Con la Sentenza n. 14586/2009, la Corte di Cassazione ha ribadito il principio di diritto secondo il quale, in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della valutazione in merito alla proporzionalità tra il fatto addebitato e il recesso, va considerato qualsiasi comportamento attuato dal dipendente che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere che la continuazione del rapporto comporti un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che, sul rapporto di lavoro, è in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione a attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.
Sulla base di tale principio, la Corte ha annullato, con rinvio, la sentenza emessa dalla Corte di Appello di Torino, che, in riforma del giudizio di primo grado, aveva ritenuto legittimo il licenziamento, intimato dal datore di lavoro a un dipendente, il quale aveva abbandonato, per un brevissimo lasso di tempo il proprio posto di lavoro, peraltro rimanendo nella sede lavorativa. Ad avviso del giudice del merito, ai fini della legittimità del licenziamento, si doveva tenere conto che la condotta del lavoratore aveva determinato il blocco, anche solo breve, delle macchine e l’abbandono del posto di lavoro di cui il dipendente aveva la responsabilità, inoltre, ciò risultava di maggiore gravità era che il fatto si fosse verificato in orario notturno, quando i controlli dei superiori erano minori, senza che potesse assumere rilievo la lunga carriera lavorativa del dipendente, l’assenza di precedenti sanzioni, la mancanza di qualsiasi danno alla produzione o la previsione di una sanzione diversa dal licenziamento da parte del contratto collettivo.
Avverso la sentenza di appello, il lavoratore ha promosso ricorso per Cassazione e, come si è detto, la Suprema Corte ha accolto il ricorso. Il ricorrente ha censurato la sentenza impugnata, deducendo, tra l’altro, che il giudice del merito aveva omesso una lettura sistematica delle disposizioni contrattuali, nonché una valutazione concreta e complessiva dei fatti, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, non vagliando la lunga durata del rapporto di lavoro e l’assenza di recidiva. La Corte ha osservato che il principio di proporzionalità, tra la sanzione e l’illecito, implica un giudizio di adeguatezza soggettivo, ovvero calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano i fatti contestati, alla luce di tutte le circostanze utili, a apprezzarne l’effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale. Ora, compete al giudice del merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitato, ma tenendo conto degli aspetti concreti della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risultino sintomatici della sua gravità rispetto alla prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzitutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma anche all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto delle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni, alla sua particolare natura e tipologia.
Ad avviso della Cassazione, il giudice del merito avrebbe operato una valutazione astratta della vicenda processuale, pertanto, non in grado di cogliere, attraverso la rilevazione degli elementi sintomatici essenziali della sua gravità, l’effettivo disvalore del comportamento addebitato al dipendente.