Avviso di accertamento con firma digitale: è valido?

Quali sono gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento e cosa accade se la firma è digitale ma l’atto è notificato per posta.

Chi riceve un avviso di accertamento dal Fisco può difendersi, oltre che per motivi sostanziali relativi all’imposta addebitata e alla condotta degli uffici accertatori, per i vizi formali dell’atto notificato. La legge prevede, infatti, determinati elementi essenziali di validità dell’atto, in assenza dei quali l’accertamento è nullo. Tra questi elementi vi è la sottoscrizione dell’avviso da parte di un soggetto avente idonei poteri, perché svolge carriera direttiva o perché validamente delegato dal capo dell’ufficio o altro direttore.

Vediamo quali sono gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento, quando la sottoscrizione deve ritenersi esistente e valida e cosa accade se la firma è digitale ma l’atto notificato è cartaceo.

  • Elementi essenziali avviso di accertamento
  • Sottoscrizione avviso di accertamento
  • Se l’avviso di accertamento è firmato digitalmente

Elementi essenziali avviso di accertamento

L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni dei dati essenziali del rapporto tributario, la motivazione dell’accertamento stesso e dell’imposta e sanzioni dovute [Art. 42 D.P.R. 600/1973].

Più precisamente, avviso di accertamento deve recare:

  • la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato;
  • l’indicazione dell’imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate, al lordo e al netto delle detrazioni, delle ritenute di acconto e dei crediti d’imposta;
  • la motivazione in relazione ai presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato l’accertamento, con distinto riferimento ai singoli redditi delle varie categorie e con la specifica indicazione dei fatti e delle circostanze che giustificano il ricorso a metodi induttivi o sintetici e delle ragioni del mancato riconoscimento di deduzioni e detrazioni. Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale (per esempio in caso di imposta di registro su atti giudiziari).

Sottoscrizione avviso di accertamento

L’avviso di accertamento è nullo se non è firmato dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. La delega può essere conferita o con atto proprio o con ordine di servizio purché venga indicato, unitamente alle ragioni della delega (cioè, le cause che ne hanno resa necessaria l’adozione, quali carenza di personale, assenza, vacanza, malattia, etc.), il termine di validità ed il nominativo del soggetto delegato.

La delega per la firma dell’avviso di accertamento è valida se sussistono i seguenti requisiti:

  • identificazione specifica del delegante e del delegato
  • forma scritta (sottoscritta autograficamente, protocollata e depositata agli atti dell’ufficio);
  • motivazione (indicazione delle esigenze di servizio che hanno reso necessaria la delega);
  • qualifica, funzione e generalità del dirigente/funzionario delegato;
  • durata e limitazioni (periodo e valore/materia/atti/servizi ecc.).

Secondo la Corte Suprema di Cassazione [Cass. sentt. n. 18758/2014, 22800/2015, 24492/2015], il solo possesso della qualifica non abilita il funzionario della carriera direttiva alla sottoscrizione; il potere di organizzazione deve essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio.

Se il contribuente contesta la firma riconducibile non già al “capo dell’ufficio titolare”, bensì ad un “funzionario della carriera direttiva”, ricade sull’Amministrazione l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio.

Se l’avviso di accertamento è firmato digitalmente

Spesso accade che l’avviso di accertamento è firmato digitalmente dal capo dell’ufficio ma l’atto notificato è cartaceo. In questo caso la firma è valida? O l’atto devo considerarsi nullo?

Secondo una recente sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Salerno [CTP Salerno, sent. del 14.05.2018], l’avviso di accertamento cartaceo che, in luogo della firma autografa, rechi l’indicazione della firma digitale, è nullo.

L’apposizione della firma digitale conferisce genuinità ed indubbia paternità al documento informatico da notificare unitamente alla garanzia offerta al destinatario dello stesso di aprire la “busta crittografica” e confermarne l’autenticità e, quindi, la sua validità.

Ma quando l’avviso di accertamento, pur se firmato digitalmente, viene notificato in via ordinaria (tramite Messo Comunale/Notificatore o per posta), esso è nullo perché privo del requisito essenziale della sottoscrizione.

L’avviso di accertamento, da emettere obbligatoriamente in via analogica (su documento cartaceo o comunque diverso dal digitale), deve essere necessariamente sottoscritto con firma autografa del capo dell’Ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato e non firmato digitalmente senza alcuna sottoscrizione in originale.

Secondo i giudici, l’avviso notificato in via ordinaria e firmato digitalmente è un atto da considerarsi privo di sottoscrizione, ed è quindi affetto da inesistenza giuridica in ragione della insussistenza di un suo elemento essenziale qual è, appunto, la mancata formazione della volontà di assunzione dei contenuti dell’atto medesimo da parte dell’ufficio che lo ha emesso.


L’assenza per motivi privati fra le timbrature giustifica il licenziamento

La Corte Suprema di Cassazione, Sez. lav., con la sentenza n. 21607 del 20 luglio 2023, conformandosi al consolidato indirizzo già espresso sul punto, è tornata ad affermare il principio secondo cui la fattispecie di cui all’art. 55-quater comma 1 lett. a), D.Lgs. n. 165/2001 viene integrata dalla condotta di assenza intermedia dal luogo di lavoro fra le timbrature di entrata ed uscita e, pertanto, il licenziamento per giusta causa intimato in ragione della predetta violazione deve considerarsi legittimo. La Corte Suprema di Cassazione si è inoltre pronunciata sulla valenza della sentenza di non luogo a procedere rispetto al procedimento disciplinare, ritenendo che quest’ultima pronuncia non sia riconducibile nell’ambito di applicazione dell’art. 653 c.p.p., considerato che non appare tecnicamente suscettibile di inquadramento nella categoria della “sentenza penale irrevocabile di assoluzione”, cui l’art. 653 c.p.p. riconosce efficacia di giudicato in sede disciplinare.

Il ricorrente, dipendente del Comune di Alfa con mansioni di Comandante del Servizio di Polizia Locale, adiva il giudice del lavoro per sentire dichiarare la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli in ragione delle false attestazioni della presenza in servizio dallo stesso rilasciate.

Nella specie, al lavoratore era stato contestato “l’allontanamento dal luogo di lavoro per motivi privati senza far risultare tale assenza mediante l’utilizzo del dispositivo marcatempo”, comportamento integrante la fattispecie di cui all’art. 55-quater, n. 1, lett. a) D.Lgs. n. 165/2001, cui era seguito il licenziamento per giusta causa.

I giudici di merito aditi, sia nel primo che nel secondo grado di giudizio, hanno rigettato il ricorso del lavoratore ritenendo legittimo il licenziamento intimato.

Nella specie, sono state ritenute prive di rilievo le difese del lavoratore fondate sulla natura delle funzioni svolte, che lo avrebbero dispensato dall’utilizzo del badge per documentare la presenza in ufficio, nonché sulla intervenuta assoluzione con formula piena in sede di udienza preliminare in ambito penale, per l’accertata insussistenza del fatto di reato contestatogli per la medesima condotta oggetto del parallelo procedimento disciplinare.

Infatti, i giudici, dopo aver rilevato che la sentenza di non luogo a procedere pronunciata in sede penale non fosse comunque ostativa al giudizio disciplinare, hanno ritenuto pienamente integrata, nel caso di specie, la fattispecie contestata di falsa attestazione in ordine alle registrazioni in entrata e in uscita, di cui all’art. 55-quater, n. 1, lett. a) D.Lgs. n. 165/2001, in quanto la condotta descritta dalla norma si compendia nell’allontanamento dal luogo di lavoro senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza economicamente apprezzabili, così da indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro.

La sanzione espulsiva adottata dall’Ente datore di lavoro veniva, pertanto, considerata in sede giudiziale fondata ed altresì proporzionata, in ragione della gravità dei fatti sistematicamente reiterati e della loro incidenza sull’elemento fiduciario del rapporto, anche alla luce del ruolo istituzionale ricoperto dal lavoratore.

Il lavoratore proponeva ricorso alla Corte Suprema di Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Cagliari.

La Corte Suprema di Cassazione, ritenendo accertato sul piano fattuale dal giudice di merito che il lavoratore era rimasto assente tra la timbratura in entrata e quella in uscita e che questa condotta, secondo il consolidato orientamento di legittimità, integrasse la fattispecie rilevante ai fini del licenziamento del pubblico dipendente di cui all’art. 55-quater comma 1 lett. a) del D.Lgs. n. 165/2001, ha per l’effetto giudicato non condivisibile la giustificazione addotta dal ricorrente in merito alla possibilità di eseguire la prestazione anche presso la propria abitazione, in ragione della tipologia di mansioni svolte.

Infatti, secondo il giudice di legittimità, detta circostanza, anche ove accertata, non sarebbe stata comunque idonea ad escludere che il lavoratore fosse tenuto ad utilizzare il contrassegno marcatempo, dovendo egli rispettare un orario minimo e dovendo in ogni caso giustificare perché avesse scelto di lavorare da casa invece che presso la sede di servizio.

In conseguenza della ratio decidendi adottata dalla Corte Suprema di Cassazione, che aveva ritenuto del tutto irrilevanti le circostanze addotte dal lavoratore a giustificazione della propria condotta, diveniva parimenti ininfluente l’esigenza di fornire la prova delle stesse.

Risultava parimenti infondato, a giudizio della Corte Suprema di Cassazione il motivo di doglianza proposto dal lavoratore relativamente alla valutazione operata dal giudice di merito in ordine alla valenza nel procedimento disciplinare dell’accertamento svolto in sede penale, essendo stato il ricorrente prosciolto con formula piena in sede di udienza preliminare.

Viene al riguardo in rilievo la questione dell’applicabilità o meno dell’art. 653 c.p.p., dal momento che la sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto emessa in sede di udienza preliminare non si può considerare sussumibile nella categoria della “sentenza penale irrevocabile di assoluzione”, cui l’art. 653 c.p.p. riconosce efficacia di giudicato in sede disciplinare.

Infatti, dal momento che la sentenza di non luogo a procedere è passibile di essere revocata in determinati casi, come previsto dall’art. 434 c.p.p., essa deve considerarsi assistita da un minor grado di stabilità “relativa” che ne caratterizza l’efficacia preclusiva rebus sic stantibus e non è quindi possibile ricondurla al paradigma di “irrevocabilità” tipico della fattispecie disciplinata dall’art. 653 c.p.p. con effetto di giudicato esteso all’ambito disciplinare.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass., Sez. lav., 6/9/2016, n. 17637

Cass., Sez. lav., 14/12/2016, n. 25750

Cass., Sez. lav., 24/5/2021, n. 14199


Avviso di ricevimento relativo alla notifica di un atto privo del nome del soggetto richiedente

Con la sentenza n. 23400, pubblicata il 1° agosto 2023, la Corte Suprema di Cassazione si è pronunciata sulle conseguenze derivanti dalla mancata indicazione nell’avviso di ricevimento relativo alla notifica di un atto del nome del soggetto richiedente.

La vicenda esaminata origina dal giudizio promosso da una società, la quale chiedeva al Tribunale la condanna della convenuta alla restituzione in suo favore di una consistente somma di denaro versata a titolo di caparra al momento della stipula di contratto preliminare di vendita di un immobile.

L’atto introduttivo del processo veniva notificato dal difensore dell’attrice ai sensi della legge n. 53/1994 a mezzo del servizio postale ai sensi del comma 1 dell’art. 8 della legge n. 890/1982, che al successivo comma 4 dispone che ove non sia stato possibile recapitare il piego e questo sia stato depositato presso il punto di deposito più vicino al destinatario, di tale deposito deve essere dato avviso contenente l’indicazione del soggetto che ha richiesto la notifica e del suo eventuale difensore.

Nella contumacia della convenuta, il Tribunale accoglieva la domanda della società.

La sentenza di primo grado veniva impugnata dalla convenuta la quale deduceva la nullità della notifica dell’atto introduttivo del processo. Con il gravame, l’appellante evidenziava la presenza di vizi nella comunicazione di avvenuto deposito del plico presso l’ufficio postale di cui al comma 4 dell’art. 8 della legge n. 890/1982.

In particolare, la convenuta, evidenziava da un lato che l’avviso era privo del nominativo della società attrice, essendo stato indicato solamente lo studio legale del suo difensore, e dall’altro che nello stesso vi era la generica dicitura “atti amministrativi/atti giudiziari”.

L’appello veniva dichiarato inammissibile dalla Corte di Appello, la quale riteneva valida la notificazione dell’atto introduttivo del processo, con conseguente inapplicabilità, al caso di specie, del secondo comma dell’art. 327, c.p.c. e la tardività dell’appello proposto, essendo decorso il termine lungo dei sei mesi dalla pubblicazione della sentenza di primo grado.

Pertanto, la società investiva della questione la Corte Suprema di Cassazione, insistendo nell’eccezione di nullità dell’atto introduttivo del processo di primo grado, ribadendo che l’indicazione nell’avviso di ricevimento della notifica del nome del soggetto richiedente è un elemento indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto e che nell’avviso non era stato chiarito se si trattava di atti amministrativi o giudiziari in quanto lo stesso recava la dicitura “atti amministrativi/atti giudiziari”, ingenerando confusione nel soggetto ricevente l’avviso;

Il ricorso è stato ritenuto infondato dalla Corte Suprema di Cassazione la quale, nel rigettarlo, ha osservato che:

  • il comma 4 dell’art. 8, L. n. 890/1982 secondo il quale “l’avviso deve contenere l’indicazione del soggetto che ha richiesto la notifica e del suo eventuale difensore, dell’ufficiale giudiziario al quale la notifica è stata richiesta e del numero di registro cronologico corrispondente, della data di deposito e dell’indirizzo del punto di deposito, nonché l’espresso invito al destinatario a provvedere al ricevimento del piego a lui destinato mediante ritiro dello stesso entro il termine massimo di sei mesi, con l’avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita trascorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al periodo precedente e che, decorso inutilmente anche il predetto termine di sei mesi, l’atto sarà restituito al mittente”, non prevede che sia individuato il tipo di atto contenuto nel piego, così che la dicitura “atti amministrativi/atti giudiziari” non comporta alcun vizio della notificazione;
  • la mancata menzione della parte nell’avviso di ricevimento relativo alla notifica a mezzo del servizio postale non è requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto, scopo che va individuato nell’avvertimento al destinatario che, in sua assenza, si è tentato di notificare un atto (nel caso di specie amministrativo/giudiziario) e nel rendergli note le modalità per il ritiro e le conseguenze del mancato ritiro;
  • l’individuazione della parte, ove sia indicato il difensore che ha dato impulso al procedimento notificatorio, non è requisito indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto lo si ricava anche dal fatto che il comma 4 del citato art. 8, a differenza di quanto dispone l’art. 48 disp. att. c.p.c. in relazione all’avviso di cui all’art. 140 c.p.c., non prescrive, come si è già detto, che vi siano indicazioni circa la natura dell’atto notificato o del giudice che ha pronunciato il provvedimento notificato o davanti al quale si deve comparire.

 


BUON FERRAGOSTO !!!


Residenza: le “conseguenze” della decisione della Corte Costituzionale

La sentenza della Corte Costituzionale n. 209 del 13/10/2022 ha come oggetto alcune norme in materia di IMU.
Si premette che, con ordinanza del 22 novembre 2021, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2022, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, convertito nella L. n. 214 del 2011, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’ imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.
Il riferimento al nucleo familiare non era presente nell’originaria disciplina dell’IMU (istituita dall’art. 8 del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, recante “Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale“), che subordinava il riconoscimento dell’esenzione per l’abitazione principale alla sussistenza del solo requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale del possessore dell’immobile: a questi veniva riconosciuto il diritto all’esenzione in termini oggettivi, del tutto a prescindere dal suo status soggettivo di coniugato. Ciò che rilevava, ai fini della identificazione della abitazione principale, era, infatti, che egli si trovasse a risiedere e dimorare abitualmente in un determinato immobile.
Solo con l’art. 4, comma 5, lettera a), del D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, nella L. 26 aprile 2012, n. 44, che è intervenuto su diversi aspetti della disciplina dell’IMU, è stata modificata la definizione di abitazione principale, introducendo, in particolare, il riferimento al nucleo familiare ai fini di individuare l’immobile destinatario dell’agevolazione.
Segnatamente, il comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, è stato così modificato e integrato: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile“.
Nulla si dice inoltre al riguardo di coniugi residenti in Comuni diversi, i quali pertanto, sulla base dei requisiti previsti dalla norma, non hanno diritto all’agevolazione per nessuno degli immobili occupati.
Il problema nasce dal quarto periodo del comma 2, dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, che ha introdotto nella fattispecie generale dell’agevolazione il riferimento al nucleo familiare.
Va notato, a questo proposito che, da un lato è assente, nella disciplina dell’IMU, una specifica definizione di “nucleo familiare“, a fronte di diversi riferimenti presenti – a vario titolo e oltre quelli civilistici – nell’ordinamento. Si pensi, ad esempio, a quello stabilito ai fini dell’ indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) dall’art. 3 del D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, recante “Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’ indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)“, oppure a quello, stabilito però esclusivamente con riguardo all’ imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) dall’art. 5, comma 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi) e, non ultimo, ovviamente, la definizione di famiglia anagrafica contenuta nel Regolamento Anagrafico, n. 223/1989, art. 4.
In tal caso, ai fini del riconoscimento dell’esenzione dell’abitazione principale, non ritenere sufficiente la residenza e – si noti bene – la dimora abituale in un determinato immobile (cioè un dato facilmente accertabile, come si preciserà di seguito, attraverso i dovuti controlli) determina una evidente discriminazione rispetto a chi, in quanto singolo o convivente di fatto, si vede riconosciuto il suddetto beneficio al semplice sussistere del doppio contestuale requisito della residenza e della dimora abituale nell’immobile di cui sia possessore.
Non vi è ragionevole motivo per discriminare tali situazioni: non può, infatti, essere evocato l’obbligo di coabitazione stabilito per i coniugi dall’art. 143 del Codice civile, dal momento che una determinazione consensuale o una giusta causa non impediscono loro, indiscussa l’affectio coniugalis, di stabilire residenze disgiunte (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 28 gennaio 2021, n. 1785). Né a tale possibilità si oppongono le norme sulla “residenza familiare” dei coniugi (art. 144 cod. civ.) o “comune” degli uniti civilmente (art. 1, comma 12, della L. 20 maggio 2016, n. 76, recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”).
Inoltre, il secondo comma dell’art. 45 cod. civ., contemplando l’ipotesi di residenze disgiunte, conferma la possibilità per i genitori di avere una propria residenza personale.
Nella norma censurata, invece, attraverso il riferimento al nucleo familiare, tale ipotesi finisce per determinare il venir meno del beneficio, deteriorando così, in senso discriminatorio, la logica che consente al singolo o ai conviventi di fatto di godere pro capite delle esenzioni per i rispettivi immobili dove si realizza il requisito della dimora e della residenza abituale.
D’altra parte, a difesa della struttura della norma censurata nemmeno può essere invocata una giustificazione in termini antielusivi, motivata sul rischio che le cosiddette seconde case vengano iscritte come abitazioni principali.
Stante che tale rischio esiste anche per i conviventi di fatto, va precisato che i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, tra cui, in base a quanto previsto dall’art. 2, comma 10, lettera c), punto 2, del D.Lgs. n. 23 del 2011, anche l’accesso ai dati relativi alla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi agli immobili ubicati nel proprio territorio; elementi dai quali si può riscontrare l’esistenza o meno di una dimora abituale.
In conclusione, la norma censurata si dimostra quindi in contrasto
1) con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. nella parte in cui introduce il riferimento al nucleo familiare nel definire l’abitazione principale, disciplinando situazioni omogenee ” in modo ingiustificatamente diverso” (ex plurimis, sentenza n. 165 del 2020),
2) con l’art. 31 Cost., che statuisce: “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose“. Tale norma senz’altro si oppone, in ogni caso, a trattamenti fiscali che si risolvono in una penalizzazione della famiglia. Infatti la norma censurata ricollega l’abitazione principale alla contestuale residenza anagrafica e dimora abituale del possessore e del nucleo familiare, secondo una logica che, come si è visto, ha condotto il diritto vivente a riconoscere il diritto all’esenzione IMU (o alla doppia esenzione) solo in caso di “frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi” e conseguente “disgregazione del nucleo familiare“.
3) Con l’art. 53 Cost. Infatti, avendo come presupposto il possesso, la proprietà o la titolarità di altro diritto reale in relazione a beni immobili, l’IMU riveste la natura di imposta reale e non ricade nell’ambito delle imposte di tipo personale, quali quelle sul reddito. Appare pertanto con ciò coerente il fatto che nella sua articolazione normativa rilevino elementi come la natura, la destinazione o lo stato dell’ immobile, ma non le relazioni del soggetto con il nucleo familiare e, dunque, lo status personale del contribuente
Con la Sentenza in oggetto, pertanto, viene dichiarata l’illegittimità costituzionale delle seguenti norme:
A) art. 13, comma 2, quarto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n.201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 201, art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013;
B) art. 1, comma 741, lettera b), primo periodo, della L. 27 dicembre 2019, n. 160;
C) art. 1, comma 741, lettera b), secondo periodo, della L. n. 160 del 2019;
Va infine sottolineato come la Corte Costituzionale abbia ritenuto opportuno chiarire che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale pronunciate valgono a rimuovere i vulnera agli artt. 3, 31 e 53 Cost. imputabili all’attuale disciplina dell’esenzione IMU con riguardo alle abitazioni principali, ma non determinano, in alcun modo, una situazione in cui le cosiddette “seconde case” delle coppie unite in matrimonio o in unione civile ne possano usufruire. Ove queste abbiano la stessa dimora abituale (e quindi principale) l’esenzione spetta una sola volta.
Da questo punto di vista il venir meno di automatismi, ritenuti incompatibili con i suddetti parametri, responsabilizza i comuni e le altre autorità preposte ad effettuare adeguati controlli al riguardo; controlli che, come si è visto, la legislazione vigente consente in termini senz’altro efficaci.


Modalità di pubblicazione dei concorsi pubblici

La Presidenza del Consiglio dei ministri, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, ha presentato una richiesta alla Corte Costituzionale riguardante una legge della Regione Valle d’Aosta del 2022. La legge riguarda l’edilizia residenziale pubblica e stabilisce modalità per l’assunzione di personale temporaneo.

La questione sollevata riguarda due aspetti della legge regionale:

  • l’articolo 3, comma 2, della legge afferma che la selezione del personale avverrà solo in base ai titoli posseduti e attraverso una prova orale, mentre secondo il ricorrente questa disposizione entra in conflitto con una legge nazionale che richiede almeno una prova scritta;
  • in secondo luogo, l’articolo 3, comma 2, terzo periodo, della legge regionale stabilisce che i bandi di selezione saranno pubblicati solo nell’albo e sul sito web dell’Azienda regionale, senza prevedere una pubblicazione più ampia. Il ricorrente sostiene che questa modalità di pubblicazione contrasta con principi nazionali che richiedono una pubblicità adeguata delle selezioni per il reclutamento nel settore pubblico.

Modalità di pubblicazione concorsi pubblici, i chiarimenti della Corte Costituzionale

La Corte Costituzionale ha emesso la sentenza n. 140/2023, affermando che l’articolo 3, comma 2, terzo periodo, della legge regionale è incostituzionale.

La Corte Costituzionale ha sostenuto che la modalità di pubblicazione dei bandi prevista dalla legge regionale non assicura una portata territoriale sufficiente e contrasta con i principi di selezione aperta e pubblica per il reclutamento nel settore pubblico.

Inoltre, la Corte Costituzionale ha sottolineato che la selezione del personale basata solo su titoli e prova orale entra in conflitto con la normativa nazionale.

In sintesi, la Corte Costituzionale ha dichiarato che la modalità di pubblicazione dei bandi e la selezione del personale previste dalla legge regionale sono incostituzionali poiché:

  • non permettono la partecipazione alla selezione di chiunque abbia i requisiti richiesti
  • non assicurano un’idonea diffusione dei bandi.

Sarebbero in tal modo pregiudicati i principi di imparzialità, di buon andamento dell’azione amministrativa e di eguaglianza, alla cui realizzazione è funzionale la regola del pubblico concorso.


Rifiuto di ricevere l’atto: valida la notifica alla società in forma impersonale ex art. 140 c.p.c.?

In relazione alla persona giuridica, la norma, applicabile qualora sia impedita la notificazione presso la sede o il legale rappresentante, non opera verso l’ente in quanto tale

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione V, con la sentenza 15 giugno 2023, n. 17251, chiarisce alcuni aspetti della notifica della cartella di pagamento effettuata nei confronti di una società.

Nel caso di specie, il messo comunale ha tentato la notifica presso la sede della s.r.l. ma le persone ivi presenti hanno rifiutato di ricevere l’atto e non si sono identificate, pertanto, ha proceduto con il rito degli irreperibili (ex art. 140 c.p.c.). Tale forma di notificazione non può attuarsi nei confronti dell’ente in quanto tale e opera solo allorché sia impedita la notificazione presso la sede della società, o presso il legale rappresentante (ai sensi degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.).

Secondo la giurisprudenza, «il vano esperimento delle modalità previste dall’art. 145 c.p.c., comma 1 per la notificazione degli atti processuali alle persone giuridiche consente l’utilizzazione delle forme previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., purché la notifica sia fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente e non già all’ente in forma impersonale».

Nel caso di specie, la notifica non è valida, in quanto è stata effettuata non nei confronti del rappresentante legale della società, bensì verso la società stessa, con spedizione della raccomandata informativa alla s.r.l. presso la sua sede.

Una società riceve un’intimazione di pagamento, una cartella esattoriale e il preavviso di fermo amministrativo in ragione di tre avvisi di accertamento per maggiori imposte (IVA, IRPEG e IRAP). La contribuente impugna l’intimazione di pagamento e la sottostante cartella esattoriale relativa ai tre avvisi. Il ricorso viene rigettato in primo e secondo grado. Si giunge così in Cassazione, ove la contribuente contesta la validità della notifica alla società effettuata ex art. 140 c.p.c.

Premessa: notifica alle società e notifica con rito degli irreperibili

L’art. 145 c.p.c. si occupa della notificazione alle persone giuridiche e, nella fattispecie in esame, vengono in rilievo il primo e il terzo comma.

La notificazione alle persone giuridiche si esegue:

  1. nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile in cui è la sede;
  2. può anche essere eseguita, a norma degli articoli 138 (a mani proprie), 139 (presso residenza, dimora o domicilio) e 141 (presso domiciliatario), alla persona fisica che rappresenta l’ente qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale.
  3. Se la notificazione non può essere eseguita con le modalità precedenti e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, può essere eseguita anche a norma degli articoli 140 (irreperibilità o rifiuto di ricevere copia) o 143 (residenza, dimora, domicilio sconosciuti).

L’iter previsto per la notifica agli irreperibili (ex art. 140 c.p.c.) prevede il deposito della copia dell’atto nella casa comunale, l’affissione dell’avviso e la spedizione della cosiddetta raccomandata informativa.

Equiparazione tra rifiuto e notifica in mani proprie solo se il rifiutante è il destinatario

Il ricorrente si duole del fatto che i giudici di merito hanno considerato valida la notifica della cartella esattoriale, infatti, la notifica ex art. 140 c.p.c. può dirsi correttamente effettuata solo laddove sia infruttuosa la notifica la legale rappresentante e non alla società presso la sua sede, come accaduto nel caso di specie.

La Corte Suprema di Cassazione considera fondata la doglianza.

Nella fattispecie oggetto di scrutinio, la notifica è stata tentata presso la sede della società. Il messo comunale ha attestato il rifiuto di ricevere l’atto espresso dalle persone che si trovavano in loco, ma che avevano rifiutato sia la ricezione dell’atto sia di declinare le proprie generalità. Il messo annotava il rifiuto e dava atto di aver provveduto al deposito presso la casa comunale, affiggendo l’avviso e dando comunicazione del deposito con raccomandata. La raccomandata veniva indirizzata presso la sede della società e veniva ritirata dal portiere.

Tutto ciò premesso, la notifica presso la sede della società non è andata a buon fine perché le persone presenti hanno rifiutato di riceverla ma soprattutto non si sono identificate. Secondo il codice di rito, se il destinatario rifiuta di ricevere la copia, l’ufficiale giudiziario ne dà atto nella relazione e la notificazione si considera fatta in mani proprie (art. 138 c. 2 c.p.c.) solo ove sia certa l’identificazione dell’autore del rifiuto con il destinatario dell’atto. Infatti:

«Presupposto indispensabile per la valutazione della ritualità della notifica è l’identificazione certa dell’autore del rifiuto della recezione del plico con il destinatario dell’atto processuale, non essendo ammissibile l’equiparazione legale del rifiuto del plico alla notificazione in mani proprie (art.138, secondo comma, cod. proc. civ.) non solo, com’è ovvio, nell’ipotesi che il comportamento negativo sia ascrivibile a soggetto del tutto estraneo, ma anche ove l’accipiens sia un suo congiunto o addetto alla casa (e, a fortiori, un vicino o il portiere), pur abilitati da norme diverse, in ordine prioritario gradato, alla recezione dell’atto»

No all’equiparazione se a rifiutare è un soggetto non identificato

Non è consentita l’equiparazione di cui sopra qualora il rifiuto sia opposto da un soggetto estraneo. Inoltre, se la notifica della cartella di pagamento avviene presso la sede della società e non nel luogo di residenza del legale rappresentante, l’atto va consegnato solo ai soggetti indicati nell’art. 145 c.p.c. (Cass. 8472/2018), ossia:

  • il rappresentante
  • la persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, altra persona addetta alla sede stessa ovvero il portiere dello stabile in cui è la sede.

Dal momento che il soggetto che ha rifiutato la notifica non è stato identificato come rappresentante non è possibile l’equiparazione prevista dall’art. 138 c.p.c. c. 2 tra rifiuto e avvenuta notifica.

Ciò premesso, non essendo stato possibile effettuare la notifica ai sensi del primo comma dell’art. 145 c.p.c. il messo avrebbe dovuto procedere ai sensi del terzo comma e, quindi, verso il legale rappresentante.

Conclusioni: no alla notifica alla società in forma impersonale ex art. 140 c.p.c.

Secondo gli ermellini l’art. 145 ultimo comma c.p.c. prevede, con riguardo alla persona giuridica e all’ente non personificato, la notifica ex art. 140 c.p.c.:

«ma tale forma – operante solo nel caso in cui sia impedita la notificazione presso la sede della società, o presso il legale rappresentante, ai sensi degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. – non può attuarsi nei confronti dell’ente in quanto tale. Il vano esperimento delle modalità previste dall’art. 145 c.p.c., comma 1 per la notificazione degli atti processuali alle persone giuridiche consente l’utilizzazione delle forme previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., purché la notifica sia fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente e non già all’ente in forma impersonale» (Cass. 2232/2017, Cass. 9237/2012; Cass. 18762/2011).

La Commissione Tributaria Regionale non ha osservato i suesposti principi, ritenendo regolare la notifica. Essa ha erroneamente equiparato la fattispecie del rifiuto di ricevere l’atto da parte di soggetti non identificati, anche se presenti presso la sede della società con quella in cui l’atto sia stato consegnato a persona rinvenuta nella sede e che abbia, pertanto, ricevuto il plico. Inoltre, non ha considerato che la notifica ex art. 140 c.p.c. è stata effettuata non nei confronti del rappresentante legale della società, bensì della società stessa, con spedizione della raccomandata informativa alla società presso la sua sede. In ragione di ciò, la Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado, in diversa composizione, la quale provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.


SANZIONI AL CODICE DELLA STRADA: NUOVO AUMENTO DELLE SPESE DI NOTIFICA DA LUNEDÌ 24 LUGLIO 2023

Si comunica che da lunedì 24 luglio aumenteranno le spese postali di notifica per le sanzioni al Codice della Strada. Si tratta del terzo aumento da giugno 2022, poi marzo 2023 ed ora a luglio. È Poste Italiane che nel “rispetto dei limiti e delle prescrizioni disposte dall’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni con la Delibera 160/23/CONS del 27 giugno 2023”, andrà a modificare le condizioni economiche dei “Servizi Universali” di corrispondenza e pacchi.
Le cause dell’aumento sono specificate nei preamboli della delibera, che autorizza e consente a Poste Italiane s.p.a. il recupero dell’inflazione registrata nel secondo semestre del 2022 e nel primo semestre 2023 al fine di perseguire la corrispondenza delle tariffe dei servizi universali con i sottostanti costi di produzione, anche considerato “che negli ultimi dodici mesi il tasso di inflazione è calcolato nella misura del 6,75%, corrispondente alla media tra il dato accertato dall’Istituto nazionale di statistica per l’anno 2022 (indice FOI quantificato dall’Istat in 8,1%) e la stima per l’anno 2023 utilizzata per la programmazione economica e finanziaria annuale dello Stato (indice TIP quantificato dal Ministero dell’economia e delle finanze in 5,4%)”.
Le tariffe dell’Atto Giudiziario, comprensive della quota forfettaria di CAN e CAD, subiranno modifiche in tutti gli scaglioni di peso. L’importo complessivo dovuto per invii accettati presso gli Uffici Postali fino a 20 grammi varierà da € 10,85 a € 11,45, mentre per gli invii accettati presso i centri business (anche con l’opzione bolgetta), utilizzati dagli organi di polizia stradale, ivi compresi quelli dei Servizi Integrati Notifiche, varierà da € 10,45 a € 11,05. Tale incremento sarà applicato anche alle tariffe di recapito di Atto Giudiziario Business Online.
Si passa così dai 9.50 euro di giugno 2022 (quando l’aumento fu del 7%) a 11.05 euro in 13 mesi, con un aumento stratosferico del 16,3%, che supera la soglia dell’inflazione.
Un verbale da 42 euro per un divieto di sosta avrà così un aggravio di 11,05 euro solo di spese postali, oltre alle spese procedurali che variano a seconda dell’organo di polizia che la notifica, che variano dai 3 ai 20 euro per alcuni comandi Polizia Locale. Per cui anche oltre 70 euro. Un verbale per violazione alla zona a traffico limitato (83 euro sanzione da codice della strada) arriverà ad oltre 100 euro. Se invece si è sorpresi alla guida, utilizzando il cellulare (165 euro la sanzione prevista dal codice della strada) si pagheranno 190-195 euro, così come circolare contromano (167 euro la sanzione prevista dal codice).
Va ricordato che proprio il codice prevede il pagamento integrale sia della sanzione così come delle spese di notifica e procedurali. Nei primi cinque giorni dalla notifica è possibile pagare con lo sconto del 30%.
“Un anno fa, dopo uno dei tanti aumenti delle spese postali ASAPS – Associazione Sostenitori e Amici Polizia Stradale – chiedeva un intervento al Governo per fermare gli aumenti, così come l’aumento biennale degli importi delle sanzioni. Mentre lo scorso gennaio quest’ultimo è stato bloccato con la legge di bilancio, assistiamo invece ad un incremento vertiginoso delle spese postali che ci preoccupa.
ASAPS sollecita l’attivazione della Piattaforma Notifiche Digitali, attraverso il SEND (Servizio Notifiche Digitali), la nuova piattaforma realizzata da PagoPA oggi a disposizione degli enti pubblici per digitalizzare e semplificare la notificazione a valore legale degli atti amministrativi, con risparmio per la spesa pubblica e minori oneri di notifica per i cittadini, che ha visto proprio in questi giorni le prime notifiche in quattro comuni (Verona, Gattinara, Misano Adriatica e Mortara), che andrebbe da subito a ridurre a soli 2 euro più le spese procedurali i costi. Ancora una volta aumentano i costi postali a discapito degli automobilisti, che vengono giustamente sanzionati quando non osservano le norme del Codice della Strada.

Leggi: Servizi postali universali interno e estero dal 24 07 2023 – Tariffe

Leggi: Delibera AGICOM n. 160-2023


Notifica effettuata direttamente presso l’abitazione del legale rappresentante della società

La notificazione della cartella di pagamento effettuata direttamente al legale rappresentante della società presso l’abitazione dello stesso è da ritenere ritualmente avvenuta e regolare.
In tal senso si è espressa la Corte Suprema di Cassazione nell’ordinanza n. 18614/2023.

Il caso: la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in parziale accoglimento dell’appello principale proposto da Equitalia Sud S.p.A. nonché in parziale accoglimento dell’appello incidentale avanzato dalla società Delta s.r.l. riformava parzialmente la sentenza di primo grado determinando il debito tributario oggetto di iscrizione ipotecaria nella minore somma di euro 6.800,32; ad avviso dei giudici di merito andavano esclusi gli importi di nn. 5 cartelle di pagamento prodromiche all’iscrizione ipotecaria che risultavano notificate irritualmente in violazione del disposto di cui all’art. 145 cod. proc. civ., nel testo ratione temporis vigente.
Equitalia Sud Spa ricorre per cassazione, deducendo che i giudici di appello avevano applicato un principio di diritto erroneo non considerando che le notifiche in questione, eseguite direttamente presso la residenza dell’allora legale rappresentante della società, ante riforma del 2006, dovevano essere ritenute valide alla luce di principi fissati dalla giurisprudenza di legittimità.
Per la Corte Suprema di Cassazione il motivo è fondato: sul punto vi sono due orientamenti:
a) una parte della giurisprudenza di legittimità, in più occasioni, ha affermato che gli atti tributari devono essere notificati al contribuente persona giuridica presso la sede della stessa (nel regime anteriore alle modifiche introdotte con la legge 28 dicembre 2005, n. 263), secondo la disciplina dell’art. 145, primo comma, cod. proc. civ. e, solo qualora tale modalità risulti impossibile, in base al successivo terzo comma del medesimo art. 145, la notifica potrà essere eseguita, ai sensi degli artt. 138 e ss.;
b) successivamente, le Sezioni Unite nella sentenza n. 22086/2017 ha sancito che la notificazione di un atto ad una società – data la diretta riferibilità ad essa, in virtù del principio di immedesimazione organica, degli atti compiuti da e nei confronti di coloro che la rappresentano e ne realizzano esecutivamente le finalità – è regolarmente effettuata alla persona specificamente preposta alla ricezione per conto dell’ente sociale, anche se reperita in luogo diverso dalla sede ufficiale dello stesso, per la medesima regola sancita per le persone fisiche dall’art. 138 c.p.c., secondo cui la consegna a mani proprie è valida ovunque sia stato trovato il destinatario nell’ambito territoriale della circoscrizione;
c) nel caso di specie la notificazione delle cartelle in questione è stata effettuata al legale rappresentante della società presso l’abitazione dello stesso sicché è da ritenere ritualmente avvenuta, contrariamente a quanto affermato dai giudici di merito.


“Furbetti del cartellino” in aumento nella Pubblica Amministrazione

È stato registrato un aumento dei cosiddetti “furbetti del cartellino” nella Pubblica Amministrazione, nel 2022.

Secondo quanto emerso dal Giudizio di Parificazione del Rendiconto generale dello Stato, presentato alla fine di giugno scorso dalla Corte dei Conti, sono in aumento i furbetti del cartellino, ovvero i dipendenti che timbrano la presenza a lavoro, quando in realtà sono altrove.

Il fenomeno è cresciuto del 13% nel 2022.

Come dichiarato nel report della Corte dei Conti, la “falsa attestazione della presenza in servizio” è la causa di almeno il 30% dei licenziamenti nelle pubbliche amministrazioni.

Nel 2022, sono stati scoperti 168 casi di dipendenti pubblici che timbravano il cartellino, quando in realtà non entravano in servizio. Di questi, 51 sono stati licenziati, 53 sono stati sospesi dal servizio e 47 sono stati sono stati sospesi per procedimento penale (al momento della pubblicazione del Rendiconto, 17 casi non erano stati inclusi).

La percentuale di allontanamento dal lavoro, nel 2022, è stata del 26,3%, molto vicina a quella dell’anno precedente, che si attestava al 26%. È in diminuzione, invece, la percentuale delle sospensioni motivate dalla commissione di un reato (-1% rispetto al 2021).

Dipendenti con doppi stipendi

Nel report è presente anche il tema dei dipendenti pubblici che hanno “arrotondato” lo stipendio, lavorando in altri uffici, senza autorizzazione.

Il valore totale degli importi accumulati ha toccato i 7,6 miliardi di euro.

La Guardia di Finanza, nel 2022, ha scoperto 293 casi di presunti doppi stipendi non consentiti. Tutto ciò ha portato ad una serie di sanzioni amministrative, per un totale di 4 milioni e mezzo di euro.

In quasi tutte le sanzioni disciplinari, disposte nel 2022, le motivazioni principali sono state il non aver osservato le disposizioni di servizio e l’aver tenuto comportamenti negligenti o scorretti, oltre alle assenze ingiustificate.

Sulle 2897 segnalazioni inoltrate all’Ispettorato, 1457 riguardano le amministrazioni pubbliche centrali, 726 gli enti locali e 436 gli enti pubblici non economici.

In 998 casi le segnalazioni non hanno portato a nulla, a volte per l’incompetenza dell’Ispettorato e, in altri casi, perché si trattava di segnalazioni infondate o già superate.


Send, come funziona la nuova piattaforma che da oggi notifica atti a valore legale: dal fermo amministrativo al preavviso di ipoteca

Da oggi 15 luglio 2023 è attiva la piattaforma SEND Servizio Notifiche Digitali (prima si chiamava Piattaforma Notifiche Digitali). Sul sito si può fare l’accesso sia come imprese che come cittadini.

Cos’è? È un modo più semplice e veloce di gestire la corrispondenza di atti a valore legale. La piattaforma infatti digitalizza la gestione delle comunicazioni a valore legale, semplificando il processo sia per chi invia che per chi riceve.
SEND digitalizza e semplifica la gestione delle comunicazioni a valore legale. Gli enti mittenti devono depositare l’atto da notificare: sarà la piattaforma a occuparsi dell’invio, per via digitale o analogica. Le notifiche sono inviate, gestite e monitorate tramite un solo canale, accessibile da più referenti dello stesso ente.
Con SEND diminuisce l’incertezza della reperibilità dei destinatari e si riducono i tempi e i costi di gestione.
L’ente mittente deve solo caricare l’atto. SEND si integra con il protocollo degli enti e offre sia API per l’invio automatico delle notifiche, sia la possibilità di fare invii manuali. Una volta effettuato il caricamento degli atti e dei moduli di pagamento, la piattaforma genera lo IUN, un codice univoco identificativo della notifica. Successivamente, cerca nei suoi archivi e nei registri pubblici una PEC riconducibile al destinatario e invia la notifica. Poi, invia un avviso di cortesia agli altri recapiti digitali (app IO, email e SMS) del destinatario. Se il destinatario non ha indicato alcun recapito digitale e non ha accesso alla piattaforma, questa procede con la ricerca di un indirizzo fisico, e quindi con l’invio tramite raccomandata cartacea.
Il destinatario accede alla piattaforma tramite SPID o CIE, dove può visionare e scaricare l’atto notificato. Grazie all’integrazione con pagoPA, può anche pagare contestualmente quanto dovuto. Se ha attivato il servizio su app IO, potrà fare tutto direttamente in app. Come l’ente, anche il destinatario ha accesso alla cronologia degli stati della notifica e alle attestazioni opponibili a terzi che ne danno prova.
La comunicazione di cortesia, che il destinatario della notifica può ricevere su IO, l’app dei servizi pubblici, via mail o tramite SMS, contiene il link per la consultazione della notifica e dei documenti allegati sulla piattaforma, mediante un codice che identifica la notifica (IUN). Se la notifica prevede un pagamento, questo potrà essere effettuato direttamente sulla piattaforma pagoPA.
È possibile notificare tramite SEND il preavviso di ipoteca e il fermo amministrativo?
La legge che istituisce SEND (l’art. 26, comma 17, del D.L. n. 76/2020) esclude l’utilizzo di SEND per le notifiche relative:

a: gli atti del processo civile, penale, per l’applicazione di misure di prevenzione, amministrativo, tributario e contabile. Ed è escluso anche per gli atti della procedura di espropriazione forzata disciplinata dal titolo 2, capi 2 e 4, del D.P.R.n. 602/1973, diversi da quelli di cui all’art. 50, commi 2 e3, e all’art. 77, comma 2-bis.
Il preavviso di ipoteca però è disciplinato dall’art. 77, comma 2-bis, del D.P.R. n.602/1973 e il fermo amministrativo è disciplinato all’art. 86 del D.P.R. n. 602/1973, rubricato al titolo 2, capo 3. La notifica tramite SEND è, pertanto, ammessa per entrambi.
La notifica digitale potrà avere come destinatari anche le persone giuridiche?
Le notifiche potranno essere inviate in formato digitale sia alle persone fisiche sia alle persone giuridiche. Per queste ultime è in corso di implementazione l’integrazione con INI-PEC (domicili digitali persone giuridiche) e Registro delle Imprese.
Chi può aderire a SEND?
A SEND possono aderire le Pubbliche Amministrazioni e gli agenti della riscossione. Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni statali, come gli istituti e le scuole di ogni ordine e grado; le istituzioni educative; le aziende ed amministrazioni dello Stato ad ordinamento autonomo; le Regioni, le Province, i Comuni, le Comunità montane e loro consorzi e associazioni; le istituzioni universitarie; gli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP).
Ma anche le Camere di Commercio, industria, artigianato e agricoltura e loro associazioni; tutti gli enti pubblici non economici nazionali, regionali e locali; le amministrazioni, le aziende e gli enti del Servizio Sanitario Nazionale; l’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni (ARAN) e le Agenzie di cui al decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 300, che svolgono attività a carattere tecnico-operativo di interesse nazionale, in atto esercitate da Ministeri ed enti pubblici e operano al servizio delle amministrazioni pubbliche, comprese quelle regionali e locali.
Oltre alle pubbliche amministrazioni, quali altri soggetti possono aderire a SEND?
Possono aderire a SEND gli agenti della riscossione e altri soggetti ai quali può essere affidata l’attività di riscossione, in particolare: i soggetti iscritti nell’albo istituito dal MEF (quindi anche una società privata ma solo se è iscritta all’albo), i riscossori stabiliti in un Paese membro dell’Unione Europea previa presentazione di certificazione rilasciata dalla competente autorità del loro Stato di stabilimento. E poi anche le società a capitale interamente pubblico, a condizione che: l’ente titolare del capitale sociale eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi; la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente che la controlla; svolga la propria attività solo nell’ambito territoriale di pertinenza dell’ente che la controlla.


Notifica via pec non andata a buon fine per “casella piena” del destinatario: effetti

La Corte Suprema di Cassazione nell’ordinanza n. 16125/2023 chiarisce quali oneri abbia il notificante nel caso in cui la notifica via pec dell’appello non vada a buon fine a causa della casella piena del destinatario.

Il caso: Tizio, quale attore nell’ambito di un procedimento avanti alla sezione specializzata in materia di impresa, chiedeva al Tribunale adito di accertare la sua titolarità delle quote societarie di due società di famiglia nelle misure rispettivamente del 50% e 33% del capitale sociale; nonché di accertare l’illegittimità del comportamento dei convenuti (parenti dell’attore) e la lesione del suo diritto di prelazione e, per l’effetto, la condanna delle controparti alla restituzione a suo favore delle quote societarie in questione, nella misura rispettivamente di € 103,29 e di € 20.650,00 istando al contempo per la sua reintegrazione nelle compagini sociali.

Il Tribunale rigettava le domande di Tizio; Caio, quale erede di Tizio, nel frattempo deceduto, proponeva appello con atto notificato il 5 ottobre 2017; la Corte d’Appello dichiarava inammissibile il proposto appello per tardività della notificazione dell’impugnazione per decorso inutile del termine breve:

  • la notificazione dell’impugnazione si era perfezionata il 5 ottobre 2017; la notificazione della sentenza impugnata era avvenuta via pec il 13.4.2017 al difensore costituito dell’appellante;
  • a sostegno dell’avvenuta notifica della sentenza di primo grado la Corte aveva acquisito il messaggio di mancata consegna per casella postale piena.

Caio ricorre alla Corte Suprema di Cassazione, deducendo come terzo motivo la nullità della sentenza impugnata in relazione all’articolo 360, n. 4, c.p.c. per violazione degli artt. 3-bis l. 21 gennaio 1994, n. 53, 16, 16- sexies d.l. 18 ottobre 2012, n. 179: sul punto la ricorrente eccepisce che:

  1. la Corte territoriale ha ritenuto erroneamente inammissibile per tardività l’appello sul presupposto che si sarebbe perfezionata la notificazione via PEC ad opera delle parti convenute della sentenza di primo grado, ancorché il sistema non avesse generato la ricevuta di “avvenuta consegna” ed avesse invece generato una ricevuta di “mancata consegna” per casella pec piena;
  2. tale situazione non può essere omologata come pretende la Corte territoriale al rifiuto del destinatario di ricevere copia dell’atto da notificare, nel qual caso la notifica si considera fatta a mani proprie, perché, nel caso di specie, il destinatario nulla sa della eseguita notificazione via pec;
  3. non potendo dirsi perfezionata la notifica via pec della sentenza di primo grado, non ha iniziato a decorrere il termine breve per l’appello ex art. 325 c.p.c. pertanto l’appello di Caio avrebbe dovuto essere considerato tempestivo ed ammissibile.

La Corte Suprema di Cassazione, nel ritenere fondata la censura, riguardo alla questione del perfezionamento (o meno) della notifica a mezzo PEC, nel caso in cui la casella digitale del destinatario risulti piena, e ribadisce quanto segue:

  1. si ritiene di dare continuità all’orientamento per cui “ove vi sia la dichiarazione di domicilio “fisico” (nella specie risultante ex actis) in caso di casella piena del soggetto destinatario, è insufficiente per il notificante depositare la relativa comunicazione del gestore della casella, dovendosi quest’ultimo attivare, per effettuare la notifica, a tentare di eseguire l’adempimento al domicilio fisico del destinatario, precedentemente eletto;
  2. pertanto, “in caso di notificazione a mezzo PEC non andata a buon fine, ancorché per causa imputabile al destinatario (nella specie per “casella piena”), ove concorra una specifica elezione di domicilio fisico – eventualmente in associazione al domicilio digitale – il notificante ha il più composito onere di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario fisico eletto in un tempo adeguatamente contenuto, non potendosi, invece, ritenere la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico”.

Leggi: Cassazione-civile-ordinanza-16125-2023


Notifiche PEC e riforma Cartabia: sospesi i commi 2 e 3 della L. n. 53/1994

La legge 3 luglio 2023 n. 87, di conversione del DL. 51/2023, pubblicata in G.U. il 5 luglio 2023, reca novità anche in tema di notifiche PEC ai sensi della legge n. 53/1994.

Il primo marzo 2023 è entrato in vigore il nuovo art. 3 ter della L. n. 53/1994, così come disposto dal decreto legislativo n. 149/2022:

Legge n. 53/1994 – Art. 3-ter

  1. L’avvocato esegue la notificazione degli atti giudiziali in materia civile e degli atti stragiudiziali a mezzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato quando il destinatario:
  2. è un soggetto per il quale la legge prevede l’obbligo di munirsi di un domicilio digitale risultante dai pubblici elenchi;
  3. ha eletto domicilio digitale ai sensi dell’articolo 3-bis, comma 1-bis, del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, iscritto nel pubblico elenco dei domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese ai sensi dell’articolo 6-quater del medesimo decreto.
  4. Nei casi previsti dal comma 1, quando per causa imputabile al destinatario la notificazione a mezzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato non è possibile o non ha esito positivo:
  5. se il destinatario è un’impresa o un professionista iscritto nell’indice INI-PEC di cui all’articolo 6-bis del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, l’avvocato esegue la notificazione mediante inserimento a spese del richiedente nell’area web riservata prevista dall’articolo 359 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza, di cui al decreto legislativo 12 gennaio 2019, n. 14, dichiarando la sussistenza di uno dei presupposti per l’inserimento; la notificazione si ha per eseguita nel decimo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento;
  6. se il destinatario è una persona fisica o un ente di diritto privato non tenuto all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese e ha eletto il domicilio digitale di cui all’articolo 6-quater del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, l’avvocato esegue la notificazione con le modalità ordinarie.
  7. Quando per causa non imputabile al destinatario la notificazione di cui al comma 1 non è possibile o non ha esito positivo, si esegue con le modalità ordinarie.

[Disposizione in vigore dal 28 febbraio 2023 di applicazione ai procedimenti civili instaurati successivamente a tale data (1° marzo 2023). Ai procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023 continuano ad applicarsi le disposizioni anteriormente vigenti (art. 35 comma 1)].

Si è già a conoscenza del fatto che, le più importanti e significative novità introdotte da tale articolo, pur formalmente entrate in vigore dal 1 marzo 2023 in realtà non hanno potuto produrre i propri effetti; questo perché sia il pubblico elenco INAD (previsto dal primo comma lettera b dell’art. 3 ter l. 53/1994) sia l’area web ex art. 359 del codice dell’impresa e dell’insolvenza (prevista dal secondo comma lettera a dell’art. 3 ter l. 53/1994), in realtà non erano ancora presenti ed utilizzabili.

Quanto al pubblico elenco INAD, l’Agenzia per l’Italia Digitale ha reso noto, lo scorso 6 giugno 2023, che lo stesso sarebbe stato consultabile dal 6 luglio 2023 mentre, quanto all’area web prevista dall’art. 359 del codice dell’impresa e dell’insolvenza, nessuna novità fino alla pubblicazione della legge 3 luglio 2023 n. 87.

L’articolo 4 ter, a tal proposito, adesso dispone così:

Art. 4 ter

(Proroga in materia di disciplina delle notificazioni eseguite dagli avvocati ai sensi dell’articolo 3-ter della legge 21 gennaio 1994, n. 53).

  1. L’efficacia delle disposizioni dei commi 2 e 3 dell’articolo 3-ter della legge 21 gennaio 1994, n. 53, introdotto dal decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 149, è sospesa fino al 31 dicembre 2023. Fino a tale data, quando la notificazione ai sensi del comma 1 dell’articolo 3-ter della citata legge n. 53 del 1994 non è possibile o non ha esito positivo, essa è eseguita con le modalità ordinarie e si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui è generata la ricevuta di accettazione della notificazione dallo stesso inviata mediante posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato.

E così una delle novità della riforma Cartabia che avrebbero potuto (forse) rendere più rapido e sicuro il procedimento di notifica tramite PEC ai sensi della L. n. 53/1994 quando la stessa non si concludeva per causa imputabile al destinatario, non solo di fatto non è mai entrata in vigore causa l’inesistenza di tale area ma, con la disposizione sopra trascritta, viene sospesa fino al 31 dicembre 2023.

Si riporta, quindi, il nuovo articolo 3 ter della legge 53/1994 in vigore dal 6 luglio 2023:

Legge n. 53/1994 – Art. 3-ter

  1. L’avvocato esegue la notificazione degli atti giudiziali in materia civile e degli atti stragiudiziali a mezzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato quando il destinatario:
  2. è un soggetto per il quale la legge prevede l’obbligo di munirsi di un domicilio digitale risultante dai pubblici elenchi;
  3. ha eletto domicilio digitale ai sensi dell’articolo 3-bis, comma 1-bis, del codice dell’amministrazione digitale, di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, iscritto nel pubblico elenco dei domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese ai sensi dell’articolo 6-quater del medesimo decreto.

Per effetto delle modifiche apportate si ricorda quindi che, dal 6 luglio 2023 e fino al 31 dicembre 2023, quando la notificazione ai sensi del comma 1 dell’articolo 3-ter della citata legge n. 53 del 1994 non è possibile o non ha esito positivo, essa è eseguita con le modalità ordinarie e si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui è generata la ricevuta di accettazione della notificazione dallo stesso inviata mediante posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato qualificato.


Pec obbligatoria nelle comunicazioni tra l’amministrazione e l’impresa

Sussiste l’obbligo giuridico di utilizzare, in via esclusiva, nelle comunicazioni tra p.a. e imprese, la Pec, Posta elettronica certificata.

Lo ha sancito il Consiglio di stato, sez. VI con la sentenza del 6 giugno 2023 n. 5534.

La controversia in esame verte sul principio della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c. e più precisamente se operi la presunzione di ricezione della Pec. Una ditta aveva impugnato il fatto che la notifica della comunicazione di avvio dell’istruttoria di un procedimento amministrativo era stata ritenuta rituale nonostante l’amministrazione avesse ricevuto l’avviso di mancata consegna. I giudici amministrativi respingono la doglianza e precisano che non può avere alcun rilievo il fatto che la Pec dalla società appellante sia temporaneamente fuori servizio.
La Pec, infatti, costituisce ormai mezzo ordinario (nonché esclusivo) per le comunicazioni tra p.a. e imprese. Il dpcm 22 luglio 2011, contenente le “Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed adottato in attuazione proprio del menzionato art. 5-bis, comma 2, Cad, prevede, peraltro, al suo art. 3, che, a decorrere dal 1° luglio 2013, “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni” (comma 1) e che “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1, lett. c-bis, Cad. Sulla base del combinato disposto degli artt. 5, comma 1, dl 179 del 2012 (convertito con modificazioni dalla l. n. 221 del 2012) e 16, comma 6, del dl 185 del 2008 e ss.mm., ogni impresa individuale o collettiva ha l’obbligo di essere titolare di Pec ed ha, di riflesso, l’onere di mantenere la stessa in condizioni di efficienza, adottando ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività (ad esempio con lo spostamento o eliminazione dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione ovvero, per quanto qui più di interesse, col regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio).
V’è pertanto l’obbligo giuridico dell’impresa di rendersi reperibile con Pec e l’obbligo della p.a. di impiegarla quale unico strumento di comunicazione.

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Tfr è la svolta: sentenza storica della Corte Costituzionale.

Incompatibili con la Costituzione le norme che prevedono di corrispondere in ritardo il trattamento di fine servizio. Per la Corte Costituzionale spetta dunque al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico finanziaria.

A stabilirlo è la Corte Costituzionale con la sentenza n. 130 del 23 giugno 2023.

Incompatibili con la Costituzione le norme che prevedono di corrispondere in ritardo il trattamento di fine servizio. Il differimento della corresponsione dei Tfs ai dipendenti pubblici cessati dall’impiego per raggiunti limiti di età o di servizio contrasta infatti con il principio costituzionale della giusta retribuzione, di cui tali prestazioni costituiscono una componente; principio che si sostanzia non solo nella congruità dell’ammontare corrisposto, ma anche nella tempestività della erogazione.

Si tratta di un emolumento volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una particolare e più vulnerabile stagione della esistenza umana.

La Corte costituzionale dice stop quindi alle attese di anni per ottenere la liquidazione, ma l’imperativo vale solo per i dipendenti Pa che vanno in pensione di vecchiaia, a esclusione quindi delle altre formule di pensione anticipata e di anzianità. Il governo guidato da Giorgia Meloni dovrà pertanto mettere mano alla legislazione sul Trattamento di fine rapporto (Tfr) o Trattamento di fine servizio (Tfs), assicurando nuove regole che possano tener conto delle modifiche richieste dalla Corte costituzionale, senza pesare tuttavia sui conti pubblici.

Adesso tocca al legislatore sanare la materia

Per la Corte Costituzionale spetta dunque al legislatore, avuto riguardo al rilevante impatto finanziario che il superamento del differimento comporta, individuare i mezzi e le modalità di attuazione di un intervento riformatore che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

La sentenza ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del decreto-legge n. 79 del 1997, come convertito, e dell’art. 12, comma 7, del d.l. n. 78 del 2010, come convertito, che prevedono rispettivamente il differimento e la rateizzazione delle prestazioni.

Tuttavia, la discrezionalità del legislatore al riguardo – ha chiarito la Corte – non è temporalmente illimitata. E non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa, tenuto anche conto che con la sentenza n.159 del 2019, era già stato rivolto un monito con il quale si segnalava la problematicità della normativa in esame. La Corte ha poi rilevato che la disciplina del pagamento rateale delle indennità di fine servizio prevede temperamenti a favore dei beneficiari dei trattamenti meno elevati. Comunque, concludono i giudici delle leggi, tale normativa era connessa a esigenze contingenti di consolidamento dei conti pubblici.