Corte di Cassazione: dipendente lascia l’ufficio senza giustificato motivo? Non basta per il licenziamento

Con la Sentenza n. 14586/2009, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio di diritto secondo il quale, in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione in merito alla proporzionalità tra il fatto addebitato e il recesso, va considerato qualsiasi comportamento attuato dal dipendente che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la continuazione del rapporto comporti un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che, sul rapporto di lavoro, è in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione a attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Sulla base di tale principio, la Corte ha annullato, con rinvio, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Torino, che, in riforma del giudizio di primo grado, aveva ritenuto legittimo il licenziamento, intimato dal datore di lavoro a un dipendente, il quale aveva abbandonato, per un brevissimo lasso di tempo il proprio posto di lavoro, peraltro rimanendo nella sede lavorativa. Ad avviso del giudice del merito, ai fini della legittimità del licenziamento, si doveva tenere conto che la condotta del lavoratore aveva determinato il blocco, anche solo breve, delle macchine e l’abbandono del posto di lavoro di cui il dipendente aveva la responsabilità, inoltre, ciò risultava di maggiore gravità era che il fatto si fosse verificato in orario notturno, quando i controlli dei superiori erano minori, senza che potesse assumere rilievo la lunga carriera lavorativa del dipendente, l’assenza di precedenti sanzioni, la mancanza di qualsiasi danno alla produzione o la previsione di una sanzione diversa dal licenziamento da parte del contratto collettivo.

Avverso la sentenza di appello, il lavoratore ha promosso ricorso per Cassazione e, come si è detto, la Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata, deducendo, tra l’altro, che il giudice del merito aveva omesso una lettura sistematica delle disposizioni contrattuali, nonché una valutazione concreta e complessiva dei fatti, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, non vagliando la lunga durata del rapporto di lavoro e l’assenza di recidiva. La Corte ha osservato che il principio di proporzionalità, tra la sanzione e l’illecito, implica un giudizio di adeguatezza soggettivo, ovvero calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano i fatti contestati, alla luce di tutte le circostanze utili, a apprezzarne l’effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale. Ora, compete al giudice del merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto degli aspetti concreti della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risultino sintomatici della sua gravità rispetto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzitutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma anche all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto delle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni, alla sua particolare natura e tipologia.

Ad avviso della Cassazione, il giudice del merito avrebbe operato una valutazione astratta della vicenda processuale, pertanto, non in grado di cogliere, attraverso la rilevazione degli elementi sintomatici essenziali della sua gravità, l’effettivo disvalore del comportamento addebitato al dipendente.


Decreto anticrisi, passa l’equiparazione tra pubblico e privato delle fasce di reperibilità dei lavoratori in malattia

Fasce di reperibilità in caso di assenza

A far data dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del Decreto Legge le fasce di reperibilità per i lavoratori pubblici entro le quali devono essere effettuate le visite mediche di controllo, tornano ad essere quelle in vigore per il settore privato: 10.00 – 12.00 (e non più 8.00 – 13.00) e 17.00 – 19.00 (e non più 14.00 – 20.00).

Il decreto conferma i chiarimenti già forniti da alcune circolari in materia di visita fiscale, e cioè che dopo il secondo evento di malattia nell’anno solare, l’assenza dal servizio del lavoratore viene giustificata mediante presentazione di certificazione medica rilasciata da struttura sanitaria pubblica “o da un medico convenzionato con il Servizio sanitario nazionale”.

Assenze dal servizio non equiparate alla presenza (ai fini della produttività)

Il Decreto Legge, ha abrogato la disposizione contenuta nell’art. 71 comma 5 della legge n. 133/2008 “decreto Brunetta”, a decorrere dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e senza effetti retroattivi;
In questo modo tutte le forme di assenza collegate a ferie, permessi retribuiti a vario titolo, agibilità sindacali ecc. ritornano ad essere considerate presenza, ai fini della produttività e comunque sulla base delle regole definite dalla contrattazione aziendale;
In questo modo si ritorna all’autonomia della contrattazione aziendale e si ripristinano legittimi diritti dei lavoratori conquistati con i contratti di lavoro e specifiche normative.

Assunzioni nella pubblica amministrazione e lavoro precario

Il Decreto Legge nel confermare la normativa vigente in materia di assunzioni e di processi di stabilizzazione introduce nuove opportunità:

1) il termine per procedere alle assunzioni di personale a tempo indeterminato relative alle cessazioni verificatesi nell’anno 2008, inclusa la stabilizzazione del personale precario, è prorogato al 31 dicembre 2010;

2) le graduatorie delle assunzioni a tempo indeterminato per le amministrazioni soggette a limitazioni, approvate successivamente al 1 gennaio 2004, sono prorogate al 31 dicembre 2010;

3) la riserva per il triennio 2010 – 2012 a favore del personale precario in possesso dei previsti requisiti, del 40% dei posti nei concorsi banditi per le assunzioni a tempo indeterminato;

4)la possibilità per il triennio 2010 – 2012 di bandire concorsi pubblici per titoli ed esami finalizzati a valorizzare con apposito punteggio l’esperienza professionale maturata dal personale precario;
5) la possibilità di assumere personale precario in possesso dei previsti requisiti, ed appartenente alle qualifiche previste per il reclutamento tramite ufficio di collocamento (art. 16 della legge n. 56/1987);
6) la possibilità per il triennio 2010 – 2012 di destinare il 40% delle risorse disponibili dalla vigente normativa in materia di assunzioni e contenimento della spesa per il personale, per il finanziamento delle assunzioni del personale precario interessato dalle procedure di stabilizzazione.


Accertamento notificato nella casa dove è rimasta l’ex? Non è valido

La Sezione Tributaria Civile della Corte di Cassazione (Sent. n. 13510/2009) ha stabilito che non è valido l’accertamento fiscale notificato nella casa dove è rimasta a vivere la ex moglie e ciò anche se lei ha accettato l’atto e si è qualificata come la coniuge. La Corte di Cassazione ha, infatti, precisato che “con riferimento all’art. 60 d.p.r. n. 600 del 1973, atteso che esso prescrive che la notificazione degli avvisi deve essere eseguita presso il domicilio fiscale del contribuente, ma stabilisce, nel contempo, che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dall’avvenuta variazione anagrafica (comma 3). In particolare, tale lettura della norma si impone a seguito della sua declaratoria di illegittimità operata dalla sentenza n. 360 del 2003 della Corte costituzionale, che ha espunto l’inciso che condizionava l’efficacia della variazione al decorso del termine di 60 giorni (!).

L’interpretazione di tale disposizione patrocinata dall’Ufficio ricorrente, secondo cui la variazione dell’indirizzo avrebbe efficacia trascorsi 60 giorni nemmeno dalla variazione anagrafica, quanto dalla successiva comunicazione della stessa parte del comune all’Ufficio medesimo, appare pertanto del tutto insostenibile alla luce del sopravvenuto (rispetto alla data di proposizione del ricorso) arresto del giudice delle leggi. “Non può essere condivisa e prosegue la Corte è la tesi dell’Amministrazione che, lamentando la violazione dell’art. 139 cod. proc. civ., assume la validità della notifica in discorso per essere stato comunque l’atto ricevuto da persona (il coniuge) qualificatosi convivente. Da tale dichiarazione non può invero trarsi altro che una mera presunzione relativa di convivenza (!), presunzione, a sua volta, superabile dall’interessato mediante prova contraria, prova che, nella specie, il giudice a quo, con accertamento di fatto non censurabile se non sotto il profilo è qui non rilevato è del difetto di detta motivazione, ha ritenuto assolta in forza della documentazione da cui risultava sia il precedente cambio di indirizzo della residenza anagrafica del contribuente rispetto al luogo in cui era stata eseguita la notificazione, che l’intervenuta separazione personale con il coniuge che aveva ricevuto la notifica”.


Semplificazione normativa, al via la terza fase

Continua l’opera di semplificazione normativa. Con l’obiettivo di arrivare a non oltre 5 mila atti legislativi, il Consiglio dei ministri del 12 giugno 2009 ha approvato in via preliminare, su proposta del Ministro Calderoli, uno schema di decreto che individua le disposizioni legislative, anteriori al 1970, ritenute indispensabili per il nostro ordinamento. Si calcola che sono circa 50 mila le leggi pubblicate al primo gennaio 1970 ancora in vigore e che il “salvaleggi” ridurrà a circa 2700. Con il primo intervento (inserito nel decreto legge 112/2008 convertito in legge n.133/2008) è stato prodotto un taglio di circa 7.000 leggi. Il secondo intervento (decreto legge n.200/2008 convertito in legge n. 9/2009) ha consentito un taglio di quasi 29.000 leggi. Con il terzo provvedimento – varato dal governo il 12 giugno scorso – si opera un taglio sulle leggi anteriori al 1970.

Con questa ulteriore selezione, le leggi che resteranno in vigore saranno circa 2.700 al posto delle attuali 50 mila. Si tratta di un ulteriore tassello della vasta manovra di “ripulitura normativa” che consiste nella ricognizione degli atti (circa duemilacinquecento) individuati – a seguito di una complessa istruttoria – come tuttora utili al funzionamento dell’apparato pubblico.


Enti locali, intesa sui contratti per il biennio 2008-2009

Accordo Aran-sindacati: riguarda i 500 mila lavoratori di Regioni, Province e Comuni per il biennio 2008-2009

Un aumento medio a regime sul salario tabellare di 63 euro circa (pari ad +3,2%): è il frutto dell’accordo raggiunto per il contratto degli oltre 500 mila lavoratori di regioni, province e comuni. L’intesa sottoscritta da Aran e sindacati prevede, oltre all’aumento di 63 euro, anche un ulteriore aumento dell’1%: sarà a disposizione delle amministrazioni che hanno rispettato il Patto di Stabilità interno e le regole per il contenimento della spesa del personale. Gli enti più virtuosi, inoltre, disporranno di uno 0,5% in più. Tali risorse destinate alla contrattazione integrativa serviranno a premiare la maggiore produttività e il merito dei dipendenti. L’aumento, dunque, per le amministrazioni più virtuose potrà arrivare anche a superare i 90 euro. L’intesa è stata sottoscritta unitariamente da Cgil, Cisl e Uil. I sindacati, quindi, giudicano l’accordo un “risultato importante”.
L’Aran, che rappresenta la controparte dei sindacati nelle trattative, sottolinea che l’aumento salariale di 63 euro, corrispondente al 3,2%, è la percentuale “riconosciuta in questa tornata contrattuale in tutti i comparti del pubblico impiego”. “Inoltre – afferma una nota dell’Agenzia – confermando scelte già operate nei precedenti rinnovi contrattuali, viene riconosciuta agli Enti del Comparto la disponibilità di risorse aggiuntive per la propria contrattazione integrativa, qualora abbiano rispettato nei precedenti anni il Patto di stabilità interno e gli obblighi di contenimento della spesa di personale e siano in possesso di specifici parametri di virtuosità economico-finanziaria, definiti dal testo contrattuale. Tali risorse debbono essere finalizzate all’incentivazione della qualità, della produttività e della capacità innovativa della prestazione lavorativa ed alla erogazione di compensi strettamente collegati all’effettivo miglioramento qualitativo e quantitativo dei servizi erogati al cittadino”.


Dalla Presidenza del Consiglio la Posta elettronica certificata

Al cittadino che ne fa richiesta la Presidenza del Consiglio dei Ministri (Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie) assegna un indirizzo di posta elettronica certificata (PEC), che consente l’invio di documenti per via telematica. E’ stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 25 maggio 2009 il Decreto del Presidente del Consiglio sulle disposizioni di rilascio e sull’uso della PEC.

L’attivazione della PEC e le comunicazioni che per essa transitano sono senza oneri per il cittadino. Da parte loro le Pubbliche amministrazioni: istituiscono una casella di PEC per ogni registro di protocollo e ne danno comunicazione al CNIPA (organo pubblico preposto al controllo della posta elettronica certificata) che provvede alla pubblicazione in rete consultabile per via telematica; includono gli estremi di eventuali pagamenti per ogni singolo procedimento; rendono disponibili sul loro sito istituzionale ogni tipo di informazione idonea a consentire l’inoltro i istanze da parte dei cittadini titolari di PEC; sono tenute ad accettare le istanze dei cittadini inviate tramite PEC.

Per l’individuazione dell’affidatario del servizio di PEC il Dipartimento per l’innovazione e le tecnologie avvia apposite procedure di gara di evidenza pubblica, e definisce le caratteristiche tecniche del servizio, i livelli di servizio garantiti, gli obblighi dell’affidatario, nonché gli ulteriori servizi da mettere a disposizione. L’affidatario del servizio di PEC deve rendere consultabili alle Pubbliche amministrazioni, in via telematica, gli indirizzi di PEC, rispettando i criteri di qualità, sicurezza ed interoperabilità definiti dal CNIPA, nonché la disciplina in materia di tutela dei dati personali.


Ipoteca illegittima senza la notifica dell’intimazione di pagamento

Il Concessionario della riscossione (Equitalia SpA) prima di iscrivere ipoteca su un immobile è tenuto a notificare al contribuente atto di intimazione di pagamento.

Ciò è quanto emerge da una recente pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Milano (sent. nr.137/03/09), la quale ha accolto il ricorso di una contribuente che si è vista iscrivere ipoteca per crediti relativi a cartelle notificatele molti anni prima.

Nel caso di specie, infatti, la ricorrente ha sostenuto che l’iscrizione ipotecaria era affetta da insanabile nullità, in quanto il Concessionario non aveva proceduto alla preventiva notifica dell’intimazione di pagamento, ai sensi dell’art. 50, secondo comma, del DPR n. 602/1973.

E’ bene ricordare che nel contesto tributario l’ipoteca si atteggia come una misura cautelare conservativa strumentalmente connessa all’espropriazione forzata immobiliare e dunque soggetta all’applicazione non solo della disposizione dell’art. 77 del DPR n. 602/1973 (Espropriazione immobiliare) ma anche dei precetti consacrati negli art. 49 e seguenti (Espropriazione forzata e Disposizioni Generali).

L’ipoteca, infatti, sebbene non sia un atto di espropriazione forzata in senso stretto, rimane comunque un provvedimento funzionale alla fase esecutiva.

Come giustamente osservato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte, (sent. Cass. SSUU n. 2053 del 31.01.2006), l’iscrizione d’ipoteca – equiparabile al fermo amministrativo – “è preordinata all’espropriazione forzata e dunque è un atto funzionale all’espropriazione medesima, ovvero un mezzo teso ad agevolare la realizzazione del credito”.

Tanto premesso, è indiscutibile che espropriazione, ipoteca legale e fermo amministrativo, benché non vincolati gli uni agli altri, vantano comunque identici presupposti e condizioni, posto che gli stessi dipendono direttamente e immediatamente dalla concreta ed attuale piena efficacia della prodromica notifica della cartella di pagamento.

Nel caso, quindi, sia decorso più di un anno dalla notificazione della cartella, l’espropriazione potrà essere avviata ” e l’iscrizione ipotecaria potrà essere disposta ” solo dopo la notifica dell’intimazione di pagamento di cui al secondo comma dell’art. 50 del DPR n. 602/1973.

La mancata attivazione della fase espropriativa nel termine annuale fissato dalla predetta disposizione, determina il venir meno della capacità del ruolo (ossia del credito contenuto nella cartella esattoriale) a valere come titolo esecutivo, essendo la sua efficacia sospesa ex lege sino a quando non è ripristinata dalla notificazione dell’intimazione ad adempiere.

Della stessa opinione appaiono i giudici di prime cure, i quali ritengono la notifica dell?intimazione un “aspetto molto importante da seguire prima di procedere all’iscrizione di ipoteca” (pagina 3 della sentenza).

Infine, altro aspetto ritenuto importante dalla Commissione Tributaria, riguardava il fatto che alcune somme richieste fossero già state pagate e che quindi l’importo vantato era inferiore a Euro 8.000,00.

La ricorrente evidenziava, infatti, che se si considerava la pretesa globale del Concessionario (Euro 34.005,78) e si sottraeva da essa l’importo relativo alle due cartelle ritenute illegittime (ossia quella di Euro 21.112,64 + Euro 7.210,54 = € 28.323,18), si otteneva un credito restante di € 5.682,60, il quale non avrebbe permesso al Concessionario di iscrivere ipoteca, in quanto l’art. 76 del DPR 602/1973 prevede un importo minimo di Euro 8.000,00.

Va da sé, quindi, che anche nell’ottica della ragionevolezza tale forma di garanzia non avrebbe avuto i presupposti per esistere.

A tal riguardo, infatti, la Commissione dichiara che “Tenuto conto del debito tributario che rimaneva da saldare da parte della ricorrente (cartelle esattoriali non pagate) secondo il Collegio, per l’ufficio Equitalia Esatri SpA non sussisteva il minimo imponibile per poter iscrivere ipoteca”.


Modifiche importanti all’art. 137 c.p.c.

Il Senato della Repubblica ha definitivamente approvato il 26 maggio 2009 il Disegno di Legge recante “Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, nonché in materia di processo civile” (collegato alla Finanziaria 2009). Tale D.L. apporta significative modifiche all’art. 137 del c.p.c..

Verrà pubblicato il testo integrale dopo la pubblicazione sulla Gazzetta.
Queste le principali misure: è introdotto il tema della digitalizzazione e del processo telematico; sono previsti nuovi istituti, come il procedimento sommario di cognizione e la testimonianza scritta e nuove misure coercitive per l’esecuzione degli obblighi sanciti dalle sentenze; il calendario del processo; sanzioni pecuniarie più efficaci a carico della parte che, con il proprio comportamento, abbia determinato un allungamento dei tempi di durata del processo; un filtro per i ricorsi in Cassazione. Un altro strumento innovativo sarà la mediazione civile: il governo è delegato a introdurre un’alternativa facoltativa per le parti al processo, sicché le parti potranno decidere di risolvere la controversia davanti ad un organismo di conciliazione in modo più rapido ed economicamente più conveniente rispetto al giudizio ordinario.

Il governo è anche delegato ad adottare misure per semplificare i procedimenti civili, (il cui numero supera attualmente la trentina), riconducendoli per la maggior parte ad uno dei tre modelli di riferimento disciplinati dal codice, e a riformare il processo amministrativo. Infine, è prevista la pubblicazione on line delle sentenze che, su disposizione del giudice, potranno essere pubblicate sui giornali o, in alternativa, sul sito internet del Ministero della Giustizia. Il disegno di legge approvato contiene altresì norme su ambiente, gestione dei rifiuti e acqua, la definizione di un nuovo assetto per le farmacie e la promozione di azioni per conciliare tempi di vita e di lavoro.


Pubblico impiego: “rivoluzione Brunetta”

Il Consiglio dei ministri del 15 maggio 2009 ha approvato, su proposta del Ministro, Renato Brunetta, lo schema del decreto legislativo sulla riforma della Pubblica Amministrazione, che verrà trasmesso per il parere alle parti sociali attraverso il CNEL, alla Conferenza unificata e alle Commissioni parlamentari. Il punto centrale della riforma è l’attribuzione selettiva degli incentivi economici e di carriera, in modo da premiare i più capaci e i meritevoli.

Per aiutare le Amministrazioni a recepire questa nuova mentalità, è prevista la costituzione di un’apposita Commissione per la valutazione e di Organi indipendenti di valutazione, nel quadro di un programma triennale per la trasparenza e l’integrità. La Commissione per la valutazione dovrà predisporre ogni anno una graduatoria di performance delle singole amministrazioni statali su almeno tre livelli di merito, in base ai quali la contrattazione collettiva nazionale ripartirà le risorse, premiando le migliori strutture e alimentando una sana competizione. I dirigenti saranno responsabili della gestione delle risorse umane e della qualità e quantità del prodotto delle pubbliche amministrazioni, nonché dell’attribuzione dei trattamenti economici accessori.

Quanto al controllo delle assenze, in particolare per i casi di false attestazioni di presenze o di falsi certificati medici, sono introdotte sanzioni, anche di carattere penale, nei confronti del dipendente e del medico eventualmente corresponsabile. Infine, viene definito un catalogo di infrazioni gravi assoggettate al licenziamento, che potrà essere ampliato ma non diminuito dalla contrattazione collettiva.


Rimuovere il dirigente è reato

Commette abuso d’ufficio il sindaco che rimuove un dirigente per ritorsione facendo valere generiche ragioni di sfiducia nei confronti del suo operato. La privatizzazione del pubblico impiego, che ha attribuito alla cognizione del giudice ordinario le controversie in materia, non incide sulla natura pubblicistica della funzione svolta dal primo cittadino che così viene ad assumere in tutto e per tutto la qualifica di pubblico ufficiale.
Lo ha chiarito la sesta sezione penale della Corte di cassazione con la sentenza n. 19135/2009 depositata ieri in cancelleria. Gli Ermellini hanno confermato la sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta che nel 2008 aveva condannato per abuso d’ufficio l’ex sindaco del comune siciliano reo di aver illegittimamente rimosso il comandante della polizia municipale dall’incarico di dirigente del settore commercio, annona e polizia locale. Una destituzione che, come accertato in primo grado dal tribunale nisseno, era stato motivata da mere ragioni di ritorsione nei confronti del dirigente che aveva segnalato alla procura della repubblica l’irregolarità di alcune antenne posizionate su un terreno a cui era interessato il figlio del primo cittadino. Oltre a negare nel merito la sussistenza delle accuse, il sindaco si è difeso in Cassazione affermando che la qualifica di primo cittadino non sarebbe sufficiente a qualificarlo come pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. E questo perché, a suo dire, il dlgs n. 165/2001 (Testo unico sul pubblico impiego) colloca la dirigenza pubblica “in un’area di diritto comune”. In altre parole, secondo il sindaco, la privatizzazione del pubblico impiego avrebbe posto al di fuori della potestà amministrativa qualsiasi atto di gestione del rapporto dirigenziale, compresa la revoca. In quest’ottica, il comune dovrebbe essere totalmente parificato a un datore di lavoro privato (che opera come parte e non, dunque, come autorità) e la revoca dall’incarico in realtà non sarebbe altro che un licenziamento senza giusta causa, “espressione di autonomia negoziale e non di esercizio di funzione pubblica o di potere di autotutela”.

La Cassazione però ha respinto tutte le argomentazioni difensive del sindaco. “Palesemente infondata”, scrivono i giudici che hanno condannato il ricorrente anche al pagamento delle spese processuali, “E’ la deduzione difensiva secondo cui il conferimento di un tale incarico (dirigenziale, ndr) sarebbe una sorta di atto privato discrezionale del sindaco/datore di lavoro e la revoca inciderebbe solo sul rapporto privatistico instauratosi, realizzando una sorta di mero licenziamento senza giusta causa”. Per i giudici di legittimità, dunque, la rimozione del dirigente non può essere considerata una semplice manifestazione di autonomia negoziale. Si tratta, invece, dice la Corte, di “un atto finalisticamente orientato alla realizzazione di pubblici interessi”. E per averne una conferma basta leggere il Testo unico sugli enti locali. “La nomina del dirigente, e la sua revoca che l’art. 109 del Tuel disciplina contestualmente”, scrivono gli Ermellini, “è strettamente connessa proprio al migliore perseguimento delle più rilevanti finalità istituzionali e si risolve nell’attribuzione al medesimo dirigente di funzioni e poteri di natura strettamente pubblicistica”. “La natura pubblicistica della funzione svolta e dei poteri esercitati”, conclude la Corte, “non muta e con essa non muta la qualifica di pubblico ufficiale rilevante ai sensi dell’art. 357 del codice penale”.


Ricorso in Cassazione senza relata di notifica? E’ improcedibile

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite con Sentenza n. 9004/2009 ha stabilito che “.. nell’ipotesi in cui il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, la Corte di Cassazione deve ritenere che il ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il cd. Termine lungo e procedere all’accertamento della sua osservanza. Tuttavia, qualora o per eccezione del contro ricorrente o per le emergenze del diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio emerga che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, la Corte, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno del rispetto del termine breve, deve rilevare che la parte ricorrente non ha ottemperato all’onere del deposito della copia notificata della sentenza impugnata entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e di dichiarare improcedibile il ricorso, atteso che il riscontro della improcedibilità del ricorso per cassazione precede quello dell?eventuale sua inammissibilità; la previsione è di cui al secondo comma, n. 2, dell’art. 369 c.p.c. ” dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al primo comma della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di Cassazione e a tutela dell’esigenza pubblicitaria (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale e della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente od implicitamente, alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con la relata avvenuta nel rispetto del secondo comma dell’art. 372 c.p.c., applicabile estensivamente, purché entro il termine, di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c., e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del temine breve da parte del contro ricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione. In tema di ricorso per regolamento di competenza, l’obbligo del deposito, da parte del ricorrente, unitamente alla copia autentica della sentenza impugnata, del biglietto di cancelleria da cui desumere la tempestività della proposizione dell’istanza di regolamento (obbligo fissato, a pena di improcedibilità, dal combinato disposto dell’art. 47 c.p.c. e del secondo comma dell’art. 369 c.p.c.) può essere soddisfatto o mediante il deposito del predetto documento contestualmente a quello del ricorso per cassazione (come previsto, per l’appunto, dal citato secondo comma dell’art. 369) oppure attraverso le modalità previste dal secondo comma dell’art. 372 c.p.c. (deposito e notifica mediante elenco alle altre parti), purché  “nel termine stabilito dal primo comma dell’art. 369 c.p.c.”.


La formazione: BUSINNES O SERVIZIO?

L’attività del Messo Comunale è molto complessa anche in relazione ad una normativa contraddittoria e ad una giurisprudenza altalenante. Ciò spesso rende l’attività notificatoria oggetto di controversie il cui esito processuale vanifica l’attività del Messo Comunale.
In tale contesto, in attesa dell’auspicato Testo Unico delle Notifiche, l’esigenza di dover comunque eseguire delle notifiche determina la necessità per gli Enti di attivare momenti di formazione. Essa è elemento fondamentale al fine di una corretta e uniforme applicazione, a livello nazionale, delle norme, senza la quale le prassi locali contraddittorie si sprecano e generano solo confusione.
Oggi l’attività di formazione sul procedimento notificatorio è effettuata da diverse società ed associazioni. Purtroppo dobbiamo constatare che questa pluralità di offerta formativa, invece di aiutare chi lavora, sempre più spesso crea perplessità ed incertezze nei Messi Comunali, i quali potrebbero poi trovarsi a rispondere sia civilmente che penalmente del loro operato.
La formazione non deve essere legata esclusivamente a logiche di business, ma vista come un servizio che deve essere svolto sia nell’interesse degli Agenti Notificatori che dei destinatari della notifica. Appare pertanto di dubbia utilità l’attività di alcune società ed associazioni le quali, attraverso costosi corsi di formazione ovvero apparentemente gratuiti divulgano interpretazioni a poco dire “innovative”, se non addirittura in contrasto con il dettato normativo, per finalità più o meno secondarie non sempre cristalline.
Le varie figure che interagiscono nel processo di notificazione sono previste da diverse (troppe …) leggi, le quali stabiliscono, in alcuni casi, anche le modalità di nomina e le loro competenze. Nell’occasione si ribadisce che, relativamente almeno al Messo Comunale, non è previsto nessun corso obbligatorio di formazione con esame di idoneità finale, come invece alcune società di formazione e/o associazioni paventano in modo subdolo nella pubblicità dei propri corsi.
E’ altrettanto equivoca la pretesa di voler assegnare e/o cambiare il profilo del Messo Comunale in Messo Notificatore, figura prevista dalla Legge Finanziaria del 2007. E’ bene chiarire che la Legge predetta stabilisce in modo chiaro che i corsi di formazione per i Messi Notificatori (che si ribadisce sono figure diverse dai Messi Comunali) debbano essere organizzati a cura dell’Ente (il quale li può affidare anche a società di formazione esterne all’Ente) dopo aver individuato il personale che vi parteciperà. Sarà poi il superamento dell’esame di idoneità a dare al dirigente dell’Ufficio Tributi dell’Ente la facoltà di assegnare al dipendente la qualifica di Messo Notificatore che, lo ribadiamo, ha delle competenze limitate e diverse rispetto a quelle del Messo Comunale.
Questa Associazione ritiene, pertanto, che i corsi di formazione per Messi Notificatori debbano essere preceduti da un’esplicita e formale scelta dell’Ente di avvalersi di dette nuove figure con l’impegno, ad esame superato, a darvi seguito.
E’ appena il caso di segnalare che la mera attestazione di frequenza a corsi per Messi Notificatori che non rispettano i dettami della Legge Finanziaria 2007 è ininfluente e priva di qualsivoglia valore e pone sia chi effettua materialmente le notifiche che chi lo incarica di ciò di fronte a delle responsabilità di vario tipo non indifferenti.
Dalle considerazioni che precedono emerge la necessità di addivenire ad un confronto aperto e franco con tutti i soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’attività di notificazione, al fine di garantire una corretta formazione, differenziata, se del caso, a seconda dei soggetti destinatari. Si auspica, in ogni caso, una concordanza di interpretazione delle norme vigenti, tra i soggetti che si occupano di formazione in tale settore; noi, come ANNA (Associazione Nazionale Notifiche Atti), diamo in tal senso la nostra massima disponibilità.
Ad ogni buon fine ci teniamo a precisare che riteniamo maturi i tempi per arrivare ad un’unica figura notificatoria che, a nostro avviso, deve essere Pubblica, evitando l’illusione che la privatizzazione del Servizio Notifiche possa dare maggiori garanzie al richiedente e/o al destinatario della Notifica che invece abbisognano solo di norme chiare e semplici all’interno di un sistema di garanzie che solo la terzietà della Pubblica Amministrazione può dare.

Maggio 2009


Lo stalking è legge

Pubblicata in G.U. la legge n. 38/2009: le modifiche della Camera non hanno investito le “disposizioni in materia di atti persecutori”, rimaste invariate rispetto al testo del Governo.

Legge 23/04/2009, n. 38

Il 22 aprile 2009 il Parlamento ha convertito in legge, con modificazioni, il d.l. 23 aprile 2009 n. 11, recante “misure urgenti in tema di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori”. Le modifiche apportate al decreto legge dalla Camera non hanno peraltro investito le “disposizioni in materia di atti persecutori”, rimaste quindi invariate rispetto al testo del Governo.

Con tali disposizioni, come è noto, è stato introdotto l’art. 612 bis c.p. che prevede il reato di “atti persecutori”, il c.d. stalking. La norma punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi “con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”. Come abbiamo già osservato, la norma, non del tutto soddisfacente sotto il profilo della determinatezza, comporterà presumibilmente gravi difficoltà in fase di accertamento probatorio (su questo aspetto e, più in generale, per un primo commento alla normativa sia consentito rinviare a Della Bella, Le “disposizioni in materia di atti persecutori” contenute nel d.l. 11/2009: un articolato sistema di tutela per le vittime dello stalking che dimentica lo stalker, pubblicato su questo Quotidiano Giuridico il 27 febbraio 2009).

Ciò che già i primi provvedimenti in materia hanno consentito di evidenziare è un problema di possibile applicazione retroattiva della norma incriminatrice, legato alla natura di reato abituale propria dello stalking (cfr. Tribunale di Milano, sez. riesame, ordinanza 17 aprile 2009). In particolare, il problema che si è posto al Tribunale competente a decidere, in sede di riesame, sull’applicazione della custodia cautelare nei confronti del presunto stalker ha riguardato la possibilità di considerare integrato il reato, allorché le condotte abbiano avuto inizio prima dell?entrata in vigore della legge: nel provvedimento citato, il Tribunale ha ritenuto che ciò non integrasse una violazione del principio di irretroattività, poiché le condotte commesse successivamente all’entrata in vigore della norma, essendo collegate a quelle precedenti, avrebbero assunto una “rilevanza tipologica diversa”; conclusivamente, il Tribunale ha affermato che il reato debba ritenersi “commesso dopo l’entrata in vigore della legge se anche un solo atto è compiuto dopo l’entrata in vigore della legge stessa”.

Gli strumenti predisposti dal legislatore per contrastare il fenomeno dello stalking vanno per altro al di là della previsione di una nuova figura di reato: la tutela della vittima è infatti affidata anche ad un sistema articolato di provvedimenti con finalità preventiva, come l’ammonimento orale del questore (art. 8 d.l.), che può essere richiesto dalla vittima ancor prima della querela e la nuova misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla vittima o dai suoi congiunti – art. 282 ter c.p.p. (art. 9 co. 1 d.l.). Sempre nell’ottica di garantire un’efficace azione di tutela della vittima è sancito l’obbligo delle forze dell’ordine, dei presidi sanitari e delle istituzioni pubbliche di informare e indirizzare le vittime agli appositi centri antiviolenza previsti sul territorio (art. 11 d.l.) ed è infine prevista l’istituzione di un numero verde presso la Presidenza del Consiglio (art. 12 d.l.). La tutela della vittima “nel processo” è poi garantita dalla assunzione della sua testimonianza con incidente probatorio – art. 392 co. 1 bis c.p.p. al fine di limitare la reiterazione dei traumi subiti (art. 9 co. 4 d.l.).
Nell’Area Normativa il testo del provvedimento legislativo.


Notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno

La Corte Costituzionale con Ordinanza 24.04.2009, n. 116 ha giudicato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 166 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che le notifiche ai soggetti sottoposti ad amministrazione di sostegno vengano effettuate all’amministratore nominato.

In particolare, secondo il rimettente (Giudice Tutelare di Trieste), la disciplina che regola l’istituto dell’amministrazione di sostegno, introdotto dalla legge 9 gennaio 2004, n. 6, non sarebbe qualitativamente diversa dagli strumenti già approntati dal codice civile in materia di sostegno a soggetti deboli, quali l’interdizione e l’inabilitazione, dato che la differenza tra gli istituti non si baserebbe sulla gravità dell’infermità del soggetto assistito e che, di conseguenza, la limitazione operata dall’art. 166 cod. proc. pen. ai soli casi di interdizione ed inabilitazione, con riferimento alla assistenza del soggetto debole nella fase della notificazione e, quindi, della conoscenza di atti giudiziari, non sarebbe rispettosa del principio consacrato nell’art. 3 della Costituzione.

La Consulta ha concluso che il Giudice Tutelare ha fondato la questione di costituzionalità su una lettura errata della norma censurata e dello stesso tertium comparationis in quanto: “se è vero che l’art. 166 cod. proc. pen. dispone, per l’imputato interdetto, la notificazione degli atti processuali anche al tutore dello stesso, esso però, non prende affatto in considerazione l’ipotesi dell’inabilitazione, prevedendo unicamente che, nel caso in cui il processo sia sospeso dal giudice perché lo stato mentale dell’imputato è tale da impedirne la cosciente partecipazione al procedimento ai sensi dell’art. 71, comma 1, cod. proc. pen., le notificazioni debbano essere effettuate anche al curatore nominato sulla base del predetto articolo” e dunque “tale notificazione integrativa, trascurata dal rimettente, è riferibile tanto agli imputati inabilitati, quanto a quelli sottoposti ad amministrazione di sostegno, purché il loro stato mentale sia tale da comprometterne effettivamente la loro piena e consapevole partecipazione al processo”.


Il lavoratore in malattia non può andare in motocicletta

Al lavoratore a casa in malattia è vietato andare in moto. Parola di Cassazione secondo la quale l’utilizzo del motociclo denota “scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute e ai relativi doveri di cura” e ne “ritarda la guarigione”. Applicando questo principio, la sezione Lavoro ha parzialmente accolto il ricorso della Clinic Center di Napoli che si era opposta alla reintegra di un suo dipendente, un aiuto medico specialista in geriatria assunto nella clinica part time, che, nel periodo di malattia per un’artrosi all’anca, era stato sorpreso a guidare una motocicletta per recarsi al mare a fare dei bagni e poi per raggiungere il Centro Futura dove svolgeva una seconda attività in qualità di direttore sanitario. Piazza Cavour non ha contestato tanto il secondo lavoro, che per quanto riguarda gli impieghi part time “non può essere ritenuta vietata tout court”, quanto il fatto che Giuseppe F., nonostante l’artrosi all’anca, si fosse messo alla guida di una moto di grossa cilindrata per recarsi prima in spiaggia e poi alla seconda attività lavorativa. Ebbene, secondo la Cassazione, un comportamento di questo tipo è indice di “scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute, oltreché dimostrativo del fatto che lo stato di malattia non è assoluto e non impedisce comunque l’espletamento di una attività ludica o lavorativa”.

Di diverso avviso era stata la Corte d’Appello di Napoli che, nel luglio 2005, aveva revocato il licenziamento del medico sostenendo che l’aver guidato una moto di grossa cilindrata e il fatto di essersi recato al mare a fare bagni non erano attività “il contrasto con gli obblighi di cura e riposo in modo da comprometterne ulteriormente la guarigione”. Contro la decisione favorevole al medico, la Clinic Center ha fatto ricorso in Cassazione sostenendo, tra l’altro, che l’utilizzo della motocicletta in malattia per recarsi al mare non era un atteggiamento propriamente tipico di un malato. La sezione lavoro con sentenza 9474, ha accolto questo punto della protesta e ha ricordato che “l’espletamento di altra attività lavorativa ed extralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell’adempimento dell’obbligazione, posto che il fatto di guidare una moto di grossa cilindrata, di recarsi in spiaggia e di prestare una seconda attività lavorativa sono indici di una scarsa attenzione ai doveri di cura e ritardano la guarigione”. Sarà ora la Corte d’Appello di Napoli a dovere riesaminare il caso del medico che era stato reintegrato dopo il licenziamento nonostante si fosse messo in moto nel periodo di malattia.