STRESS LAVORO-CORRELATO: lavorare con un superiore troppo controllante

Da quanto emerge da una ricerca dell’università australiana che è stata pubblicata su Plos One, a generare stress nei lavoratori e a farli ammalare non sarebbe tanto la quantità dei carichi di lavoro, ma il fatto di dover eseguire mansioni essendo sottoposti ad un eccessivo controllo da parte dei superiori. Ossia, dover portare avanti una gran quantità di compiti sui quali si è privati della possibilità di esercitare un controllo.

A conferma di ciò, un altro studio australiano capitanato dallo psichiatra Sam Harvey dell’Università del New South Wales – che si occupa di pazienti affetti da depressione – è stato condotto su circa 7000 soggetti di mezza età in stato di buona salute. La ricerca ha evidenziato che coloro che lavoravano in uffici caratterizzati da elevati livelli di stress usufruivano di almeno due settimane o più di congedo malattia all’anno per gestire sintomi come la mancanza di respiro, dolori al torace, nausea e insonnia. Un assenteismo che quindi avrebbe potuto essere facilmente evitato se il luogo di lavoro fosse stato meno stressante e più sano. Sarebbe riduttivo, ovviamente, concludere che chi lavora troppo rischia di ammalarsi o cadere in depressione.

Ma da quello che emerge da questi studi ci sarebbero prove significative per affermare che una combinazione di marcate pressioni dall’alto e di basso controllo sul proprio lavoro possa favorire lo sviluppo di una malattia cardiovascolare e di sintomi psichici legati all’ansia e alla depressione.

E’ dunque fondamentale, da parte del lavoratore, avere la sensazione di poter esercitare un controllo sul proprio lavoro, giorno per giorno. A un livello più ampio, risulta cruciale la sensazione di controllo che si può avere sull’organizzazione globale, sulla possibilità di evidenziare problemi e proporre possibili soluzioni. Come in ogni lavoro che si rispetti, è proprio la parte più creativa a risultare maggiormente gratificante e motivante rispetto a quella meramente esecutiva ed è per questo che risulta importante che ad ogni lavoratore venga consentito un relativo margine di gestione creativa del proprio operato, svincolata dal controllo esterno. Per il bene del lavoratore e dell’azienda stessa.


DM 21/02/2011, n. 44 – Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010, n. 24

DM 21/02/2011, n. 44

Epigrafe

Premessa

CAPO I

Principi generali

Art. 1 Ambito di applicazione

Art. 2 Definizioni

CAPO II

Sistemi informatici del dominio giustizia

Art. 3 Funzionamento dei sistemi del dominio giustizia

Art. 4 Gestore della posta elettronica certificata del Ministero della giustizia

Art. 5 Gestore dei servizi telematici

Art. 6 Portale dei servizi telematici

Art. 7 Registro generale degli indirizzi elettronici

Art. 8 Sistemi informatici per i soggetti abilitati interni

Art. 9 Sistema informatico di gestione del fascicolo informatico

Art. 10 Infrastruttura di comunicazione

CAPO III

Trasmissione di atti e documenti informatici

Art. 11 Formato dell’atto del processo in forma di documento informatico

Art. 12 Formato dei documenti informatici allegati

Art. 13 Trasmissione dei documenti da parte dei soggetti abilitati esterni e degli utenti privati

Art. 14 Documenti probatori e allegati non informatici

Art. 15 Deposito dell’atto del processo da parte dei soggetti abilitati interni

Art. 16 Comunicazioni per via telematica

Art. 17 Notificazioni per via telematica

Art. 18 Notificazioni per via telematica eseguite dagli avvocati

Art. 19 Disposizioni particolari per la fase delle indagini preliminari

Art. 20 Requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato esterno

Art. 21 Richiesta delle copie di atti e documenti

CAPO IV

Consultazione delle informazioni del dominio giustizia

Art. 22 Servizi di consultazione

Art. 23 Punto di accesso

Art. 24 Elenco pubblico dei punti di accesso

Art. 25 Iscrizione nell’elenco pubblico dei punti di accesso

Art. 26 Requisiti di sicurezza

Art. 27 Visibilità delle informazioni

Art. 28 Registrazione dei soggetti abilitati esterni e degli utenti privati

Art. 29 Orario di disponibilità dei servizi di consultazione

CAPO V

Pagamenti telematici

Art. 30 Pagamenti

Art. 31 Diritto di copia

Art. 32 Registrazione, trascrizione e voltura degli atti

Art. 33 Pagamento dei diritti di notifica

CAPO VI

Disposizioni finali e transitorie

Art. 34 Specifiche tecniche

Art. 35 Disposizioni finali e transitorie

Art. 36 Adeguamento delle regole tecnico-operative

Art. 37 Efficacia


 DECRETO MINISTERIALE 21 febbraio 2011, n. 44(1).

Regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni, ai sensi dell’articolo 4, commi 1 e 2, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010, n. 24.(2)

(1)Pubblicato nella Gazz. Uff. 18 aprile 2011, n. 89.

(2)Emanato dal Ministero della giustizia.


IL MINISTRO DELLA GIUSTIZIA

di concerto con

IL MINISTRO PER LA PUBBLICA

AMMINISTRAZIONE E L’INNOVAZIONE

Visto l’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n. 400;

Visto l’articolo 4 del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, recante «Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario», convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 22 febbraio 2010 n. 24;

Visto il decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante “Codice dell’amministrazione digitale” e successive modificazioni;

Visto il decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, recante «Codice in materia di protezione dei dati personali» e successive modificazioni;

Visti gli articoli 16 e 16-bis del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, recante «Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale», convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2»;

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 2001, n. 123, recante «Regolamento recante disciplina sull’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile, nel processo amministrativo e nel processo dinanzi alle sezioni giurisdizionali della Corte dei conti»;

Visto il decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68, recante «Regolamento recante disposizioni per l’utilizzo della posta elettronica certificata, a norma dell’articolo 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3»;

Visto il decreto del Ministro della giustizia 17 luglio 2008, recante «Regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile»;

Visto il decreto ministeriale 27 aprile 2009, recante «Nuove regole procedurali relative alla tenuta dei registri informatizzati dell’amministrazione della giustizia»;

Visto il decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 maggio 2009, recante «Disposizioni in materia di rilascio e di uso della casella di posta elettronica certificata assegnata ai cittadini»;

Rilevata la necessità di adottare le regole tecniche previste dall’articolo 4, comma 1, del citato decreto, in sostituzione delle regole tecniche adottate con il decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 2001, n. 123 e con il decreto del Ministro della giustizia 17 luglio 2008;

Acquisito il parere espresso in data 15 luglio 2010 dal Garante per la protezione dei dati personali;

Acquisito il parere espresso in data 20 luglio 2010 da DigitPA;

Udito il parere del Consiglio di Stato, espresso dalla sezione consultiva per gli atti normativi nell’adunanza del 25 novembre 2010 e quello espresso nell’adunanza del 20 dicembre 2010;

Vista la comunicazione al Presidente del Consiglio dei Ministri in data 18 gennaio 2011;

Adotta

il seguente regolamento:


CAPO I

Principi generali

Art. 1 Ambito di applicazione

1. Il presente decreto stabilisce le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione ai sensi dell’articolo 4, comma 1, del decreto-legge 29 dicembre 2009, n. 193, convertito nella legge 22 febbraio 2010, n. 24, recante «Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario» ed in attuazione del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante «Codice dell’amministrazione digitale» e successive modificazioni.


Art. 2 Definizioni

1. Ai fini del presente decreto si intendono per:

a) dominio giustizia: l’insieme delle risorse hardware e software, mediante il quale il Ministero della giustizia tratta in via informatica e telematica qualsiasi tipo di attività, di dato, di servizio, di comunicazione e di procedura;

b) portale dei servizi telematici: struttura tecnologica-organizzativa che fornisce l’accesso ai servizi telematici resi disponibili dal dominio giustizia, secondo le regole tecnico-operative riportate nel presente decreto;

c) punto di accesso: struttura tecnologica-organizzativa che fornisce ai soggetti abilitati esterni al dominio giustizia i servizi di connessione al portale dei servizi telematici, secondo le regole tecnico-operative riportate nel presente decreto;

d) gestore dei servizi telematici: sistema informatico, interno al dominio giustizia, che consente l’interoperabilità tra i sistemi informatici utilizzati dai soggetti abilitati interni, il portale dei servizi telematici e il gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia;

e) posta elettronica certificata: sistema di posta elettronica nel quale è fornita al mittente documentazione elettronica attestante l’invio e la consegna di documenti informatici, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68;

f) identificazione informatica: operazione di identificazione in rete del titolare della carta nazionale dei servizi o di altro dispositivo crittografico, mediante un certificato di autenticazione, secondo la definizione di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82;

g) firma digitale: firma elettronica avanzata, basata su un certificato qualificato, rilasciato da un certificatore accreditato, e generata mediante un dispositivo per la creazione di una firma sicura, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82;

h) fascicolo informatico: versione informatica del fascicolo d’ufficio, contenente gli atti del processo come documenti informatici, oppure le copie informatiche dei medesimi atti, qualora siano stati depositati su supporto cartaceo, ai sensi del codice dell’amministrazione digitale;

i) codice dell’amministrazione digitale (CAD): decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, recante “Codice dell’amministrazione digitale” e successive modificazioni;

l) codice in materia di protezione dei dati personali: decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, recante “Codice in materia di protezione dei dati personali” e successive modificazioni;

m) soggetti abilitati: i soggetti abilitati all’utilizzo dei servizi di consultazione di informazioni e trasmissione di documenti informatici relativi al processo. In particolare si intende per:

1) soggetti abilitati interni: i magistrati, il personale degli uffici giudiziari e degli UNEP;

2) soggetti abilitati esterni: i soggetti abilitati esterni privati e i soggetti abilitati esterni pubblici;

3) soggetti abilitati esterni privati: i difensori delle parti private, gli avvocati iscritti negli elenchi speciali, gli esperti e gli ausiliari del giudice;

4) soggetti abilitati esterni pubblici: gli avvocati, i procuratori dello Stato e gli altri dipendenti di amministrazioni statali, regionali, metropolitane, provinciali e comunali;

n) utente privato: la persona fisica o giuridica, quando opera al di fuori dei casi previsti dalla lettera m);

o) certificazione del soggetto abilitato esterno privato: attestazione di iscrizione all’albo, all’albo speciale, al registro ovvero di possesso della qualifica che legittima l’esercizio delle funzioni professionali e l’assenza di cause ostative all’accesso;

p) certificazione del soggetto abilitato esterno pubblico: attestazione di appartenenza del soggetto all’amministrazione pubblica e dello svolgimento di funzioni tali da legittimare l’accesso;

q) specifiche tecniche: le disposizioni di carattere tecnico emanate, ai sensi dell’articolo 34, dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, sentito DigitPA e il Garante per la protezione dei dati personali, limitatamente ai profili inerenti la protezione dei dati personali;

r) spam: messaggi indesiderati;

s) software antispam: software studiato e progettato per rilevare ed eliminare lo spam;

t) log: documento informatico contenente la registrazione cronologica di una o più operazioni informatiche, generato automaticamente dal sistema informatico;

u) richiesta di pagamento telematico (RPT): struttura standardizzata che definisce gli elementi necessari a caratterizzare il pagamento e qualifica il versamento con un identificativo univoco, nonché contiene i dati identificativi, variabili secondo il tipo di operazione, e una parte riservata per inserire informazioni elaborabili automaticamente dai sistemi informatici;

v) ricevuta telematica (RT): struttura standardizzata, emessa a fronte di una RPT, che definisce gli elementi necessari a qualificare il pagamento e trasferisce inalterate le informazioni della RPT relative alla parte riservata;

z) identificativo univoco di erogazione del servizio (CRS): identifica univocamente una richiesta di erogazione del servizio ed è associato alla RPT e alla RT al fine di qualificare in maniera univoca il versamento;

aa) prestatore dei servizi di pagamento: gli istituti di credito, Poste Italiane e gli altri soggetti che, ai sensi del decreto legislativo 27 gennaio 2010, n. 11 e successive modifiche ed integrazioni, mettono a disposizione strumenti atti ad effettuare pagamenti.


CAPO II

Sistemi informatici del dominio giustizia

Art. 3 Funzionamento dei sistemi del dominio giustizia

1. I sistemi del dominio giustizia sono strutturati in conformità al codice dell’amministrazione digitale, alle disposizioni del Codice in materia di protezione dei dati personali e in particolare alle prescrizioni in materia di sicurezza dei dati, nonché al decreto ministeriale emanato a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), del decreto del Ministro della giustizia 27 marzo 2000, n. 264.

2. Il responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia è responsabile dello sviluppo, del funzionamento e della gestione dei sistemi informatici del dominio giustizia.

3. I dati sono custoditi in infrastrutture informatiche di livello distrettuale o interdistrettuale, secondo le specifiche di cui all’articolo 34.


Art. 4 Gestore della posta elettronica certificata del Ministero della giustizia

1. Salvo quanto previsto all’articolo 19, il Ministero della giustizia si avvale di un proprio servizio di posta elettronica certificata conforme a quanto previsto dal codice dell’amministrazione digitale.

2. Gli indirizzi di posta elettronica certificata degli uffici giudiziari e degli UNEP, da utilizzare unicamente per i servizi di cui al presente decreto, sono pubblicati sul portale dei servizi telematici e rispettano le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

3. Il Ministero della giustizia garantisce la conservazione dei log dei messaggi transitati attraverso il proprio gestore di posta elettronica certificata per cinque anni.


Art. 5 Gestore dei servizi telematici

1. Il gestore dei servizi telematici assicura l’interoperabilità tra i sistemi informatici utilizzati dai soggetti abilitati interni, il portale dei servizi telematici e il gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia.


Art. 6 Portale dei servizi telematici

1. Il portale dei servizi telematici consente l’accesso da parte dell’utente privato alle informazioni, ai dati e ai provvedimenti giudiziari secondo quanto previsto dall’articolo 51 del codice in materia di protezione dei dati personali.

2. L’accesso di cui al comma 1 avviene a norma dell’articolo 64 del codice dell’amministrazione digitale e secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

3. Il portale dei servizi telematici mette a disposizione dei soggetti abilitati esterni i servizi di consultazione, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

4. Il portale dei servizi telematici mette a disposizione i servizi di pagamento telematico, secondo quanto previsto dal capo V del presente decreto.

5. Il portale dei servizi telematici mette a disposizione dei soggetti abilitati e degli utenti privati, in un’apposita area, i documenti che contengono dati sensibili oppure che eccedono le dimensioni del messaggio di posta elettronica certificata di cui all’articolo 13, comma 8, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34 e nel rispetto dei requisiti di sicurezza di cui all’articolo 26.

6. Il portale dei servizi telematici consente accesso senza l’impiego di apposite credenziali, sistemi di identificazione e requisiti di legittimazione, alle informazioni ed alla documentazione sui servizi telematici del dominio giustizia, alle raccolte giurisprudenziali e alle informazioni essenziali sullo stato dei procedimenti pendenti, che vengono rese disponibili in forma anonima.


Art. 7 Registro generale degli indirizzi elettronici

1. Il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia, contiene i dati identificativi e l’indirizzo di posta elettronica certificata dei soggetti abilitati esterni di cui al comma 3 e degli utenti privati di cui al comma 4.

2. Per i professionisti iscritti in albi ed elenchi istituiti con legge dello Stato, il registro generale degli indirizzi elettronici è costituito mediante i dati contenuti negli elenchi riservati di cui all’articolo 16, comma 7, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito nella legge del 28 gennaio 2009, n. 2, inviati al Ministero della giustizia secondo le specifiche tecniche di cui all’articolo 34.

3. Per i soggetti abilitati esterni non iscritti negli albi di cui al comma 2, il registro generale degli indirizzi elettronici è costituito secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

4. Per le persone fisiche, quali utenti privati, che non operano nelle qualità di cui ai commi 2 e 3, gli indirizzi sono consultabili ai sensi dell’articolo 7 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 maggio 2009, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

5. Per le imprese, gli indirizzi sono consultabili, senza oneri, ai sensi dell’articolo 16, comma 6, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito nella legge del 28 gennaio 2009, n. 2, con le modalità di cui al comma 10 del medesimo articolo e secondo le specifiche tecniche di cui all’articolo 34.

6. Il registro generale degli indirizzi elettronici è accessibile ai soggetti abilitati mediante le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.


Art. 8 Sistemi informatici per i soggetti abilitati interni

1. I sistemi informatici del dominio giustizia mettono a disposizione dei soggetti abilitati interni le funzioni di ricezione, accettazione e trasmissione dei dati e dei documenti informatici nonché di consultazione e gestione del fascicolo informatico, secondo le specifiche di cui all’articolo 34.

2. L’accesso dei soggetti abilitati interni è effettuato con le modalità definite dalle specifiche tecniche di cui all’articolo 34, che consentono l’accesso anche dall’esterno del dominio giustizia.

3. Nelle specifiche di cui al comma 2 sono disciplinati i requisiti di legittimazione e le credenziali di accesso al sistema da parte delle strutture e dei soggetti abilitati interni.


Art. 9 Sistema informatico di gestione del fascicolo informatico

1. Il Ministero della giustizia gestisce i procedimenti utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, raccogliendo in un fascicolo informatico gli atti, i documenti, gli allegati, le ricevute di posta elettronica certificata e i dati del procedimento medesimo da chiunque formati, ovvero le copie informatiche dei medesimi atti quando siano stati depositati su supporto cartaceo.

2. Il sistema di gestione del fascicolo informatico è la parte del sistema documentale del Ministero della giustizia dedicata all’archiviazione e al reperimento di tutti i documenti informatici, prodotti sia all’interno che all’esterno, secondo le specifiche tecniche di cui all’articolo 34.

3. La tenuta e conservazione del fascicolo informatico equivale alla tenuta e conservazione del fascicolo d’ufficio su supporto cartaceo, fermi restando gli obblighi di conservazione dei documenti originali unici su supporto cartaceo previsti dal codice dell’amministrazione digitale e dalla disciplina processuale vigente.

4. Il fascicolo informatico reca l’indicazione:

a) dell’ufficio titolare del procedimento, che cura la costituzione e la gestione del fascicolo medesimo;

b) dell’oggetto del procedimento;

c) dell’elenco dei documenti contenuti.

5. Il fascicolo informatico è formato in modo da garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti in relazione alla data di deposito, al loro contenuto, ed alle finalità dei singoli documenti.

6. Con le specifiche tecniche di cui all’articolo 34 sono definite le modalità per il salvataggio dei log relativi alle operazioni di accesso al fascicolo informatico.


Art. 10 Infrastruttura di comunicazione

1. I sistemi informatici del dominio giustizia utilizzano l’infrastruttura tecnologica resa disponibile nell’ambito del Sistema Pubblico di Connettività per le comunicazioni con l’esterno del dominio giustizia.


CAPO III

Trasmissione di atti e documenti informatici

Art. 11 Formato dell’atto del processo in forma di documento informatico

1. L’atto del processo in forma di documento informatico è privo di elementi attivi ed è redatto nei formati previsti dalle specifiche tecniche di cui all’articolo 34; le informazioni strutturate sono in formato XML, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34, pubblicate sul portale dei servizi telematici.

2. La nota di iscrizione a ruolo può essere trasmessa per via telematica come documento informatico sottoscritto con firma digitale; le relative informazioni sono contenute nelle informazioni strutturate di cui al primo comma, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.


Art. 12 Formato dei documenti informatici allegati

1. I documenti informatici allegati all’atto del processo sono privi di elementi attivi e hanno i formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. È consentito l’utilizzo dei formati compressi, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34, purché contenenti solo file nei formati previsti dal comma precedente.


 

Art. 13 Trasmissione dei documenti da parte dei soggetti abilitati esterni e degli utenti privati

1. I documenti informatici di cui agli articoli 11 e 12 sono trasmessi da parte dei soggetti abilitati esterni e degli utenti privati mediante l’indirizzo di posta elettronica certificata risultante dal registro generale degli indirizzi elettronici, all’indirizzo di posta elettronica certificata dell’ufficio destinatario, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. I documenti informatici di cui al comma 1 si intendono ricevuti dal dominio giustizia nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia.

3. Nel caso previsto dal comma 2 la ricevuta di avvenuta consegna attesta, altresì, l’avvenuto deposito dell’atto o del documento presso l’ufficio giudiziario competente. Quando la ricevuta è rilasciata dopo le ore 14 il deposito si considera effettuato il giorno feriale immediatamente successivo.

4. Il rigetto del deposito da parte dell’ufficio non impedisce il successivo deposito entro i termini assegnati o previsti dalla vigente normativa processuale.(3)

5. La certificazione dei professionisti abilitati e dei soggetti abilitati esterni pubblici è effettuata dal gestore dei servizi telematici sulla base dei dati presenti nel registro generale degli indirizzi elettronici, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

6. Al fine di garantire la riservatezza dei documenti da trasmettere, il soggetto abilitato esterno utilizza un meccanismo di crittografia, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

7. Il gestore dei servizi telematici restituisce al mittente l’esito dei controlli effettuati dal dominio giustizia nonché dagli operatori della cancelleria o della segreteria, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

8. La dimensione massima del messaggio è stabilita nelle specifiche tecniche di cui all’articolo 34. Se il messaggio eccede tale dimensione, il gestore dei servizi telematici genera e invia automaticamente al mittente un messaggio di errore, contenente l’avviso del rifiuto del messaggio, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

9. I soggetti abilitati esterni possono avvalersi dei servizi del punto di accesso, di cui all’articolo 23, per la trasmissione dei documenti; in tale caso il punto di accesso si attiene alle modalità di trasmissione dei documenti di cui al presente articolo.

(3) Comma così modificato dall’art. 1, comma 1, lett. a), b) e c), D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.


Art. 14 Documenti probatori e allegati non informatici

1. I documenti probatori e gli allegati depositati in formato non elettronico sono identificati e descritti in una apposita sezione delle informazioni strutturate di cui all’articolo 11, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. La cancelleria o la segreteria dell’ufficio giudiziario provvede ad effettuare copia informatica dei documenti probatori e degli allegati su supporto cartaceo e ad inserirla nel fascicolo informatico, apponendo la firma digitale ai sensi e per gli effetti di cui all’articolo 22, comma 3 del codice dell’amministrazione digitale.


Art. 15 Deposito dell’atto del processo da parte dei soggetti abilitati interni

1. L’atto del processo, redatto in formato elettronico da un soggetto abilitato interno e sottoscritto con firma digitale, è depositato telematicamente nel fascicolo informatico.(4)

2. In caso di atto formato da organo collegiale l’originale del provvedimento è sottoscritto con firma digitale anche dal presidente.

3. Quando l’atto è redatto dal cancelliere o dal segretario dell’ufficio giudiziario questi vi appone la propria firma digitale e ne effettua il deposito nel fascicolo informatico.

4. Se il provvedimento del magistrato è in formato cartaceo, il cancelliere o il segretario dell’ufficio giudiziario ne estrae copia informatica nei formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34 e provvede a depositarlo nel fascicolo informatico, apponendovi la propria firma digitale.(5)

(4)Comma così sostituito dall’ art. 2, comma 1, lett. a), D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.

(5)Comma così modificato dall’ art. 2, comma 1, lett. b), D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.


Art. 16 Comunicazioni per via telematica

1. La comunicazione per via telematica dall’ufficio giudiziario ad un soggetto abilitato esterno o all’utente privato avviene mediante invio di un messaggio dall’indirizzo di posta elettronica certificata dell’ufficio giudiziario mittente all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario, indicato nel registro generale degli indirizzi elettronici, ovvero per la persona fisica consultabile ai sensi dell’articolo 7 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 maggio 2009 e per l’impresa indicato nel registro delle imprese, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. La cancelleria o la segreteria dell’ufficio giudiziario provvede ad effettuare una copia informatica dei documenti cartacei da comunicare nei formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34, che conserva nel fascicolo informatico.

3. La comunicazione per via telematica si intende perfezionata nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del destinatario e produce gli effetti di cui agli articoli 45 e 48 del codice dell’amministrazione digitale.(6)

4. Fermo quanto previsto dall’articolo 20, comma 6, e salvo il caso fortuito o la forza maggiore, negli uffici giudiziari individuati con il decreto di cui all’articolo 51, comma 3 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, nel caso in cui viene generato un avviso di mancata consegna previsto dalle regole tecniche della posta elettronica certificata, si procede ai sensi del comma 3 del medesimo articolo 51 e viene pubblicato nel portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34, un apposito avviso di avvenuta comunicazione o notificazione dell’atto nella cancelleria o segreteria dell’ufficio giudiziario, contenente i soli elementi identificativi del procedimento e delle parti e loro patrocinatori. Tale avviso è visibile solo dai soggetti abilitati esterni legittimati ai sensi dell’articolo 27, comma 1, del decreto ministeriale 21 febbraio 2011, n. 44.(7)

5. Le ricevute di avvenuta consegna e gli avvisi di mancata consegna vengono conservati nel fascicolo informatico.

6. La comunicazione che contiene dati sensibili è effettuata per estratto con contestuale messa a disposizione dell’atto integrale nell’apposita area del portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34 e nel rispetto dei requisiti di sicurezza di cui all’articolo 26, con modalità tali da garantire l’identificazione dell’autore dell’accesso e la tracciabilità delle relative attività.

7. Nel caso previsto dal comma 6, si applicano le disposizioni di cui ai commi 2 e 3, ma la comunicazione si intende perfezionata il giorno feriale successivo al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del destinatario.(6)

8. Si applica, in ogni caso, il disposto dell’articolo 49 del codice dell’amministrazione digitale.

(6) Comma così modificato dall’ art. 3, comma 1, lett. a), D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.

(7) Comma così sostituito dall’ art. 3, comma 1, lett. b), D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.


Art. 17 Notificazioni per via telematica

1. Al di fuori dei casi previsti dall’articolo 51, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni, le richieste telematiche di un’attività di notificazione da parte di un ufficio giudiziario sono inoltrate al sistema informatico dell’UNEP, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. Le richieste di altri soggetti sono inoltrate all’UNEP tramite posta elettronica certificata, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

3. La notificazione per via telematica da parte dell’UNEP rispetta i requisiti richiesti per la comunicazione da un ufficio giudiziario verso i soggetti abilitati esterni di cui all’articolo 16.

4. Il sistema informatico dell’UNEP individua l’indirizzo di posta elettronica del destinatario dal registro generale degli indirizzi elettronici, dal registro delle imprese o dagli albi o elenchi costituiti ai sensi dell’articolo 16 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 convertito con modificazioni dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, nonché per il cittadino dall’elenco reso consultabile ai sensi dell’articolo 7 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 6 maggio 2009 in base alle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

5. Il sistema informatico dell’UNEP, eseguita la notificazione, trasmette per via telematica a chi ha richiesto il servizio il documento informatico con la relazione di notificazione sottoscritta mediante firma digitale e congiunta all’atto cui si riferisce, nonché le ricevute di posta elettronica certificata, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

6. L’ufficiale giudiziario, se non procede alla notificazione per via telematica, effettua la copia cartacea del documento informatico, attestandone la conformità all’originale, e provvede a notificare la copia stessa con le modalità previste dalla normativa processuale vigente.(8)

(8) Comma così modificato dall’ art. 4, comma 1, D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.


Art. 18 Notificazioni per via telematica eseguite dagli avvocati (9)

1. L’avvocato che procede alla notificazione con modalità telematica ai sensi dell’articolo 3-bis della legge 21 gennaio 1994, n. 53, allega al messaggio di posta elettronica certificata documenti informatici o copie informatiche, anche per immagine, di documenti analogici privi di elementi attivi e redatti nei formati consentiti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. Quando il difensore procede alla notificazione delle comparse o delle memorie, ai sensi dell’articolo 170, quarto comma, del codice di procedura civile, la notificazione è effettuata mediante invio della memoria o della comparsa alle parti costituite ai sensi del comma 1.

3. La parte rimasta contumace ha diritto a prendere visione degli atti del procedimento tramite accesso al portale dei servizi telematici e, nei casi previsti, anche tramite il punto di accesso.

4. L’avvocato che estrae copia informatica per immagine dell’atto formato su supporto analogico, compie l’asseverazione prevista dall’articolo 22, comma 2, del codice dell’amministrazione digitale, inserendo la dichiarazione di conformità all’originale nella relazione di notificazione, a norma dell’articolo 3-bis, comma 5, della legge 21 gennaio 1994, n. 53.

5. La procura alle liti si considera apposta in calce all’atto cui si riferisce quando è rilasciata su documento informatico separato allegato al messaggio di posta elettronica certificata mediante il quale l’atto è notificato. La disposizione di cui al periodo precedente si applica anche quando la procura alle liti è rilasciata su foglio separato del quale è estratta copia informatica, anche per immagine.

6. La ricevuta di avvenuta consegna prevista dall’articolo 3-bis, comma 3, della legge 21 gennaio 1994, n. 53 è quella completa, di cui all’articolo 6, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68.

(9) Articolo modificato dall’art. 5, comma 1, lett. a) e b), D.M. 15 ottobre 2012, n. 209 e, successivamente, così sostituito dall’art. 1, comma 1, D.M. 3 aprile 2013, n. 48.


Art. 19  Disposizioni particolari per la fase delle indagini preliminari

1. Nelle indagini preliminari le comunicazioni tra l’ufficio del pubblico ministero e gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria avvengono su canale sicuro protetto da un meccanismo di crittografia secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. Le specifiche tecniche assicurano l’identificazione dell’autore dell’accesso e la tracciabilità delle relative attività, anche mediante l’utilizzo di misure di sicurezza ulteriori rispetto a quelle previste dal disciplinare tecnico di cui all’allegato B del codice in materia di protezione dei dati personali.

3. Per le comunicazioni di atti e documenti del procedimento di cui al comma 1 sono utilizzati i gestori di posta elettronica certificata delle forze di polizia. Gli indirizzi di posta elettronica certificata sono resi disponibili unicamente agli utenti abilitati sulla base delle specifiche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

4. Alle comunicazioni previste dal presente articolo si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni dell’articolo 16, commi 1, 2, 3, 4 e 5, e dell’articolo 20.

5. L’atto del processo in forma di documento informatico è privo di elementi attivi ed è redatto dalle forze di polizia nei formati previsti dalle specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34; le informazioni strutturate sono in formato XML, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34. L’atto del processo, protetto da meccanismi di crittografia, è sottoscritto con firma digitale. Si applicano, in quanto compatibili, l’articolo 14 del presente decreto, nonché gli articoli 20 e 21 del codice dell’amministrazione digitale.

6. La comunicazione degli atti del processo alle forze di polizia, successivamente al deposito previsto dall’articolo 15, è effettuata per estratto con contestuale messa a disposizione dell’atto integrale, protetto da meccanismo di crittografia, in apposita area riservata all’interno del dominio giustizia, accessibile solo dagli appartenenti alle forze di polizia legittimati, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34 e nel rispetto dei requisiti di sicurezza di cui all’articolo 26.

7. Per la gestione del fascicolo informatico si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni di cui all’articolo 9, commi da 1 a 5. Agli atti contenuti nel fascicolo informatico, custodito in una sezione distinta del sistema documentale di cui all’articolo 9, protetta da un meccanismo di crittografia secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34, hanno accesso unicamente i soggetti abilitati interni appositamente abilitati. Alla conclusione delle indagini preliminari, e in ogni altro caso in cui il fascicolo o parte di esso deve essere consultato da soggetti abilitati esterni o da utenti privati, questi accedono alla copia resa disponibile mediante il punto di accesso e il portale dei servizi telematici, secondo quanto previsto al capo IV.

8. Per la trasmissione telematica dei flussi informativi sintetici delle notizie di reato e dei relativi esiti tra il Centro Elaborazione Dati del Servizio per il Sistema Informativo Interforze, di cui all’articolo 8, della legge 1° aprile 1981, n. 121 e successive modifiche ed integrazioni, e il sistema dei registri delle notizie di reato delle Procure della Repubblica sono utilizzate le infrastrutture di connettività delle pubbliche amministrazioni che consentono una interconnessione tra le Amministrazioni, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34. Il canale di comunicazione è protetto con le modalità di cui al comma 1.

9. Per assicurare la massima riservatezza della fase delle indagini preliminari la base di dati dei registri di cui al comma 8 è custodita, con le speciali misure di cui al comma 2, separatamente rispetto a quella relativa ai procedimenti per i quali è stato emesso uno degli atti di cui all’articolo 60, del codice di procedura penale, in infrastrutture informatiche di livello distrettuale o interdistrettuale individuate dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati. I compiti di vigilanza sulle procedure di sicurezza adottate sulla base dati prevista dal presente comma sono svolti dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale e dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello competenti in relazione all’ufficio giudiziario titolare dei dati, avvalendosi del personale tecnico individuato dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati.


Art. 20 Requisiti della casella di PEC del soggetto abilitato esterno

1. Il gestore di posta elettronica certificata del soggetto abilitato esterno, fermi restando gli obblighi previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 11 febbraio 2005, n. 68 e dal decreto ministeriale 2 novembre 2005, recante «Regole tecniche per la formazione, la trasmissione e la validazione, anche temporale, della posta elettronica certificata», è tenuto ad adottare software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati.

2. Il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati.

3. Il soggetto abilitato esterno è tenuto a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia.

4. La casella di posta elettronica certificata deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui all’articolo 34.

5. Il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione.

6. La modifica dell’indirizzo elettronico può avvenire dal 1° al 31 gennaio e dal 1° al 31 luglio.

7. La disposizione di cui al comma 6 non si applica qualora la modifica dell’indirizzo si renda necessaria per cessazione dell’attività da parte del gestore di posta elettronica certificata.


Art. 21 Richiesta delle copie di atti e documenti

1. Il rilascio della copia di atti e documenti del processo avviene, previa verifica del regolare pagamento dei diritti previsti, tramite invio all’indirizzo di posta elettronica certificata del richiedente, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. L’atto o il documento che contiene dati sensibili o di grandi dimensioni è messo a disposizione nell’apposita area del portale dei servizi telematici, nel rispetto dei requisiti di sicurezza stabiliti ai sensi dell’articolo 34.

3. Nel caso di richiesta di copia informatica, anche parziale, conforme al documento originale in formato cartaceo, il cancelliere ne attesta la conformità all’originale sottoscrivendola con la propria firma digitale.


CAPO IV

Consultazione delle informazioni del dominio giustizia

Art. 22 Servizi di consultazione

1. Ai fini di cui agli articoli 50, comma 1, 52 e 56 del codice dell’amministrazione digitale, l’accesso ai servizi di consultazione delle informazioni rese disponibili dal dominio giustizia avviene tramite un punto di accesso o tramite il portale dei servizi telematici, nel rispetto dei requisiti di sicurezza di cui all’articolo 26.


Art. 23 Punto di accesso

1. Il punto di accesso può essere attivato esclusivamente dai soggetti indicati dai commi 6 e 7.

2. Il punto di accesso fornisce un’adeguata qualità dei servizi, dei processi informatici e dei relativi prodotti, idonea a garantire la sicurezza del sistema, nel rispetto dei requisiti tecnici di cui all’articolo 26.

3. Il punto di accesso fornisce adeguati servizi di formazione e assistenza ai propri utenti, anche relativamente ai profili tecnici.

4. La violazione da parte del gestore di un punto di accesso dei livelli di sicurezza e di servizio comporta la sospensione dell’autorizzazione ad erogare i servizi fino al ripristino di tali livelli.

5. Il Ministero della giustizia dispone ispezioni tecniche, anche a campione, per verificare l’attuazione delle prescrizioni di sicurezza.

6. Possono gestire uno o più punti di accesso:

a) i consigli degli ordini professionali, i collegi ed i Consigli nazionali professionali, limitatamente ai propri iscritti;

b) il Consiglio nazionale forense, ove delegato da uno o più consigli degli ordini degli avvocati, limitatamente agli iscritti del consiglio delegante;

c) il Consiglio nazionale del notariato, limitatamente ai propri iscritti;

d) l’Avvocatura dello Stato, le amministrazioni statali o equiparate, e gli enti pubblici, limitatamente ai loro iscritti e dipendenti;

e) le Regioni, le città metropolitane, le provincie ed i Comuni, o enti consorziati tra gli stessi;

f) Le Camere di Commercio, per le imprese iscritte nel relativo registro.

7. I punti di accesso possono essere altresì gestiti da società di capitali in possesso di un capitale sociale interamente versato non inferiore a un milione di euro.


Art. 24 Elenco pubblico dei punti di accesso

1. L’elenco pubblico dei punti di accesso attivi presso il Ministero della giustizia comprende le seguenti informazioni:

a) identificativo del punto di accesso;

b) sede legale del soggetto titolare del punto di accesso;

c) indirizzo internet;

d) dati relativi al legale rappresentante del punto di accesso o a un suo delegato, comprendenti: nome, cognome, codice fiscale, indirizzo di posta elettronica certificata, numero di telefono e di fax;

e) recapiti relativi ai referenti tecnici da contattare in caso di problemi.


Art. 25 Iscrizione nell’elenco pubblico dei punti di accesso

1. Il soggetto che intende costituire un punto di accesso inoltra domanda di iscrizione nell’elenco pubblico dei punti di accesso secondo il modello e con le modalità stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia con apposito decreto, da adottarsi entro sessanta giorni dall’entrata in vigore del presente decreto.

2. Il Ministero della giustizia decide sulla domanda entro trenta giorni, con provvedimento motivato, anche sulla base di apposite verifiche, effettuabili anche da personale esterno all’Amministrazione, da questa delegato, con costi a carico del richiedente.

3. Con il provvedimento di cui al comma 2, il Ministero della giustizia delega la responsabilità del processo di identificazione dei soggetti abilitati esterni al punto di accesso. Il Ministero della giustizia può delegare la responsabilità del processo di identificazione degli utenti privati agli enti pubblici di cui all’articolo 23, comma 6, lettera e).

4. Il Ministero della giustizia può verificare l’adempimento degli obblighi assunti da parte del gestore del punto di accesso di propria iniziativa oppure su segnalazione. In caso di violazione si applicano le disposizioni di cui all’articolo 23, comma 3.


Art. 26 Requisiti di sicurezza

1. L’accesso ai servizi di consultazione delle informazioni rese disponibili dal dominio giustizia avviene mediante identificazione sul punto di accesso o sul portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. Il punto di accesso stabilisce la connessione con il portale dei servizi telematici mediante un collegamento sicuro con mutua autenticazione secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

3. A seguito dell’identificazione viene in ogni caso trasmesso al gestore dei servizi telematici il codice fiscale del soggetto che effettua l’accesso.

4. I punti di accesso garantiscono un’adeguata sicurezza del sistema con le modalità tecniche specificate in un apposito piano depositato unitamente all’istanza di cui all’articolo 25, a pena di inammissibilità della stessa.


Art. 27 Visibilità delle informazioni

1. Ad eccezione della fase di cui all’articolo 19, il dominio giustizia consente al soggetto abilitato esterno l’accesso alle informazioni contenute nei fascicoli dei procedimenti in cui è costituito o svolge attività di esperto o ausiliario. L’utente privato accede alle informazioni contenute nei fascicoli dei procedimenti in cui è parte mediante il portale dei servizi telematici e, nei casi previsti dall’articolo 23, comma 6, lettere e) ed f), e comma 7, mediante il punto di accesso.

2. È sempre consentito l’accesso alle informazioni necessarie per la costituzione o l’intervento in giudizio in modo tale da garantire la riservatezza dei nomi delle parti e limitatamente ai dati identificativi del procedimento.

3. In caso di delega, rilasciata ai sensi dell’articolo 9 regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, il dominio giustizia consente l’accesso alle informazioni contenute nei fascicoli dei procedimenti patrocinati dal delegante, previa comunicazione, a cura di parte, di copia della delega stessa al responsabile dell’ufficio giudiziario, che provvede ai conseguenti adempimenti. L’accesso è consentito fino alla comunicazione della revoca della delega.

4. La delega, sottoscritta con firma digitale, è rilasciata in conformità alle specifiche di strutturazione di cui all’articolo 35, comma 4.

5. Gli esperti e gli ausiliari del giudice accedono ai servizi di consultazione nel limite dell’incarico ricevuto e della autorizzazione concessa dal giudice.

6. Salvo quanto previsto dal comma 2, gli avvocati e i procuratori dello Stato accedono alle informazioni contenute nei fascicoli dei procedimenti in cui è parte una pubblica amministrazione la cui difesa in giudizio è stata assunta dal soggetto che effettua l’accesso.


Art. 28 Registrazione dei soggetti abilitati esterni e degli utenti privati

1. L’accesso ai servizi di consultazione resi disponibili dal dominio giustizia si ottiene previa registrazione presso il punto di accesso autorizzato o presso il portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34, comma 1.

2. I punti di accesso trasmettono al Ministero della giustizia le informazioni relative ad i propri utenti registrati, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34, comma 1.


Art. 29 Orario di disponibilità dei servizi di consultazione(10)(11)

1. Il portale dei servizi telematici e il gestore dei servizi telematici garantiscono la disponibilità dei servizi secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34. In ogni caso è garantita la disponibilità dei servizi di consultazione nei giorni feriali dalle ore otto alle ore ventidue, dal lunedì al venerdì, e dalle ore otto alle ore tredici del sabato e dei giorni ventiquattro e trentun dicembre.

(10) Articolo così sostituito dall’art. 6, comma 1, D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.

(11) Vedi, anche, l’art. 6, comma 2, D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.


CAPO V

Pagamenti telematici

Art. 30 Pagamenti

1. Il pagamento del contributo unificato e degli altri diritti e spese è effettuato nelle forme previste dal decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni. La ricevuta e l’attestazione di pagamento o versamento è allegata alla nota di iscrizione a ruolo o ad altra istanza inviata all’ufficio, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34, ed è conservata dall’interessato per essere esibita a richiesta dell’ufficio.

2. Il pagamento di cui al comma 1 può essere effettuato per via telematica con le modalità e gli strumenti previsti dal decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni e dalle altre disposizioni normative e regolamentari relative al riversamento delle entrate alla Tesoreria dello Stato.

3. L’interazione tra le procedure di pagamento telematico messe a disposizione dal prestatore del servizio di pagamento, il punto di accesso e il portale dei servizi telematici avviene su canale sicuro, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

4. Il processo di pagamento telematico assicura l’univocità del pagamento mediante l’utilizzo della richiesta di pagamento telematico (RPT), della ricevuta telematica (RT) e dell’identificativo univoco di erogazione del servizio (CRS) che impediscono, mediante l’annullamento del CRS, un secondo utilizzo della RT. Le specifiche tecniche sono definite ai sensi dell’articolo 34.

5. La ricevuta telematica, firmata digitalmente dal prestatore del servizio di pagamento che effettua la riscossione o da un soggetto da questo delegato, costituisce prova del pagamento alla Tesoreria dello Stato ed è conservata nel fascicolo informatico.

6. L’ufficio verifica periodicamente con modalità telematiche la regolarità delle ricevute o attestazioni e il buon esito delle transazioni di pagamento telematico.


Art. 31 Diritto di copia

1. L’interessato, all’atto della richiesta di copia, richiede l’indicazione dell’importo del diritto corrispondente che gli è comunicato senza ritardo con mezzi telematici dall’ufficio, secondo le specifiche stabilite ai sensi dell’articolo 34.

2. Alla richiesta di copia è associato un identificativo univoco che, in caso di pagamento dei diritti di copia non contestuale, viene evidenziato nel sistema informatico per consentire il versamento secondo le modalità previste dal decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni.

3. La ricevuta telematica è associata all’identificativo univoco.


Art. 32 Registrazione, trascrizione e voltura degli atti

1. La registrazione, la trascrizione e la voltura degli atti avvengono in via telematica nelle forme previste dall’articolo 73 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, e successive modificazioni.


Art. 33 Pagamento dei diritti di notifica

1. Il pagamento dei diritti di notifica viene effettuato nelle forme previste dall’articolo 30.

2. L’UNEP rende pubblici gli importi dovuti a titolo di anticipazione. Eseguita la notificazione, l’UNEP comunica l’importo definitivo e restituisce il documento informatico notificato previo versamento del conguaglio dovuto dalla parte oppure unitamente al rimborso del maggior importo versato in acconto.


CAPO VI

Disposizioni finali e transitorie

Art. 34 Specifiche tecniche

1. Le specifiche tecniche sono stabilite dal responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia, sentito DigitPA e, limitatamente ai profili inerenti alla protezione dei dati personali, sentito il Garante per la protezione dei dati personali.(12)

2. Le specifiche di cui al comma precedente vengono rese disponibili mediante pubblicazione nell’area pubblica del portale dei servizi telematici.

3. Fino all’emanazione delle specifiche tecniche di cui al comma 1, continuano ad applicarsi, in quanto compatibili, le disposizioni anteriormente vigenti.

(12) Per le specifiche tecniche previste dal presente comma vedi il Provvedimento 18 luglio 2011 e il Provvedimento 16 aprile 2014.


Art. 35 Disposizioni finali e transitorie

1. L’attivazione della trasmissione dei documenti informatici da parte dei soggetti abilitati esterni è preceduta da un decreto dirigenziale che accerta l’installazione e l’idoneità delle attrezzature informatiche, unitamente alla funzionalità dei servizi di comunicazione dei documenti informatici nel singolo ufficio.(13)

2. L’indirizzo elettronico già previsto dal decreto del Ministro della giustizia 17 luglio 2008, recante «Regole tecnico-operative per l’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile» è utilizzabile per un periodo transitorio non superiore a sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto.

3. La data di attivazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata di cui all’articolo 4, comma 2, è stabilita, per ciascun ufficio giudiziario, con apposito decreto dirigenziale del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia che attesta la funzionalità del sistema di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia.

4. Le caratteristiche specifiche della strutturazione dei modelli informatici sono definite con decreto del responsabile per i sistemi informativi automatizzati del Ministero della giustizia e pubblicate nell’area pubblica del portale dei servizi telematici.

5. Fino all’emanazione dei provvedimenti di cui al comma 4, conservano efficacia le caratteristiche di strutturazione dei modelli informatici di cui al decreto del Ministro della giustizia 10 luglio 2009, recante “Nuova strutturazione dei modelli informatici relativa all’uso di strumenti informatici e telematici nel processo civile e introduzione dei modelli informatici per l’uso di strumenti informatici e telematici nelle procedure esecutive individuali e concorsuali”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 165 del 18 luglio 2009 – S.O. n. 120.

(13) Comma così modificato dall’art. 7, comma 1, D.M. 15 ottobre 2012, n. 209.


Art. 36 Adeguamento delle regole tecnico-operative

1. Le regole tecnico-operative sono adeguate all’evoluzione scientifica e tecnologica, con cadenza almeno biennale, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto.


Art. 37 Efficacia

1. Il presente decreto acquista efficacia il trentesimo giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana

2. Dalla data di cui al comma 1, cessano di avere efficacia nel processo civile le disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 13 febbraio 2001, n. 123 e del decreto del Ministro della giustizia 17 luglio 2008.

Il presente decreto, munito del sigillo dello Stato, sarà inserito nella Raccolta ufficiale degli atti normativi della Repubblica italiana. È fatto obbligo a chiunque spetti di osservarlo e di farlo osservare.


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 17/06/2014) 05/09/2014, n. 18758

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1470-2008 proposto da:

U.V., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PRISCIANO 28, presso lo studio dell’avvocato SERRANI DANILO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GHEDINI VITTORIA NICOLETTA giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DI VENEZIA DUE in persona del Direttore pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE CENTRALE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 47/2006 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 23/11/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/06/2014 dal Consigliere Dott. CIRILLO ETTORE;

udito per il ricorrente l’Avvocato MAINARDI con delega e l’Avvocato GHEDINI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 47 del 23 novembre 2006 la Commissione tributaria regionale del Veneto rigettava l’appello proposto dall’avv. U. V., confermando l’avviso di accertamento notificatogli dal fisco il 13 aprile 2005 per l’anno d’imposta 1999 (IRPEF, IRAP, IVA).

Il giudice d’appello, premesso che l’atto impositivo era stato firmato da funzionario appositamente delegato e che l’adozione dei coefficienti presuntivi adoperati dal fisco non richiedeva alcun parere del Consiglio di Stato, osservava che, non avendo il contribuente aderito al contraddittorio pre contenzioso, legittimamente l’ufficio si era avvalso della procedura D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39.

Aggiungeva che lo svolgimento di attività per un solo studio legale, pur essendo assimilabile a un rapporto di parasubordinazione, non era circostanza idonea a rendere inapplicabili parametri frutto di elaborazione statistica e che il conseguente accertamento induttivo costituiva il portato logico dell’applicazione di specifici coefficienti alla situazione del contribuente interessato.

Infine, rilevava che l’atto impositivo era sufficientemente motivato sia riguardo alle riprese a tassazione, sia riguardo all’applicazione di sanzioni nel minimo edittale.

Per la cassazione di tale decisione, l’avv. U.V. ha proposto ricorso affidato a sette motivi, ai quali l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso. Il contribuente replica con memoria.

Motivi della decisione
Il ricorso deve essere accolto in relazione al (pregiudiziale) primo motivo, con assorbimento degli altri.

Il contribuente denuncia violazioni di norme di diritto – D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e art. 2697 c.c. – rilevando che l’invocato art. 42 sanziona con la nullità gli avvisi di accertamento che manchino della firma del capo dell’ufficio o di un dirigente da lui delegato e pone in capo all’ufficio impositore l’onere di provare che il sottoscrittore sia realmente munito di poteri di firma.

Osserva che, nonostante le contestazioni formalizzate in ambo i giudizi di merito, l’ufficio si è limitato ad affermare che la firmataria, S.O., apparteneva all’ufficio stesso ed era abilitata alla firma, senza aver mai documentato ciò, atteso che la nota esibita in causa rinviava ad altra nota, mai prodotta nel giudizio di merito, circa l’individuazione dei poteri concretamente delegati alla “capo team” firmataria dell’atto impositivo.

Censura, in punto di vizio motivazionale e di violazione dell’onere della prova, l’argomentare del giudice d’appello che, nel ritenere l’esistenza di una delega a favore della sottoscrittrice dell’avviso impugnato, non ha osservato i principi generali che pongono a carico di chi allega un fatto l’onere di provarne la sussistenza. Il motivo è fondato.

Da tempo, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato l’orientamento secondo cui:

“In tema di imposte sui redditi, deve ritenersi, in base al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, commi 1 e 3, che gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono nulli tutte le volte che gli avvisi nei quali si concretizzano non risultino sottoscritti dal capo dell’ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva (addetto a detto ufficio) validamente delegato dal reggente di questo. Ne consegue che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento – atto della p.a. a rilevanza esterna – da parte di funzionario diverso (il capo dell’ufficio emittente)da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo ovvero da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’art. 42, commi 1 e 3, dinanzi citato” (Cass. 14195/00). Analogamente, altra decisione di poco posteriore ha ritenuto: “L’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario, quale il direttore tributario, di nona qualifica funzionale, incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l’esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio. Fermi, infatti, i casi di sostituzione e reggenza di cui al D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20, comma 1, lett. a) e b), è espressamente richiesta la delega a sottoscrivere:

il solo possesso della qualifica non abilita il direttore tributario alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio”. (Cass. 14626/00).

Più di recente questa Corte ha confermato tali principi riaffermando: “L’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario, quale il direttore tributario, di nona qualifica funzionale, incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio, poichè il solo possesso della qualifica non abilita il direttore tributario alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio” (Cass. 17400/12).

A tale oramai consolidato orientamento ha dato ulteriore continuità la sentenza n. 14942 del 14 giugno 2013 ribadendo che, nella individuazione del soggetto legittimato a sottoscrivere l’avviso di accertamento, in forza del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, incombe all’Agenzia delle entrate l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega.

La decisione in esame osserva che tale conclusione è effetto diretto dell’espressa previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell’avviso di accertamento (cfr. in materia d’imposte dirette Cass. 17400/12, 14626/00, 14195/00).

Solo in diversi contesti fiscali – quali ad esempio la cartella esattoriale (Cass. 13461/12), il diniego di condono (Cass. 11458/12 e 220/14), l’avviso di mora (Cass. 4283/10), l’attribuzione di rendita (Cass. 8248/06) – e in mancanza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato (cfr., in materia di lavoro e previdenza, Cass. 13375/09, ordinanza ingiunzione, e 4310/01, atto amministrativo); mentre, per i tributi locali, è valida anche la mera firma stampata, ex L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87 (Cass. 9627/12).

Nella specifica materia dell’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, nel riferirsi al comma 1 ai modi stabiliti per le imposte dirette, richiama implicitamente il D.P.R. n. 600 del 1973 e, quindi, anche il ridetto art. 42 sulla nullità dell’avviso di accertamento, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (cfr., in materia di IVA, Cass. 10513/08, 18514/10 e 19379/12, in motiv.).

A ben vedere, il tralatizio orientamento in rassegna, che qui si conferma, non è neppure contraddetto dalla sentenza n. 17044 del 2013, laddove questa in motivazione (B. 1) comunque afferma:

“ovviamente “in caso di contestazione… incombe all’amministrazione provare l’esercizio del potere sostitutivo o la presenza della delega” (Cass., trib., 10 novembre 2000 n. 14626)”.

Nella specie l’avviso di accertamento è siglato e reca la dicitura “Il direttore dell’ufficio (o il funzionario delegato) O. S. (Capo Team)”.

L’Agenzia ha esibito l’ordine di servizio n. 28-bis, prot. 59514, vigente dal 1 ottobre 2004, col quale il direttore dell’ufficio (Dott. C.A.) dispone che “la direzione del Team Sesto viene affidata alla signora S.O., alla quale viene conferita delega alla sottoscrizione degli atti e provvedimenti nell’o.s.n. 11/D/2002 entro i limiti ivi indicati”.

Invece, non risulta trascritto in controricorso nè altrimenti esibito in giudizio l’o.s.n. 11/D/2002 che definisce i limiti oggettivi della delega conferita alla S.O.; dunque, non risulta che l’Agenzia abbia osservato l’onere probatorio posto a suo carico.

Nè può giovare al fisco il mancato esercizio dei poteri istruttori di ufficio, di cui all’art. 7 proc. trib., al fine di acquisire gli elementi a riprova della ridetta delega, sia perchè si tratta di documento (che se esiste è) già in possesso dell’amministrazione finanziaria, il che contrasta con l’art. 6 dello statuto del contribuente, (a) sia perchè manca il presupposto, che consente di derogare al canone ordinario di distribuzione dell’onere della prova e legittima l’esercizio del potere di ufficio, costituito dall’impossibilità di una delle parti di acquisire i documenti in possesso dell’altra, (b) sia in ragione della possibilità per le parti di produrre, anche in appello, nuovi documenti, nel rispetto del contraddittorio, ai sensi dell’art. 58, comma 2, proc. trib. (14492/13, cit; cfr. in generale Cass. 26392/10).

L’accoglimento del pregiudiziale primo mezzo, comporta la nullità radicale dell’avviso di accertamento, non avendo l’amministrazione offerto prova, con produzione di regolare delega, dei poteri dì firma in capo alla firmataria dell’avviso di accertamento; il che, consente di accogliere immediatamente il ricorso ex art. 384 c.p.c., non essendo necessari altri accertamenti di fatto.

Tutto ciò assorbe, ovviamente, le altre censure mosse per:

violazione della L. n. 400 del 1988 (art. 17) circa la natura regolamentare del D.P.C.M. 29 gennaio 1996, e la mancanza del parere del Consiglio di Stato (motivo 2); violazione dì plurime norme di diritto circa l’illegittimità di accertamento fondato solo sui parametri e vizi motivazionali circa la ritenuta irrilevanza della peculiare attività sostanzialmente parasubordinata intrapresa da poco e in età avanzata dal contribuente (motivi 3-4); vizi motivazionali e plurime violazioni del D.Lgs. n. 472 del 1997 (art. 5, 6, 17) riguardo alle denunciate carenze di motivazione dell’atto impositivo (sia sulle riprese a tassazione sia sull’applicazione della sanzione) e per omessa comparazione degli elementi di prova e controprova offerti dalle parti (motivi 5-6-7).

In ragione del progressivo formarsi della giurisprudenza sulla sottoscrizione degli atti del fisco si stima equo compensare le spese processuali tra le parti.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e, assorbiti gli altri, cassa senza rinvio la sentenza d’appello; decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della parte contribuente e compensa integralmente le spese processuali tra le parti.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 17 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2014


Cass. civ. Sez. VI – 3, Sent., (ud. 22-05-2014) 05-09-2014, n. 18812

Viola la privacy il comune che non utilizza il plico chiuso per notificare la sanzione “particolare”

Se il Comune non assume i dovuti accorgimenti, è tenuto a risarcire il danno per violazione del diritto alla privacy del destinatario di provvedimento sanzionatorio inerente violazione amministrativa legata al fenomeno della prostituzione, nel caso in cui la notifica avvenga non in plico sigillato. E’ quanto ha confermato la Suprema corte avallando la decisione del giudice del merito, dichiarando in parte inammissibile il ricorso proposto da un Comune italiano. L’ordinanza ingiunzione, dopo un primo tentativo (fallito) di notifica a mezzo servizio postale presso il domicilio eletto dal resistente, era stata affidata per la notifica ai messi comunali, i quali provvedevano alla stessa a mezzo plico, non in busta chiusa, alla residenza del destinatario, dunque a mani alla madre dello stesso. Il destinatario della sanzione lamentava che sua madre era venuta in questo modo a conoscenza della vicenda. L’uomo si trovava in una particolare situazione dato che era in corso una causa di separazione e la conoscenza da parte di terzi di una simile sanzione sarebbe stata idonea a provocargli serio pregiudizio. La Suprema corte, pur disconoscendo l’esistenza di un vero e proprio obbligo a carico della pubblica amministrazione di procedere in ogni caso alla notifica presso il domicilio eletto dal destinatario – e non, come nel caso di specie, eseguirla presso la residenza – fa riferimento ai principi generali di trasparenza, lealtà e imparzialità della pubblica amministrazione, data l’evidente manifestazione di preferenza del destinatario ad interloquire con l’ente pubblico in modalità particolare. La Cassazione conferma come sia applicabile al caso di specie l’art. 15 del d.lgs. 196/2003 (codice privacy) il quale afferma che “sussiste responsabilità per i danni cagionati per effetto del trattamento illegittimo dei dati personali ai sensi dell’art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”. In questo senso, la pubblica amministrazione procedente avrebbe potuto sottrarsi all’obbligo risarcitorio solo provando di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; circostanza non dimostrata in grado di merito. Nella specie, il Comune avrebbe dovuto provare di non aver potuto ricorrere a nessun’altra forma di notifica, che, “seppur non imposta dalle leggi in materia, avrebbe consentito, più adeguatamente rispetto alla notifica a mezzo dei messi comunali, di evitare il danno derivante dal trattamento dei dati sensibili, ricollegabile alla propagazione del contenuto dell’oggetto della violazione sanzionata con l’ordinanza ingiunzione”. Di conseguenza, il comportamento dell’ente comunale “non si è affatto concretato nell’aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno ai sensi dell’art. 2050 c.c. Ciò, per l’assorbente ragione che la cautela da osservarsi dal Comune, quale titolare del trattamento di dati personali, nella gestione della pratica amministrativa in relazione al contenuto della violazione contestata, gli imponeva, alla stregua direttamente dell’art. 2050 c.c., di esperire anche, prima di ricorrere ai messi, la notificazione al domicilio eletto”.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25852/2010 proposto da:

COMUNE DI MONTECATINI TERME (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZION CLODIA 86 – Int. 5, presso lo studio dell’avvocato MARTIRE ROBERTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROSSANA PARLANTI, giusta delibera G.M. n. 400 del 26.10.2010 e giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI (OMISSIS) in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

e contro

M.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 39/2010 del TRIBUNALE di PISTOIA – Sezione di MONSUMMANO TERME del 13.2.2010, depositata il 13/02/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2014 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito per il ricorrente l’Avvocato Sandro Coccioli (per delega avv. Roberto Martire) che si riporta al ricorso.

Svolgimento del processo
p.1. Con ricorso D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, M. E. chiedeva al Tribunale di Pistoia – Sezione distaccata di Monsummano Terme, la condanna del Comune di Montecatini Terme al risarcimento del danno sofferto in conseguenza di una pretesa violazione, addebitabile al Comune, delle norme sul trattamento dei dati personali. Esponeva, al riguardo, che il Comune convenuto gli aveva notificato una ordinanza-ingiunzione di pagamento, con cui aveva confermato il verbale di contestazione elevato nei suoi confronti in relazione alla violazione di un’ordinanza sindacale, consistita nell’essersi fermato per consentire la salita ad una persona che per comportamenti ed atteggiamenti era dedita all’attività di prostituzione.

L’ordinanza-ingiunzione era stata emessa nei suoi confronti ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, a seguito dell’esame della memoria difensiva, che egli aveva presentato a mezzo del proprio legale di fiducia, presso il cui studio in essa aveva altresì eletto domicilio.

p.1.1. L’ordinanza, dopo l’esito negativo di un primo tentativo di notificazione a mezzo posta, era stata rimessa dal Comune convenuto ai messi del Comune di Buonabitacolo, luogo in cui il M. risultava residente, affinchè gli stessi provvedessero alla notifica ai sensi della L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1.

I detti mesi avevano però provveduto alla notifica del plico, tuttavia non in busta chiusa, alla residenza del ricorrente a mani della madre del medesimo, la quale, per quanto lui sosteneva era così venuta a conoscenza della vicenda.

p.2. Sulla base di tali deduzione il ricorrente, sulla premessa che era stata lesa la propria privacy, chiedeva il risarcimento dei danni adducendo, che, se la notifica fosse stata fatta al domicilio eletto, nè la madre, nè gli abitanti di Buonabitacolo, tra cui la notizia si era invece, a suo dire, diffusa, ne sarebbero venuti a conoscenza.

Adduceva, inoltre, che nelle more egli aveva in corso una causa di separazione e la diffusione della notizia avrebbe potuto incidere sul diritto di visita al figlio minore.

p.3. Il Comune convenuto si costituiva e chiedeva il rigetto del ricorso. Si costituiva altresì il Garante per la Protezione dei Dati Personali, per far tutelare asseriti aspetti di interesse pubblico generale della vicenda.

p.4 Con la memoria ai sensi dell’art. 180 c.p.c., il M. affermava che, come risultava dalla relata di notifica nella seconda pagina del provvedimento, l’ordinanza ingiunzione era stata trasmessa in plico aperto dal Comune di Montecatini a quello di Buonabitacolo.

Il Comune dichiarava di non accettare il contraddittorio su questo nuovo profilo, che sosteneva rappresentare la deduzione di una nuova causa petendi.

p.5. Con sentenza del 18 febbraio 2010, il Tribunale, dopo avere dichiarato inammissibile la domanda quanto al profilo introdotto con la memoria ai sensi dell’art. 180 c.p.c., perchè integrante nuova causa petendi, condannava il Comune convenuto, in accoglimento della domanda originaria, al pagamento – ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 – della somma di Euro 5000,00 oltre accessori.

p.6. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi il Comune di Montecatini Terme. Ha resistito con controricorso il Garante per la Protezione dei Dati Personali, tramite l’Avvocatura Generale dello Stato.

p.7. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
p.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “Violazione e falsa applicazione art. 141 c.p.c. – art. 170 c.p.c. – art. 360, n. 3 Omessa motivazione”.

Vi si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, sulla premessa della natura contenziosa del procedimento di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 18, ha ritenuto sussistente un comportamento illegittimo del Comune per non avere notificato l’ordinanza ingiunzione, ai sensi dell’art. 170 c.p.c., nel domicilio eletto presso il suo legale nella memoria difensiva depositata nella fase contenziosa amministrativa ai sensi della L. n. 689 del 1989, art. 17, e art. 18, comma 1. A parere del ricorrente questa statuizione, essendo errata l’assimilazione del procedimento nella fase amministrativa a quello giurisdizionale e, quindi, l’applicazione dell’art. 170 c.p.c., avrebbe violato oltre che tale norma, anche la norma dell’art. 141 c.p.c., rifluendo la vicenda sotto di essa e tenuto conto che essa considera la notificazione presso il domicilio eletto obbligatoria solo in caso di espressa previsione contrattuale, siccome emerge dal suo comma 2, mentre in tutti gli altri casi l’elezione di domicilio sarebbe facoltativa.

p.2. Con un secondo motivo si fa valere “Violazione falsa applicazione L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, in combinato disposto con l’art. 141 c.p.c., comma 1”, nonchè “motivazione contraddittoria”.

Il ricorrente, con una prima censura, imputa alla sentenza impugnata di avere erroneamente ritenuto che il Comune non potesse avvalersi della notifica a mezzo dei messi comunali per il sol fatto che il tentativo di una precedente notifica a mezzo posta non era andato a buon fine, a motivo che il principio di residualità dell’utilizzo dei messi comunali sancito dalla L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, imponeva comunque che il Comune, prima di trasmettere l’atto ai messi comunali, dovesse provvedere alla notifica presso lo studio del difensore domiciliatario.

Il Comune contesta questo assunto perchè, a suo avviso, il citato art. 10, comma 1 – ai sensi del quale “le pubbliche amministrazioni possono avvalersi per le notifiche dei propri atti, dei messi comunali, qualora non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o alle forme di notificazione prevista dalla legge” – prevedrebbe due ipotesi alternative fra loro, come emergerebbe dall’uso della disgiuntiva “o”. Per cui, posto che la notifica a mezzo posta non era andata a buon fine, il Comune avrebbe legittimamente fatto ricorso ai messi comunali.

p.2.1. D’altro canto – e l’argomento integra una seconda censura parametrata ad una ulteriore motivazione del Tribunale – il carattere meramente facoltativo della notificazione presso il domicilio eletto, comportando che nel non effettuarla il Comune non avesse violato alcuna norma, escludeva – ad avviso dello stesso ricorrente – la violazione, pure ritenuta dal Tribunale, della disciplina del trattamento dei dati sensibili.

p.3. I primi due motivi del ricorso possono esaminarsi congiuntamente, essendo strettamente connessi tra loro.

Va considerato che il Tribunale ha giustificato l’assunto che la notificazione, per evitare di incorrere in responsabilità, doveva farsi al domicilio eletto nella fase amministrativa, con una motivazione alternativa, che correttamente viene censurata dai due motivi con riferimento ai suoi due termini.

L’alternatività delle due motivazioni comporta che l’eventuale riconoscimento della fondatezza di una di esse, renderebbe irrilevante l’altra e, per tale ragione, precluderebbe comunque la cassazione della sentenza impugnata, ma semmai comporterebbe solo la correzione della motivazione sbagliata.

Ciò, naturalmente, prescindendo dalla terza ulteriore motivazione, oggetto della seconda censura del secondo motivo.

p.3.1. Tanto premesso, ritiene il Collegio che la prima motivazione esposta dalla sentenza impugnata a giustificazione dell’obbligatorietà della notificazione al domicilio eletto, cioè quella – criticata dal primo motivo – secondo cui l’elezione di domicilio nella fase amministrativa del procedimento sanzionatorio avrebbe comportato l’effetto di determinare una domiciliazione ai sensi dell’art. 170 c.p.c., nel successivo procedimento contenzioso di opposizione all’ordinanza-ingiunzione, non appare fondata.

In tanto va osservato che, in mancanza di una norma che attribuisca alla domiciliazione, effettuata dal preteso responsabile nel procedimento amministrativo che prelude all’emanazione dell’ordinanza- ingiunzione ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, effetti per il successivo procedimento contenzioso e, dunque nel silenzio della legge in proposito, non è in alcun modo possibile sostenere una simile estensione di effetti. Non è, dunque, possibile argomentare una valenza ai sensi dell’art. 170 della domiciliazione fatta nella fase amministrativa, in ragione di una previsione di una sua estensione al successivo eventuale processo. Estensione che, al contrario, l’avvalorerebbe.

Ne segue che la domiciliazione fatta nel procedimento in fase amministrativa ha valore solo come tale e, quindi, per esso.

Ne consegue che come fattispecie di domiciliazione essa va ricondotta solo alla norma generale sull’elezione di domicilio, quella dell’art. 141 c.p.c..

p.3.1.1. Aggirare il dato della mancata previsione della detta estensione osservando lapidariamente che “quello in esame sarebbe un procedimento contenzioso”, come ha fatto il Tribunale, è un’operazione assolutamente priva di base normativa per l’assorbente ragione che il processo in tema di sanzioni amministrative secondo la citata legge è costruito come processo di impugnazione di un atto amministrativo qual è l’ordinanza-ingiunzione, che è manifestazione di un caso di giurisdizione esclusiva (anche su interessi legittimi) dell’A.G.O. ai sensi dell’art. 113 Cost., u.c., e dunque come processo oppositivo.

Come tale il processo nasce e la giurisdizione comincia con il ricorso in opposizione.

Anteriormente vi è solo un procedimento di carattere amministrativo, sebbene a contenuto c.d. giustiziale, ma ad esso non possono applicarsi i principi in tema di notificazione alla parte costituita tramite difensore nel processo.

Il Tribunale ha, dunque, errato nel postularlo.

p.3.1.2. Nè il suo avviso trova giustificazione in Cass. n. 16882 del 2006, che ha richiamato in modo del tutto anodino, ma concerne fattispecie in alcun modo apparentabile a quella di cui è processo, atteso che si trattava di ipotesi di notifica dell’ordinanza ingiunzione nulla non perchè eseguita presso un domicilio eletto nel procedimento amministrativo, bensì perchè eseguita in un luogo non costituente la residenza dell’ingiunto (ma in cui l’atto era stato consegnato alla sua madre), in situazione nella quale alla P.A. la sua residenza risultava per averla egli indicata nel ricorso amministrativo: nella specie la Corte ha ritenuto, peraltro, che la nullità fosse rimasta irrilevante in quanto l’ingiunto aveva proposto tempestiva opposizione.

p.3.1.3. Ne segue che deve affermarsi che la fattispecie dell’elezione di domicilio in sede di memoria depositata ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 1, non può in alcun modo essere ricondotta all’ambito di disciplina di cui all’art. 170 c.p.c., ma deve essere ricondotta all’ambito dell’art. 141 c.p.c., e, quindi, il domicilio eletto rappresenta, conforme a tale norma, solo un luogo possibile di notificazione dell’ordinanza-ingiunzione.

p.3.2. Peraltro, proprio tale riconduzione dell’elezione di domicilio nel procedimento giustiziale che precede l’emanazione dell’ordinanza all’art. 141 c.p.c., non può considerarsi nella specie irrilevante, come pretenderebbe il Comune.

Essa costituisce certamente, una volta effettuata, un dato che la P.A. deve tenere presente nel procedere alla notificazione dell’ordinanza-ingiunzione, le cui forme sono determinate innanzitutto per relationem dalla L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 4, il quale rinvia all’art. 14 della legge, e, quindi, dal sesto comma, che prevede la possibilità di ricorrere alla notificazione a mezzo posta.

Ora, il quarto comma dell’art. 14 (che si occupa della notificazione della contestazione della violazione nell’ambito del procedimento amministrativo), nel suo secondo inciso, dopo che nel primo ha disposto l’applicazione delle disposizioni vigenti, prevede che la P.A. possa in ogni caso procedere alla notificazione, sebbene anche tramite un suo funzionario (e, dunque senza ricorrere all’ufficiale giudiziario), nelle forme previste dal codice di procedura civile.

Ebbene, qualora nell’ambito del procedimento amministrativo il preteso responsabile abbia eletto domicilio, come nella specie, tra le forme di notificazione previste dal codice di procedura civile per il tramite dell’art. 14 rientra certamente, quale forma di notificazione facoltativa possibile, per non essere esistente, secondo il testo dell’art. 141 c.p.c., un caso di domiciliazione vincolante ed obbligatoria all’effetto della notificazione, proprio quella al domicilio eletto.

Essa anzi assume anche un certo tendenziale carattere preferenziale alla stregua di un agire della P.A. improntato a trasparenza, lealtà e imparzialità, dato che il responsabile ha certamente manifestato una preferenza per interloquire con la stessa P.A..

p.3.3. Tale connotazione, peraltro, non giustifica, però, una sua obbligatorietà, come s’è già detto.

p.3.4. Il Comune, e si viene all’esame del secondo motivo quanto alla sua prima censura, non era, d’altro canto, obbligato – come invece ha ritenuto il Tribunale – dalla L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, ad esperire anche la notificazione presso il detto domicilio prima di ricorrere alla notificazione tramite i messi.

Deve, infatti, ritenersi che la semplice lettura della norma evidenzia che, come prospetta il ricorrente, per poter ricorrere a quella particolare forma di notifica è sufficiente che anche una sola delle altre possibili forme di notifica non sia andata a buon fine, come fa manifesto la disgiuntiva “o”.

E’ sufficiente, cioè, perchè ci si possa avvalere dei messi a norma della L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, o che sia tentata la notificazione a mezzo posta o che si siano tentate le altre forme di notificazione previste dalla legge, ma non è necessario che si siano prima praticate entrambe le alternative.

Il Comune avrebbe, dunque, certamente potuto avvalersi dei messi anche soltanto dopo aver tentato la notificazione presso il domicilio eletto, quale forma di notificazione prevista dalla legge, ma, poichè nel caso di specie aveva tentato già la notifica a mezzo posta, era abilitato a far ricorso ai messi comunali senza prima tentare la pur possibile forma di notificazione prevista dalla legge, di ci all’art. 141 c.p.c..

Il secondo motivo, quanto alla prima censura, sarebbe, dunque, fondato.

p.3.5. Va rilevato a questo punto che la fondatezza del primo motivo in ordine all’applicabilità dell’art. 170 c.p.c., e quella del secondo motivo quanto alla prima censura concernente le condizioni di notificazione tramite i messi comunali, non giustificano, tuttavia, la cassazione della sentenza, atteso che il Tribunale, oltre a spendere le due ragioni criticate dal primo motivo e dalla prima censura del secondo motivo, ne ha enunciato un’altra, che non solo è idonea a giustificare l’avere ravvisato nel comportamento del Comune una condotta di violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, ai fini risarcitori, ma, a monte risulta criticata in modo del tutto privo di pertinenza con la motivazione e del tutto generico nell’argomentazione svolta nel secondo motivo.

Ha osservato il Tribunale che “altresì il principio di correttezza stabilito dall’art. 4 codice privacy ed il carattere di dato sensibile delle informazioni contenute nell’atto notificando imponevano al Comune di optare senz’altro in prima battuta per la notifica nel domicilio eletto, ossia quello scelto dal trasgressore perchè più rispondente alle proprie esigenze; tra l’altro nella specie il luogo del domicilio eletto era lo studio del difensore, massima garanzia di riservatezza. La scelta del Comune per un procedimento di notifica più defatigante e complesso non ha alcuna giustificazione, considerato che la comunicazione al difensore era pure quella che garantiva la massima probabilità di successo e che in precedenza il Comune aveva scelto proprio queste modalità per la comunicazione di un atto. La violazione invocata pertanto sussiste sotto il profilo della mancata notifica al domicilio eletto, e comporta la responsabilità del Comune ai sensi dell’art. 15 cod. privacy”.

Ebbene con tale motivazione il Tribunale ha in realtà aggiunto alle altre due motivazioni criticate con il primo motivo e con la prima censura del secondo motivo, un’ulteriore motivazione del tutto autonoma, tendente a ravvisare nel comportamento del Comune, rappresentato dal non essersi avvalso della notificazione presso il domicilio eletto, pur in ipotesi facoltativa, una condotta riconducibile ad un illecito trattamento di dati personali, come tale riconducibile alla fattispecie risarcitoria di cui all’art. 15 citato.

p.3.5.1. Ora, nella parte finale dell’illustrazione del secondo motivo tale terza autonoma motivazione viene criticata semplicemente assumendo che, una volta escluso il carattere obbligatorio della notificazione presso il domicilio eletto, la facoltatività della notificazione presso di esso escluderebbe la responsabilità del Comune perchè non sarebbe “stata violata alcuna norma”.

La critica appare del tutto generica e tanto integra inammissibilità della censura, giusta il seguente principio di diritto. “Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 c.p.c., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo”. (Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi).

p.3.5.2. In ogni caso, se la censura in esame si ritenesse ammissibile, la critica non coglierebbe nel segno ed essa sarebbe infondata.

Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, afferma la responsabilità per danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali ai sensi dell’art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose.

Tale norma, com’è noto, consente di sottrarsi all’obbligo risarcitorio soltanto provando di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

Sulla portata e sul significato del rinvio operato dall’art. 15, è sorto un dibattito tra gli interpreti, fra chi sostiene che così si sia qualificato il trattamento dei dati personali come una attività pericolosa e chi invece reputa che ci sia limitati a richiamare per tale forma di responsabilità la regola probatoria sancita dall’art. 2050.

Si discute, poi, sulla natura della responsabilità ex art. 15 citato, ma per l’orientamento maggioritario si tratterebbe di una responsabilità extracontrattuale.

In disparte tali problematiche, che non è necessario affrontare, interessa allora rilevare che, nella giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass. n. 8457 del 2004), per la sussistenza di una responsabilità ai sensi dell’art. 2050 c.c., il danneggiato si deve limitare a provare l’evento di danno e il nesso di causalità tra l’attività ed esso, spettando invece all’esercente dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

Applicando questi principi alla fattispecie che si giudica si devono svolgere i seguenti rilievi.

p.3.5.3. Nella vicenda in questione il Comune di Montecatini Terme, per sottrarsi all’obbligo risarcitorio, avrebbe dovuto dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

A questo scopo non è sufficiente dimostrare, come pure il Comune ha fatto e deve ritenersi, che la notifica a mezzo dei messi comunali era consentita (per essere stata tentata la notificazione a mezzo posta) e che quella al domicilio eletto non era obbligatoria, ma sarebbe stato necessario altresì dimostrare che non si poteva ricorrere ad alcun altra forma di notifica, che, seppur non imposta dalle leggi in materia, avrebbe consentito, più adeguatamente rispetto alla notifica a mezzo dei messi comunali, di evitare il danno derivante dal trattamento dei dati sensibili, ricollegabile alla propalazione del contenuto dell’oggetto della violazione sanzionata con l’ordinanza-ingiunzione.

Quest’altra possibile forma di notifica nel caso di specie c’era ed era rappresentata dalla pur facoltativa, ma pur sempre possibile e pienamente lecita, notifica al domicilio eletto dal M. presso il proprio legale. Infatti, sebbene tale forma di notifica non fosse obbligatoria, giacchè non trovava applicazione, al caso di specie, come s’è già detto, l’art. 170 c.p.c., e la L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, non la rendeva necessaria prima dell’avvalimento dei messi comunali di Buonabitacolo, era però una forma di notificazione possibile ai sensi dell’art. 141 c.p.c., comma 1.

L’avere il Comune scelto di non praticarla lo pone in una condizione per cui deve escludersi ed anzi è conclamato che il suo comportamento non si è affatto concretato nell’aver “adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” ai sensi dell’art. 2050 c.c..

Ciò, per l’assorbente ragione che la cautela da osservarsi dal Comune, quale titolare del trattamento di dati personali, nella gestione della pratica amministrativa in relazione al contenuto della violazione contestata, gli imponeva, alla stregua direttamente dell’art. 2050 c.c., di esperire anche, prima di ricorrere ai messi, la notificazione al domicilio eletto.

E’ appena il caso di considerare che nel caso di specie non può trovare applicazione il principio affermato di recente dalle Sezioni Unite, secondo cui in tema di protezione dei dati personali non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale, giacchè detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47, allorquando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo (così Cass. sez. un. n. 3034 del 2011). Infatti nel caso di specie viene in considerazione un’ipotesi di trattamento dei dati personali che è avvenuta nell’ambito di un non di un processo bensì all’esito e nell’ambito di un procedimento amministrativo, che come si è detto non può assimilarsi ad un processo in senso proprio.

p.4. Conclusivamente, poichè la seconda censura proposta dal secondo motivo è gradatamele inammissibile e infondata, là dove critica la motivazione della sentenza circa l’attribuzione di rilevanza alla mancata notificazione presso il domicilio eletto del carattere di comportamento rilevante ai fini della configurazione della fattispecie di trattamento illecito fonte di danno, la natura di motivazione autonoma dell’avviso del Tribunale oggetto della censura stessa, rispetto alle altre due motivazioni criticate con il primo motivo e con la prima censura del secondo, rende irrilevante la fondatezza di questi ultimi, sì che è solo giustificata la corrispondente correzione delle altre due motivazioni nei sensi sopra indicati, ma la sentenza impugnata non può cassarsi (art. 384, ultimo comma, c.p.c.).

p.5. Con il terzo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione art. 2043 c.c.. Inesistenza del nesso eziologico tra mancata esecuzione della notifica al domicilio eletto e evento dannoso (notifica ordinanza alla madre del M. non in busta chiusa.”, nonchè “Insufficiente e contraddittoria motivazione”.

Vi si censura la sentenza impugnata per non avere considerato la assoluta mancanza di nesso eziologico tra la mancata esecuzione della notifica al domicilio eletto e la notifica effettuata dai messi di altro Comune a mani della madre del ricorrente. Questo perchè, come detto dallo stesso Tribunale, la notifica dell’atto non in busta chiusa a persona diversa al destinatario “è avvenuta per il mancato rispetto da parte del messo comunale delle forme che il novellato art. 138 c.p.c., pone a carico dell’organo notificante e non del richiedente la notifica alla cui organizzazione il messo di altro Comune è estraneo”. Erroneamente il Tribunale, pur dando atto di ciò (avendo ritenuto domanda nuova la prospettazione che già il Comune qui ricorrente avesse trasmesso l’incarto “aperto”), avrebbe affermato la responsabilità del Comune di Montecatini Terme, reputando che “il vizio di forma di una notifica non è evento assolutamente imprevedibile ma rientra nel novero di eventi con una certa probabilità di verificazione”. In tal modo il Tribunale avrebbe attribuito al Comune la responsabilità di un comportamento altrui e quindi, avrebbe affermato la responsabilità senza ricorrenza di nesso causale.

p.5.1. Ebbene, la motivazione enunciata dal Tribunale palesa che quel giudice in buona sostanza non ha considerato il fatto dei messi comunali di Buonabitacolo (erroneamente ricondotto all’art. 138 c.p.c., senza rilievo dell’errore da parte del ricorrente: in realtà la norma cui il Tribunale intende fa riferimento e che sarebbe stata violata dai messi è chiaramente quella dell’art. 137 c.p.c., comma 4, inserito dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 174) come un concausa efficiente sopravvenuta, avente i requisiti del caso fortuito, cioè quelli della eccezionalità ed imprevedibilità, ed idonea, dunque, da sola a causare l’evento recidendo il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, cioè il trattamento dei dati personali concretatosi nell’avere il Comune omesso di far ricorso alla notificazione presso il domicilio eletto nello svolgimento dell’attività procedimentale amministrativa diretta a sanzionare il M.. Il Tribunale ha, cioè, ritenuto che il principio causa causae est causa causati, cioè l’inserirsi nella serie causale originata dall’attività procedimentale sanzionatorio del Comune di Montecatini Terme della mancata notificazione, pur possibile e cautelativamente imposta dall’art. 2050 c.c., non fosse stato nel caso di specie eliso dal verificarsi di un comportamento certamente inosservante della norma dell’art. 138 c.p.c., da parte dei messi notificatori del Comune di Buonabitacolo.

p.5.2. Ora, della motivazione in tal senso enunciata dal Tribunale, il ricorrente non si fa carico e tanto varrebbe ad evidenziare l’inammissibilità del motivo, che avrebbe dovuto articolarsi, ponendo una quaestio iuris nella necessaria attività argomentativa di come il ragionamento seguito dal Tribunale stesso contenesse un error iuris sui principi regolatori del nesso causale in relazione alla fattispecie dell’art. 2050 c.c. (norma riguardo alla quale la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare il seguente principio di diritto: “In tema di illecito aquiliano, perchè rilevi il nesso di causalità tra un antecedente e l’evento lesivo deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un antecedente necessario dell’evento, (nel senso che questo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto), e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sè idoneo a determinare l’evento.

Ne consegue che, anche nell’ipotesi in cui l’esercente dell’attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità ex art. 2050 c.c., la causa efficiente sopravvenuta che abbia i requisiti del caso fortuito (eccezionalità ed oggettiva imprevedibilità) e sia idonea, da sola, a causare l’evento, recide il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, producendo effetti liberatori anche quando sia attribuibile al fatto del danneggiato stesso o di un terzo”: così Cass. n. 8457 del 2004

In disparte il rilievo di inammissibilità (che così sarebbe giustificato alla stregua di Cass. n. 359 del 2005, perchè non si critica nella sostanza la motivazione della sentenza impugnata), il Collegio osserva comunque che la valutazione della Tribunale appare anche corretta in quanto il nesso causale, allorquando taluno si avvalga, nel caso di specie sulla base di una previsione di legge, di altri per il compimento di un’attività non risulta interrotto dalla tenuta da parte dell’ausiliario di un comportamento semplicemente inosservante delle norme che doveva osservare nel compimento dell’attività commessagli, occorrendo all’uopo, per spezzare il nesso causale, che egli si sia posto, con un’attività di natura illecita, su un piano di antigiuridicità. Tale principio trova applicazione anche in un caso come quello di specie in cui a giovarsi dell’attività dell’ausiliare è stata una struttura amministrativa, nell’esercizio di un potere amministrativo, sebbene controllabile dalla giurisdizione ordinaria, quale quello di sanzione della violazione delle norme amministrative.

Poichè nell’attività dei messi modificatori del Comune di Buonabitacolo non si configura dunque e comunque non è stato nemmeno allegato che si configuri alcuna attività illecita, tanto giustifica la conclusione che nella specie il nesso causale bene è stato ritenuto esistente dal Tribunale.

D’altro canto, se si volesse configurare invece nel comportamento dei messi de quibus, quali titolari, per effetto dell’incarico del Comune ricorrente, di un trattamento, un illecito ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, si dovrebbe comunque ritenere che il non avere il Comune provato, come era suo onere ai sensi dell’art. 2050 c.c., di avere raccomandato ai messi di osservare l’art. 137 c.p.c., comma 4, (raccomandazione che, nel momento in cui il Comune correva il rischio del mancato utilizzo della notifica al domicilio eletto, tanto più presso un legale, il che evidenziava la particolare importanza della vicenda per il M.), non sottrarrebbe il Comune comunque, in forza di tale duplice condotta omissiva a diretta responsabilità, sebben concorrente con quella dei messi, verso il M..

p.5.3. Il motivo è pertanto inammissibile e gradatamente infondato.

p.6. Con un quarto motivo si fa valere “violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, art. 2050 c.c., artt. 113, 115 e 116 c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c., mancata prova del danno, errato ricorso ai criteri di qualificazione equitativa del danno”, nonchè “Insufficiente contraddittoria motivazione”.

Il ricorrente censura la sentenza gravata per avere violato i principi fondamentali dell’onere della prova – a carico dell’attore – in ordine al previo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico tra l’attività e l’evento dannoso ed ancor prima in ordine alla sussistenza vera e propria del danno, la cui dimostrazione incombe sempre e comunque sul danneggiato.

In realtà, tuttavia, la doglianza imputa alla sentenza impugnata di avere riconosciuto un danno senza che ne fosse stata dimostrazione ed è questa la censura che si mostra adeguata alla motivazione della stessa.

p.6.1. Il motivo è fondato sotto tale profilo.

La motivazione della sentenza impugnata, che viene ripresa dal ricorrente, ha avuto il seguente tenore: “Venendo alla quantificazione del danno, deve rilevarsi che i profili di pregiudizio concreto all’immagine ed alla reputazione del ricorrente sono stati per lo più mero flatus vocis, non corroborato da alcun riscontro. Il ricorrente ha sostenuto che la madre non fosse al corrente dell’infrazione contestata al M., che l’intero municipio di Buonabitacolo e poi forse l’intera cittadina fossero venuti a conoscenza del fatto. Nulla risulta al riguardo dal’istruttoria. Certamente al momento della notifica la madre non era a conoscenza dell’esito infausto del procedimento (non lo era neppure il figlio), certamente i messi comunali di Buonabitacolo hanno preso conoscenza del fatto. Questi ultimi peraltro sono soggetti tenuti al segreto d’ufficio e quindi sino a prova contraria non vi è stata propagazione della notizia all’esterno del loro ufficio. Il limitato pregiudizio accertato i concreto per il ricorrente a fronte di un’indubbia seria violazione alla tutela dei dati sensibili da parte di soggetto della qualità di Ente Pubblico, induce a stimare congrua ed equa riparazione la somma di Euro 5.000,00 oltre interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo”.

p.6.2. Ebbene, anche se il Tribunale non l’ha detto espressamente deve ritenersi che il danno che ha ritenuto esistente sia un danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., cioè “un danno determinato la lesione di interessi inerenti la persona non connotate da rilevanza economica” (Cass. Sez. Un. n. 26972 del 2008), dato che l’art. 15, comma 2, del D.Lgs. prevede espressamente la risarcibilità del danno di cui a detta norma con specifico riferimento all’ipotesi dell’art. 11, del D.Lgs. e in aggiunta alla risarcibilità normale dei danni scaturente dalla qualificazione della responsabilità alla stregua dell’art. 2050 c.c..

Ora, secondo la citata decisione delle Sezioni Unite anche il danno non patrimoniale dev’essere dimostrato, dato che costituisce danno conseguenza.

Esso, dunque, dev’essere allegato dal danneggiato e, quindi, da lui provato. Il danno di cui all’art. 15, non si può, dunque, identificare nell’evento dannoso, cioè nell’illecito trattamento dei dati personali, ma occorre che si concreti in un pregiudizio della sfera non patrimoniale di interessi del danneggiato.

Il danno riconosciuto dal Tribunale, come fa manifesto il riferimento ad una indubbia seria violazione dei dati sensibili, risulta, invece, essere stato identificato proprio nell’illecito trattamento.

Tanto è sufficiente a giustificare la cassazione della decisione impugnata.

Il Tribunale avrebbe dovuto individuare il danno non patrimoniale sofferto dal M. come conseguenza dell’illecito trattamento, mentre non lo ha fatto ed anzi ha mostrato di non ritenerlo necessario.

Emerge anzi dalla motivazione che il Tribunale ha ravvisato e dato per esistente una situazione delle allegazioni del M. che palesava l’assoluta mancanza di elementi idonei ad evidenziare la verificazione del danno non patrimoniale, tanto che non si palesa la necessità di un rinvio.

Invero, una volta considerato che la previsione della risarcibilità del danno non patrimoniale supposta dal legislatore in relazione ad un trattamento illecito di dati si correla ad un danno che deve essere risentito dalla persona come tale e che è identificabile in danni comunque correlati ad aspetti del modo di essere della persona ricollegati in primo luogo alla lesione di diritti fondamentali, come il diritto all’immagine, alla reputazione e all’onore (per le implicazioni no patrimoniali della loro lesione), che pure possono essere lesi dall’illecito trattamento, nonchè all’attitudine del fatto dannoso costituito dal trattamento illecito a comportare anche un patema, una sofferenza psichica al danneggiato, si deve prendere atto di quanto che il Tribunale ha detto sostanzialmente inesistenti e non dimostrati i danni all’immagine ed all’onore ed alla reputazione. Si deve, dunque, reputare che abbia riconosciuto il danno non patrimoniale alla stregua dell’art. 2059 c.c., che ha provveduto a liquidare equitativamente, soltanto identificandolo nella sofferenza da percezione dell’illecito trattamento come idoneo a propalare i dati sensibili.

Ne segue che sarebbe stato essenziale dimostrare in che termini la percezione della propalazione od anche del pericolo di essa da parte del M. si era verificata.

Poichè dal silenzio della sentenza impugnata emerge che il M. non si è preoccupato di dimostrare alcunchè al riguardo, cioè circostanze idonee ad evidenziare una sofferenza ricollegabile all’illecito trattamento, come conseguenza della percezione della vicenda risultante dall’atto notificato da parte della madre o di altri parenti e del paventare la possibile incidenza sul diritto di visita del figlio nel procedimento di separazione che il M. aveva detto pendente (come emerge dalla sentenza nell’esposizione del fatto), si deve ravvisare che un rinvio sarebbe del tutto inutile, in mancanza di apporti istruttori valutabili ed esperibili, dato il carattere chiuso del giudizio di rinvio.

D’altro canto, è vero che l’unico elemento certo risultante dall’istruzione, cioè che i messi sicuramente avevano preso conoscenza del contenuto dell’atto notificato, è stato considerato dal Tribunale privo di influenza, con una motivazione – quella dell’essere i medesimi vincolati al segreto d’ufficio – di più che dubbia validità, se non altro perchè anche il rischio di una violazione di tale segreto era pur sempre esistente, ma non v’è traccia di un’attività dimostrativa del M. idonea a dimostrare, anche per presunzioni, che la percezione di tale possibilità sarebbe stata fonte di patema.

A tacer d’altro, il M. avrebbe potuto, per esempio, dedurre prova per testi in ordine all’esistenza di un suo stato di disagio, di patema, di sofferenza a causa della vicenda.

L’assenza totale di attività probatoria, lo si ribadisce, induce a ravvisare i presupposti per decidere nel merito, non occorrendo accertamenti di fatto per evidenziarsi il mancato assolvimento dell’onere della prova circa il danno conseguenza.

p.6.3. In tale situazione il Collegio ritiene, dunque, inutile cassare con rinvio e deve prendere atto, pronunciando nel merito, che il M., pur essendo sussistito un illecito trattamento di dati personali da parte del Comune ricorrente, non risulta aver adempiuto all’onere di provare il danno conseguenza ai sensi dell’art. 2059 c.c., sotto l’unico aspetto cui il Tribunale l’ha – per quanto s’è detto – correlato e liquidato equitativamente, quello del patema e della sofferenza derivanti dai rischi della possibile propalazione dei dati.

La domanda dev’essere, pertanto, rigettata.

p.7. L’oggettiva novità e delicatezza delle questioni esaminate integra gravi ed eccezionali ragioni per la compensazione delle spese per tutti i due gradi di giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso per quanto di ragione.

Rigetta i primi tre motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, pronunciando nel merito, rigetta la domanda di M.E.. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 22 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2014


Agenzia per l’Italia Digitale: Circolare 66 del 4 settembre 2014

circolare_n._66_del_4_settembre_2014


Corso formazione/aggiornamento Tortona (AL) – Venerdì 24.10.2014

LA NOTIFICA ON LINE

Venerdì 24 ottobre 2014

Comune di Tortona

Teatro Civico

Sala Ridotto

Via Ammiraglio Mirabello 3

Orario:  9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00

con il patrocinio del Comune di Tortona AL

Quote di partecipazione al corso:

€ 132,00(*) (**) se il partecipante al Corso è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2013 con rinnovo anno 2014 già pagato al 31.12.2013. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
€ 202,00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2014 pagando la quota insieme a quella del Corso. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
€ 272,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo il Corso (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

Partecipazione di 2 o più dipendenti dello stesso Ente:

  • € 200,00 (*) (**) (***) per il primo partecipante
  • € 150,00 (*) (**) (***) per il secondo partecipante
  • € 65,00 (*) (**) (***) per il terzo e oltre partecipante
  • Tali quote comprendono l’iscrizione all’Associazione per l’anno 2015 a cui si deve aggiungere € 2,00 (Marca da Bollo) sull’unica fattura emessa.

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali,   comprensive  dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria del Corso

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Corso Tortona 2014 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art.10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – comprensivo di  € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se il corso si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

Lombardi Giuseppe

  • Resp. Servizio Notifiche del Comune di Alessandria
  • Membro del Consiglio Generale  di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Programma:

Il Messo Comunale

· Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

· Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti

· Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie

· Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

· Concetto di dimora, residenza e domicilio

· Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi

· La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010

· Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario

· Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica

· Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti

· Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale

· Ambito di applicazione della L. 890/1982

· Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

· Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

· Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)

· La PEC

· La firma digitale

· La notificazione a mezzo posta elettronica

· “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)

· Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

· Il D.P.R. 600/1973

            L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973

            L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)

· Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.

· L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

· La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

· Le raccomandazioni del Garante della privacy

· Il diritto “all’oblio”

 

Risposte a quesiti

Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)

Nota bene: Qualora l’annullamento dell’iscrizione venga comunicato meno di cinque giorni prima dell’iniziativa, l’organizzazione si riserva la facoltà di fatturare la relativa quota, anche nel caso di non partecipazione al Corso.

Vedi: Attività di formazione anno 2014

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE Tortona 2014

Vedi: Immagini del Corso di formazione

Vedi: Video del Corso di formazione

Scarica: Documentazione fiscale

  1. Dichiarazione DURC
  2. Dichiarazione sulla tracciabilità dei pagamenti, L. 136/2010
  3. Documento d’Identità personale del Legale Rappresentante di A.N.N.A.
  4. Dichiarazione sostitutiva del certificato generale del casellario giudiziale e dei carichi pendenti
  5. Dichiarazione relativa alla fase di liquidazione delle fatture di competenza

Corso formazione/aggiornamento Ancona – giovedì 16.10.2014

LA NOTIFICA ON LINE

Giovedì 16 ottobre 2014

Comune di Ancona

Sala videoconferenze
della Ragioneria
Via Frediani 12

Orario:  9:00 – 13:00 e 14:00 – 17:00

con il patrocinio del Comune di Ancona

Quote di partecipazione al corso:

€ 132.00(*) (**) se il partecipante al Corso è già socio A.N.N.A. (persona fisica già iscritta all’Associazione alla data del 31.12.2013 con rinnovo anno 2014 già pagato al 31.12.2013. Tale requisito attiene esclusivamente alle persone fisiche. L’iscrizione ad ANNA del solo ente di appartenenza non soddisfa tale condizione per i propri dipendenti.
€ 202.00(*) (**) (***) se il partecipante NON è ancora socio A.N.N.A ma intende iscriversi per l’anno 2014 pagando la quota insieme a quella del Corso. Tra i servizi che l’Associazione offre ai propri Iscritti vi è anche l’accesso all’area riservata del sito www.annamessi.it ed un’assicurazione per colpa grave.
€ 302,00 più I.V.A se dovuta (*) (**), per chi vuole frequentare solo il Corso (NON è iscritto ad A.N.N.A. e NON vuole iscriversi).

Partecipazione di 2 o più dipendenti dello stesso Ente:

  • € 200,00 (*) (**) (***) per il primo partecipante
  • € 150,00 (*) (**) (***) per il secondo partecipante
  • € 65,00 (*) (**) (***) per il terzo e oltre partecipante
  • Tali quote comprendono l’iscrizione all’Associazione per l’anno 2015 a cui si deve aggiungere € 2,00 (Marca da Bollo) sull’unica fattura emessa.

La quota di iscrizione comprende: accesso in sala, colazione di lavoro e materiale didattico.

Le quote d’iscrizione dovranno essere pagate, al netto delle spese bancarie e/o postali,   comprensive  dell’imposta di bollo di € 2,00, tramite:

Versamento in Banca sul Conto Corrente Bancario:

  • Codice IBAN: IT 20 J 07601 12100 000055115356 [Banco Posta di Poste Italiane]
  • Versamento in Posta sul Conto Corrente Postale n. 55115356
  • Versamento per contanti presso la Segreteria del Corso

Intestazione : Associazione Nazionale Notifiche Atti
Causale: Corso Ancona 2014 o numero fattura
(*) Se la fattura è intestata ad un Ente Pubblico la quota è esente da IVA ai sensi ai sensi dell’Art.10 DPR n. 633/1972 così come dispone l’art. 14, comma 10 legge 537 del 24/12/1993 – comprensivo di  € 2,00 (Marca da Bollo)

(**) Le spese bancarie e/o postali per il versamento delle quote di iscrizione sono a carico di chi effettua il versamento.
(***) Se il corso si effettua negli ultimi 3 mesi dell’anno la eventuale quota di iscrizione all’Associazione A.N.N.A. deve intendersi versata per l’annualità successiva.

L’Associazione rilascerà ai partecipanti un attestato di frequenza, che potrà costituire un valido titolo personale di qualificazione professionale.

L’iscrizione al corso potrà essere effettuata anche on line cliccando sul link a fondo pagina cui dovrà seguire il versamento della quota di iscrizione al Corso.
I docenti sono operatori di settore che con una collaudata metodologia didattica assicurano un apprendimento graduale e completo dei temi trattati. Essi collaborano da anni in modo continuativo con A.N.N.A. condividendone così lo stile e la cultura.

Docente:

  • Resp. Servizio Notifiche dell’Unione Colline Matildiche (RE)
  • Membro della Giunta Esecutiva  di A.N.N.A.
  • Membro della Commissione Normativa di A.N.N.A.

Programma:

 Il Messo Comunale

· Obblighi e competenze e responsabilità

Il procedimento di notificazione

  • Art. 137 c.p.c.: norme introduttive sulla notificazione degli atti
  • Art. 138 c.p.c.: notificazione in mani proprie
  • Art. 139 c.p.c.: notificazione nella residenza, dimora e domicilio

· Concetto di dimora, residenza e domicilio

  • Art. 140 c.p.c. Notifica agli irreperibili relativi
  • La sentenza della Corte Costituzionale n. 3/2010
  • Art. 141 c.p.c. Notificazione presso il domiciliatario
  • Art. 142 c.p.c. Notificazione a persone non residenti né dimoranti né domiciliate nella Repubblica
  • Art. 143 c.p.c. Notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuti
  • Art. 145 c.p.c. Notificazione alle persone giuridiche

La notificazione a mezzo posta “tradizionale

  • Ambito di applicazione della L. 890/1982
  • Attività del Messo Comunale e attività dell’Ufficiale Postale

Le notifiche degli atti pervenuti tramite P.E.C.

  • Art. 137, 3° comma, c.p.c.: problemi applicativi

La notificazione a mezzo posta elettronica

  • Art. 48 D.Lgs 82/2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale)
  • La PEC
  • La firma digitale
  • La notificazione a mezzo posta elettronica
  • “Legge di Stabilità” 2013 (L. 228/2012)
  • Art. 149 bis c.p.c.

La notificazione degli atti tributari

  • Il D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 60 del D.P.R. 600/1973
  •             L’Art. 65 del D.P.R. 600/1973 (Eredi)
  • Le notifiche ai soggetti A.I.R.E.
  • L’Art. 26 del D.P.R. 602/1973 e sentenza della Corte Costituzionale 258/2012

Casa Comunale

  • · La consegna degli atti presso la Casa Comunale (al destinatario ed a persone delegate)

Cenni sull’Albo on Line

  • Le raccomandazioni del Garante della privacy

· Il diritto “all’oblio”

 Risposte a quesiti

Gli argomenti trattati si intendono aggiornati con le ultime novità normative e giurisprudenziali in materia di notificazioni

L’Associazione provvederà ad effettuare l’esame di idoneità per le persone che verranno indicate dall’Amm.ne, al fine del conseguimento della nomina a Messo Notificatore previsto dalla legge finanziaria del 2007 (L. 296/2006, Art. 1, comma 158 e ss.)

Nota bene: Qualora l’annullamento dell’iscrizione venga comunicato meno di cinque giorni prima dell’iniziativa, l’organizzazione si riserva la facoltà di fatturare la relativa quota, anche nel caso di non partecipazione al Corso.

Vedi: Attività di formazione anno 2014

Scarica: MODULO DI PARTECIPAZIONE Ancona 2014

Vedi: Immagini del Corso di formazione

Vedi: Video del Corso di formazione

Scarica: Documentazione fiscale

  1. Dichiarazione DURC
  2. Dichiarazione sulla tracciabilità dei pagamenti, L. 136/2010
  3. Documento d’Identità personale del Legale Rappresentante di A.N.N.A.
  4. Dichiarazione sostitutiva del certificato generale del casellario giudiziale e dei carichi pendenti
  5. Dichiarazione relativa alla fase di liquidazione delle fatture di competenza

 


Legittimo il rifiuto del dipendente comunale di prestare servizio al di fuori dell’orario di lavoro

Vanno annullate le sanzioni disciplinari irrogate al dipendente comunale per il suo rifiuto di prendere parte a riunioni del Consiglio comunale indette in orario serale, dunque fuori dall’orario di lavoro contrattualmente previsto.

E’ quanto afferma la Corte di Cassazione spiegando che a seguito della c.d. privatizzazione del pubblico impiego, salvo ipotesi specifiche (si pensi, ad esempio, ai vigili del fuoco o ai magistrati) ai dipendenti pubblici è estesa la normativa inerente il rapporto di lavoro privato.

Per tale motivo non è possibile costringere il dipendente a prestare ore di straordinario senza il suo consenso, salvo che vi siano accordi espressi tra dipendente e datore di lavoro o si tratti di una situazione di eccezionale gravità e urgenza.

Nel caso di specie il dipendente ha provato che tali riunioni sarebbero avvenute con regolarità in orari serali e, in assenza di specifici accordi con il dirigente preposto all’organizzazione e al funzionamento dell’ufficio comunale, lo stesso dipendente si sarebbe dapprima prestato a tali mansioni per poi successivamente rifiutarsi.

A nulla è valsa la difesa comunale, la quale faceva riferimento a un interesse pubblico superiore all’espletamento delle funzioni, al fine di salvaguardare il buon andamento dell’azione amministrativa: la Suprema corte ha avallato la decisione del giudice di merito confermando l’estensione applicativa dei principi di matrice civilistica, tra cui il generale dovere di correttezza e buona fede – ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. – che nel caso di specie non è stato rispettato dalla pubblica amministrazione.

Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, Sentenza 04 agosto 2014, n. 17582

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata ili data 8 gennaio 2008, la Corte d’appello di Genova, in riforma della pronuncia di rigetto di primo grado, ha dichiarato illegittima la pretesa del Comune di Z. di ottenere la prestazione lavorativa del dipendente E.L., avente la qualifica di “esecutore amministrativo – messo, durante le riunioni del Consiglio comunale fissate in ore serali e quindi fuori dal normale orario di lavoro, ed ha annullato le sanzioni disciplinari inflitte alla dipendente per non aver partecipato a tali riunioni, condannando altresì il Comune a titolo risarcitorio al pagamento della somma di € 258,22, per spese sostenute dalla dipendente per la difesa in via amministrativa.

La Corte di merito ha osservato che, in mancanza di una disciplina specifica, era applicabile il D. Lgs. n. 66/03, art. 5, comma 3, che richiama testualmente il R.D. n. 692/23, art. 5, secondo cui “in difetto di disciplina collettiva il lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra le parti che nella specie la pretesa del Comune dì ottenere dalla dipendente prestazioni aggiuntive non rientrava tra le obbligazioni contrattualmente assunte dalla medesima, onde il rifiuto da costei opposto non risultava illegittimo; che dì conseguenza erano anche illegittime le sanzioni disciplinari; che infine era fondata la richiesta di risarcimento del danno, costituita dagli esborsi sostenuti dalla dipendente per la difesa tecnica in sede disciplinare, come da documentazione prodotta.

Per la cassazione di questa sentenza ricorre il Comune di Z. sulla base di nove motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ. La dipendente resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 5 D. Lgs. n. 165 del 2001, deduce che i potere di richiedere ai propri dipendenti l’effettuazione di lavoro straordinario rientra fra le facoltà attribuite alla pubblica amministrazione dalle disposizioni anzidette, che si estrinsecano attraverso atti e determinazioni organizzative al fine di assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa.

2. Con il secondo motivo il ricorrente, nel denunziare violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 3, D. Lgs. n. 66 del 2003, lamenta che la Corte di merito abbia fatto applicazione di tale disposizione, non considerando che essa era inapplicabile ratione temporis, essendo i fatti in questione avvenuti in data anteriore.

3. Con il terzo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 5 bis R.D. n. 692/1923, il ricorrente deduce che, secondo tale disposizione, il ricorso al lavoro straordinario, salvo diversa previsione del contratto collettivo, è possibile, tra l’altro, nei casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori. Nella specie la convocazione del Consiglio comunale nelle ore serali costituiva una eccezionale esigenza, dettata dal consentire ai consiglieri “di dedicarsi durante il giorno allo svolgimento delle proprie attività lavorative”.

4. Con il quarto motivo, denunciando omesse motivazione circa un punto decisivo della controversia, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, nel rigettare la domanda, non ha valutato se effettivamente sussistesse l’esigenza del Comune di svolgere le sedute del Consiglio comunale nelle ore serali.

5. Con il quinto motivo il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 16 D.P.R. n. 268/97, che ha recepito il relativo accordo collettivo, deduce che la Corte di merito non ha considerato che, secondo la anzidetta disposizione, la prestazione di lavoro straordinario è disposta sulla base delle esigenze di servizio individuate dall’Amministrazione, attribuendo dunque a questa il potere di imporre lo straordinario, anche a prescindere dal consenso del pendente.

6. Con il sesto motivo, denunziando omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, il ricorrente rileva che in passato la lavoratrice aveva assicurato, nelle medesime circostanze, la sua presenza in servizio. Non poteva dunque manifestare, nelle sedute per cui è controversia, la sua indisponibilità in assenza di valide ragioni che giustificassero tale condotta.

7. Con il settimo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 414 cod. proc. civ., il ricorrente deduce che la dipendente, con il ricorso introduttivo, aveva chiesto dichiararsi illegittima la richiesta del Comune di avvalersi delle sue prestazioni per le sedute ordinarie del Consiglio comunale. Successivamente, in grado di appello, ha esteso inammissibilmente la domanda anche alle sedute straordinarie.

8. Con l’ottavo motivo, denunziando contraddittoria motivazione, il ricorrente rileva che erroneamente, la sentenza impugnata, in relazione al motivo precedente, ha ritenuto che il riferimento, nel ricorso in appello, alle sedute straordinarie costituisse una puntualizzazione delle precedenti conclusioni. La dipendente era ben in grado, quale impiegata amministrativa, di distinguere le riunioni ordinarie da quelle straordinarie.

9. Con il nono motivo il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1227 cod. civ., 91 cod. proc. civ., lamenta che erroneamente la sentenza impugnata ha riconosciuto il risarcimento dei danni per gli esborsi sostenuti dalla dipendente per la difesa tecnica in sede I disciplinare, essendo tale difesa conseguente ad una libera scelta della dipendente medesima, la quale avrebbe potuto avvalersi dell’assistenza sindacale.

10. I motivi che precedono, ad eccezione del quarto, sesto e ottavo, che denunziano vizi di motivazione, si concludono con il quesito di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ., non più in vigore, ma applicabile ratione temporis.

11. Il primo motivo è inammissibile, atteso che il ricorrente non formula alcuna censura, limitandosi a richiamare disposizioni di legge, delle quali non esplicita le ragioni della loro asserita violazione.

12. I motivi, dal secondo all’ottavo, che per ragioni di connessione vanno esaminati congiuntamente, non sono fondati.

Deve premettersi, ai fini della individuazione della normativa applicabile che, come risulta dagli scritti difensivi delle parti, i fatti per cui è controversia sono anteriori al marzo 2000, onde sono inapplicabili le disposizioni successive a tale data.

Al riguardo, nulla prevedono i decreti legislativi n. 29 del 1983 e n. 80 del 1998, recanti disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche.

Il richiamo fatto dall’art. 2 di entrambi i decreti alle “leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa” ai fini della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, comporta che anche ai dipendenti degli enti locali deve applicarsi, in materia di orario di Lavoro, il R.D. 15 marzo 1923 n. 692, art. 5 bis» nel testo di cui al D.L. 29 settembre 1998 n. 335, convertito, con modificazioni, nella legge 27 novembre 1998 n. 409.

Ed infatti, il D.P.R. n. 268 del 1987, che ha recepito la disciplina prevista dagli accordi sindacali per il triennio 1985- 1987 relativo al personale per il comparto degli enti locali, prevede, al primo comma, che le prestazioni di lavoro straordinario sono rivolte a fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali e non possono essere utilizzate come fatto ordinario di programmazione del tempo di lavoro e di copertura dell’orario di lavoro, mentre il secondo comma stabilisce che la prestazione di lavoro straordinario è disposta sulla base delle esigenze individuate dall’amministrazione, rimanendo esclusa ogni forma generalizzata di autorizzazione.

Tali disposizioni, come rilevato dalla Corte di merito, sono rivolte agli amministratori ed appaiono finalizzate a limitare il ricorso al lavoro straordinario ai fini del contenimento della spesa pubblica. In tal senso deve intendersi il richiamo alle “situazioni di lavoro eccezionali” ed alle “esigenze di servizio individuate dall’amministrazione”, in mancanza della previsione di un obbligo, per il dipendente, dello svolgimento di lavoro straordinario

Parimenti alcun obbligo per il dipendente è previsto dal CCNL 1994-1997 per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali, il quale detta disposizioni in materia di ore settimanali di lavoro e di articolazione dell’orario di lavoro, nonché dal successivo CCNL 1998-2001 dello stesso comparto, il quale si limita a dettare previsioni in ordine alle risorse finanziarie utilizzabili per il lavoro straordinario e per il contenimento dello stesso, fissando il limite annuale massimo di 180 ore.

13. Posto dunque che nella specie trova applicazione l’art. 5-bis del R.D. n. 692 del 1923, nel testo di cui all’art. 1 D.L. n. 335 del 1998, convertito, con modificazioni nella lege n. 409 del 1998 – disposizione questa riprodotta dal D. Lgs. 8 aprile 2003 n. 66, art. 5, emanato in attuazione delle direttive CE, non applicabile ratione temporis – deve osservarsi che il predetto art. 5-bis dispone, al secondo comma, che il ricorso al lavoro straordinario deve essere contenuto e che, “in assenza di disciplina ad opera dei contratti collettivi nazionali”, esso “è ammesso soltanto previo accordo tra datore e prestatore di lavoro”.

Aggiunge al secondo comma, che il ricorso al lavoro straordinario “è inoltre ammesso, salvo diversa previsione del contratto collettivo”, tra l’altro, nei “casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori.

Deduce il ricorrente che, in base a tali disposizioni la dipendente non avrebbe potuto sottrarsi all’espletamento del lavoro straordinario, essendo dettata la convocazione serale del Consiglio comunale da una “eccezionale esigenza”, dovendo i consiglieri contemperare la funzione da loro esercitata con le esigenze di lavoro.

Senonché, a prescindere che l’art. 5-bis sopra citato fa riferimento alle “imprese industriali (primo comma) e ai “casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impassibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori (terzo comma, lettera a)), tale disposizione non esclude la prestazione del consenso da parte del lavoratore, disponendo che il ricorso al lavoro straordinario è ammesso “soltanto” previo accordo tra datore e prestatore di lavoro ed “inoltre” in casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive. L’uso di tale ultimo avverbio, in luogo della locuzione “in ogni caso”, evidenzia che, oltre all’imprescindibile consenso del prestatore di lavoro, occorre anche la sussistenza delle esigenze anzidette, peraltro non fronteggiabili attraverso l’assunzione di altri lavoratori.

Deve aggiungersi che, anche a voler interpretare la disposizione in esame nel senso prospettato dal ricoprente, nella specie la Corte di merito ha accertato, con valutazioni non sindacabili in questa sede, che le convocazioni in orario serale erano divenute la regola e non erano quindi dettate da esigenze straordinarie ed occasionali. Il rifiuto della dipendente, il cui orario di servizio era dalle ore 7,30 alle 13,30 e che nelle precedenti occasioni aveva assicurato la sua presenta durante le sedute del Consiglio comunale non risultava pertanto illegittimo.

Al riguardo questa Corte ha affermato che, anche nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva prevede la facoltà, per il datore di lavoro, di richiedere prestazioni straordinarie – non è il caso in esame -, l’esercizio di tale facoltà deve essere esercitato secondo le regole di correttezza e di buona fede, poste dagli arti. 1175 e 1375 cod. civ., nel contenuto determinato dall’art. 41, secondo comma, Cost. (cfr. Cass. 5 agosto 2003 n. 11821; Cass. 7 aprile 1982 n. 2161 nonché Cass. 19 febbraio 1992 n. 2073, la quale ha escluso la configurabilità dell’illecito disciplinare in relazione al rifiuto da parte del lavoratore di riprendere servizio dopo circa otto ore dalla fine del turno notturno per svolgere lavoro straordinario, non essendo la relativa richiesta giustificata da esigenze aziendali assolutamente prevalenti).

Alla stregua di tutto quanto precede ed in applicazione, anche, dei principi generali in materia di obbligazioni contrattuali, ed in particolare dell’alt. 1374 cod. civ., secondo cui il contratto obbliga le parti all’esecuzione di quanto è espresso nel medesimo, oltre che alle conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità, i motivi in esame devono essere rigettati, dovendosi escludere che il datore di lavoro potesse imporre alla dipendente lo svolgimento del lavoro straordinario.

13. La statuizione che precede assorbe la censura relativa alla modifica delle conclusioni di primo grado., nelle quali La lavoratrice aveva fatto riferimento alle sole riunioni “ordinarie”.

Peraltro, anche tale censura è priva di fondamento, in quanto, da un lato, la Corte di merita – alla quale spetta la interpretazione della domanda – ha ritenuto che il richiamo alle riunioni “ordinarie” dovesse intendersi riferito alla convocazione “in via normale” delle riunioni in orario serale; dall’altro perché il ricorrente non ha chiarito quali fossero, ai fini che qui rilevano, le differenze tra riunioni ordinarie e straordinarie, una volta che entrambe avvenivano nelle ore serali e che solo per tale motivo la dipendente non ha assicurato la presenza.

14. Infondato è, infine, l’ultimo motivo, avendo La dipendente, come risulta dalla sentenza impugnata, documentato gli esborsi sostenuti per la difesa tecnica, esborsi che, in quanto dipendenti dalla illegittima applicazione delle sanzioni disciplinari, la Corte di merito ha correttamente ritenuto che dovessero essere posti a carico dell’odierno ricorrente, a titolo risarcitorio.

15. Il diverso esito dei giudizi di merito e l’obiettiva difficoltà delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese tra le parti.


SINDACALI ON-LINE: nuovi orizzonti con la tecnologia digitale

Le nuove frontiere dei diritti sindacali on line: comunicazioni sindacali, teleassemblea, referendum on line, bacheca sindacale digitale.

1. Premessa

La realizzazione delle libertà costituzionali trova nello sviluppo inesorabile delle tecnologie informatiche nuove modalità esplicative. L’evoluzione digitale comporta naturalmente l’affacciarsi di effetti espansivi dei diritti fondamentali, ma contemporaneamente patologie e diversioni. Questo vale in particolare modo nel campo dei diritti dei lavoratori ove l’evoluzione tecnologica si raffronta, da una parte, ad una consistente produzione normativa indirizzata alla flessibilità e modernizzazione dei rapporti di lavoro, dall’altra alla convivenza con normative basiche ultraquarantennali i cui istituti vanno riportati alle condizioni attuali di progresso informatico. A tutto questo si aggiunge il dato giurisprudenziale che rappresenta la cartina di tornasole del raffronto tra tali Diritti e le Nuove Tecnologie, oltre che il moto primario d’impulso per la realizzazione di nuove previsioni normative, regolamentari e contrattuali. La tematica della tutela della riservatezza e del suo confronto con i poteri di indirizzo e controllo datoriali costituisce per certo un asse primario cui sottende il contenzioso del lavoro a livello di giurisdizione ordinaria e di attività del Garante. Da questi elementi, si può giungere ad una prima definizione di “diritto sindacale elettronico”, di un diritto sindacale e dell’esplicitarsi dei suoi principali istituti che si realizza in via elettronica delle varie fattispecie: ciò attraverso la revisione degli istituti tradizionali, l’analisi della naturale intrusività e pervasività dello strumento informatico, le possibilità evolutive dal lato della regolamentazione e della contrattazione, la panoramica di buone pratiche già sperimentate a livello normativo ed organizzativo. Le attuali dinamiche esplicative di una garanzia prevista nello Statuto dei Lavoratori (SdL) come quella del divieto del controllo a distanza, trova connotati impensabili per il legislatore del ’70, tali da richiedere interpretazioni estensive della norma che tengano conto del livello della tecnologia, della normativa sovrappostasi negli anni e delle tendenze spesso divergenti manifestatesi in autorità giurisdizionali e non. Ed allora in primo luogo la normativa sulla tutela della riservatezza e la sua evoluzione nel corso della sua vigenza quasi ventennale, dalla legge 675/1996 al dlgs.196/2003, si pone a stretto confronto con le vicende del potere di controllo datoriale sul lavoratore in ordine alle prestazioni ed alla fedeltà. Dal lato del diritto sindacale tali dinamiche si traducono nei limiti apponibili all’attività quanto alle comunicazioni, alle adesioni ed al proselitismo, alla navigazione ai fini informativi e conoscitivi. Limiti che vengono a cozzare direttamente con l’art.14 dello SdL il quale stabilisce che l’attività sindacale può essere svolta anche all’interno dei luoghi di lavoro, che la libertà di fruire del diritto di svolgere attività sindacale è riconosciuta a tutti i lavoratori e che conseguenzialmente il datore di lavoro non può limitare l’esercizio delle libertà sindacali all’interno dell’azienda opponendo il proprio diritto di proprietà o altri diritti relativi alla disponibilità dei beni aziendali.

2. Comunicazioni sindacali

Per esse si intendono sia le comunicazioni generali della sigla ai lavoratori, sono i veri e propri “comunicati” rivolti a tutti i lavoratori oppure agli iscritti, sia le comunicazioni particolari tra sigla e lavoratore o gruppi di lavoratori. Per le prime assume un ruolo centrale la bacheca sindacale on-line alla cui argomentazione si rinvia, ma per esse e per le comunicazioni particolari si vuole analizzare il ruolo e l’utilizzo della posta elettronica aziendale, oggetto di numerose controversie giudiziarie. In primo luogo ci si chiede se il rappresentante sindacale possa utilizzare la casella di posta elettronica aziendale per le comunicazioni ai lavoratori. Il dipendente rappresentante sindacale può inviare, utilizzando il suo indirizzo personale di posta elettronica, comunicazioni sindacali a mezzo di e-mail ai dipendenti della società durante il loro orario di lavoro e al loro indirizzo aziendale di posta elettronica: deve ritenersi che l’attività di invio o di ricezione di comunicazioni sindacali attraverso la posta elettronica possa equipararsi all’attività di volantinaggio, che rientra nell’ambito della libertà sindacale concessa a qualunque organizzazione presente in azienda – non vedendosi in cosa consista la differenza tra la materiale consegna ai dipendenti di volantini stampati sul luogo di lavoro e l’invio agli stessi, anche sulla loro posta elettronica aziendale, di una e-mail avente identico contenuto – attività di volantinaggio che, come noto, è di per sé lecita in quanto non arrechi pregiudizio alla normale attività aziendale. L’e-mail quindi non é altro che la traduzione in formato digitale dell’ormai desueto “volantino”.

Nulla da eccepire poi, in ordine all’utilizzo della posta elettronica tra rappresentante sindacale e datore di lavoro: le comunicazioni tra le parti possono avvenire per posta elettronica e costituisce condotta antisindacale -ex art.28 dello SdL – l’inflizione di sanzioni al lavoratore che rappresenta via e-mail vicende a rilevanza sindacale all’azienda durante l’orario di lavoro (Cass. lav. sentenza n.1568 del 27.04.2012). Quanto alla possibilità di comunicazione tra lavoratori e rappresentanze sindacali a livello particolare, come ad esempio segnalazioni, reclami per finalità di sensibilizzazione o di denuncia, messa a conoscenza di atti documenti e comportamenti antisindacali, le fattispecie concrete che si realizzano risultano molto più problematiche per gli interessi che vi si contrappongono: tutela sindacale dei diritti del lavoratore e, contemporaneamente, dal lato datoriale, ottemperanza agli obblighi di fedeltà e lealtà del lavoratore e tenuta del rapporto fiduciario con l’azienda. In tal caso l’utilizzo di posta elettronica aziendale stride fortemente con le finalità di denuncia dei contenuti e pone il lavoratore sicuramente di fronte a maggiori rischi

3. Tele-assemblea

Il diritto di assemblea si colloca nell’ambito dello Statuto dei Lavoratori come diritto di convocare l’assemblea e come diritto del lavoratore di parteciparvi con la previsione, modificabile in estensione dai contratti collettivi, di 12 ore annue. Il diritto si sostanzia nella messa a disposizione da parte del datore di lavoro di idonei locali per le riunioni e nella necessità che tale disponibilità sia richiesta dai soggetti sindacali: nella predetta richiesta devono essere individuati la sede, l’orario, l’ordine del giorno e l’eventuale partecipazione di dirigenti sindacali esterni. Alla congruità della richiesta sotto il profilo temporale e logistico sussegue la necessaria giustificazione di un eventuale rifiuto della parte datoriale

L’insistenza degli aspetti digitali per quanto riguarda tale diritto investe da un lato le comunicazioni, dall’altro l’effettuazione dell’assemblea come tale. Innanzitutto le comunicazioni scritte: l’e-mail può senz’altro sostituire il documento cartaceo. Sorge però il dubbio se il crisma dell’ufficialità debba essere reso, dal lato del richiedente, attraverso una mail certificata con l’applicazione della firma digitale nell’atto sindacale e, altrettanto dal lato dell’azienda o dell’amministrazione, con il pervenimento ad una casella di posta elettronica certificata: questo ai fini della certezza della provenienza dell’e-mail e del tempo di trasmissione. Ferma restando la sovrapponibilità perfetta di tale modello alle previsioni normative di cui agli artt.21-24-48 del dlgs. 82/2005, che sanciscono la validità formale e la piena opponibilità a terzi delle comunicazioni, è necessario riflettere sulla validità del mezzo della posta elettronica ordinaria che vieppiù viene utilizzata in questa fase all’interno dell’ente anche per i molteplici destinatari della comunicazione che rendono problematica una trasmissione in via cartacea (direttore generale, dirigente al personale, dirigenti dei vari settori o servizi, responsabili della logistica e della sicurezza e ovviamente i lavoratori). Se la richiesta proviene dall’indirizzo di posta elettronica ordinaria del dipendente-rappresentante sindacale vi è certezza circa la provenienza, nell’ipotesi che questo sia stato attribuito personalmente con indicazione del nominativo e accesso riservato con password, ma non vi è certezza rispetto al tempo di trasmissione e al pervenimento della mail. In altri termini in caso di mancata risposta, la parte datoriale potrebbe opporre sempre il mancato pervenimento della mail medesima poiché non è dimostrabile giuridicamente il contrario. Ancora più incerto appare il caso della trasmissione dall’indirizzo di posta elettronica dell’organizzazione sindacale poiché in questo caso anche l’identificazione del mittente non rende certezza analogamente a quanto avviene per il mittente interno a meno che l’organizzazione Sindacale non disponga di indirizzi PEC. In ogni caso la dimostrata omissione della parte datoriale costituisce condotta antisindacale. Nella pratica la soluzione per parte delle sigle è quella di affidare, quando si agisce attraverso un rappresentante interno, il documento in cartaceo direttamente al protocollo informatico affinché, attraverso la protocollazione medesima e l’acquisizione ottica, si possa avere certezza di ricezione e consequenzialmente di circolazione ufficiale verso i vari destinatari interni in via digitale.

Altra soluzione, sicuramente meno “artigianale” di quella testé analizzata è quella dell’utilizzo della bacheca sindacale elettronica come modalità comunicativa basica tra rappresentanze dei lavoratori e parte datoriale. Tutto ciò dal lato della certezza giuridica delle comunicazioni in generale, dal verso delle previsioni contrattuali sono necessarie norme che recepiscano l’utilizzo dello strumento informatico-telematico come mezzo primario per le comunicazioni medesime. Veniamo ora all’effettuazione dell’assemblea: i sistemi di videoconferenza costituiscono realtà consolidata a livello aziendale da più di venti anni. Lo sviluppo di Internet e di applicativi per riunioni virtuali ha esteso macroscopicamente l’utilizzo di tali strumenti con notevoli risparmi di costi e di tempi. Oggi sono disponibili oltre che prodotti a pagamento anche applicativi gratuiti che permettono la realizzazione di riunioni on line con molteplicità di partecipanti: sotto questo punto di vista v’è da citare l’esempio di Skype che si presta a riunioni in videoconferenza, Google Hangouts, suite di applicazioni di produttività che consentono di condividere lo schermo, collaborare in Google Documenti e guardare insieme presentazioni e grafici, Open Meetings che permette di creare un proprio profilo utente, e partecipare sia alle stanze pubbliche, sia creare una stanza privata cui invitare esclusivamente i contatti che si desidera (tramite e-mail) oppure farsi invitare a autentiche sale riunioni, il programma si interfaccia con la propria webcam e/o microfono.

I profili di utilità ed i limiti di tali tecnologie si intrecciano con le vicende giuridiche che ne possono inerire. Innanzitutto vanno evidenziati innegabili limiti interattivi derivanti dalla natura e complessità delle relazioni sindacali e delle dinamiche tra rappresentanti e rappresentati, tali da non rendere tali mezzi assolutamente sostitutivi delle assemblee de visu, ma sicuramente ausilio alternativo, finalizzato all’estensione massima della partecipatività, soprattutto in realtà aziendali o amministrative frammentate e territoriali. Dal lato giuridico vi è da analizzare il profilo autorizzatorio da parte del soggetto datore di lavoro: la messa a disposizione di idonei locali viene sostituita in tali termini nella possibilità di utilizzo di “suite” telematiche.

L’utilizzo di tali programmi di condivisione per assemblee sindacali in rete dovrebbe essere in ogni caso realizzabile. Ciò, naturalmente entro i termini temporali dell’assemblea stessa: d’altra parte avverrebbe con le stesse modalità con le quali tali strumenti, come si è detto prima perlopiù gratuiti, vengono utilizzati per riunioni di lavoro vere e proprie. Sull’utilizzo di applicativi di teleconferenza con licenza proprietaria dell’azienda, e quindi poiché tecnologicamente più avanzati sicuramente più fruibili, sorgono maggiori dubbi: perché l’azienda dovrebbe mettere a disposizione delle rappresentanze uno strumento di lavoro sul quale ha investito risorse economiche proprie? Ma allora perché l’azienda dovrebbe mettere a disposizione locali idonei al suo interno per le assemblee, quando i locali sono stati realizzati anch’essi con risorse economiche proprie per finalità lavorative? Seguendo il filo del ragionamento i locali e le suites telematiche rappresentano sotto forma diversa la stessa cosa ed un utilizzo limitato nel tempo, giustificato dai diritti del lavoratore e non di ostacolo rispetto al primario utilizzo lavorativo (il sistema non è un bene “consumabile”) risulta plausibile. L’ultimo aspetto di opposizione dal lato datoriale è quello dei costi della connessione. Limitati, se si pensa ai costi oggi bassissimi di accesso in rete e non raffrontabili rispetto ai costi di gestione di locali per assemblee. Molto interessante è poi dal lato della tutela del lavoratore quello della riservatezza e non accessibilità da parte del datore di lavoro di queste “teleassemblee”: si estendono per tale ipotesi le fattispecie di tutela della riservatezza ed il divieto generale dei controlli a distanza previsti quanto alle comunicazioni sindacali ed alle mail aziendali. Va detto in conclusione che l’assemblea sindacale on-line non è una chimera irrealizzabile ma, già attuabile con i mezzi a disposizione, può conoscere un’estensione progressiva con gli sviluppi esponenziali della telematica. Sotto tale punto di vista, come è avvenuto ed avviene in tutti i settori dall’impresa al commercio, dalla società civile alla pubblica amministrazione, dovrà essere il diritto a inseguire, con ormai usuale ritardo, lo sviluppo telematico.


Riunione Giunta Esecutiva del 06.09.2014

Ai sensi dell’art. 13 dello Statuto, viene convocata la riunione della Giunta Esecutiva che si svolgerà sabato 6 settembre 2014 alle ore 7:00 presso il Comune di Padova – Prato della Valle 98, in prima convocazione, e alle ore 9:00 in seconda convocazione, per deliberare sul seguente ordine del giorno:

  1. Approvazione e ratifica adesioni all’Associazione 2014;
  2. Attività formativa 2014/2015;
  3. Varie ed eventuali.

Leggi: Verbale GE 06 09 2014


Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 08-05-2014) 29-07-2014, n. 4021

Si deve ritenere precluso alla P.A. fondare il provvedimento conclusivo su ragioni del tutto nuove rispetto a quelle rappresentate nella comunicazione ex art. 10-bis legge 241, pena la violazione del diritto dell’interessato di effettiva partecipazione al procedimento, che si estrinseca nella possibilità di presentare le proprie controdeduzioni utili all’assunzione della determinazione conclusiva dell’ufficio. L’obbligo dell’Amministrazione inerente al contraddittorio partecipativo non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dall’interessato, essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione dell’Amministrazione alle deduzioni difensive del privato

Leggi: Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 08-05-2014) 29-07-2014, n. 4021


Cons. Stato Sez. IV, Sent., 16-07-2014, n. 3735

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2005 del 2014, proposto da:
P.M., rappresentato e difeso dall’avv. Riccardo Marone, con domicilio eletto presso Luigi Napolitano in Roma, via Sicilia. 50;
contro
Consiglio Superiore della Magistratura, Ministero della Giustizia, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti di
G.C., rappresentato e difeso dagli avv. Filippo Lattanzi, Francesco Cardarelli, con domicilio eletto presso Filippo Lattanzi in Roma, via G.P. Da Palestrina,47;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE I n. 01126/2014, resa tra le parti, concernente attribuzione ad altro magistrato delle funzioni di Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consiglio Superiore della Magistratura e di G.C. e di Ministero della Giustizia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 maggio 2014 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Riccardo Marone, l’avvocato dello Stato Giustina Noviello e Francesco Cardarelli;
Svolgimento del processo
1. Con l’appello in esame, il dott. P.M. impugna la sentenza 29 gennaio 2014, con la quale il TAR per il Lazio, sez. I, ha dichiarato irricevibile il suo ricorso proposto avverso il Provv. 2 maggio 2012, con il quale il Consiglio Superiore della Magistratura ha nominato il dott. G.C. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli.
Il Tribunale – rilevato che il dott. C. non si è costituito in giudizio – ha innanzi tutto chiarito, in fatto, quanto segue:
– il ricorso è stato inizialmente spedito per la notifica a mezzo posta al dott. C. “presso la sede della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli”, ma “non risulta che l’atto sia stato consegnato personalmente al C.”;
– un secondo originale, spedito per la notifica tramite ufficiale giudiziario, è stato notificato il 17 luglio 2012 a mani del canc. Esposito Raffaele;
– sempre il 17 luglio 2012, il difensore del dott. M. ha chiesto al CSM ed al Ministero della Giustizia “la residenza del dott. G.C., essendo la stessa riservata, in considerazione della carica rivestita dallo stesso dott. C., ai fini della notifica del ricorso in qualità di controinteressato”;
– il successivo 26 luglio 2012, il CSM rappresentava al difensore di non poter fornire i dati richiesti, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, potendo esso comunicare solo l’indirizzo dell’ufficio giudiziario di servizio;
– in data 21 ottobre 2013, il difensore del dott. M. – confermato che il rifiuto di fornire i dati di residenza del dott. C. era stato ribadito il 14 settembre 2012 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli – chiedeva al Presidente del TAR di “ordinare alle amministrazioni di fornirgli l’indirizzo del controinteressato . . . ovvero, in via gradata, qualora dovesse ritenere prevalente l’interesse del controinteressato alla riservatezza e sicurezza personale, voglia autorizzare il ricorrente a notificare il ricorso e i motivi aggiunti tramite forme alternative di notifica”. Ciò sempre che, in primis, non fosse stata ritenuta rituale la notifica effettuata presso l’ufficio del dott. C. (come invece sostenuto dal ricorrente).
La sentenza impugnata – anche richiamando conforme giurisprudenza – afferma, in particolare:
– la notificazione di un atto giudiziario, ex art. 139 c.p.c., presso il luogo ove l’interessato lavori alle dipendenze di altri, deve avvenire a mani proprie, potendosi derogare a questa regola solo in presenza di un ufficio “creato, organizzato e diretto per la trattazione degli affari propri” dal medesimo interessato;
– ne consegue che è da ritenere inammissibile per nullità della notificazione, il ricorso che sia stato notificato al controinteressato, presso l’ufficio ove questi presti attività per effetto di un rapporto di lavoro dipendente, ma non nelle sue mani bensì in quelle di altro dipendente della medesima amministrazione;
– nel caso di specie, “le peculiarità del caso concreto possono scusare l’omessa tempestiva notifica, ma non possono evidentemente modificare il precetto che la disciplina”, di modo che “la notifica effettuata dal difensore del M. presso la Procura della Repubblica è sicuramente nulla, quali che possano essere i concreti motivi che hanno indotto ad effettuarla in tal forma”;
– al caso di specie non risulta applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa (in base al quale “il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla”), poiché trova invece applicazione l’art. 143 c.p.c., che regola la materia della notificazione agli irreperibili;
– anche a ritenere “non conferente” tale ultima disposizione, il M. avrebbe dovuto attivarsi innanzi al giudice prima della scadenza del termine decadenziale, “affinché questi, se lo avesse ritenuto, autorizzasse ex art. 51 cpa e 151 c.p.c., che la notificazione al controinteressato fosse eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”.
Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) error in iudicando; violazione art. 139, co. 2 c.p.c.; ciò in quanto deve ritenersi corretta la notifica effettuata presso l’ufficio, ma non a mani proprie dell’interessato, essendo sufficiente che, in questo caso, esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto, gravando inoltre sulla parte che eccepisce la irregolarità della notifica la prova della mancanza di tale rapporto. Nel caso di specie, l’atto è stato notificato a mani del direttore di cancelleria della Procura di Napoli e avrebbe dovuto essere la parte (Avvocatura dello Stato) a dimostrare l’inesistenza del rapporto tra funzionario più alto in grado della Procura e Procuratore;
b) error in iudicando; violazione e falsa applicazione art. 44, co. 4, Cpa. Ciò in quanto: per un verso, non è invocabile nel caso di specie l’art. 51 Cpa, che riguarda il terzo che il giudice ritiene utile far intervenire in giudizio e non il controinteressato; per altro verso, che non è previsto che la parte debba fare l’istanza al giudice di essere autorizzata a forme diverse di notifica entro il termine decadenziale di sessanta giorni; per altro verso ancora, non risulta applicabile l’art. 143 c.p.c., posto che il ricorrente non conosce né l’ultima residenza, né l’ultimo domicilio, né dove sia nato il dott. C.. Infine, risulta al contrario applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa.
Ciò premesso, l’appellante riporta i motivi di ricorso non esaminati dal giudice di I grado, per effetto della impugnata pronuncia di irricevibilità (pagg. 10 – 23 app.).
Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Giustizia ed il Consiglio Superiore della Magistratura, che hanno concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
Si è altresì costituito in giudizio il dott. G.C., che ha concluso anch’egli per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.
Motivi della decisione
2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente rimessione della causa al giudice di I grado ex art. 105 Cpa, per le ragioni di seguito esposte.
Il Collegio deve innanzi tutto confermare quanto sostenuto nella sentenza impugnata (e correlativamente rigettare il primo motivo di appello), con riferimento ai limiti della notificazione effettuata presso l’ufficio ove il dipendente pubblico rende la propria prestazione lavorativa.
Ed infatti, come affermato dal primo giudice, la notificazione di un atto giudiziario, ex art. 139 c.p.c., presso il luogo ove l’interessato lavori alle dipendenze di altri, deve avvenire a mani proprie, potendosi derogare a questa regola solo in presenza di un ufficio “creato, organizzato e diretto per la trattazione degli affari propri” dal medesimo interessato; e tale non può essere certamente considerato un ufficio pubblico.
Sul punto, questa Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi (Cons. Stato, sez. IV, 21 gennaio 2013 n. 328), con considerazioni dalle quali non vi è motivo di discostarsi nella presente sede:
“Nel processo amministrativo la regola generale è che la notificazione a persone fisiche è la consegna a mani proprie ex artt.3 R.D. n. 642 del 1907 e 137 e 138 c.p.c.
In particolare, sul versante strettamente processuale amministrativo, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che sia affetta da nullità la notificazione effettuata, come verificatosi nel caso de quo, nella sede di lavoro del destinatario ma non a mani proprie ( Cons. Stato Sez. .V 3 febbraio 2006; idem 25agosto2008 n.4078) .
Quanto poi alla possibilità di notificare il ricorso alla persona addetta all’ufficio, trattasi di ipotesi, per così dire derogatoria della regola sopra indicata, applicabile solo agli uffici privati”.
A fronte di ciò, occorre ritenere estranea ai compiti del personale dell’ufficio pubblico la ricezione di notifiche di atti giudiziari diretti ad altri pubblici dipendenti, pur incardinati nel medesimo ufficio, non essendovi alcun obbligo di portare detti atti a conoscenza degli interessati, né potendosi al contempo presumere che – in ragione di rapporti di “colleganza” o “dipendenza” gerarchica e/o funzionale – l’atto sia giunto nella sfera di conoscenza del suo effettivo destinatario.
Per le ragioni esposte, quindi, non può trovare accoglimento il I motivo di appello.
3. Risulta, invece, fondato il secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), con il quale l’appellante, lamentando la violazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, rileva:
– per un verso, che non è invocabile nel caso di specie l’art. 51 Cpa, che riguarda il terzo che il giudice ritiene utile far intervenire in giudizio e non il controinteressato;
– per altro verso, che non è previsto che la parte debba fare l’istanza al giudice di essere autorizzata a forme diverse di notifica entro il termine decadenziale di sessanta giorni;
– per altro verso ancora, che non risulta applicabile l’art. 143 c.p.c., posto che il ricorrente non conosce né l’ultima residenza, né l’ultimo domicilio, né dove sia nato il dott. C.; mentre risulta applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa.
La sentenza appellata ha ritenuto:
– che la notificazione effettuata presso l’ufficio sia nulla;
– che non risulti applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa, poiché, posto che “la residenza, la dimora ed il domicilio del C. erano, all’epoca, ignoti e non conoscibili”, occorre invece fare applicazione dell’art. 143 c.p.c., che regola la materia della notificazione agli irreperibili, procedura invece non osservata nel caso in esame;
– che, in ogni caso, anche a voler considerare applicabile il citato art. 44, co. 4, Cpa, l’”esito negativo della notificazione”, ivi indicato quale presupposto perché il giudice possa concedere un termine perentorio per rinnovarla ed impeditivo della decadenza, è stato causato anche dallo stesso M. che, entro il termine decadenziale di sessanta giorni, avrebbe dovuto attivarsi innanzi al giudice “affinché questi, se lo avesse ritenuto, autorizzasse ex art. 51 cpa e 151 c.p.c., che la notificazione al controinteressato fosse eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”.
Questo Collegio non ritiene di poter condividere le affermazioni della sentenza oggetto di impugnazione.
Il problema più generale che il caso di specie solleva consiste nello stabilire le forme da utilizzarsi nelle ipotesi in cui il destinatario della notificazione del ricorso giurisdizionale amministrativo (nella specie, controinteressato), in virtù di particolari circostanze – quali possono essere eccezionali ragioni di riservatezza, ovvero misure di protezione conseguenti alla delicatezza delle funzioni svolte – abbia una residenza o domicilio non già sconosciuti, bensì non comunicabili, da parte dell’amministrazione che ha emanato l’atto, a colui che contro l’atto medesimo intende esercitare il proprio diritto alla tutela giurisdizionale.
In tali ipotesi, dunque, a fronte dell’art. 41 Cpa che obbliga, a pena di decadenza, a notificare il ricorso giurisdizionale “ad almeno uno dei controinteressati, che sia individuato nell’atto stesso”, si pone una Pubblica Amministrazione che ha emanato l’atto, e che è certamente a conoscenza della residenza del soggetto contemplato dall’atto predetto (a maggior ragione, nel caso in cui questi sia un pubblico dipendente), la quale ritiene di non poter fornire i dati indispensabili (residenza) perché la notificazione possa avvenire.
Nel caso considerato, la residenza, la dimora o il domicilio – la cui mancata conoscenza è indicata dall’art. 143 c.p.c. a presupposto per la propria applicazione – sono ben conoscibili, proprio perché conosciuti dalla Pubblica Amministrazione emanante l’atto.
Ne consegue che non ricorre una ipotesi di mancanza assoluta di conoscenza – il che renderebbe applicabile l’art. 143 cit. – ma la ben diversa ipotesi di impossibilità di acquisizione della conoscenza del dato per rifiuto di comunicazione del medesimo da parte del soggetto (pubblico) che ne è in possesso.
E ciò si determina, per di più, nel caso di specie, per effetto del comportamento non già di un (qualsivoglia) soggetto terzo depositario di atti o dati il cui contenuto non ritiene di estendere al richiedente, quanto per rifiuto della stessa amministrazione emanante l’atto, e dunque, di una parte processuale necessaria dell’instaurando giudizio.
In definitiva, l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale di una parte viene in tal modo reso difficoltoso, se non impossibile, in conseguenza del comportamento tenuto da una parte del medesimo (instaurando) giudizio.
Al tempo stesso, ove si intendesse seguire il rito della notifica agli irreperibili, anche il diritto di difesa del controinteressato ne risulterebbe compresso, poiché questi non riceverebbe, in tal caso, direttamente e tempestivamente, copia dell’atto processuale nella propria sfera di conoscenza, posto che questo deve essere depositato, a seconda dei casi, “nella casa comunale dell’ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario” (art. 143, co. 1); ovvero presso l’ufficio del pubblico ministero (co. 2).
In definitiva, si intende affermare che l’art. 41 Cpa, nel momento in cui prevede, a pena di decadenza, la notificazione entro un termine perentorio del ricorso giurisdizionale ad almeno un controinteressato “che sia individuato nell’atto”, pone al tempo stesso un obbligo a carico della Pubblica Amministrazione emanante, di comunicare a chi intende ricorrere contro l’atto (e ne faccia richiesta) i dati essenziali concernenti il soggetto “individuato”, onde rendere possibile la notificazione del ricorso e, dunque, l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale, ex artt. 24 e 113 Cost.
Tali dati, peraltro, non risultano acquisibili dal ricorrente aliunde, posto che l’art. 1 L. 24 dicembre 1954, n. 1228 (Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente), se pur qualifica gli “atti anagrafici” come atti pubblici, per un verso non sottrae i medesimi alle regole generali disciplinanti l’accesso agli atti amministrativi ed i suoi limiti; per altro verso, richiede comunque, sul piano concreto, la conoscenza della residenza o del luogo di nascita dell’interessato, onde poter procedere alla ricerca ed alla richiesta dei dati medesimi.
Una conclusione diversa da quella innanzi esposta proporrebbe profili di possibile illegittimità costituzionale dell’art. 41 Cpa.
Ed infatti, diversamente opinando, si otterrebbe che, mentre, da un lato, tale norma impone un obbligo di notifica entro un termine decadenziale a pena di inammissibilità del ricorso, al soggetto individuato dall’atto amministrativo, dall’altro lato si esime l’amministrazione (parte processuale necessaria) dal rendere possibile l’adempimento dell’onere processuale previsto, in tal modo consentendo ad una controparte (appunto, la P.A.) di incidere sull’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dei propri atti. Ed allo stesso tempo verrebbe a determinarsi una categoria di atti (quelli contemplanti beneficiari i cui dati anagrafici non sono, in tutto o in parte, ostensibili), per i quali vi sarebbero condizioni di limitazione di tutela giurisdizionale, in violazione dell’art. 113, co. 2, Cost.
4. Il Collegio non esclude che l’amministrazione possa opporre giustificazioni (valide e/o ragionevoli, e dunque legittime), tali da fondare il dubbio sulla possibilità di comunicare i dati indispensabili per la notifica del ricorso, ovvero sulle quali fondare il rifiuto espresso di comunicazione di detti dati.
Ma questa ora descritta costituisce proprio una delle ipotesi rientranti nella astratta previsione dell’art. 44, co. 4, Cpa, in base al quale “nei casi in cui sia nulla la notificazione e il destinatario non si costituisca in giudizio, il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni decadenza”.
Tale disposizione del Codice del processo amministrativo ben può essere a sua volta integrata dall’art. 151 c.p.c., che consente al giudice di prescrivere “che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”, proprio valutando, tra l’altro, particolari esigenze di riservatezza del soggetto destinatario.
Ovviamente, perché possa trovare applicazione tale norma, occorre che il ricorrente abbia effettivamente dato luogo ad un tentativo di notificazione e che dimostri di avere effettuato quanto nelle sue possibilità, onde raggiungere lo scopo di una corretta vocatio in ius, e che ciò sia stato impedito da cause a lui non imputabili, come il rifiuto opposto dall’amministrazione di fornire dati, da essa conosciuti, idonei alla reperibilità del soggetto individuato dall’atto da essa emanato.
5. Nel caso di specie, il ricorrente dott. M. ha dato dimostrazione di avere effettuato quanto possibile per giungere ad una corretta notificazione del ricorso instaurativo del giudizio al controinteressato dott. C..
Ciò è affermato dalla stessa sentenza impugnata, laddove sottolinea (pag. 7), che le indagini espletate “possono ritenersi necessarie e sufficienti secondo l’ordinaria diligenza”.
In considerazione di ciò, e per le ragioni innanzi esposte, il primo giudice – come rilevato con il secondo motivo di appello – avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, non risultando applicabili né l’art. 143 c.p.c., né l’art. 51 Cpa (riguardante la diversa ipotesi dell’intervento iussu iudicis).
D’altra parte, ai fini della possibile applicazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, non occorre che il ricorrente si rivolga al giudice prima della scadenza del termine decadenziale, affinché questi possa disporre forme di notifica diverse: per un verso, tale condizione non è prevista dalla norma; per altro verso, essa risulterebbe non avere integrale riscontro fattuale, ben potendo la nullità della notifica (per ipotesi richiesta l’ultimo giorno utile) risultare solo a termine decadenziale spirato.
Per le ragioni esposte, ed in accoglimento del secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), occorre dichiarare, ai sensi dell’art. 105 Cpa, la nullità della sentenza impugnata (ritenendo tale domanda ricompresa nei motivi di appello innanzi indicati), per essere stata la medesima sentenza pronunciata a contraddittorio non integro (in violazione dell’art. 24 Cost.).
Ne consegue la rimessione della causa al giudice di I grado, innanzi al quale il processo sarà riassunto ai sensi dell’art. 105, co. 3, Cpa.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello proposto da M.P. (n. 2005/2014 r.g.):
a) accoglie l’appello, nei sensi di cui in motivazione;
b) per l’effetto, dichiara la nullità della sentenza impugnata e rimette la causa al giudice di I grado;
c) compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 maggio 2014 con l’intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Sandro Aureli, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 09-05-2014) 15-07-2014, n. 16133

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARLEO Giovanni – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28962/2008 proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TRE ((OMISSIS)), in persona del suo Magnifico Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTEZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato BERNARDI GIUSEPPE, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.M. ((OMISSIS)), M.P. ((OMISSIS)) e V.P. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato MONZINI MARIO, che li rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

CITTADINANZATTIVA ONLUS;

– intimato –

avverso la sentenza n. 14435/2008 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 02/07/2008, R.G.N. 21403/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/05/2014 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito l’Avvocato MARIO MONZINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – P.M., M.P. e V.P. proponevano ricorso D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, ex art. 152, per ottenere tutela del proprio diritto alla riservatezza, violato dall’illecito trattamento, ad opera della Università degli Studi Roma Tre, dei rispettivi dati personali.

In particolare, risultava possibile, oltre che attraverso l’indirizzo, inserito direttamente in Internet, ” (OMISSIS)”, anche con la sola digitazione del nome e cognome o soltanto il cognome sul motore di ricerca “Google”, avere accesso al file excel “(OMISSIS)”, recante il nominativo di 3.724 studenti specializzandi e/o ex studenti specializzati, tra cui quello dei ricorrenti, con evidenziazione dei relativi dati personali e cioè generalità, codice fiscale, attività di studio, posizione lavorativa e retributiva.

2. – Con sentenza resa pubblica il 2 luglio 2008, l’adito Tribunale di Roma accoglieva la domanda dei ricorrenti e cosi disponeva la cancellazione dal web dei dati personali ed identificativi dei medesimi, contenuti nel predetto file excel, inibendone la diffusione all’Università resistente, che condannava, altresì, al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dagli stessi attori, liquidati nella somma di Euro 3.000,00, oltre interessi legali, in favore di ciascuna parte.

Il Tribunale, ritenuto che la divulgazione delle informazioni personali dei ricorrenti risultava sproporzionata rispetto alle finalità proprie del trattamento, escludeva che gli stessi avessero subito un danno patrimoniale, mentre, quanto al danno non patrimoniale, pur essendo stato dedotto “il patema d’animo sofferto per rischio di possibili furti della propria identità, con la necessità di continui controlli”, riteneva non dimostrata “tale ultima circostanza”, riscontrando, però, a fondamento del liquidato pregiudizio, un “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione personale anche di carattere economico”.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’Università degli Studi di Roma Tre, affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi, illustrati da memoria.

Resistono con unico controricorso P.M., V.P. e M.P..

Motivi della decisione
1. – Preliminarmente, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dai controricorrenti sul presupposto che l’impugnazione è stata tardivamente proposta rispetto al termine di sessanta giorni, di cui all’art. 325 c.p.c..

1.1. – A sostegno dell’eccezione si deduce: che la sentenza impugnata in questa sede veniva notificata all’Università degli Studi di Roma Tre in data 3 ottobre 2008; che l’Università provvedeva a notificare il ricorso per cassazione soltanto il 16 dicembre 2008 e, dunque, oltre il termine di legge; che un primo tentativo di notificazione in data 27 novembre 2008, effettuato presso il domicilio eletto, non era andato a buon fine per il trasferimento del difensore di essi attuali controricorrenti; che, tuttavia, lo stesso difensore aveva comunicato al proprio Ordine professionale già in data 4 novembre 2008 il nuovo indirizzo e questo, a far data dal successivo 10 novembre, era visibile sul sito web dell’Ordine; che in data 28 novembre 2008 veniva notificata all’Università altra copia della sentenza con indicazione del nuovo indirizzo del difensore e, in pari data, venivano inviate una missiva via fax ed altra comunicazione per lettera raccomandata, quest’ultima pervenuta il 1 dicembre 2008.

I controricorrenti assumono, dunque, che la prima notificazione del 27 novembre 2008 era “inesistente” (dovendo essere effettuata presso il domicilio reale del procuratore trasferitosi) e che, comunque, l’Università, venuta tempestivamente a conoscenza del nuovo indirizzo del domicilio eletto, era stata negligente nel notificare ivi il ricorso ben 14 giorni dopo la scadenza del termine di cui all’art. 325 c.p.c..

1.2. – L’eccezione va respinta alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità.

A tal riguardo rileva, infatti, il principio – enunciato da Cass. 30 settembre 2011, n. 19986 (nello stesso senso, anche Cass., 26 marzo 2012, n. 4842) – per cui, “in tema di notificazione di un atto di impugnazione, tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario, qualora la notificazione non si sia perfezionata per cause non imputabili al notificante (quale, in particolare, l’avvenuto trasferimento del difensore domiciliatario, non conoscibile da parte del notificante) e l’ufficiale giudiziario abbia appreso, già nel corso della prima tentata notifica, il nuovo domicilio del procuratore, il procedimento notificatorio non può ritenersi esaurito ed il notificante non incorre in alcuna decadenza, non potendo ridondare su di lui la mancata immediata rinotifica dell’atto da parte dell’ufficiale giudiziario, non dipendente dalla sua volontà, ove provveda con sollecita diligenza (da valutarsi secondo un principio di ragionevolezza) a rinnovare la richiesta di notificazione, a nulla rilevando che quest’ultima si perfezioni successivamente allo spirare del termine per proporre gravame”.

Nella specie, la documentazione versata in atti non consente di evincere con certezza che il nuovo indirizzo del difensore degli attuali ricorrenti fosse effettivamente conoscibile in base a consultazione del sito web dell’Ordine degli Avvocati già prima del 26 novembre 2008, allorquando l’Università ebbe a richiedere all’Ufficiale giudiziario la notificazione del ricorso per cassazione.

In ogni caso, non è dato ascrivere a negligenza della stessa Università, che aveva ricevuto la notificazione della sentenza in data 6 ottobre 2008 (giacchè ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione rileva la data di ricezione della notificazione da parte del destinatario e non già quella di spedizione ad opera del mittente), prima del trasferimento del difensore dei notificanti presso altro domicilio, la mancata consultazione del predetto sito web nel ridotto lasso temporale utile per impugnare il provvedimento, in assenza di previe sollecitazioni che potevano far presumere il mutamento di indirizzo.

Sicchè, il momento in cui l’Università degli Studi Roma Tre ha avuto contezza del nuovo indirizzo va collocato non prima del 27 novembre 2008 e, segnatamente, allorquando l’Ufficiale giudiziario, investito della originaria richiesta di notificazione del ricorso in data 26 novembre 2008 (dunque, entro il termine di sessanta giorni di cui all’art. 325 c.p.c., che scadeva il 5 dicembre 2008), ebbe a restituire l’atto da notificare con la relata in cui risultava indicato il nuovo domicilio presso il quale si era trasferito il legale degli attuali controricorrenti. E’ da ritenere, dunque, rispettosa del criterio di ragionevolezza la riattivazione del procedimento notificatorio il successivo 15 dicembre 2008.

2. – Del pari infondata è l’eccezione, sollevata sempre dai controricorrenti, di inammissibilità del ricorso per carente esposizione dei fatti ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, giacchè detta carenza non è affatto ravvisabile nell’atto della presente impugnazione, in cui è sintetizzata in modo intelligibile la vicenda storica e processuale, nonchè l’oggetto della pretesa azionata in giudizio.

3. – Con il primo motivo è denunciata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, (di seguito anche codice della privacy o soltanto codice), in combinato disposto con l’art. 2059 c.c..

Il Tribunale di Roma avrebbe errato a ritenere che quanto dedotto dai ricorrenti – e cioè il “patema d’animo sofferto per il rischio di possibili furti della propria identità” – concretasse un danno non patrimoniale risarcibile ai sensi D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15.

Ciò, anzitutto, perchè si trattava di c.d. danno morale soggettivo, che le Sezioni Unite civili della Cassazione (sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008) hanno ritenuto “irrisarcibile”, negando che esso possa configurarsi come “categoria concettuale”.

Inoltre, e sotto diverso profilo, il giudice del merito “ha radicalmente omesso di accertare nel caso di specie la serietà del danno ipoteticamente risarcibile e la gravità della lesione dei diritti fondamentali della persona”.

Vengono, quindi, formulati i seguenti quesiti ex art. 366 bis c.p.c.:

“Nei casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno, è autonomamente risarcibile il patema d’animo lamentato dal danneggiato? Nei casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno non patrimoniale, quest’ultimo è risarcibile anche se non è stata accertata la sua serietà e la gravità della lesione?” 4. – Con il secondo motivo è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, un vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Integrerebbe fatto controverso decisivo ai fini del presente giudizio l’omessa valutazione, da parte del tribunale, “di serietà del danno e di gravità della lesione”, malgrado anche la contestazione mossa da essa Università degli Studi Roma Tre circa la mancanza di prova del danno lamentato e del nesso di causalità tra il comportamento ascritto al danneggiante e l’evento dannoso.

5. – Con il terzo motivo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 18 e 19, art. 24, lett. c).

Il Tribunale di Roma avrebbe omesso di considerare che la disciplina giuridica applicabile al trattamento dei dati personali non sensibili, nè giudiziari, deriva dalla natura giuridica del suo titolare che, se pubblico, deve utilizzare i dati in modo tale che il loro trattamento sia finalizzato allo svolgimento delle funzioni istituzionali, anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente (art. 19, comma 1, codice della privacy). La sentenza che si impugna, pur non negando, nel caso di specie, l’asservimento alla finalità istituzionale del trattamento dei dati, ha, tuttavia, ritenuto il trattamento stesso eccedente le finalità istituzionali perseguite dal soggetto pubblico che lo effettua. Invero, l’utilizzo di dati desumibili da pubblici registri, la cui consultazione li avrebbe resi altrimenti disponibili, non deve essere necessariamente proporzionato rispetto alle finalità istituzionali. Infatti, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. c), del codice, non è richiesto alcun consenso da parte dell’interessato per il trattamento di dati provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque.

Viene formulato il seguente quesito di diritto: “I dati personali provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque possono essere trattati da un ente pubblico anche indipendentemente dal nesso di proporzionalità rispetto alle sue finalità istituzionali?”.

6. – E’ logicamente prioritario lo scrutinio del terzo motivo, che veicola una quaestio iuris attinente all’an debeatur e cioè alla sussistenza, o meno, della violazione della disciplina dettata a tutela del diritto alla protezione dei dati personali.

6.1. – Il Tribunale di Roma ha ritenuto che la condotta tenuta dall’Università Roma Tre integrasse una “divulgazione del contenuto del file sproporzionata rispetto alle finalità proprie del trattamento” dei dati personali degli interessati.

Tale convincimento, nella sua intrinseca portata, non è affatto censurato dalla ricorrente Università, che incentra la denuncia soltanto su un asserito error in indicando, sostenendo che il requisito della proporzionalità non sarebbe necessario in presenza di un trattamento sottratto al consenso dell’interessato, come quello di specie, riguardante dati provenienti da pubblici registri.

La doglianza è infondata.

I principi relativi alle modalità di trattamento ed ai requisiti dei dati, recati dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, – e che si compendiano in quelli di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti – hanno carattere generale, nel senso che trovano applicazione in riferimento a tutti i trattamenti, pubblici e privati, segnando i confini di liceità degli stessi, ove la stessa regolamentazione specifica di settore non ne limiti o conformi diversamente la portata.

Il fatto, dunque, che per gli enti pubblici non sia necessario il consenso dell’interessato per il trattamento dei dati nell’ambito delle finalità istituzionali (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 18, comma 2), che può essere effettuato (ove non riguardi dati sensibili) anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente (art. 19, comma 1, stesso D.Lgs.) – e, quindi, a maggior ragione se trattasi di dati provenienti da pubblici registri, per i quali anche i soggetti privati e gli enti pubblici economici sono esentati dall’acquisire il consenso art. 24, comma 1, lett. c), del medesimo D.Lgs.; cfr. in tale prospettiva Cass., 11 luglio 2013, n. 17203, in motivazione – non esclude, alla stregua di quanto contempla la stessa disciplina appena richiamata ed applicabile nella fattispecie, che il trattamento debba comunque essere effettuato in modo lecito e corretto ai sensi del citato art. 11 e, dunque, nel rispetto degli anzidetti principi generali e, tra questi, di quello di proporzionalità o non eccedenza del trattamento rispetto alle finalità proprie (cfr. anche Cass., sez. un., 8 febbraio 2011, n. 3033).

7. – I primi due motivi, che vanno congiuntamente scrutinati per la loro stretta connessione, sono fondati nei limiti appresso specificati.

7.1. – Occorre da subito sfrondare il thema decidendum dalla censura con cui si deduce l’erroneità della decisione impugnata là dove la stessa avrebbe risarcito il “danno morale soggettivo”, che le Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 26972 del 2008) avrebbero “viceversa ritenuto irrisarcibile”, giacchè – prima ancora della non corretta e, comunque, parziale lettura della citata pronuncia su cui viene imperniata la doglianza – quest’ultima non coglie, in parte qua, l’effettiva ratio decidendo della sentenza del giudice del merito, che riconosce la sussistenza del danno non patrimoniale non già nel “patema d’animo sofferto per il rischio di possibili furti della propria identità” (ritenuto anzi non dimostrato), ma per l’esistenza, in capo ai ricorrenti, di un “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione anche di carattere economico”. E cioè di un tipo di pregiudizio che, astrattamente, non può dirsi estraneo al paradigma del danno non patrimoniale risarcibile in base al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, come “effetto del trattamento di dati personali”.

7.2. – Fondato, per quanto di ragione, è invece il profilo di censura che investe la c.d. “soglia di risarcibilità” (secondo un’espressione icastica che intende soltanto riassumere la quaestio iuris) del danno non patrimoniale anche ai sensi del citato art. 15 del codice della privacy.

7.2.1. – Nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma vivente dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, il danno risarcibile non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione.

Il superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico, è frutto di successive elaborazioni giurisprudenziali, tributarie del revlrement operato dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994, i cui esiti possono compendiarsi nelle parole della sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008 delle Sezioni Unite di questa Corte (che, unitamente alle coeve decisioni n. 26973, n. 26974 e n. 26975, ha segnato l’approdo del diritto vivente in tema di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.), secondo cui “gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva)… consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata…)”.

Nell’alveo dell’art. 2043 c.c., va ricondotto anche il danno indicato dall’art. 2059 c.c., nel senso che tale ultima norma non disciplina un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., bensì “regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie) sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c.” (così Cass., 9 aprile 2009, n. 8703, che ribadisce in sintesi l’elaborazione della citata Cass., sez. un., n. 26972 del 2008, sulla scia delle sentenze n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, di questa stessa Corte).

Sicchè, in una lettura costituzionalmente orientata, l’art. 2059 c.c., nell’affermare la risarcibilità del danno non patrimoniale, è norma di rinvio “ai casi previsti dalla legge (e quindi ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili presidiati dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione, in quest’ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio conseguentemente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario)” (ancora la citata Cass. n. 8703 del 2009).

7.2.2. – Può, dunque, affermarsi in via generale che la “gravità della lesione” attiene al momento determinativo dell’evento dannoso, quale incidenza pregiudizievole sul diritto/interesse selezionato (dal legislatore o dall’interprete) come meritevole di tutela aquiliana, e la sua portata è destinata a riflettersi sull’ingiustizia del danno, che non potrà più predicarsi tale in presenza di una minima offensività della lesione stessa. In definitiva, la gravità dell’offesa è funzione plastica del requisito dell’ingiustizia del danno, che ne modella il suo orbitare nella cerchia gravitazionale dell’illecito.

La “serietà del danno” riguarda, invece, il piano delle conseguenze della lesione e cioè l’area dell’obbligazione risarcitoria, che si appunta sulla effettività della perdita subita (il c.d. danno- conseguenza); il pregiudizio “non serio” esclude che vi sia una perdita di utilità derivante da una lesione che pur abbia superato la soglia di offensività.

Ed è questo il piano rispetto al quale la ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, escludendo che, nel sistema della responsabilità civile, al risarcimento del danno possa ascriversi una funzione punitiva, afferma l’insussistenza di un “danno in re ipsa” e ciò, per quanto qui interessa, non solo in riferimento alle ipotesi di lesione di diritti inviolabili (tra le altre, Cass., 21 giugno 2011, n. 13614; Cass., 14 maggio 2012, n. 7471; Cass., 24 settembre 2013, n. 21865), ma anche in quelle in cui il risarcimento del danno non patrimoniale sia previsto espressamente dalla legge (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo:

Cass., 26 maggio 2009, n. 12242).

7.2.2.1. – L’accertamento della gravità della lesione e della serietà del danno spetta al giudice, in forza del “parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico” (Cass., sez. un., n. 26972 del 2008, cit.).

Dunque, è accertamento di fatto ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l’indagine proiettarsi sugli aspetti contingenti dell’offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi.

E’ accertamento di fatto che, naturalmente, richiede la previa allegazione di parte degli elementi fattuali atti ad innescarlo, sui quali incentrare il thema probandum, alla cui definizione possono ben concorrere le presunzioni di cui all’art. 2727 c.c..

7.2.3. – La giustificazione della cosi modulata “soglia di risarcibilità” del danno non patrimoniale, dettata dall’esigenza di arginare la “proliferazione delle c.d. liti bagatellari”, si rinviene – come affermato dalla citata sent. n. 26972 del 2008 – nel “bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile.

Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.)”.

7.2.3.1. – Il principio che configura una soglia nell’accesso alla tutela risarcitoria non rimane, del resto, isolato nell’ambito dei confini nazionali, giacchè non solo, de iure condendo, è campo di elaborazione di regole Europee in materia di tort law, ma trova espressione, direttamente positiva o frutto di interpretazione giurisprudenziale, in altri, ed a noi vicini, ordinamenti.

Nondimeno, quello che icasticamente viene indicato come il principio de minimi s non curat praetor guida la Corte Europea dei diritti dell’uomo nella delibazione di ricevibilità dei ricorsi, ai sensi dell’art. 35, p.2 b), della Convenzione, alla stregua del criterio del “pregiudizio significativo”, che porta a vetrificare, in concreto, se la violazione di un diritto abbia raggiunto “una soglia minima di gravità per giustificare l’esame da parte di una giurisdizione internazionale” (cosi, da ultimo, Corte EDU, sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, n. 77/07, 7 gennaio 2014).

7.2.3.2. – Invero, quel che più preme porre in rilievo è che alla radice delle ragioni giustificative della “soglia di risarcibilità” opera il principio di solidarietà, di cui quello di tolleranza è intrinseco precipitato, il quale, nella sua portata etica, è immanente nello stesso concetto di societas umana e la cui trasposizione in norma giuridica costitutiva si è avuta, nel nostro ordinamento, con l’art. 2 Cost., ponendosi esso, insieme ai diritti inviolabili, tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico stesso, “come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente” (Corte costituzionale, sentenza n. 75 del 1992).

Un principio, dunque, che informa lo stesso sistema costituzionale- democratico, che per sua propria vocazione è orientato dal valore cardine rappresentato dalla persona umana e dalla sua dignità. Con ciò, il vincolo solidale è destinato a segnare l’agire sociale di ogni sua componente, sia pubblica, che privata, operando, inscindibilmente con il principio di uguaglianza, quel necessario contemperamento tra posizioni idiosincratiche e socialità, attraverso doveri che si impongono per la tutela e protezione di beni e valori della comunità nel suo complesso.

Il principio di solidarietà costituisce allora il punto di mediazione che consente al sistema ordinamentale di salvaguardare il diritto del singolo nell’ambito della collettività; esso, pertanto, non giustifica in sè la necessità di un apparato di tutela dei diritti inviolabili, ma, tuttavia, ne sorregge l’effettività, rendendolo sostenibile come sistema operante all’interno di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva.

7.2.4. – Il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., “nei casi previsti dalla legge”, presuppone, dunque, una previa individuazione positiva, da parte del legislatore, del diritto/interesse meritevole di una siffatta tutela, oppure l’opera selezionatrice del giudice, tenuto ad individuare esso stesso i diritti inviolabili già inscritti nella Carta Fondamentale, inverandone la portata valoristica che ruota intorno alla dignità della persona.

Gravità della lesione e serietà del danno sono, però, connotazioni logicamente indipendenti dalla selezione (legislativa o giudiziale) del diritto/interesse giuridicamente rilevante e suscettibile di tutela aquiliana ai sensi dell’art. 2059 c.c., nel senso che esse presuppongono che tale selezione sia già avvenuta.

Ciò consente di affermare, in linea di principio, che la verifica di gravità della lesione e di serietà del danno, giustificata a monte dalla forza pervasiva del principio di solidarietà (art. 2 Cost.), è operazione consentanea anche al risarcimento del danno non patrimoniale nelle ipotesi in cui sia lo stesso legislatore ad avere positivamente tipizzato tale rimedio rispetto a quel determinato diritto/interesse.

In altri termini, la mera inclusione da parte del legislatore di un dato diritto/interesse nell’alveo del rimedio risarcitorio del danno non patrimoniale non si risolve, di per sè, nell’affermazione stessa di gravità della lesione del diritto/interesse medesimo e di serietà del danno che ne consegue.

Tuttavia, essendo rimessa all’esercizio ragionevole della discrezionalità legislativa la conformazione stessa della tutela, anche nella sua modulazione di grado ed intensità, occorre verificare, caso per caso, quale sia la concreta disciplina che la legge ha dettato per quel determinato diritto/interesse che ha ritenuto di selezionare come suscettibile di essere ristorato, in caso di lesione, anche sotto il profilo del danno non patrimoniale.

Invero, de iure condendo, la interpositio del legislatore nella tipizzazione delle ipotesi di danno non patrimoniale potrebbe concentrarsi soltanto nella selezione dell’interesse giuridicamente meritevole di tale tutela risarcitoria e lasciare interamente al momento applicativo della legge l’indagine sull’ingiustizia del danno e sulla sua serietà; ovvero potrebbe attrarre nell’orbita della operata selezione anche la gravità della lesione, attraverso un bilanciamento effettuato a priori, in ragione di esigenze complessive che non attengano di per sè alla preminenza del diritto/interesse tutelato – posto che istituire tra i diritti inviolabili una rigida gerarchia inibirebbe il loro fisiologico dispiegarsi – bensì alla interazione tra il principio di solidarietà ed il tipo di rapporti che tali diritti innestano. Potrebbe, infine, lo stesso legislatore, confezionare misure rimediali ancor più intense, in ipotesi derogando anche al principio di effettività della perdita subita e, in un’ottica (diversa da quella attuale) privilegiante piuttosto una funzione meramente sanzionatoria della responsabilità civile, ipotizzare un danno in re ipsa, che prescinda dalla stessa effettività della perdita subita, magari valutando che lo stesso vincolo di solidarietà imponga, in quel dato contesto, una assoluta preminenza di salvaguarda dei diritti implicati.

E così, in una prospettiva questa volta de iure condito, se può ritenersi che il giudizio sulla gravità della lesione (ma non quello sulla serietà del danno) sia già definitivamente espresso dal legislatore nella stessa scelta di politica criminale di punire, per il particolare disvalore che lo caratterizza, un fatto come reato (quale ipotesi che da luogo al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 185 c.p., comma 2; per l’ingiustizia in re ipsa del danno da reato, cfr. Cass., 11 febbraio 1995, n. 1540), la stessa gravità della lesione, oltre che la serietà del danno, è delibazione che la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2, (c.d. legge Pinto), nella sua attuale formulazione, sembra affidare complessivamente all’apprezzamento del giudice, salvo poi ravvisare – al comma 2 quinquies – talune ipotesi in cui la pur esistente violazione della durata ragionevole del processo non da luogo ad alcun indennizzo.

7.2.5. – Nel caso che qui interessa, il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, prevede che chiunque è tenuto a risarcire, ai sensi dell’art. 2050 c.c., il danno ad altri cagionato “per effetto del trattamento di dati personali” (comma 1) e che il “danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell’art. 11” (comma 2).

Posto che il significato della congiunzione “anche” utilizzata dal citato comma 2 è quello di non confinare la risarcibilità del danno non patrimoniale alle ipotesi di pregiudizio conseguente ai fatti incriminati dalle disposizioni previste dallo stesso codice della privacy (art. 167, sul trattamento illecito di dati), occorre valutare in che termini l’accesso al risarcimento, che il legislatore ha ancorato alla “violazione dell’art. 11”, si atteggi sulla verifica di gravità della lesione e serietà del danno. Con l’ulteriore precisazione che dall’ambito applicativo dell’art. 11 sono escluse talune ipotesi (trattamento effettuato per scopi esclusivamente personali e rispetto a dati non destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione; trattamento effettuato da soggetto non annoverabile tra le figure, di titolare e responsabile, tipizzate dagli artt. da 28 a 30 del codice), le quali, tuttavia, possono dar luogo (rispettivamente: la prima, per effetto della esplicita previsione dell’art. 5, comma 3, del codice; la seconda, per la clausola soggettiva generale del “chiunque” di cui al comma 1 dell’art. 15 del codice) ad un danno di natura non patrimoniale, la cui risarcibilità dovrà essere vagliata, già in punto di antigiuridicità della condotta, in base alle comuni regole sulla responsabilità aquiliana.

7.2.5.1. – Invero, la questione appare problematica unicamente sotto il profilo della gravità della lesione, e dunque dell’ingiustizia del danno, giacchè la necessità di una delibazione giudiziale sulla serietà dello stesso, come conseguenza della lesione, non può essere revocata in dubbio neppure ove si ritenesse che la legge abbia configurato la lesione apprezzabile dell’interesse tutelato con il rimedio risarcitorio come effetto diretto di una mera violazione dell’art. 11. Ciò in quanto la norma dell’art. 15, prevedendo espressamente come “risarcibile” il “danno non patrimoniale”, lascia impregiudicato il profilo della sussistenza, o meno, di una perdita (non patrimoniale) effettivamente subita dal danneggiato, non esibendo ulteriori indici significativi dai quali possa evincersi che l’interpositio legislatoris sia giunta sino a configurare un danno in re ipsa.

7.2.5.2. – Ciò premesso, più di un elemento milita nel senso che l’art. 11 del codice costituisce l’architrave su cui verificare l’antigiuridicità della condotta di trattamento dei dati personali, ma non già l’ingiustizia del danno, intesa come lesione al diritto/interesse tutelato dalla normativa di settore, necessaria per dare ingresso al risarcimento del pregiudizio patito, là dove esso si presenti serio.

Sotto un primo profilo, che attiene al dato letterale delle disposizioni implicate, rileva la circostanza per cui la violazione dell’art. 11 – in quanto la norma è volta a delineare i criteri di comportamento, lecito e corretto, ai quali si deve conformare il titolare o il responsabile del trattamento dei dati personali – non assorbe in sè tutte le componenti materiali dell’illecito, mentre l’art. 15, sia pure non aggettivandolo come ingiusto, indica in ogni caso la necessità dell’esistenza di un danno che sia effetto di un trattamento di dati personali.

Tale rilievo è da coniugare con l’ulteriore considerazione – fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte – secondo cui la tutela apprestata dal codice della privacy al diritto alla protezione dei dati personali non è espressione di una concezione “statica” della riservatezza, bensì “dinamica” di essa, “tesa al controllo dell’utilizzo e del destino dei dati” (Cass., 18 luglio 2013, n. 17602).

Tale evoluzione esalta, per contro, le finalità rispetto alle quali è improntato il sistema delineato dallo stesso decreto, in cui diventa prioritaria la tutela “dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona, e in particolare della riservatezza” e, per l’appunto, “del diritto alla protezione dei dati personali nonchè dell’identità personale o morale del soggetto”, indicati dall’art. 2 del codice (tra le molte, oltre alla già citata Cass. n. 17602 del 2013, anche Cass., 8 agosto 2013, n. 18981 e, in precedenza, Cass., 8 luglio 2005, n. 14390). Di qui, la necessità di un bilanciamento tra contrapposti diritti e libertà fondamentali, in cui, seppur senza posizioni gerarchicamente definite, dovrà trovare adeguata considerazione anche il diritto fondamentale “alla protezione dei dati personali, tutelato agli artt. 21 e 2 Cost., nonchè all’art. 8 Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., quale diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni che, spettando a chiunque (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 1) e ad ogni persona (art. 8 Carta), nei diversi contesti ed ambienti di vita, concorre a delineare l’assetto di una società rispettosa dell’altro e della sua dignità in condizioni di eguaglianza” (cosi Cass. n. 17602 del 2013, cit.; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).

Sicchè, nel sistema del d.lgs. n. 196 del 2003, il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali non vive isolatamente, ma simbioticamente con gli altri ed implicati diritti fondamentali ed inviolabili della persona umana, operando strumentalmente per la sua integrale tutela.

In tale quadro, non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 determinerà, quindi, una lesione ingiustificata del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, ma soltanto quella che ne offenda in modo sensibile (e cioè oltre la soglia di tollerabilità) la sua portata effettiva, calata in un contesto in cui si combinano strettamente i diritti e le libertà contemplate dai primi due articoli del codice, perchè il risultato sia quello di una tutela piena della persona umana a fronte di un vulnus concreto ed effettivo, che, come tale, necessita di essere ristorato.

Agli evidenziati rilievi va aggiunto che il rimedio risarcitorio si accompagna, nel disegno del legislatore del codice, ad una tutela inibitoria composita, che rende pertanto suscettibile di graduare la risposta in funzione delle concrete esigenze di salvaguardia dell’interessato. Tra i vari rimedi (si veda, segnatamente, l’art. 7 del codice) è da annoverare anche quello della inutilizzabilità dei dati personali “trattati in violazione della disciplina rilevante in materia”, prevista dallo stesso art. 11, comma 2; inutilizzabilità che, questa volta, opererà direttamente in ragione della illiceità e/o scorrettezza della condotta del responsabile e/o del titolare del trattamento.

Vi è, dunque, una sinergia tra tutela preventiva (eminentemente inibitoria) e quella risarcitoria che il legislatore, nel costruire l’apparato rimediale, ha tenuto presente, cosi da far convergere la seconda là dove il pregiudizio risulti attuale, effettivo ed apprezzabile.

Conclusivamente può, quindi, essere enunciato il seguente principio di diritto:

“il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, (c.d. codice della privacy) non si sottrae alla verifica di “gravità della lesione” (concernente il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, quale intimamente legato ai diritti ed alle libertà indicate dall’art. 2 del codice, convergenti tutti funzionalmente alla tutela piena della persona umana e della sua dignità) e di “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato), che, in linea generale, si richiede in applicazione dell’art. 2059 c.c., nelle ipotesi di pregiudizio inferto ai diritti inviolabili previsti in Costituzione. Ciò in quanto, anche nella fattispecie di danno non patrimoniale di cui al citato art. 15, opera il bilanciamento (siccome pienamente consentito all’interprete dal modo in cui si è realizzata nello specifico l’interpositio legislatoris) del diritto tutelato da detta disposizione con il principio di solidarietà – di cui il principio di tolleranza è intrinseco precipitato -, il quale, nella sua immanente configurazione, costituisce il punto di mediazione che permette all’ordinamento di salvaguardare il diritto del singolo nell’ambito di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva. L’accertamento di fatto rimesso, a tal fine, al giudice del merito, in forza di previe allegazioni e di coerenti istanze istruttorie di parte, dovrà essere ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l’indagine, illuminata dal bilanciamento anzidetto, proiettarsi sugli aspetti contingenti dell’offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi. Un siffatto accertamento – che, ove l’offesa non superi la soglia di minima tollerabilità o il danno sia futile, può condurre anche ad escludere la possibilità di somministrare il risarcimento del danno – è come tale sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato”.

8. – Nella specie, il Tribunale di Roma, nell’accertamento del danno non patrimoniale poi liquidato ai ricorrenti D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, ha fatto riferimento al mero “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione personale anche di carattere economico”, mancando, altresì, di rendere pienamente intelligibile lo sviluppo dei criteri che hanno guidato un tale giudizio, il quale, come sopra evidenziato in linea di principio, avrebbe dovuto formarsi all’esito di una verifica in concreto circa la gravità della lesione e la serietà del danno.

9. – Sicchè, rigettato il terzo motivo di ricorso ed accolti, per quanto di ragione, i primi due motivi, la sentenza impugnata deve essere cassata in punto di riconoscimento del danno non patrimoniale e la causa rinviata al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, che nel delibare nuovamente la questione dovrà attenersi al principio di diritto innanzi enunciato.

Al giudice del rinvio spetterà anche la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il terzo motivo di ricorso ed accoglie i primi due per quanto di ragione;

cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2014


CTR Lazio – sentenza n. 3711/39/14

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CTR Lazio: serve l’intermediario all’agente della riscossione

La Commissione tributaria regionale del Lazio (sezione di Latina) è intervenuta sulla dibattuta questione delle notifiche delle cartelle esattoriali a mezzo posta, con invio diretto da parte dell’agente della riscossione, senza intermediazione di un soggetto abilitato. Nella recente sentenza n. 3711/39/14, il collegio pontino ha annullato delle cartelle di pagamento, rilevando l’inesistenza della notificazione. Gli atti erano stati spediti per mezzo del servizio postale, direttamente dall’esattore, senza l’intervento di un ufficiale giudiziario o di un messo notificatore.

Al di là delle conclusioni raggiunte dal giudice laziale, già lette in altre pronunce tributarie, la sentenza in commento è interessante soprattutto per il percorso argomentativo che conduce al decisum. Innanzitutto, la Ctr passa in rassegna gli orientamenti prevalenti sull’argomento, precisando che mai la Cassazione si è espressa, sinora, in via principale, sulla specifico aspetto delle doglianza che concerne la legittimazione dell’agente della riscossione a ricorrere direttamente al mezzo postale. «In realtà», si legge nella motivazione, «le pronunce della Cassazione hanno riguardato sempre altri profili delle notifiche a mezzo posta e mai direttamente la questione della legittimazione dell’agente della riscossione per la notifica diretta».

La decisione di annullamento delle cartelle, poi, appare supportata dall’interpretazione letterale, sistematica e storica delle norme che regolano la materia. In particolare, «tale interpretazione trova conforto in due considerazioni: da un lato, l’esame storico della disposizione di cui all’articolo 26 del dpr 602/1973 e, dall’altro, l’interpretazione letterale e logica dell’articolo 14 della legge 20 novembre 1982, n. 890».

Per quanto concerne l’articolo 26, la Commissione si riferisce al fatto che una prima versione della norma riportava testualmente che «la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento»; nelle versioni successive, invece, è stata eliminata la locuzione «da parte dell’esattore», da cui «può trarsi un forte e convincente argomento letterale per affermare che il legislatore abbia inteso limitare la notifica a mezzo posta solo ai soggetti abilitati alla notificazione, con esclusione della possibilità che la notifica sia effettuata direttamente dall’Agente della riscossione».

Quanto, invece, all’articolo 14 della legge n. 890/1982, «può rilevarsi come la sua formulazione confermi la volontà del legislatore di riservare la possibilità di notifica diretta solo agli uffici che esercitano la potestà impositiva e non ai soggetti che sono preposti alla mera riscossione». Ciò premesso, la Ctr ritiene di dover «escludere che gli agenti della riscossione possano notificare direttamente i propri atti mediante raccomandata, facoltà attribuita solo agli organi preposti, per legge o per convenzione, alle operazioni di notificazione (ufficiale giudiziario, messo comunale, agente della polizia municipale, messo notificatore)».