Giornata di Studio in house Soc. A. e G. Spa Lucca – 28.06.2016

Locandina AeG 2016LA NOTIFICA ON LINE

Martedì 28 giugno 2016

Giornata di Studio in house

Società A. e G. Spa

Via della Canovetta  533/G

S.Pietro a Vico – Lucca

Orario: 9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00

in collaborazione con la Società A. e G. Spa

 Docente:

Asirelli Corrado 6Asirelli Corrado

Resp. Messi Comunali del Comune di Cesena (FC)

Membro della Giunta Esecutiva  di A.N.N.A.

Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Programma:

Il Messo Comunale

· Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

· Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi
  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010
  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

  • Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)
  • La PEC
  • La firma digitale
  • La notificazione a mezzo posta elettronica
  • “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)
  • Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)
  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

  • · La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy

· Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007  (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)

Vedi: Attività di formazione anno 2016

Scarica: Autocertificazioni Fiscali 2016
  1. Dichiarazione DURC
  2. Dichiarazione sulla tracciabilità dei pagamenti, L. 136/2010
  3. Documento d’Identità personale del Legale Rappresentante di A.N.N.A.
  4. Dichiarazione sostitutiva del certificato generale del casellario giudiziale e dei carichi pendenti
  5. Dichiarazione relativa alla fase di liquidazione delle fatture di competenza

Licenziamenti, Cassazione: per gli statali vale l’articolo 18

Il licenziamento del personale del pubblico impiego non è disciplinato dalla legge Fornero, bensì dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Lo afferma la Corte di Cassazione, “all’esito di una approfondita e condivisa riflessione”.

La Cassazione interviene, quindi, con la sentenza n. 11868 della Sezione Lavoro, su una questione da tempo dibattuta su cui ci sono state anche sentenze di diverso orientamento ma il governo, con il ministro della P.A. Marianna Madia, ha sempre tenuto a precisare come l’articolo 18 per gli statali non è stato cambiato né dalla legge Fornero, prima, né dal Jobs act, dopo. Per il pubblico impiego le garanzie sarebbero quindi intatte, con la reintegra in caso di licenziamento senza giusta causa. Un trattamento diverso rispetto ai lavoratori privati, sostiene il ministero, perché è diversa la natura del datore di lavoro. Per mettere fine a possibili diverse interpretazioni il governo resta dell’idea di intervenire, con una norma che chiarisca l’esclusione dei dipendenti pubblici dalle nuove regole.

La precisazione dovrebbe trovare spazio nel testo unico del pubblico impiego, in attuazione della riforma della P.A. Un impegno in questo senso era stato preso alla fine dello scorso anno dal ministro della P.A. Marianna Madia, dopo una sentenza della stessa Corte di Cassazione che allora, però, sembrava dire il contrario, ovvero che le modifiche della Fornero valevano anche per gli statali. Ora tutto sia riallinea.

LA SENTENZA. Serve un “intervento normativo di armonizzazione” per applicare la riforma Fornero anche ai lavoratori del pubblico impiego. Lo sottolinea la Corte di Cassazione sottolineando che la riforma Fornero si applica unicamente al settore privato. Finché non interverranno le norme ad hoc, sottolinea la Corte di Cassazione, “non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art.18 dello Statuto dei Lavoratori, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma”.

Dunque, per gli statali, in caso di licenziamento illegittimo, scatta il reintegro nel posto di lavoro e non la tutela risarcitoria o indennitaria. Per i supremi giudici questa conclusione è avvalorata dal fatto che la legge Fornero “per come formulata nell’art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera C), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l’uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato”.

La legge Fornero, inoltre, secondo la Cassazione, “introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato, per il quale il legislatore, in particolar modo con il D.lgs 27.10.2009 n.150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento”.

Ad avviso dell’Alta Corte, poi, un’eventuale modulazione delle tutele nel pubblico impiego, “richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato” poiché, come stabilito dalla Corte di Cassazione, nel settore pubblico ci sono “garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi”. La Corte di Cassazione ricorda che l’art. 97 della Costituzione “impone di assicurare il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione pubblica”.


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 17-05-2016) 09-06-2016, n. 11868

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Presidente –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3072/2015 proposto da:

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui uffici domicilia ope legis in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– ricorrente –

contro

C.R.;

– intimato –

nonchè da:

C.R., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VILLA ADA 57 presso lo studio dell’avvocato PAOLO GAMBERALE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FRANCESCO SILVESTRI, giusta delega in atti e memoria di costituzione difensore aggiunto del 08/03/2016;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, C.F. (OMISSIS), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui uffici domicilia ope legis in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 10573/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 17/12/2014 R.G.N. 3195/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/05/2016 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato FIGLIOLA ETTORE (AVVOCATURA GENERALE);

udito l’Avvocato GAMBERALE PAOLO in proprio e per delega dell’Avvocato SILVESTRI FRANCESCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELESTE Alberto, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
1 – La Corte di Appello di Roma ha respinto i reclami riuniti, proposti L. 28 giugno 2012, n. 92, ex art. 1, comma 58, dal Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e da C.R. avverso la sentenza del Tribunale di Roma che aveva dichiarato l’intervenuta risoluzione del rapporto di lavoro intercorso fra le parti, per effetto del licenziamento intimato con provvedimento del 2.9.2012, e, ritenuta la violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, aveva applicato il comma 6 dell’art. 18 dello Statuto, come modificato dalla legge sopra richiamata, condannando il Ministero a corrispondere al C. l’indennità risarcitoria onnicomprensiva, quantificata nella misura minima di sei mensilità.

2 – La Corte territoriale ha premesso che il procedimento disciplinare era stato avviato con contestazione del 2 marzo 2004, con la quale era stato addebitato al dipendente, per quel che qui interessa, di avere effettuato “operazioni per conto dell’Ufficio Provinciale di Roma mentre era in missione per esigenze del CSRPAD (Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicoli e Dispositivi) in località ovviamente diverse”. Il procedimento era stato contestualmente sospeso perchè i fatti emersi a seguito di visita ispettiva, di rilievo penale, erano stati segnalati dal Ministero all’autorità giudiziaria.

A seguito del passaggio in giudicato della sentenza del 24 maggio 2012, che aveva dichiarato estinti per prescrizione i delitti di truffa e falso addebitati all’imputato, il procedimento disciplinare era stato riavviato mediante richiamo alla originaria contestazione e, all’esito della audizione dell’incolpato, era stato disposto il licenziamento per giusta causa senza preavviso, sul rilievo che in almeno 4 dei 49 casi di sovrapposizione sussisteva incompatibilità assoluta fra le missioni, non giustificabile se non ipotizzando gravi falsità compiute nel corso dell’uno o dell’altro incarico, tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario.

3 – La Corte ha ritenuto infondato il reclamo proposto dal Ministero perchè, come evidenziato dal Tribunale all’esito del giudizio di opposizione, la amministrazione aveva violato il principio della necessaria immutabilità della contestazione, in quanto il licenziamento era stato disposto in relazione ad episodi specifici non richiamati nella lettera di avvio del procedimento disciplinare, che, oltre ad essere assolutamente generica, non faceva alcuna menzione della impossibilità di svolgere entrambe le attività dichiarate e della conseguente ritenuta falsità di almeno uno degli atti formati nello stesso giorno.

4 – La Corte territoriale ha poi escluso anche la fondatezza del reclamo proposto dal C., poichè tutti gli atti formati in occasione delle missioni e le relative richieste di rimborso erano stati firmati dal reclamante, il quale provvedeva da solo ad organizzare la propria attività lavorativa, ivi comprese le trasferte. Ha osservato, inoltre, la Corte che la distanza, superiore a 500 Km, fra le due località escludeva che il C. avesse potuto svolgere le attività nella stessa giornata, tanto più che, non avendo il dipendente documentato l’uso del mezzo aereo per gli spostamenti, questi ultimi avrebbero richiesto via terra un arco temporale di 4 – 5 ore. Infine ha richiamato l’accertamento compiuto dai giudici contabili per evidenziare che gli orari delle missioni dichiarate erano comunque incompatibili, sicchè, evidentemente, il C. aveva compilato richieste di rimborso non veritiere.

5 – La Corte di appello ha, inoltre, escluso che la condotta fosse solo colpevole ed ha anche ritenuto che il fatto non fosse riconducibile all’art. 13, comma 4 del CCNL 2006/2009, poichè nella specie non era configurabile una “manomissione” dei fogli di presenza, bensì una falsità nelle dichiarazioni, di gravità tale da giustificare la sanzione espulsiva adottata.

6 – Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso il Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti sulla base di due motivi.

C.R. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale, affidato a due motivi, per censurare i capi della decisione relativi alla affermata sussistenza dei fatti ed alla sussumibilità degli stessi all’ipotesi prevista dall’art. 13, comma 6, del CCNL di comparto. Il Ministero ha resistito con controricorso alla impugnazione incidentale. Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1 – Il ricorso principale denuncia, con il primo motivo, “violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Statuto lavoratori, L. n. 300 del 1970; CCNL 2002/2003 del 12.5.2003 comparto ministeri; art. 115 c.p.c.” in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Il ricorrente, trascritti nel loro contenuto essenziale gli atti del procedimento disciplinare, rileva che, contrariamente a quanto asserito dalla Corte territoriale, sussiste assoluta corrispondenza tra la contestazione degli addebiti e le motivazioni espresse nel provvedimento disciplinare, poichè in sede di riattivazione del procedimento l’amministrazione aveva espressamente richiamato la sentenza del Tribunale Ordinario di Roma e, quindi, il capo di imputazione che conteneva la analitica indicazione di tutte le condotte ritenute di rilievo penale e nel relativo elenco erano inclusi gli episodi in relazione ai quali la misura espulsiva era stata adottata. Aggiunge che nel corso della audizione svoltasi il 28 giugno 2012 il dipendente, assistito dal legale di fiducia, si era difeso proprie sulle plurime sovrapposizioni di missioni, dimostrando di avere piena consapevolezza degli addebiti. La Corte territoriale, quindi, aveva errato nel comparare tra loro solo la contestazione iniziale e l’atto conclusivo del procedimento, senza valutare la nota di riattivazione con la quale l’atto iniziale era stato specificato.

1.1 – Il secondo motivo denuncia la violazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, dell’art. 7 dello Statuto e della normativa contrattuale sul rilievo che il principio della necessaria corrispondenza fra fatto contestato e sanzione non rende illegittimo il licenziamento ogniqualvolta il datore di lavoro provveda solo alla specificazione di aspetti fattuali della condotta contestata, che non risulti modificata quanto alla materialità ed alla gravità. Precisa al riguardo il Ministero che la incompatibilità fra le missioni era già stata evidenziata nella contestazione originaria, nella quale era stato, inoltre, richiamato il verbale ispettivo i cui esiti erano stati posti nella piena conoscenza del C..

2 – Il ricorso incidentale denuncia, con il primo motivo, “violazione e falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Rileva, in sintesi, il ricorrente che la attività svolta in data 18 gennaio 2002 presso la ditta Italbus di (OMISSIS) nonchè presso l’Autoscuola di (OMISSIS) risultava attestata da atti formati dallo stesso C. nella sua qualità di pubblico ufficiale, atti rispetto ai quali non era mai stata proposta dalla amministrazione querela di falso. La Corte territoriale, pertanto, non poteva ricorrere al ragionamento presuntivo in presenza di una prova legale ex art. 2700 c.c., tra l’altro riscontrata anche dalle deposizioni testimoniali assunte durante la fase sommaria. Quanto, poi, alle ulteriori missioni il giudice di appello non aveva in alcun modo considerato che le stesse si erano protratte per più giorni, sicchè ben avrebbe potuto il dipendente ultimare l’attività di collaudo nel corso della mattinata per poi svolgere in altra sede l’attività di esaminatore nel pomeriggio. Infine evidenzia che i fatti posti dalla Corte di Appello alla base della prova presuntiva non presentano i requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dalla legge.

2.1 – Il secondo motivo censura la sentenza impugnata per “violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 4 CCNL personale comparto ministeri 2006/2009, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”. Assume il ricorrente incidentale che la condotta andava eventualmente sussunta nell’ipotesi prevista dalla lettera g) dell’art. 13, comma 4, del CCNL di comparto, in quanto la condotta addebitata, ove ritenuta provata, avrebbe integrato una manomissione dei fogli di presenza o delle risultanze anche cartacee degli stessi, in relazione alla quale il contratto prevedeva una sanzione conservativa.

3 – Ragioni di priorità logica impongono di esaminare innanzitutto il ricorso incidentale con il quale il C., sul presupposto della insussistenza del fatto e, comunque, della non riconducibilità dello stesso ad una delle ipotesi per le quali il contratto collettivo prevede la sanzione espulsiva, ha chiesto alla Corte, in via principale, di pronunciare ex art. 384 c.p.c., comma 2, e di riconoscere le tutele previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, o, in subordine, dal comma 5 dello stesso articolo, come modificato dalla L. 28 giugno 2012, n. 92. L’impugnazione incidentale, quindi, muove dalla ritenuta applicabilità al rapporto di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, applicabilità affermata anche dai giudici di merito che, sia pure senza motivare sul punto, hanno fatto discendere dalla ritenuta violazione delle regole procedimentali le conseguenze previste dal comma 6 della norma modificata.

Ritiene, al contrario, il Collegio che la normativa invocata dal C. non sia applicabile alla fattispecie.

3.1 – Occorre premettere, che in ragione della funzione del giudizio di legittimità di garantire l’osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, nonchè sulla base del principio generale desumibile dall’art. 384 c.p.c., deve ritenersi che, nell’esercizio del potere di qualificazione in diritto dei fatti, la Corte di cassazione può ritenere fondata o infondata la questione, sollevata dal ricorso, per una ragione giuridica diversa da quella specificamente prospettata dalle parti e della quale si è discusso nei gradi di merito, con il solo limite che tale individuazione deve avvenire sulla base dei fatti esposti nel ricorso per cassazione, principale o incidentale, e nella stessa sentenza impugnata e fermo restando che l’esercizio del potere di qualificazione non deve confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e delle eccezioni in senso stretto (in tal senso Cass. 14.2.2014 n. 3437; Cass. 17.4.2007 n. 9143; Cass. 29.9.2005 n. 19132).

E’ stato anche affermato da questa Corte che la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto sussumibile sotto una norma, che ad esso ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di singolo motivo di impugnazione, nondimeno la censura motivata anche in ordine ad uno solo di essi riapre la cognizione sull’intera statuizione, perchè impedendo la formazione del giudicato interno, impone al giudice di verificare la norma applicabile e la sua corretta interpretazione (Cass. 4.2.2016 n. 2217).

Nel caso di specie la tutela reintegratoria invocata con il ricorso incidentale è quella prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, sicchè, per i principi di diritto sopra richiamati, la Corte deve innanzitutto procedere alla esatta qualificazione giuridica dei fatti e, quindi, alla individuazione della normativa applicabile alla fattispecie.

3.2 – Il Collegio non ignora che sulla questione che qui viene in rilievo si sono formati nella giurisprudenza di merito, anche sulla base delle indicazioni provenienti dalla dottrina, orientamenti contrastanti che, per giungere ad affermare o a negare la applicabilità ai rapporti di pubblico impiego contrattualizzato della nuova disciplina, hanno valorizzato, principalmente, da un lato il rinvio mobile alle disposizioni dettate dalla legge n. 300 del 1970 contenuto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 51 e la necessità di garantire, anche dopo la riforma, uniformità di trattamento fra impiego pubblico e privato; dall’altro la L. n. 92 del 2012, art. 1, commi 7 e 8 nonchè la inconciliabilità della nuova disciplina con lo specifico regime imperativo dettato dagli artt. 54 e segg. delle norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche.

La sentenza di questa Corte 25 novembre 2015 n. 24157 ha fatto propria solo parzialmente la prima delle due opzioni esegetiche a confronto, poichè, pur affermando la applicabilità della riforma ai rapporti disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, ha ritenuto di dovere, comunque, salvaguardare la specialità della normativa del procedimento disciplinare dettata per l’impiego pubblico dalle disposizioni sopra richiamate e, quindi, ha ricondotto all’art. 18 comma 1 e 2 modificato la violazione delle regole procedimentali, in quanto causa di nullità del licenziamento.

Il Collegio ritiene che detto orientamento debba essere disatteso, giacchè plurime ragioni inducono ad escludere che il nuovo regime delle tutele in caso di licenziamento illegittimo possa essere applicato anche ai rapporti di lavoro disciplinati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.

Invero la L. n. 92 del 2012, art. 1, dopo aver previsto al comma 7 che “Le disposizioni della presente legge, per quanto da esse non espressamente previsto, costituiscono principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2, e successive modificazioni, in coerenza con quanto disposto dall’art. 2, comma 2, del medesimo decreto legislativo. Restano ferme le previsioni di cui all’art. 3 del medesimo decreto legislativo.”, al comma 8 aggiunge che “Al fine dell’applicazione del comma 7 il Ministro per la pubblica amministrazione e la semplificazione, sentite le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche, individua e definisce, anche mediante iniziative normative, gli ambiti, le modalità e i tempi di armonizzazione della disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche”.

Sebbene la norma, che risulta dal combinato disposto dei commi 7 e 8, sia stata formulata in termini diversi rispetto ad altre disposizioni, con le quali è stata esclusa l’automatica estensione all’impiego pubblico contrattualizzato di norme dettate per l’impiego privato (si pensi, ad esempio, alla D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 1, comma 2), tuttavia a fini interpretativi assume peculiare rilievo il rinvio ad un successivo intervento normativo contenuto nel comma 8, non dissimile da quello previsto dal D.Lgs. n. 276 del 2003, art. 86, comma 8, che ha, appunto, demandato al Ministro della funzione pubblica, previa consultazione delle organizzazioni sindacali, di assumere le iniziative necessarie per armonizzare la disciplina del pubblico impiego con la nuova normativa, pacificamente applicabile al solo impiego privato.

La circostanza che il comma 7 faccia salve le disposizioni della L. n. 92 che dispongano in senso diverso, si giustifica considerando che la stessa legge contiene anche norme che si riferiscono espressamente all’impiego pubblico (in particolare l’art. 2, comma 2, esclude dall’ambito della operatività dell’ASPI i dipendenti delle pubbliche amministrazioni), sicchè la eccezione opera solo con riferimento alle disposizioni in relazione alle quali la questione della applicabilità all’impiego pubblico sia stata già risolta in modo espresso dal legislatore del 2012.

Non è, questo, il caso della nuova disciplina del licenziamento, perchè sulla estensione della stessa all’impiego pubblico nulla è detto nell’art. 1, con la conseguenza che, in difetto di una espressa previsione, non può che operare il rinvio di cui al comma 8.

Ciò comporta che, sino al successivo intervento normativo di armonizzazione, non si estendono ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni le modifiche apportate all’art. 18 dello Statuto, con la conseguenza che la tutela da riconoscere a detti dipendenti in caso di licenziamento illegittimo resta quella assicurata dalla previgente formulazione della norma.

3.3 – Dette conclusioni, fondate sul tenore letterale della disciplina in commento, sono avvalorate da considerazioni di ordine logico e sistematico che, nel rispetto della doverosa sintesi imposta dall’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., possono essere così riassunte:

a) la definizione delle finalità della L. n. 92 del 2012, per come formulata nell’art. 1, comma 1, tiene conto unicamente delle esigenze proprie dell’impresa privata, alla quale solo può riferirsi la lettera c), che pone una inscindibile correlazione fra flessibilità in uscita ed in entrata, allargando le maglie della prima e riducendo nel contempo l’uso improprio delle tipologie contrattuali diverse dal rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato;

b) la formulazione dell’art. 18, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, introduce una modulazione delle sanzioni con riferimento ad ipotesi di illegittimità pensate in relazione al solo lavoro privato, che non si prestano ad essere estese all’impiego pubblico contrattualizzato per il quale il legislatore, in particolar modo con il D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, ha dettato una disciplina inderogabile, tipizzando anche illeciti disciplinari ai quali deve necessariamente conseguire la sanzione del licenziamento;

c) la inconciliabilità della nuova normativa con le disposizioni contenute nel D.Lgs. n. 165 del 2001 è particolarmente evidente in relazione al licenziamento intimato senza il necessario rispetto delle garanzie procedimentali, posto che il comma 6 dell’art. 18 fa riferimento alla sola L. n. 300 del 1970, art. 7 e non agli artt. 55 e 55 bis del D.Lgs. citato, con i quali il legislatore, oltre a sottrarre alla contrattazione collettiva la disciplina del procedimento, del quale ha previsto termini e forme, ha anche affermato il carattere inderogabile delle disposizioni dettate “ai sensi e per gli effetti dell’art. 1339 c.c. e artt. 1419 c.c. e segg.”;

d) una eventuale modulazione delle tutele nell’ambito dell’impiego pubblico contrattualizzato richiede da parte del legislatore una ponderazione di interessi diversa da quella compiuta per l’impiego privato, poichè, come avvertito dalla Corte Costituzionale, mentre in quest’ultimo il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere di risolvere il rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi (Corte Cost. 24.10.2008 n. 351).

Viene, cioè, in rilievo non l’art. 41 Cost., commi 1 e 2, bensì l’art. 97 della Carta fondamentale, che impone di assicurare il buon andamento e la imparzialità della amministrazione pubblica.

3.4 – La ritenuta inapplicabilità della riforma all’impiego pubblico contrattualizzato non può essere esclusa solo facendo leva sul rinvio contenuto nella L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 51, comma 2, “e successive modificazioni ed integrazioni”. Osserva innanzitutto il Collegio che il legislatore del T. U. nel rendere applicabili le disposizioni dello Statuto e, quindi, l’art. 18, a tutte le amministrazioni pubbliche, a prescindere dal numero dei dipendenti, ha voluto escludere in ogni caso, pur in un contesto di tendenziale armonizzazione fra impiego pubblico e privato, una tutela diversa da quella reale nell’ipotesi di licenziamento illegittimo, anche per quelle amministrazioni, pur numerose (si pensi, ad esempio agli enti territoriali minori di limitate dimensioni), per le quali sarebbe stata altrimenti applicabile la tutela obbligatoria prevista dalla L. n. 604 del 1966, art. 8.

Il rinvio, seppur mobile, nasce limitato da detta scelta fondamentale compiuta dal legislatore, che rende incompatibile con la volontà espressa nella norma di rinvio l’automatico recepimento di interventi normativi successivi, che modifichino la norma richiamata incidendo sulla natura stessa della tutela riconosciuta al dipendente licenziato.

Va, poi, sottolineato che, anche in presenza di una norma di rinvio finalizzata ad estendere ad un diverso ambito una normativa nata per disciplinare altri rapporti giuridici, è consentito al legislatore di limitare, con un successivo intervento normativo di pari rango, il rinvio medesimo e, quindi, di escludere l’automatica estensione di modifiche della disciplina richiamata.

Detto intervento, che è quello verificatosi nella fattispecie, fa sì che il rinvio si trasformi da mobile a fisso, ossia che la norma richiamata resti cristallizzata nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla riforma, che, quindi, continua a disciplinare i rapporti interessati dalla norma di rinvio, dando vita in tal modo ad una duplicità di normative, ciascuna applicabile in relazione alla diversa natura dei rapporti giuridici in rilievo.

In via conclusiva ritiene il Collegio di dovere affermare, per le considerazioni tutte sopra esposte, che la L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alle modifiche apportate dalla L. n. 92 del 2012, non è stato espunto dall’ordinamento ma resta tuttora in vigore limitatamente ai rapporti di lavoro di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2.

3.5 – Resta fuori dal tema dibattuto, e che in questa sede viene rimeditato espressamente, l’indiscutibile immediata applicazione alle impugnative dei licenziamenti adottati dalle pubbliche amministrazioni del nuovo rito, in primo grado ed in sede di impugnazione, quale disciplinato dalle norme in disamina, nulla ostando nè nelle previsioni della L. n. 92 del 2012 (art. 1, commi 48 e seguenti) nè nel corpo normativo di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001 ed anzi militando, per la generale applicazione ad ogni impugnativa di licenziamento ai sensi dell’art. 18 S.L., la espressa previsione dell’art. 1, comma 47 della legge del 2012.

3.5 – L’avere il ricorrente incidentale invocato una normativa sostanziale non applicabile al rapporto non esime, peraltro, la Corte dall’esame delle censure mosse alla sentenza impugnata, poichè il principio iura novit curia impone al giudice di ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, ponendo a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, purchè il petitum e la causa petendi della domanda proposta restino immutati.

Nel caso di specie il ricorrente incidentale ha invocato la tutela reintegratoria sul presupposto della insussistenza dei fatti contestati e, comunque, della giusta causa, sicchè la domanda formulata risulta compatibile con la disciplina effettivamente applicabile al rapporto.

4 – Il primo motivo del ricorso incidentale è, però, infondato, poichè non si ravvisa la denunciata violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c..

La Corte territoriale, per giungere a ritenere provate la inconciliabilità delle attività attestate dal C. come avvenute nella medesima giornata e la conseguente falsità degli atti formati dal ricorrente incidentale, ha valorizzato una pluralità di elementi, tutti indicati nella articolata motivazione, ed in particolare ha considerato:

a) la distanza, superiore a 500 km, esistente fra le due località, nelle quali il C. avrebbe svolto rispettivamente i collaudi richiesti dal Centro Superiore Ricerche e Prove Autoveicoli e Dispositivi e gli esami di guida effettuati per conto dell’Ufficio Provinciale di Roma;

b) il mancato utilizzo del mezzo aereo per gli spostamenti;

c) la natura delle attività svolte nella medesima giornata ed il tempo richiesto da ognuna di esse;

d) gli orari dichiarati nelle richieste di rimborso, non compatibili con lo spostamento in altra località e con le attività ivi apparentemente svolte;

e) la circostanza che fosse lo stesso ricorrente incidentale ad organizzare in assoluta autonomia la propria attività, ivi comprese le trasferte.

4.1 – Questa Corte ha da tempo affermato che “le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione” (Cass. 11.5.2007 n. 10847 e negli stessi termini Cass. 27.10.2010 n. 21961 e Cass. 6.6.2012 n. 9108).

E’ stato anche evidenziato che nella prova per presunzioni non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità. Il rapporto di dipendenza logica tra il fatto noto e quello ignoto va, quindi, accertato alla stregua di canoni di probabilità, con riferimento ad una connessione possibile e verosimile di accadimenti, la cui sequenza e ricorrenza possono verificarsi secondo regole di esperienza (Cass. 31.10.2010 n. 22656; Cass. 5.2.2014 n. 2632; Cass. 27.4.2016 n. 8324).

Il giudice del merito è solo tenuto ad esplicitare il criterio logico posto alla base della selezione degli indizi e le ragioni del suo convincimento, che deve risultare all’esito di una duplice valutazione: la prima, di tipo analitico, volta a selezionare gli elementi che presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; l’altra, di tipo sintetico, tendente ad una valutazione complessiva di tutte le emergenze in precedenza isolate, per accertare se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva. Detto giudizio di sintesi non è censurabile in sede di legittimità se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico (Cass. 28.10.2014 n. 22801).

Ai principi di diritto sopra richiamati si è attenuta la Corte territoriale che, nel respingere il motivo di reclamo formulato dal C., ha correttamente escluso che le presunzioni costituiscano un mezzo di prova relegato dall’ordinamento in un grado subordinato rispetto agli altri mezzi; ha indicato tutti gli elementi acquisiti al processo che, valutati complessivamente, concorrevano a far ritenere dimostrato il fatto ignoto, ossia la falsità delle attestazioni e delle richieste di rimborso formate dal reclamante; ha escluso che il ragionamento presuntivo potesse essere impedito dalla natura degli atti sottoscritti dal C., evidenziando al riguardo che l’essenza della contestazione andava individuata proprio nell’avere formato atti non rispondenti al vero, sicchè l’appellante non poteva giovarsi della sua qualità di funzionario pubblico.

4.2 – Anche la ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 2700 c.c., invocato dal ricorrente incidentale, è conforme alla giurisprudenza di questa Corte la quale, giudicando in fattispecie analoga, ha escluso che sia necessaria la querela di falso, quando oggetto del giudizio sia la responsabilità disciplinare del pubblico ufficiale autore dell’atto contenente una falsità ideologica.

E’ stato evidenziato, infatti, che “non appartiene all’ambito delle finalità dell’atto pubblico anche quella di influire sulla sfera giuridica personale del pubblico ufficiale autore dell’atto stesso, anche perchè ciò determinerebbe una situazione di incompatibilità, non irrilevante ai fini della stessa validità dell’atto (cfr. art. 2701 c.c.)” (Cass. 22.6.2002 n. 9147 e la giurisprudenza ivi richiamata).

4.3 – Il motivo è, poi, inammissibile nella parte in cui censura la motivazione della sentenza impugnata, sostenendo che la Corte territoriale avrebbe errato nella valutazione della prova documentale (quanto alla durata delle missioni) e delle deposizioni testimoniali (in relazione agli orari nei quali le attività sarebbero state svolte).

Si tratta di doglianze che esulano dall’ambito del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, poichè attengono alla ricostruzione dei fatti, che, per le sentenze pubblicate, come nella specie, dal trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della L. 7 agosto 2012, n. 134 (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell’11.8.2012), di conversione del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, è censurabile in sede di legittimità solo nella ipotesi di “omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti”.

Detto vizio, inoltre, non è denunciabile, per i giudizi di appello instaurati successivamente alla data sopra indicata (art. 54, comma 2, del richiamato D.L. n. 83 del 2012), qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado (art. 348 ter c.p.c., u.c.).

La disposizione è applicabile anche al reclamo disciplinato dalla L. n. 92 del 2012, art. 1, commi da 58 a 60, che ha natura sostanziale di appello, dalla quale consegue la applicabilità della disciplina generale dettata per le impugnazioni dal codice di rito, se non espressamente derogata (in tal senso Cass. 29.10.2014 n. 23021).

5 – E’ infondato anche il secondo motivo del ricorso incidentale, con il quale il C. ha sostenuto che, in ogni caso, il fatto andava ricondotto alla previsione dell’art. 13, comma 4, lett. g), del CCNL 12.6.2003, come modificato dall’art. 27 del CCNL per il quadriennio 2006/2009.

Anche a voler prescindere dal rilievo che la disposizione contrattuale invocata è successiva all’epoca dei fatti, va detto che le parti collettive hanno previsto la sanzione disciplinare della sospensione del servizio in relazione a “fatti e comportamenti tesi all’elusione dei sistemi di rilevamento elettronici della presenza e dell’orario o manomissione dei fogli di presenza o delle risultanze anche cartacee degli stessi”. La condotta tipizzata (in relazione alla quale il successivo D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, non applicabile ratione temporis alla fattispecie, ha invece espressamente previsto la sanzione del licenziamento) è quella relativa alla falsa attestazione dell’orario di lavoro, derivante sia dalla “elusione” dei sistemi di controllo automatici sia dalla alterazione dei fogli di presenza.

Nel caso di specie, al contrario, le falsità commesse dal ricorrente, ritenute provate dalla Corte territoriale, vanno ben oltre la mera attestazione dell’orario di lavoro, poichè il licenziamento è stato intimato per avere il dipendente formato atti pubblici e richieste di rimborso non rispondenti al vero (quantomeno in parte), inducendo in errore l’Amministrazione quanto alla durata delle missioni e realizzando, in tal modo, un ingiustificato profitto in danno dell’ente.

La Corte territoriale ha, quindi, correttamente escluso che la condotta potesse essere sussunta nella previsione invocata dal reclamante.

6 – Il giudice di appello ha, poi, valutato la gravità del comportamento tenuto, ritenendo provati il carattere doloso dello stesso e la idoneità a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, anche in considerazione della qualità di funzionario pubblico rivestita e della natura e delicatezza delle mansioni svolte.

Il capo della sentenza non è stato specificamente censurato nel ricorso incidentale, sicchè non possono essere apprezzate le doglianze contenute nella “memoria di costituzione di difensore aggiunto” dell’8 marzo 2016 e nella memoria ex art. 378 c.p.c.. Detti atti non possono integrare o ampliare il contenuto dei motivi di ricorso e con gli stessi non possono essere dedotte nuove censure nè sollevate questioni nuove (Sez. U. n. 11097 del 15/05/2006; Cass. n. 28855 del 29/12/2005; Cass. n. 14570 del 30/07/2004).

Il ricorso incidentale va, pertanto, rigettato.

7 – I motivi del ricorso principale, da trattarsi congiuntamente perchè connessi, sono, invece, fondati.

E’ opportuno premettere che il principio della immutabilità dei fatti posti a fondamento della sanzione disciplinare è finalizzato, al pari di quello relativo alla necessaria specificità della contestazione, a garantire il diritto di difesa del lavoratore incolpato, diritto che sarebbe compromesso qualora si consentisse al datore di lavoro di intimare il licenziamento in relazione a condotte rispetto alle quali il dipendente non è stato messo in condizione di discolparsi.

Valorizzando la ratio del principio, questa Corte ha precisato che non si verifica una modifica della contestazione nel caso in cui la condotta contestata resti invariata e mutino solo l’apprezzamento e la valutazione della stessa, poichè in tal caso, ove non vengano in rilievo nuove circostanze di fatto, il diritto di difesa non risulta in alcun modo compromesso (Cass. 22.3.2011 n. 6499).

E’ stato anche affermato, e va qui ribadito, che il canone della specificità, nella contestazione dell’addebito, non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi, come accade nella formulazione dell’accusa nel processo penale, sicchè deve ritenersi ammissibile la contestazione per relationem, in quanto consente all’incolpato l’esercizio del diritto di difesa, ogniqualvolta i fatti ed i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato, perchè emersi nel contraddittorio con lo stesso, come accade nei casi in cui il procedimento disciplinare venga attivato in relazione a fatti già accertati in sede penale (Cass. 3 marzo 2010 n. 5115 e negli stessi termini Cass. 15.5.2014 n. 10662).

7.1 – Rileva, inoltre, il Collegio che allorquando, contestualmente alla contestazione, il datore di lavoro sospenda il procedimento in attesa della definizione del processo penale instaurato per i medesimi fatti, non risultano violati i principi della immutabilità e della specificità della contestazione se, venuta meno la causa di sospensione e riattivato il procedimento disciplinare, il datore di lavoro si avvalga degli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, comunque ricompreso in quello originario, e ciò faccia nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione.

Detto principio, per i procedimenti instaurati in epoca successiva alla entrata in vigore del D.Lgs n. 150 del 2009, è desumibile dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 ter nella parte in cui, al comma 4, fa riferimento al “rinnovo della contestazione dell’addebito”, in occasione del quale, evidentemente, la pubblica amministrazione potrà avvalersi degli elementi emersi in sede penale, visto che nel nuovo sistema la sospensione può essere disposta solo qualora ricorra una particolare complessità del fatto da accertare ed i dati raccolti dalla amministrazione non siano sufficienti per irrogare la sanzione.

Per i procedimenti ai quali non si estende la nuova normativa la possibilità di avvalersi di quanto emerso in sede penale per meglio circoscrivere la contestazione, discende dalla finalità stessa della sospensione, che mira non solo ad evitare un contrasto fra gli esiti dei due procedimenti, ma anche a consentire un più accurato accertamento dei fatti, tra l’altro effettuato dall’autorità giudiziaria, e, quindi, da soggetto imparziale, con le garanzie che l’ordinamento riconosce sia all’imputato che al soggetto sottoposto ad indagini.

7.2 – La Corte territoriale ha ritenuto violato il principio della immutabilità della contestazione all’esito della comparazione fra la missiva del 2 marzo 2004 (con la quale il procedimento penale era stato avviato e contestualmente sospeso, in quanto i fatti emersi a seguito di visita ispettiva erano stati segnalati anche alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma) e la lettera di licenziamento ed ha ritenuto la non corrispondenza fra fatto contestato e fatto posto a fondamento del recesso, perchè nella originaria contestazione gli episodi non erano stati analiticamente indicati ed inoltre era stata sottolineata solo la sovrapposizione degli orari, senza fare cenno alla falsità degli atti ed alla possibilità che le attività dichiarate non fossero state svolte.

Così argomentando il giudice del merito non ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto sopra sintetizzati, poichè non ha valutato il tenore della nota di riattivazione del procedimento ed il richiamo contenuto nella contestazione originaria al verbale ispettivo (in relazione al quale è mancato anche ogni accertamento sulla conoscenza che dello stesso il C. avesse all’epoca dell’avvio del procedimento), nè ha considerato la missiva del 2.3.2004 nella sua interezza, non avendo chiarito se, in relazione alla descrizione della condotta contestata, potesse essere attribuito un qualche significato al richiamo fatto alla denuncia penale inoltrata.

Si impone, pertanto, la cassazione con rinvio della sentenza impugnata, poichè la valutazione sulla asserita violazione del diritto di difesa del dipendente incolpato e, quindi, sulla fondatezza del reclamo proposto dal Ministero delle Infrastrutture, deve essere nuovamente effettuata dal giudice del merito, alla luce dei principi di diritto sopra indicati.

8 – Occorre a questo punto chiarire che nel giudizio di rinvio, anche qualora dovesse essere nuovamente accertata la violazione delle regole del procedimento, non potrà essere riconosciuta al C. una tutela diversa da quella meramente indennitaria, ritenuta applicabile dal Tribunale di Roma con la sentenza resa all’esito del giudizio di opposizione.

Il potere di qualificazione giuridica non deve confliggere con il principio del monopolio della parte nell’esercizio della domanda e, in sede di impugnazione, deve misurarsi con le preclusioni che derivano, per l’appello, dagli artt. 329 e 346 c.p.c. e per il ricorso per cassazione dalla natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata, con oggetto delimitato, in ragione del principio di specificità, dalle censure sollevate con i singoli motivi.

Nel giudizio di rinvio, poi, nel quale l’atto di riassunzione non ha natura di impugnazione perchè volto solo alla prosecuzione del giudizio conclusosi con la sentenza cassata, non possono essere proposti dalle parti, nè presi in esame dal giudice, motivi diversi da quelli che erano stati formulati nel primo giudizio d’appello, che continuano a delimitare, da un lato, l’effetto devolutivo dello stesso gravame e, dall’altro, la formazione del giudicato interno (Cass. 8.11.2013 n. 25244).

Il Tribunale di Roma, accertata la violazione delle regole del procedimento disciplinare, ha ritenuto che dalla stessa dovessero discendere le sole conseguenze previste dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 6, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, e detto capo della sentenza non è stato oggetto di impugnazione, in via principale o incidentale, da parte del C., che con il reclamo ha lamentato solo la erroneità della pronuncia di rigetto della domanda principale, fondata sulla asserita insussistenza del fatto.

Il C., pertanto, non potrà giovarsi della cassazione della sentenza, per effetto della ritenuta fondatezza del ricorso principale del Ministero, per domandare nel giudizio di rinvio la tutela prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, nel testo antecedente alla novella legislativa, essendo detta domanda preclusa dal disposto dell’art. 329 c.p.c., comma 2.

9 – La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame delle questioni ancora controverse, pronunciando anche sulle spese del giudizio di legittimità, attenendosi ai principi di diritto enunciati ai punti 3, 7 e 8, e sintetizzati nei termini che seguono:

a) il principio della immutabilità della contestazione non impedisce al datore di lavoro, nei casi di sospensione del procedimento disciplinare per la contestuale pendenza del processo penale relativo ai medesimi fatti, di utilizzare, all’atto della riattivazione del procedimento, gli accertamenti compiuti in sede penale per meglio circoscrivere l’addebito, ricompreso in quello originario, purchè ciò avvenga nel rispetto del diritto di difesa, ossia ponendo il lavoratore in condizione di replicare alle accuse, così come precisate al momento della riattivazione;

b) il principio della specificità della contestazione disciplinare non richiede l’osservanza di schemi prestabiliti e rigidi sicchè è ammissibile la contestazione per relationem ogniqualvolta i fatti ed i comportamenti richiamati siano a conoscenza dell’interessato;

c) ai rapporti di lavoro disciplinati dal D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 2, non si applicano le modifiche apportate dalla L. 28 giugno 2012, n. 92 alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, per cui la tutela del dipendente pubblico in caso di licenziamento illegittimo intimato in data successiva alla entrata in vigore della richiamata L. n. 92 del 2012 resta quella prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18 nel testo antecedente alla riforma;

d) il potere del giudice di applicare alla fattispecie ricostruita la esatta regola di diritto, e quindi anche la normativa sul sindacato giurisdizionale sui licenziamenti, deve misurarsi con le preclusioni che derivano, per l’appello, dagli artt. 329 e 346 c.p.c. e, per il ricorso per cassazione, dalla natura del giudizio di legittimità, a critica vincolata, con oggetto delimitato dalle censure sollevate con i singoli motivi.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso principale e rigetta l’incidentale.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 17 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2016


Cons. Stato Sez. VI, Sent., (ud. 09-06-2016) 31-08-2016, n. 3764

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5927 del 2014, proposto da:

M.C., rappresentato e difeso dall’avvocato Rosa Maria Laria C.F. (…), con domicilio eletto presso Elisabetta Alessandra in Roma, Via Stefano Longanesi 9;

contro

Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, in persona del Ministro pro tempore, Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, entrambi rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura generale dello Stato, domiciliataria in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

nei confronti di

P.G. ed altri., rappresentati e difesi dall’avvocato Demetrio Verbaro C.F. VRBDTR65S29C352F, con domicilio eletto presso Giuseppe (Studio Labate) Cosco in Roma, viale Giuseppe Mazzini 88;

A.C. ed altri. non costituiti in giudizio;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CALABRIA – CATANZARO :SEZIONE II n. 01205/2013, resa tra le parti, concernente esclusione dal concorso di dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, secondaria di secondo grado e per gli istituti educativi

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Istruzione dell’Universita’ e della Ricerca e di Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria e di Gaetano Pedulla’ e di Luisa Vitale e di Anna Primavera e di Margherita Primavera e di Antonio Carioti e di Vito Sanzo;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 9 giugno 2016 il Cons. Roberto Giovagnoli e uditi per le parti gli avvocati Freni per delega di Laria, dello Stato Caselli, e Gualtieri per delega di Verbaro.;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. C.M., professore di ruolo in matematica e fisica, ha proposto, dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria Catanzaro, ricorso e successivo atto di motivi aggiunti per l’annullamento della graduatoria finale del concorso per esami e titoli per il reclutamento dei dirigenti scolastici per la scuola primaria, secondaria di primo grado, e per gli istituti educativi, pubblicata in data 10 luglio 2012, che individuava 98 concorrenti vincitori su 108 posti messi a concorso.

2. Con decreto presidenziale del 19 ottobre 2012, veniva disposta dinnanzi al T.a.r. l’integrazione del contraddittorio in ordine al ricorso introduttivo, nei confronti di tutti i soggetti utilmente collocati in graduatoria, autorizzando la notifica per pubblici proclami e assegnando il termine di giorni 60, decorrente dalla comunicazione del decreto presidenziale.

3. Con ordinanza presidenziale del 20 novembre 2012, veniva ulteriormente disposta l’integrazione del contraddittorio in ordine al ricorso per motivi aggiunti, autorizzando la notifica per pubblici proclami ed assegnando il termine di 40 giorni decorrente dalla comunicazione del provvedimento presidenziale.

4. Con sentenza n. 1205 del 2013, il T.a.r. per la Calabria, sede di Catanzaro, ha dichiarato il suddetto ricorso improcedibile, per il mancato rispetto delle modalità previste dall’articolo 150 c.p.c. in relazione alla notificazione per pubblici proclami, nonché dei termini perentori assegnati per l’integrazione del contraddittorio.

5. Avverso la sentenza del T.a.r. il professore C.M. ha proposto appello, con contestuale riproposizione dei motivi e delle eccezioni sollevati nel ricorso di primo grado e nell’atto di motivi aggiunti e non esaminati dal giudice di prime cure.

6. La sentenza di primo grado è stata, in particolare, censurata sotto i seguenti profili:

6.1) Difetto di motivazione ed illogicità per errato convincimento circa la sussistenza di controinteressati in senso tecnico anche per quelle censure che, se ritenute fondate, avrebbero determinato solamente l’annullamento della prova orale del solo ricorrente ed il diritto al suo rinnovo della stessa.

6.2) Difetto di motivazione per omesso pronunciamento sulla eccezione di nullità, ex articolo 156, comma secondo, c.p.c., dei provvedimenti presidenziali di autorizzazione alla integrazione del contradditorio, con conseguente violazione dell’articolo 112 c.p.c. e dell’articolo 276, comma secondo, c.p.c., per come richiamato dall’art. 76, comma quarto, c.p.a. .

6.3) Erroneità nella ricostruzione dei tempi e delle modalità con cui è stata effettuata l’integrazione del contraddittorio in relazione al ricorso introduttivo ed al ricorso per motivi aggiunti.

6.4) Erroneità nell’accertamento del giorno di decorrenza del termine per l’integrazione del contraddittorio.

6.5) Erroneo convincimento circa l’applicabilità dell’articolo 150 c.p.c. al procedimento di notifica per pubblici proclami nell’ambito del processo amministrativo.

6.6) Difetto di motivazione per omessa considerazione del fatto che il Presidente del T.a.r. ha autorizzato ad effettuare l’integrazione del contraddittorio con “ogni mezzo idoneo” ex art. 151 c.p.c. ed ex art. 52 c.p.a. .

6.7) Errato convincimento circa la presunta avvenuta violazione dei termini per l’adempimento istruttorio dell’integrazione del contraddittorio.

6.8) Errato convincimento circa il mancato rispetto del termine per il deposito della prova dell’avventura integrazione del contraddittorio.

6.9) Difetto di motivazione per sussistenza dei presupposti per la concessione dell’errore scusabile e per la conseguente rimessione nei termini.

6.10) Illegittimità e/o nullità e/o abnormità dei provvedimenti presidenziali autorizzativi all’integrazione del contraddittorio, in quanto profili che ridondano in motivi di censura della sentenza appellata.

7. Si sono costituiti in giudizio, chiedendo il rigetto dell’appello, il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, l’Ufficio Scolastico Regionale per la Calabria, nonché alcuni controinteressati nel giudizio di primo grado: G.P. ed altri..

8. Alla pubblica udienza del 9 giugno 2016, l’appello è stato trattenuto in decisione.

9. L’appello non merita accoglimento.

10. Costituisce principio consolidato nella giurisprudenza amministrativa quello secondo cui devono considerarsi controinteressati al ricorso i soggetti, individuati o facilmente individuabili nel provvedimento impugnato, che potrebbero subire un pregiudizio in caso di accoglimento del proposto gravame e di conseguente annullamento degli atti impugnati ( v. Cons. St., Sez. VI, 11 gennaio 2010, n. 15 ) e, per quanto riguarda in particolare le procedure concorsuali, i soggetti sulla cui posizione in graduatoria l’accoglimento del ricorso sia in grado di incidere negativamente (Cons. St., Sez. VI, 13 maggio 2010, n. 2936).

Ne consegue che tutti coloro che sono risultati idonei a seguito di procedura concorsuale sono titolari di un interesse qualificato non solo al mantenimento della valutazione di idoneità, ma anche alla conservazione dello specifico posto conquistato in graduatoria.

Non può condividersi, pertanto, la censura secondo cui è da escludere la sussistenza di controinteressati in senso tecnico in relazione alla ripetizione della sola prova orale, atteso che una sua eventuale modifica ovvero ripetizione è idonea a tradursi direttamente in una modifica della graduatoria finale.

12. Infondati sono anche i motivi di appello concernenti le modalità di effettuazione della notifica per pubblici proclami nel processo amministrativo (motivi appello n. 5,7,8).

Il T.a.r. Catanzaro ha affermato che, alla luce della formulazione dell’art. 41 del codice del processo amministrativo (che ha riproposto, con alcune modifiche, il testo dell’art. 16 del R.D. 17.8.1907, n. 642), le modalità da seguire per la notificazione per pubblici proclami sono – come per il passato – quelle indicate dall’art. 150 del codice di procedura civile.

Il Collegio ritiene condivisibile tale affermazione, atteso che il codice del processo amministrativo ha previsto l’istituto della notifica per pubblici proclami, senza, tuttavia, specificarne le modalità, la cui definizione resta affidata volta per volta al presidente del Tribunale ovvero della Sezione investita della cognizione della causa.

In mancanza di specifiche indicazioni da parte del giudice che ordina l’integrazione del contraddittorio, deve ritenersi senz’altro applicabile, in forza c.d. “rinvio esterno” di cui all’art. 39 comma 2, c.p.a., la disciplina contenuta nel codice di procedura civile.

A tal riguardo va evidenziato che ai sensi dell’articolo 150 c.p.c. la notificazione per pubblici proclami si perfeziona mediante il deposito di copia dell’atto nella casa comunale del luogo in cui ha sede l’ufficio giudiziario davanti al quale si promuove o si svolge il processo, e con l’inserimento di un estratto di esso nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica.

E’ altresì previsto che la notificazione si ha per avvenuta quando l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria del giudice davanti al quale si procede.

13. Da quanto detto deriva che la notifica per pubblici proclami può ritenersi perfezionata soltanto mediante il rispetto del suddetto iter procedimentale e con la prova del deposito della documentazione ad essa relativa nella Segreteria del giudice che ha ordinato l’incombente, con la conseguenza che l’omissione di tale ultimo adempimento comporta l’improcedibilità del ricorso (in questi termini cdfr. Cons. St., Sez. IV, n. 3759 del 2008).

14. Sono, di conseguenza, da respingere anche le censure sollevate ai numeri 7) e 8) dell’appello, atteso che il termine fissato dal giudice per l’effettuazione della notifica per pubblici proclami comprendeva senz’altro anche il deposito della prova dell’avvenuta integrazione del contraddittorio, fornita solo in data 21 gennaio 2013 e dunque palesemente oltre i termini assegnati.

15. Sulla base di quanto sopra affermato deve escludersi che i provvedimenti presidenziali di autorizzazione della notifica per pubblici proclami siano indeterminati o indeterminabili nel loro contenuto prescrittivo, atteso il rinvio alla normativa corrispondente per gli atti giudiziari in materia civile per quanto non specificamente ordinato.

16. Non può, inoltre, condividersi la censura concernente la presunta violazione del principio generale di effettività della tutela e di legittima instaurazione del contraddittorio in relazione ai termini assegnati dal giudice.

Si rileva in proposito che l’udienza di discussione del ricorso e dei motivi aggiunti proposti dal professore C.M., originariamente fissata per l’8 marzo 2012, è stata poi differita al 22 novembre 2013, in modo da assicurare la possibilità del legittimo esercizio dei diritti di difesa e di partecipazione processuale a tutte le parti in causa. Quanto detto è ulteriormente dimostrato dal fatto che l’odierno appellante (in vista dell’effettiva udienza di merito) ha depositato memoria conclusionale – ex art. 73, c. 1, c.p.a. – in data 22 ottobre 2013, replicando regolarmente alle argomentazioni ed eccezioni sollevate dalle controparti.

17. Infondato è anche il terzo motivo di appello, con il quale il ricorrente lamenta presunti errori nella ricostruzione in fatto, operata dai giudici di primo grado, relativa all’effettuazione della notificazione per pubblici proclami.

Per quanto concerne, in primo luogo, l’asserzione dell’appellante secondo cui la pubblicazione dell’annuncio sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana sarebbe avvenuta in data 11 dicembre 2012, risulta smentita da quanto dallo stesso affermato nel corso del giudizio di primo grado. Risulta, infatti, dalla memoria conclusionale – ex art. 73 c. 1 c.p.c. – del Sig. M.C., depositata in data 5 febbraio 2013, la conferma che la pubblicazione dell’annuncio sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana è avvenuta in data 6 dicembre 2012, conformemente a quanto ritenuto dal T.a.r. nella sentenza appellata.

18. Il ricorrente deduce poi, nei motivi di appello n. 3 e n. 6, che il giudice di prime cure non avrebbe considerato che il Presidente ha autorizzato la notifica con qualunque mezzo idoneo ex art. 52 c.p.a. ed ex art. 151 c.p.c, oltre che per mezzo di pubblici proclami.

La deduzione non ha, tuttavia pregio, in quanto non incide sulla valutazione finale compiuta dal T.a.r. circa il mancato rispetto dei termini prescritti dal tribunale, poiché, se è vero che il giudice ha autorizzato in astratto diverse modalità di notifica, è stato l’odierno appellante ad optare per la notificazione per pubblici proclami, sicché una volta operata tale scelta, avrebbe dovuto effettuare l’integrazione del contraddittorio conformemente ai termini e alle modalità fissate.

19. Le stesse considerazioni valgono con riferimento all’integrazione del contraddittorio relativa all’atto di motivi aggiunti, sicché non ha rilievo essenziale l’effettiva data di deposito dello stesso.

20. L’appellante si duole, inoltre, della mancata comunicazione del decreto n. 3071/2012 e dell’ordinanza n. 3265/2012, concernenti rispettivamente l’ordine di integrazione del contraddittorio per il ricorso introduttivo e l’ordine di integrazione del contraddittorio per l’atto di motivi aggiunti.

Deve, tuttavia, rilevarsi che tale assunto è contraddetto dalla circostanza che, nel corso del giudizio di primo grado (memoria conclusionale – ex art. 73, c. 1, c.p.a. – , depositata in data 5 febbraio 2013), il medesimo odierno appellante ha espressamente confermato l’avvenuta comunicazione dei provvedimenti de quibus, nonché l’esattezza dei rispettivi dati temporali.

21. Quanto finora detto permette altresì di escludere che nel caso di specie ricorra un’ipotesi di errore scusabile, in quanto nel caso oggetto del presente giudizio il mancato rispetto delle modalità e dei termini ritualmente prescritti per la notifica per pubblici proclami ex articolo 150 c.p.c. .è dipeso esclusivamente dalla negligenza dell’odierna parte appellante

22. Alla luce delle suddette considerazioni il Collegio rigetta l’appello e per l’effetto conferma la dichiarazione di improcedibilità del ricorso introduttivo e dell’atto di motivi aggiunti contenuta nella sentenza appellata.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in complessivi Euro 2.000 a favore del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e, considerata l’identità delle posizioni processuali e delle difese svolte, in complessivi Euro 600 per ciascuno dei controinteressati costituitisi nel giudizio di appello.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Condanna l’appellante al pagamento delle spese processuali che liquida in complessivi Euro 2.000, oltre agli accessori di legge a favore del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca Scientifica e in Euro 600, oltre agli accessori di legge, a favore di G.P. ed altri..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 giugno 2016 con l’intervento dei magistrati:

Sergio Santoro, Presidente

Roberto Giovagnoli, Consigliere, Estensore

Bernhard Lageder, Consigliere

Marco Buricelli, Consigliere

Francesco Mele, Consigliere


I soliti “furbetti” del cartellino

AssenteismoLegittimo il licenziamento di chi fa strisciare il badge da un collega. Anche se il fatto si è verificato una sola volta.

Si tratta di un comportamento idoneo a integrare una grave violazione del dovere di diligenza prescritto ai lavoratori.

Ad averlo chiarito è stata la Corte Suprema di Cassazione, sezione lavoro, confermando la legittimità del “licenziamento per giusta causa” che era stato inferto a un dipendente privato che aveva alterato il sistema di rilevamento e controllo delle presenze al lavoro e aveva fatto in modo che fosse un collega a timbrare il badge al suo posto.

Si tratta di un comportamento idoneo a integrare una grave violazione del dovere di diligenza prescritto ai lavoratori dall’articolo 2104 del codice civile: esso, infatti, consente a chi lo pone in essere di percepire indebitamente compensi ulteriori rispetto a quelli spettatigli e gli permette di ottenere senza diritto un’abbreviazione del proprio turno di lavoro.

Si tratta, insomma, di un comportamento irregolare e anomalo, inadempiente agli obblighi inerenti l’ufficio del lavoratore e contrario agli interessi del datore di lavoro.

Esso è quindi pienamente idoneo a ledere il vincolo fiduciario e quindi a giustificare la possibilità di licenziamento.


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 25-05-2016, n. 10842

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VENUTI Pietro – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19641-2013 proposto da:

B.C., C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUIGI BOCCHERINI 3, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO DE ANGELIS, rappresentato e difeso dall’avvocato IVAR GALIOTO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 975/2013 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 21/02/2013 R.G.N. 8644/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/03/2016 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito l’Avvocato GALIOTO IVAN;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con sentenza del 21 febbraio 2013 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale di Nola che ha rigettato il ricorso proposto da B.C. Inteso ad ottenere la dichiarazione dell’illegittimità del licenziamento intimato con lettera del 17 dicembre 2009 dalle Poste Italiane s.p.a. per aver autorizzato un proprio collega a timbrare il suo badge identificativo al fine di far risultare l’entrata in ufficio alle ore 11.35 ed essersi, invece, effettivamente presentato in ufficio alle ore 12.25.

Per quanto rileva in questa sede, la Corte territoriale, a seguito di ampia ricognizione giurisprudenziale sull’accezione di giusta causa nel nostro ordinamento, ha motivato tale pronuncia ritenendo che il B. ha leso irrimediabilmente e gravemente il vincolo fiduciario sussistente nei confronti del datore di lavoro.

Il B. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato a tre motivi. La società è rimasta intimata.

Motivi della decisione

– Con il primo motivo si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. nonchè errata interpretazione del principio di giusta causa del licenziamento non avendo, la Corte, adeguatamente valutato la gravità della condotta tenuta dal lavoratore che, per una situazione contingente (incidente stradale), imprevista ed imprevedibile, costituente la causa del suo ritardo in azienda, ha agito con leggerezza ma senza alcun dolo.
– Con il secondo motivo si lamenta erronea o falsa interpretazione e/o applicazione dell’art. 2106 c.c. e degli artt. 54, 55, 56 ccnl dipendenti Poste Italiane del 11.7.2007 nonchè errata interpretazione e/o applicazione del principio di proporzionalità avendo la Corte trascurato l’assenza di qualsivoglia recidiva nonchè l’orientamento giurisprudenziale che ritiene il licenziamento quale massima sanzione disciplinare da comminarsi solo dopo attente compiuta valutazione che tenga conto di tutti gli interessi in gioco in base alla quale si deduca l’irrimediabile compromissione del rapporto fiduciario. In particolare, il giudice di merito non ha rispettato il principio di proporzionalità, considerato che l’art. 56, comma 1 del ccnl prevede espressamente la sanzione del rimprovero verbale o dell’ammonizione scritta per il lavoratore che non rispetti l’orario di lavoro o le formalità prescritte per la rilevazione e il controllo delle presenze.
– Con il terzo motivo si deduce omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso avendo, il giudice di merito, effettuato una ricostruzione dei fatti errata, non intendendo il B. assentarsi dolosamente dal servizio bensì confidando di terminare le operazioni di scambio dei dati con l’automobilista incidentato entro l’inizio del turno di lavoro, non intendendo lucrare alcun vantaggio dalla timbratura anticipata effettuata dal collega.
– I motivi, che possono essere trattati congiuntamente per la loro intima connessione, risultano non solo inammissibili ma, anche, sostanzialmente inconsistenti.

La Corte partenopea muove dal presupposto secondo cui per stabilire in concreto l’esistenza di una giusta causa di licenziamento (che deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro ed in particolare di quello fiduciario) occorre valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, stabilendo se la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia in concreto tale da giustificare o meno la massima sanzione disciplinare. E ciò, aggiunge, anche nell’ipotesi in cui la disciplina collettiva preveda un determinato comportamento quale giusta causa di licenziamento, in quanto l’inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c..

Tale assunto si basa su una consolidata ricostruzione giurisprudenziale della nozione di giusta causa nell’ambito del licenziamento disciplinare, in base alla quale, trattandosi dell’applicazione di un concetto Indeterminato, l’accertamento deve essere svolto in base agli specifici elementi oggettivi e soggettivi della fattispecie concreta, quali tipo di mansioni affidate al lavoratore, il carattere doloso o colposo dell’infrazione, le circostanze di luogo e di tempo, le probabilità di reiterazione dell’illecito, il disvalore ambientale della condotta quale modello diseducativo per gli altri dipendenti. In particolare, con riguardo all’alterazione del cartellino marcatempo, questa Corte ha già avuto modo di confermare valutazioni di gravità rese dai giudici di merito, ritenendo che la falsa timbratura del cartellino può rappresentare una condotta grave che lede irrimediabilmente il vincolo fiduciario con il datore di lavoro e può giustificare il licenziamento (vedi Cass. n. 24796/2010 e Cass. n. 26239/2008).

Esclusi i profili di ricostruzione del fatto proposti dalla parte ricorrente (che appartengono all’area del giudizio di fatto ed esulano dall’ambito di valutazione di questa Corte), la qualificazione giuridica dei fatti e, nella specie, il giudizio di sussunzione dei fatti contestati nell’ambito della clausola generale della giusta causa è stato, dunque, effettuato dalla Corte territoriale in sintonia con i principi elaborati da questa Corte.

Nè le censure illustrate dalla parte ricorrente sono idonee a segnalare un vizio di motivazione ai sensi e per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (nel testo, applicabile ratione temporis, come novellato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134), vizio che deve compendiarsi – come chiarito dalle Sezioni Unite nella sentenza del 7 aprile 2014 n. 8053 – nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.

Invero, con accertamento di fatto congruamente svolto e con adeguata motivazione immune da rilievi di carattere logico-giuridico, la Corte d’appello ha posto in evidenza che la massima sanzione era adeguata al fatto contestato in considerazione “dell’intensità dell’elemento soggettivo della condotta del B. il quale, all’esito dell’evento imprevedibile occorsogli, ben avrebbe potuto comunicare alla parte aziendale possibile ritardo in entrata invece di predisporre l’articolato meccanismo con il quale, coinvolgendo un collega a ciò aduso, ha provveduto ad alterare il sistema di registrazione dell’inizio della propria attività lavorativa”. La Corte ha rilevato, invero, che il cartellino marcatempo costituisce un documento che rientra nella disponibilità esclusiva del titolare, come prescritto da circolari aziendali prodotta in atti; che il B. ha ceduto a terzi il cartellino, integrando una grave violazione del dovere di diligenza sancito dall’art. 2104 c.c.; che è stato posto in essere un ampio premeditato disegno fraudolento, volto ad attestare falsamente la presenza in ufficio del lavoratore, da un momento anteriore anche all’inizio del proprio turno lavorativo (11.35 invece che 12,00) dal quale avrebbe lucrato un beneficio in termini di percezione di compensi ulteriori ovvero di abbreviazione del proprio turno di lavoro; che il collega era aduso a provvedere alla timbratura della badge anche per conto di altri colleghi. Non si è trattato, quindi, come sottolineato da parte ricorrente, della mera violazione delle disposizioni dettate In materia di “formalità prescritte per la rilevazione ed il controllo delle presenze” bensì, come ha correttamente ritenuto la Corte territoriale, “un comportamento gravemente irregolare ed assolutamente anomalo, oltre che inadempiente agli obblighi inerenti il proprio ufficio, e contrario agli interessi del datore di lavoro, che si presenta Idonea anche alla luce del “disvalore ambientale” che lo stesso assume con particolare riguardo al contesto lavorativo in cui si dispiegava la attività del B., a ledere in misura significativa il vincolo fiduciario che, in un’azienda di rilievo quale l’odierna appellata, assume profili di speciale rilievo”.

La Corte d’appello è pervenuta, quindi, alla decisione di conferma della legittimità del licenziamento intimato dal datore di lavoro – dandone atto, come si è detto, con congrua motivazione – attraverso un’attenta valutazione da un lato della gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi ed all’intensità dell’elemento intenzionale, dall’altro della proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, rilevando che la lesione dell’elemento fiduciario su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro è stata in concreto tale da giustificare la massima sanzione disciplinare, in conformità con il costante orientamento di questa Corte in materia di cui costituisce corollario il principio dell’autonomia della valutazione di un fatto in sede disciplinare e delle prove ivi accolte, rispetto a quella effettuata in sede processuali.

In conclusione il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato. Nulla sulle spese a fronte della mancata costituzione delle Poste Italiane.
Il ricorso è stato notificato il 16-22 agosto 2013, dunque in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della Legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: “Quando l’impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l’ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l’obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso”. Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Nulla sulle spese.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 marzo 2016.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2016


NUOVO FORUM DI A.N.N.A.

New forum 2016Il FORUM di A.N.N.A. è uno dei punti di incontro dove tutti gli Associati possono dialogare tra di loro e/o “ascoltare” quello che dicono gli altri ovvero ponendo quesiti relativi alla propria attività notificatoria.

Certamente, però, rispetto a tutti gli strumenti di comunicazione via internet, il forum offre da un lato il vantaggio della sicurezza (non rischio di attacchi di hacker mentre si scrive sul forum, o di e-mail con virus, o peggio “troyan” (=”cavalli di troia”), né problemi di intasamento della casella di posta (come capita nelle mailing-list), né rischi di “spam” (come capita nei newsgroup e nelle mailing-list).

Con i recenti aggiornamenti sulla sicurezza (dopo aver subito attacchi sul nostro sito www.annamessi.it da parte di hacker: ma a chi diamo fastidio?!) abbiamo inserito un nuovo FORUM di A.N.N.A. che sarà attivato nei prossimi giorni.

Il funzionamento del nuovo FORUM di A.N.N.A. è molto semplice ed intuitivo, avendo cercato di accogliere i suggerimenti pervenuti dagli utenti con l’inserimento anche di nuove funzionalità: si tratta di un’area divisa in sezioni (argomenti) e sottosezioni, a cui postare i propri quesiti.

La nostra è un’Associazione proiettata in un futuro ove l’evoluzione normativa impone un cambiamento dell’attività notificatoria realizzando servizi sempre più rispondenti.

Realizza il cambiamento facendo conoscere l’Associazione a colleghi/e favorendone l’iscrizione nella consapevolezza che A.N.N.A. è

LA TUA ENERGIA


Riunione Giunta Esecutiva del 18.06.2016

Ai sensi dell’art. 13 dello Statuto, viene convocata la riunione della Giunta Esecutiva che si svolgerà sabato 18 giugno 2016 alle ore 7:30 presso il Comune di Cesena – Palazzo Municipale – Piazza del Popolo 10, in prima convocazione, e alle ore 9:30 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:

  1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2016;
  2. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2017;
  3. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2018;
  4. Approvazione quote iscrizione all’Associazione per l’anno 2017;
  5. Valutazione/Approvazione quote di partecipazione alle Giornate di Studio;
  6. Valutazione progetto di APP per notifica atti;
  7. Varie ed eventuali.

Leggi: Verbale GE 18 06 2016


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 26/01/2016) 06/05/2016, n. 9140

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente Sezione –

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente Sezione –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. BERNABAI Renato – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 13729/2012 proposto da:

PROVINCIA RELIGIOSA DI S. PIETRO DELL’ORDINE OSPEDALIERO DI S. GIOVANNI DI DIO FATEBENEFRATELLI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 229, presso lo studio dell’avvocato GIULIANO MARIA POMPA, che la rappresenta e difende, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CATTOLICA ASSICURAZIONI COOP. A R.I., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato PIERFILIPPO COLETTI, che la rappresenta e difende, per delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

REALE MUTUA ASSICURAZIONI S.P.A., ZURICH INSURANCE PLC, /PRESUTTO ANDREA/, DUOMO UNI ONE ASSICURAZIONI S.P.A., MMI DANNI S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 405/2012 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 24/01/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/01/16 dal Cons. Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

uditi gli avvocati Giuliano Maria POMPA, Pierfilippo COLETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso, assorbiti gli altri, statuendosi i principi cui dovrà attenersi il giudice di merito al fine di stabilire se la clausola claims made sia vessatoria.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 18 dicembre 2008 il Tribunale di Roma accolse la domanda proposta da /Presutto Andrea/ nei confronti della Provincia Religiosa di S. Pietro dell’Ordine Ospedaliero di S. Giovanni di Dio Fatebenefratelli (di seguito anche solo Provincia Religiosa), domanda volta ad ottenere il risarcimento dei danni da lui subiti per effetto della condotta dei medici della struttura che lo avevano curato. E nel condannare l’ente al pagamento della somma liquidata al paziente a titolo di ristoro dei pregiudizi patiti, dichiarò tutte le compagnie assicurative chiamate in causa dalla convenuta tenute a manlevare la responsabile-assicurata nei limiti previsti dalle rispettive polizze.

Propose appello la Società Cattolica di Assicurazioni s.p.a., anche quale delegataria delle coassicuratrici Zurich Insurance PLC (per la quota del 30%) e di Reale Mutua (per la quota del 20%), censurando la ritenuta inoperatività della clausola c.d. claims made – letteralmente “a richiesta fatta” – inserita nella polizza n. 11891, da essa stipulata con la Provincia Religiosa, in quanto derogativa, secondo il giudice di prime cure, del primo comma dell’art. 1917 c.c., e quindi del principio in base al quale la copertura assicurativa si estende a tutti i fatti accaduti durante la vigenza del contratto. Sostenne segnatamente l’esponente che, nell’adottare tale errata soluzione, il decidente non aveva considerato che la pattuizione intitolata “Condizione speciale – Inizio e Termine della Garanzia”, in base alla quale la manleva valeva per le istanze risarcitorie presentate per la prima volta nel periodo di efficacia dell’assicurazione, purchè il fatto che aveva originato la richiesta fosse stato commesso nello stesso periodo o nel triennio precedente alla stipula, era pienamente valida ed efficace, anche in assenza di una specifica sottoscrizione, in quanto volta a delimitare l’oggetto del contratto e non a stabilire una limitazione di responsabilità.

Con la sentenza ora impugnata, depositata il 16 dicembre 2011, la Corte d’appello di Roma ha rigettato la domanda di manleva della Provincia nei confronti della Cattolica e delle coassicuratrici.

In motivazione la Curia capitolina, affermata la piena validità della clausola, ne ha altresì escluso il carattere vessatorio rilevando che la stessa, lungi dal rappresentare una limitazione della responsabilità della società assicuratrice, estende la copertura ai fatti dannosi verificatisi prima della stipula del contratto.

Il ricorso della Provincia Religiosa avverso detta decisione è articolato su tre motivi.

Si sono difese con controricorso la Società Cattolica Assicurazioni Coop. a r.l. e Zurich Insurance PLC. A seguito di istanza dell’impugnante, il Primo Presidente, ritenuto che la controversia presentava una questione di massima di particolare importanza, ne ha disposto l’assegnazione alle sezioni unite.

Fissata l’udienza di discussione, entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Va anzitutto sgombrato il campo dall’eccezione, sollevata in limine dalla Società Cattolica di Assicurazione Coop. a r.l. e dalla Zurich Insurance PLC, di inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza. Sostengono invero le resistenti che l’impugnazione violerebbe il disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, posto che non sarebbe riportato il testo del contratto nè ne sarebbe indicata l’esatta allocazione nel fascicolo processuale.

Il rilievo non ha pregio.

La preliminare verifica evocata dalle società assicuratrici è destinata ad avere esito positivo a condizione che il ricorso contenga tutti gli elementi necessari a porre il giudice di legittimità in grado di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto nonchè di cogliere il significato e la portata delle censure rivolte alle argomentazioni con le quali il decidente ha giustificato la scelta decisoria adottata.

Nello specifico, il nodo problematico sul quale è stato sollecitato l’intervento nomofilattico delle sezioni unite, attiene alla validità di una clausola il cui contenuto è assolutamente pacifico tra le parti ed è comunque stato trascritto in ricorso, di talchè non avrebbe senso sanzionare con l’inammissibilità l’omissione delle indicazioni necessarie alla facile reperibilità del testo dell’intero contratto, considerato che nessun ausilio esso apporterebbe alla soluzione delle questioni poste dalla proposta impugnazione. E’ sufficiente all’uopo considerare che le deduzioni hinc et inde svolte a sostegno delle rispettive tesi difensive, omettono qualsivoglia riferimento a pattuizioni diverse da quella racchiusa nella clausola in contestazione, volta a circoscrivere, nei sensi che di qui a poco si andranno a precisare, l’obbligo della garante di manlevare la garantita.

2.1. Per le stesse ragioni, e specularmente, l’eccezione di giudicato esterno sollevata da entrambe le parti, nelle memorie ex art. 378 c.p.c., e nel corso della discussione orale, in relazione a sentenze definitive che, con riferimento alla polizza n. (OMISSIS) oggetto del presente giudizio, avrebbero pronunciato sulla validità della contestata condizione, non può sortire l’effetto di precludere la decisione di questa Corte sul merito della proposta impugnazione.

Mette conto in proposito ricordare che, nel giudizio di legittimità, il principio della rilevabilità del giudicato esterno va coordinato con i criteri redazionali desumibili dal disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 6. E tanto per la dirimente considerazione che l’interpretazione del giudicato esterno, pur essendo assimilabile a quella degli elementi normativi astratti, in ragione della sua natura di norma regolatrice del caso concreto, va comunque effettuata sulla base di quanto stabilito nel dispositivo della sentenza e nella motivazione che la sorregge, di talchè la relativa deduzione soggiace all’onere della compiuta indicazione di tutti gli elementi necessari al compimento del sollecitato scrutinio (cfr. Cass. civ. 10 dicembre 2015, n. 24952).

2.2. Venendo al caso di specie, le contrapposte deduzioni delle parti in ordine all’esistenza di sentenze passate in giudicato che, con esiti niente affatto coincidenti, si sarebbero pronunciate sulle questioni oggetto del presente giudizio, non sono accompagnate dalla indicazione degli elementi indispensabili alla verifica della fondatezza dell’eccezione, nei sensi testè esplicitati.

Ne deriva che l’eccezione di giudicato esterno va disattesa.

3.1. Passando quindi all’esame della proposta impugnazione, con il primo motivo, la Provincia Religiosa, denunciando violazione e falsa applicazione dell’art. 1341, secondo comma, cod. civ., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5, contesta la negativa valutazione della natura vessatoria della clausola.

Rileva segnatamente l’esponente che la stessa, non integrando l’oggetto del contratto, ma piuttosto limitando la responsabilità della compagnia assicuratrice, ovvero prevedendo decadenze, limitazioni alla facoltà di proporre eccezioni e restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti con i terzi, facoltà di sospendere l’esecuzione, richiedeva una specifica sottoscrizione, nella specie mancante. Aggiunge che, mentre la previsione pattizia non infirma la tipicità dello schema negoziale, l’estensione della garanzia a sinistri occorsi in periodi precedenti alla vigenza della polizza è ben possibile anche in contratti conformati sul modello boss occurrence. In ogni caso – evidenzia – l’art. 1341 c.c., è norma che riguarda tutti i contratti, tipici o atipici che siano.

3.2. Con il secondo mezzo l’impugnante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1341, 2964 e 2965 c.c., omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Sostiene che la condizione apposta al contratto sarebbe nulla, ex art. 2965 c.c., per l’eccessiva difficoltà che ne deriverebbe all’esercizio del diritto alla manleva dell’assicurato, questione sulla quale la Corte di merito non si era affatto pronunciata, benchè la stessa fosse stata tempestivamente sollevata sin dal primo grado del giudizio.

3.3. Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 1175, 1337, 1358, 1366, 1374 e 1375 c.c., nonchè omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione su punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3, 4 e 5. Sostiene l’esponente che la clausola in contestazione sarebbe nulla per contrarietà ai principi di correttezza e buona fede, poichè essa, intitolata inizio e termine della garanzia, non contiene alcun richiamo espresso alla circostanza che viene assicurato non già il fatto foriero di danno, ma la richiesta di danno che, insieme al fatto, deve intervenire nel corso di vigenza temporale della polizza.

4. Le critiche, che si prestano a essere esaminate congiuntamente per la loro evidente connessione, sono infondate.

Va premesso, per una più agevole comprensione delle ragioni della scelta operata in dispositivo, che il contratto di assicurazione per responsabilità civile con clausola claims made (a richiesta fatta) si caratterizza per il fatto che la copertura è condizionata alla circostanza che il sinistro venga denunciato nel periodo di vigenza della polizza (o anche in un delimitato arco temporale successivo, ove sia pattuita la c.d. sunset dose), laddove, secondo lo schema denominato “loss occurrence”, o “insorgenza del danno”, sul quale è conformato il modello delineato nell’art. 1917 c.c., la copertura opera in relazione a tutte le condotte, generatrici di domande risarcitorie, insorte nel periodo di durata del contratto.

Senza addentrarsi nella “storia” della formula e del contesto giurisprudenziale ed economico in cui essa ebbe a germogliare, in quanto esorbitante rispetto ai fini della presente esposizione, mette conto nondimeno rilevare, per una migliore comprensione degli interessi in gioco, che la sua introduzione, circoscrivendo l’operatività della assicurazione a soli sinistri per i quali nella vigenza del contratto il danneggiato richieda all’assicurato il risarcimento del danno subito, e il danneggiato assicurato ne dia comunicazione alla propria compagnia perchè provveda a tenerlo indenne, consente alla società di conoscere con precisione sino a quando sarà tenuta a manlevare il garantito e ad appostare in bilancio le somme necessarie per far fronte alle relative obbligazioni, con quel che ne consegue, tra l’altro, in punto di facilitazione nel calcolo del premio da esigere.

5. Malgrado la variegata tipologia di clausole claims made offerte dalla prassi commerciale, esse, schematizzando al massimo, appaiono sussumibili in due grandi categorie: a) clausole c.d. miste o impure, che prevedono l’operatività della copertura assicurativa solo quando tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano nel periodo di efficacia del contratto, con retrodatazione della garanzia, in taluni casi, come quello dedotto in giudizio, alle condotte poste in essere anteriormente (in genere due o tre anni dalla stipula del contratto); b) clausole c.d. pure, destinate alla manleva di tutte le richieste risarcitorie inoltrate dal danneggiato all’assicurato e da questi all’assicurazione nel periodo di efficacia della polizza, indipendentemente dalla data di commissione del fatto illecito.

6.1. Tanto premesso e precisato, ragioni di ordine logico consigliano di partire dall’esame delle censure con le quali l’impugnante contesta in radice la validità della clausola claims made, segnatamente esposte nel secondo e del terzo motivo di ricorso.

Orbene, in relazione ai particolari profili di nullità ivi evocati, le critiche sono destituite di fondamento, ancorchè la problematica della liceità dei patti in essa racchiusi non possa esaurirsi nella loro confutazione e necessiti di alcune, significative precisazioni.

Anzitutto non è condivisibile l’assunto secondo cui il decidente non avrebbe risposto alla deduzione di nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 c.c..

La Corte territoriale ha invero scrutinato la validità del patto, espressamente negando, ancorchè con motivazione estremamente sintetica, che lo stesso integrasse violazione di alcuna norma imperativa. Il che significa che la prospettazione dell’appellata non è sfuggita al vaglio critico del giudicante.

6.2. Deve in ogni caso escludersi che la limitazione della copertura assicurativa alle “richieste di risarcimento presentate all’Assicurato, per la prima volta, durante il periodo di efficacia dell’assicurazione”, in relazione a fatti commessi nel medesimo lasso temporale o anche in epoca antecedente, ma comunque non prima di tre anni dalla data del suo perfezionamento, integri una decadenza convenzionale, soggetta ai limiti inderogabilmente fissati nella norma codicistica di cui si assume la violazione.

E invero l’istituto richiamato, implicando la perdita di un diritto per mancato esercizio dello stesso entro il periodo di tempo stabilito, va inequivocabilmente riferito a già esistenti situazioni soggettive attive nonchè a condotte imposte, in vista del conseguimento di determinati risultati, a uno dei soggetti del rapporto nell’ambito del quale la decadenza è stata prevista. Invece la condizione racchiusa nella clausola in contestazione consente o preclude l’operatività della garanzia in dipendenza dell’iniziativa di un terzo estraneo al contratto, iniziativa che peraltro incide non sulla sorte di un già insorto diritto all’indennizzo, quanto piuttosto sulla nascita del diritto stesso.

Ne deriva che non v’è spazio per una verifica di compatibilità della clausola con il disposto dell’art. 2965 c.c..

7.1. Pure infondata è la deduzione di nullità per asserito contrasto della previsione pattizia con le regole di comportamento da osservarsi nel corso della formazione del contratto e nello svolgimento del rapporto obbligatorio. Non è qui in discussione che i reiterati richiami del codice alla correttezza come regola alla quale il debitore e il creditore devono improntare il proprio comportamento (art. 1175 c.c.), alla buona fede come criterio informatore della interpretazione e della esecuzione del contratto (artt. 1366 e 1375 c.c.), e all’equità, quale parametro delle soluzioni da adottare in relazione a vicende non contemplate dalle parti (art. 1374 c.c.), facciano della correttezza (o buona fede in senso oggettivo) un metro di comportamento per i soggetti del rapporto, e un binario guida per la sintesi valutativa del giudice, il cui contenuto non è a priori determinato; nè che il generale principio etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei propri doveri, insieme alla nozione di abuso del diritto, che ne è l’interfaccia, giochino un ruolo fondamentale e in funzione integrativa dell’obbligazione assunta dal debitore, e quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese;

nè, ancora, che, attraverso le richiamate norme, possa venire più esattamente individuato, e per così dire arricchito, il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, con l’estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di cooperazione, di informazione), che, in relazione al concreto evolversi della vicenda negoziale, vadano, in definitiva a individuare la regula iuris effettivamente applicabile e a salvaguardare la funzione obbiettiva e lo spirito del regolamento di interessi che le parti abbiano inteso raggiungere.

7.2. Ciò che tuttavia rileva, ai fini del rigetto delle proposte censure, è che, in disparte quanto appresso si dirà (al n. 17.), in ordine al giudizio di meritevolezza di regolamenti negoziali oggettivamente non equi e gravemente sbilanciati, la violazione di regole di comportamento ispirate a quel dovere di solidarietà che, sin dalla fase delle trattative, richiama “nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore”, secondo l’icastica enunciazione della Relazione ministeriale al codice civile, in nessun caso potrebbe avere forza ablativa di un vincolo convenzionalmente assunto, essendo al più destinato a trovare ristoro sul piano risarcitorio (confr. Cass. civ. 10 novembre 2010, n. 22819; Cass. civ. 22 gennaio 2009, n. 1618; Cass. civ. sez. un. 25 novembre 2008, n. 28056).

7.3. Ora, con specifico riguardo alle censure svolte nel terzo motivo, ciò di cui l’impugnante Provincia Religiosa si duole è che l’inserimento della clausola sia avvenuta in maniera asseritamente subdola, posto che la sua denominazione “inizio e termine della garanzia” avrebbe fuorviato il consenso dell’aderente, affatto inconsapevole di un contenuto che stravolge lo schema codicistico del contratto assicurativo, ispirato alla formula loss occurence: da tanto inferendo non già l’esistenza di ipotesi di annullabilità per errore o dolo o di variamente modulati diritti risarcitori dell’assicurato nei confronti dell’assicuratore, ma la nullità radicale e assoluta della clausola sub specie di illiceità che vitiatur sed non vitiat, con conseguente attivazione del meccanismo sostitutivo di cui all’art. 1419 c.c., comma 2, implicitamente, ma inequivocabilmente evocato.

E tuttavia, si ripete, è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, al quale si intende dare continuità, che, ove non altrimenti stabilito dalla legge, unicamente la violazione di precetti inderogabili concernenti la validità del contratto è suscettibile di determinarne la nullità, non già l’inosservanza di norme, quand’anche imperative, riguardanti il comportamento dei contraenti, inosservanza che può costituire solo fonte di responsabilità per danni (cfr. Cass. civ. 10 aprile 2014, n. 8462;

Cass. civ. 19 dicembre 2007, n. 26724).

Ne deriva che le censure poste nel primo e nel secondo motivo di ricorso non colgono nel segno.

8.1. L’ampiezza dello scrutinio nomofilattico sollecitato e le peculiarità proprie della fattispecie dedotta in giudizio, inducono queste sezioni unite a esaminare un ulteriore, possibile profilo di invalidità della clausola in contestazione, per vero assai dibattuto, soprattutto in dottrina e nella giurisprudenza di merito.

Merita evidenziare, sul piano fattuale: a) che il sinistro, e cioè l’omessa diagnosi dei cui effetti pregiudizievoli P.A. ha chiesto di essere ristorato, si è verificato nell’agosto 1993; b) che l’arco temporale di vigenza della polizza dedotta in giudizio andava dal 21 febbraio 1996 al 31 dicembre 1997, con effetto retroattivo al triennio precedente; c) che la copertura assicurativa era in ogni caso limitata alle richieste di risarcimento presentate per la prima volta all’assicurato durante il periodo di operatività dell’assicurazione, e quindi entro il 31 dicembre 1997; d) che nella fattispecie la domanda del paziente venne avanzata nel giugno 2001.

E allora, considerato che il sinistro di cui la chiamante ha chiesto di essere indennizzata si è verificato in epoca antecedente alla stipula del contratto, risulta ineludibile il confronto con la vexata quaestio della validità dell’assicurazione del rischio pregresso. Si ricorda all’uopo che l’assicurabilità di fatti generatori di danno verificatisi prima della conclusione del contratto, ma ignorati dall’assicurato, è stata ed è fortemente osteggiata da coloro che ravvisano nella clausola claims made così strutturata una sostanziale mancanza dell’alea richiesta, a pena di nullità, dall’art. 1895 c.c.. E invero – si sostiene – posto che il rischio dedotto in contratto deve essere futuro e incerto, giammai il c.d.

rischio putativo potrebbe trovare copertura.

9. Da tale opinione le Sezioni unite ritengono tuttavia di dovere dissentire, così confermando l’orientamento già espresso da questa Corte negli arresti n. 7273 del 22 marzo 2013, e n. 3622 del 17 febbraio 2014.

Affatto convincente appare in proposito il rilievo che l’estensione della copertura alle responsabilità dell’assicurato scaturenti da fatti commessi prima della stipula del contratto non fa venir meno l’alea e, con essa, la validità del contratto, se al momento del raggiungimento del consenso le parti (e, in specie, l’assicurato) ne ignoravano l’esistenza, potendosi, in caso contrario, opporre la responsabilità del contraente ex artt. 1892 e 1893 c.c., per le dichiarazioni inesatte o reticenti. A ciò aggiungasi che, come innanzi evidenziato, il rischio dell’aggressione del patrimonio dell’assicurato in dipendenza di un sinistro verificatosi nel periodo contemplato dalla polizza, si concretizza progressivamente, perchè esso non si esaurisce nella sola condotta materiale, cui pur è riconducibile causalmente il danno, occorrendo anche la manifestazione del danneggiato di esercitare il diritto al risarcimento: ne deriva che la clausola claims made con garanzia pregressa è lecita perchè afferisce a un solo elemento del rischio garantito, la condotta colposa posta già in essere e peraltro ignorata, restando invece impregiudicata l’alea dell’avveramento progressivo degli altri elementi costitutivi dell’impoverimento patrimoniale del danneggiante-assicurato.

Non a caso, del resto, il rischio putativo è espressamente riconosciuto nel nostro ordinamento dall’art. 514 c.n., con disposizione che non v’è motivo di ritenere eccezionale.

10. L’affermato carattere grandangolare del giudizio di nullità (cfr. Cass. civ. sez. un. 12 dicembre 2014, nn. 26242 e 26243), impone a questo punto di farsi carico degli ulteriori rilievi – disseminati qua e là, nel corpo delle complesse e articolate argomentazioni formulate dalla ricorrente a illustrazione della sua linea difensiva – volti a evidenziare la consustanziale e invincibile contrarietà della clausola con la struttura propria del contratto di assicurazione, posto che essa, legando la copertura dei sinistri alla condizione che ne venga chiesto il ristoro entro un certo periodo di tempo, decorso il quale cessa ogni obbligo di manleva per la compagnia, stravolgerebbe, a danno dell’assicurato, la struttura tipica del contratto, quale delineato nell’art. 1917 c.c., che, conformata, come si è detto, sul modello c.d. loss occurrence, assicura la copertura di tutti i sinistri occorsi nel periodo di tempo di vigenza della polizza. Secondo tale prospettiva, che ha trovato riscontro in talune pronunce della giurisprudenza di merito e adesioni in dottrina, la clausola sarebbe nulla perchè vanificherebbe la causa del contratto di assicurazione, individuata, con specifico riferimento all’assicurazione sulla responsabilità professionale, nel trasferimento, dall’agente all’assicuratore, del rischio derivante dall’esercizio dell’attività, questa e non la richiesta risarcitoria essendo oggetto dell’obbligo di manleva.

11. Sul piano strettamente dogmatico la tesi dell’intagibilità del modello codicistico si scontra contro il chiaro dato testuale costituito dall’art. 1932 c.c., che tra le norme inderogabili non menziona l’art. 1917 c.c., comma 1. Il che, in via di principio, consente alle parti di modulare, nella maniera ritenuta più acconcia, l’obbligo del garante di tenere indenne il garantito “di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione”, deve pagare a un terzo.

Si tratta piuttosto di stabilire fino a che punto i paciscenti possano spingersi nella riconosciuta loro facoltà di variare il contenuto del contratto e quale sia il limite oltre il quale la manipolazione dello schema tipico sia in concreto idonea ad avvelenarne la causa. Non a caso, al riguardo, la tesi della nullità viene declinata nella ben più scivolosa chiave della immeritevolezza di tutela dell’assicurazione con clausola claims made, segnatamente di quella mista, in ragione della significativa delimitazione dei rischi risarcibili, del pericolo di mancanza di copertura in caso di mutamento dell’assicuratore e delle conseguenti, possibili ripercussioni negative sulla concorrenza tra le imprese e sulla libertà contrattuale.

12. In realtà, al fondo della manifesta insofferenza per una condizione contrattuale che appare pensata a tutto vantaggio del contraente forte, c’è la percezione che essa snaturi l’essenza stessa del contratto di assicurazione per responsabilità civile, legando l’obbligo di manleva a una barriera temporale che potrebbe scattare assai prima della cessazione del rischio che ha indotto l’assicurato a stipularlo, considerato che l’eventualità di un’aggressione del suo patrimonio persiste almeno fino alla maturazione dei termini di prescrizione.

Peraltro una risposta soddisfacente e conclusiva a siffatto genere di dubbi non può prescindere da una più approfondita esegesi della natura della contestata clausola, operazione che, in quanto indispensabile alla identificazione del relativo regime giuridico, deve necessariamente confrontarsi anche con le critiche svolte nel primo motivo di ricorso.

13. Si tratta invero di stabilire se essa vada qualificata come limitativa della responsabilità, per gli effetti dell’art. 1341 c.c., ovvero dell’oggetto del contratto, tenendo conto che, in linea generale, per clausole limitative della responsabilità si intendono quelle che limitano le conseguenze della colpa o dell’inadempimento o che escludono il rischio garantito, mentre attengono all’oggetto del contratto le clausole che riguardano il contenuto e i limiti della garanzia assicurativa e, pertanto, specificano il rischio garantito (Cass. civ. 7 agosto 2014, n. 17783; Cass. civ. 7 aprile 2010, n. 8235; Cass. civ. 10 novembre 2009, n. 23741). In siffatta prospettiva si predica che si ha delimitazione dell’oggetto quando la clausola negoziale ha lo scopo di stabilire gli obblighi concretamente assunti dalle parti, laddove è delimitativa della responsabilità quella che ha l’effetto di escludere una responsabilità che, rientrando, in tesi,nell’oggetto, sarebbe altrimenti insorta.

14. Orbene, funzionale al divisato obbiettivo esegetico è anzitutto la considerazione che il fatto accaduto durante il tempo dell’assicurazione di cui parla l’art. 1917 c.c., non può essere identificato con la richiesta di risarcimento: non par dubbio infatti che il lemma – inserito all’interno di un contesto normativo in cui sono espressamente esclusi dall’area della risarcibilità i danni derivati dai fatti dolosi (art. 1917, comma 1, ultimo periodo); in cui sono imposti all’assicurato, con decorrenza dalla data del sinistro, significativi oneri informativi (art. 1913 cod. civ.); e in cui, infine, è espressamente sancito e disciplinato l’obbligo di salvataggio (art. 1914 c.c.) – si riferisce inequivocabilmente alla vicenda storica di cui l’assicurato deve rispondere (cfr. Cass. civ. 15 marzo 2005, n. 5624).

Il che, se vale a far tracimare i contratti assicurativi con clausola claims made pura fuori della fattispecie ipotetica delineata nell’art. 1917 cod. civ., non è invece sufficiente a suffragare l’assunto secondo cui anche la clausola claims made mista inciderebbe sulla tipologia stessa del rischio garantito nel senso che questo non sarebbe più la responsabilità tout court, ma la responsabilità reclamata. L’affermazione che, si ripete, è certamente sostenibile con riferimento ai contratti assicurativi con clausola claims made pura, non resiste, con riguardo alle altre, al dirimente rilievo che, nell’ambito dell’assicurazione della responsabilità civile, il sinistro delle cui conseguenze patrimoniali l’assicurato intende traslare il rischio sul garante, è collegato non solo alla condotta dell’assicurato danneggiante, ma altresì alla richiesta risarcitoria avanzata dal danneggiato, essendo fin troppo ovvio che ove al comportamento lesivo non faccia seguito alcuna domanda di ristoro, nessun diritto all’indennizzo – e specularmente nessun obbligo di manleva insorgeranno a favore e a carico dei soggetti del rapporto assicurativo.

15. Se tutto questo è vero, il discostamento dal modello codicistico introdotto dalla clausola clamis made impura, che è quella che qui interessa, mirando a circoscrivere la copertura assicurativa in dipendenza di un fattore temporale aggiuntivo, rispetto al dato costituito dall’epoca in cui è stata realizzata la condotta lesiva, si inscrive a pieno titolo nei modi e nei limiti stabiliti dal contratto, entro i quali, a norma dell’art. 1905 c.c., l’assicuratore è tenuto a risarcire il danno sofferto dall’assicurato. E poichè non è seriamente predicabile che l’assicurazione della responsabilità civile sia ontologicamente incompatibile con tale disposizione, il patto claims made è volto in definitiva a stabilire quali siano, rispetto all’archetipo fissato dall’art. 1917 c.c., i sinistri indennizzabili, così venendo a delimitare l’oggetto, piuttosto che la responsabilità.

16. Infine, e conclusivamente, nessuna consistenza hanno gli altri profili di vessatorietà evocati dalla Provincia Religiosa, a sol considerare che la pretesa, pattizia imposizione di decadenze è resistita dai medesimi rilievi svolti a proposito dell’eccepita nullità della clausola per contrarietà al disposto dell’art. 2965 c.c.; che la deduzione di un’incisione della libertà contrattuale del contraente non predisponente costituisce al più un inconveniente pratico che, in quanto effetto riflesso delle condizioni della stipula, è semmai passibile di valutazione in sede di scrutinio sulla meritevolezza della tutela, di cui appresso si dirà; che inesistente, infine, è la prospettata limitazione alla facoltà dell’assicurato di opporre eccezioni.

Ne deriva che correttamente il giudice di merito ha escluso sia le ragioni di nullità fatte valere dall’esponente che il carattere vessatorio della clausola.

17. Ritenuta inoperante la tutela, del resto meramente formale, assicurata dall’art. 1341 c.c., e conseguentemente infondate le critiche svolte nel primo mezzo, si tratta ora di considerare i possibili esiti di uno scrutinio di validità condotto sotto il profilo della meritevolezza di tutela della deroga al regime legale contrattualmente stabilita, riprendendo il discorso dal punto in cui lo si è lasciato (al n. 12.). Peraltro, se è approdo pacifico della teoria generale del contratto la possibilità di estendere il sindacato al singolo patto atipico, inserito in un contratto tipico, è di intuitiva evidenza che qualsivoglia indagine sulla meritevolezza deve necessariamente essere condotta in concreto, con riferimento, cioè, alla fattispecie negoziale di volta in volta sottoposta alla valutazione dell’interprete. E invero i dubbi avanzati da questa Corte allorchè, interrogandosi in un obiter dictum sulla validità dell’esclusione dalla copertura assicurativa di un sinistro realizzato nel pieno vigore del contratto, in quanto la domanda risarcitoria era stata per la prima volta proposta dopo la scadenza della polizza, ebbe a ipotizzare problemi di validità della clausola, considerato che, in casi siffatti, verrebbe a mancare, “in danno dell’assicurato, il rapporto di corrispettività fra il pagamento del premio e il diritto all’indennizzo” (cfr. Cass. civ. 17 febbraio 2014, n. 3622), non appaiono passibili di risposte univoche, in disparte il loro indiscutibile impatto emotivo. E’ sufficiente al riguardo considerare che la prospettazione dell’immeritevolezza è, in via di principio, infondata con riferimento alle clausole c.d.

pure, che, non prevedendo limitazioni temporali alla loro retroattività, svalutano del tutto la rilevanza dell’epoca di commissione del fatto illecito, mentre l’esito dello scrutinio sembra assai più problematico con riferimento alle clausole c.d. impure, a partire da quella, particolarmente penalizzante, che limita la copertura alla sola ipotesi che, durante il tempo dell’assicurazione, intervengano sia il sinistro che la richiesta di risarcimento. Quanto poi alle clausole che estendono la garanzia al rischio pregresso, l’apprezzamento non potrà non farsi carico del rilievo che, in casi siffatti, il sinallagma contrattuale, che nell’ultimo periodo di vita del rapporto è destinato a funzionare in maniera assai ridotta, quanto alla copertura delle condotte realizzate nel relativo arco temporale, continuerà nondimeno a operare con riferimento alle richieste risarcitorie avanzate a fronte di comportamenti dell’assicurato antecedenti alla stipula, di talchè l’eventualità, paventata nell’arresto n. 3622 del 2014, di una mancanza di corrispettività tra pagamento del premio e diritto all’indennizzo, non è poi così scontata. Peraltro è evidente che della copertura del rischio pregresso nulla potrà farsene l’esordiente, il quale non ha alcun interesse ad assicurare inesistenti sue condotte precedenti alla stipula, di talchè anche tale circostanza entrerà, se del caso, nella griglia valutativa della meritevolezza.

18. Non è poi superfluo aggiungere che, laddove risulti applicabile la disciplina di cui al D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206, l’indagine dovrà necessariamente confrontarsi con la possibilità di intercettare, a carico del consumatore, quel “significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto” presidiato dalla nullità di protezione, di cui al D.Lgs. n. 206 del 2005, art. 36. E ancorchè la pacifica limitazione della tutela offerta dalla menzionata fonte alle sole persone fisiche che concludano un contratto per la soddisfazione di esigenze della vita quotidiana estranee all’attività imprenditoriale o professionale eventualmente esercitata – dovendosi per contro considerare professionista il soggetto che stipuli il contratto nell’esercizio di una siffatta attività o per uno scopo a questa connesso (cfr. Cass. civ. Cass. civ. 12 marzo 2014, n. 5705; Cass. civ. 23 settembre 2013, n. 21763) – escluda la possibilità che essa risulti applicabile ai contratti di assicurazione della responsabilità professionale e marchi comunque di assoluta residualità l’ipotesi di una sua rilevanza in parte qua, va nondimeno sottolineata la maggiore incisività del relativo scrutinio.

Questo, in quanto volto ad assicurare protezione al contraente debole, non potrà invero che attestarsi su una soglia di incisione dell’elemento causale più bassa rispetto a quella necessaria per il positivo riscontro dell’immeritevolezza, affidato ai principi generali dell’ordinamento.

19. Va poi da sè che l’esegesi, ove non approdi a risultati appaganti sulla base di dati propri della clausola, che risultino in sè di fulminante evidenza in un senso o nell’altro, non può prescindere dalla considerazione, da un lato, dell’esistenza di un contesto caratterizzato dalla spiccata asimmetria delle parti e nel quale il contraente non predisponente, ancorchè in tesi qualificabile come “professionista”, è, in realtà, il più delle volte sguarnito di esaustive informazioni in ordine ai complessi meccanismi giuridici che governano il sistema della responsabilità civile; dall’altro, di tutte le circostanze del caso concreto, ivi compresi altri profili della disciplina pattizia, quali, ad esempio, l’entità del premio pagato dall’assicurato, così in definitiva risolvendosi in un giudizio di stretto merito che, se adeguatamente motivato, è insindacabile in sede di legittimità.

20. Quanto poi agli effetti della valutazione di immeritevolezza, essi, in via di principio – esorbitando dall’area della mera scorrettezza comportamentale presidiata, per quanto innanzi detto (al n. 7.2), dalla sola tutela risarcitoria – non possono non avere carattere reale, con l’applicazione dello schema legale del contratto di assicurazione della responsabilità civile, e cioè della formula loss occurence. E tanto sull’abbrivio degli spunti esegetici offerti dall’art. 1419 c.c., comma 2, nonchè del principio, ormai assurto a diritto vivente, secondo cui il precetto dettato dall’art. 2 Cost., “che entra direttamente nel contratto, in combinato contesto con il canone della buona fede, cui attribuisce vis normativa” (Corte cost.

n. 77 del 2014 e n. 248 del 2013), consente al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sullo statuto negoziale, qualora ciò sia necessario per garantire l’equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l’abuso del diritto (cfr. Cass. civ. 18 settembre 2009, n. 20106; Cass. sez. un. 13 settembre 2005, n. 18128).

21. Prima di chiudere, verificando la ricaduta degli esposti criteri sulla fattispecie dedotta in giudizio, non possono queste sezioni unite ignorare la delicata questione della compatibilità della clausola claims made con l’introduzione, in taluni settori, dell’obbligo di assicurare la responsabilità civile connessa all’esercizio della propria attività. Mette conto in proposito ricordare: a) che il D.L. n. 138 del 2011, art. 3, comma 5, convertito con legge n. 148 dello stesso anno, nell’elencare i principi ai quali devono ispirarsi le riforme degli ordinamenti professionali da approvarsi nel termine di un anno dall’entrata in vigore del decreto, ha previsto alla lett. e), l’obbligo per tutti di stipulare “idonea assicurazione per i rischi derivanti dall’esercizio dell’attività professionale”, nonchè di rendere noti al cliente, al momento dell’assunzione dell’incarico, gli estremi della polizza stipulata e il relativo massimale; b) che il successivo D.P.R. 7 agosto 2012, n. 137, nel ribadire siffatto obbligo – la cui violazione costituisce peraltro illecito disciplinare – e nel precisare che la stipula dei contratti possa avvenire “anche per il tramite di convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti”, ha prorogato di un anno dall’entrata in vigore della norma, e dunque fino al 15 agosto 2013, l’obbligo di assicurazione; c) che con specifico riferimento agli esercenti le professioni sanitarie il D.L. 13 settembre 2012, n. 158, convertito con la L. 8 novembre 2012, n. 189, ha poi demandato a un decreto del Presidente della Repubblica la disciplina delle procedure e dei requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti, mentre il D.L. 21 giugno 2013, n. 69 (c.d. decreto fare), convertito dalla L. 9 agosto 2013, n. 98, ha allungato al 13 agosto 2014 l’obbligo degli stessi di munirsi di assicurazione di responsabilità civile.

22. Ciò posto, e rilevato che è stata da più parti segnalata l’incongruenza della previsione di un obbligo per il professionista di assicurarsi, non accompagnata da un corrispondente obbligo a contrarre in capo alle società assicuratrici, quel che in questa sede rileva è che il giudizio di idoneità della polizza difficilmente potrà avere esito positivo in presenza di una clausola claims made, la quale, comunque articolata, espone il garantito a buchi di copertura. E’ peraltro di palmare evidenza che qui non sono più in gioco soltanto i rapporti tra società e assicurato, ma anche e soprattutto quelli tra professionista e terzo, essendo stato quel dovere previsto nel preminente interesse del danneggiato, esposto al pericolo che gli effetti della colpevole e dannosa attività della controparte restino, per incapienza del patrimonio della stessa, definitivamente a suo carico. E di tanto dovrà necessariamente tenersi conto al momento della stipula delle “convenzioni collettive negoziate dai consigli nazionali e dagli enti previdenziali dei professionisti”, nonchè in sede di redazione del decreto presidenziale chiamato a stabilire, per gli esercenti le professioni sanitarie, le procedure e i requisiti minimi e uniformi per l’idoneità dei relativi contratti.

23. Tornando al caso dedotto in giudizio, si tratta a questo punto di verificare, alla stregua degli stimoli critici contenuti in ricorso e alla luce dei criteri innanzi esposti in ordine al controllo, immanente nella funzione giudiziaria, della compatibilità del regolamento di interessi in concreto realizzato dalle parti con i principi generali dell’ordinamento (cfr. Cass. civ. sez. un. nn. 26242 e 26243 del 2014; Cass. civ. 19 giugno 2009, n. 14343), la meritevolezza della clausola claims made inserita nella polizza n. 118921 stipulata dalla Provincia Religiosa con Cattolica Assicurazioni s.p.a..

A giudizio della Corte dirimente appare sul punto il rilievo che la Curia capitolina ha segnatamente valorizzato, ancorchè al fine di escludere la vessatorietà della clausola, la condizione di favore per l’assicurato rappresentata dall’allargamento della garanzia ai fatti dannosi verificatisi prima della conclusione del contratto. Il che dimostra, in maniera inequivocabile, che il giudice di merito ha condotto lo scrutinio anche e soprattutto in chiave di meritevolezza della disciplina pattizia che era chiamato ad applicare.

Il positivo apprezzamento della sua sussistenza, nella assoluta assenza di deduzioni volte ad evidenziarne l’irragionevolezza e l’arbitrarietà, è, per quanto innanzi detto, incensurabile in sede di legittimità.

18. Tirando le fila del discorso vanno enunciati i seguenti principi di diritto: nel contratto di assicurazione della responsabilità civile la clausola che subordina l’operatività della copertura assicurativa alla circostanza che tanto il fatto illecito quanto la richiesta risarcitoria intervengano entro il periodo di efficacia del contratto o, comunque, entro determinati periodi di tempo, preventivamente individuati (c.d. clausola clams made mista o impura) non è vessatoria; essa, in presenza di determinate condizioni, può tuttavia essere dichiarata nulla per difetto di meritevolezza ovvero, laddove sia applicabile la disciplina di cui al decreto legislativo n. 206 del 2005, per il fatto di determinare, a carico del consumatore, un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto; la relativa valutazione, da effettuarsi dal giudice di merito, è incensurabile in sede di legittimità, ove congruamente motivata.

Il ricorso deve in definitiva essere rigettato.

La difficoltà delle questioni consiglia di compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa integralmente tra le parti le spese del giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 gennaio 2016.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2016


Cons. Stato Sez. VI, Sent., 07-03-2016, n. 906

Cons. Stato Sez. VI, Sent., 07-03-2016, n. 906


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 29/10/2015) 20/04/2016, n. 7849

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI AMATO Sergio – Presidente –

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ORGA BIO HUMAN S.R.L. in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BENEDETTO CROCE 97, presso lo studio dell’avvocato LALLINI GIANLUIGI, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 12/2009 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 23/01/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2015 dal Consigliere Dott. LA TORRE MARIA ENZA;

udito per il ricorrente l’Avvocato URBANI NERI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO IMMACOLATA, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Roma del 9 giugno 2005, la società Orga bio human s.r.l. impugnava una cartella di pagamento emessa a seguito di avviso di recupero di credito d’imposta per incrementi occupazionali, sul presupposto della definitività dell’avviso notificato e non impugnato, deducendone l’illegittimità per mancanza di previo accertamento di illeciti da parte della ASL e, comunque, per avere presentato istanza di condono.

Rilevava di non avere mai ricevuto la notifica del suddetto avviso, comunque non rientrante fra gli atti impugnabili D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19.

La CTP dichiarava inammissibile il ricorso, in quanto relativo ad atto definitivo per mancata impugnazione, non essendo stati dedotti vizi della cartella.

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 12/22/09 dep. 23 gennaio 2009, ha rigettato l’appello interposto dalla contribuente, ribadendo l’autonoma impugnabilità dell’avviso di recupero e la rituale notifica dello stesso.

Con atto del 25 settembre 2009 la società ricorre per la cassazione dell’indicata sentenza.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo del ricorso la contribuente deduce violazione di legge (ex art. 360 c.p.c., n. 3) e vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., n. 5), ritenendo nulla la notifica dell’avviso di recupero che ha preceduto la cartella impugnata, per la mancanza dei presupposti di cui all’art. 140 c.p.c.. A conclusione del motivo viene proposto momento di sintesi (“in definitiva, secondo questa difesa, sulla base di quanto precedentemente illustrato, non sussiste alcun dubbio tanto sulla nullità della notifica dell’avviso di recupero quanto sull’annullamento dell’atto consequenziale rappresentato dalla cartella di pagamento impugnata, con conseguente definitiva estinzione della pretesa tributaria stante la decadenza dei termini di decadenza previsti dall’ordinamento”) e quesito di diritto (“dica la Corte se la mancata spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento ai sensi dell’art. 140 c.p.c. configura un’ipotesi di nullità del procedimento di notificazione e sia pertanto censurabile la sentenza della CTR la quale, nel caso in esame, ha ritenuto ritualmente notificato un avviso di recupero pur in assenza della prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento prescritta dall’art. 140 c.p.c.”).

2. Contrariamente a quanto eccepito dall’Ufficio il motivo è ammissibile, poichè la proposizione congiunta di doglianze ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 è consentita laddove accompagnata, come in questo caso, tanto dal quesito di diritto previsto per il primo vizio, quanto dal momento di sintesi o riepilogo imposto per il secondo (v. Cass. S.U., 31 marzo 2009, n. 7770; conf. 12248 del 2013).

3. Il motivo è altresì fondato con riferimento al dedotto vizio di motivazione.

Si premette che la notificazione della cartella di pagamento è regolata dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, ove è previsto, nelle ipotesi di cui all’art. 140 c.p.c., che la notifica della cartella di pagamento si effettua con le modalità fissate dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60. Quest’ultimo richiede il deposito nella casa comunale, oltre che l’affissione dell’avviso alla porta del destinatario e l’invio di raccomandata con avviso di ricevimento.

A seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010 (che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 cit., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione), la notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c. si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa che rende conoscibile l’atto.

La giurisprudenza affermatasi dopo l’indicata dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale ha pertanto affermato che: “La notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c. si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore al maturarsi della compiuta giacenza, ovvero, in caso contrario, con il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione” (Cass. n. 4748 del 2011).

Tale elemento essenziale per la verifica della correttezza della notificazione, la cui mancanza è stata dedotta fin dal primo grado dall’odierna ricorrente, non è stato congruamente esaminato e motivato dalla CTR, che non ha precisato di avere verificato la presenza della cartolina attestante il ricevimento della raccomandata informativa – dichiarata ma non provata – mancandone la relativa documentazione in atti. Risulta pertanto del tutto carente la motivazione sul punto, limitandosi la CTR ad affermare che “l’avviso di recupero è stato ritualmente notificato alla società in data 27.09.2004”.

Il ricorso va conseguentemente accolto, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione, che provvederà anche alla liquidazione delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale del Lazio in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2016


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 23-02-2016) 18-04-2016, n. 7665

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MACIOCE Luigi – Primo Presidente f.f. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. DI CERBO Vincenzo – Presidente di Sez. –

Dott. RAGONESI Vittorio – Consigliere –

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – rel. Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16881-2014 proposto da:

U.R., CODACONS – COORDINAMENTO DELLE ASSOCIAZIONI DEI CONSUMATORI ED UTENTI – SEDE DI LECCE, Adusbef Puglia in persona dei rispettivi Presidenti pro tempore, ADOC PROVINCIALE DI LECCE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato PIERO MONGELLI, per delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, quale successore ex lege all’AGENZIA DEL TERRITORIO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

contro

COMUNE DI LECCE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA SCROFA 64, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BALDASSARRE, che lo rappresenta e difende per delega a margine dell’atto di intervento ad adiuvandum;

– resistente –

avverso la sentenza n. 1903/2014 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 16/04/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/02/2016 dal Consigliere Dott. ETTORE CIRILLO;

uditi gli avvocati Piero MONGELLI in proprio e per delega dell’avvocato Francesco Baldassarre ed Anna Lidia CAPUTI IAMBRENGHI dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso (giurisdizione del giudice amministrativo).

Svolgimento del processo
1. U.R., Codacons – sede di Lecce, Adusbef Puglia e Adoc provinciale di Lecce hanno adito il TAR-Puglia, sez. Lecce, per l’annullamento del provvedimento, di contenuto e data non conosciuti, di suddivisione del territorio del Comune di Lecce in micro-zone catastali ai sensi del D.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, art. 2; della delibera della Giunta Comunale di Lecce n. 639 del 29.7.2012 avente ad oggetto “Richiesta di revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del Comune di Lecce, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335”; della delibera della Giunta comunale di Lecce n. 746 del 11.10.2012 avente ad oggetto “Richiesta di Revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del Comune di Lecce, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, Parziale modifica dell’allegato alla D.G.M. n. 639 del 29 luglio 2010”; nonchè ove occorra della Determinazione del Direttore dell’Agenzia del Territorio del 29.11.2010 avente ad oggetto “Revisione del classamento dell’unità immobiliari urbane, site nel Comune di Lecce, ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 335” e dell’Avviso n. (OMISSIS) di accertamento catastale per revisione del classamento e della rendita notificato in data 21.12.2012; nonchè di tutti gli atti presupposti connessi o consequenziali, ancorchè non conosciuti, nonchè, della nota prot.

56995/98 del 18.06.1999 del Comune di Lecce contenente la proposta di suddivisione del territorio del Comune di Lecce in microzone catastali ai sensi del D.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, art. 2; della nota del Ministero delle Finanze – Dipartimento del Territorio – UTE – prot. 11773 del 24.06.1999 con cui si esprime parere favorevole alla delimitazione delle microzone da parte del Comune di Lecce;

della nota del Ministero delle Finanze – Dipartimento del Territorio – UTE – prot. 11909 del 25.06.1999 con cui si trasmettono gli atti relativi alla microzonizzazione del Comune di Lecce, in surroga dell’Amministrazione Comunale; della delibera della Giunta Comunale di Lecce n. 639 del 29.07.2012 avente ad oggetto “Richiesta di Revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del Comune di Lecce, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335”; della nota 24.09.2010 dell’Agenzia del Territorio di Lecce con cui si attesta la sussistenza dei presupposti per la revisione di detto classamento; della delibera della Giunta Comunale di Lecce n. 746 dell’11.10.2012 avente ad oggetto “Richiesta di Revisione del classamento delle unità immobiliari ricadenti nelle microzone 1 e 2 del Comune di Lecce, ai sensi della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, – Parziale modifica dell’allegato alla D.G.M. n. 639 del 29 luglio 2010”; della nota 13.10.2010 dell’Agenzia del Territorio di Lecce con cui si attesta la sussistenza dei presupposti per la revisione di detto classamento; della Relazione illustrativa del 19.11.2012 redatta dall’Agenzia del Territorio di Lecce e dell’Avviso di n. (OMISSIS) di accertamento catastale per revisione del classamento e della rendita notificato in data 21.12.2012; nonchè di tutti gli atti presupposti connessi o consequenziali, ancorchè non conosciuti.

2. In sintesi, dinanzi al giudice amministrativo sono stati impugnati da parte di un contribuente e da associazioni di categoria gli atti di suddivisione del territorio del Comune di Lecce in microzone catastali ai sensi del D.P.R. n. 138 del 1998, art. 2, l’atto con il quale la Giunta Comunale di Lecce ha attivato la procedura L. n. 311 del 2004, ex art. 1 e la conclusione della stessa, per una serie motivi fatti valere con il ricorso introduttivo e con memoria aggiunta:

a) illegittimità costituzionale della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, in relazione agli artt. 3 e 53 Cost.;

b) violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 138 del 1998, art. 2 – Eccesso di potere per sviamento – violazione del principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – eccesso di potere per erroneità dei presupposti;

c) violazione e falsa applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335, anche in combinato disposto con la determinazione dell’Agenzia del territorio del 16.2.2005 – violazione dell’articolo 7 dello Statuto del contribuente anche in combinato disposto con la L. n. 241 del 1990, art. 3 carenza di motivazione – motivazione apparente;

d) violazione e falsa applicazione del R.D.L. n. 662 del 1939, art. 9 e del D.P.R. n. 1142 del 1949, art. 61;

e) eccesso di potere per sviamento – illogicità manifesta – erroneità dei presupposti sotto altro profilo;

f) violazione della L. n. 241 del 1990, art. 7 e dell’art. 10 dello Statuto del contribuente: mancata comunicazione dell’avvio del procedimento di revisione catastale;

g) incompetenza della giunta comunale a formulare la richiesta di revisione del classamento.

h) carenza di istruttoria – eccesso di potere per erroneità dei presupposti – carenza di motivazione – violazione e/o falsa applicazione della L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 335;

i) illegittimità dell’individuazione delle microzone secondo altro profilo – eccesso di potere per erroneità dei presupposti;

j) violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 138 del 1998, art. 2 – eccesso di potere per sviamento – violazione del principio di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione – eccesso di potere per erroneità dei presupposti.

3. L’Avvocatura dello Stato ha resistito eccependo il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, nonchè l’irricevibilità e l’inammissibilità del ricorso sotto diversi profili. Il Comune di Lecce, invece, ha sostenuto la posizione dei ricorrenti nei confronti dell’amministrazione e ha contestato le censure mosse al Comune.

4. Il TAR ha accolto il ricorso (TAR-Puglia, sez. Lecce, 11 luglio 2013, n. 1621).

In particolare, in punto di giurisdizione, ha ritenuto che dal combinato disposto delle norme processuali tributarie si evince che gli atti regolamentari e gli atti amministrativi generali in materia fiscale possono essere disapplicati dalla C.t.p. e dalla C.t.r., ma non sono impugnabili davanti alle stesse. Ha condiviso, inoltre, il principio di diritto (Cons. Stato, sez. 5, 30 settembre 2004 n. 6353) secondo cui la giurisdizione tributaria è delimitata dall’impugnazione degli atti tipici previsti dall’art. 19 proc. trib.

(D.Lgs. n. 546 del 1992) e, in ogni caso, dal fatto che l’atto impugnato concerna aspetti di carattere esecutivo. Ha osservato che, viceversa, nell’esercizio di un potere discrezionale, per di più a carattere generale, trattandosi di atti a contenuto normativo destinati ad incidere su una pluralità indifferenziata di soggetti, nei confronti degli stessi non vi era giurisdizione del giudice tributario ma di quello amministrativo. Pertanto, al di fuori dell’area delle controversie riservate alla giurisdizione del giudice tributario, erano impugnabili davanti al giudice amministrativo i regolamenti governativi, ministeriali o di enti locali che istituiscono o disciplinano tributi di qualsiasi genere, in quanto concernenti interessi legittimi (Cons. Stato, sez. 4, 15 febbraio 2001, n. 735; Cons. Stato, sez. 4, 15 febbraio 2001, n. 732). Ha aggiunto che la giurisdizione del giudice tributario deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura fiscale del rapporto, con la conseguenza che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi tale natura comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali posto dall’art. 102 Cost., comma 2, (Corte cost., sentenze n. 141 del 2009, n. 130 e n. 64 del 2008). Inoltre, l’art. 7 dello Statuto del contribuente secondo cui la natura tributaria dell’atto non preclude il ricorso agli organi di giustizia amministrativa, quando ne ricorrano i presupposti, comporta, salvo espresse previsioni di legge, una naturale competenza del giudice amministrativo sull’impugnazione di atti amministrativi a contenuto generale o normativa, come i regolamenti e le delibere tariffarie, atti (aventi natura provvedimentale) che costituiscano un presupposto dell’esercizio della potestà impositiva e in relazione ai quali esiste un generale potere di disapplicazione del giudice cui è attribuita la giurisdizione sul rapporto tributario (Cass. 13 luglio 2005, n. 14692). Ha concluso affermando che, nella specie, la questione controversa non attiene all’atto finale impositivo, bensì ai presupposti atti amministrativi, di carattere generale, riguardanti il procedimento di revisione del classamento degli immobili e l’intera attività di microzonizzazione del territorio leccese, nei confronti dei quali le posizioni dei contribuenti erano d’interesse legittimo.

5. Per la riforma di tale decisione ha proposto appello l’Avvocatura dello Stato invocando, tra l’altro, il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo.

Il Consiglio di Stato ha accolto tale tesi ritenendo la vertenza devoluta al giudice tributario (Cons. Stato, sez. 4, 16 aprile 2014, n. 1903).

Il giudice d’appello ha rilevato che l’ U. aveva impugnato gli atti amministrativi sopra indicati solo dopo la notificazione dell’avviso di accertamento catastale per revisione e classamento della rendita e quindi dinanzi a un giudice non più fornito di giurisdizione a norma della L. n. 342 del 2000, art. 74. Ha ritenuto, infatti, che tale norma realizzerebbe due diversi effetti: (a) quello di rendere efficace, lesivo e impugnabile il provvedimento e (b) quello di attribuire la giurisdizione sull’atto in via principale, e non più incidentale, al giudice tributario, togliendola al giudice amministrativo essendo consentito d’impugnare immediatamente, visto l’obbligo di rispettare il termine decadenziale, il provvedimento lesivo, proponendo il ricorso di cui all’art. 2, comma 3, proc. trib., ossia facendo riferimento alla disposizione che consente al giudice tributario di risolvere “in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio”. Il che significherebbe, per il Consiglio di Stato, che il ricorso di cui all’art. 2, comma 3, proc. trib., proposto a norma dell’art. 74 cit., non sarebbe più di mera pregiudizialità, ma aggredirebbe direttamente l’atto presupposto, ossia quello generale di pianificazione in tema di attribuzione o modificazione delle rendite catastali per terreni e fabbricati, senza attendere la mediazione dell’atto impositivo, atteso che non risulta compatibile con il breve termine decadenziale.

6. U.R., Codacons, Adusbef Puglia, Adoc Provinciale di Lecce propongono ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 1 e art. 110 cod. proc. amm. chiedendo che sia affermata la giurisdizione del giudice amministrativo. Osservano che l’art. 2, comma 3, proc. trib. consente una delibazione meramente incidentale da parte del giudice tributario di atti amministrativi generali, ovverosia di atti costituenti presupposto dell’atto impositivo, per risolvere la vertenza sottoposta alla sua attenzione e relativa al singolo rapporto impositivo tra Stato e contribuente, senza alcuna possibilità di allargamento del potere del giudice tributario di annullamento di atti generali e cogenti, con conseguente violazione del divieto costituzionale di creazione di giudici speciali.

7. L’Agenzia delle entrate e il Ministero dell’economia e delle finanze resistono con controricorso. L’intimato Comune di Lecce si difende aderendo alle tesi dei ricorrenti. I ricorrenti e l’ente locale si difendono anche con memorie.

Motivi della decisione
1. I ricorrenti, nella memoria difensiva, eccepiscono preliminarmente la nullità del controricorso erariale per vizi formali della sua notificazione effettuata con PEC, in ragione della asserita violazione delle regole dettate dalla L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 4) – 5), e dall’art. 19-bis del provvedimento ministeriale del 16 aprile 2014.

L’eccezione non è fondata. Opera, infatti, nella fattispecle l’insegnamento, condiviso e consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “il principio, sancito in via generale dall’art. 156 c.p.c., secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato, vale anche per le notificazioni, anche in relazione alle quali – pertanto la nullità non può essere dichiarata tutte le volte che l’atto, malgrado l’irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario” (Cass., sez. lav., n. 13857 del 2014; conf., sez. trib., n. 1184 del 2001 e n. 1548 del 2002). Il risultato dell’effettiva conoscenza dell’atto che consegue alla consegna telematica dello stesso nel luogo virtuale, ovverosia l’indirizzo di PEC espressamente a tale fine indicato dalla parte nell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, determina infatti il raggiungimento dello stesso scopo perseguito dalla previsione legale del ricorso alla PEC. Nella specie i ricorrenti non adducono nè alcuno specifico pregiudizio al loro diritto di difesa, nè l’eventuale difformità tra il testo recapitato telematicamente, sia pure con estensione.doc in luogo del formato.pdf, e quello cartaceo depositato in cancelleria. La denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme di rito non tutela l’interesse all’astratta regolarità del processo, ma garantisce solo l’eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione (Cass., sez. trib., n. 26831 del 2014).

Ne consegue che è inammissibile l’eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisione finale della Corte.

2. L’intimato Comune di Lecce, nella memoria difensiva, si sofferma sulla propria nel giudizio di legittimità. Sul punto non possono esserci dubbi sul fatto che la sua costituzione, pur effettuata mediante “atto d’intervento ad adiuvandum”, altro non sia che un controricorso in adesione alle tesi dei ricorrenti. Infatti, quando il litisconsorte processuale si limita ad aderire alla richiesta della parte ricorrente senza formulare una propria diversa domanda di annullamento totale o parziale della decisione, si è in presenza di una costituzione in giudizio processualmente valida, anche se subordinata alla sorte dell’impugnazione diretta. Nè al riguardo è necessaria la proposizione di un ricorso incidentale, atteso che la facoltà di contraddire da parte di chi abbia ricevuto la notifica del ricorso non implica necessariamente l’assunzione di una posizione antitetica a quella del ricorrente, ma comprende anche l’ipotesi di adesione, parziale o totale, alle relative richieste in sintonia con il principio dell’art. 24 Cost. che garantisce l’esercizio della facoltà di difesa in ogni stato e grado del giudizio. Altrimenti, si negherebbe alla parte portatrice di un interesse convergente o analogo a quello dell’impugnante, che non abbia a sua volta ritenuto di proporre una propria impugnazione, di costituirsi nel giudizio di legittimità e rendere note le proprie posizioni: esigenza, questa, cui è finalizzato il combinato disposto di cui agli artt. 331 e 370 cod. proc. civ. (Cass., sez. 2, n. 7564 del 2006).

3. Il ricorso è fondato.

Il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel definire all’art. 2 l’oggetto della giurisdizione tributaria, prima elencava al comma 1 i tributi di riferimento, poi al comma 2 stabiliva che “Sono inoltre soggette alla giurisdizione tributaria le controversie concernenti le sovraimposte e le imposte addizionali nonchè le sanzioni amministrative, gli interessi ed altri accessori nelle materie di cui al comma 1”, infine al comma 3 prevedeva che “Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”.

Il successivo L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, comma 37, si limitava a modificare il solo comma 1, mentre la L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 3, comma 37, sostituiva l’intero testo dell’articolo 2, che al comma 1 ridisegnava l’oggetto generale della giurisdizione tributaria, inserendo anche “le controversie aventi ad oggetto… le sovrimposte addizionali, le sanzioni amministrative,…, gli interessi e ogni altro accessorio”, con disposizione analoga a quella del vecchio testo del comma 2; riscriveva, inoltre, il comma 2 con la previsione che “Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella, nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”, con disposizione analoga al vecchio testo del comma 3; riscriveva, infine, il comma 3 nel senso che “Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio”.

I commi 1 e 2 erano modificati dall’art. 3-bis, comma 1, lett. a) – b), D.L. 30 settembre 2005, n. 203, lasciando inalterate le parti che qui vengono in riguardo. Lo stesso dicasi per il D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. a), n. 2), (a decorrere dal 1 gennaio 2016).

4. Sul comma 1 è intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza 5 maggio 2008, n. 130, ne ha dichiarato l’illegittimità, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria.

Sul comma 2 è ancora intervenuta la Corte costituzionale che, con sentenza 10 marzo 2008, n. 64, ne ha dichiarato l’illegittimità riguardo al secondo periodo, nella parte in cui stabilisce che appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche e, con sentenza 8 febbraio 2010, n. 39, ha dichiarato l’illegittimità del comma 2, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione del giudice tributario le controversie relative alla debenza del canone per lo scarico e la depurazione delle acque reflue.

3. Il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, nel definire all’art. 7 i poteri dei giudici tributari, al comma 5 stabiliva e stabilisce tuttora che “Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente”.

Il medesimo decreto legislativo, nel definire all’art. 19 gli atti impugnabili, stabiliva tra l’altro che “Il ricorso può essere proposto avverso:… f) gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2, comma 3” che all’epoca prevedeva che “Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”.

Il testo dell’art. 19, lett. f) non è stato aggiornato per molti anni nonostante il sopravvenuto L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 3, comma 37, che portava al comma 2 dell’art. 2 l’originaria previsione del comma 3 e riscriveva quest’ultimo nel senso che “Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio”.

Solo di recente la lett. f) dell’art. 19 è stata adeguata dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 12, comma 3, lett. a), nel senso che “Il ricorso può essere proposto avverso:…f) gli atti relativi alle operazioni catastali indicate nell’art. 2, comma 2”.

5. La L. 21 novembre 2000, n. 342, nel regolare all’art. 74 l’attribuzione e la modificazione delle rendite catastali, stabilisce che “Dall’avvenuta notificazione decorre il termine per proporre il ricorso di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 3, e successive modificazioni”.

All’epoca dell’entrata In vigore della suddetta disposizione il richiamato comma 3 dell’art. 2 proc. trib. prevedeva che “Appartengono altresì alla giurisdizione tributaria le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”.

Il testo dell’art. 74 non è stato mai aggiornato nonostante la L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 3, comma 37, che portava al comma 2 dell’art. 2 l’originaria previsione del comma 3 e riscriveva quest’ultimo nel senso che “Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio”.

6. Il senso del perdurante rinvio “al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 3, e successive modificazioni” non è quello di richiamare nella L. 21 novembre 2000, n. 342, all’art. 74, qualsivoglia testo del ridetto del comma 3, anche il più eterogeneo, ma quello di rinviare a tutte modificazioni del processo tributario riguardanti “le controversie promosse dai singoli possessori concernenti l’intestazione, la delimitazione, la figura, l’estensione, il classamento dei terreni e la ripartizione dell’estimo fra i compossessori a titolo di promiscuità di una stessa particella nonchè le controversie concernenti la consistenza, il classamento delle singole unità immobiliari urbane e l’attribuzione della rendita catastale”.

Trattasi di materia che – dopo la L. 28 dicembre 2001, n. 448 è stata portata dal comma 3 al comma 2, così come ha chiarito anche l’intervento sull’art. 19, lett. f) fatto dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16.

Dunque, laddove la L. 21 novembre 2000, n. 342, all’art. 74 stabilisce che “Dall’avvenuta notificazione decorre il termine per proporre il ricorso di cui all’art. 2, comma 3, D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e successive modificazioni”, si deve leggere ed intendere “comma 2” per effetto indotto dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 3, comma 37, così raccordandosi anche con l’intervento sul D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, lett. f) fatto dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16.

7. Del resto il nuovo testo del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 2, comma 3, appare del tutto eccentrico laddove afferma che “Il giudice tributario risolve in via incidentale ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella propria giurisdizione, fatta eccezione per le questioni in materia di querela di falso e sullo stato o la capacità delle persone, diversa dalla capacità di stare in giudizio” con disposizione che si correla all’art. 7 laddove al comma 5 stabilisce che “Le commissioni tributarie, se ritengono illegittimo un regolamento o un atto generale rilevante ai fini della decisione, non lo applicano, in relazione all’oggetto dedotto in giudizio, salva l’eventuale impugnazione nella diversa sede competente”.

Dunque, quello che si viene qui a delineare è un sistema coerente che collega l’attribuzione e la modificazione delle rendite catastali (art. 74 cit.) alla specifica norma processuale tributaria di riferimento (art. 2, nuovo comma 2, cit.) e la disapplicazione di un regolamento o un atto generale (art. 7, comma 5, cit.) con la generale cognizione incidentale del giudice tributario (art. 2, nuovo comma 3, cit.), in piena coerenza logica e giuridica.

Ne emerge chiara la distinzione tra le cd. operazioni catastali individuali – devolute alle commissioni tributarie dagli art. 2, comma 2 (già 3), e art. 19, lett. f), proc. trib. – e gli atti generali di qualificazione, classificazione etc. – devoluti al giudice amministrativo in sede d’impugnazione diretta e al giudice tributario solo in via di mera disapplicazione.

8. Nessuna disposizione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 attribuisce alle commissioni tributarie un potere direttamente incisivo degli atti generali in deroga alla tipica giurisdizione di legittimità costituzionalmente riservata agli organi della giustizia amministrativa. Non vi è spazio – sia nel vecchio contenzioso fiscale di cui al D.P.R. n. 636 del 1972 sia nel processo tributario di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992 – per l’impugnazione di atti che possono coinvolgere un numero indeterminato di soggetti con pronuncia avente efficacia nei confronti della generalità dei contribuenti (Cass., sez. un., n. 3030 del 2002), atteso che l’azione del contribuente dinanzi alla commissioni tributarie viene ad essere esercitata – ai sensi dell’art. 19 del menzionato D.Lgs. – mediante l’impugnazione di specifici atti impositivi o di riscossione o di determinati atti di rifiuto (Cass., sez. un., 13793 del 2004).

Sicchè, senza la “mediazione” rappresentata dall’impugnativa dell’atto impositivo, di riscossione o di diniego, il giudice tributario non può giudicare della legittimità degli atti amministrativi generali, dei quali può conoscere solo incidenter tantum e unicamente ai fini della disapplicazione nella singola fattispecie dell’atto amministrativo presupposto dell’atto impugnato (Cass., sez. un., n. 6224 del 2006).

La controversia sugli atti amministrativi generali esula pertanto dalla giurisdizione delle commissioni tributarie, il cui potere di annullamento riguarda soltanto gli atti indicati dall’art. 19 del precitato D.Lgs. o a questi assimilabili, e non si estende agli atti amministrativi generali, dei quali l’art. 7 dello stesso D.Lgs. consente soltanto la disapplicazione, ferma restando l’impugnabilità degli stessi dinanzi al giudice amministrativo.

9. Nè è sostenibile che, per quanto riguarda gli atti generali di formazione, aggiornamento e adeguamento del catasto la L. 21 novembre 2000, n. 342, art. 74 voglia derogare al normale riparto della giurisdizione tra giudice tributario e amministrativo. Una volontà di tale genere non ha certamente espresso tale disposizione laddove, per un verso, richiama l’art. 2, comma 3 (ora 2), del ridetto D.Lgs., atteso che la disposizione richiamata resta nell’ambito dell’ordinaria impugnazione degli esiti fiscalmente rilevanti delle cd. operazioni catastali individuali; per un altro, il nuovo testo del comma 3, regola la risoluzione in via incidentale di ogni questione da cui dipende la decisione delle controversie rientranti nella giurisdizione delle commissioni tributarie, da cui non è ricavabile una giurisdizione tributaria di legittimità sugli atti amministrativi generali con pronuncia avente efficacia nei confronti della generalità dei contribuenti pur se territorialmente stabiliti.

Dunque, sul piano della giurisdizione, il fatto che al contribuente U. fosse stato già notificato un atto individuale impugnabile autonomamente in forza della L. 21 novembre 2000, n. 342 (art. 74) e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (artt. 2 e 19) non implica che si fosse di per sè stessa consumata, riguardo agli atti dell’amministrazione sulle cd. microzone del territorio comunale di Lecce, quella giurisdizione generale di legittimità che è costituzionalmente e unicamente riservata agli organi della giustizia amministrativa.

10. Ogni questione sull’interesse ad agire dell’ U., di cui pare dubitare la difesa erariale, resta al di fuori dalla delibazione sulla giurisdizione, che è legata invece al petitum sostanziale fatto valere in giudizio e alle regole del processo sulla devoluzione ai vari comparti giurisdizionali. Peraltro, ogni dubbio sul legittimo innesco del giudizio dinanzi al giudice amministrativo è ancor più infondato ove si ponga mente al ruolo rivestito dai soggetti co- ricorrenti, e cioè le articolazioni locali di organizzazioni di tutela radicate sul piano nazionale, cioè Adusbef, Aduc e Codacons. Infatti, ampia giurisprudenza civile, penale e amministrativa ha accertato che il Codacons, per statuto, promuove azioni giudiziarie a tutela degli interessi degli utenti, dei consumatori, dei risparmiatori e dei contribuenti (ex multis Cons. Stato, sez. 3, n. 5043 del 2015, 2.3); analogamente l’Aduc e l’Adusbef operano nell’ambito della difesa dei diritti dei cittadini in quanto utenti e consumatori. Trattandosi di soggetti esponenziali d’interessi diffusi (v. decreto legislativo 6 settembre 2005, n. 206), le suddette associazioni mai potrebbero attivare un ricorso dinanzi alla giustizia tributaria, non essendo destinatari di alcun provvedimento rilevante ai fini dell’impugnazione ex L. 21 novembre 2000, n. 342 (art. 74) ed ex D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (artt. 2 e 19). Le suddette, invece, agiscono quali associazioni a tutela d’interessi collettivi e, dunque, la loro domanda di annullamento erga omnes degli atti della P.A. relativi alle microzone del territorio comunale di Lecce non potrebbe che essere diretta al giudice amministrativo, invocandosi proprio quella giurisdizione generale di legittimità che è costituzionalmente riservata al monopolio del comparto costituito dal Tribunale amministrativo regionale e dal Consiglio di Stato.

11. Orbene, quando si procede all’attribuzione di ufficio di un nuovo classamento ad un’unità immobiliare a destinazione ordinaria, l’Agenzia competente deve specificare se il mutamento è dovuto a una risistemazione dei parametri relativi alla microzona in cui si colloca l’unità immobiliare e, nel caso, indicare l’atto con cui si è provveduto alla revisione dei parametri relativi alla microzona, a seguito di significativi e concreti miglioramenti del contesto urbano (ex multis Cass., sez. trib., n. 9629 del 2012), trattandosi di uno dei possibili presupposti del riclassamento (ex multis Cass., sez. trib., n. 11370 del 2012).

In particolare quando si tratta di un mutamento di rendita inquadrabile nella revisione del classamento delle unità immobiliari private site in microzone comunali ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 335, la ragione giustificativa non è la mera evoluzione del mercato immobiliare, nè la mera richiesta del Comune, bensì l’accertamento di una modifica nel valore degli immobili presenti nella microzona, attraverso le procedure previste dal successivo comma 339 ed elaborate con la determinazione direttoriale del 16 febbraio 2005 (G.U. n. 40 del 18 febbraio 2005) cui sono allegate linee guida definite con il concorso delle autonomie locali.

Nello specifico, l’intervento è possibile nelle microzone “perle quali il rapporto tra il valore medio di mercato… e il corrispondente valore medio catastale si discosta significativamente dall’analogo rapporto relativo all’insieme delle microzone comunali” (comma 335). Per il D.P.R. 23 marzo 1998, n. 138, art. 2, comma 1, la microzona è una porzione del territorio comunale, spesso coincidente con l’intero Comune, che presenta omogeneità nei caratteri di posizione, urbanistici, storico-ambientali, socioeconomici, nonchè nella dotazione dei servizi e infrastrutture urbane; in ciascuna microzona le unità immobiliari sono uniformi per caratteristiche tipologiche, epoca di costruzione e destinazione prevalenti.

Questo insieme di disposizioni ribadisce e presuppone che il singolo classamento debba avvenire mediante l’utilizzo e la modifica del reticolo di microzone, avente portata generale in ambito comunale. Si tratta di atti amministrativi, non dissimili da altri di valenza urbanistica e di natura pianificatoria o programmatoria per la P.A., essendo volti a risolvere specifici problemi tecnico-estimativi posti in astratto dall’ordinamento fiscale e destinati ad operare nei confronti di una generalità indeterminata di destinatari, individuabili solo ex post.

12. Sul piano processuale, dalla natura generale, unitaria e inscindibile del contenuto e degli effetti degli atti amministrativi generali discende sia la mancanza di esigenza di notifica ad almeno uno dei destinatari (non individuabili a priori), sia che il loro annullamento in sede giudiziale determina il venire meno degli effetti nei confronti di tutti i destinatari, compresi quelli rimasti estranei alla controversia (ex multis Cons. Stato, sez. 6, n. 6153 del 2014). La giurisprudenza amministrativa ha più volte posto in rilievo sia che il dovere generale di riconoscere la rimozione per annullamento di un atto generale o presupposto, con conseguente ripristino ex tunc della situazione giuridica preesistente, prescinde dall’estensione del giudicato ai soggetti che non hanno assunto la qualità di parti nel giudizio (es. Cons. Stato, sez. 5, n. 1068 del 2005), sia che il giudicato di annullamento di atti generali o indivisibili si estende a tutti i soggetti interessati, pur non aventi qualità di parte (es. Cons. Stato, sez. 6, n. 211 del 1981 e n. 224 del 1998).

E’, inoltre, principio consolidato quello secondo cui in tema di prestazioni patrimoniali imposte aventi natura tributaria, ai fini del riparto della giurisdizione occorre distinguere tra l’impugnativa di atti generali (o a contenuto normativo), che fissano i criteri per la determinazione delle prestazioni pecuniarie, e l’impugnazione di concreti provvedimenti con i quali l’amministrazione determina l’ammontare della prestazione e/o ne impone l’esecuzione, atteso che nel primo caso gli atti costituiscono espressione di potestà discrezionale e incidono su posizioni di interesse legittimo tutelabili dinanzi al giudice amministrativo (ex multis Cons. Stato, sez. 6, n. 6353 del 2004), laddove s’impugnino le operazioni dell’amministrazione per denunciarne i vizi tipici previsti dalla L. n. 1034 del 1971, artt. 2 e segg. (Cass., sez. un., n. 675 del 2010) e ora dall’art. 7 del codice del processo amministrativo.

Di contro si è ripetutamente affermato che la giurisdizione tributaria ha per oggetto sia l’an che il quantum della pretesa tributaria e comprende anche l’individuazione del soggetto tenuto al versamento dell’imposta o dei limiti nei quali esso, per la sua qualità, sia obbligato, ma non ricorre allorquando non è in discussione l’obbligazione tributaria e neppure il potere impositivo sussumibile nello schema potestà-soggezione, proprio del rapporto tributario; non tutte le controversie nelle quali abbia incidenza una norma fiscale si trasformano in controversie tributarie devolute alle relative commissioni (Cass., sez. un., n. 7256 del 2013).

Nè rileva la tendenza all’allargamento della giurisdizione tributaria che, iniziato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448, è proseguito con leggi successive e con l’evolversi della giurisprudenza di legittimità. Vale, Infatti, il richiamo della Corte costituzionale ai limiti intrinseci a tale giurisdizione non ampliabili ad libitum (sent. n. 64 e n.130 del 2008, n.39 del 2010).

Mentre è stata riconosciuta sì la facoltà di ricorrere al giudice tributario avverso tutti gli atti adottati dal fisco, ma solo a condizione che si prospetti una ben individuata pretesa e/o uno specifico pregiudizio rilevante per il contribuente (Cass., sez. trib., n. 17010 del 2012, in tema d’interpello) o collegato all’interesse fiscale diretto e immediato di un ente territoriale (Cass., sez. un., n. 15201 del 2015).

13. In conclusione, la circostanza che il 21 dicembre 2012 sia stato notificato all’ U. l’avviso di accertamento catastale per revisione del classamento e della rendita non può incidere sulla perdurante giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo a conoscere dell’impugnazione diversamente diretta all’annullamento degli atti amministrativi generali (che hanno accertato la modifica del valore degli immobili presenti nelle microzone comunali, attraverso le procedure previste dai ridetti commi 335-339 e dalla menzionata determinazione direttoriale del 16 febbraio 2005) e proposta anche da associazioni di categoria dei consumatori e degli utenti per l’interesse collettivo a contestare l’introduzione di un aggravio aggiuntivo alle necessità del vivere e correlato a diritti fondamentali tutelati e riconosciuti dall’ordinamento (cfr. art. 2, comma 2, cod. cons.) in favore dei consumatori e degli utenti medesimi, fra i quali assoluta preminenza è da riconoscersi ai diritti economici relativi alle necessità del vivere, quali la casa.

Dunque resta fuori dal perimetro della giurisdizione amministrativa solo il segmento del ricorso introduttivo riguardante la contestuale impugnazione dell’avviso di accertamento catastale per revisione del classamento e della rendita che è devoluta alle commissioni tributarie quale cognizione riguardo alla mera operazione catastale individuale.

Sul punto si rammenta che il principio di autonomia delle singole giurisdizioni in materia di verifica della validità degli atti amministrativi non esclude che il giudice tributario, dinanzi al quale sia stata prospettata l’illegittimità di un atto costituente presupposto di quello impositivo, possa disporre la sospensione del processo, nel caso in cui la medesima questione formi oggetto di uno specifico giudizio pendente dinanzi al giudice amministrativo (Cass., sez. trib., n. 16937 e n. 18992 del 2007; v. Cass., sez. un., n. 6265 del 2006). Qualora poi, indipendentemente dalla sospensione, sia intervenuta al riguardo una pronuncia del giudice amministrativo, la stessa, soprattutto se passata in giudicato, non può non svolgere effetto vincolante nel processo tributario, non ostandovi il dovere- potere del giudice tributario, non fornito di giurisdizione in via principale, di verificare in via incidentale la validità degli atti presupposti e di procedere alla loro disapplicazione (ult. cit.), fermo restando che il giudicato di annullamento di atti generali comporta il ripristino ex tunc della situazione giuridica preesistente e si estende a tutti i soggetti interessati (conf. sopra 12).

14. Pertanto, accolto il ricorso nei sensi sopra indicati e cassata l’impugnata sentenza nei limiti ivi precisati, deve essere dichiarata la giurisdizione del giudice amministrativo sul ricorso introduttivo, ad eccezione dell’impugnazione dell’avviso di accertamento notificato all’ U. il 21 dicembre 2012; consequenzialmente le parti devono essere rimesse dinanzi al Consiglio di Stato per la riassunzione del giudizio nei termini di legge.

La novità della questione di giurisdizione e il complesso evolversi della legislazione in materia costituiscono giustificati motivi per compensare le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie parzialmente il ricorso, cassa in relazione la sentenza impugnata, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo nei sensi indicati in motivazione, rimette le parti dinanzi al Consiglio di Stato per la riassunzione del giudizio nei termini di legge, compensa le spese del presente giudizio.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2016.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2016


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Questa guida, per lo stile sobrio e snello che la caratterizza, non può essere esaustiva della complessa ed articolata attività notificatoria ma deve essere considerata un utile strumento di rapida consultazione (anche “su strada”) che aiuti l’Agente Notificatore all’espletamento del delicato servizio cui è preposto proponendo soluzioni che gli permettano di affrontare con serenità e consapevolezza i più frequenti casi di notificazione oggetto di contenzioso sui quali la giurisprudenza non sempre si esprime in senso univoco.

Lo scopo, pertanto, è quello di fornire degli strumenti di lavoro strettamente collegati alla normativa vigente che possano permettere all’Agente Notificatore di adattare al meglio la stessa, in modo semplice, ai casi concreti.

Nell’era informatica cresce la tendenza a ritenere il contributo di una guida cartacea superfluo dato che “basta un click” sul computer o sul palmare per ottenere informazioni.

Una guida come questa è, invece, ciò che può veramente fare la differenza, trasformando un’insipida informazione basata su un concentrato di descrizioni sommarie in un’esposizione consequenziale, coerente e ragionata ma allo stesso tempo stimolante ed accattivante.

La guida, inoltre, parte dall’assunto che le soluzioni operative proposte devono essere quelle che più garantiscono sì la conoscibilità sostanziale dell’atto da parte del destinatario ma soprattutto che mettano il Messo Comunale in una posizione tale per cui non gli possano essere imputate negligenze che produrrebbero responsabilità a suo carico di vario tipo: disciplinari, civili, penali e patrimoniali dell’Ente … ma anche personali.

Il quotidiano feedback da parte degli agenti notificatori ha dato impulso a questa guida aggiornata e maggiormente rispondente alle esigenze degli stessi in un contesto sempre più resosi difficile in una società sempre più informata.

  Gli Autori

 Contenuti mirati di immediato apprendimento – solo ciò che è essenziale per evitare errori e dimenticanze – con il supporto inoltre di modelli di relate di notifiche ed avvisi, facilmente consultabili nel dettaglio della seguente trattazione:

1. La notificazione

2. I soggetti notificatori

3. Competenze del messo comunale

4. Il procedimento ordinario

5. Notifica a mezzo del servizio postale

6. Notifica telematica

7. Notifica a persone incapaci

8. I vizi della notifica

9. Comunicazione di decreto relativo al trattamento di quiescenza di dipendenti civili e militari dello Stato

10. Avvisi di addebito Inps

11. Il procedimento tributario

12. Le notificazioni dei tributi locali

13. Codice della strada

14. Atti elettorali: modalità di consegna

15. Modulistica della notifica

16. Casa comunale

17. Albo pretorio

18. Albo pretorio on line

Documentazione

AUTORI:

C. Asirelli, Coordinatore Ufficio Notifiche del Comune di Cesena (FC). Membro Giunta esecutiva di A.N.N.A.

L. Fontana, Responsabile dell’Ufficio Notifiche dell’Unione dei Comuni delle Terre Verticali (SP).Comandante di Polizia Municipale. Membro Giunta esecutiva di A.N.N.A.

P. Tacchini, Responsabile Ufficio Addetti alle Notifiche del Comune di Padova. Presidente di A.N.N.A.

Modulo prenotazione del Volume


Giornata di Studio in house Ospedaletto Euganeo (PD) – 03.05.2016

LocandinaLA NOTIFICA ON LINE

Martedì 3 maggio 2016

Giornata di Studio in house

Comune di Ospedaletto Euganeo (PD)

Municipio
Piazza S. Pertini 8
Orario: 9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00

in collaborazione con il Comune di Ospedaletto Euganeo (PD)

 Docente:

Asirelli Corrado 6Asirelli Corrado

Resp. Messi Comunali del Comune di Cesena (FC)

Membro della Giunta Esecutiva  di A.N.N.A.

Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Programma:

Il Messo Comunale

· Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

· Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi
  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010
  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

  • Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)
  • La PEC
  • La firma digitale
  • La notificazione a mezzo posta elettronica
  • “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)
  • Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)
  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

  • · La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy

· Il diritto “all’oblio”

Risposte a quesiti

 Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007  (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)

Vedi: Attività di formazione anno 2016

Scarica: Autocertificazioni Fiscali 2016
  1. Dichiarazione DURC
  2. Dichiarazione sulla tracciabilità dei pagamenti, L. 136/2010
  3. Documento d’Identità personale del Legale Rappresentante di A.N.N.A.
  4. Dichiarazione sostitutiva del certificato generale del casellario giudiziale e dei carichi pendenti
  5. Dichiarazione relativa alla fase di liquidazione delle fatture di competenza

A chi diamo fastidio?

Nuovo attacco hacker perpetrato nella notte con l’intento, forse, di trattenere in “ostaggio” il nostro sito web per ottenerne poi un “riscatto”. Infatti sono stati inibiti gli accessi. Prontamente, però, il sito web è stato ripristinato dalla società KDM spa di Roma che ha reso possibile in tempi rapidissimi l’utilizzo del sito web.

Diamo fastidio a qualcuno? o semplicemente è un attacco a fini di lucro? In ogni caso saranno adottate ulteriori misure di sicurezza in collaborazione con Aruba.

Ci scusiamo con gli utenti per l’eventuale disagio arrecato.