Mansioni superiori: differenze retributive

Il Tribunale di Treviso riconosce sotto il profilo economico le mansioni superiori all’impiegata dell’Agenzia delle Entrate a cui è stata adibita non avendo né titolo di studio né profilo professionale
Nel pubblico impiego, il dipendente assegnato allo svolgimento, al di fuori dei casi consentiti, di mansioni corrispondenti a una qualifica superiore rispetto a quella posseduta, avrà diritto anche in relazione a tali compiti a una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 della Costituzione.
Ciò a condizione che le mansioni superiori siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate ad esse.
Lo ha rammentato il Tribunale del Lavoro di Treviso nella sentenza n. 136-2020 in materia di riconoscimento delle mansioni superiori, sotto il profilo economico, di dipendente dell’Agenzia delle Entrate.
La ricorrente, assistente tributaria di II area funzionale, lamenta di aver continuativamente svolto mansioni superiori rispetto all’inquadramento posseduto, avendo nel tempo svolto in autonomia tutta una serie di attività tra cui quelle di accertamento e contestazione nei confronti di soggetti sospettati di evasione fiscale, provvedendo anche alla predisposizione degli avvisi di accertamento e delle denunce penali in presenza dei relativi presupposti di legge, assumendo il ruolo di responsabile del procedimento nell’ambito delle segnalazioni inoltrate all’Autorità giudiziaria.
Il Tribunale rileva come la giurisprudenza di legittimità, nelle controversie tese ad ottenere il riconoscimento di qualifica superiore o comunque volte a dimostrare lo svolgimento di mansioni superiori (per rivendicare le relative differenze retributive), abbia più volte affermato che il procedimento logico giuridico alla base dell’indagine diretta alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore non può prescindere da tre fasi successive.
Devono, in pratica, accertarsi in fatto le attività lavorative in concreto svolte nonché individuarsi le qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria. Andrà poi effettuato un raffronto tra il risultato della prima indagine e i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda.
All’esito di tale procedimento, e ai fini dell’applicazione della tutela apprestata dall’art. 2103 c.c., la condizione da verificare è che l’assegnazione alle mansioni superiori sia stata piena, nel senso che abbia comportato l’assunzione della responsabilità e l’esercizio dell’autonomia proprie della corrispondente qualifica superiore.
Nello specifico settore del pubblico impiego, prosegue la sentenza, è consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui “in materia di pubblico impiego contrattualizzato (…) l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori (anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento) ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (fra le altre sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989: n. 236 del 1992: n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.”
Tale retribuzione deve trovare integrale applicazione, senza sbarramenti temporali di alcun genere, pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano siate svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri e assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni ( Cass. SS.UU. n. 25837/2007 e Cass. n. 27887/2009).
Nel caso di specie, le emergenze istruttorie conducono il giudice ad affermare che le mansioni svolte dalla ricorrente siano senz’altro da ricondurre a quelle riconducibili alla terza area funzionale e, per l’effetto, l’Agenzia delle Entrate viene condannata, ex art. 52 d.lgs. 165/01, al pagamento in suo favore delle differenze retributive tra quanto avrebbe percepito con un inquadramento nella III area funzionale, livello retributivo F1, e quanto ha effettivamente percepito, oltre la maggior somma tra interessi legali e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo.
Tuttavia, per il Tribunale è fondata l’eccezione di prescrizione sollevata dalla resistente Agenzia delle Entrate: essendo rivendicate differenze retributive, spiega il Tribunale, devono intendersi in ogni caso prescritte le somme riferibili al periodo anteriore al quinquennio calcolato a ritroso dalla data di notifica del ricorso.


Documenti informatici: le nuove regole

Pubblicate sul sito dell’Agid le nuove Linee Guida per la formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici
L’Agenzia per l’Italia Digitale il 10 settembre 2020 ha inserito sul suo sito ufficiale le “Linee guida sulla formazione, gestione e conservazione dei documenti informatici”. Un vero e proprio manuale in cui si forniscono importanti indicazioni sui principali step che caratterizzano la vita del documento informatico, dalla formazione alla conservazione.
Le Linee guida, al fine di consentire la rapida visione degli argomenti trattati da parte degli addetti ai lavori, è strutturata in 4 capitoli.
Il primo capitolo definisce l’ambito oggettivo e soggettivo di applicazione, lo scopo, i principi generali in materia di gestione documentale, chiarendone la natura vincolante.
Il secondo capitolo si occupa della formazione dei documenti informatici e di quelli amministrativi informatici.
Il terzo capitolo è dedicato alla gestione documentale, ossia registrazione, aggregazione, archiviazione dei documenti, sistema di conservazione e misure di sicurezza.
Il quarto infine tratta della conservazione dei documenti. In questa parte viene descritto il processo di conservazione dei documenti, le modalità di esibizione degli stesso e vengono definiti i ruoli e le responsabilità degli addetti.
Le linee guida si pongono il duplice scopo di aggiornare le regole tecniche del Codice dell’Amministrazione digitale e di riunire in una guida unica le regole tecniche e le circolari in materia. In questo modo è possibile avere un quadro d’insieme sulla gestione del documento informatico, attraverso il raggruppamento di materie disciplinate separatamente.
L’opera di aggiornamento ha reso necessaria l’abrogazione dell’intero DPCM del 13 novembre 2014 e della maggior parte delle norme del DPCM del 3 dicembre 2013. Abrogata anche la circolare n. 60 del 23 gennaio 2013 dell’Agid, sostituita dall’allegato 6 delle presenti Linee Guida.
Le Linee guida hanno carattere vincolante e valenza erga omnes. Nella gerarchia delle fonti esso è un atto di regolamentazione, per cui, se quanto prescritto viene violato è possibile ricorrere al giudice amministrativo, se invece le violazioni vengono commesse dai soggetti di cui al comma 2 art. 2 Codice Amministrazione Digitale, tra cui compaiono le pubbliche amministrazioni statali, gli enti locali e le Camere di Commercio, è previsto il ricorso al Difensore Civico presso l’Agid, il quale, ricevuta la segnalazione, se la ritiene fondata, invita il responsabile a porvi rimedio entro il termine massimo di 30 giorni.
Le linee guida entrano in “vigore il giorno successivo a quello della loro pubblicazione sul sito istituzionale di AGID, di cui si darà notizia sulla Gazzetta Ufficiale. Esse si applicano 270 giorni successivi alla loro entrata in vigore. A partire da questo termine i soggetti di cui all’ art. 2 commi 2 e 3 del CAD formano i loro documenti esclusivamente in conformità alle presenti Linee Guida.”
Linee Guida sul documento informatico
Data emissione: 09-09-2020
Le Linee guida sono articolate in un documento principale e in sei Allegati che ne costituiscono parte integrante.
Gli allegati sono i seguenti:
Allegato 1 Glossario dei termini e degli acronimi
Allegato 2 Formati di File e Riversamento
Allegato 3 Certificazione di processo
Allegato 4 Standard e specifiche tecniche
Allegato 5 metadati
Allegato 6 Comunicazione tra AOO di Documenti Amministrativi Protocollati


Non basta la parola del portiere per considerare la società irreperibile

Risulta nulla la notifica dell’atto tributario che viene eseguita senza lo svolgimento di autonome ricerche presso gli uffici anagrafici comunali. È questo l’importante principio sancito dalla Corte di Cassazione.

La notifica dell’atto tributario eseguita con le modalità previste per i casi di irreperibilità assoluta è nulla se il destinatario è risultato assente al momento della consegna e il messo notificatore si è basato solo sulle dichiarazioni del portiere dello stabile, che ha affermato di non conoscere il contribuente.
Perché si verifichi l’irreperibilità assoluta, infatti, il messo Comunale/notificatore non può fare riferimento soltanto a dichiarazioni di terzi. Deve svolgere autonome ricerche presso gli uffici anagrafici per verificare che il destinatario dell’atto non abbia più abitazione, ufficio o azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale.
A precisarlo è la Corte di Cassazione con la sentenza n. 27035 del 24 ottobre 2018.
La sentenza della Corte di Cassazione ribadisce alcuni importanti principi normativi in tema di corretta modalità di consegna e notifica degli avvisi e degli atti di carattere tributario.
I fatti – La controversia nasce a seguito dell’impugnazione di un avviso di intimazione di pagamento notificato dall’agente della riscossione ad una società per omessa notifica della prodromica cartella di pagamento recante l’iscrizione a ruolo dell’IVA dovuta a seguito di controllo automatizzato della dichiarazione.
La società si doleva del fatto di non aver mai ricevuto la raccomandata informativa prevista dall’articolo 140 del codice di procedura civile, a cui rimanda l’articolo 60 del DPR 600/1973 in tema di notifica, in caso di assenza del destinatario al momento della consegna dell’atto tributario.
Il ricorso della società è stato respinto dalla CTP e la medesima sorte è toccata in sede di appello. I giudici della CTR hanno ritenuto regolare la notifica della cartella di pagamento effettuata dall’agente della riscossione, in quanto l’articolo 60 d.P.R. n. 600 del 1973 non prevede l’invio della raccomandata informativa in una ipotesi “di irreperibilità assoluta del destinatario.”
Avverso la decisione di secondo grado la società ha proposto ricorso in Cassazione che, ritenendone fondati i relativi motivi, ha deciso nel merito di accogliere l’originario ricorso della società contribuente annullando l’avviso di intimazione e condannando l’agente della riscossione al pagamento delle spese del giudizio di legittimità a favore del ricorrente.
La decisione – La notificazione degli avvisi e gli altri atti tributari (che per legge devono essere notificati al contribuente) è espressamente disciplinata dall’articolo 60 del D.Lgs. 600/1973 che, facendo espresso rinvio alle norme stabilite in materia dal codice di procedura civile (artt. 137 e seguenti), prevede che la notifica sia eseguita dai messi comunali o dai messi speciali autorizzati dall’ufficio dell’Agenzia delle entrate.
Per quanto attiene le corrette modalità di consegna dell’atto, i giudici della Suprema Corte distinguono due diverse ipotesi, ognuna con peculiarità proprie:
• l’irreperibilità temporanea;
• l’irreperibilità assoluta.
Modalità di consegna degli avvisi di accertamento e degli atti tributari in genere: l’ipotesi della temporanea irreperibilità
La prima ipotesi riguarda il caso in cui la residenza e l’indirizzo del destinatario sono conosciuti, ma la consegna non è andata a buon fine perché il destinatario (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto per temporanea irreperibilità.
In questo caso la notifica si intende effettuata con il deposito della copia dell’atto nella casa comunale dove la notificazione deve eseguirsi, con l’affissione dell’avviso di deposito, in busta chiusa e sigillata, alla porta dell’abitazione (o dell’ufficio o dell’azienda) del destinatario, al quale deve essere obbligatoriamente data notizia per raccomandata con avviso di ricevimento (secondo quanto previsto dall’articolo 140 codice di procedura civile).
Modalità di consegna degli avvisi di accertamento e degli atti tributari in genere: l’ipotesi della irreperibilità assoluta
La seconda ipotesi riguarda invece il caso in cui la residenza e l’indirizzo del destinatario non sono conosciuti perché questi risulta trasferito in luogo sconosciuto e il messo notificatore, che ha tentato di effettuare la consegna all’ultimo indirizzo conosciuto, non rinviene il destinatario.
L’accertamento di tale irreperibilità assoluta deve essere dichiarata dallo stesso messo notificatore solo dopo aver eseguito autonome ricerche nell’anagrafe comunale del luogo dove è situato il domicilio fiscale del contribuente, per verificare che il suddetto trasferimento non si sia risolto in un mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune.
In questo caso l’avviso di deposito, in busta chiusa e sigillata, deve essere affisso nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione, senza necessità di inviare la raccomandata informativa (secondo quanto previsto dall’articolo 60, comma 1, lettera e) del DPR 600/1973).
In altri termini, il primo caso ravvisa una ipotesi di assenza relativa perché il destinatario è effettivamente residente nell’indirizzo indicato nel certificato anagrafico del comune ma al momento della notifica dell’atto tributario è momentaneamente assente (cd. “semplice assenza”).
Il secondo caso, invece, riguarda una ipotesi di irreperibilità assoluta il destinatario non è residente all’indirizzo conosciuto e non è possibile individuare o ricercare la sua residenza (cd. “irreperibilità assoluta”).
I giudici di legittimità hanno affermato, ribadendo quanto già sancito dalla sentenza n. 24260 del 2014, che è illegittima la notifica di una cartella di pagamento effettuata con le modalità previste nei casi di irreperibilità assoluta, se il messo abbia attestato l’irreperibilità del destinatario nel comune dove era situato il domicilio fiscale del contribuente, senza però aver indicato le ulteriori ricerche compiute per verificare che il trasferimento non fosse un mero mutamento di indirizzo all’interno dello stesso comune. Le modalità corrette, infatti, sono quelle previste per i casi di assenza momentanea, che comprendono l’invio da parte dell’agente della riscossione della raccomandata informativa.
Il summenzionato principio è stato ulteriormente confermato dalla sentenza n. 2877/2018, in cui è stato sancito che “in tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dall’art. 60, comma 1, lett. e), del D.P.R. n. 600 del 1973, in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più né l’abitazione né l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale.”
Nella controversia in esame la CTR ha sostenuto che, trattandosi di un caso di ipotesi di “irreperibilità assoluta”, non era necessario l’invio da parte dell’agente della riscossione della raccomandata informativa. A tale conclusione i giudici erano giunti basandosi solo sulle dichiarazioni del portiere dello stabile dove era domiciliata la società contribuente, che aveva affermato di non conoscere la società.
Diversamente, i giudici di legittimità hanno ravvisato una ipotesi di irreperibilità relativa, “non avendo il messo notificatore svolto ricerche dirette a verificare l’irreperibilità assoluta della società contribuente, ossia che quest’ultima non avesse più né l’abitazione né l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale, non potendosi ritenere sufficiente a quel fine la generica dichiarazione da quello acquisita dal portiere dello stabile.”
Così facendo i giudici d’appello non si sono attenuti ai summenzionati principi perché hanno ritenuto idonee a giustificare il ricorso alla notifica a soggetto assolutamente irreperibile, una mera dichiarazione di un soggetto terzo (il portiere) omettendo ulteriori verifiche. Tuttavia, proprio tale circostanza avrebbe dovuto indurre il messo notificatore a compiere i controlli necessari ad accertare “se l’indicazione del domicilio della società destinataria dell’atto era corretta o se lo stesso non fosse mutato”.


Assenteismo in Comune Reggio Calabria, condannati in 26

REGGIO CALABRIA, 17 SET – Con la condanna di 26 dei 32 imputati si è concluso il processo “Torno Subito 2” nato da un’inchiesta della polizia di stato sull’assenteismo nel Comune di Reggio Calabria.

Il giudice monocratico Andreina Mazzariello ha accolto in buona parte le richieste della Procura della Repubblica rappresentata dal Procuratore della Repubblica, Giovanni Bombardieri, e dall’aggiunto Gerardo Dominijanni.

Ai 26 dipendenti del Comune condannati sono state inflitte pene varianti tra un anno e mezzo ed 8 mesi di reclusione.

Per due degli imputati assolti, Pasquale Bonocore e Antonino Branca, é stata usata la formula “perché il fatto non sussiste”. Gli altri quattro, invece, sono stati assolti “per la particolare tenuità del fatto”. Si tratta di Antonino Pino, Maurizio Delfino, Sebastiano Gullì e Pasqualina Scuncia.

Le indagini della Procura hanno rivelato che molti impiegati del Comune erano soliti attestare la propria presenza sul luogo di lavoro dal quale poi si allontanavano senza un giustificato motivo, procurandosi così un ingiusto profitto. (ANSA).


Notifica con esito negativo

E’ possibile superare la decadenza di legge tramite la rinnovazione della notifica a patto che sussistano due condizioni:
1. l’errore sul domicilio del destinatario non deve essere imputabile al notificante;
2. il procedimento notificatorio deve essere riattivato entro un “termine ragionevole” (è ragionevole un termine non superiore alla metà di quello stabilito per la decadenza della notifica).
Questo il principio affermato dalla Corte di Cassazione, con sentenza n. 28269 pubblicata il 4 novembre 2019. Nella pronuncia la Suprema Corte torna sulla questione della notifica non andata a buon fine per delineare quando sia possibile effettuare una nuova notifica anche dopo la scadenza dei termini di legge.
La vicenda giudiziale che ha portato la Cassazione ad esprimersi sulla rinotificazione tardiva era nata per la definizione di un rapporto di mediazione intrapreso tra Caio e le società Beta e Gamma, dove Caio aveva aiutato le due società a concludere un accordo per una compravendita immobiliare. Caio non avendo ricevuto il pagamento dovuto citava in giudizio le due società per vedersi accogliere la sua richiesta di pagamento. Il giudizio di primo grado si concludeva con la soccombenza di Caio, ma nel ricorso in Appello Caio riusciva a far valere le proprie ragioni ed ottenere la riforma della sentenza con la liquidazione delle sue spettanze per l’attività svolta.
Beta soccombente nel giudizio di Appello impugnava la sentenza davanti alla Suprema Corte di Cassazione, a base delle proprie doglianze la società ricorrente deduceva la completa inconsapevolezza del ruolo svolto da Caio all’interno delle trattative, e quindi, eccepiva la forma contrattuale attribuibile al caso di specie, ovvero rilevava che non si trattava di un rapporto di mediazione vero e proprio, ma di un semplice mandato conferitogli dalla sola società Gamma, e che per l’effetto, solo la mandante era tenuta a versare il compenso richiesto da Caio.
La Suprema Corte ha accolto le argomentazioni esposte dalla società Beta, ed ha sottolineato che il rapporto tra le parti non poteva neanche essere considerato alla stregua della c.d. mediazione atipica (che ricorre nel caso in cui il mediatore abbia ricevuto l’incarico, da uno dei contraenti, di svolgere un’attività intesa alla ricerca di una persona interessata alla conclusione di uno specifico affare, a determinate e prestabilite condizioni) poiché anche in questa ipotesi il rapporto tra le parti doveva assumere una forma contrattuale. La forma contrattuale secondo la Corte poteva configurarsi anche mediante fatti concludenti che implicavano la volontà dei contraenti di avvalersi dell’opera del mediatore o tramite la semplice accettazione dell’opera. Richiamando un’altra sentenza della Corte sul tema (Cass. 4107/2019), l’intermediario deve operare in modo palese, rendendo nota la qualità rivestita, inoltre, in caso di controversia l’onere della prova è a carico della parte che pretende di essere remunerata. Considerato che nel caso di specie Beta aveva fin dall’inizio espresso la sua ignoranza sull’identità professionale di Caio e che quest’ultimo non aveva provato di aver reso note le sue qualità e il motivo per cui agiva, la Corte accoglieva le doglianze della società Beta.
La Corte ha deciso anche sulla tardività della notifica del controricorso effettuata da Caio nei confronti della società Gamma. La notifica alla società Gamma non era andata a buon fine in quanto il difensore della società Gamma aveva trasferito il suo studio professionale in altra sede. Caio accertato l’errore chiedeva di essere rimesso in termini, ma la Corte non riteneva accoglibile la richiesta in quanto la notifica andava effettuata al domicilio reale, ovvero quello dichiarato nei pubblici registri. L’errore di Caio non era neanche scusabile poiché il legale di Gamma aveva trasferito la propria sede, con relativa comunicazione all’albo professionale di appartenenza oltre un anno prima della notifica del controricorso.
Secondo la Corte la possibilità di superare la decadenza di legge era subordinata a due condizioni che nel caso di specie non sussistevano:
1) l’errore sul domicilio del destinatario non deve essere attribuibile al soggetto notificante;
2) la nuova notifica deve essere effettuata in un termine non superiore alla metà di quello stabilito a pena di decadenza.
Oltre alla pronuncia in esame la Suprema Corte è stata chiamata a decidere diverse volte in tema di rinnovazione della notificazione, come nella sentenza n. 3552 del 14.02.2014, dove ha posto a base della decisione la distinzione tra la notifica nulla da quella giuridicamente inesistente. Nei casi di notifica nulla la Corte ha affermato la possibilità di rinnovare la notifica anche dopo la scadenza del termine di legge, fattispecie preclusa in tutti quei casi di notifica inesistente.
In una recente ordinanza (n. 4538 del 15.02.2019) gli Ermellini hanno anche chiarito come distinguere una notifica nulla da quella affetta da inesistenza, ovvero secondo il “criterio di collegamento tra il luogo della notifica e il destinatario dell’atto”. Nell’ipotesi in cui nel luogo della notifica errata non vi è nessun collegamento con il destinatario la notifica è da ritenersi inesistente, mentre nell’ipotesi in cui il luogo di notifica è collegato con il destinatario la notifica è affetta dalla sola nullità. Un esempio di scuola di notifica nulla è quella della notifica effettuata al precedente domicilio del destinatario dove vivono i genitori dello stesso. In questo caso i genitori rappresentano un vero e proprio collegamento tra l’effettivo destinatario e il luogo della notifica errata.


Notifiche via pec tempestive fino alla mezzanotte dell’ultimo giorno

La Cassazione torna a pronunciarsi sulle notifiche telematiche. Tempestiva l’impugnazione entro la mezzanotte dell’ultimo giorno utile orologio che segna quasi mezzanotte
L’appello proposto entro la mezzanotte dell’ultimo giorno utile deve ritenersi tempestiva e dunque pienamente valida. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sesta sezione civile, con la sentenza n. 18235/2020
La Suprema Corte ha così accolto un ricorso contro la decisione del giudice d’appello che aveva, invece, ritenuto tardiva l’impugnazione perché notificata a mezzo PEC oltre le ore 23:00 dell’ultimo giorno utile e, per questo, ritenuta perfezionatasi ex art. 16 del d.l. n. 179 del 2012, alle ore 7:00 del giorno successivo, quando il termine per proporre appello era decorso.
Nel dichiarare fondato il ricorso, gli Ermellini richiamano espressamente quanto stabilito sul punto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 75/2019, depositata in data 9 aprile 2019.
In tale occasione, la Consulta ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 16-septies del D.L. n. 179/2012 (conv. in L. n. 221/2012) “nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anziché al momento di generazione della predetta ricevuta”.
I giudici costituzionali hanno rilevato un irragionevole “vulnus” recato dalla norma menzionata al pieno esercizio del diritto di difesa, in particolare per quanto riguarda la “fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare, che è contenuto indefettibile di una tutela giurisdizionale effettiva”.
La succitata sentenza rammenta come il divieto di notifica per via telematica oltre le ore 21 risulti introdotto, attraverso il richiamo dell’art. 147 c.p.c. nella prima parte del censurato art. 16-septies allo scopo di tutelare il destinatario, per salvaguardarne, cioè, il diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) in cui egli sarebbe stato, altrimenti, costretto a continuare a controllare la propria casella di posta elettronica
Ciò giustifica la fictio iuris, contenuta nella seconda parte della norma, per cui il perfezionamento della notifica, effettuabile dal mittente fino alle ore 24, è differito, per il destinatario, alle ore 7 del giorno successivo. Ciò, invece, non giustifica una corrispondente limitazione nel tempo degli effetti giuridici della notifica nei riguardi del mittente: a questi, infatti, verrebbe impedito di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa, che l’art. 155 c.p.c. computa “a giorni” e che, nel caso di impugnazione, scade, appunto, allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno.
Nel caso di specie, dunque, l’applicazione del principio espresso dalla Consulta ha l’effetto di far ritenere tempestivo l’appello del ricorrente in quanto notificato entro le ore 24:00 dell’ultimo giorno utile.
Per completezza di esame, la sesta sezione civile richiama anche il principio secondo cui “l’efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento emesse dalla Corte costituzionale incontra un limite nelle situazioni consolidate per effetto di intervenute decadenze: tale limite, tuttavia, non opera quando la dichiarazione di illegittimità costituzionale investe proprio la norma che avrebbe dovuto rendere operante la decadenza” (Cass. n. 1644/2019; n. 5240/2000)
Vedi anche: Corte Costituzionale: valide le notifiche via p.e.c. dopo le 21


Sottoscrizione dell’avviso di accertamento: la delega è valida anche senza il nome del delegato

Sottoscrizione dell’avviso di accertamento: serve una delega di firma e non di funzione, per la validità non è necessaria l’indicazione del nome del delegato e della durata della stessa. 
Con la sentenza n. 18675 del 9 settembre 2020, la Corte di Cassazione ha ribadito che la delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento, essendo una delega di firma e non di funzioni, non necessita dell’obbligatoria indicazione del nome del delegato e della durata di validità della stessa, perché tali informazioni possono essere legittimamente riportate nell’ordine di servizio che individui l’impiegato legittimato alla firma attraverso l’indicazione della qualifica rivestita.
La sentenza – Il procedimento vede contrapposte l’Agenzia delle entrate ed un contribuente a cui era stato notificato un avviso di accertamento ai fini Irpef, Iva e Irap.
Il ricorso proposto dal contribuente è stato accolto sia dalla CTP che dalla CTR, che ha ritenuto nulla la sottoscrizione dell’accertamento dopo aver rinvenuto negli atti del procedimento “un mero richiamo ad una asserita delega n. 30 del 2013 non prodotta in giudizio a seguito della contestazione del contribuente”.
L’Amministrazione finanziaria ha impugnato la sentenza d’appello, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 42 del D.P.R. n. 600/1973, avendo la CTR ritenuto che la delega conferita al sottoscrittore dell’atto non contenesse l’indicazione nominativa del delegato e la durata di validità della delega, trattandosi di delega di firma e non di funzioni, riservate al delegante.
La Corte di Cassazione ha ritenuto fondato il ricorso dell’Ufficio e ha cassato con rinvio la sentenza impugnata.
L’art 42 cit. prevede al comma 1 che gli accertamenti, in rettifica o d’ufficio, sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti, a pena di nullità, dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.
Sul punto i giudici di cassazione hanno confermato il principio, già esposto nelle precedenti sentenze nn. 8814/2019 e 18383/2019, secondo cui la delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento, attribuita dal dirigente ai sensi dell’art. 42, “è una delega di firma e non di funzioni”.
Ne consegue, pertanto, che l’indicazione del nominativo del soggetto delegato e della durata della delega non costituiscono elementi necessari ai fini della validità dell’atto impositivo, ben potendo essere indicati negli ordini di servizio che individuino l’impiegato legittimato alla firma mediante l’indicazione della qualifica rivestita, “idonea a consentire, ex post, la verifica del potere in capo al soggetto che ha materialmente sottoscritto l’atto”.
Nella controversia i giudici di merito non hanno fatto corretta applicazione di tale principio, arrivando a negare validità alla delega perché priva del nominativo del soggetto delegato.
Infatti, dagli atti del procedimento è emerso che l’Ufficio avesse regolarmente depositato la delega n. 30 del 2013, recante proroga delle deleghe di firma, confermativa delle deleghe, precedentemente conferite con la disposizione di servizio n. 17 del 2012, dal direttore provinciale dell’Ufficio al funzionario firmatario dell’avviso di accertamento impugnato dalla parte.
Da qui l’accoglimento del ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate, con conseguente rinvio alla CTR in diversa composizione, anche per la decisione delle spese del giudizio di legittimità.


“Furbetti del cartellino” a Gioia Tauro, tre vigili urbani agli arresti domiciliari

Tre persone agli arresti domiciliari, divieto di dimora per altre sei. E’ il risultato di una operazione della Guardia di Finanza del comando provinciale di Reggio Calabria nei confronti di alcuni dipendenti del Comune di Gioia Tauro, accusati, a vario titolo, di assenteismo e peculato d’uso. Sette dipendenti appartengono alla Polizia municipale (gli arrestati, ai domiciliari, sono infatti tre vigili), due al servizio bibliotecario.
Le indagini, coordinate dalla procura della Repubblica di Palmi (con il procuratore Ottavio Sferlazza ed il sostituto Davide Lucisano), riferite al periodo settembre-dicembre dello scorso anno, hanno preso il via da una denuncia presentata dall’allora comandante della Polizia locale, che qualche mese dopo si era dimesso dall’incarico, in relazione ad una serie di ipotesi di assenteismo da parte di alcuni suoi collaboratori.
In particolare è stato accertato che gli indagati, pur attestando regolarmente la loro presenza in servizio, spesso si assentavano dal posto di lavoro in maniera del tutto ingiustificata con uso improprio di autovetture di servizio con sistematicità, per dedicarsi alle più disparate esigenze di carattere personale e familiare, non garantendo servizi essenziali per la collettività, ivi compreso il comandante pro-tempore anche egli destinatario di una misura cautelare.
In un episodio, è stato riscontrato, inoltre, che una vigilessa, oltre a recarsi ingiustificatamente con l’auto del corpo fuori dal territorio di competenza aveva portato con sé l’arma di servizio. Analoghe condotte di assenteismo, sono state, infine, accertate nei confronti anche di due bibliotecari i quali, dopo aver attestato regolarmente la presenza in servizio, avevano abbandonato il posto di lavoro non consentendo la fruibilità della biblioteca alla collettività.
“Le ordinanze del gip di Palmi – ha commentato il sindaco di Gioia Tauro, Aldo Alessio – hanno di fatto azzerato il corpo di Polizia locale del Comune. Le condotte ascritte individuano violazioni dei doveri professionali, di correttezza e lealtà nei confronti del Comune di Gioia Tauro – datore di lavoro nonché pubblica amministrazione che si aspetta dai suoi impiegati un ruolo di integrità morale per il rispetto della città e dei cittadini. Provvederemo alle misure che la legge ci impone – immediata sospensione dal servizio e contestazione degli addebiti – in relazione alle contestazioni mosse dalla procura della Repubblica e in rispetto delle decisioni del gip. Preannunciamo la costituzione del Comune di Gioia Tauro quale parte civile – ha concluso – a tutela degli interessi patrimoniali, morali e di immagine del Comune”.
Fonte AGI


La notifica del fermo amministrativo dell’auto anche con posta privata

Per effetto della liberalizzazione realizzata in attuazione di alcune direttive dell’Unione europea, gli atti tributari possono essere recapitati da operatori diversi dal fornitore del servizio universale
A decorrere dal 30 aprile 2011, è valida la notificazione dell’atto tributario eseguita da un agente notificatore (articolo 140 c.p.c.), quando la raccomandata che informa il destinatario del deposito dell’atto presso la casa comunale sia stata inviata avvalendosi dei servizi offerti da un licenziatario di posta privata anziché di quelli del fornitore del servizio universale.
Questo il principio affermato dalla V sezione della Corte di Cassazione con la sentenza n. 15361 del 20 luglio 2020.
La vicenda processuale
Un contribuente impugnava dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Salerno il preavviso di fermo amministrativo riguardante un autoveicolo di sua proprietà.
La pronuncia di prime cure, sfavorevole all’istante, veniva riformata dalla Commissione tributaria regionale della Campania la quale, con sentenza n. 2466/2017 del 17 marzo 2017, riteneva fondata la doglianza della parte privata che aveva eccepito l’inesistenza della notifica del prodromico avviso di accertamento.
Nello specifico, il collegio d’appello concludeva che la notifica dell’atto impositivo, eseguita dal messo comunale in base all’articolo 140 c.p.c. per temporanea assenza del destinatario e di altre persone abilitate a ricevere la consegna, non poteva dirsi perfezionata in quanto, per la spedizione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, l’agente notificatore si era avvalso dei servizi offerti da un operatore postale privato anziché di quelli di Poste Italiane.
Nel gravame di legittimità, l’Agenzia delle entrate denunciava la sentenza impugnata, in particolare osservando che la stessa, nel ritenere inesistente la contestata notifica, non aveva tenuto conto degli effetti della liberalizzazione dei servizi postali realizzata in attuazione di alcune direttive dell’Unione europea. L’ufficio finanziario rilevava, inoltre, che, nella specie, la prescritta “raccomandata informativa” del deposito dell’atto alla casa comunale risultava ricevuta da persona che l’addetto alla consegna aveva rinvenuto presso il domicilio del destinatario.
La pronuncia della Corte di Cassazione
Il giudice di legittimità ha accolto il descritto motivo, ricordando in primis che la disciplina positiva di riferimento sui servizi postali costituita dall’articolo 4 del Dlgs n. 261/1999 ha, nel tempo, subito una serie di modificazioni.
Nello specifico, osserva la Corte di Cassazione, mentre in passato era prevista l’attribuzione in esclusiva al fornitore del servizio universale di tutti “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”, successivamente (a decorrere dal 30 aprile 2011) l’ambito dei servizi affidati in esclusiva a detto “fornitore” è stato ridefinito includendovi tra l’altro i “servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla legge 20 novembre 1982, n. 890…”.
Anteriormente alla riforma del 2011, ricorda la sentenza, il giudice di legittimità era costante nel ritenere, per un verso, che costituissero oggetto di riserva le notificazioni a mezzo posta tanto degli atti tributari sostanziali che di quelli processuali; per l’altro, che in entrambi i casi l’incaricato di un servizio di posta privata fosse privo della qualità di pubblico ufficiale, con la conseguenza che agli atti da esso compiuti non poteva riconoscersi efficacia fidefacente fino a querela di falso. Viceversa, prosegue la Cassazione, dal 30 aprile 2011, gli invii raccomandati riguardanti atti tributari diversi da quelli in senso stretto giudiziari “possono essere stati oggetto di notifica anche tramite operatore postale privato in possesso dello specifico titolo abilitativo costituito dalla ‘licenza individuale’ di cui all’art. 5, comma 1, del d. lgs. n. 261/1999”.
In definitiva, ribadisce la Corte suprema, si può ritenere valida la notifica dell’atto impositivo, eseguita mediante licenziatario di posta privata nel periodo intercorrente tra la parziale liberalizzazione attuata, come detto, a decorrere dal 30 aprile 2011 e quella portata a pieno compimento dalla legge n. 124/2017, questa conclusione recita la sentenza in rassegna “appare, in primo luogo, in linea con l’evoluzione interpretativa che ha ormai ritenuto configurabile l’ipotesi di inesistenza della notificazione in casi assolutamente residuali…; ma, soprattutto, essa appare consonante con la sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte, Cass. SU 26 marzo 2019, n. 8416”.
La pronuncia della Corte di Cassazione interviene a chiarire un profilo decisamente rilevante con riguardo all’ipotesi di una notificazione nel cui iter procedimentale, oltre all’attività dell’agente notificatore, sia previsto in qualche modo un coinvolgimento anche dell’operatore postale.
Questa ipotesi ricorre, oltre che nel caso esaminato (quello cioè della notifica ex articolo 140 c.p.c. il quale prevede che, a seguito dell’accertata irreperibilità temporanea del destinatario, a quest’ultimo si fornisca notizia del deposito dell’atto presso la casa comunale “per raccomandata con avviso di ricevimento”), ad esempio anche nell’ipotesi prevista dal precedente articolo 139 c.p.c., in cui si stabilisce che, dell’avvenuta notificazione dell’atto (a mani di uno dei soggetti specificamente abilitati alla ricezione per conto del destinatario), viene data notizia all’interessato “a mezzo di lettera raccomandata”.
In sostanza, nelle descritte ipotesi, un “segmento” della complessiva fattispecie notificatoria viene affidato a un soggetto ulteriore rispetto all’agente notificatore: questo soggetto, l’operatore postale appunto, provvede all’adempimento prescritto dalla norma.
La materia ha conosciuto nel tempo una costante evoluzione che, in attuazione di alcune direttive unionali, ha comportato la progressiva erosione, fino poi alla completa eliminazione, dell’area dei servizi postali riservati al fornitore del servizio universale, vale a dire di Poste italiane.
Sul punto, intervenendo a comporre un acceso dibattito interpretativo, con sentenza n. 299/2020, le sezioni unite della Cassazione hanno affermato il principio di diritto secondo il quale, in tema di notificazione di atti processuali, posto che in base alla direttiva n. 2008/6/Ce del Parlamento e del Consiglio è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato membro non evidenzi e dimostri una giustificazione oggettiva ostativa, “è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva e il regime introdotto dalla legge n. 124 del 2017”.
Con la sentenza n. 15361/2020, dopo aver precisato che la richiamata sentenza delle sezioni unite non è riferibile alla fattispecie da essa esaminata, che attiene alla notifica di atto sostanziale tributario a mezzo di licenziatario privato nel periodo intercorrente tra la parziale liberalizzazione in vigore dal 30 marzo 2011 e quella compiutamente attuata con la legge n. 124/2017, inserisce dunque un’ulteriore tessera nel mosaico, ancora in fase di completa definizione, relativo alla tematica della validità delle notifiche eseguite per il tramite di operatore postale diverso dal fornitore del servizio universale.


Molteplici inadempienze? Giustificato motivo di licenziamento

La Corte Suprema di Cassazione ha confermato la legittimità di un licenziamento per giustificato motivo soggettivo irrogato al dipendente di una Srl a cui erano state contestate plurime inadempienze e trascuratezze circa le proprie mansioni.
Questo, con particolare riferimento alle modalità di redazione del piano finanziario della società, rientrante tra le competenze attribuite al prestatore già a decorrere dal momento della sua assunzione presso la datrice, e che, sulla base di una formazione professionale progressiva, era poi diventata la sua mansione centrale.
Dipendente non affidabile nella resa? Licenziamento per giustificato motivo soggettivo
Rispetto al primo grado, in cui era stato confermato un recesso per giusta causa, i giudici di gravame avevano ritenuto che la base giustificativa del licenziamento andasse piuttosto rinvenuta nel giustificato motivo soggettivo.
Non si verteva – aveva precisato la Corte d’appello – nell’ambito di trasgressioni incidenti sul vincolo fiduciario, tali da imporre il licenziamento per giusta causa, ma di inadempimenti rilevanti sotto il profilo di una affidabile resa lavorativa, determinate da mancanza di diligenza e impegno professionale.
Da qui il ricorso in sede di legittimità del dipendente, il quale, tra gli altri motivi, si doleva che i giudici di merito avessero posto a fondamento del licenziamento disciplinare il mancato o erroneo espletamento di una mansione che, in realtà, non gli era stata attribuita.
A suo dire, infatti, la redazione e revisione del piano finanziario aziendale aveva costituito una mansione nuova, la cui corretta esecuzione non poteva quindi essere posta a base del licenziamento disciplinare.
Motivo, questo, respinto dalla Suprema corte nella sentenza n. 13625 del 2 luglio 2020: tale doglianza – veicolata per il tramite dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. – costituiva, in realtà, una censura fattuale che mirava ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad un’inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado e, come tale, non poteva trovare accoglimento.


Notifiche digitali per la Pubblica Amministrazione

Inizia a prendere forma una nuova possibilità di notifica di atti della pubblica amministrazione. Dopo le basi poste dai commi 402 e 403, art. 1,L. 160/2019, con i quali è stato dato incarico alle società PagoP.a. e Sogei di realizzare la struttura informatica (oltre a stanziare i fondi necessari), il legislatore, con l’art. 26 del dl n. 76 del 16/07/2020 ha fornito le prime indicazioni sul funzionamento di una «piattaforma per la notificazione digitale degli atti della pubblica amministrazione».

Con lo stesso decreto, all’art. 24, viene inoltre disposta la proroga dell’obbligo di utilizzo dei pagamenti PagoP.a. dal 30/06/2020 al 28/02/2021 e vengono fornite le regole per l’accesso ai servizi digitali della p.a., disponendo che per usufruirne dovranno essere utilizzati i sistemi Spid e Cie, oltre all’App IO. Le medesime modalità di identificazione sono richieste per accedere alla nuova piattaforma ili cui all’alt. 26, da utilizzare per la notifica di atti, provvedimenti, avvisi e comunicazioni della p.a., compresi gli atti per i quali non è previsto obbligo di notifica, ma escluse le notificazioni del processo (tributario compreso) e delle procedure ili espropriazione forzata.

Per quanto attiene a formazione, trasmissione, copia, duplicazione, riproduzione e validazione temporale dei documenti informatici si rimanda alle regole del Cad (dlgs 82/2005). Importante è la precisazione che l’utilizzo di tale piattaforma è facoltativo e che rappresenta una modalità alternativa alle procedure di notifica previste dalle norme vigenti, comprese quelle tributarie. Esaminando i dettagli di funzionamento della piattaforma, si parte dagli obblighi del gestore della struttura, tenuto ad assicurare la disponibilità degli atti al destinatario e a inviare allo stesso un avviso col quale si rende nota l’esistenza di un atto a lui destinato, l’identificativo univoco della notificazione (lun) e le modalità di accesso alla piattaforma per l’acquisizione del documento. L’indirizzo di recapito per tale avviso viene attinto dagli elenchi Ini-pec, Ipa e dall’indice nazionale dei domicili digitali di persone fisiche, professionisti e altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi, elenchi o registri professionali o nel registro delle imprese, nonché dai domicili eletti per determinati atti/affari o per la ricezione di notifiche della p.a.

Il perfezionamento della notifica avviene, per l’Amministrazione, nella data in cui il documento informatico è reso disponibile sulla piattaforma, mentre, per il destinatario, il settimo giorno successivo alla data di consegna dell’avviso di avvenuta ricezione in formato elettronico, disciplinando altre si casi di mancato recapito e di invio in formato cartaceo.
Precisazione importante per gli enti notificanti riguarda la decadenza e la prescrizione:il decreto prevede che «la messa a disposizione ai fini della notificazione del documento informatico sulla piattaforma impedisce qualsiasi decadenza dell’amministrazione e interrompe il termine di prescrizione correlato alla notificazione dell’atto,provvedimento, avviso o comunicazione» . Tocca questo argomento anche il caso di eventuale malfunzionamento della piattaforma, che ne sospende i termini.

La procedura non è però ancora fruibile in quanto si attendono i decreti attuativi.

Leggi: DECRETO-LEGGE 16 luglio 2020, n. 76 – Art. 26

 


Il giudice tributario ripristina il concetto di contradditorio

L’omessa notifica dell’impugnazione a tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado non comporta l’inammissibilità dell’appello tempestivamente prodotto nei confronti dell’altra parte; al giudice tributario il compito di integrare il contraddittorio.

Lo ha stabilito la Corte Suprema di Cassazione con la sentenza n.17061/2020 del 13 agosto.

Con questa sentenza, la cassazione ha annullato, con rinvio, una sentenza emessa dalla Ctr della Campania che aveva ritenuto inammissibile l’appello proposto dal Concessionario alla riscossione che non aveva «provato» la notifica dell’appello anche nei confronti dell’Agenzia delle entrate. Alcune Commissioni tributarie di merito, ritengono che la violazione dell’articolo 53, secondo comma, del dlgs n. 546/92 determini un vizio insanabile del gravame.

Specificamente, che l’omesso invio dell’atto di appello ad alcuni resistenti comporti l’inesistenza del rapporto processuale. L’articolo 53 del dlgs n. 546/92, infatti, al secondo comma dispone che: il ricorso in appello è proposto nelle forme di cui all’art. 20, commi 1 e 2, nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado e deve essere depositato a norma dell’art. 22, commi 1, 2 e 3. A tal proposito, i giudici di Piazza Cavour hanno rilevato che, l’assenza di prova della notifica nei confronti di un litisconsorte necessario, quanto meno sotto il profilo processuale, è idonea a determinare la nullità della notificazione e, quindi, la mancata impugnazione della sentenza della Ctp nei suoi confronti, ma non già l’inammissibilità dell’appello tempestivamente introdotto con la regolare notificazione nei confronti dell’altro litisconsorte; la mancata impugnazione nei confronti di un litisconsorte, infatti, non determina l’inammissibilità del gravame, ma impone al giudice di disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso. Da considerare, infatti, che dallo stesso articolo 53 del dlgs n. 546/92 non si deduce che l’inosservanza di questa prescrizione sia sanzionata con la nullità, precisando altresì che
«Comunque, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., nessuna nullità può essere comminata se non espressamente prevista (…)» (Cassazione, sentenza 14423/2010).


E’ inesistente la ricevuta non firmata dall’Agente Postale

In tema di notifica a mezzo posta, la ricevuta di ritorno è l’unico documento idoneo a provare la consegna; se in questo documento manca la sottoscrizione dell’agente postale la notifica è inesistente. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17373/2020.

La vertenza riguarda il ricorso avverso un avviso di intimazione relativo a lrpef , Irap ed Iva dell’anno 2001. Impugnando l’atto, in realtà, il contribuente contestava una cartella di pagamento di cui sosteneva la mancata notificazione. Il ricorso, rigettato in primo grado, veniva accolto dalla Ctr della Puglia. Impugnando la decisione, il concessionario della riscossione palesava che la mancata sottoscrizione dell’agente postale non rendeva la notifica inesistente bensì nulla; eccepiva, pure, che la produzione di motivi nuovi in appello violava le disposizioni dell’articolo 57 del dlgs n. 546/92. I giudici della Corte Suprema di Cassazione ha rigettato il ricorso erariale e confermato la decisione del collegio regionale. «Dalla lettura degli atti processuali», osserva la Corte, «risulta che il concessionario della riscossione depositò la memoria di costituzione in giudizio di primo grado, con i relativi documenti, compresa la ricevuta di ritorno, addirittura successiva mente all’udienza di discussione».

Quindi il contribuente non venne posto in condizione di formulare motivi aggiunti entro i venti giorni prima dell’udienza di trattazione. Il primo atto utile per proporre motivi aggiunti rimane, quindi, l’appello presentato dal contribuente alla Commissione regionale. Relativamente alla mancanza di sottoscrizione da parte dell’ufficiale postale, la Cassazione ha detto che la notifica è «inesistente» e come non sia nemmeno utile richiamare l’orientamento delle sezioni unite della Corte che ha limitato i casi di inesistenza della notifica. Infatti, nel caso trattato, la mancanza di sottoscrizione della ricevuta di ritorno da parte dell’ufficiale postale non consente di attribuire la paternità dell’atto ad un «soggetto qualificato» impedendo di ricondurre il vizio nell’alveo della mera nullità.Respingendo il ricorso la cassazione ha condannato il concessionario alla riscossione al pagamento delle spese di lite quantificate in 4 mila euro oltre a spese generali del 15% e accessori di legge.


L’attività svolta in malattia ritarda la guarigione? Sì al licenziamento

Spesso accade che a seguito di un’indagine investigativa il datore di lavoro scopra che il dipendente durante il periodo di assenza per malattia o infortunio svolge altre attività (lavorative e non) o che nei giorni di permesso per assistere un familiare disabile si dedichi a svariate attività, ma non a quella di assistenza. In tali casi, come può intervenire l’azienda?
Vediamo nel dettaglio le regole che bisogna seguire per non incorrere in un licenziamento illegittimo.
Svolgimento di altre attività durante le assenze per malattia: quando è legittimo il licenziamento?
È piuttosto frequente che durante i periodi di assenza dal lavoro per malattia o infortunio il dipendente si dedichi ad altre attività.
Lo stato di malattia o di infortunio di per sé non comporta l’impossibilità assoluta di svolgere qualsiasi attività, ma occorre verificare in concreto l’effettiva condizione psico-fisica del lavoratore in rapporto alla mansione, nonché la compatibilità della condotta dallo stesso tenuta durante il periodo di malattia con il regolare percorso di guarigione che non deve risultare pregiudicato.
In altre parole, è legittimo procedere al licenziamento per giusta causa per violazione degli obblighi di diligenza e correttezza solo qualora l’attività svolta in costanza di malattia o di infortunio sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e idonea a pregiudicare la guarigione e il rientro in servizio del medesimo.
In casi del genere, infatti, il datore non solo è costretto a privarsi della presenza del dipendente malato o infortunato, ma rischia anche che il periodo di assenza venga prolungato dal comportamento sconsiderato e negligente del lavoratore che svolga attività incompatibili con lo stato di malattia.
Tale circostanza da sola è sufficiente a legittimare il licenziamento per giusta causa e non è necessario eventualmente dimostrare la simulazione della malattia da parte del lavoratore e, dunque, la falsità ideologica del certificato medico.
Si segnalano a tal riguardo alcuni casi in cui la Cassazione ha confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa:
• Il caso del dipendente affetto da “dermatite acuta alle mani” che nei giorni di assenza svolgeva altra attività presso il bar “…” nei giorni di assenza (Cass. 18245/2020);
• il caso del dipendente a cui erano stati prescritti cure e riposo a seguito di un infortunio e che nei giorni di assenza dal lavoro guidava automezzi e svolgeva attività di carico/scarico di cerchi in lega per autovetture (Cass. 7641/2019);
• il caso dell’autista di pullman, a cui era imposto l’uso del collare cervicale a seguito di un infortunio in itinere, che faceva il parcheggiatore in uno stabilimento balneare (Cass. 17514/2018);
• il caso del lavoratore operato al menisco che continuava a lavorare nei campi di sua proprietà (Cass. 17636/2017);
• il caso del dipendente con distorsione alla caviglia che aveva partecipato a due partite di calcetto in un torneo amatoriale (Cass. 10647/2017);
• il caso del dipendente affetto da lombalgia che nei giorni di assenza per malattia faceva il cameriere e cassiere in un ristorante (Cass. 3067/2016);
• il caso del dipendente che durante la convalescenza per una discopatia, che aveva reso necessari due interventi chirurgici, si era recato in azienda e aveva caricato sulla sua auto alcune bombole di gas molto pesanti (Cass. 13676/2016).
Panoramica su alcuni casi di illegittimità del licenziamento
Alla luce dei principi sopra esposti sono, invece, considerati dalla giurisprudenza tendenzialmente compatibili con lo stato di malattia o di infortunio spostamenti per acquisti e commissioni, purché riferibili ad esigenze ordinarie della vita quotidiana, e prestazioni di lavoro occasionali e limitate nel tempo.
In particolare, si segnala il caso di una dipendente di un supermercato licenziata perché durante il congedo per malattia riconosciuto a causa di una tendinopatia lavorava per qualche ora al giorno come cassiera nella pasticceria del marito. La Corte ha confermato l’illegittimità del licenziamento in considerazione del carattere sporadico delle prestazioni lavorative, come tali inidonee a peggiorare lo stato di salute della lavoratrice (Cass. 13270/2018).
Analogamente è stato dichiarato illegittimo il licenziamento di un autista di camion che durante il periodo di malattia per sindrome ansioso-depressiva lavorava nella tabaccheria della moglie. Una tale attività discontinua, occasionale, completamente diversa e meno pericolosa di quella per la quale il dipendente era stato messo a riposo non era tale da determinare un rischio per la ripresa del lavoro (Cass. 30417/2017).
Si segnala, infine, la pronuncia di illegittimità del licenziamento del dipendente che durante l’assenza per malattia dovuta a contusione della spalla e del polso aveva guidato la propria autovettura e svolto in un esercizio commerciale attività di moderata intensità. Le descritte attività non erano incompatibili con la malattia considerato che la sua mansione, che consisteva nel guidare un camion con obbligo di scarico delle merci, era di gran lunga più gravosa della semplice guida di un’auto o dell’attività di vendita all’interno di un negozio (Cass. 21667/2017).
Dunque, svolgere altre attività durante le assenze dal lavoro per malattia o infortunio non è di per sé vietato, ma è necessario verificare caso per caso se tali diverse attività siano di intensità e frequenza tali da pregiudicare la guarigione e il rapido rientro in servizio. Chiaramente, se il dipendente svolge attività tali da ritardare la guarigione e il rientro a lavoro, tiene una condotta negligente che è tale da ledere la fiducia del datore. Diversamente, se le condotte tenute durante le assenze non denotano negligenza e imprudenza del dipendente, non può ritenersi leso il vincolo fiduciario.
Indebito utilizzo dei permessi per l’assistenza dei familiari disabili: un caso emblematico di abuso del diritto
Accanto ai casi in cui il dipendente durante le assenze per malattia o infortunio svolge attività incompatibili con tali status, altrettanto frequenti sono i casi in cui il lavoratore si assenta dal lavoro per fruire dei permessi ex L. 104/92 senza svolgere però attività di assistenza del familiare disabile.
L’art. 33, comma 3, L. 104/1992 attribuisce al “lavoratore dipendente che assiste persona con handicap in situazione di gravità” il diritto di fruire di tre giorni di permesso mensile retribuito, coperto da contribuzione figurativa.
La funzione del permesso è, dunque, quella di garantire l’assistenza al familiare disabile che può essere prestata con modalità e forme diverse, anche attraverso lo svolgimento di incombenze amministrative, pratiche o di qualsiasi genere, purché nell’interesse del familiare assistito.
Non è assolutamente consentito utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio, infatti, comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, sacrificio giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore e dalla coscienza sociale come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro e assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e, dunque, si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto. Tale abuso non solo comporta una violazione dei doveri di fedeltà, diligenza, correttezza e buona fede che incombono sul dipendente, ma integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale.
Infatti, è innegabile il disvalore sociale della condotta del lavoratore che usufruisce, anche solo in parte, di permessi per l’assistenza a portatori di handicap al fine di soddisfare proprie esigenze personali. Egli, infatti, in tal modo scarica il costo di tali esigenze sulla intera collettività, in quanto i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi. Non solo. Il dipendente disonesto “costringe il datore ad organizzare diversamente il lavoro in azienda ad ogni permesso e i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa” (Cass. 23891/2018).
La nozione “ampia” di assistenza al disabile
Per poter meglio individuare i casi in cui l’uso dei permessi ex L. 104/92 sfoci nell’abuso del diritto, occorre chiarire anche cosa debba intendersi per assistenza al disabile.
La giurisprudenza ha elaborato una nozione ampia di assistenza che non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione ovvero semplice e materiale attività di accudimento dello stesso. L’assistenza comprende necessariamente anche lo svolgimento di incombenze pratiche di vario contenuto che il portatore di handicap non sia in condizione di compiere autonomamente.
In tale ottica, è stato dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa del dipendente che durante un giorno di fruizione di un permesso ex L. 104 era stato visto dagli investigatori incaricati dall’azienda mentre faceva dei prelievi al bancomat, andava a fare la spesa e incontrava un geometra per un problema di infiltrazioni nell’appartamento della madre disabile. Tutte le attività sopra descritte, pur non rientrando tra quelle di assistenza in senso stretto, erano finalizzate ad aiutare il familiare che, nelle condizioni in cui versava, non era assolutamente in grado di occuparsi di sé stesso e della casa (Cass. 23891/2018).
Analogamente è stato dichiarato illegittimo il licenziamento della lavoratrice che nelle giornate di permesso per assistere la madre disabile era stata vista uscire dall’abitazione della medesima per svolgere attività che erano comunque riconducibili in senso lato al concetto di assistenza: anche le commissioni svolte presso uffici e negozi, purché nell’interesse del familiare da accudire, costituiscono forme di assistenza a chi non è in grado di compierle autonomamente (Cass. 30676/2018).
Conclusioni
Come già ribadito non esistono “zone franche” se le condotte del dipendente ledono la fiducia dell’azienda e Furto di merce di modico valore: è legittimo il licenziamento per giusta causa, sono molteplici le condotte che possono ledere la fiducia del datore. Un dipendente che nei periodi in cui dovrebbe restare a riposo si dedica ad attività tali da danneggiare la propria salute e ritardare il rientro in servizio, è inaffidabile anche se non ha falsificato i certificati medici e anche se le altre attività svolte non sono in concorrenza con il datore. Analogamente, è inaffidabile il dipendente che abusa dei permessi ex L. 104/92 stante il disvalore sociale della condotta e il peso che tale comportamento fa ricadere sulla collettività e sull’organizzazione aziendale.


Indennità sostitutiva del pasto, importi esentasse

Le indennità corrisposte dal datore di lavoro nei casi in cui è impossibile la somministrazione di alimenti e bevande attraverso le card elettroniche, a causa della chiusura degli esercizi in lockdown da pandemia COVID-19 è esentasse. Tali importi, infatti, non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente.
A chiarirlo è l’AGENZIA DELLE ENTRATE – RISPOSTA N. 301 DEL 2 SETTEMBRE 2020.
Indennità sostitutiva del pasto, cosa dice la normativa fiscale?
L’Agenzia delle Entrate è stata interpellata da una società che, in sostituzione del servizio di mensa, erogava ai propri dipendenti 6 euro al giorno, utilizzabili per mezzo di un badge elettronico presso gli esercizi pubblici convenzionati.
Durante il periodo di blocco delle attività imposto dalle misure anti-epidemiche, per i dipendenti dell’ente non è stato possibile utilizzare il proprio badge elettronico a causa della chiusura dei locali convenzionati. A questo punto, il datore di lavoro intende erogare un’indennità sostitutiva, nella misura di 5,29 euro al giorno.
Qual è il trattamento fiscale applicabile a tale indennità sostitutiva?
Sul punto, l’Agenzia delle Entrate ricorda che l’art. 51 del TUIR, alla lettera c) del co. 2, prevede che non concorrono a formare reddito da lavoro dipendente:
• le somministrazioni di vitto da parte del datore di lavoro, anche se avvengono per mezzo di mense gestite da terzi;
• le prestazioni sostitutive delle somministrazioni di vitto fino all’importo complessivo giornaliero di euro 4, aumentato a euro 8 nel caso in cui siano rese in forma elettronica;
• le indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte ai lavoratori dei cantieri edili o di altre strutture temporanee o ubicate in zone dove mancano strutture o servizi di ristorazione, fino all’importo di 5,29 euro.
Indennità sostitutiva del pasto, quando è esentasse?
Affinché l’indennità sostitutiva del pasto possa essere considerata esentasse, è necessario che concorrono contemporaneamente le seguenti condizioni:
• l’orario di lavoro comporti la pausa per il pasto;
• i lavoratori siano addetti stabilmente a una unità produttiva, intesa come sede di lavoro;
• l’ubicazione della sede non consente, nel periodo previsto per la pausa, di recarsi senza l’uso di mezzi di trasporto al più vicino luogo di ristorazione per l’utilizzo di buoni pasto.
Indennità sostitutiva del pasto, parere dell’Agenzia delle Entrate
Infine, specifica l’INPS, l’indennità sostitutiva erogata dall’ente ai dipendenti impossibilitati all’uso del badge a seguito dell’emergenza epidemiologica, è riconducibile alle indennità sostitutive delle somministrazioni di vitto corrisposte agli addetti di unità produttive ubicate in zone dove manchino strutture o servizi di ristorazione.
Le somme erogate, quindi, non concorrono alla formazione del reddito da lavoro dipendente.

Leggi anche: PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA – DECRETO N. 917 DEL 22 DICEMBRE 1986 (Tuir aggiornato al 05-02-2020)