati incentrati in particolar modo sulla “nuova “figura dell’Agente Notificatore che, secondo A.N.N.A., potrà avere competenze generali o particolari, a seconda dei casi, utilizzando, però, procedure notificatorie il più omogenee possibile. Il saluto di Enrico Cavallari, Assessore alle Politiche delle Risorse Umane del “primo” Comune d’Italia, cioè Roma, ci ha stimolato a continuare sulla strada intrapresa garantendoci un suo deciso supporto in sede ANCI ed ARAN. Pertinenti e di forte sostegno alla nostra iniziativa sono stati anche tutti e tre gli interventi delle Segreterie Nazionali delle OO. SS. CGIL-CISL-UIL, in particolare è stata apprezzata dalla platea l’affermazione di Sauro Brecciaroli (Segretario Nazionale UIL-FPL) che ha rilevato, anche alla luce delle relazioni effettuate dal Presidente A.N.N.A. Pietro Tacchini e dal Consigliere Nazionale A.N.N.A. Lazzaro Fontana, una non corretta scrittura dell’articolo 36 del CCNL degli EE. LL. del 22/01/2004 nella parte ove si prevedeva solamente per i messi che svolgevano le funzioni di “Ufficiale Giudiziario” l’erogazione di un riconoscimento economico, a titolo di compenso per le specifiche responsabilità, di € 300,00 annui, assumendosi l’impegno di proporre nel primo CCNL utile una riscrittura di detto articolo che estenda a tutti i messi comunali la possibilità di percepire tale somma. Il cammino intrapreso non sarà semplice e la materia trattata è molto complessa, ma trova nella nostra Associazione la consapevolezza che il nostro progetto, portato all’esterno della stessa attraverso questa iniziativa pubblica, è la strada maestra da percorrere al fine di garantire da un lato la professionalità degli Agenti Notificatori e dall’altro l’offerta di un servizio il più possibile efficace, efficiente, economico, trasparente e semplice al cittadino.

Relazioni:

Relazione Tacchini Pietro – Presidente Nazionale A.N.N.A.

Immagini del Convegno


L’attività di formazione dell’Associazione – Anno 2009

Il «Progetto per la valorizzazione del Messo comunale» è una iniziativa dell’Associazione A.N.N.A. che ha come obbiettivo principale quello di riqualificare la figura ed il ruolo del Messo comunale attraverso la conoscenza dei principi fondamentali del Procedimento notificatorio.
L’Associazione attraverso tale iniziativa, che promuove su tutto il territorio nazionale, intende dare il proprio contributo affinché l’applicazione delle norme che regolano il Procedimento notificatorio sia la più uniforme possibile .
I Corsi di formazione di base e di aggiornamento, di carattere prevalentemente pratico, affrontano la materia delle notifiche attraverso l’analisi, lo sviluppo ed il coordinamento delle norme procedurali.
I docenti sono operatori di settore che, con una collaudata metodologia didattica, assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati.
Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A  condividendone così lo stile e la cultura.

Primo semestre

  • 12 febbraio 2009 Udine (UD)
  • 20 febbraio 2009 Maserà di Padova (PD)
  • 25 febbraio 2009 Montecchio Emilia (RE)
  • 17 marzo 2009 Fara in Sabina (RI)
  • 31 marzo 2009 Asciano (SI)
  • 10 aprile 2009 Lainate (MI)

Secondo semestre

  • 25 settembre 2009 Trapani
  • 2 ottobre 2009 Maserà di Padova (PD)
  • 13 ottobre 2009 Terracina (LT)
  • 20 ottobre 2009 Serramazzoni (MO)
  • 26-27 ottobre 2009 Cesena (FC)
  • 28 ottobre 2009 Martinsicuro (TE)
  • 6 novembre 2009 Castrovillari (CS)
  • 13 novembre 2009 Montecchio Emilia (RE)

Il nostro partner informatico Proveco (Firenze) comunica il calendario dei corsi di formazione relativi alla gestione informatizzata di notifiche, affissioni e depositi, attraverso l’utilizzo di software.

MILANO  –  Mercoledì  23  settembre

PADOVA  –  Giovedì  24  settembre

FIRENZE  –  Mercoledì  30  settembre

ROMA     –  Giovedì  1  ottobre

I corsi sono rivolti a tutti i  Messi Comunali e tutte le figure che svolgono l’attività di notificazione interessati ad esaminare aspetti pratico-organizzativi per la gestione del servizio ed ai clienti che vogliono approfondire i procedimenti per ottenere migliori risultati dall’utilizzo di MC3.

Per conoscere tutte le informazioni e aderire ai corsi, cliccare su  scheda corsi  o contattare il Servizio Commerciale (Tel.: 055 3245678   E-mail: info@proveco.it)


Notifiche fiscali in caso di variazione di residenza

Con Sentenza n. 26542/2008, depositata lo scorso 5 novembre in cancelleria, la Corte di Cassazione si è espressa in materia di notifiche fiscali qualora il contribuente abbia variato la propria residenza.

Secondo i giudici, in base ai principi dettati dalla Sentenza n. 360/2003 della Corte Costituzionale, nel periodo precedente al 4 luglio 2006 (data di entrata in vigore della Legge n. 248/2006) le notifiche di carattere tributario eseguite presso la vecchia residenza, sia pure nei 60 giorni successivi al trasferimento, devono considerarsi “radicalmente nulle”. In base a tale Sentenza, le variazioni dell’indirizzo del contribuente hanno effetto immediato e non dal sessantesimo giorno successivo.

Diversamente, a decorrere dal 4 luglio 2006 le suddette notifiche possono essere eseguite presso la vecchia residenza nei 30 giorni successivi al trasferimento, così come previsto dal nuovo termine dilatorio introdotto dalla Legge n. 248/2006.


Inesistenti le notifiche degli atti giudiziari compiuti da messi speciali

Sono inesistenti le notifiche di atti giudiziari compiute dai messi speciali dell’Amministrazione finanziaria: la Cassazione, in considerazione della carenza notificatoria di detti soggetti, assimilabili ai messi comunali, ha così assunto una posizione diversa rispetto a quella espressa con sentenza 6 maggio 2004, n. 8625 nella quale aveva sostenuto che tali notificazioni fossero affette da semplice nullità, suscettibile di sanatoria a seguito della costituzione in giudizio della parte.


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 24-06-2008) 11-11-2008, n. 26975

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente di Sezione

Dott. PREDEN Roberto – rel. e Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 1688-2004 proposto da:

C.G., B.R., P.A.M., P. P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIOVANNI GENTILE 8, presso lo studio dell’avvocato MARTORIELLO MASSIMO, rappresentati e difesi dall’avvocato COGO GIOVANNA, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

PIRELLI & C. REAL ESTATE PROPERTY MANAGEMENT SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SETTEMBRINI 30, presso lo studio dell’avvocato FERRETTI MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TROIANI VINCENZO, giusta delega a margine del controricorso;

EDS – ELECTRONIC DATA SYSTEM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANAPO 29, presso lo studio dell’avvocato NINNI GUIDO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

NOVA DOMUS 90 S.R.L. a cui non risulta notificato il ricorso;

– intimata –

avverso la sentenza n. 688/2003 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/03/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/06/08 dal Pres. Dott. ROBERTO PREDEN;

uditi gli avvocati Marco FERRETTI, Guido NINNI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento, per quanto di ragione, del primo motivo del ricorso con assorbimento degli altri motivi.

Svolgimento del processo
Con provvedimento d’urgenza 18.12.1995 il Tribunale di Milano, accogliendo il ricorso proposto da C.G., B.R., P.A.M. e P.P., abitanti nello stabile sito in Via (OMISSIS), denominato villa (OMISSIS), che avevano lamentato immissioni rumorose provenienti dal confinante edificio, di proprietà della Nuova Domus 90 S.r.l., adibito ad uffici della Data Base Progetti S.p.a., all’esito di C.t.u. che aveva accertato l’eccedenza del limite di tollerabilità delle immissioni, ordinava l’esecuzione delle opere di insonorizzazione degli impianti di condizionamento e refrigerazione dell’aria ritenute dal consulente tecnico idonee a contenere le immissioni entro i limiti della tollerabilità nel periodo diurno, imponeva la sospensione del funzionamento degli impianti nel periodo notturno.

Con citazione 7.2.1996, i predetti instauravano il giudizio di merito convenendo davanti al tribunale la E.D.S. Electronic Data System Italia S.p.a. (già Data Base Progetti), e l’I.N.A. Assicurazioni S.p.a. (subentrata alla Nuova Domus 90 S.r.l.), nelle rispettive qualità di conduttrice e proprietaria dell’immobile dal quale provenivano le immissioni rumorose, per la conferma dei provvedimenti urgenti e la condanna al risarcimento del danno biologico e del danno morale alla persona.

L’I.N.A. resisteva e chiedeva di essere manlevata dalla E.D.S.. La E.D.S. resisteva a tutte le domande.

Il tribunale, con sentenza 26.10.1998, condannava in solido le convenute al pagamento a ciascuno degli attori della somma di L. 12.000.000 a titolo di risarcimento del danno biologico psichico temporaneo sofferto durante il periodo, da novembre 1994 a dicembre 1995, in cui le immissioni eccedenti la normale tollerabilità si erano verificate.

Proponeva appello la Unim S.p.a., subentrata all’I.N.A, censurando il riconoscimento del danno biologico, in difetto di prova della lesione alla integrità psicofisica, e lamentando il mancato accoglimento della domanda di manleva verso la E.D.S. Si costituiva la Pirelli & C. Real Estate Property Management S.p.a. nella quale era stata incorporata la Unim.

La E.D.S. chiedeva il rigetto dell’impugnazione e, in via di appello incidentale, il rigetto della domanda degli attori.

Gli originari attori resistevano e, con appello incidentale, chiedevano l’elevazione dell’importo del risarcimento.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 4.3.2003. accoglieva l’appello principale della Pirelli & C. e quello incidentale della E.D.S. e rigettava la domanda. Avverso la sentenza gli originari attori hanno proposto ricorso per cassazione, affidandone l’accoglimento a due motivi.

Hanno resistito, con controricorso, la E.D.S. e la Pirelli & C..

All’udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al cd. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l’ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.

Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

Motivi della decisione
A) Esame della questione di particolare importanza.

1. L’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 – relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l’ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame – rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l’uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale – inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell’integrità psico-fisica, e dal cd. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto – l’altro contrario.

Osserva l’ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell’art. 2059 c.c. ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.

A questo orientamento, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del “danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.

Ricorda ancora l’ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito “esistenziale”:

tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perchè non presuppone l’esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perchè non costituirebbe un mero patema d’animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest’ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.

L’ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.

Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.

Così riassunti i contrapposti orientamenti, l’ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto “quesiti”. 1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.

3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale “tipico”, nega la concepibilità del danno esistenziale.

4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell’ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell’illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.

5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.

6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.

7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il cd. danno tanatologico o da morte immediata.

8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art. 2059 c.c. (“Danni non patrimoniali”) secondo cui “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

All’epoca dell’emanazione del codice civile l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 c.p. del 1930.

La giurisprudenza, nel dare applicazione all’art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte.

2.1. L’insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono l’affermazione i seguenti argomenti:

a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall’art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;

b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona;

c) l’estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);

d) l’esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c. e la completano nei termini seguenti.

2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c. si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c..

L’art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata:

Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).

2.4. L’art. 2059 c.c. è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

L’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

2.5. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato (“Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”).

2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2:

mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c. il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall’art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall’origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).

2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003;

n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell’illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell’interesse protetto.

Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.

2.10. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.u. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.u. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

La limitazione alla tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l’art. 2059 c.c. nè l’art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.

Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte cost. n. 87/1979).

Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno (Corte cost. n. 348/2007).

2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

2.13. In tali ipotesi non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.

E’ solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.

In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza. n. 233/2003 della Corte costituzionale.

Le menzionate sentenze, d’altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono.

2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.

La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.

3. Si pone ora la questione se, nell’ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il cd. danno esistenziale.

3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni ’90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all’epoca risarcito nell’ambito dell’art. 2043 c.c. in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal cd. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c. in collegamento all’art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.

Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c. e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l’espressione “danno esistenziale”.

Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona.

Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all’integrità psicofisica.

3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell’art. 2043 c.c. nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l’alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell’ingiustizia del danno, di quale fosse l’interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l’insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all’ammissione a risarcimento.

Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull’ingiustizia del danno (per lesione dell’interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c. e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all’epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all’educazione ed all’istruzione, integrante danno-evento.

La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall’accertata lesione di un interesse rilevante.

La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l’agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d’altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.

In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una “voce” del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.

Altre decisioni hanno riconosciuto, nell’ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia.

3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.

3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.

3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.

3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (cd. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.

Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del cd. “danno estetico” che del cd. “danno alla vita di relazione”), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.

Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell’illecito che, cagionando ad una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio.

Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.

Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all’interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell’alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell’interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.

La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all’evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell’ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.

Essa si risolve sostanzialmente nell’abrogazione surrettizia dell’art. 2059 c.c. nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento dannoso.

3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. è incentrato sull’assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell’art. 2043 c.c. dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l’ordinamento, contraddicendo l’affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.

E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte cost. n. 87/1979).

3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Va ricordato che l’effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.u. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).

3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell’ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).

Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell’ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell’ambito del rapporto di lavoro.

Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.).

Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle cd. liti bagatellari.

Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell’ambito dell’area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l’offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell’epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall’impossibilità di uscire di casa per l’esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest’ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all’art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).

3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).

Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.u. n. 16265/2002).

3.12. I limiti fissati dall’art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad Euro millecento, in cui decide secondo equità.

La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost. n. 206/2004).

3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c. che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.

4. Il danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento delle obbligazioni, secondo l’opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L’ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all’art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l’ostacolo, nel caso in cui oltre all’inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell’esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all’azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell’art. 2059 c.c. in collegamento con l’art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Dalle strettoie dell’art. 2059 c.c. si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell’art. 2043 c.c. (Corte cost. n. 184/1986).

4.1. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.

Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni.

4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L’individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell’area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).

4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i cd. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l’inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.

In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell’ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).

I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all’autodeterminazione (art. 32 Cost., comma 2, e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell’obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.

4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l’allievo e l’istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.u. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell’allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).

4.5. L’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.

E’ questo il caso del contratto di lavoro. L’art. 2087 c.c. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell’integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

Nell’ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni- conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.

4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell’integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).

Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all’ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all’ipotesi dell’illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

4.7. Nell’ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.

L’art. 1218 c.c. nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c. secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

D’altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall’inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all’art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell’art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta.

Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 1229 c.c., comma 2, (E’ nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).

Varranno le specifiche regole del settore circa l’onere della prova (come precisati da Sez. un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.

Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del cd. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il cd. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell’integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come “voce” del danno biologico, che il cd. danno estetico pacificamente incorpora.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.

Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.

E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

B) Ricorso n. 1688/04. 1. Con il primo motivo, denunciando, in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, errata interpretazione ed applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. e dell’art. 2 Cost., i ricorrenti svolgono due censure.

1.1. Censurano, in primo luogo la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico, malgrado fosse stato accertato mediante C.T.U. che per circa un anno si erano verificate immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità soprattutto in ore notturne, addebitando agli attori di non aver fornito, con la produzione di certificati medici o richiedendo una consulenza tecnica medicolegale, la prova della lesione psicofisica determinata dall’inquinamento acustico.

Osservano che la corte è incorsa in palese contraddizione, non avendo considerato che prove testimoniali sulla durata e persistenza del rumore ed una consulenza medico-legale sul cambiamento intervenuto dal punto di vista della salute e della qualità della vita nelle loro persone erano state richieste dagli attori in primo grado, ma non erano state ammesse dal tribunale, per adesione alla tesi secondo cui nel caso di violazione del diritto alla salute il danno è in re ipsa. A siffatta carenza di attività istruttoria, non addebitabile agli attori, la corte avrebbe dovuto d’ufficio porre rimedio, e non rigettare la domanda.

1.2. Ulteriore censura è rivolta dai ricorrenti alla sentenza nella parte in cui ha affermato che la domanda non poteva essere accolta neppure considerandola rivolta ad ottenere il risarcimento del cd. danno esistenziale, poichè anche per tale categoria di danno è necessario il concreto accertamento della sua effettiva esistenza, mancato nel caso in esame.

Premettono i ricorrenti che il danno esistenziale, figura elaborata dalla dottrina per porre rimedio all’inadeguatezza della disciplina del danno non patrimoniale dettata dall’art. 2059 c.c. a fronte della violazione di diritti fondamentali della persona, e che è stata recepita dalla giurisprudenza, si connota per la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, differenziandosi dal danno biologico, per non essere determinata la perdita dalla lesione dell’integrità psicofisica, dal danno morale, perchè non consiste in una sofferenza (pati), ma nella rinuncia ad attività concrete (non tacere), e dal danno patrimoniale in quanto prescinde dalla riduzione della capacità reddituale.

Affermano che il fondamento della risarcibilità del danno esistenziale va individuato nell’art. 2 Cost., che tutela i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali vi è certamente il diritto alla qualità della vita.

Circa il suo contenuto, in particolare nel caso di immissioni rumorose, il pregiudizio si risolve in una alterazione del benessere psicofisico, dei normali ritmi di vita che si riflettono sulla tranquillità personale del soggetto danneggiato, alterando le normali attività quotidiane e provocando uno stato di malessere psichico diffuso che, pur non sfociando in una vera e propria malattia, provoca ansia, irritazione, difficoltà a far fronte alle normali occupazioni.

Soggiungono che si tratta di “danno evento”, da accertare mediante presunzioni, quando le conseguenze negative fatte valere rimangono per la loro tipicità entro i limiti dell’id quod plerumque accidit.

Non costituendo i riflessi negativi indotti dal torto una vera e propria malattia, non sono necessarie consulenze medico-legali, perchè si presume che il danno ci sia per il solo fatto che l’immissione abbia ecceduto la normale tollerabilità.

Rilevano infine che l’automatismo del danno viene accolto in giurisprudenza anche con riguardo al danno biologico, sul presupposto, a sostegno del quale si i invoca il fatto notorio fondato su conoscenze tecnico-scientifiche, che il rumore che eccede di tre decibel il rumore di fondo non può non produrre un pregiudizio alla salute.

2. Il motivo è solo in parte fondato.

2.1. Va disatteso, per le considerazioni svolte in sede di trattazione della questione di particolare importanza (da punto 3.3. a 3.13), il secondo profilo di censura concernente il rigetto della domanda per mancata dimostrazione del danno esistenziale.

2.2. Il primo profilo di censura è fondato e va accolto.

Il giudice di primo grado, essendo stato accertato, mediante C.T.U., che gli impianti di condizionamento, ininterrottamente funzionanti di giorno e di notte, avevano provocato nelle vicine abitazioni immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità, e che tale situazione si era protratta per circa un anno, fino al momento in cui era intervenuto il divieto di funzionamento nelle ore notturne, aveva ritenuto che un inquinamento acustico nocivo siffatto dovesse necessariamente produrre, nella persona di ciascun attore, un danno biologico temporaneo risarcibile. Ha quindi disatteso la richiesta di consulenza medicolegale e di prove testimoniali, e, dichiarando di avvalersi della regola di comune esperienza secondo cui le immissioni rumorose anche notturne, impedendo il riposo ristoratore, sono di per sè idonee a provocare la lesione del sistema nervoso, e quindi un danno biologico temporaneo di tipo psichico, ha accolto la domanda.

La corte d’appello ha ritenuto scorretto ricollegare in via presuntiva il danno biologico ad ogni forma di inquinamento acustico eccedente la normale tollerabilità, senza procedere al concreto accertamento di una effettiva lesione dell’integrità psicofisica delle persone conseguente alla sofferenza provocata dallo stress da rumore, ed ha rigettato la domanda per carenza di prova.

In tal modo la corte ha posto a carico degli attori una carenza istruttoria dovuta ad una scelta del giudice circa l’individuazione dei mezzi di prova di cui avvalersi. Non ha infatti considerato che la mancata acquisizione di prove era stata determinata dall’impostazione data all’istruttoria dal primo giudice, che aveva ritenuto superfluo il ricorso alla consulenza medico-legale ed alle prove testimoniali e si era affidato a regole di comune esperienza, e non i dovuta al difetto di iniziativa degli attori. La domanda non poteva quindi essere rigettata per difetto di prova, ma alla mancata istruttoria doveva porsi rimedio in appello ammettendo la consulenza tecnica e le prove richieste in primo grado.

3. L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo, concernente la compensazione delle spese.

4. La sentenza va quindi cassata. Il giudice di rinvio, che si designa nella Corte d’appello di Milano in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, dichiara assorbito il secondo, cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2008


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 24-06-2008) 11-11-2008, n. 26972

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente di sezione

Dott. PREDEN Roberto – rel. Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 734/2006 proposto da:

A.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 107, presso lo studio dell’avvocato GELERA Giorgio, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DAL LAGO UGO, giusta a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato SPADAFORA Giorgio, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

ULSS/(OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 1933/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 11/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/06/2008 dal Presidente Dott. ROBERTO PREDEN;

uditi gli avvocati Ugo DAL LAGO, Giorgio SPADAFORA;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
A.L., sottoposto nel (OMISSIS) ad intervento chirurgico per ernia inguinale sinistra, subì la progressiva atrofizzazione del testicolo sinistro che gli fu asportato nel (OMISSIS) in seguito ad inutili terapie antalgiche.

Nel (OMISSIS) convenne in giudizio il Dott. S.F. e la U.L.S.S. n. (OMISSIS) (in seguito n. (OMISSIS)) di (OMISSIS), assumendo che il secondo intervento era stato reso necessario da errori connessi al primo e domandando la condanna dei convenuti al risarcimento di tutti i danni patiti.

Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 9.7.1998, riconosciuto il danno biologico, condannò i convenuti a versare all’attore la somma ulteriore di L. 6.411.484 a titolo di interessi maturati sulla somma di L. 23.000.000 già corrisposta nel 1995 dall’assicuratore dei convenuti.

Con sentenza n. 1933/04 la corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame dell’ A. in punto di liquidazione del danno sui rilievi: che dalla espletata consulenza tecnica era inequivocamente emerso che la perdita del testicolo non aveva inciso sulla capacità riproduttiva, rimasta integra, provocando soltanto un limitato danno permanente all’integrità fisica dell’ A., apprezzato nella misura del 6%; che la richiesta di liquidazione del danno esistenziale, in quanto formulata per la prima volta in grado di appello, costituiva domanda nuova, come tale inammissibile ex art. 345 c.p.c., nella previgente formulazione; e che del pari inammissibili erano le richieste istruttorie di prove orali articolate per supportare la relativa domanda.

Avverso detta sentenza ricorre per cassazione l’ A., affidandosi a due motivi, illustrati anche da memoria, cui resiste con controricorso S.F..

L’intimata U.L.S.S. n. (OMISSIS) non ha svolto attività difensiva.

All’udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al c.d. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l’ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.

Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

Motivi della decisione
A) Esame della questione di particolare importanza.

1. L’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 – relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l’ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame – rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l’uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale – inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell’integrità psico-fisica, e dal c.d. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto – l’altro contrario.

Osserva l’ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell’art. 2059 c.c., ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.

A questo orientamento, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.

Ricorda ancora l’ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito “esistenziale”: tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perché non presuppone l’esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perchè non costituirebbe un mero patema d’animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest’ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.

L’ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.

Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.

Così riassunti i contrapposti orientamenti, l’ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto “quesiti”. 1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.

3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale “tipico”, nega la concepibilità del danno esistenziale.

4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell’ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell’illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.

5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.

6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.

7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il c.d. danno tanatologico o da morte immediata.

8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art. 2059 c.c. (“Danni non patrimoniali”) secondo cui “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

All’epoca dell’emanazione del codice civile l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 cod. pen. del 1930.

La giurisprudenza, nel dare applicazione all’art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel c.d. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte.

2.1. L’insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono l’affermazione i seguenti argomenti:

a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall’art. 2059 c.c., ai casi determinati dalla legge;

b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona;

c) l’estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);

d) l’esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c., e la completano nei termini seguenti.

2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c..

L’art. 2059 c.c., non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008).

2.4. L’art. 2059 c.c., è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

L’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

2.5. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato (“Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”).

2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte Cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall’art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall’origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).

2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell’illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell’interesse protetto.

Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c., la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.

2.10. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.U. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.U. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

La limitazione alla tradizionale figura del c.d. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l’art. 2059 c.c., nè l’art. 185 c.p., parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.

Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte Cost. n. 87/1979).

Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno (Corte Cost. n. 348/2007).

2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

2.13. In tali ipotesi non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.

E’ solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.

In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte Costituzionale.

Le menzionate sentenze, d’altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono.

2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.

La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.

3. Si pone ora la questione se, nell’ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale.

3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni ’90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all’epoca risarcito nell’ambito dell’art. 2043 c.c., in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal c.d. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c., in collegamento all’art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.

Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c., inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l’espressione “danno esistenziale”.

Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona.

Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all’integrità psicofisica.

3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell’art. 2043 c.c., nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l’alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell’ingiustizia del danno, di quale fosse l’interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l’insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all’ammissione a risarcimento.

Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull’ingiustizia del danno (per lesione dell’interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c., e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all’epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all’educazione ed all’istruzione, integrante danno-evento.

La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall’accertata lesione di un interesse rilevante.

La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l’agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d’altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.

In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una “voce” del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.

Altre decisioni hanno riconosciuto, nell’ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia.

3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.

3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.

3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.

3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.

Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. “danno estetico” che del c.d. “danno alla vita di relazione”), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.

Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell’illecito che, cagionando ad una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio.

Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.

Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all’interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell’alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell’interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.

La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all’evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell’ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.

Essa si risolve sostanzialmente nell’abrogazione surrettizia dell’art. 2059 c.c., nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento dannoso.

3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., è incentrato sull’assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell’art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l’ordinamento, contraddicendo l’affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.

E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte Cost. n. 87/1979).

3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Va ricordato che l’effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.U. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).

3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell’ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).

Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell’ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell’ambito del rapporto di lavoro.

Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle c.d. liti bagatellari.

Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell’ambito dell’area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l’offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell’epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall’impossibilità di uscire di casa per l’esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest’ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all’art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).

3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).

Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002).

3.12. I limiti fissati dall’art. 2059 c.c., non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.

La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte Cost. n. 206/2004).

3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.

4. Il danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento delle obbligazioni, secondo l’opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L’ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all’art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l’ostacolo, nel caso in cui oltre all’inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell’esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all’azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell’art. 2059 c.c., in collegamento con l’art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Dalle strettoie dell’art. 2059 c.c., si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell’art. 2043 c.c. (Corte Cost. n. 184/1986).

4.1. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.

Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni.

4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L’individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell’area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).

4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i c.d. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l’inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.

In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell’ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).

I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all’autodeterminazione (art. 32 Cost., comma 2, e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell’obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.

4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l’allievo e l’istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.U. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell’allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).

4.5. L’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.

E’ questo il caso del contratto di lavoro. L’art. 2087 c.c. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell’integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

Nell’ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni- conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.

4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell’integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).

Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all’ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all’ipotesi dell’illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

4.7. Nell’ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.

L’art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

D’altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall’inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all’art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell’art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta.

Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 1229 c.c., comma 2 (E’ nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).

Varranno le specifiche regole del settore circa l’onere della prova (come precisati da Sez. Un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.

Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sè considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell’integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come “voce” del danno biologico, che il c.d. danno estetico pacificamente incorpora.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.

Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.

E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perchè la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

B) Ricorso n. 734/06. 1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1, nel testo vigente prima del 30.4.1995, e vizio di motivazione su punto decisivo, in riferimento alla affermata inammissibilità della domanda di risarcimento del danno esistenziale.

Il ricorrente si duole anzitutto che la corte d’appello abbia ritenuto che la richiesta di risarcimento del danno esistenziale integrasse una domanda nuova senza considerare che essa costituiva la mera riproposizione di richieste già formulate in primo grado.

Afferma che, in quella sede, ci si era specificamente riferiti alle singole voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale) che sarebbero state poi ricompresse nella nozione di danno esistenziale, all’epoca non ancora elaborata, e censura la sentenza per aver dato rilievo alla qualificazione giuridica data alla richiesta, piuttosto che alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria: circostanze identiche, come poteva rilevarsi dalla lettura dell’atto di citazione e di quello di appello (i cui passi sono riportati in ricorso), e concernenti lo stato di disagio in cui versava nel mostrarsi privo di un testicolo, con conseguenti ripercussioni negative nella sfera relativa ai propri rapporti sessuali.

Sostiene poi che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la nozione di danno alla salute ricomprenda i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, che concerne invece la lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (che nella specie potevano ritenersi provati anche mediante ricorso a presunzioni).

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., commi 1 e 2, nel testo vigente prima del 30.4.1995, con riferimento alla affermata inammissibilità della prova richiesta in appello in punto di disagio del leso nel mostrare i propri organi genitali e delle conseguenti limitazioni dei suoi rapporti sessuali.

La sentenza è censurata per aver ritenuto inammissibile la prova testimoniale articolata in appello sul senso di “vergogna” provato dal ricorrente nei momenti di intimità interpersonale e sul suo conseguente desiderio di limitare nel numero e nel tempo i rapporti sessuali.

Si sostiene che, una volta escluso che fosse stata proposta una domanda nuova, l’art. 345 c.p.c., comma 2, nella previgente formulazione, non sarebbe stato d’ostacolo all’ammissione della prova testimoniale, invece ritenuta inammissibile proprio perchè vertente su una domanda erroneamente qualificata come nuova, e come tale inammissibile.

2.1. Il primo motivo è fondato nei sensi che seguono.

Le considerazioni svolte in sede di esame della questione di particolare importanza consentono di affermare che il pregiudizio della vita di relazione, anche nell’aspetto concernente i rapporti sessuali, allorchè dipenda da una lesione dell’integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell’integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinto titolo di danno, e segnatamente a titolo di danno “esistenziale” (punto 4.9).

Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209 del 2005, recante il Codice delle assicurazioni private (“per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli “aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato”.

Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale (punto 3.13).

Nella specie, in primo grado, l’attore aveva fatto valere, tra i pregiudizi denunciati, quello concernente la limitazione dell’attività sessuale nei suoi rapporti interpersonali, qualificandolo come pregiudizio di tipo esistenziale. Il primo giudice aveva riconosciuto il danno biologico, senza considerare il segnalato aspetto attinente alla vita relazionale. Di ciò si era lamentato, con l’appello, l’attore ed aveva richiesto prove a sostegno del dedotto profilo di danno, qualificandolo come esistenziale (prove che potevano essere richieste in secondo grado, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., nel testo previgente, trattandosi di giudizio introdotto prima del 30.4.2005). Ma la corte territoriale ha ritenuto nuova tale domanda e conseguentemente inammissibili le prove.

La decisione non è corretta.

La domanda risarcitoria relativa ai pregiudizi subiti per la limitazione dell’attività sessuale del leso non era nuova, come è univocamente evincibile dalla sostanziale identità di contenuto delle deduzioni del primo e del secondo grado, al di là della richiesta di risarcimento del “danno esistenziale” subordinatamente formulata col terzo motivo di appello; appello col quale l’attuale ricorrente s’era doluto della inadeguata considerazione delle conseguenze del tipo di lesione subita in relazione alla sua età all’epoca del fatto (45 anni) ed al suo stato civile di celibe.

La corte territoriale ha, dunque, impropriamente fatto leva sul nomen iuris assegnato dall’appellante alla richiesta di risarcimento del pregiudizio che viene in considerazione e che era stato già puntualmente prospettato in primo grado, dove era stato anche correttamente inquadrato nell’ambito del danno biologico.

3. All’accoglimento del primo motivo per quanto di ragione consegue quello del secondo, avendo la corte d’appello escluso che la prova testimoniale fosse ammissibile per la sola ragione che essa si riferiva ad una domanda erroneamente ritenuta nuova.

4. La sentenza va dunque cassata.

5. Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d’appello in diversa composizione, non dovrà necessariamente procedere all’ammissione della prova testimoniale, non essendogli precluso di ritenere vero – anche in base a semplice inferenza presuntiva – che la lesione in questione abbia prodotto le conseguenze che si mira a provare per via testimoniale e di procedere, dunque, all’eventuale personalizzazione del risarcimento (nella specie, del danno biologico); la quale non è mai preclusa dalla liquidazione sulla base del valore tabellare differenziato di punto, segnatamente alla luce del rilievo che il consulente d’ufficio ha dichiaratamente ritenuto di non attribuire rilevanza, nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, al disagio che la menomazione in questione provoca nei momenti di intimità (ed ai suoi consequenziali riflessi).

6. Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del giudizio di cassazione.

7. Ricorrono i presupposti di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 2, in materia di protezione dei dati personali.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Venezia in diversa composizione;

dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2008