Valida la notifica P.E.C. di un’ordinanza priva di firma digitale

In applicazione dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, non è necessaria la presenza della firma digitale del cancelliere sulla copia del provvedimento comunicato via P.E.C. alle parti.
Questo il principio ripreso dalla Corte di Cassazione, I sez. civ., con sentenza n. 93 del 07.01.2020.
La vicenda nasce dalla sentenza con la quale il Tribunale aveva rigettato la domanda proposta da un cittadino straniero tesa ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e di quella umanitaria. L’ordinanza di rigetto veniva comunicata dalla cancelleria a mezzo P.E.C..
Avverso la suddetta ordinanza veniva proposto appello da parte dell’originario ricorrente, che veniva dichiarato inammissibile dalla Corte di Appello per tardività, in quanto proposto oltre i trenta giorni dalla comunicazione dell’ordinanza.
Pertanto, aveva proposto ricorso in Cassazione, deducendo la nullità della sentenza in quanto la stessa era priva della firma digitale del cancelliere e di conseguenza l’appello era proponibile entro il termine di sei mesi ai sensi dell’art. 327 c.p.c. non essendo applicabile il termine breve di trenta giorni.
La Corte di Cassazione ha ritenuto valida la sentenza comunicata a mezzo P.E.C. dalla Cancelleria priva della firma digitale del cancelliere, ai fini della decorrenza del termine breve per proporre appello. In tal senso, è stato richiamato il principio affermato con la sentenza n. 26479/2017 secondo la quale “ai sensi dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, nel testo “ratione temporis” vigente, le copie informatiche del fascicolo digitale equivalgono all’originale, anche se prive della firma del cancelliere, ai sensi dell’art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, conv. in l. n. 221 del 2012, nel testo “ratione temporis” vigente, disposizione applicabile a tutti gli atti digitalizzati, come si desume dal tenore letterale della norma, riferito all’intero contenuto del fascicolo informatico”.
La Corte di Cassazione ha quindi rigettato il ricorso.


Notifiche atti giudiziari: dal 23 settembre solo con nuovi moduli

Poste Italiane informa di aver predisposto i nuovi modelli di buste e moduli per la notifica degli atti giudiziari. Dal 23 settembre la vecchia modulistica non sarà più accettata
Dal 23 settembre al via i nuovi modelli di buste e moduli per la notifica degli atti giudiziari a mezzo posta. Lo rendono noto Poste Italiane e il ministero della giustizia (con le comunicazioni sotto allegate).
I vecchi modelli potranno essere utilizzati fino al 22 settembre 2020, termine del periodo transitorio di adeguamento fissato dall’AGCOM (con delibera 155/19/CONS del 8 maggio 2019).
Niente rimborsi per moduli non utilizzati
Poste rammenta, inoltre, che i quantitativi di moduli non utilizzati non saranno rimborsati o sostituiti con i nuovi modelli e invita pertanto i clienti in possesso di autorizzazione alla stampa in proprio/omologazione di Atti Giudiziari, a provvedere all’allineamento della loro produzione alle nuove Specifiche tecniche. Ovvero, in alternativa ad acquistare i moduli, compilando apposito format, attraverso il servizio “vendita stampati” disponibile sul sito delle Poste Italiane. 
No a modulistica non conforme dal 23 settembre
Per cui, a partire dal 23 settembre 2020, conclude la società “i clienti che presenteranno all’accettazione modulistica non conforme alle specifiche tecniche di cui sopra e quindi alla citata Delibera, a norma dell’art. 3 della l. 890/1982, saranno invitati a riconfezionare la spedizione utilizzando la modulistica conforme”.
In caso di diniego, le spedizioni saranno accettate sotto la responsabilità del cliente e senza pregiudizio per la Società.


Notifica nulla se non si prova di aver cercato il destinatario irreperibile

Il Giudice di Pace di Terracina rammenta come, per la notifica ex art. 143 c.p.c., sia necessario dimostrare una ricerca fattiva del domicilio, attività che andrà attestata o documentata
È nulla la notifica della multa ex art. 143 c.p.c. qualora sia mancata una ricerca fattiva del domicilio del destinatario, secondo canoni di normale diligenza e buona fede, e neppure tale attività sia stata attestata o documentata. Ciò impedisce di cristallizzare il verbale in titolo esecutivo. Il notificante, infatti, è tenuto a conformare la propria condotta all’ordinaria diligenza per vincere l’ignoranza in cui versi circa la residenza, il domicilio o la dimora del notificando.
Lo ha rammentato il Giudice di Pace di Terracina nella sentenza n. 80/2020 (sotto riportata) pronunciandosi sull’opposizione contro una cartella esattoriale di pagamento. L’opponente riteneva non si fosse legittimamente cristallizzato in titolo esecutivo il verbale elevato dalla Polizia locale in quanto la notifica ex art. 143 c.p.c. sarebbe stata nulla.
Una doglianza condivisa dal magistrato onorario il quale precisa che, per notificare un atto ai sensi dell’art. 143 c.p.c. è necessario che sia dimostrata una ricerca fattiva del domicilio e che tale attività di ricerca sia attestata o documentata.
Nel caso di specie, evidenzia il giudice, sarebbe stata sufficiente una semplice e rapida consultazione dei dati dell’ufficio anagrafe del comune di residenza risultante per venire a conoscenza dell’indirizzo di trasferimento dell’opponente.
In pratica, il Comune opposto non ha conformato la propria condotta all’ordinaria diligenza (Cass. ord. n. 19012/2017) e da ciò consegue un abuso della procedura di notificazione che risulta illegittima e affetta dal vizio della nullità. Questo rappresenta un ostacolo insormontabile al mutamento in titolo esecutivo del verbale oggetto della notifica viziata.
Si tratta di una decisione che si conforma a quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità in diverse occasioni. Per i giudici del Palazzaccio, in tema di notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca e indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass., ord. n. 9793/2019).
Alla stregua di tale principio, la Suprema Corte ha ritenuto nulla la notificazione ex art. 143 c.p.c. che l’ufficiale giudiziario abbia completato limitandosi al riscontro dell’assenza del destinatario nel luogo risultante dal certificato anagrafico senza fornire indicazione di alcuna ulteriore ricerca svolta (Cass. n. 8638/2017). Indagini e ricerche che possono sostanziarsi in verifiche presso l’ufficio anagrafe o, addirittura, semplicemente nella raccolta, da parte di altri residenti o vicini di casa di informazioni negative circa la reperibilità in quel luogo del destinatario dell’atto.
Tra l’altro, la Suprema Corte ha chiarito che “la relata di notificazione fa fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni che riguardano l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente e limitatamente ai soli elementi positivi di essa, mentre non sono assistite da pubblica fede le attestazioni negative, come l’ignoranza circa la nuova residenza del destinatario della notificazione”.

Leggi: Giudice di Pace di Terracina 2020


Accertamento, la notifica dell’atto guarda alla data della proroga

Secondo la circolare 25/E/2020 dell’Agenzia delle Entrate non è prevista alcuna proroga della decadenza di un anno per il contraddittorio preventivo, se il termine è già posticipato oltre il 31 dicembre 2020.
Decreto Rilancio, la circolare multiquesito n. 25/E dell’Agenzia delle Entrate, pubblicata il 20 agosto 2020, fornisce ulteriori chiarimenti sulle novità introdotte. Dal bonus per le partite IVA fino alla sospensione delle scadenze fiscali, ecco le risposte principali ai dubbi di imprese ed intermediari.
Alcune delle novità contenute nella circolare n. 25/E arrivano ormai fuori tempo massimo; è il caso, ad esempio, dei chiarimenti sui contributi a fondo perduto, considerando che la scadenza per fare domanda era fissata al 13 agosto 2020.
Tra i punti contenuti nella circolare n. 25/E dell’Agenzia delle Entrate, ampio spazio è dedicato alla sospensione delle scadenze relative alla riscossione, così come ai crediti d’imposta introdotti dal decreto Rilancio, dal bonus sanificazione fino a cessione e sconto in fattura previsti per i bonus casa 2020.
Il documento di prassi risponde ai quesiti presentati dalle associazioni di categoria, da operatori e altri contribuenti sulle norme contenute nel Decreto Rilancio, approvato il 19 maggio scorso e convertito in legge lo scorso 17 luglio 2020.
Dal taglio dell’IRAP, al contributo a fondo perduto, fino ad arrivare alla sospensione dei termini processuali e le spese di sanificazione degli ambienti di lavoro.
Tra le novità da evidenziare, per quel che riguarda il bonus per la sanificazione degli ambienti di lavoro, in scadenza il 7 settembre 2020, viene chiarito che restano fuori dal credito d’imposta le spese sostenute per l’ordinaria pulizia dei condizionatori.
Concorre, invece, al calcolo del credito d’imposta riconosciuto la pulizia effettuata per aumentare la capacità filtrante del ricircolo, ad esempio sostituendo i filtri esistenti con altri di classe superiore.
Per la corretta individuazione delle spese rientranti nel credito d’imposta, saranno gli operatori della sanificazione a dover predisporre una certificazione che attesti che le attività effettuate siano in linea con le indicazioni contenute nei Protocolli di regolamentazione, e che quindi siano finalizzate ad eliminare o ridurre la presenza del virus che ha determinato l’emergenza Covid-19.
Il bonus per la sanificazione degli ambienti di lavoro è soltanto uno dei temi trattati nella circolare n. 25 dell’Agenzia delle Entrate.
Tra gli ulteriori chiarimenti forniti, viene specificato che il bonus sugli affitti commerciali spetta anche a chi esercita attività di B&B con partita IVA, in relazione al canone di locazione corrisposto al proprietario, ed anche se l’immobile sia ad uso residenziale e non commerciale.
Per l’individuazione degli affitti ammissibili al credito d’imposta rileva che l’immobile sia strumentale all’attività svolta in via imprenditoriale.

Leggi: Circolare_n._25_20_08_2020


È il destinatario a dover dimostrare che il plico notificato era vuoto

Se l’atto è stato regolarmente consegnato, l’agente della riscossione non deve né fornire prove sul contenuto della raccomandata né depositare l’originale o la copia integrale della cartella recapitata
In caso di notifica di cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, in conformità al principio di “vicinanza della prova”, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova.
Questo il principio affermato dalle due ordinanze della Corte di Cassazione n. 14935 e n. 14941 del 14 luglio scorso, ove la Corte ha altresì confermato che, in caso di contestazioni, neppure grava sull’agente della riscossione l’onere di depositare l’originale o la copia integrale della cartella.
Le vicende processuali
Nel caso di cui all’ordinanza n. 14935, la Commissione tributaria regionale della Campania (sentenza n. 6120/22/2018) aveva confermato la pronuncia di prime cure che aveva accolto il ricorso proposto da un contribuente avverso una cartella di pagamento inviata a mezzo del servizio postale con plico raccomandato.
Nello specifico, la Ctr osservava che, nonostante la contestazione mossa dal contribuente, l’agente della riscossione non aveva assolto all’onere, asseritamente gravante sul mittente, di provare il contenuto del plico raccomandato.
Questa statuizione veniva censurata dall’agente in sede di legittimità.
Analogamente, nella seconda fattispecie, il giudice di appello (Ctr Piemonte, sentenza n. 1526/7/2018) aveva concluso per l’irregolarità della notifica della cartella impugnata, rilevando che “non vi è alcun documento che provi il collegamento tra la fotocopia della spedizione e ricevuta della raccomandata e le cartelle apparentemente notificate… Non vi è poi regolare attestazione di notifica da parte dell’ufficiale postale notificante perché non vi è indicazione della qualifica del firmatario della ricevuta o dell’ufficiale postale notificante”.
Nel ricorso dinanzi al Collegio di legittimità, la sentenza impugnata veniva censurata laddove aveva ritenuto necessaria, per la validità della notifica, la produzione delle cartelle di pagamento nella loro integralità, nonché l’indicazione sull’avviso di ricevimento della qualifica del firmatario.
Le pronunce della Corte
Entrambi i ricorsi dell’agente della riscossione sono stati accolti.
Sul punto controverso, l’ordinanza n. 14935 precisa che, dopo talune oscillazioni, si è ormai consolidato l’orientamento per il quale, in caso di notifica di cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento “fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova”.
Identica statuizione si rinviene nell’ordinanza n. 14941, ove in aggiunta viene altresì ricordato che l’eccezione sulla regolarità della notifica di una cartella di pagamento può essere superata da parte dell’agente della riscossione producendo copia della stessa, “senza che abbia l’onere di depositarne né l’originale …, né la copia integrale, non essendovi alcuna norma che lo imponga o che ne sanzioni l’omissione con la nullità della stessa o della sua notifica”.
Osservazioni
La disciplina della notificazione della cartella di pagamento, ma in generale anche quella degli atti tributari, prevede che la fase finalizzata a portare legalmente a conoscenza del destinatario l’atto che lo riguarda possa essere realizzata, oltre che tramite agente notificatore il quale si reca personalmente presso il recapito dell’interessato per effettuare la consegna, anche attraverso la spedizione del documento in busta chiusa a mezzo raccomandata postale con avviso di ricevimento.
Questa possibilità, relativamente alla cartella, è prevista dall’articolo 26 del Dpr n. 602/1973 che, secondo quanto chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, consente all’agente della riscossione di procedervi anche in via diretta, ovvero senza intermediazione di un agente notificatore qualificato, fattispecie in cui dunque si applica la disciplina delle raccomandate “ordinarie”, anziché quella delle raccomandate “per atti giudiziari” di cui alla legge n. 890/1982 (da ultimo, Cassazione, pronunce nn. 11311, 10954, 10585, 9429, tutte del 2020).
Laddove, in sede giurisdizionale, l’interessato, pur riconoscendo di essere stato destinatario di una notificazione postale, adduca, ad esempio, che la busta ricevuta era vuota oppure che la stessa conteneva dei fogli bianchi o, comunque, un atto diverso da quello che il mittente afferma spedito, si pone il problema di stabilire su quale dei soggetti del rapporto controverso debba gravare la relativa prova.
Al riguardo, appare in via di progressivo consolidamento l’orientamento secondo il quale incombe sul destinatario dell’atto notificato in via diretta a mezzo del servizio postale, che non contesti l’avvenuta ricezione, ma deduca che la busta recapitata era priva di contenuto, l’onere di dimostrare le proprie asserzioni.
Questa regola, confermata dalle ordinanze in commento, è stata già espressa tra le altre dalle pronunce della Corte di Cassazione nn. 28528/2019, 33563/2018 e 16528/2018.
In particolare, nell’ultima pronuncia richiamata, si legge che la riferita conclusione si giustifica in ragione del principio generale “di vicinanza della prova”, considerato che “la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato)… che al momento dell’apertura il plico era in realtà privo di contenuto” (questa affermazione si rinviene in seguito, tra le altre, in Cassazione, nn. 6562/2020, 30787/2019 e 23706/2019).


Violenza in coppia stabile è maltrattamento in famiglia

Le vessazioni tra persone che hanno un rapporto consolidato equivalgono a quelle tra sposati
Violenza in coppia stabile è maltrattamento in famiglia (Cassazione 40727/2009)
Le vessazioni e le violenze sul partner sono sempre da considerarsi maltrattamenti in famiglia tutelati dalla legge penale purché si tratti di coppie stabili anche se non sposate o conviventi.
Lo ha stabilito la Seconda Sezione Penale della Corte di Cassazione confermando una sentenza della Corte di Appello di Cagliari che aveva condannato un signore per il reato di maltrattamenti in famiglia nei confronti della compagna.

La Suprema Corte, respingendo il ricorso dell’imputato contro la sentenza di appello, ha affermato che “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 del codice penale. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”.

La sentenza costituisce un ulteriore passo in avanti in materia di tutela della c.d. “famiglia di fatto”, cioè delle unioni tra soggetti non uniti dal vincolo del matrimonio. È utile ripercorrerne brevemente le tappe.

A differenza che in campo civile, nel quale le coppie di fatto non sono pienamente equiparate a quelle unite in matrimonio, con la sola eccezione per quanto riguarda i figli naturali, nel diritto penale la nozione di famiglia deve considerarsi più estesa, giungendo a ricomprendere anche le coppie stabili conviventi, come del reato espressamente previsto dalla norma incriminatrice prevista dall’art. 572 del codice penale, che punisce “chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte”. A tale evoluzione ha contribuito la Corte di Cassazione, estendendo la tutela penale a tutti i soggetti conviventi, anche se non “more uxorio”, compresi quindi i conviventi per ragioni di lavoro o di cortesia (ad es. i domestici). Pertanto risponde del reato di maltrattamenti in famiglia chiunque tenga comportamenti molesti o vessatori nei confronti di un soggetto convivente, sia esso partner, figlio o ospite convivente.

La sentenza odierna compie un passo ulteriore, richiamando l’orientamento giurisprudenziale più recente, che arriva a comprendere anche i soggetti non conviventi, purché tra di essi, per strette relazioni e consuetudini di vita, “siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”. La Corte di Cassazione introduce, quindi, nella tutela penale dai maltrattamenti un ulteriore elemento, quello della stabilità del rapporto. Famiglia è pertanto l’unione coniugale, l’unione civile o di fatto ma anche l’unione caratterizzata dalla stabilità.
Coppie sempre da tutelare penalmente, dunque, purché siano stabili.


Cartella esattoriale, notifica nulla se effettuata con PEC non presente in pubblici elenchi

La Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, con sentenza n. 379/19 (testo in calce), depositata in data 26 agosto 2019, ha sancito che è “nulla la notifica della cartella esattoriale” dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, laddove provenga “da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nei pubblici registri”.
I fatti del processo
Il contenzioso tributario in commento nasceva dall’impugnazione, da parte del contribuente, di un atto di pignoramento presso terzi (art. 72-ter, D.P.R. n. 602/1973[1]), nonché di un atto di intervento all’interno della stessa procedura esecutiva, a mente dei quali veniva sottoposto ad esecuzione forzata la somma di €. 240.000,00, a titolo di debiti tributari, relativa alla presunta notifica di cartelle esattoriali imputate alla società debitrice.
Sul punto, il ricorrente, nel proprio atto introduttivo, lamentava – tra i vari spunti difensivi volti ad annullare la pretesa erariale – anche l’omessa notificazione delle cartelle esattoriali richiamate negli atti esecutivi ricevuti e chiedeva al Collegio l’annullamento del debito erariale[2].
Il punto centrale della difesa del contribuente
Il ricorrente, dunque, al fine di annullare integralmente il debito erariale – nelle more del giudizio – rilevava che la notifica delle cartelle esattoriali era insanabilmente viziata (nella forma giuridica della nullità), in quanto l’Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non aveva utilizzato la PEC attribuita all’Agenzia delle Entrate – Riscossione, presente nell’elenco ufficiale “IPA” (Indice delle Pubbliche Amministrazioni[3]), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì un irrituale ed ignoto indirizzo[4].
Sul punto, in tema di notifica a mezzo PEC, l’art. 26, D.P.R. n. 602/73, l’art. 16-ter del D.L. 179/2012, convertito in Legge n. 221/2012 recita testualmente: “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto”, ovvero “IPA”, “Reginde”, “Inipec”.
Orbene: la verifica, effettuata dal ricorrente, in relazione all’indirizzo di Posta Certificata dell’Agenzia delle Entrate-Riscossione, evidenziava che all’esattore notificante era stato assegnato un indirizzo PEC differente, rispetto a quello utilizzato nelle notifiche in contestazione.
Sulla scorta di tali notizie, emergeva la considerazione che l’indirizzo PEC in commento, ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it era l’unico valido e pertanto utilizzabile legittimamente dall’Agenzia delle Entrate-Riscossione per scopi notificatori con validità legale delle cartelle esattoriali tributarie.
Per cui, dall’analisi dei documenti versati in atti dall’esattore nel corso del giudizio, di contro, si evinceva che le cartelle di pagamento (impugnate contestualmente agli atti di pignoramento) erano state trasmesse da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nel mentovato pubblico registro, il tutto in palese violazione della richiamata normativa[5].
Alla luce di quanto sopra esposto, il ricorrente insisteva affinché la Commissione Tributaria Provinciale di Perugia accertasse l’illegittimità del procedimento di notifica delle cartelle di pagamento impugnate.
L’indirizzo PEC del notificante non proviene dagli Elenchi Pubblici: la notifica è viziata ed insanabile (Cass., ord. n. 17346/2019)
In materia di notifica di atti civili, la Suprema Corte, con la recente ordinanza n. 17346/2019, aveva osservato che la notifica effettuata con modalità telematiche è da considerarsi viziata, se il notificante utilizza il proprio “indirizzo di posta elettronica certificata” non risultante da pubblichi elenchi, a mente dell’art. 3-bis, Legge n. 53/1994.
Nel contenzioso in parola la parte processuale (ricorrente) “aveva fatto la notificazione utilizzando un indirizzo non risultante dai predetti elenchi”.
Sul punto il contribuente, richiamando “una serie di pronunce e orientamenti […] finalizzati a chiarire la questione”, insisteva affinché venisse accertata la validità della notifica; in breve, secondo la tesi difensiva della parte privata, l’elemento dirimente era che la notifica pec “giunga a compimento”, giacché “il meccanismo telematico” possa garantire la “certezza della procedura di recapito”.
I giudici della S.C. (Consigliere Relatore, Dott. Francesco Terrusi), dichiarando inammissibile il ricorso, hanno censurato la condotta notificatoria del ricorrente, il quale non ha “specificato come sia stata in concreto eseguita la notificazione […] in ordine all’effettuazione ad un indirizzo non risultante dai predetti elenchi”.
A ben vedere, secondo la difesa del contribuente, tale principio “civilistico” meritava legittimo ingresso anche all’interno delle notifiche tributarie, poiché la casella PEC di destinazione di un atto (civile o tributario) è fondamentale al pari di quella del mittente, il quale è onerato da utilizzare un proprio indirizzo PEC presente nei pubblici registri, pena la nullità della stessa notifica[6].
La decisione della Commissione Tributaria Provinciale di Perugia
Ritornando alla disamina della sentenza tributaria in commento, i giudici perugini hanno dunque accolto il ricorso del contribuente, accertando l’illegittimità del debito erariale imputato al cittadino, giacché la casella PEC, adoperata dall’Ente della Riscossione in sede di notifica delle cartelle esattoriali, è collegata ad “un soggetto che non si conosce, e cioè da un indirizzo PEC diverso da quello contenuto nei pubblici registri”.
In effetti, proseguono i giudici di prime cure, “l’art. 26, D.P.R. n. 602/1973, l’art. 16-ter del D.L. 179/2012, recita testualmente: ‘a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti […] si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto”, ovvero “IPA”, “Reginde”, “Inipec”.
Nel caso in esame, l’Ente della Riscossione non aveva utilizzato l’indirizzo ufficiale presente in IPA (Indice delle Pubbliche Amministrazioni), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì notifica.acc.umbria@pec.agenziariscossione.gov.it.
In conclusione, dai documenti versati in atti dall’esattore è pertanto emerso il fatto storico inconfutabile che le cartelle di pagamento erano state trasmesse da un indirizzo PEC differente da quello contenuto nel pubblico registro (IPA) per la notifica dei provvedimenti esattivi di natura tributaria; tale scenario risultava in contrasto con la richiamata normativa, pertanto le contestate notifiche erano da ritenersi prive di effetti giuridici, di conseguenza gli atti impugnati erano da ritenersi nulli.

Più di recente, tale orientamento è stato confermato anche dalla Commissione Tributaria Provinciale di Roma con la sentenza n. 2799/2020, che si è espressa con i seguenti termini: “L’eccezione sollevata dalla ricorrente, contrariamente all’assunto dell’Ufficio è fondata perché, come risulta dalla copia della notifica prodotta dalla parte, essa notifica è stata spedita da un indirizzo Pec non riconducibile all’Agenzia delle Entrate Riscossione presente nell’elenco ufficiale “IPA” (Indice delle Pubbliche Amministrazioni”), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì un irrituale ed ignoto indirizzo ((…)).
La notifica della cartella esattoriale è insanabilmente nulla (nella forma giuridica della nullità), in quanto l’Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non aveva utilizzato la PEC attribuita all’Agenzia delle Entrate – Riscossione.

[1] A maggior chiarezza della sentenza in commento, è opportuno precisare che i richiamati atti impugnati dalla società contribuente (l’atto di pignoramento e l’atto di intervento, unitamente ai prodromici provvedimenti), si fondano sulla mancata ed invalida previa notificazione dei titoli esecutivi.
La Suprema Corte a Sezioni Unite, come noto, ha risolto la questione concernente il riparto di giurisdizione in merito all’opposizione agli atti esecutivi, ove questi abbiano ad oggetto l’irregolarità formale della notificazione del presupposto titolo esecutivo, pronunciando il seguente principio di diritto:” in materia di esecuzione forzata tributaria, sussiste la giurisdizione del giudice tributario nel caso di opposizione agli atti esecutivi riguardante l’atto di pignoramento, che si assume viziato per l’omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento (o degli atti presupposti dal pignoramento) , ove venga impugnata anche la prodromica cartella di pagamento per vizio di notifica” (Cass. SS. UU. n. 13913/17);
[2] In materia della conoscenza effettiva di un atto amministrativo “inoltrato” al contribuente, la sentenza n. 19704/15 della Corte di Cassazione, SS. UU. ha affermato il principio del cittadino ad esercitare il proprio diritto di accesso alla tutela giurisdizionale avverso tutti quegli atti che siano stati invalidamente ed irritualmente notificati, posta la natura recettizia degli atti amministrativi, essendo del tutto irrilevante l’eventuale istanza di rateazione presentata dal contribuente e/o successivo pagamento parziale del debito a ruolo, come da insegnamento giurisprudenziale di legittimità sul punto (Cass. n. 3347/17, Cass. n. 7820/17, Cass. n. 18/18);
[3] https://www.indicepa.gov.it/documentale/index.php;
[4] Nel caso giudiziario in commento, il contribuente constatava, alla luce della produzione documentale versata in atti da parte dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, che quest’ultima (in sede di notifica via PEC delle citate cartelle esattoriali) aveva utilizzato l’indirizzo telematico notifica.acc.umbria@pec.agenziariscossione.gov.it (non presente nell’elenco ufficiale “IPA”); da tale circostanza di fatto, il ricorrente aveva eccepito il vizio di notifica delle cartelle esattoriali impugnate contestualmente agli atti del pignoramento;
[5] Peraltro, sulla questione affrontata dai giudici perugini, il ricorrente – all’interno delle memorie illustrative – segnalava la sentenza n. 401/19 pronunciata dalla C.T.P. di Taranto, a mezzo della quale i Giudici tarantini avevano affermato che: “[…] è doveroso segnalare che la Legge in tema di notifica a mezzo PEC, dispone:
[…] b) l’indirizzo PEC del mittente e del destinatario della notifica tramite PEC dovranno essere presenti nei pubblici elenchi, come richiesto dall’art. 16 ter cit. […]
E cioè: INDICE PA, REGINDE, INI PEC.
La verifica, effettuata direttamente da questa Commissione, dell’indirizzo PEC certificato della Soget evidenzia che […] ad esso sono assegnati i seguenti indirizzi di posta elettronica certificata:
– da REGINDE: cancellerie.sogetspa@pec.it
– da INI PEC: amministrazione.sogetspa@pec.it
– da INDICE IPA: direzione.sogetspa@pec.it
l suindicati indirizzi sono pertanto gli unici validi per la Soget per scopi notificatori con validità legale.
Dai documenti versati in atti si evince che la ingiunzione è stata inviata in semplice file.pdf e da indirizzo PEC (info@sogetspa.it) diverso da quelli contenuti negli anzidetti pubblici registi, il tutto in palese violazione della innanzi richiamata normativa; in conseguenza il procedimento di notifica è inesistente o irrimediabilmente nullo e con esso anche l’ingiunzione che si assume così notificata”;
[6] Su tale questione, il contribuente – all’interno dei propri atti difensivi – eccepiva che laddove il soggetto notificante adoperi un indirizzo PEC “ignoto”, la contestata attività di notifica debba essere qualificata – in primo luogo – come giuridicamente inesistente, dunque non sanabile con l’impugnazione “diretta” della cartella esattoriale; in realtà i giudici perugini hanno inserito l’invocato vizio nella categoria delle nullità. Tale considerazione impone al difensore del contribuente un’attenta scelta circa lo strumento processuale da coltivare per la tutela dei diritti dell’interessato. In effetti, sulla scorta dell’art. 156, comma 3, c.p.c., il quale prevede che “la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”, laddove venga impugnata direttamente la cartella esattoriale, la cui notifica è caratterizzata dal vizio in oggetto, l’impugnazione del citato provvedimento neutralizzerà irrimediabilmente l’eccezione sollevata. Per tale ragione, è indubbiamente più valido attendere l’atto successivo (intimazione di pagamento, preventiva iscrizione ipotecaria, pignoramento, etc.), al fine di contestare la notifica PEC proveniente da un indirizzo diverso da quello inserito nei pubblici registri.

Leggi: CTP PERUGIA, SENTENZA N. 379-2019


Concorso in scadenza del Ministero dello sviluppo economico

Nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica – 4ª serie speciale, concorsi ed esami n. 59 del 31 luglio 2020, è stato pubblicato un concorso pubblico, per titoli ed esami, per la copertura di complessive settanta unità di personale non dirigenziale, a tempo pieno ed indeterminato, di cui sessanta di Area III, posizione retributiva F1, da inquadrare nei ruoli del Ministero dello sviluppo economico e dieci, di cui una riservata ai sensi dell’articolo 3 della legge 12 marzo 1999, n. 68, di categoria A, parametro retributivo F1, da inserire nei ruoli della Presidenza del Consiglio dei ministri, per diversi profili professionali.

Ente che ha bandito il concorso: Commissione per l’attuazione del progetto Ripam
Scadenza di presentazione della domanda: 17 agosto 2020
Ambito: informatico/tecnico
Link al bando: https://www.gazzettaufficiale.it/atto/concorsi/caricaDettaglioAtto/originario?atto.dataPubblicazioneGazzetta=2020-07-31&atto.codiceRedazionale=20E08640

I posti a disposizione si suddividono secondo le seguenti modalità:
45 destinati al profilo di funzionario informatico/specialista di settore scientifico tecnologico (Codice CU/INFO) di cui trentacinque da inquadrare come funzionario informatico nell’Area III – F1 al Ministero dello sviluppo economico e dieci come specialista di settore scientifico tecnologico nella categoria A – parametro retributivo F1 nei ruoli della Presidenza del Consiglio dei ministri;
15 nel profilo di funzionario tecnico (Codice CU/ELET) con competenze in ambito elettronico, da inquadrare nell’Area III – F1 nei ruoli del Ministero dello sviluppo economico;
10 nel profilo di funzionario tecnico (Codice CU/TELE) con competenze in ambito di telecomunicazioni, da inquadrare nell’Area III – F1 nei ruoli del Ministero dello sviluppo economico.
Per poter validamente accedere alla procedura concorsuale, è obbligatorio essere in possesso di un diploma di laurea, di una laurea, di una laurea specialistica o di una laurea magistrale.
Coloro che intendono accedere al concorso devono presentare domanda in modalità telematica, utilizzando il modulo disponibile all’indirizzo «https//ripam.cloud», previa registrazione sullo stesso sistema.
Ai fini della partecipazione al concorso, è richiesto che il candidato sia in possesso di un indirizzo personale di posta elettronica certificata (PEC) a lui intestato.
Il candidato, inoltre, dovrà effettuare, a pena di esclusione dalla procedura, il versamento della quota di partecipazione di euro 10,00 (dieci/00 euro) secondo le modalità esattamente precisate nella procedura d’iscrizione.
I concorrenti dovranno sostenere una prova preselettiva, una prova scritta e una prova orale; la prova preselettiva sarà svolta solo nel caso in cui il numero dei candidati che abbiano presentato la domanda di partecipazione sia pari o superiore a due volte il numero dei posti messi a concorso.
Tutte le prove si svolgeranno presso sedi distaccate e solo tramite il supporto di strumentazione informatica.


Risarcimento a seguito di dequalificazione professionale

La Corte di cassazione ha confermato la decisione con cui, nel merito, era stata accolta la domanda avanzata da una lavoratrice per accertare l’intervenuta dequalificazione professionale subita a seguito di illegittimo esercizio dello jus variandi da parte del datore di lavoro.

La dipendente, inquadrata nell’area funzionale operativa livello C del CCNL di settore e in possesso di conoscenze specifiche qualificate per lo svolgimento di attività amministrative, di coordinamento e di incarichi di responsabilità, aveva asserito di essere stata assegnata, nel periodo considerato, a posizione comportante mansioni manuali, di sistemazione e riordino di materiale, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 2103 c.c.

La Corte di appello le aveva dato ragione, riconoscendole il diritto al risarcimento per il demansionamento subito.

Cassazione: tolleranza contingente non è acquiescenza al demansionamento 

La società datrice aveva adito i giudici di legittimità, lamentando che in sede di gravame era stato disatteso un punto decisivo della controversia, riguardante l’intervenuta acquiescenza della prestatrice nei confronti del provvedimento datoriale di nuova assegnazione. La ricorrente, in particolare, aveva sottolineato come fosse trascorso un lungo lasso di tempo – precisamente un anno e mezzo – prima che la lavoratrice avesse impugnato il provvedimento di riferimento.

Quando si configura l’acquiescenza tacita?

Doglianza, questa, ritenuta infondata dalla Sezione lavoro della Corte di cassazione che, con ordinanza n. 16594 del 3 agosto 2020, ha ribadito l’indirizzo interpretativo già affermato in materia di acquiescenza tacita nei confronti di un provvedimento, valevole sia in ambito amministrativo che in quello processuale civilistico.

L’acquiescenza tacita – si legge nella decisione – è configurabile solo in presenza di un comportamento che appaia inequivocabilmente incompatibile con la volontà del soggetto d’impugnare il provvedimento.

Non è sufficiente, a tal fine, un atteggiamento di mera tolleranza contingente e neppure il compimento di atti resi necessari od opportuni, nell’immediato, dall’esistenza del detto provvedimento.

Tali ultime condotte, infatti, non escludono l’eventuale coesistente intenzione dell’interessato di agire successivamente per eliminare gli effetti del provvedimento del datore.


Nessuna attenuante per chi fa timbrare il badge dai colleghi

Per la Cassazione, se la motivazione non è affetta da manifesta illogicità è corretto il mancato riconoscimento delle attenuanti ai furbetti del cartellino

La Suprema Corte di Cassazione sancisce che non si possono concedere le attenuanti generiche per il reato di truffa del cartellino se la motivazione della sentenza che le ha negate contiene al riguardo una motivazione logica e coerente, non affetta da manifesta illogicità.

Conclusioni a cui la Cassazione è giunta alla fine di una causa penale nel corso della quale la Corte d’Appello ha confermato la sentenza di primo grado, che ha condannato i due imputati per i reati di cui agli articoli 110, 640 commi 1 e 2 c.p. e 55 quinquies del Dlgs n. 165/2001 per essersi procurati un ingiusto profitto, consistente nella retribuzione e accessori, in danno della P.A. in quanto:

  1. il primo soggetto coadiutore della Asl ha consegnato il proprio tesserino d’identificazione ad altri soggetti, per far risultare la propria presenza sul posto di lavoro quando invece lo stesso era altrove;
  2. il secondo, assistente amministrativo Asl per le stesse condotte.

I difensori dei due imputati ricorrono in Cassazione lamentando l’inutilizzabilità delle videoriprese e la mancata concessione ai due soggetti delle attenuanti generiche, con conseguente riduzione della pena al minimo edittale.

La Cassazione con la sentenza n. 22500/2020 dichiara i ricorsi inammissibili, chiarendo, per quanto riguarda il primo motivo di doglianza relativo all’inutilizzabilità delle videoriprese, che l’art 234. c.p.p., oltre agli scritti “permette l’acquisizione anche di ogni altra cosa idonea a rappresentare fatti, persone o cose attraverso la cinematografia, la fotografia, la fonografia e qualsiasi altro mezzo, senza la necessità di alcun decreto autorizzativo da parte del giudice per le indagini preliminari.” Come precisato poi in un caso precedente “le videoregistrazioni effettuate dai privati con telecamere di sicurezza sono prove documentali, acquisibili ex art. 234 c.p.p., sicché i fotogrammi estrapolati da detti filmati ed inseriti in annotazioni di servizio non possono essere considerati prove illegittimamente acquisite e non ricadono nella sanzione processuale della inutilizzabilità.”

Generico per la Cassazione il motivo del ricorso sollevato dall’altro imputato, con cui ha contestato l’inutilizzabilità delle captazioni eseguite in procedimenti diversi da quelle in cui sono state disposte perché non ne ha indicato l’oggetto e non sono quindi chiari i rapporti esistenti tra gli stessi. Per quanto riguarda invece il secondo motivo di doglianza la Corte rileva che, poiché “la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione esente da manifesta illogicità, che, pertanto è insindacabile in cassazione, manifesta illogicità non sussiste nel caso in esame, alla luce della motivazione della Corte d’Appello.”


Non esiste un termine perentorio per iniziare l’esecuzione forzata dopo il fermo amministrativo dei veicoli

Disposto il fermo amministrativo del veicolo, l’amministrazione finanziaria non è obbligata a procedere al pignoramento entro termini perentori. E questo perché non esistono disposizioni di legge né regolamenti che lo prevedono. Non rileva, in senso contrario, il principio di buona fede: il fermo dei veicoli, del resto, rappresenta proprio una misura afflittiva per indurre il debitore ad adempiere.

Lo ha stabilito la Suprema Corte di Cassazione con l’ordinanza 15349 del 17 luglio 2020 con cui ha accolto il ricorso di Riscossione Sicilia, rigettando definitivamente l’opposizione a fermo amministrativo esperita da un contribuente.

Secondo il Tribunale di Termini Imerese dalla normativa vigente (dm 503/1998 e art. 24 Cost.), dopo la notifica del fermo amministrativo l’autorità avrebbe l’obbligo di dar corso al pignoramento nei termini di legge.

L’articolo 3 del dl 203/05 non prevede in generale termini entro cui l’amministrazione deve procedere ad avviare l’esecuzione tramite il pignoramento.

D’altro canto, l’obiettivo del fermo amministrativo è proprio sottrarre la disponibilità del bene al debitore per indurlo all’adempimento nei confronti dell’erario (cfr. Cass. 15354/2015).

Inoltre non è compromesso neppure il diritto di difesa: il contribuente, dal canto, suo può sempre esperire i rimedi apprestati dall’ordinamento: infatti l’impugnazione del preavviso di fermo amministrativo, sia se volta a contestare il diritto a procedere all’iscrizione del fermo, sia che riguardi la regolarità formale dell’atto, è un’azione di accertamento negativo a cui si applicano le regole del processo di cognizione ordinario, e come tale non assoggettata al termine decadenziale di cui all’art. 617 c.p.c. (cfr. Cass. 18041/2019).


Valida la notifica dell’atto di accertamento fiscale eseguita a mezzo dell’agente postale in assenza del destinatario

È valida la notifica dell’atto di accertamento dell’Agenzia delle Entrate eseguito direttamente a mezzo del servizio postale  (legge n. 146/1998), anche se al momento della consegna del plico il destinatario non venga temporaneamente rinvenuto. In tale ipotesi, infatti, la notifica si ha per avvenuta decorsi dieci giorni dal deposito dell’avviso nella cassetta postale. In particolare, la Corte di Cassazione con ordinanza del 28/05/2020 N. 10131/5, afferma che, al  soggetto abilitato alla notificazione con modalità semplificata, ovvero senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario, non si applica l’art. 8 della legge 890/1982 che prevede l’invio della seconda raccomandata informativa contenente l’avviso di giacenza.


Estinzione della Società e responsabilità dei soci

La cancellazione dal registro delle imprese, pur determinando l’estinzione dell’ente, non comporta la scomparsa dei debiti che la società aveva nei confronti dei terzi (Cass. sentenze n. 6070/13 e 6071/13). Di tali debiti rispondono i soci nei limiti di quanto riscosso in sede di liquidazione o totalmente, se illimitatamente responsabili. Dunque, a norma dell’art. 2495 c.c. i creditori possono agire nei confronti dei soci dell’estinta società di capitali sino alla concorrenza di quanto gli stessi hanno riscosso in base al bilancio finale di liquidazione, così come nei riguardi del liquidatore se il mancato pagamento è dipeso da sua colpa. Nel caso di specie, la CTR lombarda dichiara la legittimità degli avvisi di accertamento emessi a fronte dell’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi, data l’esistenza di plusvalenze frazionate ai sensi dell’art. 86 del D.P.R. 917/86. Ne consegue che, alla luce di una presunta distribuzione delle plusvalenze tra i soci, salvo prova contraria, l’estinzione della società ha comportato una loro responsabilità solidale nei confronti del debito contestato dall’Erario.

SENTENZA DEL 20/05/2020 N. 789/2 – COMM. TRIB. REG. PER LA LOMBARDIA

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con separati atti di impugnazione tempestivamente proposti l’Agenzia delle Entrate proponeva appello avverso le sentenze n. 2959/04/2018 e 2958/04/2018 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano di accoglimento dei ricorsi del contribuente, B. R., quale liquidatore della società estinta L. srl, volto ad ottenere l’annullamento degli avvisi di accertamento T9XXXXX/2016 e T9YYYYY/2016 con i quali erano stati accertati, per i periodi d’imposta 2010 e 2011, i redditi di impresa ed i valori della produzione, rispettivamente ai fini IRES ed IRAP, per entrambe le annualità, di € 46.714,00.

I procedimenti relativi sono stati preliminarmente riuniti per ragione di connessione oggettiva e soggettiva

Lamentava l’appellante che le sentenze impugnate avevano posto a fondamento delle pronunce soltanto l’inapplicabilità ai casi concreti delle disposizioni in materia di società estinte dettate dall’art. 28 c. 4 d. lgs. n. 175/14: ” …l’estinzione della società di cui all’art. 2495 c.c. ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione dal registro delle imprese”.

Non era stato preso in considerazione, invece, un altro profilo evidenziato dall’appellante nel giudizio di primo grado, e cioè il fatto che gli avvisi di accertamento erano stati notificati anche ai due soci della L. srl, B. R. (odierno appellato) e B. S., e che la cancellazione dal registro delle imprese, pur determinando l’estinzione dell’ente, non poteva (secondo Cass. Sez U. n. 6070/13 e 6071/13) provocare la scomparsa dei debiti che la società aveva nei confronti dei terzi. Tali debiti sono riferibili ai soci che ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione o illimitatamente se sono illimitatamente responsabili.

Il primo giudice aveva omesso, quindi, l’esame di un profilo giuridico decisivo, di per sé idoneo a rendere le sentenze impugnate meritevole di riforma

Infine, si eccepiva che a seguito della cancellazione la società si estingue e la legittimazione processuale si trasferisce ai soli soci, non al liquidatore, con la conseguenza che l’atto introduttivo del giudizio di primo grado era da ritenersi inammissibile perché proposto da soggetto non legittimato (il liquidatore).

Si costituiva in giudizio il contribuente chiedendo, in via preliminare, declaratoria di inammissibilità, perché nel giudizio di appello erano stati proposti motivi nuovi non proposti

nel corso del giudizio di primo grado, ed in via principale la conferma delle sentenze appellate.

All’esito dell’odierna pubblica udienza ritiene la Commissione che l’appello dell’Ufficio debba essere accolto.

Va innanzitutto osservato che le questioni preliminari proposte dalle parti sono infondate.

E’ infondata quella dell’appellante, atteso che nel caso in esame la figura del socio (B. R., socio al 90%) e quella del liquidatore coincidono. Inoltre sia il socio sia il liquidatore possono essere chiamati a rispondere del loro operato ex art. 2495 c.c. e quindi hanno interesse e sono legittimati a proporre ricorso.

Anche la questione preliminare proposta dalla parte appellata deve essere disattesa.

Invero già nelle controdeduzioni depositate il 21.9.17 davanti alla Commissione Provinciale l’Ufficio rilevava che l’avviso di accertamento era stato notificato ad entrambi i soci e che la estinzione della società non poteva provocare la scomparsa dei debiti rimasti insoddisfatti.

Nessuna violazione degli artt. 57 del d. lgs. 546/92 e 345 c.p.c. è pertanto ravvisabile, nessuna domanda o eccezione nuova è stata proposta nel presente giudizio di appello.

Nel merito deve essere osservato come a norma dell’art. 2495 c.c. i creditori possono agire nei confronti dei soci della estinta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione, e possono agire anche nei confronti del liquidatore se il mancato pagamento è dipeso da colpa di costui.

L’avviso di accertamento è stato esattamente notificato nel confronti del contribuente al proprio domicilio fiscale al fine di far valere la legittima pretesa dell’Amministrazione Finanziaria, che aveva contestato, per entrambe le annualità, l’omessa presentazione della dichiarazione dei redditi, nonostante la presenza di una plusvalenza € 233.568,00 realizzate nel 2007 e frazionata nella misura di 1/5 ai sensi dell’art. 86 dpr 917/86 e pari per gli anni 2010 e 2011 ad € 46.714,00.

Nessuna difesa è stata apprestata dal contribuente sia in ordine alla omessa presentazione della dichiarazione sia in ordine alla realizzazione della plusvalenza.

L’estinzione della società ha comportato una comunione fra i soci di tale plusvalenza, e la presunzione di distribuzione, salvo prova contraria, che opera nelle società di capitali a ristretta base azionaria, ha determinato la responsabilità dei predetti soci in ordine al debito sorto nei confronti dell’erario e la legittimità degli avvisi di accertamento emessi per le annualità 2010 e 2011.

L’appello dell’Ufficio deve essere pertanto accolto ed affermata la legittimità degli avvisi di accertamento emessi.

Le spese, in considerazione della particolarità delle questioni trattate, possono essere compensate.

P.Q.M.

La Commissione

in riforma

delle impugnate sentenze accoglie l’appello dell’Ufficio.  Spese compensate.


Scissione della notifica solo per atti processuali

Incorre nella maturazione del termine di decadenza l’avviso di accertamento pervenuto al destinatario oltre i termini di decadenza; la scissione degli effetti della notifica per il mittente e per il destinatario si applica solo per gli atti processuali e non per quelli sostanziali.

Lo ha stabilito la sezione 24 della Commissione tributaria regionale della Lombardia nella sentenza n.61/2020 (Presidente Liguoro, Relatore Sacchi) depositata in segreteria il 16 gennaio 2020.

Il caso tratta di una richiesta di pagamento di una tassa automobilistica per l’anno d’imposta 2013.

Nel ricorso introduttivo la ricorrente eccepiva la decadenza della pretesa, in quanto la notifica doveva essere perfezionata entro il 31 dicembre 2016; mentre l’atto, sia pure consegnato entro il 31 dicembre 2016 era stato recapitato alla parte il 2 febbraio 2017.

La Ctp di Milano, ritenendo decaduto il termine legittimo, accoglieva il ricorso con una decisione che veniva confermata in appello. La Commissione regionale ha ritenuto che gli atti sostanziali producano i loro effetti soltanto nel momento in cui pervengono all’indirizzo del destinatario, non rilevando la data di consegna all’ufficiale giudiziario o all’ufficio postale e non essendo ammessa alcuna applicazione in via interpretativa stante l’impedimento ex articolo 1334 del codice civile.

La decisione dei giudici regionali, fonda le sue motivazioni sulla sentenza della Corte di cassazione n. 24822/2015 Sezioni Unite.

Il collegio regionale rileva come, in questa stessa sentenza si sia stabilito che la scissione degli effetti della notifica per il mittente e per il destinatario si applichino soltanto per la notifica degli atti processuali e non per quella degli atti sostanziali (amministrativi). In effetti la citata sentenza della cassazione, trattando sui termini di notifica da considerare nei limiti di estensione del principio della diversa decorrenza per il mittente e per il destinatario, recita testualmente che «gli opposti esiti del bilanciamento derivano dalla opposta natura degli atti che vengono in rilievo: atti sostanziali e atti processuali.

Per gli atti negoziali unilaterali un diritto non può dirsi esercitato se l’atto non perviene a conoscenza del destinatario. Per gli atti processuali il diritto (processuale) è esercitato con la consegna dell’atto all’ufficio notificante. La ratio posta a base di queste opposte soluzioni (atti negoziali unilaterali e atti processuali) implica una fondamentale actio finium regundorum: la soluzione a favore del notificante vale nel solo caso in cui l’esercizio del diritto può essere fatto valere solo mediante atti processuali. In ogni altro caso, e indipendentemente dalle scelte del soggetto che intende interrompere la prescrizione (l’ordinamento non può consentire che il pregiudizio per la parte destinataria, incolpevole, derivi dalle scelte arbitrarie e ad libitum della controparte), opera la soluzione opposta».


La sospensione non si applica ai tributi locali

La sospensione dell’attività di accertamento, che ha l’effetto di impedire la notifica degli atti impositivi fino alla fine dell’anno in corso, non si applica ai tributi locali, ma solo ai tributi erariali.

Enti locali e concessionari, infatti, possono notificare gli avvisi di accertamento esecutivi. Dall’8 marzo al 31 maggio sono stati bloccati solo i termini di prescrizione e decadenza delle attività di accertamento e riscossione. I termini vengono spostati più avanti per tutto il periodo di sospensione. La sospensione fino al prossimo 31 agosto si applica solo ai versamenti, alle azioni esecutive e cautelari. Lo ha chiarito l’Ifel (l’Istituto di finanza locale dell’Anci), con una nota del 22 giugno 2020.

L’Ifel prende posizione su una questione piuttosto dibattuta e che ha generato incertezze interpretative. In particolare, sull’applicabilità dell’articolo 157 del dl «Rilancio» (34/2020), che ha posto un freno per l’anno in corso alla notifica degli atti impositivi. Per l’Istituto, che condivide la tesi espressa dal dipartimento delle finanze del Ministero dell’economia, con la risoluzione 6 del 15 giugno 2020, «dal 1° giugno i comuni possono riprendere la notifica degli atti di accertamento, con riferimento a tutte le annualità accertabili». «Invero, dalla semplice lettura del testo si desume che l’art. 157 non è applicabile ai tributi comunali, sia perché gli enti impositori locali non sono mai citati espressamente, sia perché per l’attuazione della disposizione, i commi 5 e 6 dettano indicazioni solo con riferimento all’Agenzia delle entrate. Inoltre, tutte le tipologie di atti indicati nei commi 2 e 3 sono esclusivamente riferibili alle attività proprie delle Agenzie fiscali».

Per il Ministero, l’articolo 67 del dl «Cura Italia» (18/2020) ha previsto la sospensione dall’8 marzo al 31 maggio 2020 dei termini relativi alle attività di liquidazione, controllo, accertamento, riscossione e contenzioso degli enti impositori, compresi gli enti locali. Tuttavia, la norma non ha sospeso l’attività degli enti impositori, poiché prevede esclusivamente la sospensione dei termini di prescrizione e decadenza per il periodo sopra indicato. L’effetto della disposizione in commento, pertanto, «è quello di spostare in avanti il decorso dei suddetti termini per la stessa durata della sospensione», che è stata di 85 giorni. Aggiunge l’Ifel, con la nota de qua, che «la disposizione funge da salvaguardia di tutti gli enti impositori, impedendo ope legis il verificarsi di decadenze che, per ragioni derivanti dalla emergenza epidemiologica, in molti casi non avrebbero potuto essere rispettate». Quindi, «i termini non scadono più al 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata commessa la violazione, ma 85 giorni dopo». È evidente che per le annualità d’imposta da accertare (2015-2019) gli atti potranno essere notificati aggiungendo gli 85 giorni del periodo di sospensione al termine ordinario. Per esempio, entro il 26 marzo 2021, 2022 o 2023, rispettivamente, per gli anni d’imposta 2015, 2016 e 2017.

L’articolo 68 dello stesso decreto «Cura Italia», invece, ha disposto la sospensione dei termini dei pagamenti, scadenti nel periodo che va dall’8 marzo al 31 agosto 2020, dovuti in seguito alla notifica di cartelle, ingiunzioni e accertamenti. A questi ultimi atti, però, la sospensione si applica solo dopo che gli stessi siano divenuti esecutivi. Secondo l’Ifel, gli enti locali e i soggetti affidatari non possono attivare, medio tempore, procedure di recupero coattivo né adottare misure cautelari. Per il contribuente è prevista la sospensione dei versamenti fino al prossimo 31 agosto.