REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ROSELLI Federico – Presidente –
Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 5556/2013 proposto da:
P.S. c.f. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CONCA D’ORO 184/190, presso lo studio dell’avvocato DISCEPOLO Maurizio, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contor AZIENDA OSPEDALIERO UNIVERSITARIA “OSPEDALI RIUNITI UMBERTO I, G.M. LANCISI, G. SALESI” di ANCONA, p.i. (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ORVIETO 1, presso lo studio dell’avvocato VENTURA Francesco, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1260/2012 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 10/12/2012 R.G.N. 637/2012;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2015 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;
udito l’Avvocato VENTURA FRANCESCO;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Ancona, P.S. deduceva di aver prestato servizio presso l’Azienda Ospedaliera Umberto I, quale ausiliario specializzato area socio assistenziale, dapprima con contratto a tempo determinato dal 10.9.1998 al 30.4.1999, e quindi, presso l’Azienda Ospedaliera G.M. Lancisi di Ancona con contratto a tempo indeterminato dall’8.8.2002 al 31.12.2003, mentre a decorrere da 1.1.2004 era passata alle dipendenze dell’Azienda Opedaliero Universitaria Ospedali Riuniti “Umberto I – G. Lancisi – G. Salesi” di Ancona, conservando la qualifica di ausiliario specializzato.
Deduceva la ricorrente che in data 15 aprile 2011 aveva ricevuto una lettera di contestazione degli addebiti nella quale la si metteva a conoscenza del fatto che il Dirigente Professioni Sanitarie Area Infermieristica ed Ostetrica, a seguito del certificato medico presentato il 26.3.2011, redatto dal Dott. Pe.Al., aveva “provveduto a richiedere conferma al medico estensore circa l’avvenuta correzione manuale della prognosi da due a tre giorni”.
Le si comunicava che il Dott. Pe., con nota del 11.4.2011 aveva dichiarato che il certificato recava correzioni non apportate dal medico personalmente al momento della compilazione. Nella nota si aggiungeva che “il comportamento da lei tenuto non è osservante delle disposizioni vigenti in materia di corretta giustificazione dell’assenza dal servizio, in quanto è stata prodotta una certificazione che attesta falsamente lo stato di malattia”.
La sig.ra P. chiedeva quindi di essere ascoltata personalmente e dichiarava di non aver in passato mai corretto un certificato medico; aggiungeva di trovarsi in un momento di particolare difficoltà personale, di aver agito impulsivamente apponendo una correzione senza riflettere sulle conseguenze del gesto e sulla gravità del fatto, anche considerato lo stato ansioso depressivo da cui era affetta e che documentava con certificazione medica.
L’azienda ospedaliera, in data 1.6.11, infliggeva alla ricorrente la sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso “visto il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 55 quater, comma 1, lett. A) e comma 3; visto altresì l’art. 14, comma 2, lett. H) del vigente regolamento di disciplina, approvato con determina n. 290/G del 23.7.2010, che prevede in particolare l’applicazione della sanzione disciplinare del licenziamento senza preavviso nel caso di falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altra modalità fraudolenta, ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia”.
Il licenziamento veniva impugnato dalla ricorrente con ricorso al Tribunale di Ancona, con cui lamentava la violazione del divieto degli automatismi espulsivi e del principio della gradualità e proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto alla infrazione commessa sotto i profili soggettivo e oggettivo (in via subordinata con richiesta di rimessione alla Corte Costituzionale per la dichiarazione di illegittimità costituzionale del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater); violazione del predetto art. 55 quater; della L. n. 604 del 1966, art. 1, per mancanza di giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.
Resisteva l’azienda ospedaliera. Il Tribunale respingeva la domanda con sentenza del 2.7.12, che veniva appellata dalla P., riproponendo le medesime censure; resisteva la datrice di lavoro.
Con sentenza depositata il 10 dicembre 2012, la Corte d’appello di Ancona rigettava il gravame.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la lavoratrice, affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste l’azienda ospedaliera con controricorso.
Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e l’omesso esame di un fatto decisivo della causa, oltre ad illogica motivazione della sentenza impugnata.
Lamenta che la sentenza impugnata aveva omesso di esaminare la natura dolosa o meno del comportamento, il cui onere probatorio gravava sulla datrice di lavoro. Evidenzia che al fine di valutare la legittimità del licenziamento è necessario accertare, in relazione alla qualità del singolo rapporto intercorso fra parti, ed alla qualità ed al grado di fiducia che il rapporto comporta: 1) se la specifica mancanza risulti oggettivamente e soggettivamente idonea a ledere in modo grave, così da farla venir meno, la fiducia che il datore ripone ne proprio dipendente, senza che possa assumere rilievo l’assenza o la modesta entità del danno patrimoniale subito dal datore (Cass. n. 4060/2011; Cass. 23 aprile 2004 n. 7724; Cass. 23 aprile 2002 n. 5943); 2) che l’irrogazione della massima sanzione disciplinare è giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali, ovvero di un comportamento tale che non consenta la prosecuzione del rapporto di lavoro (Cass. 24 luglio 2006 n 16864; Cass. 25 febbraio 2005 n. 3994); 3) la valutazione della gravità del comportamento e della sua idoneità a ledere irrimediabilmente la fiducia che il datore di lavoro ripone nel proprio dipendente (giudizio da effettuarsi considerando la natura e la qualità del rapporto, la qualità ed il grado del vincolo di fiducia connesso al rapporto, l’entità della violazione commessa e l’intensità dell’elemento soggettivo); 4) che sul piano probatorio, premesso che l’elemento soggettivo è necessaria parte di ogni atto umano, se all’integrazione dei fatti giuridicamente legittimanti il licenziamento è necessario il dolo, l’onere datoriale di provare la sussistenza dei fatti si estende alla prova dei dolo;
e pertanto, ai fini della legittimità del licenziamento, la prova della sussistenza del fatto nella sua mera materialità è insufficiente.
Lamenta che la valutazione dei fatti, pur rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito, non si sottrae al controllo di legittimità ove non adeguatamente motivata e non sia frutto di un bilanciamento tra le esigenze imprenditoriali di cui all’art. 41 Cost. e della proporzionalità della sanzione.
2.- Con il secondo motivo la lavoratrice denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e cioè la piena capacità di intendere e volere della P. al momento della commissione del fatto, anche alla luce della documentazione sanitaria inerente il suo stato depressivo.
3.- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, in relazione agli artt. 4 e 41 Cost., per prevedere la norma in questione un automatismo della più grave delle sanzioni, senza alcun intervento valutativo dell’amministrazione nei profili soggettivi della responsabilità, in contrasto con i principi desumibili da Corte Cost. 9.7.1999 n. 286, e dall’art. 2106 c.c., pure richiamato dal D.Lgs n. 165 del 2001, art. 55, comma 2.
4.- I motivi, che per la loro connessione possono esaminarsi congiuntamente, sono infondati.
Ed invero, come esattamente rilevato dalla Corte territoriale, sebbene debba condividersi la tesi dell’illegittimità, in via astratta (come del resto in più occasioni affermato dal Giudice delle leggi, cfr. C. Cost. n. 971/88, n. 239/96 e n. 286/99), di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari (specie laddove queste consistano nella massima sanzione) in base al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, così come modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto addebitato (giusta il perdurante richiamo all’art. 2106 c.c., da parte dell’art. 55, comma 2), e pur dovendosi qui rimarcare che la proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi è regola valida per tutto il diritto punitivo (sanzioni penali, amministrative L. n. 689 del 1981, ex art. 11, etc.), trasfusa per l’illecito disciplinare nell’art. 2106 c.c., pure richiamato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione “eccessiva”, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo in definitiva possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente consequenziali ad illeciti disciplinari, deve rilevarsi che nella specie la Corte di merito ha adeguatamente motivato circa la sussistenza nel caso esaminato di tale proporzionalità, ritenendo sussistente il dolo nella volontaria falsificazione del certificato da consegnare al datore di lavoro, con aumento della prognosi di malattia da due a tre giorni al fine di aumentare l’assenza per malattia, e dunque la proporzionalità della sanzione a fronte di un comportamento gravemente fraudolento, tale da minare la fiducia del datore di lavoro sui futuri adempimenti.
Deve peraltro rimarcarsi che anche in tema di giusta causa di licenziamento, invocata dalla ricorrente nel primo motivo, questa Corte ha affermato che l’art. 2119 c.c., configura una norma elastica, in quanto costituisce una disposizione di contenuto precettivo ampio e polivalente destinato ad essere progressivamente precisato, nell’estrinsecarsi della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione, fino alla formazione del diritto vivente mediante puntualizzazioni, di carattere generale ed astratto. A tale processo non partecipa tuttavia la soluzione del caso singolo, se non nella misura in cui da essa sia possibile estrarre una puntualizzazione della norma mediante una massima di giurisprudenza.
Ne consegue che, mentre l’integrazione giurisprudenziale della nozione di giusta causa a livello generale ed astratto si colloca sul piano normativo, e consente, pertanto, una verifica di legittimità sotto il profilo della violazione di legge, l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice di merito, e non è censurabile in sede di legittimità se non per vizio di motivazione insufficiente o contraddittoria (Cass. 12.8.09 n. 18247).
Se è poi pur vero che nel caso in esame la massima sanzione è tipizzata dalla legge (art. 55 quater) e che, per le ragioni viste, ciò non di meno anche tale previsione è sindacabile alla luce del principio di civiltà giuridica del canone di proporzionalità della sanzione, resta che anche in tal caso l’accertamento in concreto della giustificatezza del licenziamento costituisce apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto, come nella specie, da motivazione congrua e immune da vizi (e plurimis, Cass. 17 maggio 2012 n. 7751, Cass. 26 gennaio 2011 n. 1788; Cass. 8 gennaio 2008 n. 144; Cass. n. 11674/2005).
In tal senso, ed in analoga fattispecie, si è già pronunciata questa Corte con sentenza 6.6.14 n. 12806, ove, evidenziata la coincidenza (come nel caso in esame) della condotta contestata rispetto alla previsione di legge (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater), è stato considerato che, anche dal punto di vista soggettivo, il comportamento risultava grave in base alla congrua motivazione dalla sentenza impugnata.
Nel caso oggi in esame la Corte territoriale ha logicamente valutato la gravita del fatto e la sua idoneità a minare la fiducia del datore di lavoro in ordine ai futuri adempimenti della dipendente, escludendo inoltre, con adeguata motivazione, che la presenza di uno stato ansioso depressivo, di cui la ricorrente soffriva da molti anni e specie in assenza di qualsivoglia prova circa la commissione del falso in un momento di acuzie della malattia, potesse escludere l’incapacità di intendere e di volere al momento della commissione dell’illecito.
Il vizio motivo, di cui alla seconda censura, risulta dunque insussistente, specie alla luce del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, che ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico che concerne esclusivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti da testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). L’omesso esame di altri elementi istruttori non integra invece di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (Cass. sez. un. 22 settembre 2014 n. 19881), così come avvenuto nella specie.
4.1- Non può infine essere accolta la censura contenuta in ricorso circa l’illegittimità del Regolamento di disciplina dell’azienda ospedaliera datrice di lavoro, ovvero la sua possibile interpretazione come preclusiva della regola dell’automatismo della sanzione disciplinare alla luce del più volte citato art. 55 quater di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2009.
Sotto il primo profilo la censura è inammissibile, posto che il Regolamento non risulta prodotto, in contrasto con l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nè ne viene riprodotto il testo ritenuto rilevante in ricorso, in contrasto col principio di autosufficienza; sotto il secondo profilo la censura risulta infondata alla luce delle precedenti considerazioni in tema di automatismo delle sanzioni e del perdurante principio di proporzionalità delle sanzioni, il cui giudizio è tuttavia rimesso al giudice del merito che, se logicamente motivato, risulta insindacabile in sede di legittimità.
5.- Il ricorso deve pertanto rigettarsi.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3.000,00 per compensi, oltre accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo risultante dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2016