STRESS LAVORO-CORRELATO: lavorare con un superiore troppo controllante

Da quanto emerge da una ricerca dell’università australiana che è stata pubblicata su Plos One, a generare stress nei lavoratori e a farli ammalare non sarebbe tanto la quantità dei carichi di lavoro, ma il fatto di dover eseguire mansioni essendo sottoposti ad un eccessivo controllo da parte dei superiori. Ossia, dover portare avanti una gran quantità di compiti sui quali si è privati della possibilità di esercitare un controllo.

A conferma di ciò, un altro studio australiano capitanato dallo psichiatra Sam Harvey dell’Università del New South Wales – che si occupa di pazienti affetti da depressione – è stato condotto su circa 7000 soggetti di mezza età in stato di buona salute. La ricerca ha evidenziato che coloro che lavoravano in uffici caratterizzati da elevati livelli di stress usufruivano di almeno due settimane o più di congedo malattia all’anno per gestire sintomi come la mancanza di respiro, dolori al torace, nausea e insonnia. Un assenteismo che quindi avrebbe potuto essere facilmente evitato se il luogo di lavoro fosse stato meno stressante e più sano. Sarebbe riduttivo, ovviamente, concludere che chi lavora troppo rischia di ammalarsi o cadere in depressione.

Ma da quello che emerge da questi studi ci sarebbero prove significative per affermare che una combinazione di marcate pressioni dall’alto e di basso controllo sul proprio lavoro possa favorire lo sviluppo di una malattia cardiovascolare e di sintomi psichici legati all’ansia e alla depressione.

E’ dunque fondamentale, da parte del lavoratore, avere la sensazione di poter esercitare un controllo sul proprio lavoro, giorno per giorno. A un livello più ampio, risulta cruciale la sensazione di controllo che si può avere sull’organizzazione globale, sulla possibilità di evidenziare problemi e proporre possibili soluzioni. Come in ogni lavoro che si rispetti, è proprio la parte più creativa a risultare maggiormente gratificante e motivante rispetto a quella meramente esecutiva ed è per questo che risulta importante che ad ogni lavoratore venga consentito un relativo margine di gestione creativa del proprio operato, svincolata dal controllo esterno. Per il bene del lavoratore e dell’azienda stessa.


Legittimo il rifiuto del dipendente comunale di prestare servizio al di fuori dell’orario di lavoro

Vanno annullate le sanzioni disciplinari irrogate al dipendente comunale per il suo rifiuto di prendere parte a riunioni del Consiglio comunale indette in orario serale, dunque fuori dall’orario di lavoro contrattualmente previsto.

E’ quanto afferma la Corte di Cassazione spiegando che a seguito della c.d. privatizzazione del pubblico impiego, salvo ipotesi specifiche (si pensi, ad esempio, ai vigili del fuoco o ai magistrati) ai dipendenti pubblici è estesa la normativa inerente il rapporto di lavoro privato.

Per tale motivo non è possibile costringere il dipendente a prestare ore di straordinario senza il suo consenso, salvo che vi siano accordi espressi tra dipendente e datore di lavoro o si tratti di una situazione di eccezionale gravità e urgenza.

Nel caso di specie il dipendente ha provato che tali riunioni sarebbero avvenute con regolarità in orari serali e, in assenza di specifici accordi con il dirigente preposto all’organizzazione e al funzionamento dell’ufficio comunale, lo stesso dipendente si sarebbe dapprima prestato a tali mansioni per poi successivamente rifiutarsi.

A nulla è valsa la difesa comunale, la quale faceva riferimento a un interesse pubblico superiore all’espletamento delle funzioni, al fine di salvaguardare il buon andamento dell’azione amministrativa: la Suprema corte ha avallato la decisione del giudice di merito confermando l’estensione applicativa dei principi di matrice civilistica, tra cui il generale dovere di correttezza e buona fede – ex artt. 1175 e 1375 cod. civ. – che nel caso di specie non è stato rispettato dalla pubblica amministrazione.

Corte di Cassazione civile, sezione lavoro, Sentenza 04 agosto 2014, n. 17582

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata ili data 8 gennaio 2008, la Corte d’appello di Genova, in riforma della pronuncia di rigetto di primo grado, ha dichiarato illegittima la pretesa del Comune di Z. di ottenere la prestazione lavorativa del dipendente E.L., avente la qualifica di “esecutore amministrativo – messo, durante le riunioni del Consiglio comunale fissate in ore serali e quindi fuori dal normale orario di lavoro, ed ha annullato le sanzioni disciplinari inflitte alla dipendente per non aver partecipato a tali riunioni, condannando altresì il Comune a titolo risarcitorio al pagamento della somma di € 258,22, per spese sostenute dalla dipendente per la difesa in via amministrativa.

La Corte di merito ha osservato che, in mancanza di una disciplina specifica, era applicabile il D. Lgs. n. 66/03, art. 5, comma 3, che richiama testualmente il R.D. n. 692/23, art. 5, secondo cui “in difetto di disciplina collettiva il lavoro straordinario è ammesso soltanto previo accordo tra le parti che nella specie la pretesa del Comune dì ottenere dalla dipendente prestazioni aggiuntive non rientrava tra le obbligazioni contrattualmente assunte dalla medesima, onde il rifiuto da costei opposto non risultava illegittimo; che dì conseguenza erano anche illegittime le sanzioni disciplinari; che infine era fondata la richiesta di risarcimento del danno, costituita dagli esborsi sostenuti dalla dipendente per la difesa tecnica in sede disciplinare, come da documentazione prodotta.

Per la cassazione di questa sentenza ricorre il Comune di Z. sulla base di nove motivi, illustrati da memoria ex art. 378 cod. proc. civ. La dipendente resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2 e 5 D. Lgs. n. 165 del 2001, deduce che i potere di richiedere ai propri dipendenti l’effettuazione di lavoro straordinario rientra fra le facoltà attribuite alla pubblica amministrazione dalle disposizioni anzidette, che si estrinsecano attraverso atti e determinazioni organizzative al fine di assicurare la rispondenza al pubblico interesse dell’azione amministrativa.

2. Con il secondo motivo il ricorrente, nel denunziare violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 3, D. Lgs. n. 66 del 2003, lamenta che la Corte di merito abbia fatto applicazione di tale disposizione, non considerando che essa era inapplicabile ratione temporis, essendo i fatti in questione avvenuti in data anteriore.

3. Con il terzo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 5 bis R.D. n. 692/1923, il ricorrente deduce che, secondo tale disposizione, il ricorso al lavoro straordinario, salvo diversa previsione del contratto collettivo, è possibile, tra l’altro, nei casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori. Nella specie la convocazione del Consiglio comunale nelle ore serali costituiva una eccezionale esigenza, dettata dal consentire ai consiglieri “di dedicarsi durante il giorno allo svolgimento delle proprie attività lavorative”.

4. Con il quarto motivo, denunciando omesse motivazione circa un punto decisivo della controversia, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata, nel rigettare la domanda, non ha valutato se effettivamente sussistesse l’esigenza del Comune di svolgere le sedute del Consiglio comunale nelle ore serali.

5. Con il quinto motivo il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 16 D.P.R. n. 268/97, che ha recepito il relativo accordo collettivo, deduce che la Corte di merito non ha considerato che, secondo la anzidetta disposizione, la prestazione di lavoro straordinario è disposta sulla base delle esigenze di servizio individuate dall’Amministrazione, attribuendo dunque a questa il potere di imporre lo straordinario, anche a prescindere dal consenso del pendente.

6. Con il sesto motivo, denunziando omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, il ricorrente rileva che in passato la lavoratrice aveva assicurato, nelle medesime circostanze, la sua presenza in servizio. Non poteva dunque manifestare, nelle sedute per cui è controversia, la sua indisponibilità in assenza di valide ragioni che giustificassero tale condotta.

7. Con il settimo motivo, denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 414 cod. proc. civ., il ricorrente deduce che la dipendente, con il ricorso introduttivo, aveva chiesto dichiararsi illegittima la richiesta del Comune di avvalersi delle sue prestazioni per le sedute ordinarie del Consiglio comunale. Successivamente, in grado di appello, ha esteso inammissibilmente la domanda anche alle sedute straordinarie.

8. Con l’ottavo motivo, denunziando contraddittoria motivazione, il ricorrente rileva che erroneamente, la sentenza impugnata, in relazione al motivo precedente, ha ritenuto che il riferimento, nel ricorso in appello, alle sedute straordinarie costituisse una puntualizzazione delle precedenti conclusioni. La dipendente era ben in grado, quale impiegata amministrativa, di distinguere le riunioni ordinarie da quelle straordinarie.

9. Con il nono motivo il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 1223 e 1227 cod. civ., 91 cod. proc. civ., lamenta che erroneamente la sentenza impugnata ha riconosciuto il risarcimento dei danni per gli esborsi sostenuti dalla dipendente per la difesa tecnica in sede I disciplinare, essendo tale difesa conseguente ad una libera scelta della dipendente medesima, la quale avrebbe potuto avvalersi dell’assistenza sindacale.

10. I motivi che precedono, ad eccezione del quarto, sesto e ottavo, che denunziano vizi di motivazione, si concludono con il quesito di diritto ex art. 366 bis cod. proc. civ., non più in vigore, ma applicabile ratione temporis.

11. Il primo motivo è inammissibile, atteso che il ricorrente non formula alcuna censura, limitandosi a richiamare disposizioni di legge, delle quali non esplicita le ragioni della loro asserita violazione.

12. I motivi, dal secondo all’ottavo, che per ragioni di connessione vanno esaminati congiuntamente, non sono fondati.

Deve premettersi, ai fini della individuazione della normativa applicabile che, come risulta dagli scritti difensivi delle parti, i fatti per cui è controversia sono anteriori al marzo 2000, onde sono inapplicabili le disposizioni successive a tale data.

Al riguardo, nulla prevedono i decreti legislativi n. 29 del 1983 e n. 80 del 1998, recanti disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche.

Il richiamo fatto dall’art. 2 di entrambi i decreti alle “leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa” ai fini della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, comporta che anche ai dipendenti degli enti locali deve applicarsi, in materia di orario di Lavoro, il R.D. 15 marzo 1923 n. 692, art. 5 bis» nel testo di cui al D.L. 29 settembre 1998 n. 335, convertito, con modificazioni, nella legge 27 novembre 1998 n. 409.

Ed infatti, il D.P.R. n. 268 del 1987, che ha recepito la disciplina prevista dagli accordi sindacali per il triennio 1985- 1987 relativo al personale per il comparto degli enti locali, prevede, al primo comma, che le prestazioni di lavoro straordinario sono rivolte a fronteggiare situazioni di lavoro eccezionali e non possono essere utilizzate come fatto ordinario di programmazione del tempo di lavoro e di copertura dell’orario di lavoro, mentre il secondo comma stabilisce che la prestazione di lavoro straordinario è disposta sulla base delle esigenze individuate dall’amministrazione, rimanendo esclusa ogni forma generalizzata di autorizzazione.

Tali disposizioni, come rilevato dalla Corte di merito, sono rivolte agli amministratori ed appaiono finalizzate a limitare il ricorso al lavoro straordinario ai fini del contenimento della spesa pubblica. In tal senso deve intendersi il richiamo alle “situazioni di lavoro eccezionali” ed alle “esigenze di servizio individuate dall’amministrazione”, in mancanza della previsione di un obbligo, per il dipendente, dello svolgimento di lavoro straordinario

Parimenti alcun obbligo per il dipendente è previsto dal CCNL 1994-1997 per il personale del comparto delle regioni e delle autonomie locali, il quale detta disposizioni in materia di ore settimanali di lavoro e di articolazione dell’orario di lavoro, nonché dal successivo CCNL 1998-2001 dello stesso comparto, il quale si limita a dettare previsioni in ordine alle risorse finanziarie utilizzabili per il lavoro straordinario e per il contenimento dello stesso, fissando il limite annuale massimo di 180 ore.

13. Posto dunque che nella specie trova applicazione l’art. 5-bis del R.D. n. 692 del 1923, nel testo di cui all’art. 1 D.L. n. 335 del 1998, convertito, con modificazioni nella lege n. 409 del 1998 – disposizione questa riprodotta dal D. Lgs. 8 aprile 2003 n. 66, art. 5, emanato in attuazione delle direttive CE, non applicabile ratione temporis – deve osservarsi che il predetto art. 5-bis dispone, al secondo comma, che il ricorso al lavoro straordinario deve essere contenuto e che, “in assenza di disciplina ad opera dei contratti collettivi nazionali”, esso “è ammesso soltanto previo accordo tra datore e prestatore di lavoro”.

Aggiunge al secondo comma, che il ricorso al lavoro straordinario “è inoltre ammesso, salvo diversa previsione del contratto collettivo”, tra l’altro, nei “casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impossibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori.

Deduce il ricorrente che, in base a tali disposizioni la dipendente non avrebbe potuto sottrarsi all’espletamento del lavoro straordinario, essendo dettata la convocazione serale del Consiglio comunale da una “eccezionale esigenza”, dovendo i consiglieri contemperare la funzione da loro esercitata con le esigenze di lavoro.

Senonché, a prescindere che l’art. 5-bis sopra citato fa riferimento alle “imprese industriali (primo comma) e ai “casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive e di impassibilità di fronteggiarle attraverso l’assunzione di altri lavoratori (terzo comma, lettera a)), tale disposizione non esclude la prestazione del consenso da parte del lavoratore, disponendo che il ricorso al lavoro straordinario è ammesso “soltanto” previo accordo tra datore e prestatore di lavoro ed “inoltre” in casi di eccezionali esigenze tecnico-produttive. L’uso di tale ultimo avverbio, in luogo della locuzione “in ogni caso”, evidenzia che, oltre all’imprescindibile consenso del prestatore di lavoro, occorre anche la sussistenza delle esigenze anzidette, peraltro non fronteggiabili attraverso l’assunzione di altri lavoratori.

Deve aggiungersi che, anche a voler interpretare la disposizione in esame nel senso prospettato dal ricoprente, nella specie la Corte di merito ha accertato, con valutazioni non sindacabili in questa sede, che le convocazioni in orario serale erano divenute la regola e non erano quindi dettate da esigenze straordinarie ed occasionali. Il rifiuto della dipendente, il cui orario di servizio era dalle ore 7,30 alle 13,30 e che nelle precedenti occasioni aveva assicurato la sua presenta durante le sedute del Consiglio comunale non risultava pertanto illegittimo.

Al riguardo questa Corte ha affermato che, anche nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva prevede la facoltà, per il datore di lavoro, di richiedere prestazioni straordinarie – non è il caso in esame -, l’esercizio di tale facoltà deve essere esercitato secondo le regole di correttezza e di buona fede, poste dagli arti. 1175 e 1375 cod. civ., nel contenuto determinato dall’art. 41, secondo comma, Cost. (cfr. Cass. 5 agosto 2003 n. 11821; Cass. 7 aprile 1982 n. 2161 nonché Cass. 19 febbraio 1992 n. 2073, la quale ha escluso la configurabilità dell’illecito disciplinare in relazione al rifiuto da parte del lavoratore di riprendere servizio dopo circa otto ore dalla fine del turno notturno per svolgere lavoro straordinario, non essendo la relativa richiesta giustificata da esigenze aziendali assolutamente prevalenti).

Alla stregua di tutto quanto precede ed in applicazione, anche, dei principi generali in materia di obbligazioni contrattuali, ed in particolare dell’alt. 1374 cod. civ., secondo cui il contratto obbliga le parti all’esecuzione di quanto è espresso nel medesimo, oltre che alle conseguenze che ne derivano secondo la legge o, in mancanza, secondo gli usi e l’equità, i motivi in esame devono essere rigettati, dovendosi escludere che il datore di lavoro potesse imporre alla dipendente lo svolgimento del lavoro straordinario.

13. La statuizione che precede assorbe la censura relativa alla modifica delle conclusioni di primo grado., nelle quali La lavoratrice aveva fatto riferimento alle sole riunioni “ordinarie”.

Peraltro, anche tale censura è priva di fondamento, in quanto, da un lato, la Corte di merita – alla quale spetta la interpretazione della domanda – ha ritenuto che il richiamo alle riunioni “ordinarie” dovesse intendersi riferito alla convocazione “in via normale” delle riunioni in orario serale; dall’altro perché il ricorrente non ha chiarito quali fossero, ai fini che qui rilevano, le differenze tra riunioni ordinarie e straordinarie, una volta che entrambe avvenivano nelle ore serali e che solo per tale motivo la dipendente non ha assicurato la presenza.

14. Infondato è, infine, l’ultimo motivo, avendo La dipendente, come risulta dalla sentenza impugnata, documentato gli esborsi sostenuti per la difesa tecnica, esborsi che, in quanto dipendenti dalla illegittima applicazione delle sanzioni disciplinari, la Corte di merito ha correttamente ritenuto che dovessero essere posti a carico dell’odierno ricorrente, a titolo risarcitorio.

15. Il diverso esito dei giudizi di merito e l’obiettiva difficoltà delle questioni trattate giustifica la compensazione delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e compensa le spese tra le parti.


SINDACALI ON-LINE: nuovi orizzonti con la tecnologia digitale

Le nuove frontiere dei diritti sindacali on line: comunicazioni sindacali, teleassemblea, referendum on line, bacheca sindacale digitale.

1. Premessa

La realizzazione delle libertà costituzionali trova nello sviluppo inesorabile delle tecnologie informatiche nuove modalità esplicative. L’evoluzione digitale comporta naturalmente l’affacciarsi di effetti espansivi dei diritti fondamentali, ma contemporaneamente patologie e diversioni. Questo vale in particolare modo nel campo dei diritti dei lavoratori ove l’evoluzione tecnologica si raffronta, da una parte, ad una consistente produzione normativa indirizzata alla flessibilità e modernizzazione dei rapporti di lavoro, dall’altra alla convivenza con normative basiche ultraquarantennali i cui istituti vanno riportati alle condizioni attuali di progresso informatico. A tutto questo si aggiunge il dato giurisprudenziale che rappresenta la cartina di tornasole del raffronto tra tali Diritti e le Nuove Tecnologie, oltre che il moto primario d’impulso per la realizzazione di nuove previsioni normative, regolamentari e contrattuali. La tematica della tutela della riservatezza e del suo confronto con i poteri di indirizzo e controllo datoriali costituisce per certo un asse primario cui sottende il contenzioso del lavoro a livello di giurisdizione ordinaria e di attività del Garante. Da questi elementi, si può giungere ad una prima definizione di “diritto sindacale elettronico”, di un diritto sindacale e dell’esplicitarsi dei suoi principali istituti che si realizza in via elettronica delle varie fattispecie: ciò attraverso la revisione degli istituti tradizionali, l’analisi della naturale intrusività e pervasività dello strumento informatico, le possibilità evolutive dal lato della regolamentazione e della contrattazione, la panoramica di buone pratiche già sperimentate a livello normativo ed organizzativo. Le attuali dinamiche esplicative di una garanzia prevista nello Statuto dei Lavoratori (SdL) come quella del divieto del controllo a distanza, trova connotati impensabili per il legislatore del ’70, tali da richiedere interpretazioni estensive della norma che tengano conto del livello della tecnologia, della normativa sovrappostasi negli anni e delle tendenze spesso divergenti manifestatesi in autorità giurisdizionali e non. Ed allora in primo luogo la normativa sulla tutela della riservatezza e la sua evoluzione nel corso della sua vigenza quasi ventennale, dalla legge 675/1996 al dlgs.196/2003, si pone a stretto confronto con le vicende del potere di controllo datoriale sul lavoratore in ordine alle prestazioni ed alla fedeltà. Dal lato del diritto sindacale tali dinamiche si traducono nei limiti apponibili all’attività quanto alle comunicazioni, alle adesioni ed al proselitismo, alla navigazione ai fini informativi e conoscitivi. Limiti che vengono a cozzare direttamente con l’art.14 dello SdL il quale stabilisce che l’attività sindacale può essere svolta anche all’interno dei luoghi di lavoro, che la libertà di fruire del diritto di svolgere attività sindacale è riconosciuta a tutti i lavoratori e che conseguenzialmente il datore di lavoro non può limitare l’esercizio delle libertà sindacali all’interno dell’azienda opponendo il proprio diritto di proprietà o altri diritti relativi alla disponibilità dei beni aziendali.

2. Comunicazioni sindacali

Per esse si intendono sia le comunicazioni generali della sigla ai lavoratori, sono i veri e propri “comunicati” rivolti a tutti i lavoratori oppure agli iscritti, sia le comunicazioni particolari tra sigla e lavoratore o gruppi di lavoratori. Per le prime assume un ruolo centrale la bacheca sindacale on-line alla cui argomentazione si rinvia, ma per esse e per le comunicazioni particolari si vuole analizzare il ruolo e l’utilizzo della posta elettronica aziendale, oggetto di numerose controversie giudiziarie. In primo luogo ci si chiede se il rappresentante sindacale possa utilizzare la casella di posta elettronica aziendale per le comunicazioni ai lavoratori. Il dipendente rappresentante sindacale può inviare, utilizzando il suo indirizzo personale di posta elettronica, comunicazioni sindacali a mezzo di e-mail ai dipendenti della società durante il loro orario di lavoro e al loro indirizzo aziendale di posta elettronica: deve ritenersi che l’attività di invio o di ricezione di comunicazioni sindacali attraverso la posta elettronica possa equipararsi all’attività di volantinaggio, che rientra nell’ambito della libertà sindacale concessa a qualunque organizzazione presente in azienda – non vedendosi in cosa consista la differenza tra la materiale consegna ai dipendenti di volantini stampati sul luogo di lavoro e l’invio agli stessi, anche sulla loro posta elettronica aziendale, di una e-mail avente identico contenuto – attività di volantinaggio che, come noto, è di per sé lecita in quanto non arrechi pregiudizio alla normale attività aziendale. L’e-mail quindi non é altro che la traduzione in formato digitale dell’ormai desueto “volantino”.

Nulla da eccepire poi, in ordine all’utilizzo della posta elettronica tra rappresentante sindacale e datore di lavoro: le comunicazioni tra le parti possono avvenire per posta elettronica e costituisce condotta antisindacale -ex art.28 dello SdL – l’inflizione di sanzioni al lavoratore che rappresenta via e-mail vicende a rilevanza sindacale all’azienda durante l’orario di lavoro (Cass. lav. sentenza n.1568 del 27.04.2012). Quanto alla possibilità di comunicazione tra lavoratori e rappresentanze sindacali a livello particolare, come ad esempio segnalazioni, reclami per finalità di sensibilizzazione o di denuncia, messa a conoscenza di atti documenti e comportamenti antisindacali, le fattispecie concrete che si realizzano risultano molto più problematiche per gli interessi che vi si contrappongono: tutela sindacale dei diritti del lavoratore e, contemporaneamente, dal lato datoriale, ottemperanza agli obblighi di fedeltà e lealtà del lavoratore e tenuta del rapporto fiduciario con l’azienda. In tal caso l’utilizzo di posta elettronica aziendale stride fortemente con le finalità di denuncia dei contenuti e pone il lavoratore sicuramente di fronte a maggiori rischi

3. Tele-assemblea

Il diritto di assemblea si colloca nell’ambito dello Statuto dei Lavoratori come diritto di convocare l’assemblea e come diritto del lavoratore di parteciparvi con la previsione, modificabile in estensione dai contratti collettivi, di 12 ore annue. Il diritto si sostanzia nella messa a disposizione da parte del datore di lavoro di idonei locali per le riunioni e nella necessità che tale disponibilità sia richiesta dai soggetti sindacali: nella predetta richiesta devono essere individuati la sede, l’orario, l’ordine del giorno e l’eventuale partecipazione di dirigenti sindacali esterni. Alla congruità della richiesta sotto il profilo temporale e logistico sussegue la necessaria giustificazione di un eventuale rifiuto della parte datoriale

L’insistenza degli aspetti digitali per quanto riguarda tale diritto investe da un lato le comunicazioni, dall’altro l’effettuazione dell’assemblea come tale. Innanzitutto le comunicazioni scritte: l’e-mail può senz’altro sostituire il documento cartaceo. Sorge però il dubbio se il crisma dell’ufficialità debba essere reso, dal lato del richiedente, attraverso una mail certificata con l’applicazione della firma digitale nell’atto sindacale e, altrettanto dal lato dell’azienda o dell’amministrazione, con il pervenimento ad una casella di posta elettronica certificata: questo ai fini della certezza della provenienza dell’e-mail e del tempo di trasmissione. Ferma restando la sovrapponibilità perfetta di tale modello alle previsioni normative di cui agli artt.21-24-48 del dlgs. 82/2005, che sanciscono la validità formale e la piena opponibilità a terzi delle comunicazioni, è necessario riflettere sulla validità del mezzo della posta elettronica ordinaria che vieppiù viene utilizzata in questa fase all’interno dell’ente anche per i molteplici destinatari della comunicazione che rendono problematica una trasmissione in via cartacea (direttore generale, dirigente al personale, dirigenti dei vari settori o servizi, responsabili della logistica e della sicurezza e ovviamente i lavoratori). Se la richiesta proviene dall’indirizzo di posta elettronica ordinaria del dipendente-rappresentante sindacale vi è certezza circa la provenienza, nell’ipotesi che questo sia stato attribuito personalmente con indicazione del nominativo e accesso riservato con password, ma non vi è certezza rispetto al tempo di trasmissione e al pervenimento della mail. In altri termini in caso di mancata risposta, la parte datoriale potrebbe opporre sempre il mancato pervenimento della mail medesima poiché non è dimostrabile giuridicamente il contrario. Ancora più incerto appare il caso della trasmissione dall’indirizzo di posta elettronica dell’organizzazione sindacale poiché in questo caso anche l’identificazione del mittente non rende certezza analogamente a quanto avviene per il mittente interno a meno che l’organizzazione Sindacale non disponga di indirizzi PEC. In ogni caso la dimostrata omissione della parte datoriale costituisce condotta antisindacale. Nella pratica la soluzione per parte delle sigle è quella di affidare, quando si agisce attraverso un rappresentante interno, il documento in cartaceo direttamente al protocollo informatico affinché, attraverso la protocollazione medesima e l’acquisizione ottica, si possa avere certezza di ricezione e consequenzialmente di circolazione ufficiale verso i vari destinatari interni in via digitale.

Altra soluzione, sicuramente meno “artigianale” di quella testé analizzata è quella dell’utilizzo della bacheca sindacale elettronica come modalità comunicativa basica tra rappresentanze dei lavoratori e parte datoriale. Tutto ciò dal lato della certezza giuridica delle comunicazioni in generale, dal verso delle previsioni contrattuali sono necessarie norme che recepiscano l’utilizzo dello strumento informatico-telematico come mezzo primario per le comunicazioni medesime. Veniamo ora all’effettuazione dell’assemblea: i sistemi di videoconferenza costituiscono realtà consolidata a livello aziendale da più di venti anni. Lo sviluppo di Internet e di applicativi per riunioni virtuali ha esteso macroscopicamente l’utilizzo di tali strumenti con notevoli risparmi di costi e di tempi. Oggi sono disponibili oltre che prodotti a pagamento anche applicativi gratuiti che permettono la realizzazione di riunioni on line con molteplicità di partecipanti: sotto questo punto di vista v’è da citare l’esempio di Skype che si presta a riunioni in videoconferenza, Google Hangouts, suite di applicazioni di produttività che consentono di condividere lo schermo, collaborare in Google Documenti e guardare insieme presentazioni e grafici, Open Meetings che permette di creare un proprio profilo utente, e partecipare sia alle stanze pubbliche, sia creare una stanza privata cui invitare esclusivamente i contatti che si desidera (tramite e-mail) oppure farsi invitare a autentiche sale riunioni, il programma si interfaccia con la propria webcam e/o microfono.

I profili di utilità ed i limiti di tali tecnologie si intrecciano con le vicende giuridiche che ne possono inerire. Innanzitutto vanno evidenziati innegabili limiti interattivi derivanti dalla natura e complessità delle relazioni sindacali e delle dinamiche tra rappresentanti e rappresentati, tali da non rendere tali mezzi assolutamente sostitutivi delle assemblee de visu, ma sicuramente ausilio alternativo, finalizzato all’estensione massima della partecipatività, soprattutto in realtà aziendali o amministrative frammentate e territoriali. Dal lato giuridico vi è da analizzare il profilo autorizzatorio da parte del soggetto datore di lavoro: la messa a disposizione di idonei locali viene sostituita in tali termini nella possibilità di utilizzo di “suite” telematiche.

L’utilizzo di tali programmi di condivisione per assemblee sindacali in rete dovrebbe essere in ogni caso realizzabile. Ciò, naturalmente entro i termini temporali dell’assemblea stessa: d’altra parte avverrebbe con le stesse modalità con le quali tali strumenti, come si è detto prima perlopiù gratuiti, vengono utilizzati per riunioni di lavoro vere e proprie. Sull’utilizzo di applicativi di teleconferenza con licenza proprietaria dell’azienda, e quindi poiché tecnologicamente più avanzati sicuramente più fruibili, sorgono maggiori dubbi: perché l’azienda dovrebbe mettere a disposizione delle rappresentanze uno strumento di lavoro sul quale ha investito risorse economiche proprie? Ma allora perché l’azienda dovrebbe mettere a disposizione locali idonei al suo interno per le assemblee, quando i locali sono stati realizzati anch’essi con risorse economiche proprie per finalità lavorative? Seguendo il filo del ragionamento i locali e le suites telematiche rappresentano sotto forma diversa la stessa cosa ed un utilizzo limitato nel tempo, giustificato dai diritti del lavoratore e non di ostacolo rispetto al primario utilizzo lavorativo (il sistema non è un bene “consumabile”) risulta plausibile. L’ultimo aspetto di opposizione dal lato datoriale è quello dei costi della connessione. Limitati, se si pensa ai costi oggi bassissimi di accesso in rete e non raffrontabili rispetto ai costi di gestione di locali per assemblee. Molto interessante è poi dal lato della tutela del lavoratore quello della riservatezza e non accessibilità da parte del datore di lavoro di queste “teleassemblee”: si estendono per tale ipotesi le fattispecie di tutela della riservatezza ed il divieto generale dei controlli a distanza previsti quanto alle comunicazioni sindacali ed alle mail aziendali. Va detto in conclusione che l’assemblea sindacale on-line non è una chimera irrealizzabile ma, già attuabile con i mezzi a disposizione, può conoscere un’estensione progressiva con gli sviluppi esponenziali della telematica. Sotto tale punto di vista, come è avvenuto ed avviene in tutti i settori dall’impresa al commercio, dalla società civile alla pubblica amministrazione, dovrà essere il diritto a inseguire, con ormai usuale ritardo, lo sviluppo telematico.


CTR Lazio: serve l’intermediario all’agente della riscossione

La Commissione tributaria regionale del Lazio (sezione di Latina) è intervenuta sulla dibattuta questione delle notifiche delle cartelle esattoriali a mezzo posta, con invio diretto da parte dell’agente della riscossione, senza intermediazione di un soggetto abilitato. Nella recente sentenza n. 3711/39/14, il collegio pontino ha annullato delle cartelle di pagamento, rilevando l’inesistenza della notificazione. Gli atti erano stati spediti per mezzo del servizio postale, direttamente dall’esattore, senza l’intervento di un ufficiale giudiziario o di un messo notificatore.

Al di là delle conclusioni raggiunte dal giudice laziale, già lette in altre pronunce tributarie, la sentenza in commento è interessante soprattutto per il percorso argomentativo che conduce al decisum. Innanzitutto, la Ctr passa in rassegna gli orientamenti prevalenti sull’argomento, precisando che mai la Cassazione si è espressa, sinora, in via principale, sulla specifico aspetto delle doglianza che concerne la legittimazione dell’agente della riscossione a ricorrere direttamente al mezzo postale. «In realtà», si legge nella motivazione, «le pronunce della Cassazione hanno riguardato sempre altri profili delle notifiche a mezzo posta e mai direttamente la questione della legittimazione dell’agente della riscossione per la notifica diretta».

La decisione di annullamento delle cartelle, poi, appare supportata dall’interpretazione letterale, sistematica e storica delle norme che regolano la materia. In particolare, «tale interpretazione trova conforto in due considerazioni: da un lato, l’esame storico della disposizione di cui all’articolo 26 del dpr 602/1973 e, dall’altro, l’interpretazione letterale e logica dell’articolo 14 della legge 20 novembre 1982, n. 890».

Per quanto concerne l’articolo 26, la Commissione si riferisce al fatto che una prima versione della norma riportava testualmente che «la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento»; nelle versioni successive, invece, è stata eliminata la locuzione «da parte dell’esattore», da cui «può trarsi un forte e convincente argomento letterale per affermare che il legislatore abbia inteso limitare la notifica a mezzo posta solo ai soggetti abilitati alla notificazione, con esclusione della possibilità che la notifica sia effettuata direttamente dall’Agente della riscossione».

Quanto, invece, all’articolo 14 della legge n. 890/1982, «può rilevarsi come la sua formulazione confermi la volontà del legislatore di riservare la possibilità di notifica diretta solo agli uffici che esercitano la potestà impositiva e non ai soggetti che sono preposti alla mera riscossione». Ciò premesso, la Ctr ritiene di dover «escludere che gli agenti della riscossione possano notificare direttamente i propri atti mediante raccomandata, facoltà attribuita solo agli organi preposti, per legge o per convenzione, alle operazioni di notificazione (ufficiale giudiziario, messo comunale, agente della polizia municipale, messo notificatore)».


Cassazione Penale: nessuna efficacia alla PEC nel processo penale

 La Corte di Cassazione ha stabilito che, allo stato attuale e in assenza di una regolamentazione normativa, il sistema di trasmissione degli atti attraverso posta elettronica certificata (PEC) non può essere utilizzato nel processo penale. Unico sistema rimane il deposito degli atti nella cancelleria del Tribunale.

Diversamente da quanto avviene nel processo civile, in quello penale la comunicazione e la notificazione degli atti dagli uffici giudiziari agli avvocati e agli ausiliari del giudice non può avvenire con l’utilizzo di strumenti telematici o mediante indirizzo di posta elettronica, seppur certificata.

Nel caso di specie, il difensore della parte imputata in un processo penale aveva rivolto istanza di rinvio per legittimo impedimento a comparire all’udienza fissata per la trattazione del processo d’appello, inviando una e-mail con indirizzo di posta privato alla cancelleria della Corte d’appello. Aveva, inoltre, depositato l’atto presso la cancelleria del tribunale il giorno prima della data di tale udienza.

I giudici della Corte non avevano valutato l’istanza di rinvio del difensore, pronunciando, secondo il ricorrente, una sentenza viziata da nullità assoluta. Avverso tale decisione, la parte ha proposto ricorso in Cassazione.

I giudici di legittimità hanno accolto il ricorso, affermando un importante principio di diritto processuale. Innanzitutto, i giudici hanno ritenuto inammissibile l’istanza di rinvio dell’udienza trasmessa a mezzo di posta elettronica, a fortiori se si considera che il difensore della parte aveva utilizzato un indirizzo di posta elettronica privato, dunque non certificato e, di conseguenza, non riconosciuto dalla legge.

Ciò nonostante il legale aveva comunque depositato l’atto presso la cancelleria del tribunale, rendendo conoscibile lo stesso attraverso le modalità previste dalla legge. Il comportamento dei giudici di merito, che non avevano considerato tale istanza di rinvio dell’udienza, era da censurare per il fatto di non aver preso in considerazione non la comunicazione a mezzo di posta elettronica, ma quella effettuata tramite il deposito.

Ciò vizia la sentenza di nullità, ragione per cui la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata, rinviando gli atti alla Corte territoriale, in diversa composizione, per un riesame nel merito.

Secondo quanto osservato dai giudici della Cassazione, il legislatore ha espressamente previsto forme alternative di comunicazione solo nel processo civile: l’articolo 366, comma 2, del codice di procedura civile (modificato dalla legge 12 novembre 2011, n. 183) ha introdotto espressamente la PEC quale strumento utile per le notifiche degli avvocati autorizzati. Inoltre, la legge 17 dicembre 2012, n. 221 (c.d. Decreto crescitalia 2.0) prevede all’articolo 16, comma 4, che:

“Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma dell’art. 148 c.p.p., comma 2 bis, artt. 149 e 150 c.p.p. e art. 151 c.p.p., comma 2. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria”.

Ne consegue, pertanto, che per la parte privata, nel processo penale, l’uso di tale mezzo informatico di trasmissione non è – allo stato – consentito quale forma di comunicazione e/o notificazione.

Corte di Cassazione – Sezione Terza Penale, Sentenza 13 febbraio 2014, n. 7058

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SQUASSONI Claudia – Presidente –

Dott. GENTILE Mario – Consigliere –

Dott. ACETO Aldo – Consigliere –

Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –

Dott. SCARCELLA Alessio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

V.C., n. (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’Appello di CATANIA in data 21/05/2013;

visti gli atti, il provvedimento denunziato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Alessio Scarcella;

udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Salzano Francesco, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza della Corte d’Appello di Catania, pronunciata in data 31/05/2013, depositata in data 28/05/2013, confermativa della sentenza del tribunale di Siracusa, sez. Dist. AUGUSTA, V. C. veniva dichiarato colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 44, lett. c), (per aver realizzato, in assenza di permesso di costruire, un immobile di 45 mq. circa, in area insistente a distanza inferiore a 150 mt. dalla battigia) nonchè per altre violazioni della materia edilizia, e condannato alla pena condizionalmente sospesa (subordinata alla demolizione ed al ripristino dello stato dei luoghi) di sei mesi di reclusione ed Euro 60.000,00 di multa, oltre al pagamento delle spese processuali ed alla sanzione amministrativa accessoria della demolizione del manufatto abusivo entro 90 gg. dall’esecutività della sentenza, previo dissequestro e restituzione dell’immobile all’avente diritto, con rimessione in pristino stato dei luoghi a sue spese.

2. Con tempestivo ricorso, proposto dal difensore fiduciario, viene dedotto un unico motivo di ricorso, di seguito enunciato nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Deduce, con tale motivo, la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e), sub specie di inosservanza delle norme stabilite a pena di nullità con riferimento all’art. 178 c.p.p., lett. c), e art. 179 c.p.p., comma 1; omessa valutazione dell’istanza di rinvio per impedimento del difensore; difetto di assistenza dell’imputato.

Rileva il ricorrente che, con comunicazione via mail in data 15/05/2013, ore 18,29 rivolta alla cancelleria della Corte d’Appello di Catania, il difensore aveva rivolto istanza di rinvio per legittimo impedimento a comparire all’udienza del 21/05/2013, fissata per la trattazione del processo d’appello, in quanto impegnato presso il GUP di Varese quale difensore di parte civile in processo fissato per la discussione; l’istanza venne reiterata nuovamente per e-mail al medesimo indirizzo di posta elettronica fornito dalla cancelleria della Corte d’appello che tramite deposito dell’atto eseguito presso la cancelleria in data 20/05/2013, giorno antecedente l’udienza.

Si duole il ricorrente per non aver la Corte territoriale valutato l’istanza di rinvio depositata al fascicolo processuale, così viziando la sentenza emessa il 21 maggio 2013 per nullità assoluta;

l’istanza, deduce il ricorrente, venne partecipata sei giorni prima sia mediante mezzi tecnici nelle forme di cui all’art. 150 c.p.p., ma anche depositata in cancelleria il giorno precedente l’udienza, con conseguente violazione del diritto all’assistenza dell’imputato che rende nulla la sentenza.

Motivi della decisione

3. Il ricorso è fondato nei limiti di cui si dirà oltre.

4. Deve, anzitutto, ritenersi priva di fondamento la censura relativa alla dedotta nullità legata alla trasmissione a mezzo comunicazione e-mail dell’istanza di rinvio, che il ricorrente documenta essere stata inviata in data 15 maggio 2013 all’indirizzo di posta elettronica della cancelleria della Corte d’appello di Catania. Sul punto, infatti, è stato più volte affermato da questa Corte – ed il Collegio non rileva alcun motivo per discostarsi dal principio, che condivide – che è inammissibile l’istanza di rinvio dell’udienza per concomitante impegno del difensore trasmessa via telefax, poiché l’art. 121 c.p.p. stabilisce l’obbligo per le parti di presentare le memorie e le richieste rivolte al giudice mediante deposito in cancelleria, mentre il ricorso al telefax è riservato ai funzionari di cancelleria ai sensi dell’art. 150 c.p.p. (v., da ultimo: Sez. 6, n. 28244 del 30/01/2013 – dep. 28/06/2013, Bagheri, Rv. 256894).

Tale principio, espresso a proposito dell’uso del telefax, peraltro, trova applicazione per tutte quelle “Forme particolari di notificazione disposte dal giudice”, cui si riferisce l’art. 150 c.p.p., ossia “mediante l’impiego di mezzi tecnici che garantiscano la conoscenza dell’atto” e, dunque, anche in quei casi – come quello oggetto di esame da parte di questa Corte – in cui la comunicazione sia stata eseguita a mezzo posta elettronica. Del resto, si aggiunge, la comunicazione venne eseguita mediante l’indirizzo mail “privato” di posta elettronica del difensore e non a mezzo di posta elettronica certificata, modalità non riconosciuta dalla legge. Per completezza, peraltro, occorre comunque chiarire che, a differenza di quanto previsto per il processo civile, nel processo penale tale forma di trasmissione, per le parti private, non sarebbe stata comunque idonea per comunicare l’impedimento. Ed invero, nel processo civile l’art. 366 c.p.c., comma 2, (cosi come previsto dalla L. 12 novembre 2011, n. 183, che ha modificato la L. n. 53 del 1994), ha introdotto espressamente la PEC quale strumento utile per le notifiche degli avvocati autorizzati. Già il D.M. n. 44 del 2011 aveva disciplinato con maggiore attenzione l’invio delle comunicazioni e delle notifiche in via telematica dagli uffici giudiziari agli avvocati e agli ausiliari del giudice nel processo civile, in attuazione della L. 6 agosto 2008, n. 133, art. 51. In tale contesto assume rilevanza la disposizione di cui all’art. 4 che prevede l’adozione di un servizio di posta elettronica certificata da parte del Ministero della Giustizia in quanto ai sensi di quanto disposto dalla L. n. 24 del 2010 nel processo civile e nel processo penale, tutte le comunicazioni e notificazioni per via telematica devono effettuarsi, mediante posta elettronica certificata.

Quest’ultima disposizione è stata rinnovata anche dal d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (“Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”, in GU n.245 del 19-10-2012 – Suppl. Ordinario n. 194), entrato in vigore il 20/10/2012 e convertito con modificazioni dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 (c.d. Decreto crescitalia 2.0) dove all’art. 16 viene sancito, al comma 4, che “Nei procedimenti civili le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all’indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. Allo stesso modo si procede per le notificazioni a persona diversa dall’imputato a norma dell’art. 148 c.p.p., comma 2 bis, artt. 149 e 150 c.p.p. e art. 151 c.p.p., comma 2. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria”. Ne consegue, pertanto, che per la parte privata, nel processo penale, l’uso di tale mezzo informatico di trasmissione non è – allo stato – consentito quale forma di comunicazione e/o notificazione.

5. E’, invece, fondata la censura difensiva per aver omesso la Corte d’appello di valutare l’istanza di rinvio che il difensore, dopo aver inoltrato per posta elettronica, aveva provveduto a depositare in cancelleria il giorno prima dell’udienza, come risulta dall’esame del fascicolo processuale che questa Corte ha esaminato, essendo giudice del fatto attesa la natura processuale dell’eccezione. Ed invero, pur risultando depositata l’istanza di rinvio il giorno precedente l’udienza, non risulta dalla motivazione della sentenza impugnata nè dal verbale dell’udienza svoltasi il 21 maggio 2013, che il collegio ebbe a valutarla. A prescindere, dunque, dalla fondatezza o meno dell’istanza, la omissione tout court della delibazione dell’istanza di rinvio, integra una nullità assoluta per violazione del diritto all’assistenza e rappresentanza dell’imputato. Come più volte affermato da questa Corte, infatti, in tema di legittimo impedimento a comparire del difensore, l’omessa valutazione dell’istanza di rinvio dell’udienza determina il difetto di assistenza dell’imputato, con la conseguente nullità assoluta di cui all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 179 c.p.p., comma 1, (principio affermato in relazione ad una fattispecie, analoga a quella in esame, in cui il processo era stato celebrato senza l’effettiva partecipazione del difensore di fiducia o di un sostituto da lui nominato: Sez. 6, n. 42110 del 14/10/2009 – dep. 02/11/2009, Gaudio, Rv. 245127).

6. L’impugnata sentenza dev’essere, pertanto, annullata con rinvio alla Corte d’appello di Catania, altra sezione, per nuovo giudizio.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Catania.

Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 13 febbraio 2014


La PA deve rimborsare le spese legali ai propri dipendenti cui non era attribuibile alcuna colpa.

La PA è tenuta a rifondere le spese di lite ai propri dirigenti e dipendenti per le azioni (civili, penali ed amministrative) promosse contro di loro, dovute allo assolvimento degli obblighi istituzionali o delle loro mansioni, quando è stata esclusa la loro responsabilità o sono stati assolti. La giurisdizione sui rimborsi è del giudice ordinario.

È quanto ribadito dai TT.AA.RR. Abruzzo-Pescara, sez. I, n. 210 e Calabria-Catanzaro, sez. II, n. 730, depositate rispettivamente il 5 ed il 15 maggio 2014 (v. CGA, sez. giurisdizionale del 18/6/14).

I casi. Entrambi si fondano sull’assoluzione con formula piena di un militare, che aveva attestato falsamente la sua presenza in servizio in giorni c.d. superfestivi (Natale e Pasqua) per ottenerne la speciale indennità e quella dell’ex Presidente della provincia di Vibo Valentia nel “procedimento penale per il reato previsto e punito dagli artt. 110 e 323 c.p., per aver attribuito indebiti vantaggi patrimoniali ad alcuni dipendenti in violazione degli artt. 65 e 66 d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nonché in violazione dei principi di buona amministrazione”. Le sentenze analizzano i presupposti per ottenere questa refusione e per la corretta individuazione del giudice competente in materia.

Quadro normativo. Ai sensi dell’articolo 18 del d.l. n. 67 del 1997, “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale e amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza o provvedimento che escluda la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato”. Inoltre la L.265/99 ha imposto alle PA di stipulare apposite “polizze assicurative volte a garantire la responsabilità degli amministratori pubblici”.

Quale giudice: G.A. o G.O.? La risposta è data dalle SS.UU della cassazione (Cass. civ. SS.UU. 9160/08) in cui ha “escluso ogni rilievo delle norme concernenti la giurisdizione sul rapporto di lavoro pubblico” distinguendo tra la figura del funzionario onorario e quello “che ricevuto un’investitura politico-elettorale”. Nel primo caso, dato il vuoto normativo e che il compenso è stabilito dallo stesso ente, si tratta di un interesse legittimo, sì che rientra nella giurisdizione esclusiva del G.A.; nell’altro la loro “posizione, anche economica, è di solito direttamente regolata dalla legge, con la conseguenza che le relative posizioni soggettive assumono la consistenza di diritti, e la giurisdizione è del giudice ordinario a meno che la legge stessa non attribuisca funzioni discrezionali all’amministrazione”. In realtà la Cass. SS.UU. civ. 478/06 ha chiarito che ai sensi dell’art. 1720 cc, applicato per analogia all’art. 12 dip. att. cc, questo giudice è competente anche per le cariche onorarie (in quel caso :assessore e vicesindaco), perché l’assenza di norme che regolino i rapporti patrimoniali con la PA, connotano il rimborso quale diritto soggettivo perfetto. Lo stesso vale per gli eventuali obblighi assicurativi. Infatti non s’instaura un rapporto di lavoro subordinato tra l’ente ed il funzionario. È quanto sancito dalla seconda sentenza annotata.
Presupposti per ottenerlo. Sono analizzati nella prima pronuncia. “La ratio della disposizione è quella di tenere indenne il dipendente pubblico dai danni dal medesimo subiti a cagione dell’espletamento dei propri compiti, richiamandosi a tal fine anche una certa analogia con le norme stabilite dal codice civile per regolare il rapporto di mandato; e quindi con l’unico limite che non sussista, in atto, alcun conflitto di interesse tra le posizioni processuali delle parti” (CDS 6113/09). Nella fattispecie non c’era alcun conflitto d’interessi e la lite era riconducibile all’espletamento del servizio. Riconducibilità alle mansioni svolte ed/od agli obblighi istituzionali derivanti. È ravvisabile ogni volta che “che il dipendente (od il funzionario) non avrebbe assolto ai suoi compiti se non compiendo quel fatto o quell’atto”. Nel nostro caso dai registri è emerse le attività svolte al posto della fruizione del riposo, sì che è stato confermato questo presupposto.

La PA non può rifiutare le refusione. È un obbligo di legge se ricorrono i vincoli sopra descritti, perciò la PA non può negare il rimborso “sulla base di una generica rimproverabilità della condotta del dipendente medesimo, peraltro non affatto contestata neanche in sede disciplinare”.

Spese di questi giudizi. Nel primo caso, stante il difetto di giurisdizione, sono state compensate; nell’altro la PA è stata dichiarata soccombente, anche se non è chiaro il motivo di una loro parziale compensazione.

Ai sensi dell’art. 18 del D.L. n. 67/1997, conv. nella legge n. 135/1997, al dipendente uscito definitivamente assolto da un giudizio di responsabilità anche penale, per fatti commessi nell’esercizio dei propri compiti di servizio o istituzionali, il rimborso delle spese legali riconosciuto è quello “ nei limiti segnati” dall’Avvocatura dello Stato.

L’aspettativa di rimborso che lo stesso dipendente può nutrire verso tale rimborso è solo e soltanto quello così determinato, e non può mai corrispondere sic et simpliciter al ristoro della somma convenuta ed effettivamente corrisposta ai professionisti legali scelti per la sua difesa. Con la conseguenza che, fino a quando l’Avvocatura dello Stato non esprime il proprio giudizio di congruità sull’entità del rimborso preteso, l’Amministrazione non solo non può ma non deve corrispondere alcunché di quanto preteso: salvo il caso degli anticipi – e sempre previo parere dell’Avvocatura dello Stato – dalla disposizione contenuta nell’ultima parte della norma cit., che riafferma il principio generale del divieto di rimborso non verificato dalla medesima Avvocatura.

Ai sensi dell’art 18 del D.L. n. 67/1997, conv. nella legge n. 135/1997, il dies a quo dell’obbligo di pagamento, che su quest’ultima grava per ristorare il dipendente, non può che decorrere dalla determinazione effettuata dall’Avvocatura, tanto per quanto riguarda la sorte capitale che gli interessi a vario titolo maturati fino all’effettivo pagamento, e non già da momenti anteriori a tale termine, atteso che per come è stato formulato il cit. art.18, la determinazione effettuata dall’Avvocatura costituisce elemento essenziale della fattispecie dalla quale sorge il c.d. diritto al rimborso e che fino a quel momento l’Amministrazione nulla può e nulla deve corrispondere a tale titolo.

Dispone l’art. 18 del D.L. n. 67/1997, conv. nella legge n. 135/1997, che “Le spese legali relative a giudizi per responsabilità civile, penale ed amministrativa, promossi nei confronti di dipendenti di amministrazioni statali in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio e con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenze o provvedimento che esclude la loro responsabilità, sono rimborsate dalle amministrazioni di appartenenza nei limiti riconosciuti dall’Avvocatura dello Stato. Le Amministrazioni interessate, sentita l’Avvocatura dello Stato, possono concedere anticipi del rimborso, salva la ripetizione nel caso di sentenza definitiva che accerti la responsabilità”.

La pronuncia del massimo Organo della Giustizia Amministrativa Siciliana, Sentenza 18 giugno 2014 n. 323, in tema di rimborso delle spese legali ai dipendenti, ha aggiunto che a nulla rilevava nel caso in questione il lungo tempo trascorso dalla pubblicazione della sentenza assolutoria (nella specie del 1998) fino al ricorso del 2003 ( che ha incoato la causa poi decisa dal TAR adito con la sentenza n. 471/2010) per giustificare un calcolo di interessi dal momento della emissione delle parcelle, pur nella misura rettificata successivamente dall’Avvocatura.

Infatti gli interessi, in quanto obbligazione accessoria, non possono che decorrere e trovare la propria giustificazione causale dalla fattispecie da cui trae titolo l’obbligazione principale di rimborso, la cui sussistenza non può che ricorrere per effetto della determinazione della somma dovuta, operata dall’Avvocatura, e non già in presunti ritardi o colpevoli omissioni della P.A., che tutt’al più avrebbero potuto formare oggetto di distinta domanda risarcitoria, se debitamente provati sia sotto il profilo oggettivo che soggettivo.


La trasparenza della P.A. sui siti web

“Linee guida in materia di trattamento di dati personali, contenuti anche in atti e documenti amministrativi, effettuato per finalità di pubblicità e trasparenza sul web da soggetti pubblici e da altri enti obbligati”. (Allegato alla deliberazione n. 243 del 15 maggio 2014)

… leggi Linee guida trasparenza P.A. 2014


25 Aprile

L’Anniversario della liberazione d’Italia (anche chiamato Festa della Liberazione, anniversario della Resistenza o semplicemente 25 aprile) viene festeggiato il 25 aprile di ogni anno.

È un giorno fondamentale per la storia d’Italia, simbolo del termine della seconda guerra mondiale nel paese, dell’occupazione da parte della Germania nazista, iniziata nel 1943, e del ventennio fascista.

Convenzionalmente fu scelta questa data, perché il 25 aprile 1945 fu il giorno della liberazione di Milano e Torino. In particolare il 25 aprile 1945 l’esecutivo del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia, presieduto da Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani (presenti tra gli altri anche Rodolfo Morandi – che venne designato presidente del CLNAI – Giustino Arpesani e Achille Marazza), alle 8 del mattino via radio proclamò ufficialmente l’insurrezione, la presa di tutti i poteri da parte del CLNAI e la condanna a morte per tutti i gerarchi fascisti (tra cui Mussolini, che sarebbe stato raggiunto e fucilato tre giorni dopo).

Entro il 1º maggio, poi, tutta l’Italia settentrionale fu liberata: Bologna (il 21 aprile), Genova (il 23 aprile) e Venezia (il 28 aprile). La Liberazione mette così fine a venti anni di dittatura fascista ed a cinque anni di guerra; simbolicamente rappresenta l’inizio di un percorso storico che porterà al referendum del 2 giugno 1946 per la scelta fra monarchia e repubblica, quindi alla nascita della Repubblica Italiana, fino alla stesura definitiva della Costituzione.

Il primo governo provvisorio della Repubblica Italiana istituì la festa solo per il 1946, con il decreto legislativo luogotenenziale n. 185 del 22 aprile 1946 (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive“); l’articolo 1 infatti recitava:

«A celebrazione della totale liberazione del territorio italiano, il 25 aprile 1946 è dichiarato festa nazionale.»

La ricorrenza venne poi celebrata anche negli anni successivi e dal 1949 è divenuta ufficialmente festa nazionale e in molte città italiane vengono organizzate manifestazioni in memoria dell’evento, in particolare nelle città decorate al valor militare per la guerra di liberazione o in quelle che hanno subito grandi perdite umane.

La legge che istituì la celebrazione è la n. 260 del 27 maggio 1949  (“Disposizioni in materia di ricorrenze festive“) ad istituzionalizzare stabilmente la festa della liberazione:

«Sono considerati giorni festivi, agli effetti della osservanza del completo orario festivo e del divieto di compiere determinati atti giuridici, oltre al giorno della festa nazionale, i giorni seguenti: […] il 25 aprile, anniversario della liberazione;[…]»


INCENTIVI PROGETTAZIONE: la Corte dei conti mette la parola fine

Smentita la posizione sostenuta dalla sezione controllo del Veneto della Corte dei Conti, favorevole all’incentivo per qualsiasi atto di pianificazione comunque denominato.

La sezione autonomie della Corte dei Conti (delibera n. 7/2014 sotto riportata) ha messo la parola definitiva al problema, stabilendo che l’incentivo per la progettualità interna – previsto dall’art. 92 comma 6 del codice contratti pubblici – non può essere erogato se riferito alla semplice redazione di un atto di pianificazione generale, ma solo se a tale atto sia connessa la successiva realizzazione di un’opera pubblica.

È pacifico che le ipotesi di incentivazione (da ripartire fra il responsabile del procedimento e gli incaricati alla redazione di un atto di pianificazione) siano riferite alla “progettazione” di un’opera pubblica, ma – per la Corte dei conti – la norma deve essere considerata di stretta interpretazione e non suscettibile di alcuna interpretazione estensiva.

La conclusione è ferrea: nel caso in cui manchi la realizzazione dell’opera pubblica non è possibile derogare dai principi di onnicomprensività del trattamento economico del dipendente pubblico, in quanto si tratta di una prestazione che rientra nei suoi doveri d’ufficio.

Corte dei Conti

Sezione delle Autonomie

N. 7/SEZAUT/2014/QMIG

Adunanza del 4 aprile 2014

Presieduta dal Presidente della Corte – Presidente della Sezione delle Autonomie

Raffaele SQUITIERI

Composta dai magistrati:

Presidenti di Sezione Mario FALCUCCI, Antonio DE SALVO, Claudio IAFOLLA, Adolfo Teobaldo DE GIROLAMO, Raffaele DEL GROSSO, Ciro VALENTINO, Ennio COLASANTI, Salvatore SFRECOLA, Anna Maria CARBONE, Gaetano D’AURIA, Roberto TABBITA, Giovanni DATTOLA, Carlo CHIAPPINELLI, Maurizio GRAFFEO

Consiglieri Teresa BICA, Mario PISCHEDDA, Rosario SCALIA, Carmela IAMELE, Lucilla VALENTE, Alfredo GRASSELLI, Rinieri FERONE, Paola COSA, Francesco UCCELLO, Adelisa CORSETTI, Alessandro PALLAORO, Laura D’AMBROSIO, Stefania PETRUCCI, Angela PRIA, Gianfranco POSTAL

Primi referendari Francesco ALBO, Giuseppe TETI, Valeria FRANCHI

Visto l’art. 100, secondo comma, della Costituzione

Vista la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3

Visto il testo unico delle leggi sulla Corte dei conti, approvato con regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214 e le successive modificazioni ed integrazioni

Visto l’art. 7, comma 8, della legge 5 giugno 2003, n. 131, recante disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3

Visto l’art. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20

Visto il regolamento per l’organizzazione delle funzioni di controllo della Corte dei conti, approvato dalle Sezioni riunite con la deliberazione n. 14 del 16 giugno 2000, come dalle stesse modificato con le deliberazioni n. 2 del 3 luglio 2003 e n. 1 del 17 dicembre 2004, e da ultimo, ai sensi dell’art. 3, comma 62, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, dal Consiglio di Presidenza con la deliberazione n. 229/CP/2008 del 19 giugno 2008

Vista la legge 4 marzo 2009, n. 15

Visto l’art. 6, comma 4 del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n.213, in base al quale, per la risoluzione di questioni di massima di particolare rilevanza, la Sezione delle autonomie emana delibera di orientamento

Vista la deliberazione n. 6/2014 del 21 gennaio 2014, depositata in data 21 gennaio 2014 e trasmessa in data 22 gennaio 2014, con la quale la Sezione regionale di controllo per la Liguria ha rimesso al Presidente della Corte dei conti la valutazione, ai sensi del richiamato art. 6, comma 4, del d.l. n. 174/2012, in ordine al deferimento alla Sezione delle autonomie di una questione di massima concernente il quesito, formulato dal Sindaco del Comune di Genova in ordine alla corretta interpretazione delle disposizioni recate dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12 aprile 2006, n.163 ed in particolare della definizione ivi riportata “atti di pianificazione comunque denominati”

Vista l’ordinanza n. 8 del 20 febbraio 2014 del Presidente della Corte dei conti, di deferimento della questione alla Sezione delle autonomie

Vista la nota prot. n. 331 del 26 marzo 2014 con la quale il Presidente della Corte dei conti ha convocato la Sezione delle Autonomie per l’odierna adunanza, con iscrizione all’ordine del giorno della questione proposta dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria con deliberazione n.6/2014

Udito il relatore, Consigliere Paola Cosa

PREMESSO

Con deliberazione n. 6/2014 del 21 gennaio 2014, depositata in data 21 gennaio 2014 e trasmessa in data 22 gennaio 2014, la Sezione regionale di controllo per la Liguria, sulla base di una richiesta di parere presentata dal Comune di Genova per il tramite del Consiglio delle Autonomie Locali, ha sollevato questione di massima in ordine alla corretta interpretazione delle disposizioni recate dall’art. 92, comma 6, del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 (in prosieguo Codice dei contratti) ed, in particolare, della definizione ivi riportata “atto di pianificazione comunque denominato”.

La richiesta è stata formulata dal Sindaco di Genova, al fine di conoscere l’avviso della Corte dei conti in merito all’interpretazione della norma citata, ossia se la stessa debba essere intesa nel senso che il diritto all’incentivo per la redazione di un atto di pianificazione sussiste solo nel caso in cui l’atto medesimo sia collegato direttamente ed in modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero se l’anzidetto diritto si configuri anche nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione generale (quali ad esempio la redazione di un piano urbanistico generale o attuativo ovvero di una variante), ancorché non puntualmente connessi alla realizzazione di un’opera pubblica.

La richiesta è stata formulata in ragione dell’incidenza che il pagamento degli anzidetti incentivi riveste per il bilancio del Comune di Genova, ma anche in considerazione delle difficoltà interpretative derivanti dalla mancanza di univocità negli orientamenti espressi dalle Sezioni Regionali di controllo, investite da analoghe richieste di parere, nonché dall’Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (in prosieguo AVCP) nei pareri sulla normativa resi negli ultimi anni (cfr. ex multis n. AG 13/2010 del 10 maggio 2010, n. AG 13/2011 del 10 maggio 2011 e n. AG 22/2012 del 22 novembre 2012).

La stessa AVCP, nella segnalazione n. 4 del 25 settembre 2013, resa ai sensi dell’art. 6, comma 7, lett. f) del d.lgs. n. 163/2006, alla luce del contrasto interpretativo venutosi a creare e nell’intento di promuovere una soluzione in tempi rapidi della questione, sollecita l’intervento chiarificatore del legislatore.

La Sezione Regionale di Controllo per la Liguria, valutata positivamente l’ammissibilità del parere richiesto, sia sotto il profilo soggettivo e procedurale che sotto il profilo oggettivo dell’attinenza del quesito alla “materia di contabilità pubblica”, ha richiamato la giurisprudenza delle Sezioni regionali di controllo formatasi nell’attività consultiva in merito alla prospettata questione.

La stessa Sezione ha aderito ad un consolidato indirizzo interpretativo formatosi alla luce delle pronunce adottate dalle Sezioni regionali di controllo in merito all’applicazione delle disposizioni recate dal citato art.92, comma 6, (cfr. ex multis: Sez. contr. Toscana n. 231 del 2011 e n.15/2013; Sez. contr. Piemonte n. 290 del 2012; Sez. contr. Puglia n. 1 del 2012 n.107 del 2012; Sez. contr. Lombardia n. 452 del 2012 e n. 391 del 2013; Sez. contr. Campania n.141 del 2013; Sez. contr. Emilia Romagna n. 243 del 2013; Sez. contr. Marche n.67 del 2013; Sez. contr. Umbria n.119 e 125 del 2013).

Indirizzo che considera i corrispettivi previsti dalle citate disposizioni a favore dei dipendenti, a titolo di incentivi alla progettazione interna, necessariamente collegati alla realizzazione di opere pubbliche e la partecipazione alla redazione di un atto di pianificazione di carattere generale quale attività rientrante nell’espletamento di funzioni istituzionali.

La Sezione Regionale di Controllo per la Liguria ha, peraltro, evidenziato l’esistenza in merito alla questione all’odierno esame di un diverso e contrapposto indirizzo interpretativo, espresso, di recente, dalla Sezione regionale di controllo per il Veneto, nelle delibere adottate con riferimento a specifiche richieste di parere formulate dai Comuni di: Cadoneghe (PD) (delib. n. 361/2013); Dueville (VI) (delib.n. 380/2013); Bassano del Grappa (VI) (delib.n. 381/2013); Campagna Lupia (VE) (delib.n. 382/2013)n. 380/2013/PAR e n. 381/2013/PAR).

In considerazione del predetto contrasto interpretativo, la Sezione Regionale di controllo per la Liguria ha sospeso la decisione e rimesso la questione alla valutazione del Presidente della Corte dei conti, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del d.l. 10 ottobre 2012, n. 174, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213.

Il Presidente della Corte dei conti, con l’ordinanza n. 8 del giorno 20 febbraio 2014, ha deferito la questione alla Sezione delle autonomie, fissando, con successiva convocazione del 26 marzo 2014, la discussione del punto all’ordine del giorno dell’odierna adunanza.

La Sezione delle autonomie, prendendo atto della necessità di superare l’anzidetto contrasto interpretativo, ritiene che la questione prospettata dalla Sezione remittente rivesta i caratteri della questione di massima e meriti l’adozione di una pronuncia di orientamento.

CONSIDERATO

La questione all’esame concerne la corretta interpretazione dell’art. 92, comma 6, del Codice dei contratti ove si dispone che “Il trenta per cento della tariffa professionale relativa alla redazione di un atto di pianificazione comunque denominato è ripartito, con le modalità e i criteri previsti nel regolamento di cui al comma 5 tra i dipendenti dell’amministrazione aggiudicatrice che lo abbiano redatto”.

In particolare, la Sezione è chiamata ad esprimere il proprio avviso in merito alla questione di massima concernente la corretta interpretazione della definizione “atto di pianificazione comunque denominato”, ovvero se la stessa debba essere intesa nel senso che il diritto all’incentivo sussiste solo nel caso in cui l’atto di pianificazione sia collegato strettamente ed in modo immediato alla realizzazione di un’opera pubblica, oppure nel senso che l’anzidetto diritto si configuri anche nell’ipotesi di redazione di atti di pianificazione generale, ancorché non puntualmente connessi alla realizzazione di un’opera pubblica.

Al riguardo, in primo luogo, occorre rammentare, come già precisato, l’esistenza di un consolidato indirizzo giurisprudenziale, formatosi in esito alle reiterate richieste di parere formulate dagli enti locali, con riferimento tanto alla progettazione di tipo urbanistico (adozione di PRG, variante urbanistica, piano di intervento) quanto ad altri atti di pianificazione (piani per l’ambiente, piani per il servizio rifiuti, per il turismo, per i trasporti, per l’innovazione tecnologica ecc….). Indirizzo che collega direttamente alla realizzazione di un’opera pubblica la redazione degli atti di pianificazione per i quali possa trovare applicazione la previsione di cui al citato comma 6 e, dunque, la corresponsione dell’incentivo, consistente nel trenta per cento della relativa tariffa professionale.

Su una linea interpretativa prossima a quella espressa dalle anzidette Sezioni regionali di controllo si collocano i citati pareri sulla normativa, resi dall’AVCP, che, peraltro, parzialmente discostandosi dall’anzidetto indirizzo giurisprudenziale, ha ritenuto di poter ricomprendere nell’ambito della definizione anche gli atti di pianificazione urbanistica, in quanto, sia pure mediatamente, gli stessi afferiscono la progettazione di opere o impianti pubblici o di uso pubblico, dei quali definiscono l’ubicazione nel tessuto urbano.

Nell’ambito della giurisprudenza delle Sezioni Regionali di controllo formatasi sulla questione in esame le Sezioni Riunite per la Regione Siciliana, in sede consultiva, con la delibera n. 2/2013/SSR/PAR, hanno precisato che, pur dovendosi riconoscere alla fonte regolamentare comunale la funzione esplicativa richiesta dalla genericità dell’espressione usata dal legislatore, per “atto di pianificazione comunque denominato” deve intendersi “qualsiasi elaborato complesso, previsto dalla legislazione statale o regionale, composto da parte grafica/cartografica, da testi illustrativi e da testi normativi, finalizzato a programmare, definire e regolare, in tutto o in parte, il corretto assetto del territorio comunale, coerentemente con le previsioni normative e con la pianificazione territoriale degli altri livelli di governo. In tale specifico contesto, pertanto, l’assoggettabilità ad incentivo discende, innanzitutto, dal contenuto tecnico documentale degli elaborati, che richiede necessariamente l’utilizzo di specifiche competenze professionali reperite esclusivamente all’interno dell’ente. In secondo luogo… si ritiene che l’attività di pianificazione debba essere contestualizzata nell’ambito dei lavori pubblici, in un rapporto di necessaria strumentalità con l’attività di progettazione di opere pubbliche”.

Contrario avviso rispetto all’indirizzo interpretativo prevalente è stato espresso dalla Sezione Regionale di controllo per il Veneto, in alcune recenti delibere, sopra richiamate, ove si afferma che “con l’utilizzo della locuzione atto di pianificazione comunque denominato, lungi dall’autorizzare interpretazioni restrittive, il legislatore ha inteso utilizzare una dizione sufficientemente generale ed aperta, tale da consentire di ascrivere all’ambito oggettivo della norma ogni atto di pianificazione, prescindendo dal suo collegamento diretto con la progettazione di un’opera pubblica.”, concludendosi per un’applicazione dell’istituto premiale estesa ad ogni atto di pianificazione “anche di carattere mediato”.

La Sezione Veneto, nelle predette deliberazioni, discostandosi dalla giurisprudenza prevalente delle Sezioni regionali di controllo, afferma che la previsione di cui all’art. 92, comma 6, contiene un’esplicita norma di incentivazione che deroga al principio di onnicomprensività della retribuzione del pubblico dipendente e rappresenta, comunque, un’ipotesi derogatoria distinta rispetto a quella introdotta dal comma 5.

Tale conclusione risulta, a parere della Sezione Veneto, avvalorata sia dall’analisi dell’evoluzione storica della norma che dalla verifica della sua trasposizione nel corpus del Codice dei contratti. Essa troverebbe conferma, inoltre, nella previsione di una diversa commisurazione del compenso dovuto come incentivo ex comma 6, rispetto a quanto previsto in tema di progettazione di opere pubbliche. Il che dimostrerebbe l’intenzione del legislatore di attribuire la giusta retribuzione all’attività di pianificazione anche mediata, a prescindere dal suo collegamento con un’opera pubblica.

Premesso il quadro giurisprudenziale – quale sommariamente ricostruito – la Sezione ritiene condivisibili gli argomenti su cui si fonda l’indirizzo interpretativo maggioritario, che riconosce di “palmare evidenza” il riferimento della definizione “atto di pianificazione comunque denominato” alla materia dei lavori pubblici e di conseguenza reputa l’ambito applicativo della stessa, apparentemente ampio ed indefinito, in realtà, limitato esclusivamente all’attività progettuale e tecnico amministrativa direttamente collegata alla realizzazione di opere e lavori pubblici.

La Sezione considera dirimente, innanzitutto, l’argomento che attiene all’interpretazione sistematica delle disposizioni in esame e che ha riguardo alla collocazione delle stesse (sedes materiae) all’interno del Capo IV “Servizi attinenti all’architettura ed all’ingegneria”– Sez. I “Progettazione interna ed esterna e livelli di progettazione”- del Codice dei Contratti ed al fatto che le stesse siano immediatamente precedute dall’art. 90 rubricato “progettazione interna ed esterna alle amministrazioni aggiudicatrici in materia di lavori pubblici “.

Disposizione quest’ultima che affida la progettazione preliminare, definitiva ed esecutiva di lavori agli Uffici tecnici delle stazioni appaltanti o, in alternativa, a liberi professionisti e che, al comma 6, limita la possibilità da parte delle amministrazioni aggiudicatrici di ricorrere a professionalità esterne ai soli casi di carenza in organico di personale tecnico, ovvero di difficoltà di rispettare i tempi della programmazione dei lavori, o, infine, nell’ipotesi di lavori di speciale complessità. Il successivo art. 91 disciplina le procedure di affidamento.

L’art. 92 rubricato “ corrispettivi, incentivi per la progettazione e fondi a disposizione delle stazioni appaltanti “ completa quanto disposto dai precedenti articoli, mantenendosi nell’alveo della disciplina della progettazione dei lavori pubblici.

All’esegesi della norma in esame, oltre al criterio sistematico, dianzi illustrato, soccorre la ricostruzione dell’evoluzione storica della disciplina degli incentivi alla progettazione, attraverso la quale si può riconoscere nel testo vigente la riproduzione di disposizioni contenute nella legge 11 febbraio 1994, n. 109 e specificatamente nell’art. 18 in materia di incentivi e spese per la progettazione. Disposizione quest’ultima che ha subito nel corso degli anni diverse modifiche, fino alla formulazione introdotta dall’art. 12 della legge 17 maggio 1999, n. 144 e sostanzialmente ripresa nel testo dell’art. 92 del Codice dei contratti.

Al riguardo, nella ricerca della ratio legis sottesa alle norme in esame, non appare dirimente la lettura dei lavori preparatori ed, in particolare, della relazione delle Commissioni Bilancio e Lavoro (V e XI) sul d.d.l. “misure in materia di investimenti……” a proposito dell’emendamento al testo dell’art. 12, comma 4, che ha introdotto la definizione di che trattasi; lettura che, al più, sembrerebbe confermare la riconducibilità delle disposizioni in esame nell’ambito esclusivo della disciplina in materia di progettazione di lavori pubblici.

Le disposizioni di cui ai commi 5 e 6 del citato art. 92 esprimono, in modo evidente, il favor legis per l’affidamento a professionalità interne alle amministrazioni aggiudicatrici di incarichi consistenti in prestazioni d’opera professionale e, pertanto, ove non ricorrano i presupposti previsti dalle norme vigenti per l’affidamento all’esterno degli stessi, le amministrazioni devono fare ricorso a personale dipendente, al quale applicheranno le regole generali previste per il pubblico impiego; il cui sistema retributivo è basato sui due principi cardine di onnicomprensività della retribuzione, sancito dall’art. 24, comma 3, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, nonché di definizione contrattuale delle componenti economiche, fissato dal successivo art. 45, comma 1.

Principi alla luce dei quali nulla è dovuto oltre il trattamento economico fondamentale ed accessorio, stabilito dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio.

Il legislatore, con le disposizioni in esame, ha voluto riconoscere agli Uffici tecnici delle amministrazioni aggiudicatrici un compenso ulteriore e speciale, derogando agli anzidetti principi.

In effetti, le previsioni contenute nell’art. 92 ai commi 5 e 6, appaiono evidentemente relative a due distinte ipotesi di incentivazione ed a due distinte deroghe ai ricordati principi, in quanto, in un caso, la deroga riguarda la redazione del progetto, del piano della sicurezza, della direzione dei lavori, del collaudo, da ripartire per ogni singola opera o lavoro tra il responsabile del procedimento e gli incaricati della redazione e nell’altro caso la deroga riguarda la redazione di un atto di pianificazione comunque denominato, da ripartire fra i dipendenti dell’amministrazione che lo abbiano, in concreto, redatto, entrambe riferite alla progettazione di opere pubbliche.

La norma deve essere considerata, dunque, norma di stretta interpretazione, non suscettibile di applicazione in via analogica, alla luce del divieto posto dall’art. 14 delle disposizioni preliminari al codice civile, e neppure appare possibile una lettura della definizione in essa contenuta che attribuisca alla volontà del legislatore quanto dallo stesso non esplicitato (lex minus dixit quam voluit).

Ai fini della riconoscibilità del diritto al compenso incentivante, la corretta interpretazione delle disposizioni in esame considera determinante, non tanto il nomen juris attribuito allatto di pianificazione, quanto il suo contenuto specifico, che deve risultare strettamente connesso alla realizzazione di un’opera pubblica, ovvero quel quid pluris di progettualità interna, rispetto ad un mero atto di pianificazione generale, che costituisce il presupposto per l’erogazione dell’incentivo. Pertanto, ove tale presupposto manchi, non è possibile giustificare la deroga ai principi cardine in materia di pubblico impiego di onnicomprensività e di definizione contrattuale delle componenti del trattamento economico, alla luce dei quali, nulla è dovuto oltre al trattamento economico fondamentale ed accessorio stabiliti dai contratti collettivi, al dipendente che abbia svolto una prestazione rientrante nei suoi doveri d’ufficio.

Tale soluzione appare, peraltro, avvalorata dai limiti precisati nella delibera n. 16/SEZAUT/2009/QMIG alle modalità di copertura degli oneri derivanti dall’attribuzione degli incentivi alla progettazione, qualificati spese di investimento e finanziabili, alla luce di quanto disposto dall’art. 93, comma 7, del Codice dei contratti, nell’ambito dei fondi stanziati per la realizzazione dei singoli lavori negli stati di previsione della spesa e nei bilanci delle stazioni appaltanti.

P.Q.M.

La pronuncia di orientamento generale della Sezione delle autonomie della Corte dei conti sulla questione di massima rimessa dalla Sezione regionale di controllo per la Liguria, con deliberazione n. 6/2014 del 21 gennaio 2014, in merito alla corretta interpretazione delle disposizioni contenute nel comma 6 dell’art. 92 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163 ed, in particolare, della definizione ivi riportata “atto di pianificazione comunque denominato” è nei termini specificati in motivazione.

La Sezione regionale di controllo per la Liguria renderà il parere richiesto tenendo conto delle indicazioni enunciate nel presente atto di orientamento, al quale si conformeranno tutte le Sezioni regionali di controllo, ai sensi dell’art. 6, comma 4, del decreto legge 10 ottobre 2012, n. 174, convertito con modificazioni dalla legge 7 dicembre 2012, n. 213.

Così deliberato in Roma, nell’adunanza del 4 aprile 2014.

Il Relatore Il Presidente

F.to Paola Cosa F.to Raffaele Squitieri

Depositata in segreteria il giorno 15 aprile 2014

Il Dirigente

F.to Renato Prozzo


È nulla la notifica effettuata tramite servizio postale privato

 Gli “agenti”, in questo caso, non rivestono la qualità di pubblici ufficiali e, pertanto, i loro atti non godono della presunzione di veridicità fino a querela di falso

Il principio generale secondo cui l’avviso di ricevimento di una raccomandata postale costituisce atto pubblico, le cui attestazioni godono di fede privilegiata, non può essere esteso alle notificazioni eseguite tramite un servizio di posta privata.

Questa, in sintesi, la massima di diritto della sentenza della Corte Suprema di Cassazione n. 2035 del 30 gennaio 2014.

La vicenda di merito e il ricorso per cassazione

Nell’ambito di un contenzioso dinanzi al Tribunale di Locri, il giudice, rigettata l’eccezione preliminare di tardività avanzata dalla curatela fallimentare, emetteva decreto di accoglimento dell’opposizione alla stato passivo del fallimento proposta dall’Agente della riscossione.

Avverso il decreto in questione, la curatela ricorreva per cassazione, contestando sotto diversi profili il rigetto dell’eccezione di intempestività.

In particolare, l’istante deduceva che l’atto oggetto dell’opposizione – comunicazione dell’esito di accertamento dello stato passivo ai sensi dell’articolo 97 della legge fallimentare (regio decreto 267/1942) – era stato comunicato dal cancelliere tramite servizio di posta privata all’Agente della riscossione il 20 giugno 2011, secondo quanto risultava dalla sottoscrizione dell’avviso di ricevimento della relativa raccomandata, mentre l’opposizione era stata depositata in cancelleria il 22 luglio 2011, in ritardo rispetto al termine – fissato dal successivo articolo 99 – di “trenta giorni dalla comunicazione di cui all’articolo 97”.

Più specificamente, poi, il ricorrente sosteneva che la comunicazione effettuata tramite servizio di posta privata doveva considerarsi legittima e che, pertanto, la data di notifica doveva ritenersi quella attestata dal verbale di consegna dell’incaricato postale sottoscritto dall’Agente della riscossione.

La pronuncia della Suprema corte

Il Collegio ha dovuto quindi affrontare la questione se, ai fini della decorrenza di un termine per proporre impugnazione, possa considerarsi facente fede l’attestazione della data di consegna proveniente dall’incaricato di un operatore postale privato.

In proposito, i giudici di piazza Cavour ricordano che, in tema di contenzioso tributario, è stato a suo tempo affermato il principio, espressione di una regola di carattere generale, secondo il quale, nel caso di notificazioni eseguite in via “diretta” (ovvero senza il tramite dell’ufficiale giudiziario o di altro agente notificatore) mediante spedizione dell’atto in plico con raccomandata con avviso di ricevimento, “quest’ultimo costituisce atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 cod. civ. e, pertanto, le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario (Cass. 17723/06 – Cass. 13812/07)”.

Il riportato principio, rileva la sentenza, non può peraltro essere esteso alle notificazioni eseguite tramite un servizio di posta privata.

Ciò in quanto, si legge nella pronuncia, gli agenti postali che svolgono tale servizio “non rivestono la qualità di pubblici ufficiali” e, pertanto, i loro atti “non godono di nessuna presunzione di veridicità fino a querela di falso…”.

Osservazioni

La sentenza 2035/2014 prende posizione su un aspetto ancora poco battuto dalla giurisprudenza, ovvero la valenza probatoria delle attestazioni contenute negli avvisi di ricevimento compilati in sede di “notificazione” di un atto, effettuata tramite raccomandata di un operatore postale privato.

Al proposito, si può ricordare che, nel processo dinanzi alle Commissioni tributarie, una della forme di notificazione degli atti è proprio quella che si attua – ai sensi dell’articolo 16, comma 3, del Dlgs 546/1992 – mediante spedizione “diretta” (cioè, come detto, senza intermediazione di un ufficiale notificatore) dell’atto, a mezzo del servizio postale, in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento.

In base al comma 5 dell’articolo 16, la notificazione eseguita a mezzo del servizio postale “si considera fatta nella data della spedizione” (ovvero, nel giorno in cui il plico viene affidato al servizio postale, per il successivo inoltro e recapito al destinatario), mentre i termini che hanno inizio dalla notificazione “decorrono dalla data in cui l’atto è ricevuto”.

L’affermazione contenuta nella pronuncia è perentoria, nel senso di ritenere che, in materia di notificazioni eseguite in via diretta a mezzo del servizio postale, mentre può riconoscersi fede privilegiata alle attestazioni dell’ufficiale postale, la stessa valenza non può essere attribuita alle analoghe attività poste in essere dall’incaricato di un servizio postale privato.

Peraltro, per sapere quale sarà l’impatto della sentenza in commento sulla futura giurisprudenza di legittimità, non resta che attendere altre pronunce della Suprema corte, che potranno eventualmente confermare l’odierna interpretazione.

Per completezza, si segnala che la giurisprudenza di merito, in un occasione in cui è stata chiamata a giudicare della legittimità della notificazione di un ricorso tributario eseguita da un’agenzia privata di recapiti, ha concluso per l’irritualità della notifica, con conseguente inammissibilità del ricorso. Nel caso di specie, la Ctp di Latina (sentenza n. 42/1/13 del 18 febbraio 2013) ha ritenuto che l’operatore postale privato è un “soggetto non abilitato, privo della qualifica di pubblico ufficiale, la cui attività inficia il perfezionamento del procedimento notificatorio”.


Inesistente la notifica degli atti effettuata tramite poste private

La giurisprudenza ha assunto una posizione che rischia di compromettere seriamente la validità di centinaia di migliaia di atti notificati dagli enti locali negli ultimi anni. Enti che, come molti cittadini e contribuenti si saranno accorti, sono soliti far ricorso alle poste private per notificare atti tributari, contravvenzioni o atti giudiziari.
Secondo, infatti, sempre più giudici, è inesistente la notifica eseguita a mezzo delle poste private.
Il principio, qualche mese fa scritto dalla Suprema Corte di Cassazione con riferimento solo alle cartelle esattoriali, (Sentenza CTP di Lecce n. 909/2009: “Equitalia non può notificare le cartelle con posta privata”) è ora stato esteso dalla Commissione Tributaria Provinciale di Benevento [1] con riferimento a qualsiasi atto giudiziario (sia in materia civile, che amministrativa o penale) o tributario.

Secondo i giudici campani, la notificazione di atti e di comunicazioni a carattere giudiziario o tributario [2], deve intendersi eseguita esclusivamente attraverso il servizio reso da “Poste Italiane” e non anche da parte di poste private.
La Commissione Tributaria Provinciale ha così accolto il ricorso di un contribuente che si era visto notificare dal Comune di residenza – a mezzo di soggetto privato – due avvisi di accertamento Tarsu derivanti dall’infedele presentazione della denuncia.
Secondo la sentenza in commento, gli atti di accertamento, in quanto non notificati dal servizio pubblico (o comunque da società abilitata a svolgere un pubblico servizio), sono inesistenti (sanzione ancora più grave della “nullità”) poiché la legge impone che, per la notificazione o la spedizione di un atto, nell’ambito di una procedura amministrativa o giudiziaria, debba essere utilizzato il fornitore del servizio postale universale.
Non vale far rilevare che l’atto sia comunque pervenuto materialmente nella sfera di conoscenza del destinatario e che quest’ultimo proponga ricorso.
In effetti, come recentemente ha fatto notare la Suprema Corte di Cassazione, in materia di notificazioni eseguite in via diretta a mezzo del servizio postale, si può riconoscere fede privilegiata solo alle attestazioni dell’ufficiale postale, e non invece alle attività poste in essere dall’incaricato di un servizio postale privato.

[1] CTP Benevento, sent. n. 382/3/2014

[2] Di cui alla legge 890/1982


Convegno gratuito su “GLI STALKING” – Venerdì 09/05/2014

Si segnala questo interessante Convegno al quale ha contribuito nell’organizzazione il nostro componente della Giunta Esecutiva, Com. Fontana Lazzaro.

Il Comune di Quattro Castella, in sinergia con l’Unione Colline Matildiche e l’ANVU Provinciale di Reggio Emilia, all’interno di un percorso complessivo di attenzione e contrasto alle varie forme di violenza presenti nella nostra società, ha valutato opportuno fare in data 09/05/2014 un momento di studio ed approfondimento sul fenomeno “STALKING” nelle sue diverse forme, da quello più noto di coppia “scoppiata” a quello non meno insidioso tra vicini/condomini o tra imprenditori concorrenti.

La magistrale relazione che terrà la Dott.ssa Maria Rita Pantani, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Reggio Emilia, che da anni segue questa tipologia di reato, ci introdurrà in un percorso dalle sfaccettature giuridiche complesse ed interattive con il lavoro quotidiano della Polizia Locale sul territorio che, in diverse circostanze, si intreccia con quello dei colleghi dei servizi alla persona dei Comuni e con quello delle altre Forze di Polizia di Stato.

I relatori, come potete vedere dal programma di dettaglio allegato, sono di primaria importanza per competenza ed esperienza, individuati in un ottica “di rete”.

E’ anche per questo che riteniamo che un momento formativo, organizzato per rispondere a dalle esigenze del territorio della Provincia di Reggio Emilia e che affronterà tale fenomeno da un punto di vista sia teorico che operativo possa essere interessante anche per i colleghi delle provincie limitrofe che possono parteciparvi liberamente previa iscrizione (il modulo è riportato in calce).

Si invitano i colleghi a rispettare i percorsi stradali indicati nella mappa allegata per raggiungere i parcheggi (posti a circa 100 metri dalla sede dell’incontro) in quanto al venerdì, nel centro storico di Montecavolo, vi è il mercato settimanale.

Alla fine dell’incontro, a circa 100 metri dalla sala ove si è tenuto il convegno, seguirà un momento conviviale in un ristorante (LA FAVORITA – Via F.lli Cervi 2/c a Montecavolo), che ci proporrà: antipasto, due primi (di cui uno di pesce), un secondo (di pesce o carne a scelta), contorno, frutta, vino, acqua e caffè – il tutto ad un prezzo convenzionato di Euro 20,00.

Personalmente ritengo che anche la parte conviviale faccia parte del momento formativo perché non può/deve passare il messaggio che nel quotidiano ci sono solo rapporti di forza e di violenza: si devono cercare e creare le condizioni perché nelle relazioni interpersonali vi sia il rispetto e la valorizzazione del singolo con la consapevolezza che però solo lo stare insieme e la socializzazione delle proprie esperienze crea una migliore qualità della vita … ed il tutto inizia dal CONOSCERSI … e pranzare allegramente insieme è un buon inizio.

IL COMANDANTE

del Corpo Unico Intercomunale di Polizia Municipale

dell’UNIONE Colline Matildiche (RE)

(Commissario Superiore Lazzaro Fontana)


Pasqua 2014

La Pasqua è un giorno speciale…è stata creata per donare gioia e felicità a tutti e noi vi auguriamo con tutto il cuore che questo giorno doni gioia e felicità!


Regole tecniche in materia di sistema di conservazione e Regole tecniche per il protocollo informatico

Il Ministro per la Pubblica Amministrazione e la semplificazione ha firmato due decreti adottati in attuazione di alcune disposizioni del Codice dell´amministrazione digitale, in materia di protocollazione e conservazione dei documenti informatici. I due decreti forniscono un importante supporto alla digitalizzazione dell´amministrazione pubblica che, pur adottando da tempo gli strumenti informatici, non ha ancora adeguato i suoi processi a modelli in grado di sfruttare in pieno le potenzialità dei nuovi mezzi.

Tali decreti sono stati pubblicati sulla “Gazzetta Ufficiale„ n. 59 del 12 marzo 2014 – Serie generale

Testo: Regole tecniche conservazione e protocollo informatico 2014


INDENNIZZO DA RITARDO: pubblicate le “linee guida” per l’applicazione

Formalizzate le “linee guida” che rappresentano un utile strumento per gli uffici ed in particolare per i dipendenti che rivestono la funzione di “responsabile del procedimento”.

E` stata pubblicata, sulla Gazzetta Ufficiale n. 59 del 12 marzo 2014, la direttiva 9.1.2014 della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento Funzione Pubblica, con la quale vengono fornite alle PA le linee guida sull’applicazione dell’art. 28 del decreto-legge 69/2013 (convertito nella legge 98/2013) nella parte in cui ha introdotto l`indennizzo da ritardo nella conclusione dei procedimenti ad istanza di parte.

L’art. 28 in questione intende garantire l’effettività dei principi sanciti dalla legge 241/1990 e, in particolare, tutelare i privati in conseguenza della violazione di un obbligo correlato al rispetto di un preciso termine di conclusione di un procedimento amministrativo attivato ad istanza di parte – così come disciplinato dall’art. 2 della citata legge 241/1990 – prevedendo il pagamento di una somma pari al 30 euro per ogni giorno di ritardo, fino ad un massimo di 2.000 euro.

La disposizione in questione di applica a tutte le amministrazioni pubbliche e ai soggetti privati preposti all’esercizio di attività amministrative di cui all’art. 1 comma 1-ter della legge 241/1990.

L’indennizzo da ritardo – si precisa nella direttiva – costituisce una disposizione applicabile in tutte le fattispecie in cui il procedimento, ad istanza di parte, debba concludersi entro un determinato periodo di tempo e ciò a prescindere dalla natura giuridica del termine apposto e, quindi, dalla circostanza che il termine abbia un carattere perentorio o ordinatorio.

La direttiva precisa anche che l’obbligo di pagamento del previsto indennizzo è dovuto solo ed esclusivamente per i procedimenti avviati successivamente o contestualmente alla data del 21 agosto 2013 (data di entrata in vigore della legge 98/2013).

L’indennizzo viene liquidato dalla PA procedente o, in caso di procedimenti complessi in cui intervengono più amministrazioni, da quella effettivamente responsabile del ritardo.