Corte Costituzionale n. 238 del 16.07.2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco AMIRANTE Presidente

– Ugo DE SIERVO Giudice

– Paolo MADDALENA “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

– Paolo GROSSI “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promossi con ordinanze del 17 luglio 2008 dal Giudice di pace di Catania e del 7 novembre 2008 dalla Commissione tributaria provinciale di Prato, rispettivamente iscritte al n. 445 del registro ordinanze 2008 e al n. 21 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 e n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 giugno 2009 il Giudice relatore Franco Gallo.

1. – Nel corso di un giudizio di opposizione all’esecuzione proposto ai sensi dell’art. 615 del codice di procedura civile, il Giudice di pace di Catania, con ordinanza depositata il 17 luglio 2008 (r.o. n. 445 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, primo comma, 102, secondo comma, e VI disposizione transitoria della Costituzione, questioni di legittimità dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 – nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie relative alla debenza del canone […] per lo smaltimento di rifiuti urbani».

1.1. – Il Giudice di pace rimettente premette, in punto di fatto, che:

a) il contribuente si è opposto, ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., al diritto del Comune di Catania di procedere, a séguito della notificazione di una cartella di pagamento, alla riscossione coattiva «della tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani, oggi tariffa di igiene ambientale (TIA), per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000»;

b) la convenuta s.p.a. SERIT Sicilia, agente della riscossione per la provincia di Catania, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adíto, essendo la controversia devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992.

1.2. – Il medesimo giudice rimettente premette altresì, in punto di diritto, che:

a) «con l’emanazione del cosiddetto decreto Ronchi» (art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, recante «Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio») la tassa sui rifiuti solidi urbani (TARSU), disciplinata dall’art. 58 del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, è stata sostituita con un prelievo di natura non più tributaria, ma privatistica, cioè con la tariffa di igiene ambientale (TIA), determinata in base al costo complessivo del servizio, «al fine di far pagare agli utenti il costo del reale servizio usufruito»;

b) la natura non tributaria della TIA è desumibile sia dalla denominazione di «tariffa» sia dalla sua determinazione quantitativa in ragione della copertura del costo del servizio, a nulla rilevando – contrariamente a quanto affermato dalla Corte di cassazione con le sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006 – né il fatto che la sua disciplina presenterebbe elementi di natura tributaria e non tributaria né il fatto che essa subentra alla TARSU, cioè ad una entrata avente indiscussa natura tributaria.

1.3. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma che la norma censurata – nell’attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie, di natura non tributaria, in materia di TIA – «comporta lo snaturamento della giurisdizione tributaria e, quindi, la violazione» degli evocati parametri costituzionali, perché, come più volte affermato dalla Corte costituzionale, «la giurisdizione del giudice tributario deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto» (sentenza n. 64 del 2008; ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006).

1.4. – Quanto alla rilevanza, il Giudice di pace osserva che la decisione sulla controversia «non potrà prescindere dall’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal convenuto, eccezione la cui fondatezza dipende dall’applicabilità, nel giudizio principale, della disposizione censurata».

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Giudice di pace di Catania ed ha chiesto dichiararsi manifestamente inammissibili, per difetto di motivazione, le questioni sollevate in riferimento al primo comma dell’art. 25 ed alla VI disposizione transitoria Cost., nonché manifestamente infondata quella sollevata in riferimento al secondo comma dell’art. 102 Cost. In particolare, in relazione a quest’ultima questione, la difesa erariale afferma che:

a) l’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 ha soppresso, in attuazione di direttive comunitarie, la «tassa per lo smaltimento dei rifiuti urbani» ed ha istituito una «tariffa» per la copertura dei costi del servizio di smaltimento;

b) l’art. 238 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nel quale – sempre per la difesa erariale – «è stata trasfusa la disciplina della tariffa», «non presenta […] caratteri di sostanziale diversità rispetto alla previgente “tassa per lo smaltimento dei rifiuti”, considerata la sostanziale identità del presupposto oggettivo e dei soggetti passivi, nonché la confermata obbligatorietà del prelievo»;

c) l’obbligo del privato di pagare detta tariffa scaturisce, pertanto, da un fatto individuato direttamente dalla legge e non da un titolo contrattuale o da un fatto comunque fonte di un rapporto negoziale;

d) inoltre, la tariffa prevede la copertura di costi (come ad esempio le spese di spazzamento delle strade) estranei alla logica della corrispondenza tra costi e benefici e riferibili, piuttosto, alla collettività;

e) la tariffa, dunque, in considerazione della doverosità e del fondamento solidaristico della prestazione, va qualificata come “tassa”, cioè come una forma di finanziamento di un servizio pubblico attraverso l’imposizione dei relativi costi sull’area sociale che da tale servizio riceve, nel suo insieme, un beneficio.

3. – Nel corso di due giudizi riuniti aventi ad oggetto l’impugnazione, da parte del medesimo contribuente, di avvisi di pagamento della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 e relativa agli anni 2007 e 2008, la Commissione tributaria provinciale di Prato, con ordinanza depositata il 7 novembre 2008 (r.o. n. 21 del 2009), ha sollevato, in riferimento all’art. 102, secondo comma, Cost., questione di legittimità del citato art. 2, comma 2, secondo periodo, del d. lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie in materia di TIA.

3.1. – La Commissione tributaria rimettente premette, in punto di diritto, che:

a) con le sentenze n. 130 e n. 64 del 2008 e con l’ordinanza n. 34 del 2006, la Corte costituzionale ha sottolineato che l’attribuzione della giurisdizione alle commissioni tributarie è imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto;

b) la tariffa prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006 («già art. 49 d.Lgs. n. 22/1997») non ha natura tributaria, ma di «corrispettivo per il servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani» (comma 1) ed è costituita da due quote, una commisurata alle componenti essenziali del costo del servizio (investimenti, ammortamenti), l’altra «rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti» (comma 4), così da assicurare «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (stesso comma 4);

c) il mero dato formale costituito dal fatto che il comma 15 del menzionato art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 richiama, per la riscossione coattiva della tariffa, le norme per la riscossione delle imposte sul reddito (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) non è sufficiente ad escludere che la suddetta tariffa abbia la natura di corrispettivo di un servizio, commisurato al costo di questo ed all’entità della sua fruizione da parte del privato;

d) tuttavia, le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 4895 del 2006, hanno affermato che, in forza della disposizione denunciata, le controversie relative alla debenza della TIA sono devolute alla giurisdizione delle commissioni tributarie.

3.2. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma che tale ultima disposizione – nell’attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie, di natura non tributaria, in materia di TIA – si risolve nella creazione di un nuovo giudice speciale e, quindi, víola l’evocato parametro costituzionale.

4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto anche in questo giudizio ed ha chiesto dichiararsi la questione manifestamente inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. Per la difesa erariale, l’inammissibilità deriva dal difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto nell’ordinanza di rimessione manca l’esposizione dei fatti di causa e dei termini della controversia; l’infondatezza deriva, invece – per le medesime considerazioni svolte nell’atto di intervento nel giudizio di costituzionalità promosso dal Giudice di pace di Catania – dalla natura tributaria della tariffa prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006.

Motivi della decisione

1. – Il Giudice di pace di Catania (r.o. n. 445 del 2008) dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui dispone che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie relative alla debenza del canone […] per lo smaltimento di rifiuti urbani» e, quindi, della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/ CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).

Il Giudice di pace rimettente afferma che la disposizione denunciata víola:

a) l’art. 25, primo comma, della Costituzione;

b) la VI disposizione transitoria della Costituzione;

c) l’art. 102, secondo comma, Cost. In particolare, tale ultimo parametro sarebbe violato, perché la disposizione censurata, attribuendo alla cognizione delle commissioni tributarie le controversie concernenti la TIA, la quale non è qualificabile come “tributo”, comporterebbe «lo snaturamento della giurisdizione tributaria […], imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto».

2. – La Commissione tributaria provinciale di Prato (r.o. n. 21 del 2009) dubita della legittimità costituzionale della medesima disposizione denunciata dal Giudice di pace di Catania.

Per il rimettente, la suddetta disposizione víola l’art. 102, secondo comma, Cost., perché attribuisce alla cognizione delle commissioni tributarie controversie che non hanno ad oggetto tributi e, pertanto, «si risolve nella creazione di un nuovo giudice speciale», vietata da tale parametro.

3. – L’identità della disposizione denunciata dai due giudici rimettenti e la parziale coincidenza sia delle censure prospettate, sia dei parametri costituzionali evocati, sia delle argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione, rendono opportuna la riunione dei giudizi, al fine di esaminare e decidere congiuntamente le questioni.

4. – Le questioni sollevate dal Giudice di pace di Catania (r.o. n. 445 del 2008) sono manifestamente inammissibili.

4.1. – Con riferimento agli evocati art. 25, primo comma, Cost. e VI disposizione transitoria della Costituzione, il rimettente non indica le ragioni della denunciata illegittimità costituzionale. Da ciò consegue la manifesta inammissibilità di tali questioni.

4.2. – Con riferimento al parimenti evocato secondo comma dell’art. 102 Cost., il rimettente afferma che:

a) il giudizio principale è stato instaurato ai sensi dell’art. 615 del codice di procedura civile, come opposizione al diritto del Comune di Catania di procedere alla riscossione coattiva del credito risultante da una cartella di pagamento notificata al debitore;

b) tale credito riguarda «la tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani, oggi tariffa di igiene ambientale (TIA), per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000».

4.2.1. – In relazione all’affermazione sub a) – secondo cui il giudizio principale è stato instaurato ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. -, va rilevato che sia l’art. 72, comma 5, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, con riferimento alla TARSU, sia l’art. 49, comma 15, del d.lgs. n. 22 del 1997, con riferimento alla TIA, fanno espresso rinvio, per la disciplina della riscossione di tali prelievi, al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte su reddito). In particolare, l’art. 57, comma 1, alinea e lettera a), di detto decreto presidenziale stabilisce che «Non sono ammesse: […]

a) le opposizioni regolate dall’art. 615 del codice di procedura civile, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni». Il rimettente, tuttavia, qualifica espressamente l’azione proposta dal contribuente non come opposizione agli atti esecutivi, ma come opposizione regolata dall’art. 615 cod. proc. civ., ed inoltre non precisa se essa abbia ad oggetto la pignorabilità dei beni. L’ordinanza, pertanto, è priva di motivazione sulle ragioni per le quali il Giudice di pace – nonostante il citato chiaro disposto dell’art. 57, comma 1, alinea e lettera a), del d.P.R. n. 602 del 1973 – ha ritenuto ammissibile, nella specie, detta opposizione. In difetto di tale motivazione, non appare evidente che il giudice a quo debba fare applicazione della disposizione denunciata e pertanto, non essendo stata dimostrata la rilevanza della sollevata questione, questa deve dichiararsi manifestamente inammissibile.

4.2.2. – Sempre in relazione all’affermazione sub a), va ulteriormente rilevato che l’art. 2, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce che «Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’art. 50 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica». Nell’ordinanza di rimessione viene riferito che il giudizio principale riguarda la fase della esecuzione forzata tributaria successiva alla notifica della cartella di pagamento, e cioè proprio la fase per la quale la citata disposizione prevede la giurisdizione del giudice ordinario. Dopo tale premessa, tuttavia, il rimettente non fornisce alcuna motivazione sulle ragioni per le quali, nella specie, egli ritiene sussistere – in contrasto con il sopra citato art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 – la giurisdizione delle commissioni tributarie, in luogo di quella del giudice ordinario. Anche in questo caso, in difetto di siffatta motivazione, non appare evidente che il giudice debba fare applicazione della disposizione denunciata e pertanto, non essendo stata dimostrata – neppure sotto tale diverso profilo – la rilevanza della sollevata questione, questa deve dichiararsi manifestamente inammissibile.

4.2.3. – Infine, con l’affermazione sub b), il rimettente dichiara, ad un tempo, che il credito per il quale si procede alla riscossione coattiva riguarda solo la TARSU e che quest’ultimo prelievo, della cui natura tributaria egli non dubita, è stato successivamente sostituito dalla TIA, della cui natura tributaria, invece, dubita. La circostanza che le cartelle di pagamento poste a base dell’esecuzione forzata attengono esclusivamente alla TARSU, e non alla TIA, rende non rilevante la sollevata questione, la quale ha ad oggetto la norma, non applicabile nel giudizio a quo, con cui sono attribuite alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie in materia di TIA. Di qui la manifesta inammissibilità, anche sotto tale profilo, della questione.

5. – La difesa erariale ha eccepito la manifesta inammissibilità della questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Prato (r.o. n. 21 del 2009), affermando che l’ordinanza di rimessione, non avendo esposto i fatti di causa ed indicato i termini della controversia, è priva di motivazione sulla rilevanza.

L’eccezione non è fondata. Contrariamente a quanto dedotto dall’Avvocatura generale dello Stato, infatti, il rimettente ha chiaramente precisato che il giudizio principale ha ad oggetto l’impugnazione di «avvisi di pagamento […] relativi alla TIA (tariffa igiene ambientale) per gli anni 2007 e 2008, concernente l’immobile ove ha sede l’impresa individuale» del soggetto sottoposto a prelievo. Ciò è sufficiente ad evidenziare la rilevanza della questione, perché, per affermare la propria giurisdizione, il giudice a quo deve fare applicazione proprio della disposizione denunciata.

6. – Nel merito, la questione prospettata dalla Commissione tributaria provinciale di Prato non è fondata, perché il giudice rimettente muove dall’erroneo presupposto interpretativo che la TIA ha natura di corrispettivo privatistico di prestazioni contrattuali e non di tributo. Dall’erroneità di tale presupposto consegue la non fondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.

6.1. – Al riguardo, per precisare il thema decidendum, appare opportuno procedere ad una sintetica ricostruzione delle linee essenziali del complesso quadro normativo in cui si inserisce la disposizione denunciata.

L’evoluzione normativa in materia, per quanto qui interessa, è scandita da quattro diversi principali interventi legislativi.

6.1.1. – Il regio decreto 14 settembre 1931, n. 1175 (Testo unico per la finanza locale), prevedeva, originariamente, la corresponsione al Comune di un «corrispettivo per il servizio di ritiro e trasporto delle immondizie domestiche» ed attribuiva natura privatistica al rapporto tra utente e servizio comunale. Tale configurazione sinallagmatica del rapporto è stata, però, radicalmente mutata – con un primo significativo intervento del legislatore – dall’art. 10 della legge 20 marzo 1941, n. 366 (Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), il quale ha attribuito ai Comuni la facoltà di istituire una «tassa» per la raccolta ed il trasporto delle immondizie e dei rifiuti ordinari (interni ed esterni), ponendo tale prelievo a carico dei soggetti occupanti i fabbricati posti nelle zone in cui si svolge (in regime di privativa comunale) il servizio di raccolta. L’art. 21 del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 (Attuazione delle direttive CEE numero 75/442 relativa ai rifiuti, numero 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi), ha poi sostituito (a decorrere dal 1° gennaio 1984, come successivamente stabilito dall’art. 25 del decreto-legge 28 febbraio 1983, n. 55, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 1983, n. 131) l’intera sezione II (artt. da 268 a 278) del capo XVIII (Proventi di servizi municipalizzati) del titolo III (Entrate comunali e provinciali) del suddetto r.d. n. 1175 del 1931. Con tale normativa e, in particolare, con la nuova formulazione dell’art. 268 del testo unico, il legislatore ha esteso e reso obbligatorie sia l’effettuazione dei vari servizi relativi allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani «interni», sia l’applicazione della «tassa» (che il comma 2 dell’art. 20 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 786, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 786, aveva già reso obbligatoria, con effetto dal 1° gennaio 1982, per i Comuni che avevano istituito il servizio) a carico di chiunque occupi o conduca locali, a qualunque uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui sono istituiti i servizi, ovvero aree adibite a campeggi, a distributori di carburante, a sala da ballo all’aperto, nonché a qualsiasi altra area scoperta ad uso privato e non costituente accessorio o pertinenza dei suddetti locali tassabili. In particolare, il legislatore, nel ridisciplinare il suddetto prelievo comunale, ha individuato nel «costo di erogazione del servizio» il limite massimo di gettito, «al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti sotto forma di materiali o energia»; e ciò in coerenza con la denominazione di «tassa» (art. 268, citato). Nella medesima prospettiva della natura pubblicistica del prelievo, l’art. 9 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, ha previsto, con effetto dal 1° gennaio 1989, che mediante la «tassa» venissero coperti (in tutto o in parte) anche i costi dei servizi di smaltimento (cioè di «conferimento, raccolta, spazzamento, cernita, trasporto, trattamento, ammasso, deposito, discarica sul suolo e nel suolo») non solo dei rifiuti «interni», ma anche di quelli «di qualunque natura e provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o soggette ad uso pubblico» (cosiddetti “esterni”) e che fossero tenuti al pagamento (sia pure in misura ridotta) anche gli occupanti di case coloniche e “case sparse” non ubicate nella zona di raccolta dei rifiuti. L’art. 8 dello stesso decreto-legge ha ribadito la qualificazione di «tassa» del prelievo, inserendo tale denominazione anche nella rubrica della citata sezione II del regio decreto.

6.1.2. – Un secondo essenziale intervento legislativo è costituito dal decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), efficace a decorrere dal 1° gennaio 1994, il quale – in attuazione del comma 4 dell’art. 4 della legge di delegazione 23 ottobre 1992, n. 421 – ha stabilito, all’art. 58, che, in relazione all’istituzione ed all’attivazione del servizio relativo allo «smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, svolto in regime di privativa» nelle zone del territorio comunale, i Comuni «debbono istituire una tassa annuale» (usualmente denominata “TARSU”), da applicarsi «in base a tariffa», secondo appositi regolamenti comunali, a copertura (dal cinquanta al cento per cento ovvero, per gli enti locali per i quali sussistono i presupposti dello stato di dissesto, dal settanta al cento per cento) del costo del servizio stesso, nel rispetto delle prescrizioni e dei criteri specificati negli artt. da 59 a 81 del medesimo decreto legislativo. Diversamente dal precedente regime, il prelievo non riguarda lo smaltimento dei rifiuti “esterni” ed il richiamo ai rifiuti solidi urbani «equiparati» (ai sensi dell’art. 60 del decreto legislativo) a quelli «interni» – richiamo originariamente contenuto nel comma 1 del citato art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 – è stato soppresso dalla lettera a) del comma 3 dell’art. 39 della legge 22 febbraio 1994, n. 146 (articolo che ha abrogato anche l’art. 60 del suddetto decreto legislativo). Solo con l’introduzione del comma 3-bis dell’art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993, ad opera dall’art. 3, comma 68, lettera b), della legge 28 dicembre 1995, n. 549, hanno acquistato rilevanza anche per la TARSU i rifiuti “esterni”, perché tale disposizione stabilisce che dal costo complessivo dei servizi di nettezza urbana gestiti in regime di privativa comunale va dedotta una quota «a titolo di costo dello spazzamento dei rifiuti solidi urbani di cui all’art. 2, terzo comma, numero 3), del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915» (cioè «i rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private, comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime, lacuali e sulle rive dei fiumi»). L’art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, ha ampliato, dal punto di vista quantitativo, l’incidenza del suddetto costo di spazzamento dei rifiuti “esterni”.

Quanto ai soggetti passivi, la tassa è dovuta (in solido tra i componenti del nucleo familiare o tra gli utilizzatori in comune degli immobili) da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti – ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde – esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, ivi comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). I soggetti passivi hanno «l’obbligo di denuncia» dell’occupazione o detenzione dei locali ed aree tassabili siti nel territorio del Comune (art. 70, specie commi 1 e 6). In connessione con l’obbligo di presentare tale dichiarazione di scienza, è attribuito al Comune il potere di «emettere» (nel senso di “notificare”, come chiarito dal comma 1 dell’art. 72) motivati avvisi di accertamento d’ufficio (in caso di omessa denuncia) o in rettifica (in caso di denuncia infedele o incompleta), entro specifici termini di decadenza (artt. 71, 73). È prevista l’esclusione o l’esonero dal tributo in determinati casi in cui gli immobili si trovino in condizione di non potere produrre rifiuti, mentre è, di regola, irrilevante la circostanza che il soggetto passivo abbia, in concreto, autonomamente provveduto allo smaltimento (art. 62, commi 2, 3 e 5). Il prelievo, dunque, è posto in relazione, da un lato, alla attitudine media ordinaria alla produzione quantitativa e qualitativa dei rifiuti per unità di superficie e per tipo di uso degli immobili e, dall’altro, alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento dei rifiuti da parte dei soggetti passivi. In particolare, la tassa, mediante determinazione tariffaria da parte del Comune, «può essere commisurata […] in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile di rifiuti solidi […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1, come sostituito dall’art. 3, comma 68, della legge 28 dicembre 1995, n. 549). Solo in via eccezionale ed alternativa è prevista la possibilità di commisurare la medesima tassa, «per i comuni aventi popolazione inferiore a 35.000 abitanti, in base alla qualità, alla quantità effettivamente prodotta, dei rifiuti solidi urbani e al costo dello smaltimento» (ibidem). È coerente con tale impostazione pubblicistica l’obbligo, imposto agli occupanti o detentori «degli insediamenti comunque situati fuori dall’area di raccolta», di utilizzare il servizio pubblico di nettezza urbana, conferendo i rifiuti urbani, «interni ed equiparati», nei «contenitori viciniori» (art. 59, comma 3). È compatibile con la medesima impostazione, anche la previsione di riduzioni della tassa per le zone in cui la raccolta non viene effettuata e per i casi di non svolgimento, svolgimento per periodi stagionali, nonché per i casi in cui l’utente dimostri di aver provveduto autonomamente allo smaltimento in periodi di protratto mancato svolgimento del servizio, ove l’autorità sanitaria competente abbia riconosciuto una situazione di danno o di pericolo di danno alle persone o all’ambiente secondo le norme e prescrizioni sanitarie nazionali (art. 59, commi 2, 4, 5, 6, secondo periodo). La natura pubblicistica e non privatistica del prelievo è ulteriormente evidenziata sia dalla regola secondo cui «L’interruzione temporanea del servizio di raccolta per motivi sindacali o per imprevedibili impedimenti organizzativi non comporta esonero o riduzione del tributo» (art. 59, comma 6, primo periodo); sia dal sopra citato comma 3-bis dell’art. 61 e successive modificazioni, che ha reso rilevante anche il costo dello spazzamento dei rifiuti esterni. Il d.lgs. n. 507 del 1993 prevede anche una «tassa giornaliera di smaltimento» dei rifiuti producibili mediante l’uso (autorizzato o no), per periodi inferiori a 183 giorni per anno solare, di locali od aree pubbliche, di uso pubblico, o aree gravate da servitú di pubblico passaggio (art. 77). Per la riscossione, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, e del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (art. 72). Ai sensi dell’art. 52, comma 5, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, il Comune ha facoltà di disciplinare con proprio regolamento l’affidamento a terzi delle fasi di liquidazione, accertamento e riscossione della tassa. Sanzioni specifiche sono previste dall’art. 76 (e successive modificazioni) per l’omessa o infedele denuncia e per la mancata presentazione o trasmissione di atti, documenti o dati richiesti dal Comune; sono comunque applicabili le disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria stabilite dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

6.1.3. – Un terzo intervento legislativo si è realizzato con l’entrata in vigore (dal 1° gennaio 1999) dell’art. 49 del cosiddetto “decreto Ronchi”, cioè del d.lgs. n. 22 del 1997 (successivamente modificato dall’art. 1, comma 28, della legge 9 dicembre 1998, n. 426, e dall’art. 33 della legge 23 dicembre 1999, n. 488), il quale – in dichiarata attuazione delle direttive 91/156/CEE, 91/689/CEE e 94/62/CE – ha stabilito l’obbligo dei Comuni di effettuare, in regime di privativa, la gestione dei rifiuti urbani ed assimilati e, in particolare, ha previsto l’istituzione, da parte dei Comuni medesimi, di una «tariffa» per la copertura integrale dei costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale. Tale tariffa – usualmente denominata tariffa di igiene ambientale (TIA) – «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). Con regolamento del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, viene elaborato il metodo normalizzato per definire le componenti dei costi e determinare la tariffa di riferimento (comma 5). Il metodo normalizzato è stato approvato con il regolamento di cui al d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158. È tenuto al pagamento della tariffa «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (comma 3). La tariffa è ridotta nei casi in cui il produttore di rifiuti assimilati dimostri (mediante attestazione rilasciata da chi effettui il recupero) di aver avviato detti rifiuti al recupero (comma 14). La tariffa è applicata e riscossa dal soggetto che gestisce il servizio (commi 9 e 13). Diversamente dalla normativa sulla TARSU, l’art. 49 del “decreto Ronchi”, pertanto: a) evita di qualificare espressamente il prelievo come “tributo” o “tassa”, pur mantenendo il riferimento testuale alla «tariffa»; b) stabilisce che la TIA deve sempre coprire l’intero costo del servizio di gestione dei rifiuti; c) dispone che detta tariffa è dovuta anche per la gestione dei rifiuti “esterni” (come già statuiva l’abrogato art. 268 del r.d. n. 1175 del 1931, quale sostituito dall’art. 21 del d.P.R. n. 915 del 1982, in relazione all’art. 9 del decreto-legge n. 66 del 1989, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 144 del 1989); d) non reca, con riguardo alla TIA, specifiche disposizioni in tema di accertamento, liquidazione e sanzioni. Analogamente alla TARSU, anche per la TIA la riscossione volontaria e coattiva della tariffa può essere effettuata tramite ruolo, secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973 e del d.P.R. n. 43 del 1988 (comma 15 del medesimo art. 49). Lo stesso art. 49 ha soppresso la TARSU «a decorrere dai termini previsti dal regime transitorio», da disciplinarsi con il suddetto regolamento ministeriale (comma 1) al fine di garantire la graduale applicazione del metodo normalizzato e della tariffa ed il graduale raggiungimento dell’integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani da parte dei Comuni (commi 1 e 5). Resta comunque ferma la possibilità, per i Comuni, di deliberare l’applicazione della tariffa, «in via sperimentale», in sostituzione della TARSU, anche prima di tali termini (commi 1-bis e 16). La completa soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA, inizialmente fissata a decorrere dal 1° gennaio 1999, è stata via via differita dal legislatore, il quale, preso atto della difficoltà di rendere operativa, per i vari Comuni, l’abolizione del prelievo soppresso, ha previsto, con numerose disposizioni contenute soprattutto nelle varie leggi finanziarie, un articolato regime transitorio, che concede termine ai Comuni – da ultimo, fino a tutto il 2008 – per sostituire la TARSU con la TIA, secondo uno scadenzario differenziato, in ragione sia del grado di copertura dei costi dei servizi raggiunto dai diversi Comuni sia della popolazione dei Comuni stessi (comma 184 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, quale modificato dall’art. 5, commi da 1 a 2-quinquies del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, recante «Misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell’ambiente», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2009, n. 13).

6.1.4. – La quarta rilevante modifica legislativa del prelievo è costituita dall’art. 238 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), in vigore dal 23 aprile 2006, il quale ha soppresso la tariffa di cui all’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, sostituendola con la diversa «tariffa per la gestione dei rifiuti urbani» (come testualmente indicato nella rubrica dell’articolo), che una disposizione successiva (l’art. 5, comma 2-quater, del citato decreto-legge n. 208 del 2008) denomina «tariffa integrata ambientale (TIA)». Tale tariffa integrata deve essere determinata ad opera dell’autorità d’àmbito territoriale ottimale (AATO), prevista dall’art. 201 dello stesso decreto legislativo, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del regolamento ministeriale (da emanarsi, a sua volta, entro sei mesi dalla sopra indicata data di entrata in vigore della parte quarta del decreto legislativo e, quindi, dell’art. 238 in essa compreso) con il quale sono fissati i criteri generali per la definizione delle componenti dei costi e la determinazione della tariffa (commi 3 e 6). La tariffa integrata è dovuta da chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o aree scoperte ad uso privato o pubblico non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, che producano rifiuti urbani (comma 1, primo periodo). Detta tariffa, in particolare, è «commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base di parametri […] che tengano anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali» (comma 2), e costituisce «il corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e ricomprende anche i costi indicati dall’art. 15 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36» (comma 1, secondo periodo) – cioè «i costi di realizzazione e di esercizio dell’impianto per lo smaltimento in discarica, i costi sostenuti per la prestazione della garanzia finanziaria ed i costi stimati di chiusura, nonché i costi di gestione successiva alla chiusura per il periodo fissato dalla legge – oltre ai «costi accessori relativi alla gestione dei rifiuti urbani quali, ad esempio, le spese di spazzamento delle strade» (comma 3, secondo periodo). La medesima tariffa «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti, nonché da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). È espressamente previsto che la tariffa «è applicata e riscossa dai soggetti affidatari del servizio di gestione integrata» (comma 3) e che la sua riscossione, volontaria o coattiva, «può» essere effettuata secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, «mediante convenzione con l’Agenzia delle entrate» (comma 12). La soppressione della precedente tariffa di igiene ambientale ha effetto dalla data di entrata in vigore dello stesso art. 238, ma, fino alla completa attuazione della nuova tariffa integrata (cioè con l’emanazione del sopra menzionato regolamento ministeriale ed il compimento degli adempimenti per l’applicazione della tariffa), «continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti» (comma 10). Nel caso in cui il regolamento ministeriale non sia stato adottato entro il 30 giugno 2009, i Comuni possono ugualmente «adottare la tariffa integrata ambientale TIA […] ai sensi delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti» (art. 5, comma 2-quater, del decreto-legge n. 208 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 13 del 2009).

6.2. – Da tale ricostruzione normativa emerge che, per il periodo dal 1999 a tutto il 2008, in alcuni Comuni è applicabile la TARSU ed in altri la tariffa di igiene ambientale (TIA). Fino al 2009, poi, non risulta, allo stato, ancora applicabile dai Comuni la tariffa integrata ambientale di cui all’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006. La rilevata formale diversità delle fonti istitutive delle due suddette tariffe (ancorché entrambe usualmente denominate, in breve, TIA), la successione temporale delle fonti, la parziale diversità della disciplina sostanziale di tali prelievi, il fatto che la tariffa integrata espressamente sostituisce la tariffa di igiene ambientale, nonché la circostanza che i giudizi riuniti a quibus, pendenti presso la Commissione tributaria provinciale di Prato, hanno ad oggetto solo avvisi di accertamento della tariffa di igiene ambientale per gli anni d’imposta 2007 e 2008 sono tutti elementi che impediscono di ritenere che la questione sollevata dalla suddetta Commissione tributaria riguardi, oltre alla tariffa di igiene ambientale, anche la tariffa integrata ambientale. Ne deriva che lo scrutinio di legittimità costituzionale va limitato alla norma che attribuisce alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative alla debenza della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 e non anche di quelle relative alla debenza della tariffa integrata ambientale (TIA) prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006.

7. – così delimitato il thema decidendum, va rilevato che, nel porre la questione di legittimità costituzionale, il rimettente muove da due diversi assunti: a) che la giurisdizione tributaria, ai sensi dell’evocato parametro, deve avere ad oggetto solo controversie tributarie; b) che la TIA prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 ha natura non tributaria, ma di corrispettivo contrattuale.

7.1. – Il primo dei due assunti del rimettente è esatto. Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la giurisdizione del giudice tributario «deve ritenersi imprescindibilmente collegata» alla «natura tributaria del rapporto» (ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006), con la conseguenza che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi tale natura comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali posto dall’art. 102, secondo comma, Cost. (sentenze n. 141 del 2009; n. 130 e n. 64 del 2008).

La decisione della sollevata questione esige, dunque, che si proceda alla qualificazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, in quanto solo il riconoscimento della natura tributaria di tale prelievo può escludere la dedotta illegittimità costituzionale della disposizione denunciata.

7.2. – Il secondo assunto del rimettente, circa la natura di corrispettivo privatistico, propria della suddetta tariffa di igiene ambientale, è erroneo, come sopra osservato, ove si proceda al raffronto tra la sua disciplina positiva e la nozione di tributo, quale elaborata dalla giurisprudenza costituzionale.

7.2.1. – Questa Corte, mediante numerose pronunce, ha indicato i criteri cui far riferimento per qualificare come tributari alcuni prelievi. Tali criteri, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina i prelievi stessi, consistono nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis: sentenze n. 141 del 2009; n. 335 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).

7.2.2. – Con specifico riferimento alla disciplina della tariffa di igiene ambientale, va preliminarmente preso atto che non è individuabile, allo stato, un’univoca giurisprudenza di legittimità sulla natura di tale tariffa, anche se pare maggiormente attestato l’orientamento che le riconosce natura tributaria. Infatti, ad una pronuncia della Corte di cassazione civile che ha qualificato come non tributaria tale prestazione pecuniaria (sezioni unite, ordinanza n. 3274 del 2006), hanno fatto séguito altre decisioni della stessa Corte che, con varie motivazioni e differenze linguistiche, hanno invece ricondotto detta prestazione nel novero dei tributi (sezioni unite: ordinanza n. 3171 del 2008, sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006; sezioni semplici: sentenze n. 5298 e n. 5297 del 2009, n. 17526 del 2007). Al fine di determinare la natura (tributaria o extratributaria) della TIA, oggetto di contrastanti opinioni anche nella dottrina, è perciò necessario procedere ad un autonomo ed analitico esame delle caratteristiche di tale prelievo. Al riguardo, non rilevano né la formale denominazione di «tariffa», né la sua alternatività rispetto alla TARSU, né la possibilità di riscuoterla mediante ruolo.

Quanto all’irrilevanza della denominazione, lo stesso art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce espressamente che i tributi vanno individuati indipendentemente dal nomen iuris («comunque denominati»). Inoltre, il termine «tariffa» – nella tradizione propria della legislazione tributaria – ha un valore semantico neutro, nel senso che non si contrappone necessariamente a termini quali «tassa» e «tributo», tanto che anche l’art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 testualmente prevede che la TARSU (cioè una «tassa» e, quindi, un «tributo») si applica «in base a tariffa». Va comunque rilevato che, contrariamente a quanto sembrano ritenere il rimettente e la difesa erariale, il termine «corrispettivo» non compare, con riguardo alla TIA, nel cosiddetto “decreto Ronchi”, ma solo nell’art. 238, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006 ed è riferito esclusivamente alla tariffa integrata ambientale, estranea alla questione di legittimità in esame.

Quanto alla regola stabilita dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, secondo cui la TIA si applica in luogo della TARSU, va osservato che un tributo (come, nella specie, la TARSU) può ben essere surrogato da un altro tributo o sostituito da una entrata non tributaria, non incontrando il legislatore, al riguardo, alcun vincolo logico o giuridico (nel limite della non manifesta irragionevolezza).

Quanto, infine, alla possibilità per il Comune, prevista dal medesimo art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, di procedere alla riscossione della TIA mediante ruolo, deve sottolinearsi che il ricorso a tale modalità di riscossione è solo facoltativo, e, comunque, ancorché tipico delle entrate tributarie, è consentito dalla legge anche per le entrate extratributarie.

Per una corretta valutazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA), è invece opportuno muovere dalla constatazione che tale prelievo, pur essendo diretto a sostituire la TARSU, è disciplinato in modo analogo a detta tassa, la cui natura tributaria non è mai stata posta in dubbio né dalla dottrina né dalla giurisprudenza. Conseguentemente, deve procedersi ad una approfondita comparazione tra il prelievo tributario sostituito e quello che lo sostituisce, sotto i profili della struttura, della funzione e della disciplina complessiva della fattispecie dei prelievi.

7.2.3. – Dalla comparazione tra la TARSU e la TIA emergono le forti analogie dei due prelievi. Entrambi mostrano un’identica impronta autoritativa e somiglianze di contenuto con riguardo alla determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo.

7.2.3.1. – In primo luogo, quanto al fatto generatore dell’obbligo del pagamento e ai soggetti obbligati – come si è già rilevato al punto 6.1.2. – la TARSU è dovuta, per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, e comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). Analogamente, la TIA – come sottolineato al punto 6.1.3. – è dovuta, per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale, da «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 22 del 1997). Le differenze tra le due fattispecie sono, perciò, minime: la “occupazione o detenzione” di superfici ed il riferimento ai soli rifiuti “interni”, per la TARSU; la “occupazione o conduzione” di superfici ed il riferimento anche ai rifiuti “esterni”, per la TIA. Esse non sono, comunque, tali da far venir meno la comune circostanza che il fatto generatore dell’obbligo di pagamento è legato non all’effettiva produzione di rifiuti da parte del soggetto obbligato e alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento, ma esclusivamente all’utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti ed alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento.

7.2.3.2. – In secondo luogo, in relazione ad entrambi i pagamenti, sussiste una medesima struttura autoritativa e non sinallagmatica, che emerge sotto svariati e concorrenti profili. In particolare, con riguardo ai due suddetti prelievi:

a) i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono, in regime, appunto, di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata;

b) i soggetti tenuti al pagamento dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi;

c) la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio.

La rilevata comune struttura autoritativa dei prelievi non viene meno per il fatto che, riguardo alla TARSU, il d.lgs. n. 507 del 1993 individua quale soggetto attivo del tributo il Comune e disciplina specificamente la fase di accertamento e di liquidazione della tassa, prevedendo sanzioni e interessi (artt. 71, 73 e 76); mentre, riguardo alla TIA, l’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, da un lato identifica nel gestore del servizio il soggetto che la applica e riscuote (commi 9 e 13) e, dall’altro, non reca alcuna disciplina specifica in tema di accertamento, di liquidazione della prestazione dovuta, di contenzioso e di sanzioni e interessi per omesso o ritardato pagamento. Non può negarsi, infatti, che, sia per la TARSU che per la TIA, il soggetto attivo del prelievo è il Comune; e ciò anche nel caso in cui il regolamento comunale affidi a terzi l’accertamento e la riscossione dei due prelievi e la relativa legittimazione a stare in giudizio. In particolare – come visto al punto 6.1.2. – già per la TARSU il Comune aveva la possibilità, con proprio regolamento, di affidare a terzi l’accertamento e la riscossione dei tributi, ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e di delegare ad essi il potere di essere «parti del processo tributario», ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992, senza che con ciò venisse meno l’originaria posizione di soggetto attivo del Comune stesso. La normativa riguardante la TIA si differenzia sul punto solo per il fatto che essa pone un collegamento ex lege tra la gestione del servizio e i poteri di accertamento, con la conseguenza che il solo fatto dell’affidamento a terzi della gestione del servizio comporta la delega a questi dei poteri di accertamento e del potere di stare in giudizio in luogo del Comune, analogamente a quanto avviene per la TARSU.

Con riguardo, poi, alla disciplina dell’accertamento e della liquidazione della TIA, la lacunosità delle statuizioni contenute nel comma 9 dell’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 (il quale si limita a prevedere che «la tariffa è applicata dai soggetti gestori nel rispetto della convenzione e del relativo disciplinare») può essere colmata con l’esercizio del potere regolamentare comunale previsto per le entrate «anche tributarie» dal citato art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 o in via di interpretazione sistematica. Analogamente, nulla osta a che, per le sanzioni ed interessi relativi all’omesso o ritardato pagamento della TIA, possano applicarsi le norme generali in tema di sanzioni amministrative tributarie. Così come, con riguardo al contenzioso, è evidente che ad entrambi i prelievi si applica il comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, che attribuisce, appunto, alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative, in generale, alla debenza dei tributi e, specificamente del «canone […] per lo smaltimento dei rifiuti urbani».

Non contraddice tale conclusione il fatto che fonti secondarie prevedano, per il pagamento della TIA, l’emissione di semplici «bollette che tengono luogo delle fatture […] sempreché contengano tutti gli elementi di cui all’art. 21» del d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 1, comma 1, del citato decreto ministeriale n. 370 del 2000), e cioè l’emissione di atti formalmente diversi da quelli espressamente indicati dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 come impugnabili davanti alle Commissioni tributarie. In tale caso, infatti, è possibile, in via interpretativa – come, del resto, ha già affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 17526 del 2007, con specifico riferimento alla TIA -, un’applicazione estensiva dell’elenco di cui al citato art. 19, al fine di considerare impugnabili anche atti che, pur con un diverso nomen iuris, abbiano la stessa funzione di accertamento e di liquidazione di tributi svolta dagli atti compresi in detto elenco; con l’ovvio corollario che le suddette «bollette», avendo natura tributaria, debbono possedere i requisiti richiesti dalla legge per gli atti impositivi.

7.2.3.3. – In terzo luogo, sono analoghi i criteri di commisurazione dei due prelievi. La TARSU – quantomeno per i Comuni con popolazione non inferiore a 35.000 abitanti – è commisurata «in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati, e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993). La TIA, in forza dell’art. 49, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 1997, è suddivisa in una parte fissa (concernente le componenti essenziali del costo del servizio – ivi compreso quello dello spazzamento delle strade -, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti) ed una parte variabile (rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione). I criteri di determinazione di tali due parti della TIA sono contenuti nel citato d.P.R. n. 158 del 1999, che prevede indici costruiti, tra l’altro, sulla quantità totale dei rifiuti prodotti nel Comune, sulla superficie delle utenze, sul numero dei componenti il nucleo familiare delle utenze domestiche, su coefficienti di potenziale produzione di rifiuti secondo le varie attività esercitate nell’àmbito delle utenze non domestiche. Risulta evidente, pertanto, che il suddetto «metodo normalizzato» per la determinazione della TIA è pienamente coerente con i criteri fissati dalla legge per la commisurazione della TARSU, la quale, certamente, non può definirsi “corrispettivo”, neppure in relazione ai criteri stabiliti dall’art. 117, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per le tariffe dei servizi pubblici resi dagli enti locali. Per entrambi i prelievi, infatti, rileva la potenziale produzione dei rifiuti, valutata per tipo di uso delle superfici tassabili. In particolare, per quanto riguarda la TIA, va sottolineato che, ai sensi dell’art. 49, comma 14, del d.lgs. n. 22 del 1997, perfino l’autonomo avviamento a recupero dei rifiuti, da parte del produttore di essi, non comporta l’esclusione dal pagamento, ma determina una riduzione proporzionale della sola parte variabile di tale tariffa. Questa disposizione è, per alcuni aspetti, analoga al comma 2 dell’art. 67 del d.lgs. n. 507 del 1993, secondo cui il regolamento comunale «può» prevedere riduzioni della TARSU nel caso in cui gli «utenti dimostrino di avere sostenuto spese per interventi tecnico-organizzativi comportanti un’accertata minore produzione di rifiuti od un pretrattamento volumetrico, selettivo o qualitativo che agevoli lo smaltimento o il recupero da parte del gestore del servizio». I due prelievi, pertanto, sono dovuti, sia pure in misura ridotta, anche nel caso in cui il produttore di rifiuti dimostri di aver adeguatamente provveduto allo smaltimento. Il che esclude per entrambi la sussistenza di un rapporto di sinallagmaticità tra pagamento e servizio di smaltimento dei rifiuti.

7.2.3.4. – In quarto luogo, come sopra accennato, la TIA – analogamente alla TARSU nella disciplina risultante dal disposto del comma 3-bis dell’art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993 (riportato al punto 6.1.2.) e dell’art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 – ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni” (cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio), ma anche “esterni” (cioè «rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico», come ricordato al punto 6.1.3., in relazione agli artt. 7, comma 2, lettere c, d, e 49, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997, per la componente fissa della TIA). Ha la funzione, cioè, di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente. L’unica sostanziale differenza sul punto tra i due prelievi si riduce al fatto che, mentre per la TARSU il gettito deve corrispondere ad un ammontare compreso tra l’intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata in funzione della situazione finanziaria del Comune (art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993); per la TIA il gettito deve, invece, assicurare sempre l’integrale copertura del costo dei servizi (art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997). Tuttavia, tale differenza non è sufficiente a caratterizzare in senso privatistico la TIA, perché nulla esclude che una pubblica spesa (come il costo di un servizio utile alla collettività) possa essere integralmente finanziata da un tributo. Come si è già osservato al punto 6.1.2., anche la TARSU può coprire il cento per cento del costo del servizio di smaltimento dei rifiuti ed in tal caso essa non muta, per ciò solo, la sua natura da pubblicistica a privatistica. In altri termini, la mera circostanza che la legge assegni a un pagamento la funzione di coprire integralmente i costi di un servizio non è sufficiente ad attribuire al medesimo pagamento la natura di prezzo privatistico.

7.2.3.5. – In quinto luogo, con riferimento alla disciplina complessiva della TIA, va rilevato che l’art. 49, comma 17, del d.lgs. n. 22 del 1997 ha espressamente tenuto ferma l’applicabilità del tributo provinciale «per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene dell’ambiente» previsto dall’art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (cosiddetto TEFU), anche dopo la soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA. Poiché il TEFU è stato configurato dal legislatore come un’addizionale della TARSU, ne consegue che, una volta soppressa quest’ultima, esso deve necessariamente determinarsi con riferimento ai criteri di quantificazione della TIA e deve, perciò, essere qualificato come un tributo addizionale della TIA stessa. Ciò evidenzia un ulteriore elemento di omogeneità e continuità tra la TARSU e la TIA.

7.2.3.6. – In sesto luogo, infine, un altro significativo elemento di analogia tra la TIA e la TARSU è costituito dal fatto che ambedue i prelievi sono estranei all’àmbito di applicazione dell’IVA. Infatti, la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l’entità del prelievo – quest’ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni – porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell’assoggettamento ad IVA ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di un «corrispettivo» per la prestazione di servizi. Non esiste, del resto, una norma legislativa che espressamente assoggetti ad IVA le prestazioni del servizio di smaltimento dei rifiuti, quale, ad esempio, è quella prevista dall’alinea e dalla lettera b) del quinto comma dell’art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui, ai fini dell’IVA, «sono considerate in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici», le attività di «erogazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione, gas, energia elettrica e vapore». Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU che della TIA, entrambe le entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei «diritti, canoni, contributi» che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE del 16 settembre 2008, in causa C-288/07) esclude in via generale dall’assoggettamento ad IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità» (come si desume a contrario dalla sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008), sempre che il mancato assoggettamento all’imposta non comporti una distorsione della concorrenza (distorsione, nella specie, non sussistente, in quanto il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa). Non osta a tali conclusioni il secondo periodo del comma 13 dell’art. 6 della legge n. 133 del 1999, il quale stabilisce, con una formula meramente negativa, che «Non costituiscono, altresì, corrispettivi agli effetti dell’IVA le somme dovute ai comuni per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani reso entro» la data del 31 dicembre 1998 «e riscosse successivamente alla stessa, anche qualora detti enti abbiano adottato in via sperimentale il pagamento del servizio con la tariffa, ai sensi dell’articolo 31, comma 7, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1998, n. 448». Questa disposizione non può interpretarsi nel senso che, a partire dal 1999, sia la TARSU sia la tariffa sperimentale (cioè la TIA adottata prima della definitiva soppressione della TARSU) entrino nell’àmbito di applicazione dell’IVA. Si deve escludere, infatti, che tali prelievi, pur restando invariata la loro disciplina sostanziale, mutino natura, divenendo entrambi corrispettivi, solo in forza di una norma dagli effetti meramente temporali. Tale norma, ragionevolmente interpretata, ha il solo effetto di ribadire la non assoggettabilità ad IVA dei due prelievi fino a tutto il 1998 e non quello di provvedere anche per il periodo successivo, per il quale non può che trovare applicazione la disciplina generale in tema di IVA. Non rileva, al riguardo, la diversa prassi amministrativa, perché la natura tributaria della TIA va desunta dalla sua complessiva disciplina legislativa.

7.2.4. – È appena il caso di rilevare che la riscontrata omogeneità tra i due prelievi in esame è compatibile sia con le direttive comunitarie di cui il d.lgs. n. 22 del 1997 istitutivo della TIA costituisce attuazione (91/156/CEE, 91/689/CEE e 94/62/CE), sia con il principio comunitario “chi inquina paga” (ribadito dall’art. 15 della direttiva comunitaria 2006/12/CE), sia con le leggi di delegazione in forza delle quali il suddetto decreto legislativo è stato emanato (artt. 1 e 38 della legge 22 febbraio 1994, n. 146; artt. 1, 6 e 43 della legge 6 febbraio 1996, n. 52). Nessuna di tali disposizioni, infatti, impone al legislatore di configurare in termini privatistici il rapporto tra utente e gestore del servizio di smaltimento dei rifiuti. Quanto al diritto comunitario, esso, con tutta chiarezza, si limita a richiedere che la legislazione nazionale garantisca un ragionevole collegamento tra la produzione di rifiuti e la copertura del costo per il loro smaltimento, secondo un principio di proporzionalità, in modo che tale costo sia posto a carico, per una parte significativa, del produttore dei rifiuti. Ed ove questa attribuzione di costi sia rispettata, resta indifferente per il diritto comunitario se essa sia realizzata dal legislatore mediante l’istituzione di un tributo o la previsione di un corrispettivo privatistico. Quanto alle leggi di delegazione, esse si limitano ad autorizzare il legislatore delegato ad apportare «modifiche» al d.lgs. n. 507 del 1993, al fine di attuare le direttive comunitarie, e non impongono affatto di trasformare la natura del prelievo da tributaria ad extratributaria.

8. – Le sopra indicate caratteristiche strutturali e funzionali della TIA disciplinata dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 rendono evidente che tale prelievo presenta tutte le caratteristiche del tributo menzionate al punto 7.2.1. e che, pertanto, non è inquadrabile tra le entrate non tributarie, ma costituisce una mera variante della TARSU disciplinata dal d.P.R. n. 507 del 1993 (e successive modificazioni), conservando la qualifica di tributo propria di quest’ultima. A tale conclusione, del resto, si giunge anche considerando che, tra le possibili interpretazioni della censurata disposizione e dell’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, deve essere preferita quella che, negando la violazione del secondo comma dell’art. 102 Cost., appare conforme a Costituzione (sulla necessità, in generale, di privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata, ex plurimis: sentenza n. 308 del 2008, ordinanze n. 146 e n. 117 del 2009).

Le controversie aventi ad oggetto la debenza della TIA, dunque, hanno natura tributaria e la loro attribuzione alla cognizione delle commissioni tributarie, ad opera della disposizione denunciata, rispetta l’evocato parametro costituzionale.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, sollevate, in riferimento agli artt. 25, primo comma, e 102, secondo comma, della Costituzione, nonché alla VI disposizione transitoria della Costituzione, dal Giudice di pace di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione del d.lgs. n. 546 del 1992, sollevata, in riferimento all’art. 102, secondo comma, Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Prato, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2009.

TRIBUTI LOCALI

Tassa rimozione rifiuti solidi

Tributi locali in genere

Riferimenti normativi

COST Art.25

COST Art.102

L 30-12-1991 n. 413, Art. 30

DLT 31-12-1992 n. 546, Art. 2

DLT 15-11-1993 n. 507 0

DLT 05-02-1997 n. 22, Art. 49

DL 30-09-2005 n. 203, Art. 3-bis

L 02-12-2005 n. 248 0

L 02-12-2005 n. 248, Art. 1


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 18-06-2009) 15-07-2009, n. 16444

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – rel. Consigliere

Dott. DI DOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro p.t., e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che li rappresenta e difende in base alla legge;

– ricorrenti –

contro

A.G.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 10/25/04, depositata il 12.11.2004.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18.6.2009 dal relatore Cons. Dott. Giuseppe Vito Antonio Magno;

Udito, per i ricorrenti, l’Avvocato dello Stato Barbara Tidore;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Sorrentino Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- Dati del processo.

1.1.- Con ricorso alla commissione tributaria provinciale di Napoli, il signor A.G. impugnò una cartella di pagamento dell’IVA relativa all’anno 1995, dell’importo complessivo di Euro 11.101,68 per imposta, sanzioni ed accessori, emessa a seguito di rettifica divenuta definitiva per mancata impugnazione dell’avviso, asserendo di non avere avuto conoscenza di tale avviso di rettifica, perchè notificato nelle mani di tale C.M., non avente relazioni di parentela o di affinità nè di convivenza con esso contribuente.

1.2.- La sentenza n. 26 del 2004, con cui la commissione adita aveva respinto il ricorso, impugnata dal contribuente, fu riformata, nel contraddittorio delle parti, dalla commissione tributaria regionale con la sentenza indicata in epigrafe, che, in base alla documentazione acquisita, ritenne invalida la notificazione dell’avviso di rettifica, eseguita a mani di persona non avente le enunciate relazioni di affinità e di convivenza col destinatario dell’atto.

1.3.- Per la cassazione di tale sentenza ricorrono l’amministrazione finanziaria dello Stato e l’agenzia delle entrate, con unico articolato motivo, cui non resiste l’intimato contribuente.

1.4.- La causa, chiamata all’udienza del 1.12.2006 per la discussione davanti a questa suprema corte, fu rinviata a nuovo ruolo in attesa di decisione, da parte delle sezioni unite, sulla questione relativa all’influenza del vizio di notifica dell’atto presupposto sulla validità di quello successivo, impugnato. E’ stata quindi rifissata all’udienza odierna.

2.- Questioni pregiudiziali.

2.1.- Il ricorso proposto dall’amministrazione dell’economia e delle finanze deve essere dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione processuale, dal momento che essa – cui è succeduta l’agenzia delle entrate, a far data dal 1.1.2001, anteriore a quella di deposito dell’atto d’appello (17.5.2004) – deve intendersi tacitamente estromessa dal relativo giudizio, svoltosi nei soli confronti dell’agenzia delle entrate, ufficio di S.M. Capua Vetere (Cass, n. 9004/2007); senza pronunzia sulle spese, giacchè l’intimato non propone difese in questo giudizio di cassazione.

3.- Motivo del ricorso.

3.1.- L’agenzia ricorrente censura la sentenza impugnata, e ne chiede la cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione dell’art. 139 c.p.c., D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 3, e per nullità conseguente ad omessa indicazione delle ragioni di diritto della decisione (violazione dell’art. 36, n. 4, D.Lgs. cit.); in via gradata, per erronea applicazione dell’art. 139, comma 3. 3.1.1.- Sostiene che l’asserita nullità della notificazione dell’avviso di rettifica non sarebbe idonea a giustificare la dichiarata – e peraltro non motivata in diritto – nullità della cartella esattoriale, atto impugnabile solo per vizi propri; essendo determinata dalla mancata notifica dell’atto presupposto non la nullità dell’atto conseguente (cartella), bensì soltanto la possibilità d’impugnazione, unitamente ad essa, dell’atto precedente, asseritamente non notificato.

3.1.2.- In subordine, sostiene la validità – o, al limite, la mera nullità (sanabile), non l’inesistenza – della notifica eseguita a mani di persona che, pur non facendo parte della famiglia del destinatario dell’atto, si trovava nella sua abitazione, quale vicina di casa; incombendo a quest’ultimo l’onere di provare il contrario.

4.- Decisione.

4.1.- Il ricorso è infondato, per le ragioni di seguito esposte, e deve essere rigettato.

Nulla devesi disporre in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione, in cui l’intimato non ha svolto difese.

5.- Motivi della decisione.

5.1.- La commissione regionale ha accertato, in base alla documentazione acquisita agli atti, che la notificazione dell’avviso di rettifica, presupposto dell’iscrizione a ruolo e della conseguente emissione della cartella esattoriale, fu eseguita a mani di persona risultata non affine (benchè indicata come nuora nella relata) nè convivente con la famiglia del notificando, perchè abitante in altro appartamento dello stesso condominio.

5.2.- Si osserva, in proposito, che la notificazione eseguita, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., a persona non legata al destinatario da rapporti “di famiglia”, cioè di parentela o di affinità, nè di servizio, quale “addetta alla casa”, è da considerare nulla anche se, come nel caso di specie, tale persona sia trovata nell’abitazione del destinatario (Cass. n. 22879/2006); mentre è stata ritenuta valida la notifica nel diverso caso di non provata convivenza (che può essere presunta), quando però sussista la relazione di parentela o affinità fra il destinatario e la persona che ricevette la notifica (Cass. un. 3902/2004, 18141/2002,9658/2000, 1331/2000).

Nell’ipotesi in esame, la nullità della notifica dipende quindi dall’accentata mancanza sia della relazione di famiglia sia della convivenza.

Nullità che, ovviamente, non può ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo dell’atto, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, non essendo stato impugnato (in termini) tale atto presupposto, bensì la cartella esattoriale conseguente all’iscrizione a ruolo delle somme da esso portate.

5.3.- La censura di violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, (esposta al par. 3.1.1), è pure infondata.

5.3.1.- Come statuito dalle sezioni unite di questa suprema corte con sentenza n. 5791/2008, le cui argomentazioni sono condivise dal collegio, l’omissione della notifica di un atto presupposto – nel caso di specie, l’avviso di rettifica della dichiarazione IVA – costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato, ossia della cartella di pagamento, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata dal rispetto di una sequenza procedimentale di atti, ritualmente notificati, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del contribuente.

5.3.2.- Pertanto, è corretta la pronunzia di annullamento della cartella esattoriale, per effetto d’invalidità della notifica dell’atto presupposto; pronunzia non inficiata dalla mancanza di motivazione in diritto, dovendo a tanto sopperire (nel modo indicato al par. 5.3.1) questo giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, stante la conformità al diritto del dispositivo della sentenza impugnata (S.U. n. 28054/2008; Cass. n. 5595/2003).

6.- Dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile – Tributaria, il 18 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2009


Assenze nel pubblico impiego, la Regione Toscana cancella le norme più discriminatorie

Lotta all’assenteismo, efficienza e rispetto dei diritti
«Rigore con i furbi. Ma un’amministrazione efficiente si costruisce investendo sul personale»

L’influenza è costata cara nell’ultimo anno ai dipendenti della Regione. Per una settimana  a casa c’è chi ha perso trenta euro e chi, tra i dirigenti, anche ottocento: molti ci hanno rimesso venti o trenta euro al giorno. Colpa del decreto Brunetta, che nei giorni di assenza ha tagliato gli stipendi. «Non solo ai furbi – mette subito in chiaro il vice presidente della Toscana Federico Gelli – E non solo a chi era malato: anche a chi dona il sangue, a chi magari è malato cronico e si deve assentare periodicamente per cure e controlli, a chi è stato eletto. Ledendo diritti fondamentali»

Così, a distanza di un anno, la Regione prova a ‘riscrivere’ il decreto Brunetta sulle assenze nel pubblico impiego, cancellando le norme più inique e discriminatorie. Una proposta di legge che la giunta ha già inviato al Consiglio e che varrà naturalmente solo per i dipendenti della Regione ma anche dei suoi enti dipendenti: ovvero Arsia, Arpat, Artea, Ars, Irpet, Toscana Promozione, i tre Enti parco regionali e le Aziende per il diritto allo studio universitario.

L’efficienza non si costruisce con la demagogia
La pubblica amministrazione deve essere efficiente e poter fornire risposte efficaci ai cittadini. Ma la strada, per la Regione, non può essere quella imboccata dal governo. «Nessuno in Regione vuol difendere furbi e fannulloni – chiarisce Gelli – Da tempo ci siamo mossi per combattere sprechi inutili, per contenere i costi e per rendere la macchina più snella ed efficiente. Ma abbiamo anche investito sul personale. Da tempo abbiamo avviato anche con trolli incrociati sulle timbrature, perché occorre essere severi quando serve. Quello di cui abbiamo bisogno sono strumenti chirurgici che ci consentano di asportare la parte malata senza danneggiare la parte sana. E così non è stato con la legge 133 di quest’anno (il famoso Decreto Brunetta ndr) sulle assenze da lavoro, tant’è che poi il governo, resosi conto dell’errore, l’ha in parte modificata: cancellando ad esempio le decurtazioni che erano previste nel caso di assenze diverse dalla malattia, come per le donazioni del sangue, i congedi matrimoniali o i congedi parentali».

Identico trattamento con il settore privato
Il primo obiettivo della legge è indicato all’inizio del preambolo: evitare discriminazioni e non imporre ai dipendenti pubblici regole (e decurtazioni) più penalizzanti di quelle che valgono per il settore privato.

Fino ad 8 giorni l’anno nessun taglio
La prima declinazione concreta del principio riguardo i giorni che saranno pagati a stipendio pieno. Dall’anno scorso, quando il decreto Brunetta è entrato in vigore, il dipendente pubblico che si ammala o si assenta dal lavoro si vede ridotto lo stipendio nei primi dieci giorni di ogni malattia. La giunta regionale propone adesso un bonus di otto giorni nell’anno, o comunque pari alla media delle assenze per malattia dell’anno precedente rilevata nel settore privato. In soldoni vuol dire che per i primi otto giorni di malattia (anche frazionati in più eventi diversi) al dipendente non sarà applicata più alcuna decurtazione. Per il 2009 i giorni saranno tre.

Stipendi meno leggeri
In ogni caso, esauriti gli otto giorni, gli stipendi saranno tagliati in misura minore. Con la proposta di legge la giunta definisce infatti anche con chiarezza le componenti dell o stipendio da corrispondere in caso di assenza e stabilisce che nessuna delle componenti che abbia natura fissa, ricorrente o continuativa debba essere tagliata. Sono salve le indennità legate alla mansione o al ruolo del dipendente. Le assenze incideranno a questo punto solo sulla produttività e le indennità di risultato.
Nessuna decurtazione sarà prevista per i ricoveri ospedalieri, gli infortuni sul lavoro a causa di servizio o per patologie gravi che richiedono terapie salvavita. Al riguardo Gelli ha annunciato che lunedì porterà in giunta una direttiva che elenca tutte le patologie che ricadranno nel provvedimento, in modo da chiarire qualsiasi dubbio e togliere qualsiasi margine di discrezionalità. Il provvedimento, visto che non fa altro che specificare una norma già prevista dal governo, sarà applicabile anche prima dell’approvazione della proposta di legge.
Per le assenze per motivi diversi dalla malattia si rimanda a quanto previsto dalle norme dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Visite mediche di controllo facoltative
Si cambia anche per quanto riguardo le visite fiscali a casa. Diventano per l’amministrazione facoltative, sulla base delle proprie esigenze organizzative. Una soluzione che permetterà di contrastare il fenomeno dell’assenteismo arginando eventuali abusi, ma allo stesso tempo di contenere i costi aggiuntivi conseguenti alle visite mediche di controllo.

Fasce di reperibilità
Cambiano anche le fasce di reperibilità. Il Decreto Brunetta le aveva allargate, costringendo il lavoratore a farsi trovare a casa dalle 8 alle 13 e dalle 14 alle 20. La Regione ha reintrodotto le fasce che valgono per il settore privato, in precedenza in vigore: ovvero dalle 10 alle 12 e dalle 17 alle 1 9, che sono quelle determinate dalla contrattazione collettiva.
In verità anche il governo su questo aveva fatto nel frattempo un passo indietro. Regione e governo propongono le stesse fasce. La differenza sta però nello strumento. il governo lo ha fatto con un decreto, che potrebbe anche non essere convertito. La Regione lo farà con una legge, che varrà indipendentemente dal decreto.

Controlli più severi dei dirigenti
Il vice presidente Gelli ha anche annunciato che prossimamente porterà in giunta una seconda direttiva, oltre a quella sulle patologie gravi. Riguarderà i dirigenti (in tutta la Regione sono circa 150), i quali saranno giudicati anche in base alla capacità di vigilare su assenze e produttività dei loro dipendenti. I dirigenti che non faranno bene il proprio mestiere potranno in questo caso rischiare un taglio del 40% s ulla produttività, pari ad almeno cinquemila euro.


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-06-2009) 03-07-2009, n. 15752

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.M. residente a (OMISSIS), rappresentato e difeso, giusta delega in calce al ricorso, dall’Avv. SALERNO Francesco, elettivamente domiciliato in Roma, Via Ettore Petrolini n. 2 presso lo studio dell’avv. Angela Ludovica Sirignani;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici, in Roma, Via dei Portoghesi, 12 è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53/01/2004, emessa inter partes dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano – Sezione n. 01, in data 19/10/2004 e depositata il 10 novembre 2004.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04 giugno 2 009 dal Relatore Dott. Antonino Di Blasi;

Viste le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale.

Svolgimento del processo
Il contribuente impugnava in sede giurisdizionale il silenzio rifiuto opposto alla domanda di rimborso dell’Irap degli anni dal 1998 al 2000.

L’adita CTP di Milano accoglieva il ricorso, con decisione che veniva riformata dal Giudice di appello, il quale, invece, riteneva fondato il gravame dell’Agenzia Entrate, e sussistenti i presupposti impositivi.

Con ricorso notificato il 17-20 ottobre 2005, il contribuente ha chiesto la cassazione dell’impugnata decisione.

L’Agenzia della Entrate, giusto controricorso notificato il 22.11.2005, ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile e, comunque, rigettato, per infondatezza.

Con istanza 23.03.2009, il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza.

Motivi della decisione
La Corte:

Visto il ricorso, come sopra notificato, con cui il contribuente censura l’impugnata decisione per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, nonché per vizio di motivazione;

Visto il controricorso dell’Agenzia delle Entrate;

Vista la richiesta del Sostituto Procuratore Generale;

Considerato che il ricorso è a ritenersi fondato, sulla base di quanto enunciato dalla Corte di Cassazione in pregresse condivise pronunce, nelle quali è stato affermato il principio secondo cui “a norma del combinato disposto dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, primo periodo, e art. 3, comma 1, lett. c), l’esercizio delle attività di lavoro autonomo è escluso dall’applicazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata; il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell’assenza delle condizioni sopraelencate”. (Cass. n. 3680/2007, 3678/2007, n. 3676/2007, n. 3672/2007);

Considerato che i Giudici di appello, ritenendo che l’attività professionale svolta dal contribuente, dovesse considerarsi autonomamente organizzata, in presenza di elementi di supporto, anche minimali, affermando pure, che “solo per quei professionisti sprovvisti totalmente di propria organizzazione difetta il presupposto di applicabilità dell’Irap”, e giungendo, per tale via, a riconoscere l’esistenza dell’autonoma organizzazione, senza, per altro, indicare gli elementi indici dell’autonoma organizzazione quali desumibili dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, hanno fatto malgoverno dei principi desumibili dalle richiamate pronunce;

Considerato, infatti, che la sentenza omette di indicare, verificare e valutare, in concreto, alla stregua del ricordato principio, gli elementi indice dell’autonoma organizzazione, ed in particolare, la natura e consistenza dei beni strumentali e le spese per prestazioni di lavoro dipendente e collaborazioni coordinate e continuative;

elementi che, secondo l’assunto del ricorrente e dei Giudici di primo grado, erano insignificanti e/o inesistenti, ai fini della configurazione di una autonoma organizzazione;

Considerato, altresì, che la CTR, al riguardo sembra non essere andata oltre una apparente motivazione, e che, quindi, sussiste anche il vizio denunciato con il secondo mezzo, essendo principio consolidato quello secondo cui “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. n. 1756/2006, n. 890/2006);

Considerato che la decisione impugnata va, quindi, cassata e, per l’effetto, la causa rinviata ad altra sezione della CTR della Lombardia, perchè proceda al riesame e, quindi, attenendosi ai richiamati principi ed al quadro normativo di riferimento, decida nel merito, ed anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, motivando congruamente.

P.Q.M.
accoglie il ricorso del contribuente, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Lombardia.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2009


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 28/05/2009) 03/07/2009, n. 15718

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30596-2005 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

DELTAFRUTTA SRL in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CRESCENZIO 91, presso lo studio dell’avvocato LUCISANO CLAUDIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COLOMBO LUIGI, giusta delega a margine;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 77/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO, depositala il 03/10/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/05/2009 dal Consigliere dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il resistente l’Avvocato COLOMBO, che si riporta agli scritti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e ‘Agenzia delle Entrate ricorrono nei confronti della s.r.l. Deltafrutta (che resiste con controricorso successivamente illustrato da memoria) e avverso la sentenza n. 71/26/05, depositata il 3-10-05, con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento Irpef e Ilor per il 1995, la C.T.R. Lombardia, in riforma della sentenza di primo grado (che aveva accolto solo parzialmente il ricorso della contribuente), accoglieva l’appello della suddetta contribuente, in particolare rilevando che la parte di costi ripresi a tassazione e non annullati dai primi giudici riguardava premi che la società era “costretta” a riconoscere ogni fine anno in base al quantitativo di merce acquistata e che i primi giudici avevano motivato il rigetto del ricorso introduttivo sul punto col rilievo che la società non era stata in grado di produrre contratti di fornitura in cui fosse prevista la spettanza al cliente dei suddetti premi, senza considerare che il riconoscimento di tali premi è notoriamente una prassi per chi commercia all’ingrosso ed ha a che fare con grosse aziende ed inoltre che la società aveva “giustificato” i premi contestati con documenti quali fatture e note di accredito.

Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 53 nonchè difetto assoluto di motivazione, i ricorrenti rilevano che, benchè nelle controdeduzioni fosse stata eccepita l’inammissibilità dell’appello perchè notificato all’Ufficio di Milano (OMISSIS) dell’Agenzia delle Entrate e non all’Ufficio Milano (OMISSIS) – che aveva partecipato al giudizio di primo grado ed era in ogni caso l’Ufficio competente, i giudici d’appello avevano deciso il merito senza spendere alcuna motivazione sulla suddetta eccezione.

La censura è infondata.

In particolare, non sussiste il denunciato vizio di violazione di Legge, alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), secondo la quale la notifica da parte del contribuente dell’atto di impugnazione – nel caso di specie l’appello – presso un ufficio dell’Agenzia delle Entrate non territorialmente competente, perchè diverso da quello che aveva emesso l’atto impositivo, non comporta nè nullità nè decadenza dell’impugnazione, sia per il carattere unitario della stessa Agenzia delle Entrate, sia per il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi di inammissibilità, sia, infine, per la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (v. Cass. n. 29465 del 2008).

La censura di difetto di motivazione è invece inammissibile.

In proposito, premesso che il difetto di motivazione denunciato, ancorchè assoluto, riguarda la sola questione in esame, e pertanto non è configurabile nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, è sufficiente rilevare che la questione dell’ammissibilità o meno di una impugnazione notificata ad un Ufficio dell’Agenzia delle Entrate non territorialmente competente è questione di diritto e che, secondo in costante giurisprudenza di questo giudice di legittimità, quando viene denunciato un difetto di motivazione non riguardante un accertamento in fatto, bensì un’astratta questione di diritto, il giudice di legittimità – investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione (manchevole o inesatta) della sentenza impugnata – è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che l’eventuale mancanza o erroneità di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. tra le altre Cass. n. 15764 del 2004 e n. 12753 del 1999).

Col secondo moti vo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. 917/8652, art. 75 e art. 115 c.p.c. nonchè dei principi in tema di documentazione delle spese e degli altri componenti negativi ammessi in deduzione, nonchè di fatti notori, oltre che difetto d i motivazione, i ricorrenti rilevano che la necessaria prova delle spese chieste in deduzione deve essere rigorosa e deve riguardare sia l’an che il quantum della spesa, aggiungendo che il fatto notorio comporta una deroga al principio dispositivo e va perciò inteso in senso rigoroso, come tatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, non potendo ritenersi rientranti nella nozione di fatto notorio elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o la pratica di determinate situazioni e non potendo in ogni caso il fatto notorio concernere il quantum della spese, che riguarda i singoli contratti e le singole pattuizioni rimesse all’andamento del mercato, alla cd. forza di penetrazione del prodotto, nonchè alla rilevanza commerciale ed economica delle parti contrattuali.

La censura è fondata.

Giova infatti innanzitutto premettere che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, qualora l’ufficio finanziario sostenga il carattere fittizio di determinate operazioni, può limitarsi a contestarne il compimento, gravando sul contribuente, che intenda insistere per la deducibilità dei relativi costi, di fornire la prova della loro effettiva sopportazione (v. tra le altre Cass. n. 21474 del 2004 e n. 6591 del 2008), con la conseguenza che gravava sulla contribuente l’onere di fornire la prova sia della sussistenza che del l’ammontare dei suddetti costi.

Nella specie la suddetta prova non risulta fornita, posto che, come emerge dalla sentenza impugnata, la documentazione in proposito fornita è costituita da non meglio identificate fatture e note di accredito, non certo da contratti, di fornitura in cui sia prevista la spettanza al cliente dei suddetti premi ed il loro ammontare, mentre, ove anche si volesse ritenere (prescindendo da ogni altra possibile considerazione) provato per tatto notorio che il riconoscimento di tali premi è una prassi per chi commercia all’ingrosso ed ha a che tare con grosse aziende, mancherebbe in ogni caso la prova del l’ammontare dei suddetti premi.

Con riguardo alla possibilità, per il cedente del bene o il prestatore del servizio, secondo il D.P.R. n. 633 del 1972, di portare in detrazione l’imposta, ai sensi del precedente art. 19, comma 1, registrando la corrispondente variazione d’imposta quando l’operazione commerciale per la quale sia stata emessa fattura veda ridotto il suo ammontare in conseguenza, tra l’altro, di abbuoni o sconti commerciali contrattualmente previsti, a condizione che venga praticato dal contribuente uno sconto sul prezzo di vendita e che la riduzione del corrispettivo al cliente sia frutto di un accordo, sia esso documentale, verbale e finanche successivo, giova evidenziare che la norma riguarda l’IVA e i cd. sconti, non i premi, come peraltro evidenziato dalla stessa giurisprudenza citata dalla contribuente nella memoria illustrativa, secondo la quale “nessun diritto a detrazione può essere riconosciuto quando nelle riduzioni operate sia ravvisabile la natura di premio di fine anno anzi che di sconto” (v. in termini Cass. n. 5006 del 2007 e v. anche Cass. n. 4770 del 2009.

Alla luce di quanto sopraesposto, il primo motivo deve essere rigettato e il secondo deve essere accolto. La sentenza impugnata devi essere cassata in relazione al motivo accolto con rinvio ad altro giudice che provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Rigetta il primo motivo di ricorso e accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Lombardia.

Così deciso in Roma, il 28 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2009


Circolare 005/2009: Poste Italiane: nuove tariffe per invii di corrispondenza raccomandata

Il 29 giugno 2009 è stato pubblicato sulla G.U. n. 148 il D.Lgs. « Disposizioni in materia di invii di corrispondenza rientranti nell’ambito del servizio postale universale e prezzi degli invii di corrispondenza raccomandata e assicurata, non attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie, per l’interno e per l’estero.».

Tale D.lgs prevede l’aumento delle tariffe per l’invio della posta raccomandata ora denominata “retail” e viene introdotta una nuova tariffa denominata “non retail” soggetta a tariffe differenziate per aree geografiche.

Ambedue le tipologie si distinguono dagli invii attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie, cioè alle raccomandate spedite dalle pubbliche amministrazioni, che mantengono le tariffe precedenti a questa manovra tariffaria qui sotto riportate.

Al fine di poter applicare le tariffe sotto riportate, ogni Ente dovrà consegnare alle Poste Italiane la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà (Accesso al sistema tariffario “Invii di corrispondenza raccomandata ed assicurata attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”) ove si dichiara di poter spedire invii attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie ai sensi dell’art. 4, comma 5 del D. Lgs. 261/1999.

Pertanto la richiesta del Rimborso Spese di Notifica previsto dall’art. 10 della L. 265/1999 e successivi decreti attuativi, rimarrà inalterato, € 5,88 in aggiunta alle spese postali, cioè € 2,80 oltre € 0,60 per l’A.R.

Leggi: Circolare 2009-005 Poste Italiane nuove tariffe per invii di corrispondenza raccomandata

Invii di Posta Raccomandata attinenti le procedure amministrative e giudiziarie (Art. 4 del Decreto Legislativo 22 luglio 1999, n. 261)

Prezzi per l’Italia
Scaglioni di peso euro
fino a 20 g – invii standard (*)

2,80

oltre 20 g fino a 50 g

3,20

oltre 50 g fino a 100 g

3,25

oltre 100 g fino a 250 g

4,05

oltre 250 g fino a 350 g

4,15

oltre 350 g fino a 1000 g

6,35

oltre 1000 g fino a 2000 g

8,35

plichi indivisibili oltre 2000 g fino a 20000 g

12,50

(*) Agli invii non standard fino a 20 grammi si applica il prezzo del secondo scaglione di peso

Formati
Dimensioni Minimo Standard. Massimo
Lunghezza 140 mm da 140 a 235 mm 353 mm
Altezza 90 mm da 90 a 120 mm 250 mm
Spessore 0,15 mm 5 mm 50 mm
Peso 3 g 20 g 2000 g

Invii di forma cilindrica: lunghezza + due volte il diametro compresa tra 170 mm e 1040 mm, dimensione più grande compresa tra 100 mm e 900 mm.

Atti giudiziari
Scaglioni di peso euro
fino a 20 g – invii standard (*)

5,60

oltre 20 g fino a 50 g

6,00

oltre 50 g fino a 100 g

6,05

oltre 100 g fino a 250 g

6,85

oltre 250 g fino a 350 g

6,95

oltre 350 g fino a 1000 g

9,15

oltre 1000 g fino a 2000 g

11,15

(*) Agli invii non standard fino a 20 grammi si applica il prezzo del secondo scaglione di peso


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 18-03-2009) 02-07-2009, n. 15525

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ESATRI – Esazione Tributi s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa in forza di mandato generale alle liti del 9.9.1999 n. 38925/2584 di repertorio del Notaio Stefano Zanardi di Milano e di delega a margine del ricorso dagli avvocati Bertolotti Maria e dagli avvocati Simona Napolitani e Antonio Spinoso, con domicilio eletto presso lo studio dei secondi in Roma, Viale delle Milizie n. 1;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DI ITALGRUPPI s.a.s. di Pappalardo Banino e C. e del socio accomandatario P.B. in persona del Curatore C. M., elettivamente domiciliato per il giudizio di secondo grado in Lecco, via Cavour n. 52 presso il dott. Marco Barassi.

– resistente non costituita nel presente grado del giudizio –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Milano – Sezione n. 42 – n. 16/42/05 pronunciata il 19 gennaio 2005, depositata il 3 febbraio 2005 e notificata il 19 maggio 2005;

udita la relazione del Consigliere Dr. Renato Polichetti;

Viste le conclusioni scritte del P.G. Dott. Ennio Attilio Sepe.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza del 24.09.2001 la Commissione Tributaria Provinciale di Milano rigettava il ricorso della società Italgruppi s.a.s. di Pappalardo Banino e c. fallita in persona del Curatore fallimentare, avverso gli avvisi di mora, notificati in data 26.06.2000, emessi dalla concessionaria dalla riscossione Esatri s.p.a. in materia di IVA e accessori per gli anni 1992, 1994, 1995 e 1996 per un totale di L. 682.129.637 pari ad attuali Euro 352.290,56.

Tale sentenza veniva appellata dal Curatore fallimentare, autorizzato dal giudice delegato, adducendo la nullità degli avvisi di mora non preceduti da regolare notifica delle cartelle di pagamento cui i suddetti avvisi si riferivano. La Commissione Tributaria Regionale di Milano accoglieva l’appello e per l’effetto annullava i suddetti avvisi di mora.

Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso innanzi a questa Corte La Esatri s.p.a. deducendo la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30 così come modificato dal D.L. 31 dicembre 1996, art. 5, comma 4, lett. B convertito nella L. n. 30 del 1997, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la predetta norma non prevedeva alcuna sanzione in relazione alla mancata notifica della cartella esattoriale ed essendo sufficiente la sola notifica dell’avviso di mora.

Deduceva, inoltre, la società ricorrente la violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la cartelle esattoriali prodromi che agli avvisi di mora impugnati erano stati effettuati presso la sede della società destinataria degli stessi; in ogni caso doveva trovare applicazione il comma 3 del suddetto articolo che, con il richiamo agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. attribuisce validità alla notifica effettuata a mani di soggetti diversi dal legale rappresentante peraltro elencati solo in modo esemplicativo.: Nel caso di specie la notifica doveva ritenersi valida anche se effettuato non a mani del legale rappresentante. Deduceva infine la società ricorrente la insufficienza e contraddittorietà della motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la Commissione Tributaria Regionale avrebbe operato una erronea equiparazione tra procedimento di riscossione e procedimento esecutivo. Il primo motivo di ricorso è infondato. Come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte: “In materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poichè tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 3, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa” (Sez. U, Sentenza n. 5791 del 04/03/2008 (Rv. 602254)).

Ciò vale per l’omessa notifica di avvisi di accertamento effettuati, come nel caso in esame, in epoca anteriore alla riforma introdotta dal D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 (Cass. Sezioni Unite 25.07.2007 n. 16412 Rv. 598269).

Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

Al riguardo deve essere rilevata la contraddittorietà di tale motivo che equipara il comma 3 del citato art. 145 c.p.c., al comma 1.

La norma in questione infatti stabilisce, al comma 1, che: “La notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”.

Solo nel caso in cui la notificazione non possa essere eseguita a norma del comma precedente e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, si osservano le disposizioni degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c..

Se dunque la notifica era stata effettuata ai sensi del comma 1 del suddetto articolo, come sostenuto dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la sede della società, la notifica andava eseguita ai soggetti ivi indicati e non certamente come nel caso di specie a persona qualificatasi quale “conoscente del legale rappresentante”.

Il terzo motivo di ricorso è del pari infondato alla luce della giurisprudenza citata in occasione dell’esame del primo motivo di ricorso.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso. Nulla spese.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2009


Aumento del prezzo della Raccomandata

Con decorrenza 30.06.2009 le Poste Italiane hanno aumentato il costo della Raccomandate che oggi è di € 3,30 con peso sino a 20 gr. Invariato il costo dell’A.R di € 0,60. Rimane pure invariato il costo della Raccomandata Atti Giudiziari a € 5,60.
Invii di Posta Raccomandata attinenti le procedure amministrative e giudiziarie (Art. 4 del Decreto Legislativo 22 luglio 1999, n. 261) non sono soggette a tale aumento. Pertanto per la P.A. nulla è cambiato (vedi circolare su questo sito).


Disposizioni in materia di invii di corrispondenza rientranti nell’ambito del servizio postale universale

Disposizioni in materia di invii di corrispondenza rientranti nell’ambito del servizio postale universale e prezzi degli invii di corrispondenza raccomandata e assicurata, non attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie, per l’interno e per l’estero. (09A07376) (GU n. 148 del 29-6-2009)

IL MINISTRO DELLO SVILUPPO ECONOMICO

in qualità di Autorità di regolamentazione del settore postale

Vista la direttiva 97/67/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 15 dicembre 1997, concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e il miglioramento della qualità del servizio;

Visto il decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, con il quale è stata recepita nell’ordinamento nazionale la Direttiva 97/67/CE;

Vista la direttiva 2002/39/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 10 giugno 2002 che modifica la direttiva 97/67/CE per quanto riguarda l’ulteriore apertura alla concorrenza dei servizi postali della Comunità;

Visto il decreto legislativo 23 dicembre 2003, n. 384, con il quale è stata recepita nell’ordinamento nazionale la predetta Direttiva 2002/39/CE;

Visto, in particolare, l’art. 4, comma 5, del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, che riserva al Fornitore del servizio universale gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie;

Visto, in particolare, l’art. 13 del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, come modificato dal decreto legislativo 23 dicembre 2003, n. 384, in base al quale l’Autorità di regolamentazione del settore postale determina nella misura massima i prezzi dei servizi non riservati rientranti nel servizio universale, in coerenza con la struttura tariffaria dei servizi riservati;

Visto il decreto del Ministero delle comunicazioni 17 aprile 2000, recante «Conferma della concessione del servizio postale universale alla società Poste Italiane S.p.A.», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 102 del 4 maggio 2000;

Vista la deliberazione CIPE 24 aprile 1996, n. 65, recante «Linee guida per la regolazione dei servizi di pubblica utilità»; Vista la deliberazione CIPE 29 settembre 2003, n. 77, recante «Linee guida per la regolazione del settore postale»;

Visto il decreto del Ministero delle comunicazioni 29 dicembre 2005 recante «Ambito della riserva postale per il mantenimento del servizio universale», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 304 del 31 dicembre 2005;

Visto il decreto del Ministro delle comunicazioni 12 maggio 2006, recante «Disposizioni in materia di invii di corrispondenza rientranti nell’ambito del servizio postale universale. Tariffe e prezzi degli invii di corrispondenza per l’interno e per l’estero», pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 115 del 19 maggio 2006;

Visto il Contratto di programma 2006-2008 stipulato tra il Ministero dello sviluppo economico di concerto con il Ministero dell’economia e delle finanze e Poste Italiane S.p.A. stipulato in data 17 settembre 2008, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 234 del 6 ottobre 2008, nonché la delibera CIPE n. 121 del 18 dicembre 2008 concernente lo schema di atto aggiuntivo al predetto Contratto di programma;

Vista la proposta di adeguamento dei prezzi presentata da Poste Italiane S.p.A. in data 23 dicembre 2008, in applicazione del metodo del price cap previsto dall’art. 8 del predetto Contratto di programma, concernente gli invii di corrispondenza raccomandata e assicurata, esclusi quelli attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie, e l’introduzione del servizio di corrispondenza raccomandata e assicurata non retail, al fine di conseguire, mediante una rimodulazione dell’offerta, una parziale copertura dei costi di erogazione del servizio ed una riduzione dell’onere, derivante dagli obblighi di servizio universale, che rimane a carico del bilancio della Società;

Verificata la coerenza della predetta proposta di adeguamento dei prezzi alle disposizioni dell’art. 13 del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261 e a quanto previsto dall’art. 8 del Contratto di programma 2006-2008,

Decreta:

Art. 1.

Invii raccomandati e assicurati non retail per l’interno

1. Sono «invii raccomandati non retail» e «invii assicurati non retail» rispettivamente gli invii di corrispondenza raccomandata e assicurata per l’interno, diversi da quelli attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie, presentati per l’accettazione al Fornitore del servizio universale presso i punti di accesso di cui al successivo art. 2, comma 1, con le modalità di cui al successivo art. 2, comma 2.

2. Per la spedizione degli invii di cui al comma 1 si applicano prezzi differenziati in relazione al peso unitario, al formato e, per i soli invii raccomandati, all’area di destinazione, secondo quanto specificato rispettivamente nell’allegato 1, tabelle a) e b).

3. I prezzi degli invii raccomandati di cui al comma 2 si distinguono per aree geografiche come individuate dalla legge 3 agosto 1999, n. 265, recante «Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla legge 8 giugno 1990, n. 142» in:

a) Area metropolitana (AM): area di destinazione della corrispondenza individuata dall’insieme dei Codici di Avviamento Postale con terza cifra 1 o 9, appartenenti ai Comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari e Napoli;

b) Capoluogo di provincia (CP): area di destinazione della corrispondenza individuata dall’insieme dei CAP con terza cifra 1 o 9, diversi da quelli ricadenti nelle Aree metropolitane;

c) Area extraurbana (EU): area di destinazione della corrispondenza individuata dall’insieme dei CAP con terza cifra 0,5 o 8. 4. All’avviso di ricevimento per l’interno si applica la tariffa prevista per gli invii del primo scaglione di peso diretti nel territorio nazionale di cui all’art. 3, comma 1, del decreto del Ministro delle comunicazioni del 12 maggio 2006.

Art. 2.

Accesso al servizio di corrispondenza raccomandata e assicurata non retail per l’interno

1. I punti di accesso alla rete postale pubblica degli invii di cui all’art. 1 sono pubblicati sul sito web del Fornitore del servizio universale. Eventuali modifiche sono comunicate all’Autorità’ di regolamentazione del settore postale e pubblicate sul sito web del Fornitore del servizio universale.

2. Le condizioni relative alle procedure operative degli invii di cui all’art. 1, quali caratteristiche di prodotto, modalità di consegna, di prelavorazione, di allestimento, di pagamento e di fatturazione sono riportate in allegato 2. Eventuali modifiche riguardanti le suddette condizioni di accesso sono approvate dall’Autorità’ di regolamentazione del settore postale e pubblicate sul sito web del Fornitore del servizio universale.

Art. 3.

Invii raccomandati e assicurati retail per l’interno

1. Sono «invii raccomandati retail» e «invii assicurati retail» rispettivamente gli invii di corrispondenza raccomandata e assicurata per l’interno, diversi da quelli di cui al precedente art. 1, nonché da quelli attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie.

2. Agli invii di cui al comma 1 si applicano rispettivamente i prezzi stabiliti in allegato 1, tabelle c) e d) secondo gli standard e i formati previsti in allegato 3.

3. All’avviso di ricevimento per l’interno si applica la tariffa prevista per gli invii del primo scaglione di peso diretti nel territorio nazionale di cui all’art. 3, comma 1, del decreto del Ministro delle comunicazioni 12 maggio 2006.

Art. 4.

Invii raccomandati e assicurati per l’estero

1. Agli invii raccomandati e assicurati per l’estero si applicano prezzi differenziati per zone di destinazione (zona 1, zona 2 e zona 3 pubblicate sul sito web sito web del Fornitore del servizio universale). I prezzi applicati sono riportati in allegato 1, tabelle da e) a m) secondo i formati previsti in allegato 4.

2. All’avviso di ricevimento per l’estero degli invii diretti alle zone 1, 2 e 3 si applica la tariffa per gli invii di primo scaglione di peso per l’estero della zona 1 di cui all’art. 3, comma 3, del predetto decreto 12 maggio 2006.

Art. 5.

Condizioni generali di servizio

1. Il Fornitore del servizio universale, ai sensi dell’art. 22, comma 2, del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261, provvede ad adeguare le Condizioni generali di servizio alle previsioni contenute nel presente decreto, entro trenta giorni dalla sua entrata in vigore.

Art. 6.

Prezzi speciali

1. Qualora il Fornitore del servizio universale applichi prezzi speciali, ridotti rispetto ai prezzi di cui al presente decreto, agisce nel rispetto dei principi di cui all’art. 13, comma 3-bis del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261.

2. Il Fornitore del servizio universale opera affinché le riduzioni dei prezzi di cui al comma precedente siano giustificate da costi evitati e non gravino sull’onere del servizio universale, dandone evidenza nella separazione contabile di cui all’art. 7 del decreto legislativo 22 luglio 1999, n. 261.

2. I prezzi speciali, nonché eventuali condizioni associate, ed ogni loro successiva variazione, sono comunicati all’Autorità di regolamentazione del settore postale e resi pubblici sul sito web del Fornitore del servizio universale.

Art. 7.

Pubblicazione e entrata in vigore

  1. Il presente decreto è pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana ed entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione.

Roma, 19 giugno 2009                                                                 Il Ministro: Scajola

Allegati


Corte di Cassazione: dipendente lascia l’ufficio senza giustificato motivo? Non basta per il licenziamento

Con la Sentenza n. 14586/2009, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio di diritto secondo il quale, in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione in merito alla proporzionalità tra il fatto addebitato e il recesso, va considerato qualsiasi comportamento attuato dal dipendente che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la continuazione del rapporto comporti un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che, sul rapporto di lavoro, è in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione a attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Sulla base di tale principio, la Corte ha annullato, con rinvio, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Torino, che, in riforma del giudizio di primo grado, aveva ritenuto legittimo il licenziamento, intimato dal datore di lavoro a un dipendente, il quale aveva abbandonato, per un brevissimo lasso di tempo il proprio posto di lavoro, peraltro rimanendo nella sede lavorativa. Ad avviso del giudice del merito, ai fini della legittimità del licenziamento, si doveva tenere conto che la condotta del lavoratore aveva determinato il blocco, anche solo breve, delle macchine e l’abbandono del posto di lavoro di cui il dipendente aveva la responsabilità, inoltre, ciò risultava di maggiore gravità era che il fatto si fosse verificato in orario notturno, quando i controlli dei superiori erano minori, senza che potesse assumere rilievo la lunga carriera lavorativa del dipendente, l’assenza di precedenti sanzioni, la mancanza di qualsiasi danno alla produzione o la previsione di una sanzione diversa dal licenziamento da parte del contratto collettivo.

Avverso la sentenza di appello, il lavoratore ha promosso ricorso per Cassazione e, come si è detto, la Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata, deducendo, tra l’altro, che il giudice del merito aveva omesso una lettura sistematica delle disposizioni contrattuali, nonché una valutazione concreta e complessiva dei fatti, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, non vagliando la lunga durata del rapporto di lavoro e l’assenza di recidiva. La Corte ha osservato che il principio di proporzionalità, tra la sanzione e l’illecito, implica un giudizio di adeguatezza soggettivo, ovvero calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano i fatti contestati, alla luce di tutte le circostanze utili, a apprezzarne l’effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale. Ora, compete al giudice del merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto degli aspetti concreti della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risultino sintomatici della sua gravità rispetto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzitutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma anche all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto delle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni, alla sua particolare natura e tipologia.

Ad avviso della Cassazione, il giudice del merito avrebbe operato una valutazione astratta della vicenda processuale, pertanto, non in grado di cogliere, attraverso la rilevazione degli elementi sintomatici essenziali della sua gravità, l’effettivo disvalore del comportamento addebitato al dipendente.


Decreto anticrisi, passa l’equiparazione tra pubblico e privato delle fasce di reperibilità dei lavoratori in malattia

Fasce di reperibilità in caso di assenza

A far data dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Legge le fasce di reperibilità per i lavoratori pubblici entro le quali devono essere effettuate le visite mediche di controllo, tornano ad essere quelle in vigore per il settore privato: 10.00 – 12.00 (e non più 8.00 – 13.00) e 17.00 – 19.00 (e non più 14.00 – 20.00).

Il decreto conferma i chiarimenti già forniti da alcune circolari in materia di visita fiscale, e cioè che dopo il secondo evento di malattia nell’anno solare, l’assenza dal servizio del lavoratore viene giustificata mediante presentazione di certificazione medica rilasciata da struttura sanitaria pubblica “o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale”.

Assenze dal servizio non equiparate alla presenza (ai fini della produttività)

Il Decreto Legge, ha abrogato la disposizione contenuta nell’art. 71 comma 5 della legge n. 133/2008 “decreto Brunetta”, a decorrere dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e senza effetti retroattivi;
In questo modo tutte le forme di assenza collegate a ferie, permessi retribuiti a vario titolo, agibilità sindacali ecc. ritornano ad essere considerate presenza, ai fini della produttività e comunque sulla base delle regole definite dalla contrattazione aziendale;
In questo modo si ritorna all’autonomia della contrattazione aziendale e si ripristinano legittimi diritti dei lavoratori conquistati con i contratti di lavoro e specifiche normative.

Assunzioni nella pubblica amministrazione e lavoro precario

Il Decreto Legge nel confermare la normativa vigente in materia di assunzioni e di processi di stabilizzazione introduce nuove opportunità:

1) il termine per procedere alle assunzioni di personale a tempo indeterminato relative alle cessazioni verificatesi nell’anno 2008, inclusa la stabilizzazione del personale precario, è prorogato al 31 dicembre 2010;

2) le graduatorie delle assunzioni a tempo indeterminato per le amministrazioni soggette a limitazioni, approvate successivamente al 1 gennaio 2004, sono prorogate al 31 dicembre 2010;

3) la riserva per il triennio 2010 – 2012 a favore del personale precario in possesso dei previsti requisiti, del 40% dei posti nei concorsi banditi per le assunzioni a tempo indeterminato;

4)la possibilità per il triennio 2010 – 2012 di bandire concorsi pubblici per titoli ed esami finalizzati a valorizzare con apposito punteggio l’esperienza professionale maturata dal personale precario;
5) la possibilità di assumere personale precario in possesso dei previsti requisiti, ed appartenente alle qualifiche previste per il reclutamento tramite ufficio di collocamento (art. 16 della legge n. 56/1987);
6) la possibilità per il triennio 2010 – 2012 di destinare il 40% delle risorse disponibili dalla vigente normativa in materia di assunzioni e contenimento della spesa per il personale, per il finanziamento delle assunzioni del personale precario interessato dalle procedure di stabilizzazione.


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 06-05-2009) 22-06-2009, n. 14586

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATTONE Sergio – Presidente

Dott. ROSELLI Federico – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SCIPIONI 182, presso lo studio dell’avvocato SANSONI MAURIZIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BOGGIO MARZET CARLO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CIME BIANCHE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SORMANO MARCO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 522/2007 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 18/04/2007 R.G.N. 1522/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/05/2009 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato ROMANELLI GUIDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RIELLO Luigi, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 13/18.4.2007 la Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale di Biella dell’8.6.2006, impugnata dalle Cime Bianche srl, rigettava la domanda proposta da M.F. per l’annullamento del licenziamento intimatogli il 13.7.2005.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, ai fini della legittimità del licenziamento, rilevava che la condotta del lavoratore aveva determinato il blocco, pur solo momentaneo, delle macchine e l’abbandono del posto di lavoro di cui lo stesso aveva la responsabilità, e che ciò era ancor più grave se si considera che il fatto era avvenuto in orario notturno, ove presumibilmente minori erano i controlli dei superiori, senza che potesse avere rilievo la lunga carriera lavorativa del dipendente, l’assenza di precedenti sanzioni, la mancanza di alcun danno alla produzione o la previsione di una più lieve sanzione da parte del contratto collettivo, trattandosi di elencazione meramente esemplificativa e rilevando nella fattispecie la posizione di responsabile del reparto del dipendente.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.F. con quattro motivi. Resiste con controricorso la Cime Bianche s.r.l., illustrato con memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 1 in relazione agli artt. 72 e 74 del CCNL del settore tessile.

In particolare osserva che la corte piemontese, omettendo una lettura sistematica delle indicate disposizioni contrattuali, non ha considerato che, sulla base delle stesse, l’estrema sanzione del licenziamento è prevista come adeguata solo rispetto alla ipotesi di abbandono del posto di lavoro, che determini pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti:

circostanze nella specie non sussistenti, essendosi trattato del momentaneo allontanamento dalla postazione lavorativa, con permanenza del lavoratore negli stessi locali aziendali, a breve distanza dalla prima e senza alcun danno per la attività produttiva.

Con il secondo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 1455, 2106, 2119 e 2697 c.c. e alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 5, il ricorrente si duole che la corte territoriale ha adottato la massima sanzione senza alcuna effettiva indagine circa la posizione di responsabilità del dipendente, fatta derivare da documenti inutilizzabili (in quanto relativi a procedimenti disciplinari archiviati) e senza accertare la sua riconducibilità al piano tecnico, più che a quello gerarchico. Con il terzo motivo, il ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 1455, 2106, 2119, 2697 e 2727 c.c. e alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 5, che la corte di merito ha connotato di particolare gravità il comportamento contestato tenendo conto dell’orario in cui l’episodio si è verificato senza, tuttavia, accertare l’effettiva assenza di controlli e l’assoluta occasionalità della presenza del direttore nello stabilimento in orario serale.

Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1455, 2106 e 2119 c.c. e art. 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio osservando che la sentenza impugnata, omettendo una valutazione concreta e complessiva dei fatti, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, ha mancato di vagliare la lunga durata del rapporto di lavoro, l’assenza di recidiva e il comportamento successivo stesso del datore di lavoro, il quale si era interessato per reperire al dipendente una nuova occupazione.

I motivi, per la connessione delle argomentazioni e delle problematiche, vanno esaminati congiuntamente e risultano meritevoli di accoglimento nei limiti che saranno oltre specificati.

Deve premettersi, con riferimento al principio di necessaria proporzionalità fra fatto addebitato e recesso (che costituisce il tema controverso essenziale della presente controversia), come la giurisprudenza di questa Suprema Corte abbia da tempo individuato l’inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali (cfr. per tutte Cass. n. 14551/2000; Cass. n. 16260/2004), sicchè quel che è veramente decisivo, ai fini della valutazione della proporzionalità fra addebito e sanzione, è l’influenza che sul rapporto di lavoro sìa in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Ne deriva che la proporzionalità della sanzione non può essere valutata solo in conformità alla funzione dissuasiva che la stessa sia destinata ad esercitare sul comportamento degli altri dipendenti, dal momento che il principio di proporzionalità implica un giudizio di adeguatezza eminentemente soggettivo, e cioè calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano i fatti contestati, alla luce di ogni circostanza utile (in termini soggettivi ed oggettivi) ad apprezzarne l’effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale.

Solo a queste condizioni, del resto, il principio di proporzionalità risulta in grado di influire sul comportamento degli altri dipendenti senza assumere un valore di “esemplarità” disgiunto dalla misura della responsabilità del dipendente e dalla conseguente realizzazione dell’interesse aziendale in termini proporzionati alla portata della prima, garantendo in tal modo, per come si è detto, la reale eticità del rapporto.

Sulla base di tale configurazione, spetta, pertanto, al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitatola tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia.

In particolare merita di essere ribadito che, se la nozione di giusta causa è nozione legale ed il giudice non è vincolato alle previsioni contrattuali configuranti determinate condotte quali giusta causa di recesso, tuttavia ciò non gli impedisce di far riferimento alle valutazioni che le parti sociali abbiano fatto della gravità di determinate condotte come espressive di criteri di normalità (cfr. Cass. n. 2906/2005), con la conseguenza che il datore di lavoro non potrà in linea di principio (e cioè, in assenza di puntuali controindicazioni in punto di proporzionalità) irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (cfr. Cass. n. 19053/2005).

La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati. In particolare, la corte piemontese, non operando una valutazione coordinata e unitaria dei dati legalmente rilevanti ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione, ha assegnato esclusivo ed autosufficiente rilievo alla posizione (peraltro non formalizzata) di responsabilità del dipendente, senza considerare, nell’ambito di un apprezzamento che doveva essere necessariamente globale e non parcellizzato, innanzi tutto le difformi previsioni della contrattazione collettiva, che, enucleate al fine di “garantire un rapporto quanto più definito tra sanzione e mancanza”, hanno tipizzato espressamente il fatto contestato prevedendo, con riferimento allo stesso, le minori sanzioni della sospensione o della multa; previsioni dalle quali la corte di merito non poteva prescindere, specie in un contesto professionale (sicuramente rilevante ai fini della prognosi circa la correttezza del futuro adempimento) caratterizzato da una durata ultraventennale del rapporto e dall’assenza di precedenti sanzioni.

A ciò si aggiunga che, nella ricostruzione dei fatti (sulla quale pure è pesato il rilievo assorbente ed autosufficiente riconosciuto alla posizione di responsabilità del dipendente), i giudici di appello hanno omesso di valutare, anche alla luce delle previsioni contrattuali, se si trattò di vero e proprio abbandono del posto di lavoro, ovvero di momentaneo allontanamento dalla postazione lavorativa, con trasferimento per un assai breve arco di tempo in locali attigui a quelli ove erano siti gli impianti (e quindi, di sospensione del lavoro), così come si è trascurato di considerare il carattere non preordinato della riunione e l’assoluta assenza di danno per la produzione (sospesa per non più di dieci minuti).

Il che implica che la corte di merito ha operato una valutazione sostanzialmente astratta della vicenda processuale, incapace di cogliere, attraverso la rilevazione degli elementi sintomatici essenziali della sua gravità, l’effettivo disvalore del comportamento addebitato.

La sentenza impugnata va, pertanto, cassata e la causa rimessa ad altra corte territoriale, la quale, decidendo anche in ordine alle spese, provvederà a nuovo esame da compiersi alla luce del seguente principio di diritto: “In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitatola tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia”.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Genova.

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2009


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 13-03-2009) 22-06-2009, n. 14528

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SENESE Salvatore – Presidente

Dott. TALEVI Alberto – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – rel. Consigliere

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 30949/2005 proposto da:

V.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI Gina, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

HDI ASSIC SPA, in persona del suo procuratore speciale P. M. elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSTANTINO MORIN 45, presso lo studio dell’avvocato ARDITI DI CASTELVETERE MICHELE, che la rappresenta e difende in forza di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

S.A., N.M., SARA ASSIC SPA, C.A., C.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4714/2005 del TRIBUNALE di ROMA, Sezione Dodicesima emessa il 04/02/05; depositata il 25/02/2005; R.G.N. 32424/02;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13/03/2009 dal Consigliere Dott. ALFONSO AMATUCCI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1.- V.A., passeggera sull’autovettura Alfa 75 condotta da C.A. di proprietà di C. M. ed assicurata presso HDI Assicurazioni s.p.a., convenne in giudizio innanzi al giudice di pace N.M., S. A. e Sara s.p.a. (nelle rispettive qualità di conducente, proprietario ed assicuratrice della Lancia Prisma antagonista) chiedendone la condanna solidale al risarcimento dei danni alla persona riportati a seguito dello scontro tra le due autovetture, che affermò essersi verificato a (OMISSIS) per colpa esclusiva del conducente della Lancia;

2.- Furono in seguito chiamati in causa i C. e HDI Assicurazioni, dei quali pure l’attrice domandò la condanna.

Nella dichiarata contumacia di S.A. (per quanto in questa sede interessa), con sentenza n. 23810/01 il giudice di pace condannò i primi convenuti ( N., S. e Sara) al risarcimento del 50% dei danni riportati dall’attrice, che propose appello, cui resistettero il S., il N. e HDI Assicurazioni s.p.a..

2.- Con sentenza n. 4714/05 il tribunale di Roma, in accoglimento delle eccezioni dei convenuti, ha dichiarato la V. decaduta dall’appello nei confronti di HDI ex art. 327 c.p.c., comma 1, e, rilevata la nullità della notificazione dell’atto di citazione in primo grado ad S.A., ha rimesso la causa al primo giudice per la rinnovazione della notificazione al medesimo della citazione introduttiva.

3.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione V.A. affidandosi a due motivi, cui resiste con controricorso la sola HDI Assicurazioni s.p.a..

Motivi della decisione
1. La società controricorrente prospetta l’inammissibilità del ricorso sul rilievo che il testo della procura speciale rilasciata al difensore, riportato sulla copia notificata del ricorso, non è, in tale copia, sottoscritto dalla parte che la ha rilasciata, sicchè non sarebbe possibile verificare l’effettiva anteriorità della procura rispetto al momento di proposizione del ricorso.

L’eccezione si presta ad essere considerata infondata alla stregua del principio affermato da Cass., 2.7.2007, n. 14697, secondo la quale, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per Cassazione, pur essendo necessario che il mandato al difensore sia stato rilasciato in data anteriore o coeva alla notificazione del ricorso all’intimato, non occorre che la procura sia integralmente trascritta nella copia notificata all’altra parte, ben potendosi pervenire d’ufficio, attraverso altri elementi, purchè specifici ed univoci, alla certezza che il mandato sia stato conferito prima della notificazione dell’atto. Ed ha ritenuto sufficiente, ai fini della prova dell’anteriorità della procura, l’apposizione della stessa a margine dell’originale dell’atto.

La controcorrente sembra addirittura ipotizzare che colui che rilascia la procura debba apporre, in calce alla stessa, due sottoscrizioni: una sull’originale ed una sulla copia notificata del ricorso. Ma a tanto osta il rilievo che la legge (art. 137 cod. proc. civ., comma 2) impone la notificazione di una “copia” dell’atto (esso solo da sottoscrivere anche dal difensore ex art. 125 cod. proc. civ., comma 1), sicchè l’eccezione si presta ad essere ritenuta infondata alla stregua del principio sopra esposto, in linea con la regola generale – che ormai decisamente connota le decisioni di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass., n. 25727 del 2008) in materia processuale – secondo la quale le norme di rito debbono essere interpretate in modo razionale e in correlazione con il principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), in guisa da rapportare gli oneri di ogni parte alla tutela degli interessi della controparte, dovendosi escludere che l’ordinamento imponga nullità non collegabili con la tutela di alcun ragionevole interesse processuale delle stesse (art. 156 c.p.c., comma 3).

2.- Col primo motivo di ricorso sono denunciate violazione e falsa applicazione degli artt. 139 e 160 c.p.c., nonchè della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, in relazione alla ritenuta nullità della notificazione dell’atto di citazione di primo grado ad S. A., ravvisata dal tribunale in quanto “l’atto di citazione risulta inviato a mezzo del servizio postale (art. 149 c.p.c.) presso il domicilio di Vico 2 S. Nicola alla Dogana 15 Napoli (dove peraltro l’atto d’appello è stato regolarmente notificato) e ritirato in data 21.3.2000, non risultando tuttavia nell’avviso di ricevimento alcuna menzione circa la persona (e qualità della stessa) cui il piego veniva consegnato. Di qui l’impossibilità, essendo il S. rimasto contumace in primo grado, di vetrificare la ritualità o meno della notifica ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, con riferimento all’art. 149 c.p.c.”.

Vi si afferma che l’avviso di ricevimento indica che la copia dell’atto è stata consegnata al ricevente che ha sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile, nello spazio riservato al “destinatario o persona delegata” e che Cass., Sez. un., n. 21712 del 2004, ha affermato che la circostanza comporta necessariamente attestazione, facente prova fino a querela di falso, che l’atto è stato consegnato a persona coincidente col destinatario della notificazione; attestazione non superabile dal mero diniego della ricezione dell’atto.

2.1.- Col secondo motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 331 c.p.c., per avere il tribunale dichiarato V.A. decaduta dall’appello nei confronti di HDI assicurazioni s.p.a. nell’assunto che, essendo stata la notificazione dell’appello effettuata nel domicilio reale anzichè in quello eletto presso il difensore, la costituzione in appello della HDI avvenuta oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c., al solo scopo di eccepire l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di primo grado non avesse sanato la nullità, “non ricorrendo l’ipotesi dell’art. 331 c.p.c.”.

Ipotesi che invece ricorreva, vertendosi tra l’altro in un caso di gravame avverso sentenza emessa in causa promossa con azione diretta nei confronti dell’assicuratore per la responsabilità civile ex L. n. 990 del 1969, che contempla un caso di litisconsorzio necessario tra l’assicuratore ed il proprietario del veicolo.

3.- Lo scrutinio del primo motivo, potenzialmente assorbente, induce al rilievo che la sopra citata Cass., Sez. un., n. 21712 del 2004, in fattispecie nella quale era stata eccepita la nullità del procedimento per l’omessa notificazione dell’avviso di discussione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, ha testualmente affermato:

“risulta che la convocazione per l’udienza di discussione è stata notificata alla ricorrente a mezzo del servizio postale e che l’avviso di ricevimento, depositato in atti, indica che la copia dell’atto è stata consegnata al ricevente che ha sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile, ciò comporta l’attestazione, facente prova fino a querela di falso (Cass. 1 marzo 2003, n. 3065), che l’atto è stato consegnato a persona coincidente con il destinatario della notificazione, (indicato come …), e tale attestazione non può essere superata dal mero diniego della ricezione dell’atto”.

L’inequivoco corollario di tale enunciazione – non supportata da motivazione ulteriore rispetto a quella sopra riportata – sarebbe l’enunciazione, nel caso di specie, di un principio del seguente contenuto: “se dall’avviso di ricevimento della notificazione effettuata ex art. 149 c.p.c., a mezzo del servizio postale non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 2, deve ritenersi che la sottoscrizione illeggibile apposta nello spazio riservato alla firma del ricevente sia stata vergata dallo stesso destinatario, con la conseguenza che la notificazione è valida, non risultando integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 cod. proc. civ.”. Alla stregua di tale principio, la censura dovrebbe essere accolta e la sentenza cassata, in quanto dovrebbe concludersi nel senso che il tribunale abbia errato nel ritenere nulla una notificazione invece regolare.

Senonchè il collegio ritiene che a giustificare tale conclusione possa non rivelarsi sufficiente il rilievo che la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 4, preveda che “quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario, la firma deve essere seguita …dalla qualità rivestita dal consegnatario” e che, dunque, possa ritenersi a contrario che l’indicazione della qualità non è necessaria quando il ricevente sia il destinatario medesimo; con la conseguenza che, se nulla sia scritto di seguito alla firma, deve aversi per certo che ricevente e destinatario coincidano, appunto fino a querela di falso.

Il modello dell’avviso di ricevimento, che non consta essere stato predisposto dall’amministrazione in difformità dalla normativa che lo contempla, prevede invero ben 10 ipotesi di “ricevente”, con altrettante caselle destinate ad essere barrate dall’agente postale che effettua la consegna: tra tali ipotesi (e tra tali caselle) le prime due concernono proprio il destinatario (persona fisica o giuridica); sicchè, tutte le volte che il modulo risulti compiutamente compilato dall’agente postale, è comunque rivelata la qualità rivestita dal consegnatario, quand’anche egli sia lo stesso destinatario.

Nella specie, nessuna delle caselle risulta barrata.

La soluzione della questione sembra di determinante rilievo, attenendo alla instaurazione del contraddittorio. Appare dunque opportuno disporre che gli atti siano trasmessi al Primo presidente in vista dell’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE dispone la trasmissione degli atti al Primo presidente in vista dell’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2009


Accertamento notificato nella casa dove è rimasta l’ex? Non è valido

La Sezione Tributaria Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 13510/2009) ha stabilito che non è valido l’accertamento fiscale notificato nella casa dove è rimasta a vivere la ex moglie e ciò anche se lei ha accettato l’atto e si è qualificata come la coniuge. La Corte di Cassazione ha, infatti, precisato che “con riferimento all’art. 60 d.p.r. n. 600 del 1973, atteso che esso prescrive che la notificazione degli avvisi deve essere eseguita presso il domicilio fiscale del contribuente, ma stabilisce, nel contempo, che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dall’avvenuta variazione anagrafica (comma 3). In particolare, tale lettura della norma si impone a seguito della sua declaratoria di illegittimità operata dalla sentenza n. 360 del 2003 della Corte costituzionale, che ha espunto l’inciso che condizionava l’efficacia della variazione al decorso del termine di 60 giorni (!).

L’interpretazione di tale disposizione patrocinata dall’Ufficio ricorrente, secondo cui la variazione dell’indirizzo avrebbe efficacia trascorsi 60 giorni nemmeno dalla variazione anagrafica, quanto dalla successiva comunicazione della stessa parte del comune all’Ufficio medesimo, appare pertanto del tutto insostenibile alla luce del sopravvenuto (rispetto alla data di proposizione del ricorso) arresto del giudice delle leggi. “Non può essere condivisa e prosegue la Corte è la tesi dell’Amministrazione che, lamentando la violazione dell’art. 139 cod. proc. civ., assume la validità della notifica in discorso per essere stato comunque l’atto ricevuto da persona (il coniuge) qualificatosi convivente. Da tale dichiarazione non può invero trarsi altro che una mera presunzione relativa di convivenza (!), presunzione, a sua volta, superabile dall’interessato mediante prova contraria, prova che, nella specie, il giudice a quo, con accertamento di fatto non censurabile se non sotto il profilo è qui non rilevato è del difetto di detta motivazione, ha ritenuto assolta in forza della documentazione da cui risultava sia il precedente cambio di indirizzo della residenza anagrafica del contribuente rispetto al luogo in cui era stata eseguita la notificazione, che l’intervenuta separazione personale con il coniuge che aveva ricevuto la notifica”.


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 18-03-2009) 19-06-2009, n. 14466

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – rel. Presidente

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12061-2008 proposto da:

D.R.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI GINA, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA;

SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati RICCIO ALESSANDRO, PULLI CLEMENTINA, VALENTE NICOLA, giusta mandato in calce del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1272/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/05/2007 R.G.N. 860/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/03/2009 dal Consigliere Dott. GIANCARLO D’AGOSTINO;

udito l’Avvocato PULLI CLEMENTINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RIELLO Luigi che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 1272 depositata il 7 maggio 2007, ha rigettato l’appello proposto da D.R.E., quale erede di B.M., avverso la sentenza 1884/05 del Tribunale di Roma, che aveva dichiarato inammissibile per difetto di valida procura la domanda intesa ad ottenere la condanna dell’INPS al pagamento di interessi e rivalutazione sui ratei di pensione corrisposti in ritardo.

La Corte di Appello ha ritenuto nulla la procura alle liti all’avv. Gina Tralicci perchè rilasciata all’estero ed autenticata dal difensore italiano, mentre avrebbe dovuto essere autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge dello Stato Estero ad attribuirle pubblica fede.

Per la cassazione di tale sentenza la sig.ra D.R. ha proposto ricorso con un motivo. L’INPS resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si denuncia violazione degli art. 83 c.p.c. e art. 2693 c.c. e si sostiene che quando l’autentica della sottoscrizione sia stata effettuata da un difensore esercente in Italia, il rilascio del mandato e l’autentica devono presumersi avvenuti in Italia. Grava di conseguenza sulla parte che eccepisce che la procura non è stata conferita in Italia l’onere di provare tale fatto.

Il ricorso è fondato.

La Corte di Appello, ha correttamente richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo cui la procura alle liti rilasciata all’estero non può essere autenticata dal difensore italiano della parte, ma deve essere autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge dello Stato estero (Cass. n. 8867/2003, n. 6776/2004); tuttavia, quando l’autentica della sottoscrizione sia stata effettuata da un difensore esercente in Italia, il rilascio del mandato e l’autentica della sottoscrizione devono presumersi avvenuti nel territorio dello Stato, anche quando il mandante risieda all’estero, in difetto di prova contraria da parte di chi ne contesti la validità (Cass. n. 10485/2002, n. 5840/2007).

Di tali principi, però, la Corte territoriale non ha poi fatto corretta applicazione ritenendo nullo il mandato alle liti sul rilievo che “la procura, e l’atto in cui è contenuta, non contengono alcuna indicazione del luogo ove essa sia stata rilasciata, mentre la D.R. è indicata risiedere stabilmente in (OMISSIS)” e valorizzando la circostanza che la ricorrente non si è presentata a rendere l’interrogatorio di cui agli artt. 420 e 442 c.p.c..

La mancata indicazione nell’atto del luogo in cui la procura alle liti è stata rilasciata, e la firma del mandante autenticata, non costituisce, infatti, circostanza idonea a superare la presunzione di rilascio nel territorio dello Stato, atteso che l’art. 83 c.p.c. non richiede che il difensore, nel certificare l’autenticità della sottoscrizione, indichi anche il luogo in cui tale autenticazione è avvenuta, da presumersi fatta nella circoscrizione giudiziaria al cui Albo il professionista è iscritto.

La mancata presentazione della ricorrente all’udienza per rendere F interrogatorio libero di cui all’art. 420 c.p.c., inoltre, è circostanza che può essere valutata dal giudice ai fini del giudizio di fondatezza o meno della domanda, ma che non influisce certo sulla validità della procura alle liti, non potendo da tale circostanza desumersi che il mandato sia stato rilasciato all’estero.

In mancanza di prova contraria da parte dell’Istituto previdenziale, che ne ha contestata la validità, il giudice di appello non poteva dunque ritenere nulla la procura alle liti rilasciata dalla ricorrente.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio della causa per un nuovo esame alla stessa Corte di Appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato e provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2009