Irrituale ma valida la notifica della cartella tramite P.e.c.

L’eventuale irritualità della notificazione di un atto a mezzo PEC non ne comporta la nullità, se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza, ben potendosi applicare alla specie l’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c.; invero, la natura sostanziale e non processuale delle cartelle di pagamento non esclude l’applicabilità alla notifica delle stesse delle norme dettate in materia processuale, essendo tali ultime norme espressamente richiamate nella disciplina tributaria qualificabile come “amministrativa”; e l’art. 26, comma 5, del DPR n. 602 del 1973, concernente la notifica delle cartelle di pagamento, rinvia all’art. 60 del DPR n. 600 del 1973, in materia di notifica degli avvisi di accertamento; e quest’ultimo articolo rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, ivi compresa la norma di cui sopra citata, art. 156 c.p.c. (Cass. n. 6417 del 2019).
Sentenza n. 26099 del 27 settembre 2021 (udienza 28 aprile 2021) Cassazione civile, sezione VI – 5 – Pres. Mocci Mauro – Est. Capozzi Raffaele.


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 30-03-2021) 07-10-2021, n. 27270

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33651/2018 proposto da:

Z.R., in qualità di erede di T.A., rappresentato e difeso dall’avv.to FELICE DE SIMONE, domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

GENERALI ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO CHINOTTO 1, presso lo studio dell’avvocato STEFANO CARNEVALE, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

C.S.;

– intimato –

contro

C.A., rappresentato e difeso dall’avv.to Giuseppe Colavita, giusta procura speciale in atti domiciliato in Roma, presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 4340/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/03/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Svolgimento del processo
1. Z.R., in qualità di erede di T.A., ricorre, affidandosi a due motivi illustrati anche da memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli, che – riformando la pronuncia con la quale il Tribunale aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni derivanti dal sinistro stradale occorso nel (OMISSIS) e causato dalla collisione fra due motoveicoli, condotti rispettivamente dal T. e da C.A. (collisione dalla quale erano derivate lesioni personali ad entrambi), ritenendo insufficiente la prova raggiunta sulla dinamica del sinistro – aveva riconosciuto il concorso di colpa nella causazione dell’evento fra i conducenti di entrambi i motoveicoli coinvolti ed aveva liquidato la somma a ciascuno spettante, respingendo, tuttavia, la domanda nei confronti della Generali Ass.ni Spa (già Alleanza Toro Spa) in qualità di impresa designata dal FGVS (evocata in giudizio L. n. 669 del 1969, ex art. 19, lett. b), per mancanza di prova della scopertura assicurativa di entrambi i veicoli.

2. Hanno resistito sia C.A., spiegando anche ricorso incidentale sulla scorta di due motivi, sia la compagnia Generali Ass.ni Spa con controricorso.

3. Entrambi hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente principale, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2733 e 2697 c.c. e degli art. 115 e 116 c.p.c..

1.1. Lamenta che la Corte d’Appello aveva violato l’art. 116 c.p.c., in quanto aveva fatto prevalere il proprio libero convincimento sulle emergenze processuali, fondate sulle prove legali raccolte, quali l’interrogatorio formale deferito alla controparte (dal quale emergeva, in termini confessori, l’assenza di copertura assicurativa del motoveicolo da lui condotto), e le prove testimoniali assunte che avevano confermato la medesima circostanza.

1.2. Deduce, altresì, la violazione dell’art. 115 c.p.c., in quanto la decisione aveva omesso di considerare che la parte convenuta aveva spiegato una difesa del tutto generica sulla circostanza relativa alla scopertura assicurativa, proponendo solo nella comparsa conclusionale una eccezione più argomentata ma, comunque, tardiva.

1.3. Si duole, inoltre, della violazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, secondo il quale chi eccepisce l’inefficacia dei fatti dedotti deve provare quelli su cui l’eccezione si fonda: tale principio, in thesi, era rimasto del tutto inosservato dalla Corte, tanto più che si trattava di una situazione caratterizzata dalla “vicinanza della prova”, visto che la compagnia di assicurazioni avrebbe certamente ed agevolmente potuto compiere indagini sull’esistenza della copertura assicurativa dei due motoveicoli.

1.4. Lamenta, infine, che non era stata assegnata alcuna valenza al fatto che la Compagnia aveva spiegato azione di rivalsa nei confronti dello stesso C., rendendo una motivazione, pertanto, del tutto contraddittoria.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente si duole inoltre, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in quanto la Corte territoriale non aveva tenuto conto né delle risultanze della prova testimoniale (dalla quale era emersa la scopertura assicurativa del mezzo), né delle dichiarazioni confessorie rese in sede di interrogatorio formale dall’odierno controricorrente, né della condotta processuale delle parti in relazione alla mancata tempestiva contestazione della scopertura assicurativa.

3. Con il ricorso incidentale proposto da C.A., preceduto dalla espressa adesione ai motivi prospettati nel ricorso principale, vengono dedotte due censure, contenenti argomentazioni ad esso sovrapponibili.

3.1. Con la prima, infatti, si lamenta ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame delle risultanze istruttorie e delle prove testimoniali con violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 116 c.p.c., comma 1 e dell’art. 2967 c.c..

3.2. Con la seconda si deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, error in iudicando ed error in procedendo, con violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. e art. 116 c.p.c., comma 1 e della L. n. 990 del 1969, art. 19, lett. b).

4. Deve preliminarmente respingersi l’eccezione sollevata dalla compagnia di assicurazione in relazione al difetto di notifica del ricorso principale e di quello incidentale: si assume, al riguardo, che la notifica a mezzo PEC di entrambi i ricorsi sarebbe priva dell’indicazione dell’elenco da cui era stato estratto l’indirizzo PEC del destinatario, come previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter.

Da ciò deriverebbe, in thesi, la nullità della notifica ed il passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

4.1. Il rilievo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di affermare la prevalenza del principio del raggiungimento dello scopo degli atti processuali, in ragione del quale va esclusa l’efficacia invalidante della mancata indicazione, nella relata di notifica, dell’elenco pubblico – tra quelli previsti dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter, da cui è stato estratto l’indirizzo di posta elettronica del destinatario (cfr. Cass. Sez. U., 7665/2016; Cass. 6079/2017, 30927/2018).

4.2. E’ stato specificamente affermato, al riguardo, che “le Sezioni Unite di questa Corte, valorizzando l’introduzione del cd. “domicilio digitale”, hanno ritenuto valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-bis, atteso che, proprio in virtù di tale disposizione, il difensore è obbligato a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è a sua volta obbligato ad inserirlo sia nei registri INI-PEC, sia nel ReGIndE, che sono, per l’appunto, pubblici elenchi” (Cass. Sez. U., 23620/2018). Numerose pronunce hanno poi ribadito la piena legittimità di notifiche eseguite presso l’indirizzo PEC risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC) istituito dal Ministero dello Sviluppo Economico, espressamente incluso fra i pubblici elenchi del D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-ter (ex multis Cass. 9893/2019), ribadendo espressamente “il principio, enunciato dalle S.U. n. 23620/2018 (ma, nello stesso senso, già Cass. n. 30139/2017), per cui “in materia di notificazioni al difensore, in seguito all’introduzione del “domicilio digitale”, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla L. n. 114 del 2014, è valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, atteso che il difensore è obbligato, ai sensi di quest’ultima disposizione, a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è obbligato ad inserirlo sia nei registri INI PEC, sia nel ReGindE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia” (Cass. 29749/2019)” (cfr. Cass. 20039/2020 in motivazione).

5. Passando all’esame congiunto, per la sostanziale sovrapponibilità, del ricorso principale e di quello incidentale, il Collegio ritiene che essi siano entrambi infondati.

5.1. La motivazione della Corte territoriale, infatti, pur sintetica in quanto sommariamente riferita alla circostanza che gli attori non avevano affatto fornito la prova della scopertura assicurativa della quale erano onerati, “nemmeno attraverso la prova orale da ognuno indicata” (cfr. pag. 12 della sentenza impugnata), resiste a tutte le critiche prospettate.

5.2. Per ragioni di antecedenza logica deve essere preliminarmente esaminato il secondo motivo del ricorso principale, che risulta inammissibile.

5.3. Infatti, la critica, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia l’omesso esame di tutto il materiale probatorio raccolto lamentando che la Corte “avrebbe omesso di considerare il fatto decisivo per cui risulta dagli atti, dalle risultanze istruttorie e dalle mancate contestazioni di controparte che i veicoli coinvolti nel sinistro fossero entrambi privi di copertura assicurativa” (cfr. pag. 17 u. cpv. del ricorso): in tal modo, la doglianza si risolve in una critica generica della intera motivazione (non più consentita), non essendo stato indicato quale fosse il fatto storico, principale o secondario, e decisivo per una diversa soluzione della controversia, che la Corte avrebbe omesso di considerare per giungere alla motivazione resa.

5.4. Per il resto, in relazione ai motivi prospettati in entrambi i ricorsi, si osserva preliminarmente come le censure in essi contenute non contengano la contestazione di una errata ripartizione degli oneri probatori fra le parti: ed anzi, il ricorrente principale lamenta, in relazione al primo motivo, “una valutazione imprudente della prova” che si risolverebbe in una interpretazione arbitraria del giudice (cfr. pag. 13 terzo cpv. del ricorso principale), mentre il ricorrente incidentale dà perfino atto di essere consapevole che “la prova della scopertura assicurativa incombe in capo al danneggiato” (cfr. pag. 16 secondo cpv. del suo ricorso) anche se può essere affidata a presunzioni, soprattutto nel caso in cui non sia intervenuta alcuna autorità e non siano stati redatti i relativi verbali.

5.5. Pertanto, pacifico, in relazione al caso di specie, che la scopertura assicurativa rappresenti l’elemento costitutivo della domanda di garanzia spiegata nei confronti della compagnia designata dal FGVS, anche se si tratta di una prova negativa (cfr. in termini Cass. 384/2007; Cass. 14854/2013 e, più specificamente Cass. 26991/2017), le censure proposte, lungi dal denunciare alcuna effettiva violazione del paradigma dell’art. 2697 c.c., nonché di quello dell’art. 116 c.p.c., si limitano a lamentare unicamente una pretesa erronea valutazione di risultanze probatorie.

5.6. Preliminarmente, non è inutile rimarcare come la violazione dell’art. 2697 c.c., si configuri nel caso in cui il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (cfr. Sez. U., Sentenza n. 16598 del 05/08/2016): in buona sostanza, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 11892/2016).

6. Nel caso di specie, i ricorrenti errano nel ritenere che nell’istruttoria siano state raccolte “prove legali”, in quanto il compendio probatorio è costituito dalle prove testimoniali assunte e dall’interrogatorio formale deferito ad una parte che era (ed è) litisconsorte necessario della compagnia di assicurazione evocata in giudizio dall’altra (L. n. 990 del 1969, ex art. 23, applicabile ratione temporis, norma successivamente trasposta nel D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 291, comma 4), qualità che, ex art. 2733 c.c., comma 2, preclude di assegnare valore di prova legale alla confessione su fatti che riguardino entrambi, visto che la norma testé richiamata, in tali casi, rimette esplicitamente al libero apprezzamento del giudice la valutazione delle dichiarazioni rese.

7. Per il resto, le censure si risolvono in una critica alla motivazione.

Vale solo la pena di rilevare, al riguardo, che l’esame della prova testimoniale è rimessa all’insindacabile funzione valutativa del giudice di merito, essendo fondata sul principio del libero convincimento; che la circostanza, apparentemente contraddittoria, rappresentata dall’azione di rivalsa spiegata dalla compagnia, non configura una condotta processuale significativa e significante, volta a dimostrare l’ammissione della scopertura assicurativa contestata, in quanto essa era ragionevolmente imposta da un comportamento difensivo prudenziale; infine, il principio di “vicinanza della prova” è stato invocato in modo talmente generico da risultare recessivo rispetto a tutte le altre argomentazioni prospettate, anche in ragione della circostanza opposta dalla compagnia di assicurazione, concernente l’assenza, all’epoca dei fatti (2003), di un sistema informatico tale da consentire una agevole verifica della copertura assicurativa dei veicoli interessati.

8. Pertanto, il Collegio ritiene che la Corte territoriale sia pervenuta ad una valutazione delle emergenze istruttorie che, pur con motivazione sintetica, mostra di essersi attenuta alla ripartizione degli oneri probatori affermati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, tanto da poter essere considerata al di sopra della sufficienza costituzionale: essa, infatti, può essere agevolmente ricondotta alle ragioni sopra illustrate che rendono entrambi i ricorsi – principale ed incidentale – infondati.

9. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

10. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principale ed incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui sono tenuti per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuti.

P.Q.M.
La Corte;

rigetta il ricorso principale e quello incidentale.

Condanna il ricorrente principale e quello incidentale, in solido, alle spese del giudizio di legittimità in favore della parte controricorrente, spese che liquida in Euro 2900,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021


Legittimo che il concessionario del Comune riscuota le multe stradali con l’ingiunzione fiscale

Un automobilista era ricorso al Giudice di Pace per opporsi all’ingiunzione di pagamento di una multa stradale emesso da una società concessionaria del Comune, tramite l’ingiunzione di pagamento; il particolare il ricorrente lamentava, tra l’altro, l’inutilizzabilità dell’ingiunzione fiscale per la riscossione di sanzioni amministrative nonché la carenza di potere del concessionario per procedere con tali modalità. Il Giudice di Pace aveva rigettato la domanda; stessa sorte anche per l’impugnazione della sentenza, davanti al Tribunale.
Nel ricorso presso la Corte di Cassazione l’automobilista ha censurato l’affermazione del giudice del merito secondo cui anche i Comuni possono avvalersi della riscossione di cui all’ingiunzione fiscale anche per il tramite di agenti di riscossione. Ad avviso dell’automobilista ricorrente, invece, le società locali di accertamento e riscossione delle entrate, anche nel caso rispecchino il modello speciale previsto dall’articolo 52, comma 5, lettera b) , del Dlgs 446/1997, non sarebbero legittimate a procedere alla riscossione dei proventi derivanti da violazioni del Codice della strada mediante ingiunzione (Rd n. 639 del 1910).
Per la Corte Suprema di Cassazione il motivo di ricorso è infondato, sentenza n. 26308/2021. Osservano i giudici di legittimità che il ricorrente neppure si cura di mettere in discussione il pertinente precedente di legittimità richiamato dal Tribunale, con la sentenza impugnata. Secondo la Cassazione che comunque, l’affermazione del Tribunale che viene contestata e secondo cui ben può il concessionario per la riscossione emettere l’ingiunzione di cui al Rd n. 639 del 1910, è del tutto corretta al luce del consolidato orientamento della giurisprudenza, che la stessa Cassazione condivide e al quale vi è data continuità nella sentenza in commento.
Per i giudici di legittimità ai fini del recupero delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa per violazione delle norme del codice della strada, i Comuni possono avvalersi della procedura di riscossione coattiva tramite ingiunzione, anche affidando il relativo servizio ai concessionari iscritti all’albo (articolo 53 del Dlgs n. 446 del 1997) essendo tale affidamento consentito dall’articolo 4, comma 2-sexies, del decreto legge n. 209 del 2002, del quale non è intervenuta l’abrogazione, pure inizialmente disposta dall’articolo 7, comma 2, del decreto legge n. 70 del 2011 convertito in legge n. 106 del 2011, non essendo entrate in vigore le disposizioni cui essa era subordinata. La Corte di Cassazione, pertanto, respinge il ricorso dell’automobilista.


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 07-05-2021) 29-09-2021, n. 26308

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18053/2019 proposto da:

Avv. D.C., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso da sè medesimo;

– ricorrente –

e contro

SPEZIA RISORSE SPA, COMUNE di LA SPEZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 99/2019 del TRIBUNALE di LA SPEZIA, depositata il 11/02/2019;

1335 udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 7/05/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA.

Svolgimento del processo
Con ricorso della L. n. 689 del 1981, ex art. 22, D.C. propose, dinanzi al Giudice di pace di La Spezia, opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento n. prot. 1148/2442 del 14 gennaio 2013, emessa da Spezia Risorse S.p.a. per l’importo di Euro 502,57, relativa a verbali di infrazione del C.d.S., lamentando l’inesistenza della notifica, il vizio di motivazione, la violazione dell’art. 112 c.p.c., l’inutilizzabilità dell’ingiunzione fiscale per la riscossione di sanzioni amministrative, la carenza di potere del concessionario e l’illegittimità della maggiorazione semestrale e chiedendo “nel merito, in via principale, accertare e dichiarare la nullità, l’annullabilità, l’illegittimità e/o comunque (l’inefficacia) dell’ingiunzione di pagamento de qua per i motivi suesposti; nel merito, in subordine, accertare e dichiarare la nullità, l’annullabilità, l’illegittimità e/o comunque (l’inefficacia) dell’ingiunzione di pagamento de qua, relativamente alla sanzione L. n. 689 del 1981, ex art. 27; con vittoria di spese, diritti, onorari ed accessori di legge”.

Si costituì Spezia Risorse S.p.a. che chiese il rigetto dell’opposizione e la chiamata, in causa dell’ente creditore, Comune di La Spezia, che si costituì e chiese, a sua volta, il rigetto della domanda.

Il Giudice adito, con sentenza n. 420/2013, pubblicata il 23 settembre 2013, rigettò la domanda avanzata con l’opposizione.

Avverso tale decisione il D. propose appello, cui resistettero entrambi gli appellati.

Il Tribunale di La Spezia, con sentenza n. 99/2019, pubblicata in data 11 febbraio 2019, rigettò il gravame e condannò l’appellante alle spese di quel grado del giudizio.

Avverso la sentenza del Tribunale D.C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo è così rubricato: “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. d) ed e) e artt. 19 e 24, nonché degli artt. 101 e 115 c.p.c. – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della carenza di potere del concessionario”.

Con tale mezzo il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto tardivamente proposte le doglianze relative alla carenza di potere, del concessionario per incompetenza e alla decadenza della ingiunzione di pagamento, per essere state introdotte soltanto con la comparsa conclusionale di secondo grado, sul rilievo che trattavasi di motivi ulteriori di invalidità dell’atto opposto la cui deduzione integrava domanda nuova, inammissibile per mutamento della causa petendi.

Ad avviso del ricorrente si tratterebbe, invece, di eccezioni o mere difese, sempre deducibili e rilevabili anche d’ufficio.

1.1. Il motivo è infondato, in quanto, essendo stato introdotto in primo grado un rimedio impugnatorio, non era possibile già nel prosieguo del primo grado introdurre nuovi motivi a sostegno dell’opposizione e a maggior ragione ciò non era più possibile con la comparsa conclusionale in appello, come correttamente affermato dal Tribunale.

Questa Corte ha peraltro ha già avuto occasione di precisare che l’opposizione all’ingiunzione fiscale integra una domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità della pretesa fatta valere con l’ingiunzione stessa, rispetto alla quale l’opponente assume la veste di attore. Ne consegue che il mutamento, in grado di appello, della ragione addotta a sostegno dell’indicata illegittimità configura non un’eccezione nuova – proponibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2 – bensì una modificazione della causa petendi e, quindi, dell’originaria domanda, soggetta alla preclusione di cui del citato art. 345, comma 1 (Cass., ord., 4/12/2018 n. 31256, relativa proprio ad una fattispecie inerente alla riscossione di una sanzione amministrativa irrogata per la violazione del C.d.S.), nè quelle dedotte nella comparsa conclusionale in appello possono qualificarsi, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, quali mere difese, sicché avrebbero dovuto, comunque, essere tempestivamente e ritualmente sollevate.

1.2. Va pure rilevato che la sentenza è motivata e che i vizi motivazionali indicati in rubrica, oltre a non essere sussistenti nella specie, neppure risultano indicati nell’illustrazione del mezzo.

2. Con il secondo motivo, rubricato “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26… del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 149 c.p.c.. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto delle nullità – inesistenza della notifica”, il ricorrente lamenta che il Tribunale abbia ritenuto la legittimità della notifica a mezzo posta, pur in. assenza della compilazione della relata di notifica, trascurando, ad avviso del D., di tener conto del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 26 e 60.

2.1. Il motivo è inammissibile in quanto non si correla con la motivazione specificamente enunciata sul punto dal Tribunale, che ha pure richiamato espressamente al riguardo pertinenti precedenti giurisprudenziali (v. sentenza impugnata p. 2-3).

Inoltre, l’illustrazione del motivo si articola anche con considerazioni che suppongono la conoscenza del tenore della notificazione in questione che non viene testualmente riportata nè del relativo atto sono fornite le indicazioni specifiche ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

2.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

3. Con il terzo motivo, rubricato “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione alla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), il D.Lgs. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3, sulla “Motivazione del provvedimento”, quale rubrica aggiunta dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 21. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della motivazione per relationem della ingiunzione di pagamento” (così testualmente), il ricorrente censura la sentenza impugnata laddove il Tribunale ha ritenuto che la motivazione per relationem sia da ritenersi valida e sufficiente, contenendo l’ingiunzione quantomeno gli estremi dei verbali che sarebbero stati notificati, dei quali il ricorrente deduce, invece, di averne contestato la notificazione, e sostiene che gli estremi dei verbali non contenenti neppure la violazione contestata né il luogo e il tempo della stessa, ancorché fossero stati richiamati, non avrebbero permesso di integrare la motivazione richiesta all’atto amministrativo, non essendo stati né allegati o riprodotti; assume; infine, che “l’adeguata motivazione dell’atto impositivo deve esserci intesa in un rapporto di relazione con il diritto di difesa del contribuente che deve essere posto in condizione tale da esercitare pienamente il proprio diritto di difesa”.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Ed invero le censure proposte sono del tutto generiche in quanto non viene riportato quando e i quali esatti termini la prospettazione di quanto dedotto in ricorso sia stata fatta valere nel giudizio di merito e tanto in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

A quanto precede va aggiunto che il ricorrente neppure ha criticato le specifiche argomentazioni volte dal Tribunale, in particolare con riferimento all’avvenuta notificazione dei verbali al contravventore, come accertato dal primo Giudice con statuizione non specificamente contestata dall’appellante, e con riferimento alla ritenuta insussistenza del vizio di motivazione della sentenza appellata, dovendosi presumere la conoscenza in capo al ricorrente dei verbali presupposti richiamati nell’atto impugnato, stante l’avvenuta notificazione degli stessi e considerato che, anche a prescindere dalla previa notifica, la menzione degli estremi dei verbali consentiva al D. l’esercizio del diritto all’accesso degli stessi (v. sentenza impugnata, p. 3 e 4).

3.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2.

4. Il quarto motivo è così, rubricato; “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del R.D. n. 639 del 1910, artt. 2 e 3, L. n. 689 del 1981, art. 27, richiamato dall’art. 206 C.d.S.. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della validità del procedimento di cui al R.D. n. 639 del 1910”.

Con il mezzo all’esame il ricorrente censura l’affermazione del Giudice del merito secondo cui anche i Comuni possono avvalersi della riscossione di cui all’ingiunzione fiscale anche per il tramite di agenti di riscossione. Ad avviso del D., invece, le società locali di accertamento e riscossione delle entrate, anche nel caso rispecchino il modello speciale previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52, comma 5, lett. b), non sarebbero legittimate a procedere alla riscossione dei proventi derivanti da violazione del C.d.S. mediante ingiunzione di cui al R.D. n. 639 del 1910.

4.1. Il motivo è infondato.

Il ricorrente neppure si cura di mettere in discussione il pertinente precedente di legittimità richiamato dal Tribunale.

Comunque, l’affermazione del Tribunale che viene in questa sede contestata e secondo cui ben può il concessionario per la riscossione di emettere l’ingiunzione di cui a R.D. n. 639 del 1910, è del tutto corretta al luce del consolidato orientamento della giurisprudenza, che il Collegio condivide e al quale va data continuità in questa sede, secondo cui ai fini del recupero delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa per violazione delle norme del C.d.S., i Comuni possono avvalersi della procedura di riscossione coattiva tramite ingiunzione, di cui al R.D. n. 639 del 1910, anche affidando il relativo servizio ai concessionari, iscritti all’albo di cui al D.Lgs. n. 44 del 1997, art. 53, essendo tale affidamento consentito dal D.L. n. 209 del 2002, art. 4, comma 2 sexies, del quale non è intervenuta l’abrogazione – pure inizialmente disposta dal D.L. n. 70 del 2011, art. 7, comma 2, conv. con mod. nella L. n. 106 del 2011 – non essendo entrate in vigore le disposizioni cui essa era subordinata (Cass., ord., 28/09/2017, n. 22710; v., in senso conforme, Cass. 21/03/2019, n. 8039 e Cass., ord., 20/02/2020, n. 4501).

4.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

5. Con il quinto motivo si deduce “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione de(…) (ll’) L. n. 689 del 1981, art. 27. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della maggiorazione del di(e)ci per cento semestrale”.

Il ricorrente censura l’affermazione del Tribunale secondo cui la maggiorazione del dieci per cento semestrale è legittima quale sanzione aggiuntiva da ritardo” senza null’altro affermare in relazione alle doglianze sollevate al riguardo.

Ad avviso del ricorrente, tale maggiorazione non sarebbe invece dovuta, in quanto la L. n. 689 del 1981, art. 27, riguarderebbe il caso in cui sia stata omessa un’ordinanza o una sentenza “di cui non vi è prova o notizia”.

5.1. Il motivo è infondato. Ed infatti il richiamo alla L. n. 689 del 1981, art. 27, operato dall’art. 206 C.d.S., è integrale; pertanto, la tesi del ricorrente non può essere in alcun modo condivisa, evidenziandosi che, pur non rinvenendosi precedenti specifici sul punto, l’affermazione del Tribunale trova implicita conferma nella giurisprudenza richiamata da quello stesso Giudice ed in quella successiva, che si è espressa in senso conforme, pur se taluni arresti si riferiscono a cartella di pagamento, in quanto i principi ivi affermati ben possono essere applicati al caso di specie. Si fa al riguardo riferimento a Cass., ord., 23/03/2021, n. 8116, secondo cui in materia di sanzioni amministrative (nella specie per violazioni stradali), la maggiorazione del dieci per cento semestrale, della L. n. 689 del 1981, ex art. 27, per il caso di ritardo nel pagamento della somma dovuta, ha natura di sanzione aggiuntiva, che sorge dal momento in cui diviene esigibile la sanzione principale sicchè è legittima l’iscrizione a ruolo, e l’emissione della relativa cartella esattoriale, per un importo che includa, oltre a quanto dovuto per la sanzione principale, anche l’aumento derivante dalla sanzione aggiuntiva (v. anche Cass. 20/10/2016, n. 21259, alla cui esaustiva motivazione si rinvia, e Cass. 1/02/2016, n. 1884).

5.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

6. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

7. Non vi è luogo a provvedere per le spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.

8. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del, gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 28-04-2021) 27-09-2021, n. 26099

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. CAPOZZI Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28333-2019 proposto da:

BUSINESS FOR FUN SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V. ELEONORA D’ARBOREA 30, presso lo studio dell’avvocato BERNARDO CARTONI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1004/15/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA, depositata il 06/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 28/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE CAPOZZI.

Svolgimento del processo
che la s.r.l. “BUSINNES FOR FUN” propone ricorso per cassazione nei confronti di una sentenza CTR Lombardia, di rigetto dell’appello proposto avverso una decisione CTP Milano, che aveva dichiarato inammissibile il suo ricorso per omessa produzione degli originali delle tre cartelle di pagamento impugnate; in particolare, la CTR ha ritenuto che la notifica delle tre cartelle di pagamento impugnate, avvenuta a mezzo PEC, era rituale, in quanto le firme digitali di tipo CAdES e di tipo PAdES, pur se con le differenti estensioni “p7m” e “pdf”, erano entrambe validi ed efficaci; ha ritenuto comunque tardivo il ricorso proposto dalla società contribuente; ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità della previsione di un compenso per la riscossione; ha infine ritenuto tardiva l’eccezione di non conformità all’originale delle copie cartacee degli atti prodotti, siccome sollevata solo in appello.

Motivi della decisione
che il ricorso è affidato ad un unico motivo, con il quale la società ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 1, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 20, comma 1-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto erroneamente la sentenza impugnata aveva affermato che la PEC, con la quale le tre cartelle le erano state notificate, aveva il crisma dell’autenticità, sebbene i files contenenti le cartelle avessero un’estensione “pdf” e non “p7m”; al contrario, l’allegato al messaggio PEC, riproduttivo delle cartelle esattoriali notificate, doveva rappresentare un vero e proprio documento informatico, dotato di firma digitale, si da dover essere generato in formato “p7m”, estensione che rappresentava la c.d. busta crittografica, contenente al suo interno il documento originale, l’evidenza informatica della firma e la chiave per la sua verifica; pertanto la notifica delle tre cartelle, di cui era causa, era da qualificare come giuridicamente inesistente, con la conseguenza che il ricorso di essa società non era tardivo; quanto rappresentato dalla CTR non era condivisibile, avendo essa fatto riferimento ad una sentenza della Cassazione non applicabile alla specie in esame, siccome riferita alla notifica con modalità telematiche degli atti del processo, mentre, nella specie, trattavasi della notifica di cartelle di pagamento, che erano atti amministrativi di natura impositiva, per i quali la riproduzione in formato pdf non era idonea a garantire le esigenze di sicurezza, integrità ed immodificabilità del documento, che potevano assicurare solo i files con estensione “p7m”;

che l’Agenzia delle entrate riscossione (ADER) si è costituita con controricorso;

che l’unico motivo di ricorso proposto dalla società ricorrente è infondato;

che correttamente la CTR ha ritenuto che le tre cartelle di pagamento impugnate fossero state ritualmente notificate alla società ricorrente a mezzo PEC, atteso che, per la validità di detta notifica, non era necessario che i documenti trasmessi avessero estensione “p7m”, essendo sufficiente che essi avessero estensione “pdf”;

che invero la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. SS. UU. n. 10266 del 2018) ha escluso la sussistenza dell’obbligo esclusivo di usare la firma digitale in formato CADES, nel quale il file generato si presenta con l’estensione finale “p7m”, rispetto alla firma digitale in formato PADES, nel quale il file sottoscritto mantiene il comune aspetto “nomefile.pdf”, atteso che anche la busta crittografica generata con la firma PADES contiene pur sempre il documento, le evidenze informatiche ed i prescritti certificati, si che anche tale ultimo formato offre tutte le garanzie e consente di effettuare le verifiche del caso, anche secondo il diritto Euro unitario, non essendo ravvisabili elementi obiettivi, in dottrina e prassi, tali da far ritenere che solo la firma in formato CADES offra garanzie di autenticità, laddove il diritto dell’UE e la normativa vigente nel nostro paese certificano l’equivalenza delle due firme digitali, egualmente ammesse dall’ordinamento, sia pure con le differenti estensioni “p7m” e “pdf”;

che, in ogni caso, l’eventuale irritualità della notificazione di un atto a mezzo PEC non ne comporta la nullità, se la consegna dello stesso ha comunque prodotto, come nella specie in esame, il risultato della sua conoscenza, ben potendosi applicare alla specie l’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c. (cfr. Cass. n. 23620 del 2018); invero, la natura sostanziale e non processuale delle cartelle di pagamento non esclude l’applicabilità alla notifica delle stesse delle norme dettate in materia processuale, essendo tali ultime norme espressamente richiamate nella disciplina tributaria qualificabile come “amministrativa”; e il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 5, concernente la notifica delle cartelle di pagamento, rinvia al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, in materia di notifica degli avvisi di accertamento; e quest’ultimo articolo rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, ivi compresa la norma di cui sopra citata, art. 156 c.p.c. (cfr. Cass. n. 6417 del 2019);

che è pertanto da ritenere che la CTR abbia fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziale vigenti in materia di notifiche di cartelle di pagamento a mezzo PEC;

che il ricorso in esame va pertanto respinto, con condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali, quantificate come in dispositivo;

che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto dalla società contribuente e la condanna al pagamento delle spese processuali, quantificate in complessivi Euro 5.200,00, oltre agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2021


La comunicazione di avvenuta notifica senza avviso di ricevimento

L’atto si perfeziona nei confronti del diretto interessato nel giorno della consegna del piego alla persona abilitata alla ricezione e non in quello successivo al recapito della CAN

Nel caso di notificazione postale ai sensi della legge n. 890/1982, se la busta che contiene l’atto viene recapitata, presso l’indirizzo del destinatario temporaneamente assente, a mani di soggetto abilitato alla ricezione per suo conto, la CAN (Comunicazione di avvenuta notifica) con la quale l’agente postale informa il destinatario stesso dell’avvenuta notificazione è effettuata a mezzo di lettera raccomandata “semplice”, ovvero senza avviso di ricevimento.
Questo il principio confermato dalla Corte Suprema di Cassazione con sentenza n. 20736 del 20 luglio 2021, ove è stato altresì ricordato che in questa ipotesi la notifica si perfeziona nei confronti del diretto interessato nel giorno della consegna del piego alla persona abilitata alla ricezione e non in quello, successivo, di recapito della Can.
Un contribuente impugnava la cartella di pagamento emessa a suo carico sul presupposto della definitività per mancata impugnazione del prodromico atto di accertamento.
Il ricorso, con il quale l’interessato deduceva di non avere mai ricevuto la notifica dell’avviso “a monte”, veniva rigettato dalla Commissione tributaria provinciale di Caserta, il cui verdetto veniva peraltro ribaltato dal giudice tributario di seconde cure con sentenza n. 6132/28/14, del 17 giugno 2014.
Per quanto di più specifico interesse in questa sede, il Collegio regionale campano riteneva nulla la notifica dell’accertamento, che risultava effettuata a mezzo del servizio postale mediante consegna a persona diversa dal destinatario, osservando che nella specie non risultava allegata la ricevuta di ricezione della comunicazione di avvenuta notifica (CAN), richiesta per i casi di recapito del piego nelle mani di soggetto abilitato dalla legge a ricevere l’atto per conto del diretto interessato.
Ricorrendo in sede di legittimità, l’Agenzia censurava il riferito decisum deducendo che, laddove il piego postale venga consegnato a persona diversa dal destinatario, la CAN è una raccomandata senza ricevuta di ritorno e che in ogni caso la notificazione avrebbe dovuto considerarsi perfezionata con la consegna dell’atto e non con il successivo recapito di detta “comunicazione”.
La Corte Suprema di Cassazione, nell’accogliere il ricorso, ha cassato la sentenza impugnata, rinviando per l’eventuale prosieguo del contenzioso alla medesima Commissione regionale di Napoli.
In particolare nel caso di notificazione postale secondo la disciplina di cui alla legge n. 890 del 1982, quando la busta che contiene l’atto da notificare viene recapitata presso l’indirizzo del destinatario a mani di soggetto abilitato alla ricezione per suo conto, l’agente postale è tenuto a notiziare il destinatario stesso dell’avvenuta notificazione a mezzo di lettera raccomandata “che, in assenza di una prescrizione normativa di utilizzo della raccomandata con avviso di ricevimento, può essere legittimamente effettuata con raccomandata semplice (Corte Suprema di Cassazione, sentenza n. 10554/2015)”.
Tale procedura “semplificata”, stabilita per i casi di consegna a soggetto diverso dal destinatario dell’atto e che prevede l’invio della prescritta comunicazione dell’avvenuta notificazione dell’atto notificando, spiega la Corte, “è dovuta alla ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) aventi con esso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a questo fine” (Corte Suprema di Cassazione, sentenza n. 10012/2021).
Inoltre, per il perfezionamento dell’iter di notifica non è richiesta la ricezione della raccomandata cosiddetta informativa essendo sufficiente che ne consti la sola spedizione.
Si osserva, pertanto, che in ambito tributario, la notificazione – strumento finalizzato ad assicurare la “conoscenza legale” di un atto in capo ad un determinato oggetto, al fine di consentirgli di prenderne contezza e di eventualmente esercitare il suo diritto alla difesa giurisdizionale – è prevista con riguardo a tutti gli atti emessi dall’amministrazione finanziaria.
Le fasi attraverso cui si snoda tale procedimento sono puntualmente disciplinate dalla legge nel rispetto del principio cardine secondo il quale la discrezionalità del legislatore incontra un limite nel fondamentale diritto del destinatario della notifica “ad essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto…, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli” (Corte Costituzionale, sentenza n. 346/1998; in seguito, nn. 360/2003; 366/2007; 3/2010; 258/2012; 175/2018).
Per quanto riguarda la fattispecie in rassegna, l’articolo 7 della legge n. 890/1982, dopo aver previsto al comma 1 che l’operatore postale “consegna il piego nelle mani proprie del destinatario…”, precisa nel successivo comma che, laddove la consegna non possa essere fatta personalmente al destinatario, “il piego è consegnato, nel luogo indicato sulla busta che contiene l’atto da notificare, a persona di famiglia che conviva anche temporaneamente con lui ovvero addetta alla casa ovvero al servizio del destinatario…” e che, in mancanza di detti soggetti, la consegna può essere eseguita “al portiere dello stabile ovvero a persona che, vincolata da rapporto di lavoro continuativo, è comunque tenuta alla distribuzione della posta al destinatario”.
Per tutti i casi in cui il piego non venga recapitato personalmente al diretto interessato, il comma 3 dell’articolo 7 stabilisce poi che “l’operatore postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata”.
In merito a questa particolare modalità di notificazione, a parte quanto riaffermato dall’ordinanza in rassegna circa la sufficienza della mera spedizione (e non anche della ricezione) della CAN, che può essere inviata anche senza avviso di ricevimento, si può altresì ricordare la giurisprudenza secondo la quale, rispetto agli elementi strutturalmente costitutivi della fattispecie notificatoria, l’invio della CAN ha soltanto un ruolo aggiuntivo di “notizia” dell’“avvenuta notificazione” con la conseguenza che la notifica si perfeziona con la consegna dell’atto e non alla data di spedizione della raccomandata informativa (Corte suprema di Cassazione nn. 4987/2021; 2229/2020; 11562/2019, 7892/2019, 3732/2019).


Linee Guida sull’Indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche

DETERMINAZIONE N. 529/2021
OGGETTO: Linee Guida sull’Indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche, dei professionisti e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese, di cui all’art. 6-quater del CAD.

Leggi: AGID DETERMINAZIONE N. 529-2021


La fusione per incorporazione estingue la società incorporata

La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può iniziare un nuovo giudizio in persona del suo ex amministratore, avendo, invece, facoltà la società incorporante di spiegare, ai sensi e per gli effetti dell’art. 105 c.p.c., intervento volontario in corso di un pendente giudizio del quale già è parte la società incorporata.

Successivamente all’entrata in vigore della riforma del diritto societario (attraverso il D.Lgs. n. 6/2003) si è affermato il principio secondo cui, ai sensi del nuovo art. 2504 bis c.c., la fusione tra società non comporta, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata ma realizza una sorta di unificazione attraverso l’integrazione reciproca delle società che partecipano alla medesima fusione. Questo fenomeno si traduce come una vicenda evolutiva-modificativa dello stesso soggetto giuridico il quale conserva la propria identità anche se assume un assetto organizzativo del tutto innovativo. Tradizionalmente, sulla scorta di questa tesi, la giurisprudenza ha escluso l’esigenza di far interrompere il giudizio, ai sensi dell’art. 300 c.p.c., qualora intervenga una fusione per incorporazione.

Il percorso di avvicinamento al nuovo principio affermato dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 21970 del 30-07-2021.
Col tempo le Corti hanno rivolto approfondite considerazioni sul tema delle conseguenze processuali scaturenti le fusioni per incorporazioni andando, spesso, a rivolgere decisioni sempre più distaccate dal tradizionale principio.

Ad esempio la Corte Suprema di Cassazione ha affermato (Sentenza n. 9137 del 19/05/2020) che la società incorporata in altra perde la legittimazione processuale a promuovere gravame il quale, al contrario, è riconosciuto alla società incorporante. Già un anno primo la Corte Suprema di Cassazione, con la sentenza n. 14177 del 24/05/2019, ebbe modo di affermare che la necessaria destinataria dell’impugnazione, in quanto esclusiva legittimata processuale passiva, è la società incorporante e non già la incorporata non essendo più quest’ultima un soggetto esistente a seguito della fusione.

D’altronde, la legittimazione attiva e passiva della società incorporata si estingue con la cancellazione dal registro delle imprese per incorporazione e con essa i poteri dei suoi organi rappresentativi che in alcun modo possono intendersi prorogati oltre la morte della stessa società.

Un graduale cambiamento di prospettiva da parte della Corte Suprema di Cassazione si è avuto attraverso una rilettura ed una rielaborazione sostanziale del novellato art. 2504 bis 1° comma c.c..

Tale articolo, nella sua versione introdotta dall’art. 13 del D.Lgs. n. 22/1991, disponeva sugli effetti della fusione che: “[…] le società che risultano dalla fusione o quelle incorporanti assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte.”.

L’art. 2504 bis 1° comma c.c.. nella sua attuale formulazione recita: “Effetti della fusione”: “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.

Si ritiene probabile che tale differente formulazione abbia fatto ritenere fondata, a parte della dottrina e della giurisprudenza, la tesi della natura non estintiva della società incorporata o fusa in forza della fusione. Si è ritenuto, invero, che la società incorporante sia soggetto giuridico in continuità con quell’altro che in esso si è fuso (per incorporazione) in quanto appare esplicita la precisazione che tutti i rapporti proseguono, sia sostanziali, sia processuali, in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione, restando, sottinteso, il riferimento ai diritti ed agli obblighi assunti.

Tuttavia, osservando più approfonditamente il suesposto ragionamento apparrebbe contrastante con il tenore letterale della disposizione in commento: se è vero, da un lato, che nel nuovo articolo si è eliminata la parola “estinte”, è altrettanto vero, di converso, che il nuovo art. 2504 bis 1° comma c.c.., in maniera chiarissima, stabilisce che tutti i rapporti, sia sostanziali, sia processuali, proseguono in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione: “proseguono”, in quanto ne è cambiato il titolare, sebbene l’oggettivo rapporto resti il medesimo.

L’espressione “proseguendo in tutti i rapporti” non potrebbe autorizzare a sostenere che il soggetto incorporato non sia estinto; anzi, in forza del diritto positivo, in particolare quello processuale, avviene proprio il contrario laddove la norma del codice di rito sancisce che “il processo è proseguito” ad opera o nei confronti di chi ha assunto ogni rapporto della parte venuta meno, ossia a vantaggio del successore universale.

La nuova impostazione concettuale sulle conseguenze del fenomeno della fusione per incorporazione per come assunte dalle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione.
La Corte Suprema di Cassazione afferma che non vi è motivo di non credere che la fusione, dando vita ad una vicenda modificativa dell’atto costitutivo per tutte le società che vi partecipano, determini un fenomeno di “concentrazione giuridica ed economica“ dal quale consegue che i rapporti giuridici, attivi e passivi, di cui era titolare la società incorporante o fusa, siano imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante o la società risultante dalla fusione. La fusione genera una profondissima ed estesa riorganizzazione aziendale: il capitale, i beni, le risorse umane vengono diversamente destinati secondo il programma economico di cui al progetto di fusione. Nessun elemento materiale, umano ed immateriale, resta uguale a sé stesso, salvo la qualità dei soci che mantengono la loro veste.

Ogni rapporto giuridico, attivo e passivo, è imputato ad un soggetto giuridico diverso da quello originario, ossia la società incorporante, mentre la società incorporata viene cancellata dal registro delle imprese.

Naturalmente nel momento in cui tutti i rapporti si trasferiscono ad altro soggetto (la società incorporante), quello primigenio non li conserva in quanto si estingue. Cessano, invero, per la società incorporata, la sede sociale, la denominazione, gli organi amministrativi e di controllo, il capitale nominale, le azioni o quote che lo rappresentano. La primigenia organizzazione si dissolve e nessuna situazione soggettiva originaria residua. Pertanto, se alcuna posizione soggettiva residua in capo alla società incorporata, non ha significato affermare la permanenza di un soggetto, privo di rapporti o situazioni soggettive di sorta nella propria sfera giuridica, ivi compreso quello con chi lo rappresenti o determini; la sua permanenza nell’ambito dell’ordinamento giuridico, senza poter essere titolare di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, si ridurrebbe a quella di una entità astratta.

Le società fuse o incorporate non restano, pertanto, soggetti del mercato, e, conseguentemente, non possono legittimamente proporre cause civili o esservi convenute. Con la stipula dell’atto di fusione, iscritto nel registro delle imprese e seguìto dalla cancellazione dell’iscrizione delle società incorporate o fuse, i soci provocano, attraverso la sua estinzione, la scomparsa dal panorama giuridico dell’originario soggetto di diritto, quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive. L’unico soggetto giuridico che sopravvive all’evento fusione per incorporazione è l’incorporante.

La fusione per incorporazione, anche a fronte delle suesposte argomentazioni, pure espresse dalla Corte Suprema di Cassazione nella sentenza in commento, non può essere ritenuta come una vicenda meramente modificativa degli assetti anche giuridici della società incorporata e ciò in quanto l’evento genera una sua dissoluzione o estinzione giuridica, contestuale ad un fenomeno successorio.

La fusione per incorporazione, infatti, crea una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati.

Se da un lato è certo che la fusione non è una operazione societaria tesa a concludere tutti i rapporti sociali (come la liquidazione) ovvero a trasferirli sic et simpliciter ad altro soggetto con permanenza in vita del disponente (come, ad esempio, la cessione dei crediti o di azienda o ramo di azienda) in quanto si verifica una concreta prosecuzione dei rapporti se pur mediante un diverso assetto organizzativo, è altrettanto vero che la fusione per incorporazione non rappresenta un mero fenomeno modificativo senza successione universale in senso proprio in quei rapporti giuridici.

Dal nuovo percorso interpretativo dell’art. art. 2504 bis 1° comma c.c.. reso dalle Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione, è possibile sostenere che la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato, consolida la legittimazione attiva dell’incorporante ad agire e proseguire nella tutela dei diritti e la sua legittimazione passiva a subire e difendersi avverso le pretese altrui, con riguardo ai rapporti originariamente facenti capo alla società incorporata; al contrario, la società incorporata, non possedendo più la propria soggettività a seguito della fusione e della cancellazione dal registro delle imprese, neppure vanta una propria autonomo legittimazione processuale attiva e passiva.

Si deve ritenere, quindi, che non sussiste la facoltà di intraprendere un giudizio in capo al soggetto estinto per fusione. Una società ormai estinta non è soggetto autonomo di diritti e non possiede neanche la capacità e la legittimazione processuale per farli valere, essendo stati essi trasferiti alla società incorporante o risultante dalla fusione.

Pertanto, qualora la società fusasi per incorporazione vada ad intraprendere un giudizio si deve presumere che tale determinazione sia opera dei precedenti organi, i quali non sono più tali, spettando una valutazione di tale portata all’esclusiva ed attuale titolare, la società incorporante, per mezzo del suo legale rappresentante. Se da un lato la trasmissione e la continuità di quei rapporti giuridici nel soggetto incorporante lo giustifica ad agire per tutelarli, dall’altro lato l’evento fusione non autorizza la società incorporata a farle valere in autonomia non essendo essa più esistente.

Inoltre, è irrilevante, sostiene la Corte Suprema di Cassazione, che per legittimare una azione processuale illegittimamente intrapresa dalla società incorporata, la società incorporante possa ricorrere all’istituto del falsus procurator sperando così di ratificare gli atti compiuti dal primo; nel caso esaminato, invero, il difetto non risiede nel rappresentante del diritto fatto valere nel giudizio ma nell’effettivo titolare e, quindi, l’istituto di cui all’art. 1399 c.c., non potrebbe ricorrere in ausilio.

Analogamente si deve ritenere che in occasione di una intervenuta fusione, conseguentemente alla estinzione della società incorporata attraverso la cancellazione dal registro delle imprese per incorporazione, il suo ex amministratore, ormai decaduto dalla carica, non può rilasciare al suo procuratore una valida procura per intraprendere un giudizio; la società incorporante, altresì, non può continuare ad essere autonomamente parte di un pendente giudizio, fatta salvo l’intervento volontario della società incorporante ai sensi dell’art. 105 c.p.c. che si può realizzare esclusivamente attraverso un conferimento di una nuova procura da parte del legale rappresentante della società incorporante ad un proprio procuratore.


I termini per la notifica vengono «riaperti» se l’indirizzo è inesistente

Se la prima tempestiva notifica di un avviso di accertamento non è andata a buon fine per causa indipendente dalle Entrate, come l’inesistenza dell’indirizzo, la seconda notifica validamente eseguita presso l’indirizzo corretto, seppur a termini decadenziali ormai spirati, ha effetto retroattivo alla data della prima notifica, quando il potere di accertamento era ancora validamente esercitabile. Con questa argomentazione, la Commissione Tributaria Regionale del Lazio con sentenza n. 3436/8/2021 ha salvato un accertamento notificato tre mesi dopo la scadenza dei termini.
La C.t.r. ha mutuato per la notifica degli atti impositivi quello che la Corte Suprema di Cassazione aveva stabilito per la notifica degli atti processuali: qualora la notificazione dell’atto, da effettuarsi entro un termine perentorio, non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, questi ha la facoltà e l’onere di richiedere all’ufficiale giudiziario/Messo Comunale la ripresa del procedimento notificatorio. Ai fini del rispetto del termine, la conseguente notificazione avrà effetto dalla data iniziale di attivazione del procedimento, sempreché la ripresa sia intervenuta entro un termine ragionevolmente contenuto, considerati i tempi necessari per conoscerne l’esito negativo e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie (Corte di Cassazione, Sezioni Unite 17352/2009, Corte Suprema di Cassazione 4609/2016).
Tuttavia – è stato aggiunto – se l’atto è stato consegnato all’ufficio postale per la notifica, ma risulta mancante la relativa cartolina di ritorno, non vi è prova che il mancato perfezionamento dell’intrapresa procedura non sia addebitabile a colpa del notificante; tale circostanza configura una interruzione nella continuità della procedura notificatoria, sicché non può ritenersi avvenuta una ripresa del procedimento notificatorio e gli effetti della seconda notifica non possono essere ricollegati ad atti della prima e, in particolare, alla consegna all’ufficio postale dell’atto da notificare (Corte Suprema di Cassazione 19060/2015).
Nel caso in oggetto, l’accertamento per il 2011 era stato notificato una prima volta l’11 dicembre 2016, ovvero a ridosso del termine decadenziale del 31 dicembre, secondo la formulazione previgente dell’articolo 43 del Dpr 600/1973. La notifica, però, non era andata a buon fine, atteso che l’indirizzo di destinazione (probabilmente desunto dalla dichiarazione del contribuente) era risultato inesistente. L’ufficio aveva esperito, quindi, una seconda notifica a marzo 2017 a un nuovo indirizzo, corretto, seppur a termini decadenziali ormai spirati.
Per i giudici, la procedura notificatoria era stata tempestivamente ripresa, per cui gli effetti retroagivano alla data della prima notifica esperita a dicembre 2016 e, quindi, ancora in tempo utile per l’accertamento del 2011.


Raccomandata spedita e non recapitata. Perfezionamento

Ai fini del perfezionamento del procedimento di notificazione ex art. 140 c.p.c. qualora la raccomandata con avviso di ricevimento sia stata spedita ma, prima della restituzione al mittente per compiuta giacenza, non risulti recapitata al destinatario, poiché l’avviso non reca alcuna indicazione riguardo alle ragioni della mancata consegna, il procedimento non può ritenersi perfezionato, anche nella prospettiva meno formalista che esige, comunque, che dall’avviso risulti il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo della conoscibilità dell’avviso stesso.
È questo il principio ribadito dalla Corte Suprema di Cassazione, sez. 2 civ., con la sentenza n. 20074/2021 del 14 luglio 2021. Nel costante orientamento della Corte Suprema di Cassazione, essa ha sottolineato che «ai fini del perfezionamento della notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c. non è sufficiente l’allegazione dell’avvenuta spedizione dell’avviso di ricevimento della raccomandata con cui il destinatario viene notiziato dell’avvenuto deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve avere luogo, ma è necessario che dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, si possa ricavare che l’atto è pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario.
In tal senso, si trova affermato che l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso a casa comunale deve recare l’annotazione, da parte dell’agente postale, dell’accesso presso il domicilio del destinatario e delle ragioni della mancata consegna, non essendo sufficiente la sola indicazione del deposito del plico presso l’ufficio postale». Nella sentenza la Corte Suprema di Cassazione non manca di rammentare le diverse pronunce che, in una prospettiva meno formalista, non prevedono che dall’avviso di ricevimento della raccomandata informativa debba risultare (Corte costituzionale 3/2010) il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso (Cass. 32201/2018, 2959/2012).
Su queste premesse, nel caso di specie risulta che la raccomandata con avviso di ricevimento sia stata spedita ma non anche recapitata alla destinataria, prima della restituzione al mittente per compiuta giacenza.
Se dell’avvenuta spedizione fa fede fino a querela di falso l’attestazione contenuta sull’avviso stesso, recante l’indicazione del cronologico, della data di spedizione, del nome della destinataria e del luogo di destinazione, non altrettanto può dirsi per la Corte Suprema di Cassazione con riferimento all’esito della spedizione che è rimasto ignoto, poiché l’avviso non reca alcuna indicazione riguardo alle ragioni della mancata consegna della raccomandata. La Corte Suprema di Cassazione approda quindi alla nullità della notifica del decreto ingiuntivo, con le conseguenti implicazioni in ordine all’ammissibilità dell’opposizione ex art. 650 c.p.c..


Tecnologia 6G, il debutto nel 2030

Il 5G è in fase avanzata ma non ha raggiunto gran parte del pianeta; eppure, si pensa già al 6G. Sono stati ultimati con successo i test della LG Elettronics per la trasmissione e la ricezione di dati wireless 6G terahertz su 100 metri in un ambiente outdoor.
Ciò significa che alcune linee sono già state poste per un primo sviluppo nel 2028 e l’avvio della commercializzazione del 6G nel 2030. Già tre anni fa la Cina aveva annunciato che stava lavorando sul 6G per arrivare alle prime applicazioni a partire dal 2025.
Quando parliamo di 6G il riferimento è alla sesta generazione di comunicazioni wireless che succederà alla tecnologia wireless 5G. In particolare il 6G, come chiarisce www.key4biz.it, utilizza onde ad alta frequenza (THF), le cosiddette onde sub-millimetriche, per raggiungere velocità 100 volte superiori al 5G, che, in confronto, utilizza onde millimetriche (mmWave). Con l’abilitazione del 6G, la latenza risulterebbe inferiore a un microsecondo con una maggiore larghezza di banda per consentire una connettività avanzata. La tecnologia riuscirebbe a colmare il divario tra il mondo digitale e quello reale.
In una comunicazione la stessa LG chiarisce: «Poiché il 6G THz ha una portata ridotta e sperimenta la perdita di potenza durante la trasmissione e la ricezione tra le antenne una delle maggiori sfide nell’evoluzione del 6G wireless è stata la necessità di un’amplificazione di potenza in grado di generare un segnale stabile attraverso le frequenze a banda ultra larga». Da qui l’importanza per la riuscita del test dell’amplificatore di potenza sviluppato da LG, Fraunhofer HHI e Fraunhofer Institute for Applied Solid State Physics (Iaf), in grado di creare un segnale in uscita stabile fino a 15dBm nella gamma di frequenza tra 155 e 175 GHz. Usata anche la tecnologia di beamforming adattivo che trasforma la direzione del segnale in base ai cambiamenti del canale e della posizione del ricevitore, nonché la commutazione di antenna HGA (High-Gain Antenna) che combina i segnali di uscita di più amplificatori di potenza e li trasmette ad antenne specifiche.
Quindi, per una standardizzazione globale del 6G bisognerà attendere il 2025, mentre per la commercializzazione dovrebbe avvenire entro i quattro anni successivi.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 24/11/2020) 12/08/2021, n. 22752

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. MELE Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23563-2012 proposto da:

EVICAR SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO MISIANI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO DE BENEDICTIS;

– ricorrente –

contro

AGENZIA ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE (OMISSIS) – AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SRT;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 116/2011 della COMM. TRIB. REG. della LOMBARDIA, depositata il 20/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/11/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MELE. Per la cassazione della sentenza della commissione tributaria regionale della Lombardia n. 116/49/2011, depositata il 20/07/2011.

Udita la relazione della causa svolte nelle camere di consiglio del 10 dicembre 2020 e del 24 maggio 2021 dal relatore, cons. Francesco Mele.

Svolgimento del processo

che:

– Evicar srl proponeva separati ricorsi avverso avvisi di accertamento relativi a IRPEF, IRAP ed IVA per l’anno d’imposta 2002 – traenti origine da un PVC della Guardia di Finanza.

– Nel contraddittorio tra le parti, la commissione tributaria provinciale di Cremona rigettava i ricorsi, previamente riuniti, con sentenza che era gravata di appello da parte della società contribuente.

– La commissione tributaria regionale rigettava l’appello.

– Per la cassazione della predetta sentenza la contribuente propone ricorso affidato a tre motivi, al quale resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione

che:

– La ricorrente ha depositato in data 27.11.2019 istanza con cui- dopo avere premesso di trovarsi in fase di esecuzione di concordato preventivo omologato- ha chiesto rinviarsi la trattazione del giudizio, a ragione dell’ivi rappresentato imminente pagamento della obbligazione tributaria per cui è causa, nella misura prevista dalla proposta di concordato preventivo, il che avrebbe comportato la cessazione della materia del contendere; allegava nota del Commissario liquidatore, con acclusa istanza autorizzativa di rinuncia al ricorso, e contenente la precisazione che il pagamento del credito vantato dalla Agenzia delle Entrate non avrebbe potuto avere luogo prima del 15 dicembre 2019: da qui la necessità di differire la trattazione della causa.

– Preso atto di quanto precede e rilevata la evidente opportunità, il collegio ha disposto che la causa venisse rinviata a nuovo ruolo.

– La causa è stata poi trattata all’adunanza camerale del 24.11.2020. – Successivamente all’adunanza parte contribuente ha depositato istanza di cessazione della materia del contendere, veniva disposta rituale riconvocazione del collegio per il 24 maggio 2021. – All’esito della odierna camera di consiglio così fissata, il collegio osserva che risultano versati in atti i modelli F24 attestanti avvenuti pagamenti relativi agli atti impositivi per cui è causa.

– Considerato che non sussiste una perfetta coincidenza tra i versamenti effettuati e gli importi portati negli atti impositivi, va, comunque, rilevata la sopravvenuta carenza di interesse della contribuente -che ha dedotto, appunto, la cessazione della materia del contendere- alla prosecuzione del giudizio con conseguente inammissibilità del ricorso.

– Spese compensate.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Spese compensate.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020, il 24 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2021


Commissione Tributaria provinciale Torino Sezione 5 Sentenza 9 agosto 2021 n. 688

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE

SEZIONE 5

riunita con l’intervento dei Signori:

PASSERO GIULIANA Presidente e Relatore

VILLANI MODESTINO Giudice

NICODANO MICHELE Giudice

ha emesso la seguente

SENTENZA

– sul ricorso n. 522/2020

depositato il 18/05/2020

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRPEF-ADD.REG. 2014

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRPEF-ADD.COM. 2014

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRPEF-ALTRO 2014

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IVA-ALTRO 2014

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRAP 2014

– avverso AVVISO DI INTIMAZIONE n. (…) IRPEF-ADD.REG. 201

– avverso AVVISO DI INTIMAZIONE n. (…) IRPEF-ADD.COM. 20

– avverso AVVISO DI INTIMAZIONE n. (…) IRPEF-ALTRO 2014

– avverso AVVISO DI INTIMAZIONE n. (…) IVA-ALTRO 2014

– avverso AVVISO DI INTIMAZIONE n. (…) IRAP 2014

contro:

AG.ENT. – RISCOSSIONE – TORINO

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRPEF-ADD.REG. 2014

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRPEF-ADD.COM. 2014

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRPEF-ALTRO 2014

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IVA-ALTRO 2014

– avverso AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRAP 2014

contro:

AG. ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE I DI TORINO

proposto dai ricorrenti:

(…)

difeso da:

(…)

difeso da:

(…)

CONCLUSIONI DELLE PARTI

RICORRENTE: (…) la nullità dell’avviso di accertamento (…)/2019 (ATTO PRESUPPOSTO) per inesistenza giuridica o nullità della notificazione, in violazione degli articoli 137 e ss., degli articoli 3, comma 1, 7, 8 e 14 Legge 890/1982 e 60 D.P.R. N. 600/73 e violazione dell’articolo 29, comma,1, letta, D.L. 78/2010 convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010 n. 122;

a) dichiari la nullità dell’intimazione di pagamento (…) (ATTO CONSEQUENZIALE) e di tutti gli atti ad esso successivi ed ulteriori per giuridica inesistenza o nullità della notificazione dell’avviso di accertamento presupposto;

b) condanni parte resistente alla refusione delle spese di lite.

AGENZIA ENTRATE RISCOSSIONE; Dichiarare il difetto di legittimazione passiva dell’agente della riscossione in merito a fatti ed attività anteriori alla consegna del ruolo..nel merito confermare la correttezza dell’operato dell’Agente della Riscossione ….con vittoria di spese.

AGENZIA DELLE ENTRATE DP1 Interveniente volontaria Dichiarare il difetto di legittimazione passiva per quanto attiene le censure riguardanti vizi circa le attività della riscossione….- in via pregiudiziale ed assorbente dichiarare l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 19 d.lgs. 546/92 per definitività delle pretese…e/o per tardività …(art. 19 comma 3 e 21) – in via subordinata rigettare il ricorso siccome infondato in fatto e diritto….con vittoria di spese

OGGETTO Avviso di accertamento (…)/2019.

FATTI E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con ricorso avanti questa Commissione Tributaria Provinciale di Torino il contribuente riferisce che in data 08.02.2020 l’Agenzia delle Entrate – Riscossione notificava a mezzo pec l’intimazione di pagamento n. (…) (ATTO CONSEQUANZIALE), relativa all’Avviso di accertamento n. (…)/2019 (ATTO PRESUPPOSTO) asseritamente notificato in data 05.03.2019; che il summenzionato atto presupposto non verme mai ritualmente notificato al ricorrente; che null’altro verme ritualmente notificato prima del 08.02.2020. Il ricorrente effettuava le verifiche necessarie ad appurare se il mentovato avviso di accertamento fosse in suo possesso, con esito negativo. Per quanto sopra, in ricorso il contribuente eccepiva:

I. nullità dell’intimazione di pagamento (…) (atto consequenziale) per inesistenza giuridica o nullità della notifica dell’atto presupposto ivi richiamato in violazione dell’art. 50 dpr 602/73, dell’art. 60 dpr 600/73, dell’art. 29, c.1 d.l. 78/2010, nonché’ dell’art.6, c.1 legge 212/2000.

IL omessa notificazione dell’avviso di accertamento n. (…)/2019 (atto presupposto) emesso ai sensi dell’articolo 29 d.l. 78/2010, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010 n. 122 per inesistenza o nullità giuridica della notificazione, in violazione degli articoli 137 e ss. c.p.c., degli articoli 3, comma 1, 7, 8 e 14 legge 890/1982 e dell’art. 60 d.p.r. n. 600/73.

Si costituiva la ADER affermando che le doglianze del contribuente riguardano solo l’avviso di accertamento emesso dall’agenzia delle entrate e non vi è alcuna eccezione circa la successiva intimazione che da quell’avviso discende. Donde le tolte conclusioni.

Si costituiva altresì nel processo altres’ AE DP1 di Torino affermando che il contribuente non può, con l’impugnazione dell’intimazione di pagamento, considerarsi rimesso in termini per l’impugnativa dell’avviso di accertamento prodromico, atteso che avrebbe dovuto impugnare questo atto.

Afferma che tale avviso è stato notificato in data 5 marzo 2019 , Tatto ricevuto a mani di “familiare convivente” ex art. 139 c.p.c. L. 890/82 e l’agente postale ha correttamente provveduto a notiziare il destinatario con raccomandata informativa n. 62865764812-2.

L’udienza del 3 giugno 2021 aveva luogo in modalità di udienza a distanza, come disciplinato dall’ articolo 16, comma 4 del DL n. 119/2018 convertito dalla legge n. 136/2018 e dall’articolo 27 del DL n. 137/2020, mediante piattaforma Skype for Business. Terminata la discussione la causa era presa a riserva.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Sciolta la riserva, il Collegio dichiara la tempestività della costituzione dell’Agenzia delle Entrate riscossione e la legittimità dell’intervento volontario dell’Agenzia delle Entrate, comunque soggetto titolare del rapporto giuridico-tributario dedotto in giudizio che ben ha potuto, contrariamente alle difese di controparte ribadite anche alla pubblica udienza, svolgere difese e contraddire.

Nel merito della vicenda il ricorso è fondato.

Le difese dell’Agenzia delle entrate volte a censurare il ricorso perché tardivo sono infondate. Invero il contribuente non avrebbe potuto ricorrere avvero l’avviso di accertamento, atto presupposto, non essendosi mai perfezionata la notificazione di questo atto.

L’Agenzia delle Entrate da prova infatti di aver tentato la notifica dell’avviso di aceertamento in data 5 marzo 2019 che, in assenza del destinatario, il notificante lasciava a mani di un famigliare convivente (nipote). E di ciò vi è prova, per quanto in fotocopia, al fascicolo.

Di contro, nonostante l’Ente impositore affermi che il notificante, non avendo trovato direttamente il destinatario, ha proceduto come per legge con la c.d. “raccomandata informativa”, non offre alcuna prova di tale assunto che, anzi, non emerge neppure per tabulas dalla notifica 5 marzo 2019, dove non compare affatto, nell’apposito campo a ciò destinato, l’indicazione dell’invio della raccomandata.

Il Collegio ritiene di aderire alla recente giurisprudenza della Suprema Corte secondo la quale; “In tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per temporanea assenza del destinatario stesso ovvero per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento della procedura notificatoria può essere data dal notificante esclusivamente mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima” (Cass. SSUU 23 febbraio – 15 aprile 2021, n. 10012).

Nel caso di specie peraltro non vi è neppure alcuna prova che tale raccomandata sia stata spedita.

La caducazione dell’atto presupposto, tamquam non notificato (avviso di accertamento) porta con sé la cadueazione degli atti successivi (intimazione di pagamento).

La novità di giurisprudenza in punto notificazione laddove la Suprema Corte ha chiarito solo recentemente aspetti fondamentali della vicenda come sopra, giustificano la compensazione delle spese del grado tra tutte le parti in causa.

La Commissione Tributaria Provinciale di Torino – Sezione 5° -, definitivamente pronunciando ai sensi degli articoli, 61 e 35 del Decreto Legislativo 31 dicembre 1992 n. 546 e artt. 276, 279 del c.p.c. 1

P.Q.M.

Sciolta la riserva, accoglie il ricorso.

Compensa le spese.

Così deciso in Torino, lì 15 luglio 2021.

Depositata in Segreteria il 9 agosto 2021


Lavoratore non vaccinato, sospensione e niente stipendio: la decisione del Tribunale di Modena

L’azienda può sospendere dal servizio e dalla retribuzione il lavoratore che non vuole vaccinarsi contro il Covid-19. Lo ha stabilito il Tribunale di Modena, con l’ordinanza n. 2467 dello 23 luglio 2021 che fa il punto sui diversi diritti contrapposti in tempo di pandemia.

«Il datore di lavoro – si legge nella pronuncia – si pone come garante della salute e della sicurezza dei dipendenti e dei terzi che per diverse ragioni si trovano all’interno dei locali aziendali e ha quindi l’obbligo ai sensi dell’art. 2087 del codice civile di adottare tutte quelle misure di prevenzione e protezione che sono necessarie a tutelare l’integrità fisica dei lavoratori».

Il Tribunale di Modena ricorda come la direttiva Ue 2020/739 del 3 giugno 2020 abbia incluso il Covid-19 tra gli agenti biologici da cui è obbligatoria la protezione anche negli ambienti di lavoro. Rientra quindi tra i doveri di protezione e sicurezza sui luoghi di lavoro, dettati dal Dlgs 81/2008, quello di tutelare i lavoratori da agenti di rischio esterni. Non basta più l’uso delle mascherine, come invocato dalle due ricorrenti, per proteggersi adeguatamente. Così come il datore di lavoro non è tenuto a fornire al lavoratore ulteriori informazioni sui rischi/benefici della vaccinazione, trattandosi di informazioni ormai notorie.

A presentare il ricorso erano state due fisioterapiste di una Rsa assunte da una cooperativa di Modena che le aveva sospese senza retribuzione a seguito del loro rifiuto di vaccinarsi. La sospensione era avvenuta prima dell’entrata in vigore del decreto legge 44/2021 che ha imposto l’obbligo di vaccinazione per il personale sanitario, che quindi non avendo efficacia retroattiva non poteva applicarsi in questo caso.

Il Tribunale ricostruisce allora la vicenda in via generale, delineando il quadro della normativa esistente. Anche se il rifiuto a vaccinarsi non può dar luogo a sanzioni disciplinari, può comportare però conseguenze sul piano della valutazione oggettiva dell’idoneità alla mansione. Così per chi lavora a contatto col pubblico oppure in spazi chiusi vicino ad altri colleghi la mancata vaccinazione può costituire un motivo per sospendere il lavoratore senza retribuzione.

Non trova pregio neppure l’asserita violazione della privacy delle lavoratrici che avevano sottoscritto il consenso informato sulla mancata sottoposizione al vaccino che può essere valutata dal medico aziendale per stabilire l’inidoneità del lavoratore alla mansione.

Il diritto alla libertà di autodeterminazione – spiega l’ordinanza- deve essere bilanciato con altri diritti di rilievo costituzionale come la salute dei clienti, degli altri dipendenti e il principio di libera iniziativa economica fissato dall’articolo 41 della Costituzione.

Pertanto se il datore di lavoro non dispone di mansioni che non prevedano contatti con l’utenza può decidere di sospendere chi non voglia vaccinarsi. Il principio di solidarietà collettiva, grava su tutti (compresi i lavoratori) e rende legittima la scelta del datore di lavoro di allontanare momentaneamente il lavoratore non vaccinato.

Tutti gli studi clinici condotti finora, conclude il provvedimento, hanno dimostrato l’efficacia dei vaccini nella prevenzione del Covid-19. La circostanza che le autorità regolatorie abbiano autorizzato la somministrazione del vaccino a partire da 12 anni serve ad escludere la natura sperimentale dello stesso, rafforzata dal fatto che allo stato non ci sono evidenze scientifiche che provino il rischio di danni irreversibili a lungo termine.


Invalida notifica utilizzando il servizio “seguimi” di Poste italiane

E’ invalida la notifica eseguita dall’Agenzia delle Entrate in un comune diverso rispetto a quello del domicilio fiscale del contribuente, identificato utilizzando il servizio “seguimi” di Poste italiane. Tale servizio di natura contrattuale, ha lo scopo di far pervenire la corrispondenza all’indirizzo indicato dal richiedente e non può essere assimilato all’elezione di domicilio di cui all’art. 60, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973, mancando i requisiti formali prescritti dalla citata disposizione.

Così si è espressa la Corte Suprema di Cassazione con sentenza n. 31479/2019