Valida la notifica di una cartella di pagamento in formato PDF

È irrilevante la mancata allegazione della copia della cartella di pagamento con file «pdf nativo» quando l’atto in essa contenuto, precedentemente notificato, è noto al ricorrente e quando non si contesta la sua difformità rispetto all’originale. In questo modo si è espressa la Corte Suprema di Cassazione civile con la sentenza n. 28852/2023.

La società Alfa s.r.l. impugnava una comunicazione preventiva di iscrizione di fermo amministrativo su veicolo di sua proprietà notificata dall’Agenzia delle Entrate Riscossione a mezzo PEC lamentando, tra le modalità di notifica, l’allegazione di file PDF e la mancata sottoscrizione digitale.

Il giudizio innanzi alla CTP ed alla CTR
Svolto in giudizio in contraddittorio con l’agente della riscossione, la domanda attore veniva disattesa in ambedue i gradi di merito.

Il giudice territoriale ha ritenuto irrilevante la mancata allegazione della copia della cartella di pagamento con file «pdf nativo» sul rilievo che si trattava di «atto già notificato nell’anno 2017, e quindi ben noto all’opponente, che, per di più, non contesta affatto la sua difformità rispetto all’originale».

La pronuncia della Corte Suprema di Cassazione
La contribuente ha proposto ricorso per la Corte Suprema di Cassazione con sei motivi, di cui due relativi alla notifica a mezzo PEC:

1) violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 22 e 23 del codice dell’amministrazione digitale in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per giuridica inesistenza della notificazione, avvenuta a mezzo pec, per allegazione alla mail dell’atto in formato .pdf (copia per immagine su supporto informatico) e non già come documento informatico provvisto di firma digitale (.pdf nativo digitale);

2) violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 22 e 23 del codice dell’amministrazione digitale in relazione all’ art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., per giuridica inesistenza della notificazione, concretata nel caso dalla trasmissione di una mera scansione dell’atto, oltremodo priva della sottoscrizione digitale.

La Corte Suprema di Cassazione ha affrontato congiuntamente i 2 motivi, ritenendoli infondati.

Va premesso che il D.P.R. 68/2005, art. 1, lett. f), definisce il messaggio di posta elettronica certificata, come “un documento informatico composto dal testo del messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici allegati”. La lett. i ter), art. 1, del CAD – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c), – poi, definisce “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico” come “il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico”, mentre la lett. i quinquies), art. 1, del medesimo CAD – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c),- nel definire il “duplicato informatico” parla di “documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario”.

La Corte Suprema di Cassazione si è ripetutamente espressa sul punto ritenendo che la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d. “atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica”).

Per tale motivo va esclusa la denunciata illegittimità della notifica della cartella di pagamento eseguita a mezzo posta elettronica certificata, poiché era nella facoltà del notificante allegare, al messaggio trasmesso alla contribuente via PEC, un documento informatico realizzato in forma di copia per immagini di un documento in origine analogico.

Inoltre, nessuna norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di pagamento in origine cartacea, notificata dall’agente della riscossione tramite PEC, venga poi sottoscritta con firma digitale.

Già le Sezioni Unite avevano affermato il principio che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale.

Come già affermato dal giudice territoriale, la Corte Suprema di Cassazione ribadisce che non appare necessaria l’attestazione di conformità atteso che, ai sensi dell’art. 22 CAD, comma 3 – come modificato dal D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217, art. 66, comma 1, “Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle linee guida hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta”.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso, dà atto che sussistono i presupposti ex art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 per il versamento da parte della ricorrente del doppio del contributo unificato e nulla statuisce sulle spese in mancanza di costituzione degli intimati.

Orientamenti giurisprudenziali

Cass. 05/10/2020, n. 21328

Cass. 08/07/2020, n. 14402

Cass. 30948/2019

Cass 6417/2019

Cass. 21290/2018

Cass. SS.UU. 28 settembre 2018 n. 23620

Cass. 27561/2018

Cass. 26053/2015

Cass. 2577/2014

Cass. 13461/2012


BUON ANNO !!! 2024


E’ online un “toolkit” di comunicazione a disposizione di tutti gli Enti che hanno aderito a “Send”

La Piattaforma “PagoPa” ha informato che è online un “toolkit” di comunicazione a disposizione di tutti gli Enti che hanno aderito a “Send”, per fornire supporto agli Enti che abbiano necessità di informare i cittadini sul funzionamento del Servizio

Con una Notizia pubblicata in data 14 dicembre 2023, la Piattaforma “PagoPa” ha informato che è online un “toolkit” di comunicazione a disposizione di tutti gli Enti che hanno aderito a “Send – Servizio notifiche digitali”, la nuova Piattaforma che semplifica la gestione delle comunicazioni a valore legale per Amministrazioni, Cittadini e Imprese. L’obiettivo del “toolkit” è fornire un supporto concreto ad ogni Ente che abbia necessità di informare i propri cittadini sul funzionamento del nuovo Servizio e promuovere la ricezione in digitale, anche tramite App “Io”, delle notifiche degli Atti amministrativi a loro destinati

Come si apprende dalla Notizia, il “toolkit” contiene suggerimenti, strumenti e materiali pronti all’uso, che ogni Ente può personalizzare e utilizzare in autonomia per creare la propria campagna di comunicazione e:

  • informare i Cittadini della propria adesione alla Piattaforma;
  • sensibilizzare gli utenti sulla possibilità e sui vantaggi di ricevere comunicazioni a valore legale tramite “Send”, attraverso canali digitali o analogici.

Gli Enti che hanno aderito a “Send” possono dunque contare su una Guida e dei materiali pronti per essere utilizzati sui canali di comunicazione istituzionali, al fine di accompagnare in modo efficace l’adozione del nuovo Servizio sul territorio e spiegarne i vantaggi agli utenti.

I materiali grafici, i template e i casi d’uso che si trovano nel kit permettono infatti di dare informazioni corrette e chiare, garantendo coerenza con i materiali ufficiali di presentazione di “Send”, al fine di rendere il nuovo Servizio sempre più riconoscibile e noto anche tra i cittadini.


BUONE FESTE 2023/2024

Con l’avvicinarsi delle festività natalizie, non c’è momento migliore per dire “Grazie”

A.N.N.A augura un felice periodo natalizio e un prospero anno nuovo


Raccomandata A.R.: una distanza di due giorni tra di esse non interrompe l’unità del contesto temporale

“L’art. 140 c.p.c. prevede che “se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate”, la notificazione abbia luogo ugualmente con lo svolgimento di tre formalità distinte: il deposito di copia dell’atto da notificare nella casa comunale, l’affissione dell’avviso del deposito sulla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario, ed infine l’invio di una raccomandata con avvio di ricevimento anch’essa con l’avviso del deposito.

La notificazione si considera perfezionata soltanto con l’esecuzione dell’ultima, in senso temporale, delle tre formalità.

Queste ultime debbono essere eseguite in uno stesso contesto temporale, nell’ambito di quella certa notificazione, ma nulla impone che vengano eseguite in uno stesso giorno, così la Corte Suprema di Cassazione con sentenza n. 7939 del 30.05.2002. Una distanza di due giorni tra di esse non interrompe certo l’unità del contesto temporale: in sostanza, rimane irrilevante che per ragioni operative, per la mancanza di un ufficio postale aperto in orario utile, o per altro motivo, l’invio della raccomandata sia stato seguito di qualche giorno l’affissione dell’avviso sulla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario (che nella normalità dei casi verrà effettuata quando l’ufficiale giudiziario si sarà recato in luogo e non avrà potuto eseguire la notificazione con uno dei sistemi ordinari, e sarà perciò la prima, temporalmente, ad essere eseguita delle tre formalità richieste), ed il deposito dell’atto nella casa comunale.”


Albo pretorio, termini di pubblicazione flessibili

La Cassazione conferma l’annullamento delle multe irrogate dal Garante privacy agli enti
Niente sanzioni ai comuni che tengono delibere oltre 15 gg
Frenate le sanzioni privacy per i comuni che tengono le delibere per più di 15 giorni sull’albo pretorio on line.
La Suprema Corte di Cassazione, sezione II, con la sentenza n. 29438 del 24 ottobre 2023, ha confermato l’annullamento di due sanzioni, di 20 mila euro ciascuna, irrogate nel 2017 dal Garante della privacy a un comune, cui si contestava di avere mantenuto pubblicate dell’albo pretorio in rete, complete dei dati personali di un cittadino, alcune delibere e determinazioni dirigenziali, e tutto ciò oltre il periodo di 15 giorni previsto dall’articolo 124 del dlgs n.267/2000 (Testo unico per gli enti locali, Tuel).
La Suprema Corte di Cassazione avalla l’interpretazione secondo cui questo termine deve considerarsi ordinatorio e non perentorio. Pertanto, la disciplina privacy non va considerata come una spada di Damocle, che colpisce automaticamente e indiscriminatamente.
D’altra parte, però, la pronuncia stessa non deve essere strumentalizzata ed essere intesa come un lasciapassare per condotte lassiste: anche i termini ordinatori vanno rispettati; inoltre, il Garante potrà sempre contestare e sanzionare la violazione di altre disposizioni, come l’omessa correttezza nel trattamento dei dati, ai sensi dell’articolo 5 del regolamento Ue n. 2016/679 (Gdpr). 
Una persona ha mandato alcune segnalazioni al Garante a proposito della permanenza di propri dati sul sito dell’albo pretorio comunale e ciò oltre il 15° giorni dalla scadenza del termine di pubblicazione degli atti, come previsto dal Tuel. Il Garante ha aperto due procedimenti, ha ritenuto illecite le persistenti pubblicazioni e ha sanzionato il comune con due ingiunzioni di 20 mila euro cadauna.
Già nei procedimenti avanti al Garante era, però, emerso un particolare, che ha giocato il suo ruolo anche in Cassazione: i dati erano stati oggetto di specifiche consultazioni con meccanismi informatici (memorizzazione e reiterato utilizzo delle pagine web contenenti le informazioni), riconducibili con elevata probabilità al diretto interessato, motivato a controllare il persistere della pubblicazione. Ciò può portare alla deduzione che nessun altro aveva consultato i dati del cittadino coinvolto, eccettuato quest’ultimo, che li avrebbe monitorati per usarli nel contenzioso contro il comune. L’ente locale ha impugnato le due sanzioni e il tribunale le ha annullate. Il Garante ha, quindi, proposto ricorso contro la sentenza di primo grado, ma la Suprema Corte di Cassazione lo ha respinto. Peraltro, le motivazioni della pronuncia della Suprema Corte di Cassazione sono particolarmente rilevanti e devono essere attentamente studiate. Il primo profilo riguarda la regola per cui negli atti da pubblicare e diffondere sul web si devono riportare solo i dati necessari e pertinenti. Sul punto la Suprema Corte di Cassazione rileva che, in astratto, la regola è corretta, ma aggiunge che per sanzionare eventuali abusi, il Garante deve specificamente indicare, caso per caso, quali dati pubblicati abbiano “ecceduto quelli necessari al perseguimento del fine istituzionale”: in mancanza l’ingiunzione del Garante è manchevole di elementi e può essere impugnata per carenza di motivazione.
Un secondo profilo riguarda la disciplina stessa della pubblicazione degli atti. Nel caso specifico, sottolinea la Suprema Corte di Cassazione, siamo di fronte a una pubblicazione necessaria per perseguire un fine istituzionale, fondata su una norma di legge (l’articolo 124 citato), la quale prevede un periodo di diffusione con un termine finale (15 giorni) non perentorio. A fronte di ciò, si deduce dalle motivazioni dell’ordinanza che gli atti sanzionatori del Garante non possono contare su un automatismo, per cui il decorso dei 15 giorni sarebbe sufficiente a far scattare le sanzioni privacy per la illecita diffusione di dati personali. Per la Suprema Corte di Cassazione non è così e il Garante non può nemmeno limitarsi ad affermare in astratto la eccessiva dilatazione del tempo della esposizione al pubblico dei dati personali.
Nel caso specifico, infatti, il Garante non ha preso posizione a riguardo del fatto che, probabilmente, non c’è stata nessuna esposizione “al pubblico” dei dati dell’interessato, visto che gli accessi alla pagina web in questione sono apparsi riconducibili al solo interessato (ipoteticamente mosso da intenti speculativi). Inoltre, il comune si è dimostrato collaborativo e, in buona fede, ha sollecitato interventi tecnici sul sito dell’albo on line per adeguarsi e mantenersi nel limite (non perentorio) dei 15 giorni. Sulla base di questi rilievi, la Suprema Corte di Cassazione ritiene, dunque, che non si deve considerare pregiudizialmente oppressiva la pubblica amministrazione. Peraltro, l’ente non deve considerare un tale orientamento come un implicito via libera a condotte inappropriate. Anche se non ci sono automatismi sanzionatori, il termine di 15 giorni della pubblicazione all’albo pretorio on line è previsto da una legge e va, quindi, rispettato, con la predisposizione di procedure tecniche di eliminazione degli atti dalle pagine web alla scadenza.
L’ente deve, inoltre, osservare regole di redazione sintetica degli atti senza inserimento di dati eccedenti e deve rispettare i divieti di diffusione previsti da leggi speciali quali, ad esempio gli articoli 7-bis e 26 del d.lgs. 33/2013 e l’articolo 2-septies del Codice della privacy (divieto di diffusione di dati sanitari, biometrici e genetici).


“Casella piena”, la Corte Suprema Sezioni unite decideranno se la notifica è valida

La Terza sezione civile, sentenza n. 32287/2023, ha rimesso la questione al massimo consesso dopo aver rilevato una “non conciliabile diversità di vedute” nella giurisprudenza di legittimità.
Sugli effetti della notifica telematica non completata per “casella piena” vi è una “non conciliabile diversità di vedute” all’interno della giurisprudenza di legittimità, per di più “senza che né l’una né l’altra impostazione paiano del tutto convincenti, sia sul piano del metodo, che del risultato ermeneutico”. Con la sentenza n. 32287/2023 la Terza sezione civile rimette alle Sezioni unite la soluzione di una delle questioni più spinose legate alla diffusione del processo telematico. La Corte Suprema di Cassazione, riunita nel suo massimo consesso, dovrà dunque dipanare una volta per tutte “la tematica delle condizioni di validità e delle conseguenze della notifica telematica non completata per casella piena”.
La vicenda parte dalla proposizione di un ricorso alla Corte Suprema di Cassazione valutato tardivo dalla parte controricorrente che deduce di aver notificato la sentenza d’appello (ai fini della decorrenza del termine breve ex art. 326 c.p.c.) con messaggio PEC restituito però dal sistema con la dicitura “… è stato rilevato un errore 5.2.2 – InfoCert S.p.A. – casella piena. Il messaggio è stato rifiutato dal sistema”. E poiché la mancata consegna è imputabile a negligenza del destinatario, la notifica deve intendersi regolarmente perfezionata, con la conseguenza che il ricorso è stato notificato fuori tempo massimo, oltre i tre mesi.
La Corte Suprema di Cassazione ricorda che sono due le principali linee giurisprudenziali. Secondo un primo indirizzo: “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi” (Cass., Sez. 3, ord., n. 3164/2020).
Sul tema si registra, però, un altro orientamento (Cass., Sez. 3, n. 40758/2021) così massimata: “In caso di notificazione a mezzo PEC del ricorso per cassazione non andata a buon fine, ancorché per causa imputabile al destinatario (nella specie per “casella piena”), ove concorra una specifica elezione di domicilio fisico – eventualmente in associazione al domicilio digitale – il notificante ha il più composito onere di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario fisico eletto in un tempo adeguatamente contenuto, non potendosi, invece, ritenere la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico”. Tale opzione ermeneutica, tuttavia, si fonda su una specifica caratteristica della fattispecie: ossia, quella della necessaria compresenza di un domicilio digitale della parte (sostanzialmente immanente, ex art. 16-sexies d.l. n. 179/2012) e di un domicilio elettivo fisico, o tradizionale.
Così però, prosegue, non si risolve il problema di fondo, ossia “se e quando la notifica telematica del messaggio PEC, non consegnato per “casella piena”, si perfezioni”. Serve infatti una regola generale che risolva tali questioni già all’interno della fattispecie “minima” (ossia, messaggio PEC non consegnato per “casella piena” del destinatario), a prescindere dall’elezione di domicilio fisico.
Del resto, anche l’orientamento “restrittivo” non si giova di un percorso lineare dovendo necessariamente confrontarsi col dato normativo vigente, e dunque l’articolo 3-bis, comma 3, della legge n. 53/1994, che specificamente cristallizza il momento di perfezionamento della notifica effettuata dall’avvocato in quello della generazione del messaggio di “avvenuta” consegna. Ebbene, prosegue la decisione, l’utilizzo del participio passato del verbo “avvenire”, “non autorizza altra interpretazione, già sul piano letterale, diversa da quella per cui, in caso di mancata generazione di un simile messaggio, non possa in realtà discutersi di effettivo perfezionamento della notifica”.
E allora la linea suggerita del collegio rimettente prende le mosse da quanto previsto in un ambito specifico, quello concorsuale, in cui “l’esigenza della conoscenza o della conoscibilità delle iniziative poste in essere dai propri creditori (o dal Pm) è assai rilevante”. In questi casi sia che la mancata consegna del messaggio PEC derivi da causa imputabile al destinatario, sia che derivi da causa a lui non imputabile, “non si ha mai il perfezionamento della notifica, occorrendo sempre una ulteriore iniziativa del notificante”.
E, aggiunge la Corte Suprema di Cassazione, non v’è alcuna ragione per relegare una simile impostazione al solo ambito concorsuale, perché il tema investe direttamente il diritto di difesa e al contraddittorio, costituzionalmente rilevanti per tutti i consociati ex articoli 24 e 101 Cost.
Del resto, prosegue, anche la riforma Cartabia, Dlgs n. 149/2022, che pure vede la notifica telematica degli atti processuali come sostanzialmente obbligatoria (salvi casi residuali) stabilisce che, quando la notifica degli atti da parte dell’avvocato a mezzo Pec non riesce per causa imputabile al destinatario vi siano soluzioni alternative. In caso di impresa o professionista l’inserimento a spese del richiedente nell’area web riservata prevista dall’articolo 359 del codice della crisi d’impresa; mentre se il destinatario è una persona fisica le modalità ordinarie.
Una disposizione che conferma come l’ordinamento positivo non considera mai perfezionata una notifica di messaggio a mezzo Pec, effettuata da un avvocato ai sensi della legge n. 53/1994, qualora essa non sia andata a buon fine, benché per causa imputabile al destinatario.
Tutto questo, conclude l’ordinanza interlocutoria, renda evidente che, sul tema la giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione non possa dirsi univoca sì di una questione di massima di particolare importanza, “involgendo i presupposti stessi del funzionamento delle modalità di notificazione coi nuovi e generalizzati strumenti tecnologici in ogni ambito processuale: ciò che ne individua quale sede naturale per la disamina le Sezioni Unite di questa Corte Suprema di Cassazione, come del resto pure ritenuto dal Procuratore Generale”.


Cartella recapitata con raccomandata, nessun vizio di notifica

L’agente della riscossione può avvalersi direttamente del servizio postale rappresentando tale procedura una forma alternativa alle altre previste, che si perfeziona con la consegna del plico.
È valida la notifica della cartella esattoriale eseguita mediante invio diretto di raccomandata da parte del concessionario della riscossione tramite il servizio postale.
È quanto ha stabilito, con la sentenza n. 27007 del 21 settembre 2023, la quinta sezione della Corte Suprema di Cassazione, accogliendo le tesi dell’Amministrazione finanziaria e cancellando la decisione dei giudici tributari di secondo grado.
Con tale sentenza la Corte Suprema di Cassazione ha, chiarito, infatti, che la seconda parte del primo comma dell’articolo 26 del Dpr n. 602/1973 prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso e all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione della raccomandata da parte del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto riscossore legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella.
Un concessionario della riscossione, incaricato dall’ente impositore, notificava a un contribuente diverse cartelle di pagamento, con contestuali intimazioni di pagamento. Proprio queste ultime erano oggetto di impugnazione giudiziale da parte del contribuente, che sosteneva l’irregolarità della notifica in quanto avvenuta mediante servizio postale a opera di un soggetto non abilitato allo scopo.
Il giudizio di merito vedeva soccombere l’Amministrazione finanziaria, con il contribuente che riusciva a far dichiarare nulla la notificazione delle intimazioni di pagamento a lui dirette.
La Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Puglia, infatti, accoglieva l’appello del contribuente sul rilievo che le cartelle di pagamento, poste a fondamento delle intimazioni di pagamento impugnate, erano state notificate mediante servizio postale in violazione del Dpr n. 602/1973, articolo 26, in quanto tale notifica era avvenuta dal concessionario tramite ufficiale postale, soggetto non abilitato. Per tale ragione la notifica doveva considerarsi inesistente con l’aggiunta, sempre a giudizio dei magistrati pugliesi di merito, che il concessionario non aveva dato prova dell’avvenuta emissione e notifica delle cartelle, non essendo sufficiente né il deposito della cartolina di ricevimento della raccomandata né la notificazione delle successive intimazioni di pagamento e né le fotocopie degli estratti di ruolo.
Avverso tale determinazione dei giudici tributari, il concessionario della riscossione, Equitalia Sud, decideva di proporre ricorso di ultima istanza dinanzi la suprema Corte di cassazione.
Si ricorda come il comma 1 dell’articolo 26 del Dpr n. 602/1973 preveda espressamente che “la cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale; in tal caso, quando ai fini del perfezionamento della notifica sono necessarie più formalità, le stesse possono essere compiute, in un periodo di tempo non superiore a trenta giorni, da soggetti diversi tra quelli sopra indicati ciascuno dei quali certifica l’attività svolta mediante relazione datata e sottoscritta. La notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso, la cartella è notificata in plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal secondo comma o dal portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda”.
Ecco, dunque, che la seconda parte della norma regola proprio la notifica mediante raccomandata affidata al servizio postale per conto del concessionario/agente della riscossione. Il quinto comma della medesima disposizione dispone, poi, che il concessionario è tenuto a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento e ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione.
La Corte Suprema di Cassazione chiamata a pronunciarsi definitivamente sulla questione, ha accolto il ricorso avanzato dall’amministrazione finanziaria, cassando la decisione dei giudici tributari di merito.
La Corte Suprema di Cassazione ha, infatti, ritenuto che ben può il concessionario avvalersi direttamente del servizio postale per la notifica degli atti impositivi, rappresentando tale notifica una forma alternativa alle altre normativamente previste. Inoltre, a fronte dell’eccezione della parte di non aver ricevuto le cartelle, ha ritenuto che le copie conformi degli originali delle ricevute di ritorno attestanti la consegna delle raccomandate siano pienamente sufficienti a fornire la prova richiesta all’Amministrazione.
Secondo la Corte Suprema di Cassazione, dunque, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del primo comma dell’articolo 26 sopra citato prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso e all’ufficiale postale, e la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella.
L’indirizzo seguito dalla decisione sembra, per altro, univoco nella giurisprudenza della Corte Suprema di Cassazione come confermato, tra le molte, dalla sentenza n. 10037/2019, secondo la quale la notificazione a mezzo posta della cartella esattoriale da parte del concessionario/agente della riscossione eseguita mediante raccomandata con avviso di ricevimento è pienamente valida e si conclude positivamente con la consegna del plico al domicilio del destinatario, senza alcun altro adempimento a opera dell’ufficiale postale se non quello di assicurarsi che la persona, individuata come legittimata alla ricezione, apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente.
Ancora la Corte Suprema di Cassazione in tema di prova dell’avvenuta notificazione della cartella esattoriale, ha ricordato come con la sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 8201/2023 è stato ribadito che la prova del perfezionamento del procedimento di notifica e della relativa data è assolta mediante la produzione della relazione di notificazione o dell’avviso di ricevimento, recanti il numero identificativo della cartella, non essendo necessaria la produzione in giudizio della copia o dell’originale della cartella stessa.
In conclusione, la Corte Suprema di Cassazione, accogliendo le tesi dell’Amministrazione e reputando del tutto errata l’affermazione dei giudici tributari circa l’inesistenza della notifica della cartella fondata sul rilievo che il concessionario non poteva all’uopo effettuarla mediante il servizio postale, ha annullato definitivamente la decisione della Corte di giustizia tributaria di secondo grado, dando ragione al Fisco.


Atto notificato ex art. 140 c.p.c. alla residenza anagrafica del destinatario: non sempre è valida

Con la sentenza n. 27540/2023, pubblicata il 28 settembre 2023, la Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata sui presupposti affinché possa essere considerata valida la notifica di un atto eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., per compiuta giacenza, all’indirizzo di residenza del destinatario risultante dal certificato anagrafico.
La vicenda approdata all’esame dei giudici di legittimità parte dal ricorso ex art. 702 bis c.p.c. promosso da un avvocato per ottenere la condanna di una sua ex cliente al pagamento dei compensi professionali maturati a seguito dell’attività di rappresentanza e assistenza legale svolti in suo favore.
Il ricorso e il provvedimento di fissazione dell’udienza venivano notificati ai sensi dell’art. 140 c.p.c. per compiuta giacenza presso la residenza anagrafica della convenuta.
Nella contumacia di quest’ultima, il Tribunale accoglieva il ricorso e la condannava al pagamento in favore del legale della somma richiesta a titolo di compensi professionali.
Contro la decisione del Tribunale, la convenuta proponeva ricorso straordinario per Cassazione deducendo la nullità della notificazione del ricorso introduttivo ex art. 702 bis c.p.c. e la nullità della notificazione dell’ordinanza, in forma esecutiva, emessa dal Tribunale, ai fini dell’idoneità a far decorrere il termine breve per la proposizione del ricorso in quanto eseguita presso la sua residenza anagrafica in assenza del requisito della temporanea/precaria assenza, senza tener conto della residenza effettiva e/o del domicilio effettivo della stessa resistente.
La ricorrente in Cassazione, nel proporre il gravame, evidenziava che alla data del mancato ritiro entro il decimo giorno del ricorso introduttivo instaurato dal legale innanzi al Tribunale non aveva la residenza effettiva nel luogo in cui era avvenuta la notifica e che, svolgendo l’attività di magistrato era in carica presso la Corte di Appello di una città diversa. Di conseguenza, secondo la ricorrente la notifica eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. nel luogo della residenza anagrafica doveva essere dichiarata nulla, come l’intero procedimento e l’ordinanza impugnata.
Il motivo del ricorso è stato ritenuto fondato dalla Corte Suprema di Cassazione la quale nell’accoglierlo con rinvio al Tribunale, in diversa composizione, ha ribadito il costante orientamento degli stessi giudici di legittimità riguardo alla notifica eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. presso la residenza anagrafica del destinatario dell’atto ma dimorante stabilmente altrove.
Secondo il suddetto orientamento, la Corte Suprema di Cassazione ha evidenziato:
1) la notifica deve ritenersi correttamente eseguita solo qualora non possa addebitarsi al notificante l’inosservanza dell’obbligo di ordinaria diligenza nell’accertamento dell’effettiva residenza del destinatario della stessa;
2) la notifica eseguita, ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., non è valida anche se effettuata nel luogo di residenza del destinatario risultante dai registri anagrafici, nell’ipotesi in cui questi si sia trasferito altrove e il notificante ne abbia conosciuto, ovvero con l’ordinaria diligenza avrebbe potuto conoscerne, l’effettiva residenza, dimora o domicilio, dove è tenuto ad effettuare la notifica stessa, in osservanza dell’art. 139 cod. proc. civ.
3) la circostanza secondo la quale nell’indirizzo risultante dai registri anagrafici si trovi la residenza effettiva del destinatario costituisce mera presunzione superabile con qualsiasi mezzo di prova, in quanto non coperta dalla fidefacenza della relata;
4) la prova della mancata conoscenza del processo a causa della nullità della notifica della citazione può essere fornita, mediante l’impiego di presunzioni.
Nel caso esaminato, hanno concluso la nullità della notifica della citazione quanto la prova della mancata conoscenza del processo a causa di ciò, si traggono dal fatto che l’effettiva residenza, dimora o domicilio dell’ex cliente del legale in luogo diverso dalla residenza anagrafica era ed è agevolmente ritraibile dall’attività di magistrato svolta dalla medesima in altra sede, circostanza, questa, di cui il legale era a perfetta conoscenza, come dallo stesso dichiarato nell’atto introduttivo del giudizio.
Novembre 2023


Pec: se l’allegato è illeggibile, la notifica è nulla

L’ illeggibilità del file allegato alla Pec non rende inesistente la notifica, se per il resto l’invio è regolare. L’importante chiarimento arriva dalla Sezione lavoro della Corte Suprema di Cassazione, con sentenza n. 30082/2023, che ha così accolto, con rinvio, il ricorso del ministero dell’Istruzione nei confronti di una decisione della Corte d’Appello di Palermo che aveva dichiarato improcedibile l’appello proposto contro la decisione del tribunale di accoglimento delle domande di cinque impiegati amministrativi (personale A.T.A.) volte all’accertamento del loro diritto all’assunzione a tempo indeterminato.

Per il giudice di secondo grado, infatti, dalla dimensione degli atti allegati – «1 byte» – non si poteva che desumere, come sostenuto dagli appellati, che si trattasse di file del tutto vuoti e ha così ritenuto “inesistente, e quindi non sanabile, la notificazione dell’atto d’appello, per la totale mancanza materiale dell’atto da notificare”.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione lavoro, per prima cosa ricorda che le Sezioni Unite hanno più volte messo in guardia il giudice sulla necessità di considerare «residuale» la categoria dell’inesistenza della notificazione, che distingue la linea di confine tra l’atto (sia pure nullo) e il non-atto ed è «configurabile, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile quell’atto» (Cass. n. 14916/2016).

Nel caso specifico il procedimento di trasmissione degli atti “risulta perfettamente conforme al diritto”. In quanto “sia il mittente che il destinatario sono i soggetti abilitati, rispettivamente, ad effettuare e a ricevere la notificazione e la consegna è avvenuta correttamente, come certificato dal gestore del servizio e, del resto, pacifico tra le parti”. Ciò che viene in rilievo invece è l’ipotesi della «totale mancanza materiale dell’atto», perché gli allegati, pur menzionati nel messaggio di posta elettronica certificata, risultano inconsistenti, come desumibile dall’indicazione delle dimensioni pressoché nulle dei relativi documenti informatici.

Ebbene, in un simile caso, quando cioè delle anomalie rendono illeggibili, o parzialmente illeggibili, i file allegati al messaggio, il destinatario ha il «dovere di informare il mittente della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente». Né vale l’obiezione per cui il mittente avrebbe facilmente potuto accorgersi dell’anomalia, perché qui non conta la “colpevolezza o meno” quanto piuttosto “se la notifica sia da considerare nulla, e quindi rinnovabile, o inesistente, e pertanto tale da rendere improcedibile il giudizio di appello”.

Prosegue il ragionamento, un ruolo decisivo è il fatto che il messaggio PEC “indicava in modo inequivocabile sia la sua provenienza dall’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero, sia i nomi degli appellati, sia l’oggetto della notificazione («ricorso in appello per la riforma della sentenza n. 245/2017 del Tribunale del Lavoro di Palermo»), sia, infine, il numero di iscrizione a ruolo del processo presso la Corte d’Appello di Palermo («n. 467/2017 R.G.L.»)”. Ne deriva che la consegna del messaggio, “seppure gravemente incompleta per la totale illeggibilità degli allegati, era idonea a fare conoscere al destinatario l’esatto oggetto (anche se non il contenuto) della notificazione”.

Ciò, dunque, esclude che si possa parlare di «totale mancanza dell’atto», da intendersi come atto notificatorio, e, quindi, la sussistenza dell’ipotesi estrema e residuale della inesistenza della notificazione.

In definitiva per la Corte Suprema di Cassazione, Sezione lavoro, va affermato il seguente principio di diritto: «Nelle notificazioni a mezzo PEC, qualora il messaggio regolarmente pervenuto al destinatario indichi chiaramente gli estremi essenziali della notificazione (soggetto notificante, soggetto notificato, oggetto della notifica), qualsiasi anomalia che renda di fatto illeggibili gli allegati (atti notificati e relata di notifica) comporta la nullità, e non la inesistenza, della notificazione».


Legittima la notifica dell’atto impositivo al soggetto generato dalla trasformazione societaria

Nell’ipotesi di una trasformazione da società di persone a società di capitali, l’avviso di accertamento relativo a un periodo precedente alla trasformazione deve essere intestato e notificato alla società che nasce dopo la trasformazione.
Nel caso di trasformazione da società di persone a società di capitali, l’avviso di accertamento contenente le risultanze del controllo effettuato nel periodo in cui l’ente aveva la forma di società di persone, deve essere intestato e notificato alla società nata dalla trasformazione, in quanto soggetto subentrato in tutti i diritti e obblighi anteriori alla trasformazione.
Infatti, la trasformazione della società da un tipo ad un altro non si traduce nell’estinzione di un soggetto a favore di uno nuovo, configurando invece una vicenda modificativa ed evolutiva del medesimo soggetto, che non incide sui rapporti processuali e sostanziali facenti capo all’originaria organizzazione.
Queste le conclusioni a cui è pervenuta la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 29119/2023.
La controversia riguarda il ricorso proposto da una società di capitali avverso avvisi di accertamento aventi ad oggetto il controllo della posizione fiscale riferito a periodi d’imposta in cui la società aveva la diversa forma di società in accomandita semplice.
Gli atti impositivi, infatti, scaturivano dal risultato di una verifica fiscale conclusasi con un p.v.c. che ha riguardato, in particolare, la documentazione bancaria e i rapporti commerciali della s.a.s.
Nelle more del procedimento la società si è trasformata in società a responsabilità limitata e in considerazione di tale trasformazione, l’avviso di accertamento relativo alla società in accomandita semplice è stato notificato alla s.r.l.
La società e i soci impugnavano gli atti impositivi lamentando, in primo luogo, il proprio difetto di legittimazione passiva, posto che l’avviso di accertamento era stato emesso e notificato nei confronti della s.r.l. mentre la verifica fiscale riguardava la preesistente S.a.s. La CTR, a conferma della sentenza di prime cure, ha accolto il ricorso ritenendo che gli avvisi di accertamento fossero stati erroneamente emessi e notificati nei confronti della società di capitali frutto della trasformazione.
L’Agenzia delle entrate ha impugnato la sentenza della CTR, deducendo che la società nata dalla trasformazione conserva tutti i diritti e gli obblighi anteriori alla trasformazione stessa, che fa semplicemente mutare l’organizzazione già esistente (Cass. 851/2000), la quale prosegue i rapporti processuali e sostanziali che ad essa fanno capo senza che si determini alcuna interruzione della vita sociale né l’estinzione della società (Cass. 5963/2001).
Ne consegue che l’avviso di accertamento afferente a un periodo di imposta anteriore alla trasformazione è correttamente notificato al legale rappresentante della società risultante dalla trasformazione stessa, non implicando, questa, alcun mutamento del soggetto passivo del rapporto tributario.


Atto notificato per posta al portiere dello stabile

È nulla la notifica di un atto eseguita a mezzo del servizio postale con la consegna del plico al portiere dello stabile se nell’avviso di ricevimento non viene dato atto del mancato rinvenimento del destinatario o del rifiuto o dell’assenza delle persone abilitate alla ricezione (persona di famiglia, addetta alla casa o al servizio).

Così si è espressa la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n. 28093 del 5 ottobre 2023.

La Corte di Appello dichiarava inammissibile il gravame proposto da un avvocato avverso una sentenza del Tribunale per nullità della notifica dell’atto di appello eseguita a mezzo del servizio postale, in quanto eseguita in violazione degli artt. 3 e 11 della legge n. 53/94. Nullità che non era stata sanata dalla successiva rinnovazione.

Il plico era stato consegnato al portiere dello stabile dello studio del legale del domiciliatario della parte appellata e nell’avviso di ricevimento della raccomandata non risultava indicata la qualità del soggetto che aveva ricevuto l’atto, ma esclusivamente il nominativo di questo, privo di qualunque specificazione in ordine al suo rapporto con il destinatario.

Pertanto, il legale sottoponeva la questione all’esame della Corte Suprema di Cassazione deducendo, tra i motivi dell’impugnazione della sentenza della Corte di Appello, la violazione degli artt. 3 e 11 della legge n. 53 del 1994, dell’art. 156 c.p.c. in relazione all’art 160 c.p.c. e del principio della tassatività delle nullità.

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte Suprema di Cassazione, la quale nel rigettarlo ha osservato che:

  • in tema di notifica a mezzo del servizio postale, la legge n. 890/1982 consente, non diversamente da quanto dispone l’articolo 139 del c.p.c. per la notifica effettuata dall’ufficiale giudiziario, la ricezione dell’atto da parte di un soggetto diverso dal destinatario attraverso la previsione di una successione preferenziale tassativa e vincolante delle categorie di persone alle quali la copia deve essere consegnata, successione che presuppone la necessità, ai fini della validità della notifica, dell’assenza di coloro che si trovino in posizione di precedenza per giustificare la consegna a soggetti appartenenti alla categoria successiva;
  • l’ufficiale postale o l’ufficiale giudiziario deve dare atto nell’avviso di ricevimento o nella relata dell’assenza o rifiuto delle persone alle quali la copia deve essere consegnata;
  • l’assenza del destinatario e delle persona alle quali la copia deve essere consegnata in ordine preferenziale non può desumersi o ritenersi altrimenti implicata dalla consegna stessa del piego al portiere. Un tale ragionamento equivarrebbe a eludere l’attestazione e, con essa, la necessità di osservare l’ordine di preferenza nella consegna, che resterebbe di fatto vanificato.

Rimborso spese legali solo previo parere di congruità. Dipendente pubblico viene assolto

L’Amministrazione di appartenenza verifica se sussistono i presupposti per il rimborso, con l’ausilio dell’Avvocatura dello Stato il cui parere ha natura obbligatoria e vincolante

Il parere di congruità previsto dall’ art. 18 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito con L. n. 135 del 1997 è obbligatorio e vincolante. Pertanto, le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti pubblici per fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza di assoluzione, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato (Consiglio di Stato, sentenza n. 7917/2023).

Un Carabiniere otteneva il rimborso delle spese di patrocinio legale sopportate per un procedimento penale – conclusosi con l’assoluzione – per fatti connessi all’esercizio delle proprie funzioni, nella misura complessiva di € 20.000,00.

Il Ministero della difesa impugnava tale decisione, sostenendo che il T.A.R., annullato il diniego di rimborso delle spese legali, non avrebbe potuto stabilirne il quantum, ma avrebbe dovuto rimetterne la determinazione all’Amministrazione, previa valutazione di congruità della competente Avvocatura erariale, in ragione del carattere obbligatorio e vincolante del parere di congruità previsto dall’art. 18 del d.l. 25 marzo 1997, n. 67, convertito con l. n. 135 del 1997.

Per il Consiglio di Stato, l’appello è fondato.

L’art. 18 sopra richiamato stabilisce, infatti, che “le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato”.

In precedenti pronunce, il Consiglio di Stato aveva già chiarito che, nei casi di giurisdizione amministrativa esclusiva, rilevano i principi generali per i quali, in presenza di un potere valutativo dell’Amministrazione, la posizione del dipendente va qualificata come interesse legittimo.

L’art. 18 citato attribuisce un peculiare potere valutativo all’Amministrazione con riferimento all’an ed al quantum, poiché essa deve verificare se sussistano in concreto i presupposti per disporre il rimborso di tali spese e la loro congruità, con l’ausilio dell’Avvocatura dello Stato, il cui parere ha natura obbligatoria e vincolante.

Il parere deve valutare quali siano state le effettive necessità difensive ed è sindacabile in sede di giurisdizione di legittimità per errore di fatto, illogicità, carenza di motivazione, incoerenza, irrazionalità o per violazione delle norme di settore (Cons. Stato, Sez. II, 2009, n. 7722)”.

Pertanto, il T.A.R., dopo aver annullato il provvedimento di diniego, si sarebbe dovuto limitare a rimetterne la quantificazione all’Amministrazione, perché vi procedesse con l’ausilio dell’Avvocatura dello Stato.


Se il cartello col limite di velocità è a meno di 1 km dall’autovelox: multa illegittima

Un automobilista impugnava innanzi al Giudice di Pace territorialmente competente un verbale di contestazione – eccesso di velocità rispetto al limite vigente di 70 km/h – per violazione dell’art. 142 comma 9 C.d.s. elevato dalla Polizia locale.

La contestazione predetta prevedeva il pagamento sanzionatorio di € 550,00 e la decurtazione di 6 punti dalla patente di guida.

L’opposizione a sanzione amministrativa intentata dall’automobilista faceva leva, tra le altre doglianze, sul mancato rispetto della distanza minima di un chilometro tra il segnale riproducente il limite di velocità vigente sul tratto di strada e l’apparecchiatura autovelox, come imposta dall’art. 25 comma 2 della L. 120/2010.

L’opposizione alla sanzione amministrativa veniva respinta in primo grado dal Giudice di Pace mentre veniva accolta dal Tribunale in funzione di Giudice dell’appello.

La decisione della Suprema Corte di Cassazione

Proponeva ricorso per la Suprema Corte di Cassazione l’Unione dei Comuni – da cui dipendeva la Polizia Locale che aveva elevato la contravvenzione – sostenendo che, nel caso di specie, andasse disapplicato il capo 7.6 allegato al D.M. n. 282/2017 di attuazione dell’art. 25 comma 2 della L. 120/2010 atteso che, secondo le tesi della parte ricorrente, l’ambito di applicazione della predetta norma – che impone la distanza di un chilometro tra segnale che impone il limite di velocità e la postazione autovelox – sarebbe limitato al caso in cui vi sia un segnale che imponga di abbassare il limite di velocità e non di un segnale che ripeta, in modo inalterato, il limite precedente.

Si fa riferimento al caso in cui, l’utente della strada – che si immette nel nuovo tratto viario provenendo da altra strada – incontra, dopo l’intersezione, un nuovo limite di velocità.

Il capo 7.6 allegato al D.M. n. 282/2017 dispone: “Nel caso di diverso limite massimo di velocità anche lungo un solo ramo della intersezione, sia maggiore che minore rispetto a quello ripetuto dopo l’intersezione, la distanza minima di un chilometro si computa dopo quest’ultimo in modo da garantire a tutti gli utenti della strada in approccio alla postazione lo stesso trattamento”.

Secondo la parte ricorrente tale disposizione andrebbe disapplicata in quanto irragionevole con riferimento all’art. 3 della Costituzione, considerato che pone sullo stesso piano il caso di chi proviene da una strada in cui il limite di velocità è inferiore – e si immette su un tratto viario in cui il limite è superiore – e quello esattamente opposto, in cui il privato proviene da un tratto stradale ove il limite di velocità è maggiore rispetto a quello vigente dopo l’intersezione.

La Suprema Corte di Cassazione (con la sentenza n. 25544/2023), rigettando il ricorso, ha considerato tale interpretazione del tutto insostenibile, atteso che il segnale di limite di velocità, prescrivendo un divieto, segnala, in ogni caso, un’imposizione, indipendentemente dall’esistenza di un precedente limite e dall’entità di tale limite.

A nulla rileva, per di più, la prova che l’utente della strada si sia effettivamente immesso dal tratto di strada ove, nel caso di specie, vigeva il limite di 50 km/h – inferiore rispetto a quello di 70 km/h vigente dopo l’intersezione – considerato che il verbale di violazione del Codice della strada risultava viziato per la questione oggettiva del posizionamento dell’autovelox ad una distanza inferiore ad un chilometro dal segnale di limite di velocità.


Avviso di accertamento con firma digitale: è valido?

Quali sono gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento e cosa accade se la firma è digitale ma l’atto è notificato per posta.

Chi riceve un avviso di accertamento dal Fisco può difendersi, oltre che per motivi sostanziali relativi all’imposta addebitata e alla condotta degli uffici accertatori, per i vizi formali dell’atto notificato. La legge prevede, infatti, determinati elementi essenziali di validità dell’atto, in assenza dei quali l’accertamento è nullo. Tra questi elementi vi è la sottoscrizione dell’avviso da parte di un soggetto avente idonei poteri, perché svolge carriera direttiva o perché validamente delegato dal capo dell’ufficio o altro direttore.

Vediamo quali sono gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento, quando la sottoscrizione deve ritenersi esistente e valida e cosa accade se la firma è digitale ma l’atto notificato è cartaceo.

  • Elementi essenziali avviso di accertamento
  • Sottoscrizione avviso di accertamento
  • Se l’avviso di accertamento è firmato digitalmente

Elementi essenziali avviso di accertamento

L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni dei dati essenziali del rapporto tributario, la motivazione dell’accertamento stesso e dell’imposta e sanzioni dovute [Art. 42 D.P.R. 600/1973].

Più precisamente, avviso di accertamento deve recare:

  • la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato;
  • l’indicazione dell’imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute di acconto e dei crediti d’imposta;
  • la motivazione in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato l’accertamento, con distinto riferimento ai singoli redditi delle varie categorie e con la specifica indicazione dei fatti e delle circostanze che giustificano il ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale (per esempio in caso di imposta di registro su atti giudiziari).

Sottoscrizione avviso di accertamento

L’avviso di accertamento è nullo se non è firmato dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. La delega può essere conferita o con atto proprio o con ordine di servizio purché venga indicato, unitamente alle ragioni della delega (cioè, le cause che ne hanno resa necessaria l’adozione, quali carenza di personale, assenza, vacanza, malattia, etc.), il termine di validità ed il nominativo del soggetto delegato.

La delega per la firma dell’avviso di accertamento è valida se sussistono i seguenti requisiti:

  • identificazione specifica del delegante e del delegato
  • forma scritta (sottoscritta autograficamente, protocollata e depositata agli atti dell’ufficio);
  • motivazione (indicazione delle esigenze di servizio che hanno reso necessaria la delega);
  • qualifica, funzione e generalità del dirigente/funzionario delegato;
  • durata e limitazioni (periodo e valore/materia/atti/servizi ecc.).

Secondo la Corte Suprema di Cassazione [Cass. sentt. n. 18758/2014, 22800/2015, 24492/2015], il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario della carriera direttiva alla sottoscrizione; il potere di organizzazione deve essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio.

Se il contribuente contesta la firma riconducibile non già al “capo dell’ufficio titolare”, bensì ad un “funzionario della carriera direttiva”, ricade sull’Amministrazione l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio.

Se l’avviso di accertamento è firmato digitalmente

Spesso accade che l’avviso di accertamento è firmato digitalmente dal capo dell’ufficio ma l’atto notificato è cartaceo. In questo caso la firma è valida? O l’atto devo considerarsi nullo?

Secondo una recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Salerno [CTP Salerno, sent. del 14.05.2018], l’avviso di accertamento cartaceo che, in luogo della firma autografa, rechi l’indicazione della firma digitale, è nullo.

L’apposizione della firma digitale conferisce genuinità ed indubbia paternità al documento informatico da notificare unitamente alla garanzia offerta al destinatario dello stesso di aprire la “busta crittografica” e confermarne l’autenticità e, quindi, la sua validità.

Ma quando l’avviso di accertamento, pur se firmato digitalmente, viene notificato in via ordinaria (tramite Messo Comunale/Notificatore o per posta), esso è nullo perché privo del requisito essenziale della sottoscrizione.

L’avviso di accertamento, da emettere obbligatoriamente in via analogica (su documento cartaceo o comunque diverso dal digitale), deve essere necessariamente sottoscritto con firma autografa del capo dell’Ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato e non firmato digitalmente senza alcuna sottoscrizione in originale.

Secondo i giudici, l’avviso notificato in via ordinaria e firmato digitalmente è un atto da considerarsi privo di sottoscrizione, ed è quindi affetto da inesistenza giuridica in ragione della insussistenza di un suo elemento essenziale qual è, appunto, la mancata formazione della volontà di assunzione dei contenuti dell’atto medesimo da parte dell’ufficio che lo ha emesso.