Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 11-12-2020) 28-05-2021, n. 15002

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22354/2016 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANDREA VESALIO 22, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO IRTI, rappresentato e difeso dagli avvocati SALVATORE LIUZZO, VALERIA LEONE;

– ricorrenti –

contro

C.C., S.R.A.C., S.V.M.A., C.R., C.L., C.N., S.M., elettivamente domiciliate in Catania, via Pantano n. 70, presso lo studio dell’avv.to ANGELA PATRIZIA GIUCA, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1437/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 24/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 11/12/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Catania accoglieva la domanda proposta da G.R. e dichiarava risolto il contratto preliminare stipulato il 9 ottobre 2003 tra C.A. e R.G., quali promittenti venditori, e G.R., quale promissario acquirente, per inadempimento dei promittenti venditori; condannava gli eredi di C.A. e gli eredi di R.G., ciascuno in proporzione alla propria quota ereditaria, al pagamento in favore della controparte della somma di Euro 72.303,96 corrispondente al doppio della caparra confirmatoria versata dal G..

2. C.N., C., R. e L., eredi di C.A., e S.R.A.C., S.V.M.A. e S.M., eredi di R.G. – che nel costituirsi in giudizio avevano proposto domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto con conseguente richiesta di riconoscimento del diritto al trattenimento della caparra proponevano appello avverso la suddetta sentenza.

3. La Corte d’Appello di Catania, in accoglimento dell’impugnazione rigettava le domande formulate da G.R. e in accoglimento delle domande riconvenzionali formulate dai convenuti dichiarava la risoluzione del contratto preliminare del 9 ottobre 2003 per il legittimo recesso della parte promittente venditrice determinato dall’inadempimento della parte promissaria acquirente, G.R. e il diritto della parte promittente venditrice alla ritenzione della caparra confirmatoria ricevuta.

2. La Corte d’Appello rigettava preliminarmente le eccezioni pregiudiziali circa l’avvenuta estinzione del giudizio per mancata riassunzione in quanto la notificazione dell’atto unitamente al decreto di fissazione dell’udienza era stata effettuata sia agli eredi di C. che a quelli di R.. Anche l’eccezione di tardività della notifica dell’appello doveva ritenersi superata stante la tempestività di quello proposto dai litisconsorti necessari.

Nel merito la Corte d’Appello riteneva che il contratto preliminare stipulato tra le parti, alla stregua dei criteri interpretativi di cui agli artt. da 1362 a 1365 c.c., non aveva ad oggetto un terreno edificabile. Nel contratto preliminare, infatti, i promittenti venditori si impegnavano a vendere un lotto di terreno, senza ulteriore specificazione, anzi dal contratto risultava che le parti concordemente accettavano la soppressione delle parole “non agricolo”. Tale eliminazione, a prescindere dall’iniziativa dell’una o dell’altra parte, era stata accettata da entrambe ed evidenziava in maniera incontrovertibile che l’oggetto del contratto era rappresentato da un terreno, senza ulteriore specificazione di una determinata qualità.

Doveva, dunque, affermarsi che l’edificabilità del lotto non faceva parte della qualità del bene oggetto del contratto promesso dalla parte venditrice. Tale conclusione era confermata anche in applicazione del principio di interpretazione del contratto secondo buona fede come canone di reciproca lealtà di condotta tra le parti. La circostanza che l’edificabilità del terreno non costituisse una qualità promessa della parte venditrice emergeva dal fatto che il terreno in questione, pur eventualmente ricadente in zona c4 e non anche in zona vincolata, era comunque inedificabile per la sua conformazione planimetrica. Ciò era emerso dalla consulenza tecnica e, pertanto, il terreno per le sue dimensioni, a prescindere dal mutamento della destinazione urbanistica, era in concreto inedificabile e di conseguenza era contrario al principio di buona fede invocare l’inadempimento della parte promittente venditrice per non aver dichiarato l’esistenza di un vincolo di inedificabilità a seguito dell’approvazione di una variante al programma di fabbricazione vigente, nonostante l’espressa volontà di acquistare un terreno, di fatto inedificabile, a prescindere dal vincolo imposto.

Secondo la Corte d’Appello il disinteresse del promissario acquirente all’edificabilità o meno del lotto era dimostrato anche dal fatto di aver ritenuto sufficiente l’allegazione di un certificato di destinazione urbanistica rilasciato circa 10 mesi prima della stipulazione del contratto. Peraltro, dal contenuto del contratto non poteva evincersi l’esistenza di un presupposto tenuto presente da entrambi i contraenti nella formazione del loro consenso e condizionante l’esistenza e il permanere del vincolo negoziale, anzi la cancellazione delle parole non agricolo rendeva evidente l’insussistenza di tale presupposto.

Il G. non aveva, peraltro, fornito la prova dell’esternazione alla controparte dello scopo di voler comprare il terreno per edificare. L’allegazione di un certificato di destinazione urbanistica che non riproduceva la reale qualità del terreno non poteva da sola essere espressione di una garanzia del venditore relativa alle destinazione edificatoria del terreno oggetto del preliminare. Al contrario da quanto era emerso doveva dedursi che i promittenti venditori si erano impegnati a vendere un terreno senza ulteriore qualità e il G. si era impegnato ad acquistare il lotto in questione a prescindere dalla sua edificabilità, risultando dunque irrilevante ai fini della decisione la consapevolezza o meno dei venditori del mutamento della destinazione urbanistica del bene avvenuta già prima della stipulazione dell’atto.

In ogni caso il vincolo imposto all’immobile con deliberazione del consiglio comunale n. 33 del 10 aprile 2003 non poteva qualificarsi come onere non apparente gravante sull’immobile, secondo la previsione dell’art. 1479 c.c. e non era conseguentemente invocabile dal compratore come fonte di responsabilità della controparte che non l’aveva dichiarato nel contratto. Con la suddetta Delibera l’area in questione era stata classificata come parco naturalistico e dunque inedificabile in applicazione delle misure di salvaguardia. La deliberazione di adozione del piano regolatore e del programma di fabbricazione, atto collegiale esprimente la volontà definitiva dell’ente pubblico, conferiva agli strumenti edilizi un’efficacia immediata sia pur limitata.

In conseguenza dell’adozione degli stessi secondo la Corte d’appello divenivano operanti le cosiddette misure di salvaguardia le quali conferivano ai sindaci dei Comuni il potere-dovere di sospendere ogni decisione sulle domande di concessione o autorizzazione edilizia in contrasto con il programma adottato. L’affissione nell’albo pretorio delle deliberazioni comunali effettuata nei modi e termini di legge costituiva una forma di pubblicità legale di per sè esaustiva ai fini della presunzione assoluta di piena conoscenza erga omnes allorquando tali atti non fossero direttamente riferibili a soggetti determinati. Peraltro, la mancanza di una garanzia sulla destinazione edificatoria del suolo e l’allegazione di un certificato risalente nel tempo imponevano al compratore di indagare sulla qualità del suolo. Infine, era possibile rilevare di ufficio la non apparenza del vizio anche senza allegazione della parte risultando la stessa dagli atti.

3. G.R. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi.

4. C.N., C., R. e L., eredi di C.A., e S.R.A.C., S.V.M.A. e S.M., eredi di R.G., si sono costituiti con controricorso.

5. Entrambe le parti, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, hanno insistito nelle rispettive richieste.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., in materia di interpretazione dei contratti e dei principi regolatori dei criteri di ermeneutica contrattuale. Violazione dei criteri di interpretazione soggettiva del contratto diretti all’accertamento della comune volontà delle parti. Violazione del criterio di interpretazione secondo il tenore letterale del contratto.

La censura ha ad oggetto la violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale e, in particolare, di quello che richiede al giudice di compiere una valutazione complessiva di tutte il contenuto dell’accordo in ogni sua parte. Anche solo in base alla complessiva disamina letterale del contratto preliminare del 9 ottobre 2003 emergerebbe che aveva ad oggetto un lotto di terreno dalle specifiche caratteristiche edificatorie. In tal senso secondo il ricorrente deporrebbe anche la circostanza fondamentale della allegazione al preliminare del certificato di destinazione urbanistica del terreno contenente l’espressa descrizione delle specifiche caratteristiche e qualità edificatorie del fondo oggetto di contestazione, documento che era stato sottoscritto da tutti i contraenti, così da costituire parte integrante e sostanziale del contratto preliminare.

Anche l’entità del prezzo convenuto in Euro 72.303,96 era in linea con il valore di mercato di un terreno edificabile anche tenuto conto dell’estensione del lotto di appena 2464 mq.

Pertanto, l’eliminazione delle parole “non agricolo” dal contratto, alla luce delle caratteristiche oggettive promesse dai venditori in ordine al bene oggetto del preliminare, dimostrerebbe che la suddetta indicazione era superflua.

Nel contratto preliminare,di cui faceva parte integrante anche il certificato di destinazione urbanistica del terreno, era fin dall’inizio esattamente specificata ed indicata in maniera chiara ed incontrovertibile la sua edificabilità. In forza di una corretta applicazione dei criteri di interpretazione soggettiva del contratto la Corte d’Appello di Catania avrebbe dovuto condividere quanto ritenuto dal Tribunale a fondamento della propria decisione, rilevando l’inadempimento dei promittenti venditori ed il diritto del G. di ottenere il recesso del preliminare e il pagamento del doppio della caparra confirmatoria a causa del sopravvenuto accertamento dell’inesistenza della qualità edificatoria del fondo a causa del vincolo posto dagli organi competenti in data antecedente la stipula del contratto.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 1366 c.c., in materia di interpretazione dei contratti – Violazione del criterio di interpretazione oggettiva del contratto secondo il principio di buona fede. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, consapevolezza dei promittenti venditori dell’esistenza del vincolo.

Anche il secondo motivo attiene alla violazione dei canoni di interpretazione del contratto, questa volta con riferimento al principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c., evidenziato dalla Corte d’Appello ma di fatto erroneamente applicato. Tale canone di interpretazione permea anche la fase di formazione del contratto. Nel caso di specie i promittenti venditori avevano allegato e sottoscritto un certificato di destinazione urbanistica che apparentemente riportava le caratteristiche edificatoria del terreno oggetto di vendita. In atti vi era però specifica prova documentale del fatto che alla data di stipula del preliminare i promittenti venditori avevano piena consapevolezza che la potenzialità edificatoria riportata nel certificato di destinazione urbanistica era venuta meno per effetto del vincolo di inedificabilità assoluta apposto al terreno con provvedimento del 10 aprile 2003. Infatti, i promittenti venditori avevano proposto ricorso al Tar di Catania contro il diniego a realizzare dei manufatti sul citato terreno in conseguenza dell’intervenuto vincolo di inedificabilità. In atti vi erano, dunque, specifici riscontri documentali della malafede dei promittenti venditori che nel corso del giudizio avevano negato di essere a conoscenza dell’esistenza del vincolo e che anzi ne avevano addirittura negato l’esistenza.

Secondo il ricorrente la Corte d’Appello si sarebbe soffermata unicamente sulla condotta del promissario acquirente quando avrebbe dovuto valutare la condotta di entrambe le parti anche in relazione al principio contrattuale della buona fede, quale obbligo di lealtà, di solidarietà, correttezza e collaborazione previsto dalla legge per ogni parte contrattuale.

La malafede dei promittenti venditori avrebbe determinato il G. a fare affidamento su quanto certificato circa la sussistenza delle qualità edificatoria del terreno che si obbligava ad acquistare senza procedere ad ulteriori accertamenti al riguardo se non al momento della stipula del definitivo allorquando era emersa la situazione diversa del bene.

Neanche rileverebbe la sostanziale inedificabilità del terreno per la sua conformazione come risulterebbe provato proprio dalla condotta dei venditori che avevano tentato di attuare un’iniziativa edificatoria che il Comune aveva negato solo per l’apposizione del vincolo e non per l’obbligo di staccarsi dal confine. La questione della consapevolezza da parte dei promittenti venditori dell’esistenza del vincolo di inedificabilità rappresentava un fatto decisivo per il giudizio oggetto di specifica discussione tra le parti.

2.1 Il primo e il secondo motivo di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono in parte inammissibili, in parte infondati.

Nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata l’interpretazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, infatti, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra la volontà dei contraenti così come ritenuta dal ricorrente e quella invece accertata dalla sentenza impugnata, ma debbono essere proposte o sotto il profilo della mancata osservanza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, delle norme che fissano i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c. ovvero, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore ratione temporis, del vizio di motivazione consistito nell’omesso esame di un fatto decisivo, a condizione, però, che, in ossequio al principio dell’onere di specificità del motivo, tali censure siano accompagnate dalla trascrizione, nel corpo del ricorso, almeno nella stesura che ne consenta la piena comprensione, delle clausole asseritamente individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di cassazione di valutarne la fondatezza senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte: ciò che, nel caso di specie, non è accaduto. I ricorrenti, infatti, non hanno provveduto alla trascrizione del contenuto del contratto nella misura minima necessaria a consentirne la comprensione. L’interpretazione di un atto negoziale, del resto, è un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che, come accennato, nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.). Il sindacato di legittimità può avere, quindi, ad oggetto solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. n. 23701 del 2016). Pertanto, al fine di riscontrare l’esistenza dei denunciati errori di diritto o vizi di ragionamento, non basta che il ricorrente faccia, com’è accaduto nel caso di specie, un astratto richiamo alle regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., occorrendo, invece, che specifichi, per un verso, i canoni in concreto inosservati e, per altro verso, il punto e il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato (Cass. n. 7472 del 2011; più di recente, Cass. n. 27136 del 2017). Ne consegue l’inammissibilità del motivo di ricorso che, come quelli in esame, pur denunciando la violazione delle norme ermeneutiche o il vizio di motivazione, si risolva, in realtà, nella mera proposta di una interpretazione diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito (Cass. n. 24539 del 2009), così come è inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati (Cass. n. 2465 del 2015, in motiv.). In effetti, per sottrarsi al sindacato di legittimità sotto i profili di censura dell’ermeneutica contrattuale, quella data dal giudice al contratto non dev’essere l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 16254 del 2012; conf., più di recente, Cass. 27136 del 2017).

Nella specie, la Corte d’Appello ha affermato che la promessa di vendita stipulata tra le parti non aveva ad oggetto un terreno edificabile, evidenziando che nell’ambito della trattativa per la stipula del contratto le parti si erano accordate per la cancellazione dal testo dell’espressione “non agricolo”. Tale circostanza, non contestata, evidenzia che, nell’ambito dell’accordo negoziale, l’aspetto dell’edificabilità del terreno era stato esplicitamente considerato, tanto da determinare l’esigenza di precisare che il terreno era promesso in vendita a prescindere dalla sua edificabilità.

D’altra parte, il contenuto del contratto non è riportato e il ricorrente non indica nessun’altro elemento, non valutato dalla Corte d’Appello, da cui ricavare che il bene promesso in vendita fosse un terreno con la specifica qualità della sua edificabilità. L’allegazione del certificato di destinazione urbanistica, oltre ad essere anch’essa considerata nella motivazione della Corte d’Appello, rientra tra le attività ordinarie nell’ambito della stipula dei contratti preliminari di compravendita di beni immobili e il fatto che il suddetto certificato non fosse aggiornato non è sufficiente a supportare una diversa interpretazione della volontà negoziale di segno contrario a quella esplicitata nel testo dai contraenti.

In conclusione, deve ribadirsi che il sindacato di legittimità può avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto. Nella specie nessun canone di interpretazione negoziale risulta violato, compreso quello della buona fede, posto che, come si è detto, la cancellazione della dicitura “non agricolo” è segno di un comportamento delle parti che hanno ritenuto di escludere l’edificabilità del terreno dal vincolo contrattuale.

Una volta ricostruita la volontà negoziale rispetto all’oggetto del contratto perdono di consistenza tutte le restanti censure attinenti alla edificabilità in concreto del suolo e alla consapevolezza dei promittenti venditori del cambio di destinazione del terreno.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1373, 1385, 1453, 1498, 1490 e 1497 c.c., in materia di recesso unilaterale e caparra confirmatoria, vizi della cosa. Violazione degli artt. 99, 112, 342 c.p.c., in merito alla corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e alla specifica proposizione dei motivi di appello e alla rilevabilità d’ufficio dell’eccezioni.

Il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di chiarire che il promissario acquirente non può avvalersi della disciplina relativa alla garanzia dei vizi della cosa venduta o di quella di cui all’art. 1497 c.c., relativa alla garanzia per mancanza di qualità della cosa venduta le quali presuppongono la conclusione del contratto definitivo e sono estranee al contratto preliminare che ha ad oggetto un facere e non un dare.

Sarebbe dunque illogica l’affermazione secondo la quale il vincolo di inedificabilità era assistito da una presunzione legale di conoscenza erga omnes e, dunque, privo del requisito normativo della non apparenza.

Il ricorrente evidenzia che l’apposizione di un vincolo assoluto di inedificabilità sui singoli terreni ricompresi in una zona deve essere qualificato come un atto direttamente riferibile a soggetti determinati dunque esclusi dalla presunzione di conoscenza. Ma in ogni caso, anche a prescindere da tale considerazione, la questione dell’apparenza del vizio non era mai stata introdotta in giudizio in primo grado e neppure in appello tanto che la Corte aveva ritenuto necessario motivare sulla rilevabilità d’ufficio. Ne consegue che la Corte avrebbe erroneamente qualificato la domanda del G. come azione di garanzia ex art. 1489 c.c., subordinando l’azione all’apparenza del vizio mentre il G. aveva agito unicamente per dichiarare legittimo il recesso dall’impegno preliminare di vendita per inadempimento del venditore, non potendo questi trasferire un terreno con le caratteristiche edificatoria promesse. Secondo il ricorrente dunque vi sarebbe un duplice errore sia circa la rilevanza dell’apparenza del vizio sia sulla sua rilevabilità d’ufficio.

3.1 Il terzo motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha individuato l’oggetto del contratto per stabilire se vi fosse stato un inadempimento da parte dei promittenti venditori che potesse giustificare il recesso del G. e la restituzione del doppio della caparra o se l’inadempimento dovesse essere a lui attribuito con diritto di C.A. e R.G. a trattenere la caparra. Come si è detto con riferimento ai primi due motivi, la Corte d’Appello ha ritenuto che l’edificabilità del terreno fosse stata volutamente esclusa dall’oggetto del contratto.

Peraltro, la Corte d’Appello ha correttamente richiamato l’orientamento consolidato di questa Corte secondo il quale “i vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia “erga omnes”, come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicchè i vincoli in tal modo imposti, a differenza di quelli inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 c.c. e non sono, conseguentemente, invoca bili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore, che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto” (Sez. 2, Sent. n. 14289 del 2018; Sez. 2, Sent. n. 2737 del 2012).

Da un lato, quindi, il vincolo di inedificabilità costituiva un “onere apparente”, in quanto i limiti posti dall’amministrazione comunale non erano contenuti in singoli atti intercorsi fra il Comune e i proprietari dei terreni, ma erano ricavabili dai piani urbanistici e, pertanto, conoscibili a tutti e, dall’altro, alla luce dell’interpretazione dell’intero contratto condotta dalla Corte d’Appello secondo i criteri sopra indicati, doveva escludersi l’affidamento del promittente acquirente circa l’edificabilità del terreno dato che si era deciso di escludere la dicitura “non agricolo” dal contratto.

Deve ribadirsi pertanto che nella vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di godimento di terzi, la conoscibilità del vincolo urbanistico gravante sulla cosa, idonea ad escludere la responsabilità del venditore ex art. 1489 c.c., deve essere valutata in concreto, alla luce della natura del vincolo medesimo e della possibilità per l’acquirente di avvertire la necessità di compiere una verifica e che deve escludersi la possibilità per il promissario acquirente di richiedere la risoluzione del contratto quale conseguenza automatica della presenza di un vincolo sul bene dovendo verificarsi i presupposti della risoluzione ai sensi dell’art. 1489 c.c..

4. Il ricorso è rigettato.

5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5200 di cui 200 per esborsi;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 11 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2021


T.A.R. Puglia Lecce, Sez. III, Sent., (data ud. 11/05/2021) 28/05/2021, n. 820

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce – Sezione Terza

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 386 del 2019, integrato da motivi aggiunti, proposto da M.J., rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Cipressa, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Galatone, via Savoia, n. 92;

contro

Accademia di Belle Arti di Lecce, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce, domiciliataria ex lege in Lecce, piazza S. Oronzo;

nei confronti

C.M., rappresentata e difesa dagli avvocati Angela Tinelli e Gaetano Amatulli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

Per quanto riguarda il ricorso introduttivo:

per l’accertamento

dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Accademia di Belle Arti di Lecce sull’istanza presentata a mezzo PEC dalla ricorrente in data 22 dicembre 2018 e sulla ulteriore diffida-sollecito del 18 gennaio 2019, volte ad ottenere l’accesso a tutti gli atti della “Procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica” indetta dal medesimo Istituto ;

nonché per l’annullamento,

previa adozione di idonee misure cautelari,

– del Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018, pubblicato sul sito istituzionale dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (www.accademialecce.it) in pari data, con il quale il Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce ha approvato gli atti della procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica ed il relativo elenco di idonei (che ha visto collocarsi al primo posto C.M. ed in seconda posizione la ricorrente M.J.),

– di ogni altro atto ad esso prodromico, contestuale, connesso o successivo, ivi compresa la graduatoria finale;

nonché per la condanna dell’Accademia di Belle Arti di Lecce:

– all’attribuzione, in via cautelare, dell’insegnamento di che trattasi per l’A.A. 2018/2019;

– al risarcimento per equivalente dei danni subiti in conseguenza dei comportamenti tenuti e degli atti adottati dall’Amministrazione.

Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati dalla ricorrente il 19 luglio 2019:

per l’accertamento

dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Accademia di Belle Arti di Lecce sull’istanza presentata a mezzo PEC dalla ricorrente in data 22 dicembre 2018 e sulla ulteriore diffida-sollecito del 18 gennaio 2019 volte ad ottenere l’accesso a tutti gli atti della “Procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica” indetta dal medesimo Istituto;

nonché per l’annullamento,

previa adozione di idonee misure cautelari,

– del Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018, pubblicato sul sito istituzionale dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (www.accademialecce.it) in pari data, con il quale il Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce ha approvato gli atti della procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica ed il relativo elenco di idonei (che ha visto collocarsi al primo posto C.M. ed in seconda posizione la ricorrente M.J.);

– di ogni altro atto ad esso prodromico, contestuale, connesso o successivo, ivi compresa la graduatoria finale e l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019);

nonché per la condanna dell’Accademia di Belle Arti di Lecce:

– all’attribuzione, anche in via cautelare, dell’insegnamento di che trattasi per l’A.A. 2018/2019;

– al risarcimento per equivalente dei danni subiti in conseguenza dei comportamenti tenuti e degli atti adottati dall’Amministrazione.

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Accademia di Belle Arti di Lecce e di C.M.;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 84 del D.L. n. 18 del 2020;

Visto l’art. 4 del D.L. n. 28 del 2020;

Visto l’art. 25 del D.L. n. 137 del 2020;

Visto l’art. 1 comma 17 del D.L. n. 183 del 2020;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 maggio 2021 il dott. Giovanni Gallone e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Svolgimento del processo
1. Con ricorso notificato il 19 febbraio 2019 e depositato il 21 marzo 2019 la ricorrente, già in precedenza docente a contratto di “Inglese per la comunicazione artistica” presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce e partecipante alla “Procedura comparativa pubblica per titoli finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica” indetta dal medesimo Istituto, ha domandato l’accertamento e la dichiarazione di illegittimità ex art. 117 c.p.a. (rectius art. 116 c.p.a.) del silenzio illegittimamente serbato dall’Accademia di Belle Arti di Lecce sull’istanza presentata a mezzo PEC dalla ricorrente in data 22 dicembre 2018 e sulla ulteriore diffida-sollecito del 18 gennaio 2019 volte ad ottenere l’accesso a tutti gli atti della prefata procedura comparativa e l’estrazione di copia delle relative schede di valutazione, delle griglie di valutazione compilate dalla Commissione, dei criteri adottati per l’attribuzione dei punteggi e di ogni altro documento riguardante la valutazione e le relative operazioni condotte dalla Commissione in relazione ai titoli prodotti dalla ricorrente e dagli altri partecipanti alla stessa, nonché i relativi verbali. Ha, altresì, contestualmente domandato l’annullamento ex art. 29 c.p.a., previa adozione di idonee misure cautelari, del Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018, pubblicato sul sito istituzionale dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (www.accademialecce.it) in pari data, con il quale il Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce ha approvato gli atti della procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica ed il relativo elenco di idonei (che ha visto collocarsi al primo posto C.M. ed in seconda posizione la ricorrente M.J.), nonché di ogni altro atto ad esso prodromico, contestuale, connesso o successivo, ivi compresa la graduatoria finale.

Ha, poi, chiesto la condanna dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce all’attribuzione, anche in via cautelare, dell’insegnamento di che trattasi per l’A.A. 2018/2019 nonché al risarcimento del danno subito in conseguenza dei comportamenti tenuti e degli atti adottati dall’Amministrazione.

1.1 A sostegno delle domande proposte ha dedotto i motivi così rubricati:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 31 del cod. proc. amm.;

2) eccesso di potere dell’amministrazione convenuta, arbitrarietà nell’emanazione dei giudizi. anomalie nella valutazione, illogicità manifesta della procedura valutativa, difetto di motivazione.

3) eccesso di potere per sviamento dell’interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione in riferimento all’art. 97 della Costituzione, inosservanza del disposto di cui all’art. 2 bis della L. n. 241 del 1990.

2. Ad esito dell’udienza in Camera di Consiglio del 10 aprile 2019 con ordinanza cautelare n. 215 dell’11 aprile 2019 questa Sezione, ritenendolo necessario ai fini della decisione sull’istanza cautelare, ha ordinato all’Accademia delle Belle Arti di Lecce, in persona del legale rappresentante pro tempore, “l’esibizione di tutti gli atti della procedura comparativa di che trattasi e di una dettagliata relazione di chiarimenti sulla vicenda dedotta in contenzioso”.

3. In data 6 giugno 2019 l’Accademia delle Belle Arti di Lecce ha adempiuto all’ordine istruttorio impartito con l’ordinanza cautelare n. 215 dell’11 aprile 2019, depositando la documentazione di interesse ma senza depositare la richiesta relazione di chiarimenti.

4. All’udienza in Camera di Consiglio dell’11 giugno 2019, il Presidente, in accoglimento della richiesta avanzata dalla difesa di parte ricorrente, ha disposto il rinvio dell’udienza alla Camera di Consiglio del 24 luglio 2019, al fine di consentire la notifica del ricorso alla controinteressata, individuata (inequivocamente) solo a seguito dell’adempimento istruttorio.

5. Con motivi aggiunti notificati in data 15 luglio 2019 anche alla controinteressata C.M. e depositati in data 19 luglio 2019 la ricorrente ha addotto nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte ed ha, altresì domandato l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, degli atti allo stesso successivi al Decreto Direttoriale Prot. n. (…) del 21 dicembre 2018 già impugnato, compreso l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019). In particolare, ha dedotto le censure così rubricate:

1) eccesso di potere dell’amministrazione convenuta, arbitrarietà nell’emanazione dei giudizi, anomalie nella valutazione, illogicità manifesta della procedura valutativa;

2) eccesso di potere per sviamento dell’interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione in riferimento all’art. 97 della Costituzione;

3) manifesta illogicità ed inadeguatezza della valutazione, eccesso di potere per contraddittorietà ed illogicità manifesta, difetto di motivazione di cui all’art. 3 della L. n. 241 del 1990;

4) genericità dei criteri di valutazione.

6. All’udienza in Camera di Consiglio del 24 luglio 2019, il Presidente, in accoglimento della richiesta avanzata dalla difesa di parte ricorrente, ha disposto il rinvio dell’udienza alla Camera di Consiglio del 3 settembre 2019.

7. In data 1 agosto 2019 si è costituita in giudizio, per resistere al ricorso per motivi aggiunti, la controinteressata C.M.. Il successivo 29 agosto 2019 la stessa ha depositato memorie difensive.

8. All’udienza in Camera di Consiglio del 3 settembre 2019, il Presidente, su richiesta della difesa di parte ricorrente, preso atto dell’intervenuta conclusione del corso di insegnamento di che trattasi, ha disposto a cancellazione della causa dal ruolo delle istanze cautelari.

9. In data 31 marzo 2021 la controinteressata C.M. si è costituita in giudizio a mezzo di nuovi difensori. Il successivo 9 aprile 2021 la stessa ha depositato una memoria difensiva.

10. In data 14 aprile 2021 si è costituita in giudizio a mezzo dell’Avvocatura erariale l’Accademia delle Belle Arti di Lecce.

11. In data 20 aprile 2021 l’Avvocatura dello Stato ha formulato, nell’interesse dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce, un’istanza di remissione in termini ex art. 37 c.p.a. rappresentando che “il ricorso originario e i successivi motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a. sono stati notificati, su istanza della ricorrente, nei confronti dell’Accademia di Belle Arti di Lecce, direttamente presso la sede della stessa, sita in L., Via G. L. n. 3, e non già presso la sede della Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce che ne assicura ex lege la Difesa”. L’Avvocatura erariale ha aggiunto che per tale ragione l’Accademia delle Belle Arti di Lecce “non ha mai formalizzato la costituzione in giudizio con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato” sino a quando, in data 8 aprile 2021, è stato notificato, questa volta ritualmente nei confronti della Accademia presso l’Avvocatura Dello Stato di Lecce, l’atto di costituzione di nuovo difensore e nuova elezione di domicilio della controinteressata C.M.. L’Accademia ha, dunque, formalizzato la propria costituzione a mezzo dell’Avvocatura dello Stato nel presente giudizio solo data in 14 aprile 2021, ricevendo in pari data copia dell’avviso di fissazione della udienza pubblica dell’11 maggio 2021 per la trattazione del merito del ricorso (avviso, invero, già emesso in data 16 ottobre 2020). Alla luce di ciò l’Avvocatura dello Stato, rilevato “che la nullità della notifica del ricorso introduttivo della lite ha impedito la regolare instaurazione del contraddittorio nei confronti della Amministrazione resistente, che ha sanato detta nullità solo a seguito del primo atto formalmente idoneo ed efficace (la costituzione del nuovo difensore della controinteressata) alla costituzione, peraltro parziale, del rapporto processuale nei confronti della Accademia”, ha chiesto la remissione in termini “rispetto alla presentazione di documenti, al deposito di memoria difensiva, nonché di eventuale, successiva replica ai sensi dell’art. 73 c.p.a.”.

12. All’udienza pubblica dell’11 maggio 2021 la causa è stata introitata per la decisione ai sensi degli artt. 1 comma 17 del D.L. n. 183 del 2020 con riferimento agli artt. 84 del D.L. n. 18 del 2020, 4 del D.L. n. 28 del 2020 e 25 del D.L. n. 137 del 2020.

Motivi della decisione
1. In limine deve essere respinta l’istanza di remissione in termini formulata dalla difesa erariale.

E’, infatti, appena il caso di notare che questa Sezione ha già affrontato ex professo e risolto in senso negativo la questione dell’applicabilità all’Accademia di Belle Arti dello speciale regime di notifica di cui all’art. 11 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 nell’ambito della sentenza, divenuta di irrevocabile, del 10 giugno 2019 n. 958, pronunciata tra le stesse parti nell’ambito del giudizio n. 835/2018 Reg. Ric.. con riguardo ad una vicenda perfettamente sovrapponibile a quella che occupa e relativa alla procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica per l’A.A. 2017-2018.

Si è, in tale sede, infatti, precisato che “alle Accademie delle Belle Arti, dopo la riforma di cui alla L. 21 dicembre 1999, n. 508 (“Riforma delle Accademie di belle arti, dell’Accademia nazionale di danza, dell’Accademia nazionale di arte drammatica, degli Istituti superiori per le industrie artistiche, dei Conservatori di musica e degli Istituti musicali pareggiati”) non può essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di enti pubblici autonomi (cfr. art. 2 della citata L. n. 508 del 1999); con la conseguenza che (come già evidenziato nella fase cautelare del giudizio), ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio disciplinato agli artt. 1 – 11 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, bensì il patrocinio facoltativo/autorizzato ex art. 43 del medesimo R.D. n. 1611 del 1933, con la conseguente inapplicabilità delle disposizioni sulla domiciliazione “ex lege” presso l’Avvocatura dello Stato ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (si vedano, per “eadem ratio”, i principi espressi, con riferimento alle Università degli Studi, da Cassazione Civile, Sezioni Unite, 10 maggio 2006, n. 10700)” (T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. III, 10 giugno 2019 n. 958).

Ne consegue che risulta, anche nella vicenda in esame, corretta la notificazione del ricorso ritualmente effettuata presso la sede reale dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce.

2. Va, poi, sempre in via preliminare, delibata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per nullità della notificazione del ricorso introduttivo sollevata dalla difesa della controinteressata C.M.. In particolare, si eccepisce che parte ricorrente avrebbe dovuto notificare personalmente l’atto introduttivo alla controinteressata nelle forme dell’art. 139 c.p.c. e non nella persona della “Sig.ra M.C. … presso l’Accademia delle Belle Arti di Lecce con sede in 73100 L. alla Via G. L. n.3”. Inoltre, non potrebbe ritenersi perfezionata neppure la successiva notifica effettuata nelle forme dell’art. 143 comma 2 c.p.a. osservandosi, in proposito, che sia la ricorrente che il suo difensore sarebbero stati perfettamente consapevoli della circostanza per cui la controinteressata, indicata nel Decreto Direttoriale impugnato come “M.C.” a causa di un mero refuso di battitura, era M.C.. Ciò in quanto quest’ultima era risultata vincitrice della precedente procedura indetta dall’Accademia delle Belle Arti di Lecce per l’A.A. 2017/2018, il cui provvedimento definitorio è stato oggetto di impugnazione da parte dell’odierna ricorrente nell’ambito del giudizio n. 835/2018 Reg. Ric..

2.1 L’eccezione non coglie nel segno.

Il Collegio ritiene che la notifica del ricorso introduttivo si sia ritualmente perfezionata nei confronti della controinteressata C.M. ai sensi e per gli effetti dell’art. 143 comma 2 c.p.a.. Infatti, sussisteva, al momento della proposizione del ricorso introduttivo, un’obiettiva incertezza circa la corretta identità della controinteressata. Detta situazione di incertezza, di certo non imputabile alla parte ricorrente e non superabile in via induttiva, ha giustificato, anche in ragione del mancato perfezionamento della prima notifica operata presso la sede dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce, il ricorso alla forma residuale di notificazione di cui all’art. 143 comma 2 c.p.c.

Deve aggiungersi, in ogni caso, che l’intervenuta costituzione in giudizio della controinteressata (la quale ha compiutamente controdedotto) ha sanato con effetto retroattivo ogni eventuale difetto di notifica.

3. Nel merito, il ricorso, come integrato da motivi aggiunti, è, in parte, improcedibile per cessata materia del contendere e, in parte, fondato nei sensi appresso precisati.

4. Anzitutto, occorre rilevare che il ricorso è divenuto in parte qua improcedibile per cessazione della materia del contendere limitatamente alla domanda proposta avverso il silenzio (da riqualificare, in ragione del suo contenuto sostanziale, in actio ad exhibendum ex art. 116 comma 1 c.p.a.) a seguito dell’intervenuta ostensione della documentazione richiesta da parte dell’Accademia resistente in adempimento di ordinanza n. 215 dell’11 aprile 2019 di questa Sezione (emessa nella fase cautelare del giudizio).

Ciò ha, infatti, determinato, all’evidenza, l’integrale soddisfazione della pretesa ostensiva di parte ricorrente ai sensi dell’art. 34 comma 5 c.p.a..

5. Deve, invece, essere accolta la domanda di annullamento del Decreto Direttoriale prot. n. (…)/B3 del 21 dicembre 2018 con il quale il Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce ha approvato gli atti della procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica e la relativa graduatoria finale (che ha visto collocarsi al primo posto C.M. ed in seconda posizione la ricorrente M.J.) e degli atti allo stesso successivi, compreso l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019).

5.1 Occorre, in proposito, preliminarmente rilevare che, pur essendo, ormai da tempo, terminato l’A.A. 2018/2019 ed i relativi corsi (tra cui quello di “Inglese per la comunicazione artistica”), non risulta comunque venuto meno l’interesse di parte ricorrente ad ottenere la rimozione con decorrenza ex tunc degli effetti giuridici ed economici degli atti impugnati, anche ai fini della corretta riformulazione, ora per allora, della graduatoria concorsuale di che trattasi.

5.2 Tanto premesso, appaiono certamente fondate le censure mosse da parte ricorrente contro gli atti impugnati in seno al secondo motivo di gravame del ricorso introduttivo, così come integrato a mezzo del primo motivo aggiunto.

Con essi si denuncia la violazione dell’art. 5 del Bando di concorso e dell’art. 4 comma 2 del Regolamento dell’Accademia di Belle Arti di Lecce recante la disciplina della procedura per il conferimento degli incarichi esterni e supplenti, entrambi richiamati dalla Commissione Esaminatrice nel corso della riunione del 20 dicembre 2018, che individuerebbero, quale primo criterio di valutazione dei candidati al fine della formazione della graduatoria finale, la “a) qualificazione professionale”. Osserva parte ricorrente che dalla documentazione presentata dalla controinteressata Dott.ssa C. si evincerebbe chiaramente che ella non sarebbe in possesso di alcun titolo specifico che la renda maggiormente idonea all’insegnamento della lingua inglese rispetto alla seconda classificata in quanto mentre ella risulterebbe essere in possesso di laurea triennale in scienze storico artistiche e laurea specialistica in storia dell’arte, la ricorrente Prof.ssa M. risulterebbe essere in possesso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere, conseguita con il massimo dei voti, ed oltre a tale titolo (già da solo sufficiente a posizionarsi prima in graduatoria) avrebbe conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la Lingua Inglese. La Commissione esaminatrice avrebbe, invece, irragionevolmente ritenuto, con riferimento alla controinteressata, “particolarmente significativa la presenza nel C.V. di una formazione internazionale … nell’ambito della comunicazione artistica in lingua inglese”, senza prendere, a tal fine, in considerazione che l’insegnamento messo a concorso è denominato nell’Avviso pubblico quale “Inglese per la comunicazione artistica”.

È appena il caso di notare che trattasi di doglianza analoga a quella già dedotta, a fronte di identica lex specialis, in seno al primo motivo di gravame del ricorso introduttivo del giudizio n. 835/2018, accolto da questa Sezione con la già citata sentenza, divenuta irrevocabile, n. 958 del 10 giugno 2019.

Ritiene, pertanto, il Collegio di non doversi discostarsi da quanto già osservato in tale sede.

Appare, in particolare, manifestamente erronea, ai fini dell’affidamento dell’insegnamento de quo (“Inglese per la Comunicazione Artistica”), la valutazione dei titoli di studio e professionali e delle esperienze maturate espressa dalla Commissione Esaminatrice con riguardo alle due candidate in questione, considerato che la ricorrente è laureata in “Lingue e Letteratura Inglese”, nonché abilitata all’insegnamento di “Inglese”, nel mentre la controinteressata ha conseguito laurea specialistica in “Storia dell’Arte”. Detto ultimo titolo di studio non riscontra, infatti, a differenza di quello vantato dalla Prof.ssa M., le specificità proprie dell’incarico di insegnamento in questione, che vede, senza dubbio, prevalente, alla luce della sua denominazione formale e del contenuto del Programma Didattico, la componente linguistica su quella storico- artistica.

Deve, quindi, essere disposto l’annullamento del Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018 e dei successivi atti ivi compreso l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019) con conseguente ordine di attribuzione in favore della ricorrente, ora per allora, dell’insegnamento “Inglese per la comunicazione artistica” nell’ambito dei Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 tenuti dall’Accademia di Belle Arti di Lecce.

6. Rimane, in ultimo, da scrutinare la domanda di risarcimento per equivalente monetario dei danni sofferti dalla ricorrente in conseguenza dell’adozione da parte dell’Amministrazione resistente degli atti impugnati.

La domanda in parola è fondata e merita accoglimento.

Sussistono, infatti, tutti i presupposti di legge per la configurabilità in capo all’Accademia di Belle Arti di Lecce di una responsabilità per fatto illecito da attività provvedimentale illegittima, secondo le coordinate da ultimo ribadite nella decisione n. 7 del 27 aprile 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

6.1 Anzitutto, sussiste, per le ragioni già esposte al punto 5.2, il presupposto della (patente) illegittimità dei provvedimenti lesivi.

6.2 Parimenti sussistente è l’ulteriore presupposto costituito dall’effettiva spettanza in capo alla ricorrente del bene della vita a cui la stessa aspira (id est, nel caso che occupa, l’affidamento dell’incarico di insegnamento “Inglese per la comunicazione artistica” per l’A.A. 2018-2019 presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce).

Alla stregua del consueto giudizio prognostico in concreto richiesto per l’accertamento della responsabilità civile da lesione di un interesse legittimo di tipo pretensivo, è, infatti, da ritenere che, in assenza delle illegittimità sopra riscontrate, la ricorrente si sarebbe certamente collocata prima nella graduatoria finale, sopravanzando l’odierna controinteressata.

Basti osservare che la ricorrente si è posizionata al secondo posto in graduatoria e che la corretta applicazione del criterio della “qualificazione professionale” (come tratteggiata supra al punto 5.2) avrebbe certamente condotto a ritenere più meritevoli le pregresse esperienze professionali vantate da parte ricorrente, in quanto più aderenti alle specificità proprie dell’incarico di insegnamento in questione.

6.3 Deve, poi, ritenersi che la condotta tenuta dall’Amministrazione resistente sia connotata da colpa.

In proposito, è sufficiente rilevare che l’Accademia delle Belle Arti di Lecce ha, nel caso che occupa, reiterato le medesime illegittimità già denunciate da parte l’anno precedente con il ricorso introduttivo del giudizio n. 835/2018 Reg. Ric., accolto da questa Sezione con la già citata sentenza n. 958 del 10 giugno 2019. Ad apparire particolarmente significativo è che l’Amministrazione resistente ha adottato gli atti causativi del danno (il Decreto Direttoriale prot. n. (…)del 21 dicembre 2018 e l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019) dopo che questa Sezione aveva già accolto la domanda cautelare proposta dall’odierna ricorrente nell’ambito del giudizio n. 835/2018 Reg. Ric. a mezzo dell’ordinanza cautelare n. 448 del 2018 (confermata, peraltro, dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato in sede di appello ex art. 62 c.p.a. con ordinanza n. 6113 del 2018).

Ciò denota una grave negligenza ed imprudenza nell’esercizio del potere pubblico che vale a fondare un giudizio di sicura rimproverabilità nei confronti dell’Amministrazione resistente.

6.4 Sussiste, in ultimo, il presupposto rappresentato da un danno (patrimoniale o non patrimoniale) alla sfera giuridica di parte ricorrente che sia riconducibile, sul piano causale, all’adozione del provvedimento amministrativo assunto come lesivo.

Parte ricorrente ha, infatti, compiutamente allegato e dimostrato di aver sofferto un pregiudizio di tipo patrimoniale consistente nel lucro cessante derivato dalla mancata corresponsione in suo favore del compenso previsto per l’incarico (pari a complessivi € 5.000,00).

Come emerge dal combinato disposto degli artt. 1 e 6 dell’Avviso pubblico di concorso prot. n. (…) del 6 dicembre 2018, è stato, infatti, previsto che il vincitore della procedura comparativa avrebbe stipulato un contratto di insegnamento della durata totale di n. 100 ore, da retribuire con un importo di € 50,00 l’ora, comprensivo degli oneri a carico del prestatore e del committente.

6.5 Non spetta, invece, alla ricorrente, in ragione dell’intervenuto annullamento degli atti impugnati con conseguente attribuzione in suo favore, ora per allora, dell’insegnamento “Inglese per la comunicazione artistica” nell’ambito dei Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 tenuti dall’Accademia di Belle Arti di Lecce, alcun ristoro in relazione lamentato danno curricolare (che deve ritenersi integralmente riparato).

6.6 Ritiene, in conclusione, il Collegio di dover determinare il quantum risarcibile nella somma complessiva di € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione (da far risalire, in ragione dell’attribuzione ora per allora in favore della ricorrente dell’insegnamento de quo, al 30 aprile 2019, data di avvio del corso per l’A.A. 2018/2019), trattandosi di debito di valuta.

7. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex artt. 26 e c.p.a. e 91 c.p.c. la soccombenza e sono da porre integralmente a carico dell’Amministrazione resistente e della controinteressata C.M..

7.1 Si dispone la trasmissione della presente sentenza alla Procura Regionale della Corte dei Conti della Puglia per le determinazioni di competenza.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Terza definitivamente pronunciando sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, come in epigrafe proposto:

– dichiara l’improcedibilità per cessazione della materia del contendere della domanda proposta avverso il silenzio serbato dall’Accademia di Belle Arti di Lecce sull’istanza presentata a mezzo PEC dalla ricorrente in data 22 dicembre 2018 e sulla ulteriore diffida-sollecito del 18 gennaio 2019 volte ad ottenere l’accesso a tutti gli atti della procedura comparativa di che trattasi;

– annulla il Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018 ed i successivi atti, ivi compreso l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019), con conseguente attribuzione in favore della ricorrente, ora per allora, dell’insegnamento “Inglese per la comunicazione artistica” nell’ambito dei Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 tenuti dall’Accademia di Belle Arti di Lecce;

– condanna l’Accademia delle Belle Arti di Lecce, in persona del rappresentante legale pro tempore, al pagamento in favore della ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, della somma di € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione;

– condanna l’Accademia delle Belle Arti di Lecce, in persona del rappresentante legale pro tempore, al pagamento in favore della ricorrente, a titolo di spese processuali, della somma di € 1.000,00 (mille/00), oltre gli accessori di legge;

– condanna la controinteressata C.M. al pagamento in favore della ricorrente, a titolo di spese processuali, della somma di € 1.000,00 (mille/00), oltre gli accessori di legge;

– dispone la trasmissione della presente sentenza alla Procura Regionale della Corte dei Conti della Puglia per le determinazioni di competenza.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Lecce nella Camera di Consiglio del giorno 11 maggio 2021 svolta da remoto tramite l’applicativo Microsoft Teams con l’intervento dei magistrati:

Enrico d’Arpe, Presidente

Patrizia Moro, Consigliere

Giovanni Gallone, Referendario, Estensore


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 23/02/2021) 27/05/2021, n. 14745

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19493/14 R.G. proposto da:

P.M., rappresentata e difesa, come da delega a margine del ricorso, dagli avv.ti Stefano Modenesi e Antonio Tomassini, con domicilio eletto presso il loro studio, DLA Piper Studio Legale Tributario Associato, in Roma, via dei Due Macelli, n. 66;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 510/38/14 depositata in data 29 gennaio 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 23 febbraio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. Con distinti ricorsi P.M. impugnò gli avvisi di accertamento, per gli anni d’imposta 2006 e 2007, con i quali l’Agenzia delle entrate aveva rideterminato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e 5, il reddito dichiarato sulla base degli indici di cui al D.M. 10 settembre 1992, tabella allegata, ed in particolare, assumendo a riferimento l’acquisto (avvenuto nel 2007) di una autovettura Jaguar, del valore di Euro 80.000,00.

2. La Commissione tributaria provinciale di Varese, previa riunione dei ricorsi, li rigettò con sentenza che venne impugnata dalla contribuente dinanzi alla Commissione tributaria regionale che, con la pronuncia in questa sede impugnata, rigettò il gravame.

Osservò, in particolare, che la notificazione degli atti impositivi era avvenuta a mezzo posta, nel rispetto delle disposizioni normative, e che la determinazione del reddito era avvenuta sulla base dell’applicazione del redditometro, procedura che dispensava l’Amministrazione finanziaria dal fornire ulteriori elementi indici di maggiore capacità contributiva oltre quelli individuati dallo stesso redditometro. Dando atto che la contribuente, nel corso dell’anno 2007, aveva acquistato un’automobile Jaguar, affrontando una spesa di Euro 80.000,00, accertò che era rimasto non dimostrato l’assunto difensivo secondo cui le somme per far fronte a tale spesa provenivano da donazioni del marito, il quale, sottoposto ad autonomo accertamento, non aveva fatto alcun riferimento alle elargizioni addotte a giustificazione dalla moglie.

3. La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, affidandosi a sette motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione agli artt. 23, 24 e 53 Cost., laddove tali disposizioni non prevedono alcun limite al potere regolamentare riconosciuto all’Amministrazione finanziaria.

Deduce a sostegno della questione che le norme in esame delegano l’Amministrazione finanziaria alla elaborazione di uno strumento accertativo che, poggiando su presunzioni, non può rappresentare il solo presupposto per procedere alla rettifica dei redditi del contribuente e che si pone un problema di compatibilità del menzionato art. 38 e del D.M. 10 settembre 1992, rispetto alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., che risulterebbe violata dall’attribuzione all’Amministrazione finanziaria di poteri normativi idonei ad incidere sulla base imponibile dei contribuenti.

Poichè, secondo lo stesso disposto del citato art. 38, gli unici mezzi di prova contraria di cui il contribuente può avvalersi rispetto all’accertamento sintetico sono a) il fatto che il maggior reddito sinteticamente accertato sia costituito da redditi esenti o b) il fatto che il maggior reddito sinteticamente accertato sia costituito da redditi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, ad avviso della ricorrente, risulta evidente il contrasto sia con l’art. 24 Cost., sia con l’art. 53 Cost..

Aggiunge che l’introduzione dell’accertamento sintetico ha comportato una discrasia tra indici di spesa in esso non contemplati ed indici di spesa in esso contemplati, dal momento che ai primi corrisponde una presunzione semplice, mentre ai secondi soltanto una presunzione legale, a fronte della quale il contribuente non ha modo di tutelarsi con adeguati strumenti costituzionalmente tutelati.

1.1. La questione di legittimità costituzionale, sebbene rilevante ai fini del presente giudizio, è manifestamente infondata.

1.2. La Corte Costituzionale, con la ordinanza n. 297 del 13 luglio 2004, depositata il 28 luglio 2004, con riguardo alla dedotta violazione del principio di riserva di legge, si è già pronunciata per la infondatezza della questione, richiamando la costante giurisprudenza costituzionale secondo cui tale riserva va intesa in senso relativo, ponendo al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (v. sentenze n. 7 del 2001, n. 215 del 1998 e n. 111 del 1997); ha, in particolare, affermato che “è stata rispettata la riserva di legge relativa, in quanto l’art. 38 stabilisce che il regolamento deve prendere in considerazione elementi e circostanze di fatto certi e fissa delle linee direttive a cui si deve attenere l’accertamento compiuto tramite regolamento perchè lo stesso sia valido (deve scostarsi di almeno un quarto da quanto dichiarato per almeno due periodi di imposta), con salvezza della prova contraria del contribuente..”, precisando, altresì, che “nessuna norma costituzionale o di legge stabilisce che in materia tributaria i regolamenti debbano essere adottati con regolamento governativo ai sensi della L. n. 400 del 1988, art. 17, con la conseguenza che nessun vulnus costituzionale può ravvisarsi nella scelta di un regolamento del Ministro delle finanze, senza considerare che la norma da ultimo citata, nel fare un elenco delle materie che devono essere disciplinate con il regolamento, non fa menzione della materia tributaria”.

Questa Corte, peraltro, ha già avuto modo di precisare che i decreti ministeriali assolvono ad una funzione meramente accertativa e probatoria e non hanno natura sostanziale poichè non contengono norme per la determinazione del reddito (Cass., sez. 5, 19/04/2013, n. 9539). Il che esclude, alla radice, l’ipotizzata lesione dell’art. 23 Cost., che riserva alla legge la facoltà d’imporre (per quanto qui interessa) prestazioni patrimoniali (Cass., sez. 5, 24/04/2018, n. 10037).

La Corte Costituzionale, con la pronuncia sopra richiamata, ha parimenti escluso la violazione dell’art. 53 Cost., confermando quanto già statuito con la precedente ordinanza n. 283 del 23 luglio 1987, con la quale si è osservato che, sebbene l’accertamento previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, sia fondato su presunzioni, esso è ancorato ad elementi che debbono essere rigorosamente dimostrati e che sono idonei a costituire fonte sicura di rilevamento della capacità contributiva.

Anche la violazione dell’art. 24 è stata disattesa con la ordinanza n. 283 del 1987, poichè nessun limite è posto dalla normativa alla prova della insussistenza degli elementi e circostanze di fatto sui quali si basa l’accertamento induttivo.

D’altro canto, l’insussistenza di limitazioni del diritto di difesa e dei poteri probatori in capo a chi è sottoposto a verifica fiscale trova evidente riscontro nel costante orientamento di questa Corte secondo cui l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, oltre che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, anche che, più in generale, il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass., sez. 5, 19/10/2016, n. 21142; Cass., sez. 5, 19/04/2013, n. 9539; Cass., sez. 5, 24/04/2018, n. 10037; Cass., sez. 5, 18/04/2019, n. 10919).

2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello affermato che l’accertamento sintetico dispensa l’Ufficio dal fornire altri elementi indici di maggiore capacità contributiva, oltre quelli individuati dal redditometro stesso.

La ricorrente sostiene che la ricostruzione presuntiva realizzata dall’Ufficio non presenta i requisiti della gravità, precisione e concordanza e che, al di là del dato esibito con riguardo all’autovettura, nessuna circostanza sarebbe stata addotta dall’Amministrazione finanziaria che possa confermare le risultanze della verifica.

Sottolinea, pure, che in primo ed in secondo grado aveva prodotto documentazione – non vagliata dai giudici di appello – comprovante che l’acquisto dell’autovettura era avvenuto grazie all’intervento del marito, C.C., che aveva emesso un assegno circolare di Euro 15.000,00, nonchè grazie all’accensione di un finanziamento per un importo di Euro 41.177,38, che prevedeva rate di circa Euro 700,00 mensili, e che il marito le versava ogni mese circa Euro 1.000,00 con i quali sosteneva le spese personali, fra le quali la rata del finanziamento.

3. Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., del D.M. 10 settembre 1992, e violazione del principio del contraddittorio, lamentando che l’accertamento nei suoi confronti non è stato preceduto da un contraddittorio, nonostante lo stesso legislatore abbia introdotto, con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, specifici correttivi allo strumento presuntivo dell’accertamento sintetico, imponendo all’Amministrazione finanziaria una analisi più approfondita della posizione fiscale del contribuente.

4. Con il quarto motivo – rubricato: “omessa pronuncia – Nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Della violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42” – lamenta che i giudici di secondo grado hanno omesso di esaminare l’eccezione con la quale era stato dedotto il vizio di motivazione dell’atto impositivo che non dava conto delle ragioni per le quali erano state disattese le contestazioni sollevate dalla contribuente.

5. Con il quinto motivo – rubricato: Omessa pronuncia – Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, e degli artt. 100 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Della violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42 – ripropone la doglianza fatta valere con il quarto motivo per il caso in cui il vizio di omessa pronuncia venga ritenuto rientrante tra i motivi di impugnazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6. Con il sesto motivo denuncia omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e reitera la doglianza esposta con il quarto ed il quinto motivo per il caso che la si ritenga rientrante nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

7. Con il settimo motivo la ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e della L. n. 890 del 1982, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui i giudici regionali hanno respinto l’eccezione di inesistenza della notificazione, pacificamente avvenuta a mezzo posta, per mancanza di relata di notifica, deducendo che la proposizione dell’impugnazione non comporta sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, dal momento che lo scopo della notificazione non è quello di “provocare” l’impugnazione del provvedimento impositivo, bensì di perfezionarne la formazione.

8. Il terzo motivo, che deve essere esaminato con priorità, è infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno invero affermato (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823) che: “Differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica previsione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Le Sezioni Unite hanno evidenziato, appunto, come, nella normativa tributaria nazionale, in relazione ai tributi non armonizzati, non si rinviene alcuna disposizione espressa che sancisca in via generale l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, al di fuori di precise disposizioni che tale contraddittorio prescrivono, peraltro a condizioni e con modalità ed effetti differenti, in rapporto a singole ben specifiche ipotesi, quale D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7 (come modificato dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, convertito in L. n. 122 del 2010), in tema di accertamento sintetico.

Nella specie, si verte in ipotesi di accertamento sintetico per gli anni d’imposta 2006 e 2007, in relazione ai quali non opera la modifica normativa di cui al D.L. n. 78 del 2010, convertito dalla L. n. 122 del 2010.

Infatti, il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, ha disposto (con l’art. 22, comma 1), con specifica norma di diritto transitorio, che le modifiche operano in relazione agli “accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto” e quindi la norma ha effetto dal periodo d’imposta 2009 (cfr. Cass., sez. 6-5, 6/10/2014, n. 21041; Cass., sez. 6-5, 6/11/2015, n. 22746; Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283).

La sentenza della C.T.R. è pertanto conforme ai suddetti principi di diritto.

9. Il quarto motivo è infondato.

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 6-1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 5, 2/04/2020, n. 7662).

La Commissione tributaria regionale, nel rigettare l’appello della contribuente e nel confermare l’accertamento, ha implicitamente disatteso l’eccezione di nullità dell’atto impositivo per carenza di motivazione, sollevata dalla contribuente.

10. Il quinto ed il sesto motivo, che possono essere scrutinati congiuntamente perchè connessi, sono parimenti infondati.

10.1. Sebbene i giudici regionali non si siano espressamente pronunciati sulla presunta nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass., sez. U, 2/02/2017, n. 2731).

10.2. Va, al riguardo, ribadito (cfr. Cass., sez. 5, 31/03/2017, n. 8378; Cass., sez. 5, 1/12/2020, n. 27401) che “In tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo”.

La C.T.R. ha correttamente ritenuto che l’avviso di accertamento era idoneamente motivato, dal momento che l’Ufficio deve solo indicare gli elementi indicatori di reddito e lo scostamento derivatone rispetto al reddito dichiarato, ben potendo la parte contribuente fornire la prova contraria anche nel corso del giudizio.

11. Anche il settimo motivo va rigettato.

A partire dal 15 maggio 1998, data di entrata in vigore della L. n. 146 del 1998, art. 20, (che ha modificato la L. n. 890 del 1982, art. 14), gli uffici finanziari possono procedere alla notificazione a mezzo posta ed in modo diretto degli avvisi e degli atti che per legge vanno notificati al contribuente. Pertanto, quando l’Ufficio si sia avvalso di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982 (in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, concernono esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c.).

Ne deriva che non va redatta alcuna relata di notifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass., sez. 5, 4/07/2014, n. 15315; Cass., sez. 5, 15/07/2016, n. 14501; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642), senza che si renda, peraltro, necessario l’invio della raccomandata al destinatario (Sez. 5, Sentenza n. 8293 del 04/04/2018).

Nella sentenza qui impugnata si afferma che la notifica degli atti impositivi è avvenuta a mezzo posta e che “ha seguito tutto il dettato della normativa al riguardo”, cosicchè l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito non può essere sindacato in sede di legittimità.

Peraltro, l’eventuale invalidità della notifica dell’avviso di accertamento deve intendersi comunque sanata, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo ove detto vizio non abbia pregiudicato il diritto di difesa del contribuente, situazione che si realizza nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il medesimo abbia tempestivamente impugnato l’atto contestandone il contenuto (Cass., sez. 5, 9/05/2018, n. 11043; Cass., sez. 6-5, 12/07/2017, n. 17198).

12. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile.

Per costante orientamento di questa Corte (cfr. tra le altre Cass., sez. 10/08/2016, n. 16912), in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dal D.M. 10 settembre e D.M. 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicchè è legittimo l’accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.

Si è, in particolare, chiarito, con principio del tutto condivisibile, (Cass., sez. 6-5, 26/01/2016, n. 1332) che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali ed il contribuente deduca che tale spesa sia il frutto di liberalità, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, applicabile ratione temporis, la relativa prova deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi ma anche l’entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall’accertamento”; con la ulteriore precisazione (Cass., sez. 6-5, 10/07/2018, n. 18097) che “in tema di accertamento sintetico, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, comma 6, non è sufficiente la dimostrazione, da parte del contribuente, della disponibilità di redditi ulteriori rispetto a quelli dichiarati, in quanto, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che tali redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, deve essere fornita quella delle circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere” e che “in tema di accertamento sintetico del reddito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, ove il contribuente deduca che la spesa sia il frutto di liberalità o di altra provenienza, la relativa prova deve essere fornita con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi, ma anche l’entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall’accertamento, pur non essendo lo stesso tenuto, altresì, a dimostrare l’impiego di detti redditi per l’effettuazione delle spese contestate, attesa la fungibilità delle diverse fonti di provvista economica” (Cass., sez. 6-5, 28/03/2018, n. 7757).

La C.T.R., dopo avere rilevato che la contribuente ha acquistato un’automobile Jaguar, affrontando una spesa di Euro 80.000,00, a fronte di un reddito dichiarato nello stesso periodo di Euro 7.700,00, ha escluso, con accertamento di fatto, che la contribuente, sulla quale gravava l’onere di dimostrare che i proventi utilizzati per far fronte a detta spesa derivavano da redditi esenti o da donazioni o da altre entrate non reddituali, avesse fornito idonea prova documentale che l’acquisto fosse stato effettuato con elargizioni provenienti dal coniuge.

L’apprezzamento svolto dai giudici di merito non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità.

Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (Cass., sez. 1, 6/03/2019, n. 6519; Cass., sez. 5, 28/11/2014, n. 25332), senza considerare le ragioni offerte dal giudice d’appello, poichè in tal modo la censura si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass., sez. 1, 24/09/2018, n. 22478; Cass., sez. 3, 31/08/2015, n. 17330).

13. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021


Circolare 2021- 003 Le Notifiche degli ASO e dei TSO

AGGIORNAMENTO DELLA CIRCOLARE A.N.N.A. N. 002/2018: Le Notifiche degli A.S.O. e dei T.S.O.

L’articolo 32 della Costituzione italiana assegna alla Repubblica il compito di tutelare la salute come fondamentale diritto dell’individuo (senza alcuna distinzione, quindi, fra cittadini e non cittadini), e interesse della collettività, oltre che di garantire cure gratuite agli indigenti; il secondo comma dispone che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”….

Leggi: Circolare 2021-003 Le Notifiche degli ASO e dei TSO
Leggi anche LEGGE 23 dicembre 1978, n. 833


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 26-02-2021) 26-05-2021, n. 14579

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MANCINI Laura – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5408/2014 R.G. proposto da:

RI.BO. GOMMA DI /RIVELINI/ A. & C. SAS, (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. ANDREA BODRITO, dall’Avv. Prof. GIANNI MARONGIU dell’Avv. Prof. FRANCESCO D’AYALA VALVA, elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, al Viale Parioli, 43;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD SPA, (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. DONATO PASCUCCI, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. ALESSANDRA ZAMBRINO, in Roma, Via delle Tre Madonne, 18;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, n. 206/29/13, depositata il 16 luglio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 febbraio 2021 dal Consigliere Relatore Filippo D’Aquino.

Svolgimento del processo
CHE:

La società ricorrente RI.BO GOMMA DI /RIVELLINI/ A. & C. SAS ha impugnato una cartella di pagamento, relativa al periodo di imposta dell’esercizio 2005, la cui iscrizione a ruolo era avvenuta a titolo provvisorio a termini del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15, nella formulazione pro tempore, stante la pendenza del giudizio di primo grado avverso l’atto impositivo con cui si accertava l’indebito utilizzo di crediti di imposta.

La CTP di Caserta ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto tardivo e la CTR della Campania, con sentenza in data 16 luglio 2013, ha rigettato l’appello della società contribuente. Ha ritenuto corretta la notificazione della cartella di pagamento presso la sede legale della contribuente sita in (OMISSIS) (CE), Via (OMISSIS), costituente anche “domicilio fiscale”, effettuata per irreperibilità del destinatario alla data del 7 aprile 2009, il cui termine doveva ritenersi decorso alla data di proposizione del ricorso (19 ottobre 2009). Ha, inoltre, ritenuto il giudice di appello che a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), è sufficiente l’affissione dell’avviso all’albo comunale, senza invio della raccomandata, con conseguente irrilevanza della notificazione eseguita a termini dell’art. 145 c.p.c.. Ha, poi, ritenuto irrilevante la mancanza di invito al contribuente a fornire chiarimenti, trattandosi di procedura automatizzata. Ha, infine, ritenuto legittima l’iscrizione a ruolo dell’intera somma anzichè per il solo 50% a termini del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, essendo – a seguito del rigetto in primo grado del ricorso avverso l’atto impositivo – il potere di riscossione fondato sull’atto di recupero ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 422.

Propone ricorso per cassazione parte contribuente affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso il concessionario della riscossione; l’ente impositore si è costituito ai soli fini della partecipazione all’eventuale udienza di discussione.

Motivi della decisione
CHE:

1.1 – Con il primo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, (senza ulteriore specificazione in relazione al suddetto comma), violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), e dell’art. 145 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto di far decorrere il termine per l’impugnazione della cartella dalla notificazione alla società presso la sede legale e non dalla notificazione al legale rappresentante. Deduce la società ricorrente che la notificazione si sarebbe dovuta eseguire presso la sede effettiva, quale luogo dove si svolge l’attività di direzione, risultando la stessa in luogo diverso da quello ritenuto dalla CTR. Deduce, sotto un secondo profilo, che il procedimento notificatorio di cui al D.P.R. cit., art. 60, comma 1, lett. e), non potrebbe ritenersi concluso per effetto della mera affissione, ma richiederebbe necessariamente la ricezione della raccomandata informativa, in assenza della quale il procedimento non potrebbe ritenersi perfezionato.

1.2 – Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto storico decisivo, per non avere esaminato la sentenza impugnata la legittimità della notificazione avvenuta al legale rappresentante presso la propria residenza anagrafica, deducendo ulteriormente il ricorrente violazione dell’art. 145 c.p.c..

1.3 – Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, per avere il giudice di appello escluso la rilevanza del mancato invio della comunicazione di irregolarità, osservando che tale atto prodromico può essere omesso solo in caso di iscrizioni a ruolo derivanti da liquidazione di imposte, laddove nel caso di specie sussisterebbe il requisito dell’incertezza sull’oggetto dell’accertamento.

1.4 – Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto legittima l’iscrizione dell’intera somma in quanto derivante dall’indebito utilizzo di un credito di imposta. Deduce parte ricorrente come l’iscrizione sia avvenuta a titolo provvisorio per l’intera somma, laddove la norma in epigrafe, secondo la formulazione pro tempore, così come anche l’atto di recupero, non legittimerebbero l’iscrizione integrale delle somme.

2 – Deve preliminarmente rilevarsi che nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate Riscossione, quale successore ope legis di Equitalia, D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, ex art. 1, conv.. in L. 1 dicembre 2016, n. 225, non si è costituita in giudizio, per cui il processo prosegue tra le parti originarie ai sensi dell’art. 111 c.p.c. (Cass., Sez. V, 28 dicembre 2018, n. 33639).

3.1 – Quanto al primo profilo, si evidenzia come la questione del diverso luogo (sede effettiva o principale dell’impresa) in cui si sarebbe dovuta eseguire la notificazione non risulta trattata nella sentenza impugnata; nè il ricorrente offre elementi per ritenere che la questione sia stata affrontata nel ricorso introduttivo, così non assolvendo all’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito e di indicare in quale atto del giudizio di merito lo abbia fatto (Cass., Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 32804), nè avendo – infine – illustrato gli elementi in fatto da cui si trarrebbe la prova di una diversa sede effettiva (o principale) dell’impresa. 3.2 – Il primo motivo è, in ogni caso, infondato, posto che non è stato censurato l’accertamento in fatto, compiuto dal giudice del merito, secondo cui il luogo che coincide con la sede legale costituisce domicilio fiscale del contribuente, luogo che prevale su diverse indicazioni di domicilio per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta a controllare l’esattezza del domicilio eletto (Cass., Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 9567; Cass., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 4675; Cass., Sez. VI, 10 ottobre 2019, n. 25450; Cass., Sez. VI 26 giugno 2019, n. 17198; Cass., Sez. V, 14 dicembre 2016, n. 25680; Cass., Sez. VI, 21 luglio 2015, n. 15258). L’orientamento è conforme al principio secondo cui è onere del contribuente indicare all’ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni – come in caso di fallimento prevede la L. Fall., art. 49, nei confronti dell’organo concorsuale – non potendosi addossare all’Amministrazione l’onere di ricercare il contribuente fuori dall’ultimo domicilio noto e legittimandola, pertanto, in caso di inadempimento del contribuente, a eseguire la notificazione nella forma semplificata di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, lett. e), (Cass., Sez. V, 11 maggio 2018, n. 11504).

3.3 – Il motivo è, ulteriormente, infondato, quanto alla dedotta necessità dell’invio della raccomandata informativa in caso di notificazione effettuata a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), essendo costante la giurisprudenza di questa Corte nell’affermare la ritualità della notificazione, ove il messo notificatore abbia eseguito le opportune ricerche nell’ambito del Comune di domicilio fiscale (circostanza non oggetto di specifica censura) e non abbia rinvenuto l’ufficio o l’azienda del contribuente, ancorchè vi sia stato il mero deposito dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune (Cass., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3378; Cass., Sez. V, 28 febbraio 2019, n. 5902; Cass., Sez. V, 27 novembre 2006, n. 25095; Cass., Sez. V, 23 giugno 2003, n. 9922). Orientamento conforme al principio secondo cui è onere del contribuente comunicare all’Amministrazione finanziaria gli spostamenti del domicilio fiscale dichiarato.

4 – Il rigetto del primo motivo comporta l’inammissibilità degli ulteriori motivi, aventi ad oggetto le autonome ragioni della decisione attinenti alle ulteriori questioni decise, risultando stabilizzata la decisione per effetto del passaggio in cosa giudicata della prima ratio decidendi.

Le spese sono regolate dalla soccombenza e liquidate come da dispositivo in relazione alla parte controricorrente – non anche per l’ente impositore, che non ha svolto difese scritte – oltre al raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il primo motivo, dichiara inammissibili gli ulteriori motivi; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, che liquida in complessivi Euro 6.500,00, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 10/02/2021) 24/05/2021, n. 14199

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6037/2019 proposto da:

COMUNE DI PAGANI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PASUBIO n. 4, presso lo studio dell’avvocato LUCILLA FORTE, rappresentato e difeso dall’avvocato SILVIA MASTRANGELO;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

contro

N.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NOMENTANA n. 222, presso lo studio dell’avvocato VALERIO SANTURRO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIO ALFANO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

avverso la sentenza n. 707/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO R.G.N. 496/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato MARIO ALFANO.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Salerno ha respinto il reclamo proposto, L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, dal Comune di Pagani avverso la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva accolto il ricorso di N.M. e, revocata l’ordinanza emessa in fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dal Comune il 12 agosto 2016 e condannato l’ente locale a reintegrare il lavoratore nel posto in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso l’indennità risarcitoria quantificata in Euro 15.947,10.

2. La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che al N. era stato contestato l’illecito disciplinare tipizzato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), nonchè dalla disposizione di eguale contenuto dettata dall’art. 59, comma 9, n. 2 del CCNL per il personale del comparto funzioni locali, per avere “in modo reiterato attestato falsamente la propria presenza in servizio nei giorni e negli orari in cui si tratteneva all’esterno del luogo di lavoro pur risultando regolarmente in servizio”. Ha aggiunto che in quelle occasioni il N. era stato visto all’esterno del cimitero comunale, al quale era assegnato, con indosso dei cartelli di cartone, che recavano impresse scritte di protesta per le condizioni di lavoro, a detta del dipendente ingiuste e lesive della salute.

3. In diritto ha osservato che l’illecito disciplinare contestato richiede una condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro circa la presenza in servizio e, pertanto, nella fattispecie lo stesso non risultava integrato, perchè al contrario il N. aveva reso volutamente visibile la propria condotta di protesta, cercando di attirare l’attenzione dei passanti e della stessa amministrazione, la quale ne era la destinataria.

Ha aggiunto che anche in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito tipizzato, in ragione del divieto di automatismi espulsivi, il giudice è tenuto ad effettuare il giudizio di proporzionalità ed a tener conto della portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati. Nel caso di specie la condotta non poteva giustificare la sanzione del licenziamento perchè: il lavoratore non aveva inteso ingannare l’ente sulla sua presenza in servizio; le proteste avevano avuto una durata limitata ogni volta a pochi minuti; non era emerso che il dipendente si fosse sottratto a specifici ordini o avesse omesso di attendere alle incombenze demandategli; non si trattava di una reiterazione degli episodi contestati come recidiva, bensì di un comportamento critico assunto nei confronti dell’amministrazione da dipendente pacificamente attivo anche sul versante sindacale.

4. La Corte salernitana ha respinto anche il reclamo proposto in via incidentale dal N. per censurare la statuizione di compensazione delle spese del giudizio di primo grado e, richiamate le sentenze della Corte Costituzionale nn. 77 e 190 del 2018, ha ritenuto che la pronuncia fosse condivisibile alla luce “della peculiarità e della controvertibilità della questione trattata, interessata anche da pronunce chiarificatrici della Suprema Corte intervenute in corso di causa”. Per le medesime ragioni, oltre che per la soccombenza reciproca, ha compensato anche le spese del giudizio di reclamo.

5. Per la cassazione della sentenza il Comune di Pagani ha proposto ricorso sulla base di due motivi, ai quali ha replicato N.M., che ha notificato controricorso, con ricorso incidentale affidato ad un’unica censura.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 “omesso esame e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia; violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a); violazione dei principi di cui al codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni approvato con D.P.R. n. 60 del 2013” e sostiene, in sintesi, che integra giusta causa di licenziamento ogni ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio se compiuta con modalità fraudolente, a prescindere dalla durata temporale dell’assenza. Rileva che il N. aveva utilizzato il badge allontanandosi dal luogo di lavoro e, pertanto, non poteva la Corte territoriale ritenere illegittima la sanzione, tanto più che la condotta era stata pacificamente provata attraverso la produzione documentale. Richiama gli obblighi di correttezza e buona fede ed aggiunge che la Corte territoriale ha anche errato nell’escludere la contestata la recidiva. Infine addebita al giudice del reclamo di avere posto a fondamento della decisione argomenti non fondati sulle risultanze di causa.

2. La seconda censura denuncia “violazione dell’art. 112 c.p.c., e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia ” in relazione al rigetto della richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza del Tribunale, inserito solo nel dispositivo e non motivato.

3. Il ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo, addebita alla Corte territoriale di avere violato gli artt. 91 e 92 c.p.c., nel compensare erroneamente le spese di entrambi gradi del giudizio di merito in difetto delle “gravi ed eccezionali ragioni” richieste dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva n. 77/2018.

4. Il ricorso principale è inammissibile in tutte le sue articolazioni.

Da tempo questa Corte, nell’interpretare il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicchè anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367/2016 e Cass. n. 25750/2016).

La disposizione normativa è stata, inoltre, interpretata alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106 c.c., per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123/2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, prospettata dal Tribunale di Vibo Valentia).

Ai richiamati principi di diritto, condivisi dal Collegio e qui ribaditi, si è correttamente attenuta la Corte territoriale che, come evidenziato nello storico di lite, ha fondato la decisione su una duplice ratio decidendi perchè ha innanzitutto escluso che la condotta fosse sussumibile nell’illecito tipizzato dal legislatore, in quanto non idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, destinatario principale della protesta platealmente inscenata. Ha, poi, ritenuto i profili oggettivi (non si era verificato un reale allontanamento e le manifestazioni di protesta avevano avuto durata ogni volta di pochi minuti) e soggettivi della condotta, tali da non giustificare la sanzione espulsiva irrogata.

4.1. Il primo motivo del ricorso principale, che insiste sulla tassatività delle ipotesi di licenziamento previste dal richiamato art. 55 quater, non si confronta con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte, non coglie pienamente il decisum della sentenza impugnata ed inoltre, per dimostrare l’erroneità della pronuncia, fa leva su argomenti di fatto, non di diritto, che finiscono per sollecitare un giudizio di merito, non consentito al giudice di legittimità.

E’ ius receptum il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (cfr. fra le tante Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass. n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).

Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie perchè, come già detto, la Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), di giusta causa e di proporzionalità della sanzione e gli argomenti sviluppati nel ricorso principale finiscono tutti per prospettare una diversa lettura delle risultanze di causa.

Le censure mosse alla ricostruzione dei fatti esulano dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019 che rinvia a Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018) che assegna rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo, al quale non può essere ricondotta la mancata o l’errata valutazione di una risultanza istruttoria quando il fatto storico sia stato comunque apprezzato dal giudice del merito.

5. Parimenti inammissibile è il secondo motivo del ricorso principale perchè il vizio di omessa pronuncia è ravvisabile solo qualora il giudice ometta di statuire sulla domanda o su eccezioni di merito, mentre non può essere denunciato nel caso in cui la questione non esaminata rilevi unicamente sul piano processuale (Cass. n. 10422/2019; Cass. n. 25154/2018; Cass. n. 6174/2018).

Va aggiunto che il potere di sospensione dell’efficacia della sentenza reclamata, da esercitare in presenza di “gravi motivi”, è finalizzato ad impedire che la decisione gravata, che appare ingiusta ad una delibazione sommaria, produca effetti nelle more del giudizio di appello, esponendo ad un pregiudizio patrimoniale la parte soccombente (Cass. n. 4060/20005). Il provvedimento di sospensione è per definizione temporaneo ed è destinato ad esaurirsi con la sentenza definitiva del giudizio d’impugnazione sicchè il giudice d’appello, nei casi in cui all’udienza di discussione definisca la causa, non è tenuto a provvedere sulla richiesta di sospensione con un’autonoma statuizione della sentenza che definisce il giudizio di impugnazione, perchè quest’ultima, per il suo carattere sostitutivo, assorbe interamente l’efficacia di quella di primo grado (Cass. n. 19708/2015).

6. Merita, invece, accoglimento il ricorso incidentale.

Occorre premettere che la Corte Costituzionale con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”. Nella motivazione della pronuncia la Corte ha precisato che le ipotesi illegittimamente non considerate dal legislatore devono rivestire il carattere di gravità ed eccezionalità al pari di quelle tipizzate, ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, che “hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale” (punto 16 della pronuncia).

Questa Corte ha già affermato che, poichè gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo, la valutazione sulla fondatezza o meno del ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 92 c.p.c., deve tener conto della “situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi” (Cass. n. 4360/2019).

I medesimi principi valgono per il giudizio di appello, qualora nello stesso venga impugnato il regolamento delle spese disposto dalla sentenza gravata, e, quindi, nella fattispecie la Corte territoriale, nel decidere il reclamo incidentale, era tenuta ad applicare l’art. 92 c.p.c., nel testo risultante dalla pronuncia additiva resa dalla Corte Costituzionale, non rilevando la data di pubblicazione della sentenza del Tribunale (4 aprile 2018).

6.1. Ciò premesso, deve essere ribadito l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui le gravi ed eccezionali ragioni, al pari di ogni altra clausola generale, devono essere specificate dal giudice di merito in via interpretativa ed il giudizio, in quanto fondato su norme giuridiche, è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 9977/2019; Cass. n. 23059/2018) e la Corte di Cassazione ha il potere di rilevare l’erroneità o l’illogicità del parametro utilizzato.

Nel caso di specie la sentenza additiva della Corte Costituzionale ha sottolineato la funzione parametrica ed il carattere paradigmatico delle fattispecie tipizzate, esplicative della causa generale, alle quali, all’evidenza, non possono essere equiparate “la peculiarità e la controvertibilità della questione”. Va aggiunto che “le pronunce chiarificatrici” rese da questa Corte sull’interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), hanno richiamato principi già affermati, quanto al divieto di automatismi espulsivi, da Cass. n. 1351 del 26 gennaio 2016, la cui motivazione è riferibile a tutte le ipotesi previste dalla norma di legge, sicchè già al momento dell’instaurazione del giudizio di primo grado la questione era priva del carattere di assoluta novità che può giustificare la pronuncia di compensazione.

6.2. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata limitatamente al regolamento delle spese e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con la condanna del Comune di Pagani al pagamento, in favore di N.M., delle spese processuali di tutti i gradi e le fasi del giudizio, liquidate come da dispositivo, che vanno distratte in favore dell’Avv. Mario Alfano, dichiaratosi antistatario.

Al riguardo ritiene il Collegio che l’art. 384 c.p.c., debba essere interpretato alla luce del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone di non trasferire una causa dall’uno all’altro giudice, quando il giudice rinviante potrebbe da sè solo svolgere le attività richieste al giudice cui la causa è rinviata.

Va anche osservato che in tema di spese processuali l’art. 385 c.p.c., comma 2, accorda ampi poteri alla Corte e le consente di accertare e liquidare non solo le spese del giudizio di legittimità, ma anche quelle dei gradi di merito, quando la sentenza impugnata sia cassata senza rinvio, sicchè sarebbe del tutto illogico imporre il giudizio di rinvio, al solo fine di provvedere ad una liquidazione che, in quanto ancorata a parametri di legge, ben può essere direttamente compiuta dal giudice di legittimità (Cass. n. 1761/2014 e Cass. n. 211/2016).

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente principale.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale e dichiara inammissibile il ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso ed al motivo accolto e decidendo nel merito condanna il Comune di Pagani a rifondere a N.M. le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, con distrazione in favore del procuratore antistatario Avv. Mario Alfano, liquidate quanto al primo grado (fase sommaria e giudizio di opposizione) in complessivi Euro 200,00 per esborsi ed Euro 7.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge; quanto al reclamo in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Condanna il Comune di Pagani al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge, da distrarre in favore del procuratore antistatario Avv. Mario Alfano.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2021


Incontro rinnovo contrattuale comparto funzioni locali

Si svolgerà lunedì 24 p.v. in modalità webinar l’incontro, da noi richiesto, con le segreterie nazionali della Funzione Pubblica- Enti Locali di CGIL, CISL e UIL sui temi del prossimo rinnovo contrattuale, con particolare riguardo all’inquadramento dei messi comunali nell’ambito della classificazione dei dipendenti degli enti locali.
Come più volte esplicitato anche in sedi autorevoli, consideriamo la collocazione dei messi in Cat. B ormai ampiamente superata alla luce dell’evoluzione legislativa e tecnologica che ha trasformato, rendendolo sempre più impegnativo, il ruolo del messo comunale e notificatore.
Intendiamo mettere a disposizione delle organizzazioni sindacali il prezioso contributo di idee ed esperienze dei nostri associati, attivando un utile confronto con i soggetti titolari della contrattazione che si sono mostrati interessati e disponibili a valutare le nostre proposte.
Sarà nostra cura dare tempestiva informazione sugli sviluppi del confronto.

Partecipano:

DE GREGORIO DAVIDE – U.I.L.
GALANTE BRUNO – U.I.L
PURIFICATO ALESSANDRO – C.G.I.L.
SANTOMASSIMO ANTONIO – C.G.I.L.
COSENTINO GIANCARLO – C.I.S.L.
CARUSO GERMANA – C.I.S.L.
Componenti la Giunta Esecutiva di A.N.N.A.

Leggi: Richiesta incontro cgil cisl uil su inquadramento contrattuale messi comunali


Rinnovo contrattuale. Incontro con le OO.SS. del 24.05.2021

Incontro, in modalità webinar, con le segreterie nazionali della F. P. – Enti Locali di CGIL, CISL e UIL sui temi del prossimo rinnovo contrattuale, con particolare riguardo all’inquadramento dei messi comunali nell’ambito della classificazione dei dipendenti degli enti locali, Lunedì 24 maggio 2021 ore 16:00.

Partecipano:

DE GREGORIO DAVIDE – UIL

GALANTE BRUNO – UIL

PURIFICATO ALESSANDRO – CGIL

SANTOMASSIMO ANTONIO – CGIL

COSENTINO GIANCARLO – CISL

CARUSO GERMANA – CISL

Componenti la Giunta Esecutiva di A.N.N.A.


DOCUMENTI INFORMATICI – Prorogata la data di entrata in vigore delle linee guida

Prorogato al 1° gennaio 2022 il termine a decorrere dal quale sarà obbligatoria l’adozione delle Linee Guida su formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici.
Lo ha stabilito l’Agenzia per l’Italia digitale (AgID) con la determinazione n. 371 del 18 maggio 2021, posticipando così la scadenza originariamente stabilita al 7 giugno 2021.

A seguito di numerose interlocuzioni e richieste di modifica provenienti da associazioni di categoria e amministrazioni, per quanto attiene in particolare, AgID ha introdotto alcuni importanti cambiamenti nell’ottica della semplificazione, ai fini della gestione e individuazione dei metadati che devono accompagnare i documenti informatici fin dalla loro formazione aggiornando gli Allegati 5 (Metadati) e 6 (Comunicazione tra AOO di Documenti Amministrativi Protocollati) e ha, inoltre, provveduto alla correzione di alcuni refusi nel testo delle Linee guida.


AGID: DETERMINAZIONE N. 371/2021

OGGETTO: Modifiche testo Linee Guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici, allegato 5 – Metadati, allegato 6 – Comunicazione tra AOO di Documenti Amministrativi Protocollati ed estensione dei termini di entrata in vigore.
IL DIRETTORE GENERALE
VISTI gli articoli 19 (Istituzione dell’Agenzia per l’Italia Digitale), 21 (Organi e statuto), 22 (Soppressione di DigitPA e dell’Agenzia per la diffusione delle tecnologie per l’innovazione;
successione dei rapporti e individuazione delle effettive risorse umane e strumentali) del decreto legge n. 83 del 22 giugno 2012, recante “Misure urgenti per la crescita del Paese”, convertito, con modificazioni, nella legge n. 134 del 7 agosto 2012 e s.m.i. e l’articolo 14-bis (Agenzia per l’Italia digitale) del decreto legislativo n.82 del 7 marzo 2005 (Codice dell’amministrazione digitale) e s.m.i.;
VISTO il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri dell’8 gennaio 2014 (pubblicato sulla GURI n. 37 del 14 febbraio 2014), che ha approvato lo Statuto dell’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID);
VISTO il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 9 gennaio 2015, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 82 del 9 aprile 2015, concernente la “Determinazione delle dotazioni delle risorse umane, finanziarie e strumentali dell’Agenzia per l’Italia digitale”, adottato ai sensi dell’articolo 22,
comma 6, del decreto-legge n. 83 del 2012;
VISTO il decreto 20 aprile 2021 del Ministro per l’innovazione tecnologica e la transizione digitale, registrato dalla Corte dei Conti in data 28 aprile 2021 n.996, con il quale è confermato l’incarico di Direttore Generale dell’Agenzia per l’Italia digitale all’ing. Francesco Paorici, conferito con D.P.C.M. del 16 gennaio 2020, ai sensi dell’art.21, comma 2, del decreto legge 22 giugno 2012 n.83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012 n.134;
VISTO il decreto legislativo n. 82/2005, come integrato e modificato dal decreto legislativo 217/2017, art. 14-bis, comma 2 lett. a) in base al quale AgID svolge, tra le altre, le funzioni di:
“Emanazione di linee guida contenenti regole, standard e guide tecniche, nonché di indirizzo, vigilanza e controllo sull’attuazione e sul rispetto delle norme di cui al presente Codice, anche attraverso l’adozione di atti amministrativi generali, in materia di agenda digitale, digitalizzazione della pubblica amministrazione, sicurezza informatica, interoperabilità e cooperazione applicativa tra sistemi informatici pubblici e quelli dell’Unione europea”;
VISTO il decreto legislativo n. 82/2005, come integrato e modificato dal decreto legislativo 217/2017, art. 71, che indica la procedura con cui sono adottate, aggiornate o modificate dall’AgID le Linee guida contenenti le regole tecniche e di indirizzo per l’attuazione del Codice dell’amministrazione digitale;
VISTA la determinazione n. 160/2018 con la quale AgID ha adottato il “Regolamento per l’adozione di linee guida per l’attuazione del Codice dell’Amministrazione Digitale”;2
VISTA la determinazione n. 407/2020 con la quale AgID ha adottato le nuove “Linee guida per la formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici” avendo esperita la procedura di informazione prevista dalla Direttiva (UE) 2015/1535, e dalla Legge 317/86 come modificata con D.lgs. 223/2017, nel settore delle regolamentazioni tecniche e delle regole relative ai servizi della società dell’informazione e la consultazione pubblica dal 17 ottobre al 16 novembre 2019, ai sensi dell’articolo 71 del decreto legislativo n. 82/2005, come integrato e modificato dal decreto legislativo 217/2017, nonché avendo sentito l’Autorità garante per la protezione dei dati personali e il Ministero per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione, nelle materie di competenza e avendo acquisito il parere della Conferenza Unificata sullo schema di Linee guida ai sensi dell’articolo 71 del decreto legislativo n. 82/2005, come integrato e modificato dal decreto legislativo 217/2017;
CONSIDERATE le numerose interlocuzioni e richieste di modifica provenienti da associazioni di categoria e Amministrazioni per quanto attiene in particolare all’Allegato 5 – Metadati e Allegato 6 – Comunicazione tra AOO di Documenti Amministrativi Protocollati alle predette Linee guida;
RITENUTO opportuno recepire talune delle suddette richieste di modifica al fine di agevolare il processo di adeguamento alle nuove disposizioni;
RITENUTO, altresì, necessario posticipare contestualmente la data di entrata in vigore delle Linee guida per la formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici al fine di consentire a soggetti pubblici e privati di adeguarsi alle modifiche introdotte con il presente provvedimento;
DETERMINA
1. di modificare l’Allegato 5 – Metadati alle Linee Guida per la formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici e di pubblicare il nuovo testo sul sito istituzionale di AgID;
2. di modificare l’Allegato 6 – Comunicazione tra AOO di Documenti Amministrativi Protocollati alle Linee Guida per la formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici e di pubblicare il nuovo testo sul sito istituzionale di AgID;
3. di correggere taluni errori materiali contenuti nel testo delle Linee Guida e pubblicare la nuova versione sul sito istituzionale di AgID;
4. di approvare un documento contenente la sintesi delle suddette modifiche e di disporne la pubblicazione sul sito istituzionale di AgID, in allegato al presente provvedimento;
5. di posticipare la data di entrata in vigore delle Linee guida e relativi allegati, precedentemente fissata al 7 giugno 2021, al 1 gennaio 2022.

Testo: AGID dg n. 371 modifiche allegati e proroga termini di adozione


Riunione Giunta Esecutiva del 22.05.2021

Ai sensi dell’art. 14 dello Statuto, viene convocata la riunione della Giunta Esecutiva che si svolgerà sabato 22 maggio 2021 alle ore 14:00, in modalità webinar, in prima convocazione, e alle ore 16:00 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:
1.Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2021;
2.Iniziativa sulla valorizzazione del Messo Comunale/Notificatore;
3.Varie ed eventuali.

 

Leggi: GE 22 05 2021 Verbale


Comm. trib. regionale Campania Napoli Sez. XXIII, Sent., 18-05-2021, n. 4291

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

COMM. TRIB. REG. PER LA CAMPANIA

VENTITREESIMA SEZIONE/COLLEGIO

Con ricorso alla C.T.P. di Napoli …omissis… impugnava nei confronti dell’Agenzia delle Entrate D.P. Il di Napoli nonché di Agenzia Riscossione della Provincia di Napoli Equitalia sud, il preavviso di iscrizione di fermo amministrativo n. 07180201500051577000, notificato il 6 luglio 2015, nonché l’avviso di accertamento n. TF501AL054068/2014 in esso richiamato, relativo ad IRPEF e IRAP per l’anno di imposta 2009, eccependo in via preliminare trattarsi del primo atto con il quale egli era venuto a conoscenza della pretesa dell’Ufficio, non essendogli mai stato in precedenza notificato l’avviso di accertamento in questione. A sostegno dell’impugnazione deduceva tra l’altro il contribuente, unitamente alla illegittimità dell’atto impositivo per violazione del diritto di difesa e per carenza di potere del funzionario emittente, la decadenza dell’Amministrazione Finanziaria, nonché l’infondatezza anche nel merito dell’atto presupposto, concludendo con la richiesta di annullamento del preavviso di fermo e dell’avviso di accertamento impugnati, con vittoria di spese.
Nel procedimento così introdotto si costituiva l’Agenzia delle Entrate documentando l’avvenuta notifica dell’accertamento in data 27.11.2014 mediante consegna a mani proprie del destinatario, e conseguentemente concludendo per l’inammissibilità del ricorso.
Nessuno si costituiva invece per l’Agenzia Riscossione. Depositata quindi dal ricorrente copia della querela di falso proposta dinanzi al Tribunale di Torre Annunziata per accertare la non autenticità della firma in calce alla relata di notifica dell’accertamento impugnato, con sentenza n. 11280 depositata in data
20.6.2016 e non notificata la CTP disattendeva l’istanza di sospensione del processo proposta dal …omissis… e rigettava il ricorso.
Avverso l’indicata sentenza proponeva appello il contribuente deducendo la violazione dell’art. 39 D. L.gs. N. e l’omessa motivazione della sentenza, nonché in ogni caso l’erroneità nel merito della 546/1992 decisione, così insistendo per l’accoglimento dell’originario ricorso e l’annullamento degli atti impugnati.
Nel giudizio di gravame si costituiva l’Agenzia delle Entrate D.P. II di Napoli che eccepiva l’infondatezza dell’impugnazione chiedendone il rigetto.
Disposta la fissazione dell’udienza di discussione del ricorso, e successivamente la sospensione del procedimento ex art. 39 D. L.gs. N. 546/1992, con istanza depositata in data 11.2.2021 l’appellante comunicava l’intervenuta definizione del procedimento per querela di falso promosso dinanzi al Tribunale di Torre Annunziata, e chiedeva la prosecuzione del presente procedimento, per la qual cosa veniva fissata l’udienza di trattazione per il 4/5/2021 ex art. 27 D_L n. 137/2020, in vista della quale il …omissis… depositava memoria illustrativa alla quale nulla replicava l’Ufficio.
All’udienza la Commissione decideva come da dispositivo.
Motivi della decisione
Rileva la Commissione che l’appello deve ritenersi fondato e meritevole pertanto di accoglimento.
Ed invero l’appellante ha documentalmente provato che con sentenza n. 303 pubblicata il 7/2/2020, non opposta da nessuna delle parti e quindi passata in giudicato (v. attestazione dell’Ufficio giudiziario competente), il Tribunale di Torre Annunziata ha dichiarato non autografa la firma a nome di …omissis… apposta in calce alla relazione di notificazione dell’avviso di accertamento indicato in narrativa, emesso nei confronti del suddetto contribuente. Per effetto di detta pronuncia la dedotta notifica dell’avviso di accertamento risulta inesistente, e pertanto improduttiva di effetti giuridici, con conseguente nullità del preavviso di fermo impugnato nel presente procedimento, per inesistenza dell’atto presupposto e della stessa pretesa tributaria che costituisce oggetto dell’avviso di accertamento emesso nei confronti del …omissis…, per decadenza dell’Ufficio ex art. 43 DPR n. 600/1973. A questo proposito giova infatti rilevare che, trattandosi nella specie di “inesistenza” della notifica dell’atto impositivo, giammai potrebbe ravvisarsi una ipotetica sanatoria del vizio rilevato. Del resto, anche a voler ammettere l’applicabilità ai caso in esame dell’art. 156 c.p.c. in tema di “raggiungimento dello scopo”‘, la sanatoria non potrebbe che ritenersi intervenuta dal momento della notifica del preavviso di fermo amministrativo {e non dal momento di proposizione del ricorso, come sostenuto dall’appellante …omissis…), e quindi alla data del 6 luglio 2015, allorché era già maturato il termine di decadenza previsto per l’Ufficio dalla citata norma, che nella versione vigente all’epoca dei fatti era fissato al “31 dicembre del quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione”, venendo pertanto a scadere ii 31.12.2014.
In accoglimento dell’appello la sentenza gravata, inopportunamente emessa dal giudice senza sospendere il processo in attesa dell’esito del procedimento per querela di falso promosso dal contribuente, deve pertanto essere riformata con l’integrale accoglimento del ricorso introduttivo del M.
Le spese di entrambi i gradi di giudizio, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza, con attribuzione ai difensori antistatari.

P.Q.M.
In accoglimento dell’appello e in riforma della sentenza gravata, accoglie il ricorso introduttivo del Xxxxx, annulla gli atti impugnati e dichiara la illegittimità della pretesa impositiva oggetto dell’avviso di accertamento n. (…). Condanna gli uffici appellati, in solido tra loro, al rimborso in favore del contribuente delle spese di entrambi i gradi di giudizio, liquidando quelle del primo grado in complessivi Euro duemila,00 e quella della fase di appello in Euro duemilacinquecento,00 oltre C.U. e accessori come per legge, con attribuzione agli avv.ti. Xxxx Xxxxx e Xxxx Xxxxx, anticipatari.

Così deciso in Napoli, il 4 maggio 2021.


L’iscrizione a ruolo non interrompe la prescrizione

In tema di imposta di registro, il decorso del termine prescrizionale decennale per la riscossione dell’imposta definitivamente accertata non può ritenersi interrotto dalla sola formazione del ruolo da parte dell’Amministrazione finanziaria ma solo dalla notifica della relativa cartella di pagamento.
Il principio è desumibile dalla Sentenza n. 11605 del 4 maggio 2021.
La vicenda giudiziaria trae origine dal ricorso avverso una cartella di pagamento notificata dalla società Equitalia Servizi di riscossione s.p.a. per somme dovute a titolo di imposta di registro, con cui il contribuente ha eccepito la prescrizione della pretesa tributaria.
Il ricorso è stato respinto sia dalla Commissione Tributaria Provinciale che Regionale sul rilievo che il termine prescrizionale decennale era stato interrotto dalla notifica dell’avviso di liquidazione, nel termine triennale prescritto dall’art. 76 del D.P.R. n. 131/1986, con la conseguente reiezione dell’eccezione di decadenza sollevata dalla contribuente.
Per quanto di interesse la Commissione Tributaria Regionale ha affermato anche che il termine prescrizionale era stato interrotto non solo dalla notifica dell’atto impositivo ma anche a seguito dell’iscrizione a ruolo del debito tributario. È proprio su tale punto si è espressa la Corte di Cassazione dopo il ricorso proposto dal contribuente, accogliendo i relativi motivi di doglianza.
A riguardo il Collegio di legittimità ha richiamato il principio per cui, il termine decennale previsto per la riscossione dell’imposta di registro definitivamente accertata di cui all’art. 78 del d.P.R. n. 131/1986, “non può ritenersi interrotto dalla sola formazione del ruolo da parte dell’Amministrazione finanziaria, atteso che, ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 2943 cod. civ., la prescrizione dei diritti è interrotta solo da un atto che valga a costituire in mora il debitore e, quindi, avente carattere recettizio, mentre l’iscrizione a ruolo di un tributo resta un atto interno dell’amministrazione”.
In altri termini, in materia di riscossione delle imposte, solo la prova della notificazione della cartella esattoriale è atto idoneo ad interrompere la prescrizione del credito tributario perché atto recettizio, in linea con l’art. 2943 co. 2 c.c. che prevede che la prescrizione è interrotta da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore.
Nella fattispecie in commento, la prescrizione – già interrotta dalla notifica dell’avviso di liquidazione – decorre dalla data in cui l’avviso è stato notificato. Il nuovo atto interruttivo da considerare non è certamente l’iscrizione a ruolo, bensì la consegna della cartella all’ufficiale postale per la notifica.
Sulla base di tali motivazioni la Corte di Cassazione ha cassato la sentenza impugnata con rimessione degli atti alla Commissione Tributaria Regionale, in diversa composizione, per il riesame della controversia nonché per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-01-2021) 04-05-2021, n. 11605

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

Dott. MARTORELLI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2340-2017 proposto da:

D.V.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di Cassazione rappresentata e difesa dall’avvocato ALFREDO LUPO;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA 91, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BEATRICE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO AMODIO;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5474/2016 della COMM. TRIB. REG. CAMPANIA, depositata il 13/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/01/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO.

Svolgimento del processo
1. D.V.M.R. impugnava la cartella di pagamento notificata dalla società Equitalia Servizi di riscossione s.p.a. per somme dovute a titolo di registro relativo al provvedimento su lodo arbitrale emesso dal tribunale di Napoli nell’anno 2001, eccependo la prescrizione della pretesa tributaria. La CTP di Napoli respingeva il ricorso.

Proposto appello dalla contribuente, la CTR della Campania lo respingeva sul rilievo che intervenuta che il termine prescrizionale decennale era stato interrotto dalla notifica dell’avviso di liquidazione del 15 ottobre 2003, nel termine triennale prescritto dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 76, con la conseguente reiezione dell’eccezione di decadenza pure sollevata dalla contribuente. In particolare, la CTR affermava che: – l’avviso di liquidazione non era stato impugnato rendendo così definitiva la pretesa tributaria; – che dalla data del 6 dicembre 2003, ovvero decorso il termine di sessanta giorni dalla notifica del predetto atto, iniziava a decorrere la prescrizione decennale citato D.P.R., ex art. 78; – che l’ufficio aveva effettuato l’iscrizione a ruolo in data 17 ottobre 2013 che aveva nuovamente interrotto il termine prescrizionale; – che divenuto definitivo l’avviso prodromico, la successiva cartella non costituisce nuovo atto impositivo per cui è sindacabile solo per vizi propri che, nella specie, non erano stati eccepiti, avendo la ricorrente opposto l’atto solo censurando l’esercizio della potestà accertativa.

D.V.M.R. chiede sulla base di tre motivi, illustrati nelle memorie difensive, la cassazione della sentenza n. 5474/2016/ depositata il 13 giugno 2016.

La società concessionaria e l’Agenzia delle Entrate resistono con controricorso.

Motivi della decisione
2. Con il primo motivo, la contribuente denuncia violazione e falsa applicazione del T.U. Registro D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 76 e 78, nonchè dell’art. 2953 c.c., per avere la CTR ritenuto applicabile alla fattispecie il termine decennale di prescrizione di cui al citato art. 78, in rubrica, ancorchè questa Corte a sezioni unite – con la sentenza n. 23397/2016 – abbia statuito che la mancata contestazione del titolo determina la decadenza dalla possibilità di proporre l’impugnazione, producendo l’effetto della irretrattabilità del credito senza determinare anche l’effetto della c. conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario.

Assume al riguardo che il disposto di cui al citato art. 78, stabilisce che il termine prescrizionale decennale riguarda solo le imposte definitivamente accertate, il che implica che il termine lungo si applica solo per effetto del conseguente accertamento in via definitiva dell’imposta, attraverso l’adozione di un provvedimento giurisdizionale che ne abbia accertato in via definitiva la legittimità dell’atto impositivo.

2. Con la seconda e terza censura, si deduce la violazione dell’art. 2943 c.c., in relazione al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 79, laddove la CTR della Campania ha ritenuto che l’iscrizione a ruolo della cartella produca l’effetto di interrompere i termini di prescrizione, individuando il dies a quo del primo termine prescrizionale in quello di scadenza del sessantesimo giorno per l’impugnazione dell’avviso di liquidazione e non in quello di notifica del primo atto ((OMISSIS)).

Sostenendo altresì che la CTR avrebbe dovuto considerare il giorno della notifica della cartella ((OMISSIS)) e non quello della sua iscrizione a ruolo, ai fini del calcolo del termine decennale, decorrente, ad avviso della contribuente, dalla data della notifica dell’avviso di liquidazione ((OMISSIS)) con la conseguenza che nemmeno l’iscrizione a ruolo della cartella avrebbe interrotto il termine prescrizionale ormai compiuto.

5. La prima censura è destituita di fondamento.

Come ribadito dalle S.U. n. 23397/2016 richiamate dalla medesima ricorrente, “la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”; è di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale principio, pertanto, si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonchè di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonchè delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo”.

Nel caso in esame, il termine prescrizionale previsto per l’imposta di registro è quello decennale di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78.

In tema IRPEF, IVA, IRAP ed imposta di registro, il credito erariale per la loro riscossione si prescrive nell’ordinario termine decennale assumendo rilievo, quanto all’imposta di registro, l’espresso disposto di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, e, quanto alle altre imposte dirette, l’assenza di un’espressa previsione, con conseguente applicabilità dell’art. 2946 c.c., non potendosi applicarsi il termine quinquennale previsto dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4 “per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, in quanto l’obbligazione tributaria, pur consistendo in una prestazione a cadenza annuale, ha carattere autonomo ed unitario ed il pagamento non è mai legato ai precedenti bensì risente di nuove ed autonome valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti impositivi (Cass. n. 12740/2020; Cass. n. 33266 del 2019; Cass. n. 32308 del 2019).

In particolare, poi, questa Corte ha ribadito che in tema di imposta di registro, una volta divenuto definitivo l’avviso di rettifica e liquidazione per mancata impugnazione, ai fini della riscossione del credito opera unicamente il termine decennale di prescrizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, non trovando applicazione nè il termine triennale di decadenza previsto dal detto decreto, art. 76, concernente l’esercizio del potere impositivo, nè il termine di decadenza contemplato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, in quanto l’imposta di registro non è ricompresa tra i tributi ai quali fa riferimento il D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 23 (che ha esteso le disposizioni di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, comma 1, quanto all’iscrizione a ruolo a titolo provvisorio, e art. 25, comma 1, quanto ai termini di decadenza, solo all’IVA; v. Cass. n. 27698/2020; Cass., 11 maggio 2018, n. 11555; Cass., 30 giugno 2016, n. 13418; Cass., 24 settembre 2014, n. 20153; Cass., 9 luglio 2014, n. 15619; Cass., 6 giugno 2014, n. 12748; Cass., 2 dicembre 2013, n. 27028) Accertata la definitività dell’avviso di liquidazione, alcuna rilevanza può assumere l’eventuale notifica del primo atto tributario oltre il termine triennale prescritto dal citato art. 76, doglianza che avrebbe dovuto essere proposta con l’impugnazione dell’atto medesimo.

6. Meritano accoglimento le ultime due censure.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte “In tema di imposta di registro, il decorso del termine prescrizionale decennale per la riscossione dell’imposta definitivamente accertata, previsto dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, non può ritenersi interrotto dalla sola formazione del ruolo da parte dell’Amministrazione finanziaria, atteso che, ai sensi dell’art. 2943 c.c., u.c., la prescrizione dei diritti è interrotta solo da un atto che valga a costituire in mora il debitore e, quindi, avente carattere recettizio, mentre l’iscrizione a ruolo di un tributo resta un atto interno dell’amministrazione(Cass. n. 14301/2009; sulla natura della iscrizione a ruolo v. Cass. n. 315/2014; Cass. n. 23261/2020).

Anche Cass. sez. V, n. 17248 del 2017, non ha mancato di specificare che, in materia di riscossione delle imposte, la prova della notificazione della cartella esattoriale è atto idoneo ad interrompere la prescrizione del credito tributario.

L’art. 2943 c.c., comma 2, prevede che la prescrizione è interrotta da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore: per effetto dell’interruzione, decorre un ulteriore periodo di prescrizione; dunque, la notifica della cartella di pagamento o dell’accertamento esecutivo o di altri atti emessi sia dall’ente creditore che dall’Agente della riscossione, ove si intima il pagamento degli importi, interrompono la prescrizione.

Pertanto, nella fattispecie, la prescrizione – già interrotta dalla notifica dell’avviso di liquidazione – decorre dalla data in cui l’avviso è stato notificato. Il nuovo atto interruttivo da considerare non è certamente l’iscrizione a ruolo, bensì la consegna della cartella all’ufficiale postale per la notifica, data che nè dal ricorso nè dalla sentenza impugnata è dato evincere All’accoglimento del secondo e del terzo motivo segue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio degli atti alla CTR della Campania, in diversa composizione, per il riesame della controversia (in particolare, per accertare l’eventuale estinzione del credito alla luce dell’eccepita prescrizione, considerando il dies a quo ed il dies a quem indicati in sentenza).

P.Q.M.
Accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, respinto il primo; cassa la sentenza impugnata e rimette gli atti alla CTR della Campania, in diversa composizione, per il riesame della controversia nonchè per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della quinta sezione civile Corte di Cassazione in ROMA, tenuta da remoto, il 21 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021


Contrasto tra copia notificata ed originale in possesso dell’ufficio

L’avviso di accertamento notificato al contribuente senza alcune pagine, e quindi privo di dati essenziali, risulta nullo, anche se la copia originale in possesso dell’Ufficio è corretta. Lo chiarisce la Corte di Cassazione con la sentenza numero 10860 del 23 aprile 2021