Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 19/06/2014) 23/10/2014, n. 22510

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 29571/2008 proposto da:

A.A. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 34, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO PETRUCCI, rappresentato e difeso dall’avvocato PARACCIANI Enrico giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

VIVAI DELLA MOLINOLA DI PIERA’ SERINALDI SNC (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 515/2008 del TRIBUNALE di L’AQUILA, depositata il 21/10/2008 R.G.N. 1011/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/06/2014 dal Consigliere Dott. LINA RUBINO;

udito l’Avvocato FRANCESCO PETRUCCI per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo
A.A. intimava alla società Vivai della Molinella di Pierà Serinaldi s.n.c. precetto di pagamento di Euro 16.610,02, fondato sul Decreto Ingiuntivo n. 95 del 2004, del Tribunale di Fermo, definitivamente esecutivo, oltre interessi moratori e accessori.

La società proponeva opposizione, lamentando che il precetto non contenesse la trascrizione integrale del titolo esecutivo e che esso riportasse illegittimamente anche l’intimazione a pagare spese, interessi ed onorari di un precedente atto di precetto, divenuto inefficace ex art. 481 c.p.c. e spese generali non dovute.

Il Tribunale dell’Aquila, con sentenza n. 515/2008 depositata il 21.10.2008 e notificata il 6.11.2008, accoglieva l’opposizione e dichiarava la nullità del precetto per mancata indicazione della data di notificazione del titolo esecutivo, condannando l’ A. al pagamento delle spese di lite.

A.A. propone ricorso per la cassazione della predetta sentenza articolato in tre motivi.

L’intimata non ha svolto attività difensiva.

Il ricorrente non ha depositato memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 617 c.p.c.; evidenzia che l’opposizione a precetto proposta dalla società Vivai La Molinella è stata esattamente qualificata dal giudice adito come opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 c.p.c. e che pertanto la stessa avrebbe dovuto esser ritenuta tardiva, in quanto il precetto era stato notificato il 16.6.2005 e l’opposizione soltanto il 22.6.2005 (pertanto oltre il termine di cinque giorni pro tempore vigente). Sostiene che al fine del perfezionamento della notifica dell’atto di precetto – e quindi ai fini della decorrenza del termine per proporre opposizione – effettuata con le modalità previste dall’art. 140 c.p.c. – occorreva aver riguardo al completamento delle predette formalità da parte dell’ufficiale giudiziario incaricato (esecuzione del deposito presso la casa comunale, affissione dell’avviso del deposito alla porta dell’abitazione del destinatario e spedizione della raccomandata contenente l’avviso) e non al ricevimento della raccomandata contenente l’avviso di cui all’art. 140 c.p.c., da parte del destinatario, come ha ritenuto il giudice di merito, traendone la conclusione che, essendo stato ricevuta la raccomandata il 17 giugno 2005, l’opposizione agli atti esecutivi depositata il 22.6.2005 dovesse ritenersi tempestiva.

Sottopone alla Corte il seguente quesito: “Ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 140 c.p.c., la notificazione si perfeziona solo al momento del ricevimento da parte del destinatario dell’atto contenente l’avviso prescritto dall’art. 140 c.p.c.?”.

Il quesito di diritto, per come è formulato, è totalmente astratto dalla fattispecie concreta ed è pertanto inammissibile. Esso non contiene infatti alcun elemento di raccordo con la fattispecie sottoposta all’esame della Corte ma propone una formulazione di carattere generale e astratto, priva di qualunque indicazione sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente, non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo (v. Cass. S.U. n. 6420 del 2008).

Esso inoltre, così come è formulato non è idoneo a sindacare efficacemente la sentenza di merito che, molto sinteticamente, sul punto indicato dice soltanto: “Tale vizio non è stato fatto valere tardivamente, essendo stato il precetto notificato il 17.6.2005 (non v’è prova che sia stato notificato prima; il 16 è avvenuto il deposito presso la casa comunale) e l’opposizione il 22.6.2005”.

Nella sentenza non c’è alcun riferimento espresso alla data in cui sarebbe stata effettuata la spedizione della raccomandata nè c’è una opzione in favore della ricezione piuttosto che alla spedizione della raccomandata contenente l’avviso di notifica del precetto come momento di perfezionamento della notifica stessa. Il giudice di merito quindi non prende alcuna posizione e non affronta neppure ex professo la questione giuridica posta dal ricorrente.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 479, 480 e 654 c.p.c., anche in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto l’opponente avrebbe denunciato che nel precetto mancasse la trascrizione integrale del provvedimento che disponeva l’esecutorietà del decreto ingiuntivo, mentre il Tribunale dell’Aquila aveva dichiarato la nullità del precetto perchè non recante l’indicazione della data della notifica del titolo esecutivo.

Quindi, in primo luogo, sembrerebbe che egli denunci una mancata corrispondenza tra chiesto e pronunciato piuttosto che una violazione di legge, senza alcun formale riferimento alla violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Il ricorrente riporta a sostegno della sua tesi vari precedenti di legittimità che affermano, in conformità con l’art. 654 c.p.c., che se il titolo esecutivo è costituito da un decreto ingiuntivo non è necessaria una sua seconda notifica per metterlo in esecuzione (purchè l’atto di precetto rechi alcune indicazioni essenziali) e poi chiede alla Corte se: “Ai fini dell’esecuzione, in caso di notifica di atto di precetto fondato su decreto ingiuntivo definitivamente esecutivo, nell’atto di precetto si deve indicare la data della notificazione del titolo esecutivo e/o si deve trascrivere il provvedimento che ha disposto l’esecutorietà del decreto ingiuntivo”.

Con il terzo motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3 e art. 480 c.p.c., anche in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3 e sostiene che l’opposizione non poteva essere accolta nè poteva esser dichiarata la nullità del precetto avendo esso raggiunto il suo scopo, che era quello di assegnare al debitore un termine per adempiere l’obbligo risultante dal titolo e scongiurare l’esecuzione ovvero di preannunciare il prossimo inizio dell’azione esecutiva in caso di mancato adempimento. Sostiene inoltre che il precetto conteneva tutti gli elementi idonei a consentire al debitore l’esatta identificazione del titolo posto in esecuzione, come risultava poi anche dal contesto dell’opposizione.

Entrambi i motivi, che possono essere trattati congiuntamente perchè relativi ad una stessa questione, sono infondati.

L’art. 654 c.p.c., consente effettivamente, nel caso che il precetto si riferisca ad un decreto ingiuntivo, di fare a meno di una nuova notificazione del medesimo, essendo sufficiente che nel precetto si indichino le parti e la data della notifica dell’ingiunzione e si menzioni il provvedimento che ha disposto l’esecutorietà e l’apposizione della formula esecutiva, il tutto per semplificare e velocizzare l’inizio del procedimento esecutivo, evitando una inutile duplicazione della notifica del titolo – già necessariamente avvenuta in precedenza ai fini della decorrenza del termine per la proposizione dell’opposizione – ed integrandola se il titolo al momento della notifica non era ancora munito di esecutività (Cass. n. 12731 del 2007).

A fronte di questa esenzione dall’onere di effettuare una seconda notificazione dello stesso titolo esecutivo, l’indicazione sul precetto della data della notifica del titolo, prevista in ogni caso a pena di nullità dall’art. 480 c.p.c., comma 2, acquista particolare valenza al fine della completa identificazione del titolo in quanto tiene luogo della notificazione del titolo esecutivo stesso. Se essa, come nel caso di specie, non è riportata, si produce una nullità che non può ritenersi sanata per il raggiungimento dello scopo a mezzo della semplice proposizione della opposizione agli atti esecutivi, in quanto equivalente alla nullità del precetto non preceduto dalla notificazione del titolo esecutivo.

A questo proposito, la Corte ha già avuto modo di affermare, infatti, che non è sanabile per raggiungimento dello scopo la nullità del precetto conseguente all’omissione della notificazione del titolo esecutivo a mezzo della proposizione di opposizione: e ciò sia quando venga proposta opposizione ex art. 617 c.p.c., per far valere il vizio della mancata osservanza dell’art. 479 c.p.c., comma 1; sia quando, unitamente a quest’ultima, vengano proposti motivi di opposizione ex art. 615 c.p.c. (in questo senso Cass. 23894/2012).

Il ricorso va pertanto rigettato.

Nulla sulle spese, in difetto di costituzione dell’intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, il 19 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2014


Cons. Stato, Sez. IV, Sent., (data ud. 17/06/2014) 13/10/2014, n. 5046

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 6109 del 2013, proposto da:

Ba Service Spa, in persona del rappresentante legale, rappresentato e difeso dagli avv.ti Stefano Zironi, Giorgio Borelli, Valentino Capece Minutolo, con domicilio eletto presso Valentino Capece Minutolo in Roma, via dei Pontefici N. 3;

contro

A.D., rappresentato e difeso dagli avv.ti Giovan Ludovico Della Fontana, Guglielmo Della Fontana, con domicilio eletto presso Giuseppe Placidi in Roma, via Cosseria, 2;

Comune di Modena, in persona del Sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dagli avv.ti Vincenzo Villani, Adriano Giuffre’, con domicilio eletto presso Adriano Giuffrè in Roma, via De Gracchi N.39;

Regione Emilia Romagna;

sul ricorso numero di registro generale 6350 del 2013, proposto da:

Comune di Modena, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dagli avv.ti Vincenzo Villani, Adriano Giuffre’, con domicilio eletto presso Adriano Giuffre’ in Roma, via dei Gracchi N. 39;

contro

A.D. ed altri., rappresentati e difesi dagli avv.ti Guglielmo Della Fontana, Giovan Ludovico Della Fontana, con domicilio eletto presso A. Placidi in Roma, via Cosseria, 2;

nei confronti di

Regione Emilia Romagna;

Ba Service S.p.A., in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dagli avv. Valentino Capece Minutolo, Giorgio Borelli, Stefano Zironi, con domicilio eletto presso Valentino Capece Minutolo in Roma, via dei Pontefici 3;

entrambi per la riforma

quanto al ricorso n. 6109 del 2013:

della sentenza del T.A.R. Emilia-Romagna – Bologna: Sezione I n. 00342/2013, resa tra le parti, concernente adozione ed approvazione nuovo PRG del Comune di Modena;

Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di A.D., del Comune di Modena, di A.D. e di A.D. e di G.D. e di A.M.V. e di M.P. e di Ba Service S.p.A.;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 17 giugno 2014 il Cons. Umberto Realfonzo e uditi per le parti gli avvocati Borelli, Zironi, Della Fontana, Francesca Giuffrè, per delega dell’Avv. Adriano Giuffrè;

Svolgimento del processo
Si deve premettere che, su ricorso dei vicini confinanti (odierni controinteressati), il TAR Bologna con una precedenza sentenza n. 298 del lontano 1990 aveva annullato:

— la delibera consiliare n. 807 in data 16 luglio 1987 con cui il Comune di Modena aveva approvato una variante urbanistica al PRG;

— la concessione edilizia n. 617/88 in data 1 aprile 1988 assentita alla Fiorano Due S.p.A. per la costruzione di un edificio ad uso garage con annessa attività commerciale in viale Trento e Trieste n. 31.

Con i separati appelli di cui in epigrafe, rispettivamente la Soc. BA Service S.p.a. ed il Comune di Modena, impugnano la successiva sentenza n. 342/2013 con cui è stato accolto in parte il ricorso e, assorbite le censure dirette avverso l’adozione e l’approvazione del nuovo PRG del Comune di Modena (di cui rispettivamente alla Delib. n. 310 in data 3 marzo 1989 del Consiglio comunale di Modena ed alla Delib. n. 5353 in data 26 novembre 1991 della Giunta Regionale dell’Emilia-Romagna) è stato annullato il provvedimento prot. gen. n. 28176/93 del 18 novembre 1994 con cui il Comune ha disposto il rinnovo della concessione edilizia già annullata nel 1990, per la violazione dei limiti volumetrici di cui all’art. 7 del D.M. n. 1444 del 1968 per le Zone B).

Con il primo appello n. 6109/2013 la BA Service spa chiede l’annullamento di quest’ultima sentenza deducendo il difetto di contraddittorio, in violazione degli articoli 27 e 41 del c.p.a. per la mancata evocazione in giudizio della medesima società (nonostante il fatto che questa che avesse acquistato gli immobili 6 anni dopo il provvedimento di rinnovo del 1994); e per la mancata interruzione del processo dopo lo scioglimento della Fiorano Due S.p.A., in violazione dell’art. 49 c.p.a. e dell’articolo 300 c.p.c. .

Il Comune di Modena, con l’appello n. 6350/2013, chiede l’annullamento della medesima decisione deducendo:

— in linea preliminare: la tardività del ricorso di primo grado; l’inammissibilità per omessa notifica alla controinteressata Fiorano Due spa; la mancata dichiarazione dell’interruzione del processo fin dal 1 febbraio 2006 conseguente alla dichiarazione di estinzione che sarebbe stata dimostrata in giudizio con il deposito del bilancio finale di liquidazione;

– nel merito: l’errata applicazione dell’articolo 7 del D.M. n. 1444 del 1968 il quale non si applicherebbe ad un’opera di urbanizzazione non frazionabile, ad uso “a pubblico parcheggio” ai sensi dell’articolo 81 delle NTA, localizzata dal PRG del 1991 all’interno della “zona elementare n. 443” proprio per sopperire alla carenza di standard di parcheggi delle zone A e B.

In entrambi i giudizi si è costituita la controinteressata D. la quale, in linea preliminare ha eccepito specifici profili di inammissibilità dei due gravami per l’inesistenza e/o la nullità delle notifiche; nel merito ha confutato le censure degli appellanti insistendo per il rigetto.

Sul ricorso n. 6109 si è costituito in giudizio ad adjuvandum il Comune di Modena chiedendo in linea preliminare la riunione per connessione con il proprio gravame e nel merito l’accoglimento del ricorso.

Analogamente la BA Service si è costituita ad adjuvandum sul ricorso 6350.

Con le ulteriori memorie per la discussione e le relative repliche e controrepliche le parti, sui due diversi gravami hanno confutato le contrapposte eccezioni ed hanno sottolineato le proprie argomentazioni.

Con le ordinanze n. 288 e 289 del 2014, la Sezione ha respinto la richiesta di sospensione cautelare della decisione su entrambi due appelli.

Chiamata all’udienza pubblica, uditi i patrocinatori delle parti, la causa è stata ritenuta in decisione.

Motivi della decisione
_ 1. Ai sensi dell’art. 70 del c.p.a. deve disporsi la riunione degli appelli di cui in epigrafe, essendo evidente la connessione oggettiva e soggettiva di entrambi i gravami.

Nell’ordine logico delle questioni deve essere esaminata preliminarmente le due analoghe eccezioni di inammissibilità di entrambi i gravami per difetto di notifica sollevata dalla Difesa di D.A.;

_ 2. Per quanto concerne l’appello della BA Service n.6109, secondo la controinteressata vi sarebbe la nullità della notifica dell’appello sotto tre profili. L’art. 44 c.p.a. prevederebbe la nullità del ricorso se non vengono rispettate le formalità di cui all’articolo 40 c.p.a. in base al quale il ricorso deve contenere distintamente gli elementi identificativi del ricorrente, del suo difensore e delle parti nei cui confronti il ricorso è proposto.

Nel caso, la notifica effettuata a “D.A. + altri” lascerebbe nell’incertezza assoluta la reale identità dei destinatari nei cui confronti l’appello è proposto, in quanto:

_ I. mentre dalle relate di notifica in calce all’atto di appello risulterebbe che le notifiche sono state effettuate ai sensi della L. n. 53 del 1994 dal difensore della B.A. Service, il predetto atto non risulta spedito utilizzando le speciali singole buste previste dall’art. 2 L. n. 53 cit., ma in un unico plico, che risulta inviato dall’Ufficio Unico – Ufficiali Giudiziari presso il Tribunale di Modena, sul quale, oltre a ciò, non sarebbe stata apposta la sua sottoscrizione e la menzione dell’autorizzazione del Consiglio dell’ordine;

_ II. la notifica effettuata a “D.A. + altri” sarebbe inesistente e o comunque nulla in quanto non risulterebbe specificamente indirizzata ai domiciliatari avv.ti Guglielmo e Ludovico della Fontana, come sarebbe richiesto dall’articolo 330 c.p.c. a norma del quale la notificazione deve essere effettuata ai sensi dell’articolo 170 c.p.c. al difensore costituito nel domicilio eletto;

_ III. analogamente l’altra notifica effettuata a “D.A. + altri” effettuata al domicilio eletto in 1^ grado presso la Segreteria del T.A.R. sarebbe inesistente perché la busta non risulta intestata ai difensori.

Inoltre, la costituzione in giudizio del presente grado della signora A.D. non varrebbe a sanare la nullità della notifica in quanto sarebbe da tempo già scaduto il termine di impugnazione della sentenza decorrente dalla notifica del 22 maggio 2013.

_ 2. Con il medesimo ordine di considerazioni la controinteressata D. eccepisce in linea pregiudiziale la nullità dell’appello del Comune di Modena n.6350 che sarebbe stato notificato a mezzo posta mediante una busta indirizzata direttamente ai signori D., V. e P. nel loro domicilio eletto in primo grado presso la segreteria del Tar di Bologna e non indirizzata ai loro difensori costituiti, come richiesto dall’articolo 330 c.p.c. ai sensi della quale notificazione deve essere effettuata ex 170 c.p.c. al difensore costituito.

_ 3. Entrambe le eccezioni meritano adesione nei sensi che seguono.

In linea generale, ai sensi dell’art. 44, IV co. c.p.a. si configura la nullità sanabile — e non l’inesistenza — della notifica dell’appello solo quando la stessa non è andata buon fine per fatti non addebitabili al notificante (cfr.: Consiglio di Stato sez. VI 24/11/2011 n. 6207; Consiglio di Stato sez. V 12/02/2013 n.816; Cassazione civile sez. I 04/06/2014 n. 12539), la sanabilità è esclusa ove la nullità sia riconducibile a causa imputabile al notificante (Corte Cost. n. 18/2014).

Al contrario la notifica deve ritenersi “inesistente” quando manchi il collegamento fra il destinatario dell’atto e il luogo o la persona, irregolarmente indicati sul plico dell’atto come destinatari della notifica stessa (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI 18/04/2012 n. 2211).

Nelle fattispecie in esame le notifiche di entrambi gli appelli devono ritenersi inesistenti o, quantomeno, (ma le conclusioni non mutano) affette da radicale nullità per cause imputabili al notificante.

Quanto al primo appello n.6109/2014 l’appello avrebbe dovuto essere notificato ai sensi dell’art. 93, I co. del c.p.a., “…nel domicilio eletto per il giudizio e risultante dalla sentenza”.

Tuttavia, come risulta dalle copie delle buste, dall’estratto delle notificazioni e dalle cartoline relative alla relativa relata (versate in atti in data 4.1.2014) la notifica è stata indirizzata unitariamente ai diversi controinteressati “D.A. + altri” in una busta unica per tutti gli “altri” controinteressati senza indicarne i nominativi, e, soprattutto, non risulta indirizzata all’avvocato che, nella sentenza risultava come domiciliatario.

In linea di principio, il Collegio ritiene che qualora il domicilio eletto in sentenza sia la Segreteria del Tar, la notifica debba necessariamente essere effettuata indirizzandola ai procuratori costituiti e non già alle parti del giudizio.

Facendo proprio in tal senso la ratio sostanziale posta a base dall’indirizzo della Cassazione ricordato dall’appellata (cfr. Cassazione 26 agosto 2013 n. 19556; 13 gennaio 2010 n. 384; 18 febbraio 2008 n. 3970), ritiene il Collegio che la notifica dell’appello indirizzata direttamente alla parte — qualora venga effettuata nella segreteria del giudice — si risolve in un espediente che impedisce, di fatto, alla parte cui la notifica dovrebbe essere diretta, di venire fisiologicamente a conoscenza dell’impugnativa della controparte.

Al riguardo infatti, non solo nessuna norma obbliga i privati ad effettuare continui accessi presso la segreteria del giudice al fine di verificare l’inesistenza di gravami relativi alle sentenze nelle quali sono risultati vittoriosi, ma, sopratutto, nella realtà delle cose, sono solo i difensori ed i loro incaricati, ad accedere normalmente agli uffici giudiziari per il ritiro degli atti di loro pertinenza e interesse e per i propri incombenti.

Pertanto la notifica fatta direttamente alla parte presso la segreteria del TAR è da ritenere inesistente in quanto, in tal caso, non sussiste nessuna astratta possibilità perché la parte stessa possa venire ordinariamente in possesso del plico.

Né come vorrebbe la BA Service sussisterebbe un differente regime normativo dell’appello (e delle relative sanzioni) per cui, ai sensi del 5º comma dell’articolo 95 c.p.a., non trattandosi di irricevibilità, inammissibilità, improcedibilità o infondatezza, il giudice avrebbe dovuto integrare il contraddittorio ai sensi del 2º comma del ricordato articolo, perché l’appello sarebbe stato ritualmente notificato ad almeno “una delle parti interessate a contraddire”, e cioè, al Comune di Modena, nei cui riguardi la notifica ritualmente effettuata sarebbe stata quindi idonea a incoare il processo di appello perché litisconsorte necessario.

Al contrario il Collegio osserva come la notifica al comune di Modena sia del tutto inidonea al corretto radicamento del giudizio d’appello.

L’art. 95 c.p.a. nell’indicare le parti cui l’impugnazione va notificata dispone al secondo comma che questa, a pena di inammissibilità, va notificata almeno ad una delle parti interessate a contraddire. Pertanto è evidente il riferimento ai contraddittori necessari, vale a dire ai portatori di un interesse sostanziale contrario a quello delle parti che notificano l’appello.

Al riguardo è dunque evidente, nel caso di specie, che l’Amministrazione Comunale non è assolutamente un controinteressato in senso sostanziale (ma un cointeressato all’appello) come dimostrano sia le sue conclusioni “ad adiuvandum” dell’appello della Società e sia la proposizione di un autonomo appello sostanzialmente coincidente con le ragioni della BA Service.

Pertanto non può aderirsi alla richiesta della BA Service S.p.A. di assegnare un termine perentorio per la notifica dell’appello alle parti non costituite.

L’appello infatti doveva essere imprescindibilmente notificato nei modi di legge alle uniche parti interessate a contraddire, vale a dire ad almeno uno dei ricorrenti vittoriosi di primo grado, e non certo al Comune di Modena che era risultato soccombente in quel giudizio.

Di conseguenza, in difetto di rituale intimazione ad almeno un controinteressato in appello non è possibile disporre l’integrazione del contraddittorio ex art. 95 terzo comma c.p.a..

Sotto altro profilo ha ragione la Difesa della controinteressata D. anche quando afferma che la nullità non poteva essere stata successivamente sanata con la costituzione solo dell’intimata, dato che questa era intervenuta dopo la scadenza del termine di impugnazione.

Al riguardo il Collegio osserva che, anche prescindendo dalla radicale inesistenza, l’articolo 44, comma 3 c.p.a., infatti, stabilisce bensì che “la costituzione degli intimati sana la nullità della notificazione del ricorso ma tuttavia fa anche “salvi i diritti quesiti anteriormente alla comparizione”.

Quest’ultima locuzione va interpretata, sul piano processuale, nel senso che l’effetto di sanatoria derivante dalla costituzione in giudizio della parte intimata non opera se sono scaduti i termini di costituzione, dato che comunque restano ferme le eventuali decadenze già maturate, in danno del notificante, prima della costituzione in giudizio del destinatario della notifica (cfr. Consiglio di Stato, sezione IIIª 29 agosto 2012 n. 4651). Se così non fosse, la salvaguardia dei diritti quesiti non avrebbe infatti alcuna ricaduta pratica.

In definitiva, sul ricorso della B.A. Service, deve concludersi che, essendo del tutto inesistente la notifica a “D.A. + altri” e non potendo qualificarsi come controinteressato il Comune di Modena, la mancata notificazione dell’impugnazione ad almeno una delle parti necessariamente interessate a contraddire comporta l’inammissibilità dell’impugnazione a norma del citato comma 2 dell’art. 95 cod. proc. amm..

Analogamente deve concludersi poi relativamente all’appello n. 6350 del Comune di Modena la cui notifica effettuata direttamente alle parti evidenzia analogamente modalità del tutto irrituali.

In proposito, contrariamente a quanto afferma l’appellante Amministrazione, di nessun rilievo è la specifica tra parentesi (“già rappresentate dall’Avv. Guglielmo Della Fontana e Lodovico Della Fontana” ) che era riportata sulla relata di notifica apposta in calce al medesimo atto di appello.

Tale inciso, infatti, restava comunque un’annotazione posta all’interno della busta inaccessibile ab externo. Contrariamente a quanto auspica il Comune di Modena, quello che rilevava ai fini dell’esistenza della notifica era il rispetto delle formalità concernenti il plico postale recapitato in Segreteria.

Né la notifica poteva ritenersi esistente perché uno degli addetti della Segreteria del TAR aveva spontaneamente ritenuto di aprire il plico postale e, una volta verificato chi era l’avvocato difensore in prime cure, aveva ritenuto autonomamente di dover aggiungere l’annotazione del relativo nominativo sull’esterno del medesimo plico notificato.

Tale procedura extra ordinem infatti costituisce un elemento successivo alla notifica medesima, di carattere del tutto eventuale e comunque irrilevante in quanto integrazione postuma fatta da un terzo estraneo senza alcun potere o obbligo al riguardo. L’esistenza della notifica non può infatti assolutamente dipendere da un fattore casuale del tutto estraneo alla notificazione medesima.

In sostanza non vi sono dubbi dell’inesistenza della notifica dell’appello del Comune di Modena, in quanto l’unico plico — indirizzato cumulativamente e direttamente solo ai cinque i ricorrenti vittoriosi in primo grado e non ai loro difensori — era stato depositato presso la Segreteria del Tribunale come risulta anche dal prescritto registro delle notificazioni effettuate presso il TAR e dalla copia della busta (versate in atti il 14.1.2014).

Per tutti gli altri profili si rinvia alle precedenti ed analoghe considerazioni che precedono.

Pertanto deve concludersi che, essendo del tutto inesistente la notifica a “D.A. + altri” anche l’appello del Comune di Modena deve essere dichiarato inammissibile.

_ 4. In conclusione l’inesistenza delle notifiche nei sensi di cui sopra implica che entrambi gli appelli debbano essere dichiarati inammissibili a norma del comma 2 dell’art. 95 cod. proc. amm..

Resta assorbito ogni altro motivo od eccezione.

Le spese per entrambi i gravami seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando:

_ 1. Dispone, ai sensi dell’art. 70 del c.p.a. la riunione dei gravami di cui in epigrafe;

_ 2. Dichiara inammissibili entrambi gli appelli nei sensi di cui in motivazione;

_ 3. Condanna la BA Service al pagamento delle spese di giudizio relative all’appello n. 6109/2013 in favore di D.A. che vengono liquidate in Euro 3.000,00 oltre all’IVA e CPA;

_ 4. Condanna il Comune di Modena al pagamento delle spese di giudizio relative all’appello n. 6109/2013 in favore di D.A. che vengono liquidate in Euro 3.000,00 oltre all’IVA e CPA.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 17 giugno 2014 con l’intervento dei magistrati:

Riccardo Virgilio, Presidente

Fabio Taormina, Consigliere

Raffaele Potenza, Consigliere

Andrea Migliozzi, Consigliere

Umberto Realfonzo, Consigliere, Estensore


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 04/06/2014) 19/09/2014, n. 19738

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente –

Dott. VIVALDI Roberta – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 21399-2008 proposto da:

P.R. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA DELLA LIBERTA’ 20, presso lo studio dell’avvocato DE MARCO ADA, rappresentato e difeso dall’avvocato ARIGLIANI PIERLUIGI giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

SGA S.P.A. (OMISSIS) Società per la Gestione di Attività – in persona del suo Amministratore Delegato e legale rappresentante Avv. V.M. in questo atto rappresentato dal Dott. RAPALLINO LUCA MATTEO – in qualità di Cessionaria dei crediti in blocco della ISV.E.I.MER. S.P.A. in liquidazione, tra i quali quello nei confronti di OFFICINE MECCANICHE SANNITE S.R.L. – Benevento, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIANNA DIONIGI 57, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIA DE CURTIS, rappresentata e difesa dall’avvocato PAGLIA Antonino giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 893/2008 del TRIBUNALE di BENEVENTO, depositata il 27/05/2008, R.G.N. 2817/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/06/2014 dal Consigliere Dott. ROBERTA VIVALDI;

udito l’Avvocato ANTONIO PAGLIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
P.R. propose opposizione avverso il precetto notificatogli il 7.10.2003 dalla S.G.A. spa, quale cessionaria di un credito Isveimer, con il quale gli era stato intimato il pagamento della somma di Euro 21.865,77.

La convenuta contestò il fondamento dell’opposizione.

Il tribunale, con sentenza del 27.5.2008, accolse l’opposizione limitatamente alla rideterminazione del tasso d’interesse.

P.R. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi.

Resiste con controricorso la S.G.A. spa..

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione norme di diritto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: error in iudicando – falsa applicazione dell’art. 2945 c.c. intervenuta prescrizione del credito.

Il motivo non è fondato.

E’ principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che la domanda di ammissione al passivo fallimentare attua l’interruzione permanente della prescrizione fino alla data del provvedimento di chiusura del processo esecutivo concorsuale e tale effetto si produce anche nei confronti dei coobbligati solidali del fallito, ai sensi dell’art. 1310 c.c., comma 1 (Cass. 8.4.1992 n. 4304 e successive conformi).

L’interruzione della prescrizione, nel caso in esame, si è realizzata a seguito della domanda di ammissione al passivo della cooobbligata O.M. Officine Meccaniche Sannite srl da parte dell’Isveimer valendo, quindi, anche nei confronti dei condebitori solidali e, quindi, ai sensi dell’art. 1957 c.c., anche nei confronti del fideiussore.

Con il secondo motivo si denuncia violazione norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3: error in iudicando – falsa applicazione dell’art. 1310 c.c.. Il motivo non è fondato.

La disciplina dell’art. 1310 c.c., comma 2, sull’estensibilità dell’interruzione della prescrizione agli altri condebitori solidali, va completata con la disciplina degli effetti della durata dell’interruzione contenuta nell’art. 2945 cod. civ., con la conseguenza che l’azione giudiziaria e la pendenza del relativo processo determinano l’interruzione permanente della prescrizione anche nei confronti del condebitore rimasto estraneo al giudizio (da ultimo Cass. 21.1.2011 n. 1406).

Inoltre, poichè il precetto è atto non diretto alla instaurazione di un giudizio, nè del processo esecutivo, interrompe la prescrizione senza effetti permanenti, ed il carattere solo istantaneo dell’efficacia interruttiva sussiste anche nel caso in cui, dopo la sua notificazione, l’intimato abbia proposto opposizione.

Ma, se il creditore opposto si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto di procedere all’esecuzione (ed in tale categoria va compresa certamente anche la mera richiesta di rigetto dell’opposizione) compie un’attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dall’art. 2943 cod. civ., comma 2 sicchè, ai sensi dell’art. 2945 cod. civ., comma 2 la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio (Cass. 29.3.2007 n. 7737; v. anche Cass. 29.5.2013 n. 13438).

Ora, nel caso in esame, nell’ambito dell’azione proposta da due dei condebitori I. ed Officine Meccaniche Sannite srl (di cui alla sentenza n. 272/96), la SGA (cessionaria del credito Isveimer) assunse una posizione attiva, in ordine alla quale il tribunale – pur riducendo l’efficacia del precetto opposto – riconobbe l’esistenza del credito vantato. Con il terzo motivo si denuncia violazione norme di diritto ex art. 360, comma 1, n. 3: error in iudicando – violazione del combinato disposto dell’art. 479 e dell’art. 480, comma 2 – omessa notifica titolo esecutivo. Il motivo non è fondato.

Invero, la sentenza impugnata sul punto, da atto che ” Per quanto concerne, invece, la contestata notifica del titolo esecutivo, deve rilevarsi come questo sia costituito dall’allegato contratto di mutuo per notar De Napoli del 27.02.1980 n. 8537/983, seguito dall’atto di quietanza a saldo del 30.04.1982, restando in conferenti le sollevate eccezioni riguardanti la mancanza del timbro di congiuntura e di quello attestante la conformità”.

Ora, in tema di esecuzione forzata, il riconoscimento della qualità di titolo esecutivo all’atto ricevuto da notaio, relativamente all’obbligazione di somma di denaro generata dal negozio nello stesso documentato, presuppone che esso contenga l’indicazione degli elementi strutturali essenziali dell’obbligazione, indispensabili per la funzione esecutiva, e non dipende dalla particolare efficacia probatoria dell’atto, ma dalla pubblica fede che il notaio vi attribuisce (Cass. 19.7.2005 n. 15219).

Elementi tutti ricorrenti nella specie senza che alcuna influenza acquisti la mancanza del timbro di congiuntura al quale alcun rilievo riconosce la normativa in materia.

Nè il precedente indicato dal ricorrente (Cass. n. 4738/1992) è predicabile nel caso in esame, posto che si tratta di fattispecie del tutto diversa in cui la copia del titolo esecutivo era stata rilasciata da notaio diverso da quello che aveva rogato l’atto.

Conclusivamente, il ricorso è rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e, liquidate come in dispositivo, sono poste a carico del ricorrente.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese che liquida in complessivi Euro 4.200,00, di cui Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese generali ed accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di cassazione, il 4 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2014


Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 02-07-2014) 19-09-2014, n. 19834

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – rel. Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. BARRECA Giuseppina Luciana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 13169-2012 proposto da:

M.R.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 2/A, presso lo studio dell’avvocato VULPETTI VALENTINO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SAVIA ORAZIO SALVATORE, giusta procura speciale apposta sul retro della prima pagina del ricorso;

– ricorrente –

contro

H.D.I. ASSICURAZIONI SPA in persona del procuratore speciale e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO POMA 4, presso lo studio dell’avvocato GELLI PAOLO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

A.S., D.V.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1089/2011 della CORTE DAPPELLO di NAPOLI del 22.3.2011, depositata il 05/04/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/07/2014 dal Consigliere Relatore Dott. ADELAIDE AMENDOLA;

udito per la controricorrente l’Avvocato Enzo Giardiello (per delega avv. Paolo Gelli) che si riporta agli scritti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
E’ stata depositata in cancelleria la seguente relazione, regolarmente comunicata al P.G. e notificata ai difensori delle parti.

“Il relatore, cons. Adelaide Amendola esaminati gli atti, osserva:

1. Con citazione notificata il 21 aprile 2004 H.D.I. Assicurazioni s.p.a. convenne innanzi al Tribunale di Napoli M.R.A. chiedendo che venisse accertato che nessun indennizzo era dovuto alla convenuta, con conseguente declaratoria della inammissibilità e improponibilità della procedura dalla stessa instaurata a mezzo di richiesta di nomina di un medico con funzioni di arbitro.

Costituitasi in giudizio, M.R.A. chiese il rigetto delle avverse pretese, instando affinchè la controparte venisse condannata al pagamento delle spese di lite nonchè al risarcimento dei danni per responsabilità aggravata e per danno esistenziale.

2. Con sentenza del 25 settembre 2006 il giudice adito dichiarò cessata la materia del contendere e compensò integralmente tra le parti le spese di causa.

Proposto dalla M. gravame, la Corte d’appello, in data 5 aprile 2011, lo ha respinto.

Per la cassazione di detta pronuncia ricorre a questa Corte M. R.A., formulando un solo motivo.

Resiste con controricorso H.D.I. Assicurazioni s.p.a..

3. Il ricorso è soggetto, in ragione della data della sentenza impugnata, successiva al 4 luglio 2009, alla disciplina dettata dall’art. 360 bis, inserito dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. a). Esso può pertanto essere trattato in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 376, 380 bis e 375 cod. proc. civ. per esservi dichiarato inammissibile.

4. Nell’unico motivo l’impugnante lamenta violazione dell’art. 1965 cod. civ. nonchè vizi motivazionali, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Sostiene che erroneamente il giudice di merito avrebbe dichiarato cessata la materia del contendere, omettendo qualsivoglia pronuncia sulle domande riconvenzionali da essa svolte. Contesta segnatamente che nei verbali di causa fosse ravvisabile l’esplicitazione della intenzione di entrambe le parti di addivenire a un’unica, complessiva transazione.

5. Osserva preliminarmente il relatore che non è fondata l’eccezione di inesistenza della notifica del ricorso, proposta dalla resistente.

Essa è radicata sul rilievo che l’istanza che ha dato avvio al procedimento notificatorio risulta presentata dal difensore all’UNEP di Milano, che avrebbe quindi dovuto provvedervi a mezzo posta, laddove la notifica è stata materialmente eseguita l’ultimo giorno utile dall’UNEP di Napoli.

Il rilievo è tuttavia privo di pregio alla luce del principio, dal quale non Ve ragione di discostarsi, secondo cui la notificazione è giuridicamente inesistente solo nell’ipotesi in cui l’atto esorbiti completamente dallo schema legale degli atti di notificazione, per mancanza degli elementi caratteristici del modello delineato dalla legge, mentre nel caso in cui sussistano violazioni di tassative prescrizioni del procedimento, comprese, in particolare, quelle relative alla competenza dell’organo notificante, l’atto è nullo e suscettibile di sanatoria mediante la costituzione in giudizio della parte destinataria della notificazione (confr. Cass. civ. 9 settembre 1997, n. 8804).

6. Le proposte censure sono peraltro inammissibili per altre ragioni.

In disparte il rilievo che esse sono gravemente carenti sotto il profilo dell’autosufficienza, non avendo l’impugnante nè riportato l’esatto contenuto dei verbali di causa nei quali il decidente ha ravvisato il contestato venir meno di ogni posizione di contrasto tra le parti, nè indicato la loro esatta allocazione nel fascicolo processuale, la Corte territoriale ha motivato il suo convincimento sia perchè la raggiunta transazione doveva intendersi comprensiva di tutti gli aspetti della vertenza in corso, fatta eccezione per il regolamento delle spese di lite, sia perchè le due domande – di risarcimento del danno esistenziale e del danno da responsabilità per lite temeraria – erano, in ogni caso, infondate e da rigettare.

Ne deriva che la scelta decisoria adottata era sorretta da una duplice ratio decidendi.

Vale allora il criterio per cui, qualora la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile, per difetto di interesse, il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una delle stesse, posto che la decisione resta fondata in modo autonomo sulla ragione non censurata (confr. Cass. civ. 29 marzo 2013, n. 7931; Cass. civ. 5 febbraio 2013, n. 2736). Nella fattispecie, la mancata contestazione dell’infondatezza, nel merito, delle proposte domande, ha comportato il passaggio in giudicato della relativa statuizione”.

A seguito della discussione svoltasi in camera di consiglio, il collegio ha condiviso le argomentazioni in fatto e in diritto esposte nella relazione.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna dell’impugnante al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso inammissibile. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, liquidate in complessivi Euro 5.200,00 (di cui Euro 200,00 per esborsi), oltre spese generali e accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 luglio 2014.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2014


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 17/06/2014) 05/09/2014, n. 18758

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 1470-2008 proposto da:

U.V., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PRISCIANO 28, presso lo studio dell’avvocato SERRANI DANILO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GHEDINI VITTORIA NICOLETTA giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DI VENEZIA DUE in persona del Direttore pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE CENTRALE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 47/2006 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 23/11/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/06/2014 dal Consigliere Dott. CIRILLO ETTORE;

udito per il ricorrente l’Avvocato MAINARDI con delega e l’Avvocato GHEDINI che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 47 del 23 novembre 2006 la Commissione tributaria regionale del Veneto rigettava l’appello proposto dall’avv. U. V., confermando l’avviso di accertamento notificatogli dal fisco il 13 aprile 2005 per l’anno d’imposta 1999 (IRPEF, IRAP, IVA).

Il giudice d’appello, premesso che l’atto impositivo era stato firmato da funzionario appositamente delegato e che l’adozione dei coefficienti presuntivi adoperati dal fisco non richiedeva alcun parere del Consiglio di Stato, osservava che, non avendo il contribuente aderito al contraddittorio pre contenzioso, legittimamente l’ufficio si era avvalso della procedura D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39.

Aggiungeva che lo svolgimento di attività per un solo studio legale, pur essendo assimilabile a un rapporto di parasubordinazione, non era circostanza idonea a rendere inapplicabili parametri frutto di elaborazione statistica e che il conseguente accertamento induttivo costituiva il portato logico dell’applicazione di specifici coefficienti alla situazione del contribuente interessato.

Infine, rilevava che l’atto impositivo era sufficientemente motivato sia riguardo alle riprese a tassazione, sia riguardo all’applicazione di sanzioni nel minimo edittale.

Per la cassazione di tale decisione, l’avv. U.V. ha proposto ricorso affidato a sette motivi, ai quali l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso. Il contribuente replica con memoria.

Motivi della decisione
Il ricorso deve essere accolto in relazione al (pregiudiziale) primo motivo, con assorbimento degli altri.

Il contribuente denuncia violazioni di norme di diritto – D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e art. 2697 c.c. – rilevando che l’invocato art. 42 sanziona con la nullità gli avvisi di accertamento che manchino della firma del capo dell’ufficio o di un dirigente da lui delegato e pone in capo all’ufficio impositore l’onere di provare che il sottoscrittore sia realmente munito di poteri di firma.

Osserva che, nonostante le contestazioni formalizzate in ambo i giudizi di merito, l’ufficio si è limitato ad affermare che la firmataria, S.O., apparteneva all’ufficio stesso ed era abilitata alla firma, senza aver mai documentato ciò, atteso che la nota esibita in causa rinviava ad altra nota, mai prodotta nel giudizio di merito, circa l’individuazione dei poteri concretamente delegati alla “capo team” firmataria dell’atto impositivo.

Censura, in punto di vizio motivazionale e di violazione dell’onere della prova, l’argomentare del giudice d’appello che, nel ritenere l’esistenza di una delega a favore della sottoscrittrice dell’avviso impugnato, non ha osservato i principi generali che pongono a carico di chi allega un fatto l’onere di provarne la sussistenza. Il motivo è fondato.

Da tempo, nella giurisprudenza di legittimità si è affermato l’orientamento secondo cui:

“In tema di imposte sui redditi, deve ritenersi, in base al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, commi 1 e 3, che gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono nulli tutte le volte che gli avvisi nei quali si concretizzano non risultino sottoscritti dal capo dell’ufficio emittente o da un impiegato della carriera direttiva (addetto a detto ufficio) validamente delegato dal reggente di questo. Ne consegue che la sottoscrizione dell’avviso di accertamento – atto della p.a. a rilevanza esterna – da parte di funzionario diverso (il capo dell’ufficio emittente)da quello istituzionalmente competente a sottoscriverlo ovvero da parte di un soggetto da detto funzionario non validamente ed efficacemente delegato non soddisfa il requisito di sottoscrizione previsto, a pena di nullità, dall’art. 42, commi 1 e 3, dinanzi citato” (Cass. 14195/00). Analogamente, altra decisione di poco posteriore ha ritenuto: “L’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario, quale il direttore tributario, di nona qualifica funzionale, incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, l’esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio. Fermi, infatti, i casi di sostituzione e reggenza di cui al D.P.R. 8 maggio 1987, n. 266, art. 20, comma 1, lett. a) e b), è espressamente richiesta la delega a sottoscrivere:

il solo possesso della qualifica non abilita il direttore tributario alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio”. (Cass. 14626/00).

Più di recente questa Corte ha confermato tali principi riaffermando: “L’avviso di accertamento è nullo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato. Se la sottoscrizione non è quella del capo dell’ufficio titolare ma di un funzionario, quale il direttore tributario, di nona qualifica funzionale, incombe all’Amministrazione dimostrare, in caso di contestazione, il corretto esercizio del potere sostitutivo da parte del sottoscrittore o la presenza della delega del titolare dell’ufficio, poichè il solo possesso della qualifica non abilita il direttore tributario alla sottoscrizione, dovendo il potere di organizzazione essere in concreto riferibile al capo dell’ufficio” (Cass. 17400/12).

A tale oramai consolidato orientamento ha dato ulteriore continuità la sentenza n. 14942 del 14 giugno 2013 ribadendo che, nella individuazione del soggetto legittimato a sottoscrivere l’avviso di accertamento, in forza del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, incombe all’Agenzia delle entrate l’onere di dimostrare il corretto esercizio del potere e la presenza di eventuale delega.

La decisione in esame osserva che tale conclusione è effetto diretto dell’espressa previsione della tassativa sanzione legale della nullità dell’avviso di accertamento (cfr. in materia d’imposte dirette Cass. 17400/12, 14626/00, 14195/00).

Solo in diversi contesti fiscali – quali ad esempio la cartella esattoriale (Cass. 13461/12), il diniego di condono (Cass. 11458/12 e 220/14), l’avviso di mora (Cass. 4283/10), l’attribuzione di rendita (Cass. 8248/06) – e in mancanza di una sanzione espressa, opera la presunzione generale di riferibilità dell’atto all’organo amministrativo titolare del potere nel cui esercizio esso è adottato (cfr., in materia di lavoro e previdenza, Cass. 13375/09, ordinanza ingiunzione, e 4310/01, atto amministrativo); mentre, per i tributi locali, è valida anche la mera firma stampata, ex L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 87 (Cass. 9627/12).

Nella specifica materia dell’IVA, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, nel riferirsi al comma 1 ai modi stabiliti per le imposte dirette, richiama implicitamente il D.P.R. n. 600 del 1973 e, quindi, anche il ridetto art. 42 sulla nullità dell’avviso di accertamento, se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (cfr., in materia di IVA, Cass. 10513/08, 18514/10 e 19379/12, in motiv.).

A ben vedere, il tralatizio orientamento in rassegna, che qui si conferma, non è neppure contraddetto dalla sentenza n. 17044 del 2013, laddove questa in motivazione (B. 1) comunque afferma:

“ovviamente “in caso di contestazione… incombe all’amministrazione provare l’esercizio del potere sostitutivo o la presenza della delega” (Cass., trib., 10 novembre 2000 n. 14626)”.

Nella specie l’avviso di accertamento è siglato e reca la dicitura “Il direttore dell’ufficio (o il funzionario delegato) O. S. (Capo Team)”.

L’Agenzia ha esibito l’ordine di servizio n. 28-bis, prot. 59514, vigente dal 1 ottobre 2004, col quale il direttore dell’ufficio (Dott. C.A.) dispone che “la direzione del Team Sesto viene affidata alla signora S.O., alla quale viene conferita delega alla sottoscrizione degli atti e provvedimenti nell’o.s.n. 11/D/2002 entro i limiti ivi indicati”.

Invece, non risulta trascritto in controricorso nè altrimenti esibito in giudizio l’o.s.n. 11/D/2002 che definisce i limiti oggettivi della delega conferita alla S.O.; dunque, non risulta che l’Agenzia abbia osservato l’onere probatorio posto a suo carico.

Nè può giovare al fisco il mancato esercizio dei poteri istruttori di ufficio, di cui all’art. 7 proc. trib., al fine di acquisire gli elementi a riprova della ridetta delega, sia perchè si tratta di documento (che se esiste è) già in possesso dell’amministrazione finanziaria, il che contrasta con l’art. 6 dello statuto del contribuente, (a) sia perchè manca il presupposto, che consente di derogare al canone ordinario di distribuzione dell’onere della prova e legittima l’esercizio del potere di ufficio, costituito dall’impossibilità di una delle parti di acquisire i documenti in possesso dell’altra, (b) sia in ragione della possibilità per le parti di produrre, anche in appello, nuovi documenti, nel rispetto del contraddittorio, ai sensi dell’art. 58, comma 2, proc. trib. (14492/13, cit; cfr. in generale Cass. 26392/10).

L’accoglimento del pregiudiziale primo mezzo, comporta la nullità radicale dell’avviso di accertamento, non avendo l’amministrazione offerto prova, con produzione di regolare delega, dei poteri dì firma in capo alla firmataria dell’avviso di accertamento; il che, consente di accogliere immediatamente il ricorso ex art. 384 c.p.c., non essendo necessari altri accertamenti di fatto.

Tutto ciò assorbe, ovviamente, le altre censure mosse per:

violazione della L. n. 400 del 1988 (art. 17) circa la natura regolamentare del D.P.C.M. 29 gennaio 1996, e la mancanza del parere del Consiglio di Stato (motivo 2); violazione dì plurime norme di diritto circa l’illegittimità di accertamento fondato solo sui parametri e vizi motivazionali circa la ritenuta irrilevanza della peculiare attività sostanzialmente parasubordinata intrapresa da poco e in età avanzata dal contribuente (motivi 3-4); vizi motivazionali e plurime violazioni del D.Lgs. n. 472 del 1997 (art. 5, 6, 17) riguardo alle denunciate carenze di motivazione dell’atto impositivo (sia sulle riprese a tassazione sia sull’applicazione della sanzione) e per omessa comparazione degli elementi di prova e controprova offerti dalle parti (motivi 5-6-7).

In ragione del progressivo formarsi della giurisprudenza sulla sottoscrizione degli atti del fisco si stima equo compensare le spese processuali tra le parti.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e, assorbiti gli altri, cassa senza rinvio la sentenza d’appello; decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della parte contribuente e compensa integralmente le spese processuali tra le parti.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 17 giugno 2014.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2014


Cass. civ. Sez. VI – 3, Sent., (ud. 22-05-2014) 05-09-2014, n. 18812

Viola la privacy il comune che non utilizza il plico chiuso per notificare la sanzione “particolare”

Se il Comune non assume i dovuti accorgimenti, è tenuto a risarcire il danno per violazione del diritto alla privacy del destinatario di provvedimento sanzionatorio inerente violazione amministrativa legata al fenomeno della prostituzione, nel caso in cui la notifica avvenga non in plico sigillato. E’ quanto ha confermato la Suprema corte avallando la decisione del giudice del merito, dichiarando in parte inammissibile il ricorso proposto da un Comune italiano. L’ordinanza ingiunzione, dopo un primo tentativo (fallito) di notifica a mezzo servizio postale presso il domicilio eletto dal resistente, era stata affidata per la notifica ai messi comunali, i quali provvedevano alla stessa a mezzo plico, non in busta chiusa, alla residenza del destinatario, dunque a mani alla madre dello stesso. Il destinatario della sanzione lamentava che sua madre era venuta in questo modo a conoscenza della vicenda. L’uomo si trovava in una particolare situazione dato che era in corso una causa di separazione e la conoscenza da parte di terzi di una simile sanzione sarebbe stata idonea a provocargli serio pregiudizio. La Suprema corte, pur disconoscendo l’esistenza di un vero e proprio obbligo a carico della pubblica amministrazione di procedere in ogni caso alla notifica presso il domicilio eletto dal destinatario – e non, come nel caso di specie, eseguirla presso la residenza – fa riferimento ai principi generali di trasparenza, lealtà e imparzialità della pubblica amministrazione, data l’evidente manifestazione di preferenza del destinatario ad interloquire con l’ente pubblico in modalità particolare. La Cassazione conferma come sia applicabile al caso di specie l’art. 15 del d.lgs. 196/2003 (codice privacy) il quale afferma che “sussiste responsabilità per i danni cagionati per effetto del trattamento illegittimo dei dati personali ai sensi dell’art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose”. In questo senso, la pubblica amministrazione procedente avrebbe potuto sottrarsi all’obbligo risarcitorio solo provando di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno; circostanza non dimostrata in grado di merito. Nella specie, il Comune avrebbe dovuto provare di non aver potuto ricorrere a nessun’altra forma di notifica, che, “seppur non imposta dalle leggi in materia, avrebbe consentito, più adeguatamente rispetto alla notifica a mezzo dei messi comunali, di evitare il danno derivante dal trattamento dei dati sensibili, ricollegabile alla propagazione del contenuto dell’oggetto della violazione sanzionata con l’ordinanza ingiunzione”. Di conseguenza, il comportamento dell’ente comunale “non si è affatto concretato nell’aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno ai sensi dell’art. 2050 c.c. Ciò, per l’assorbente ragione che la cautela da osservarsi dal Comune, quale titolare del trattamento di dati personali, nella gestione della pratica amministrativa in relazione al contenuto della violazione contestata, gli imponeva, alla stregua direttamente dell’art. 2050 c.c., di esperire anche, prima di ricorrere ai messi, la notificazione al domicilio eletto”.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25852/2010 proposto da:

COMUNE DI MONTECATINI TERME (OMISSIS) in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CIRCONVALLAZION CLODIA 86 – Int. 5, presso lo studio dell’avvocato MARTIRE ROBERTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROSSANA PARLANTI, giusta delibera G.M. n. 400 del 26.10.2010 e giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

GARANTE PER LA PROTEZIONE DEI DATI PERSONALI (OMISSIS) in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

e contro

M.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 39/2010 del TRIBUNALE di PISTOIA – Sezione di MONSUMMANO TERME del 13.2.2010, depositata il 13/02/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/05/2014 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito per il ricorrente l’Avvocato Sandro Coccioli (per delega avv. Roberto Martire) che si riporta al ricorso.

Svolgimento del processo
p.1. Con ricorso D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, M. E. chiedeva al Tribunale di Pistoia – Sezione distaccata di Monsummano Terme, la condanna del Comune di Montecatini Terme al risarcimento del danno sofferto in conseguenza di una pretesa violazione, addebitabile al Comune, delle norme sul trattamento dei dati personali. Esponeva, al riguardo, che il Comune convenuto gli aveva notificato una ordinanza-ingiunzione di pagamento, con cui aveva confermato il verbale di contestazione elevato nei suoi confronti in relazione alla violazione di un’ordinanza sindacale, consistita nell’essersi fermato per consentire la salita ad una persona che per comportamenti ed atteggiamenti era dedita all’attività di prostituzione.

L’ordinanza-ingiunzione era stata emessa nei suoi confronti ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, a seguito dell’esame della memoria difensiva, che egli aveva presentato a mezzo del proprio legale di fiducia, presso il cui studio in essa aveva altresì eletto domicilio.

p.1.1. L’ordinanza, dopo l’esito negativo di un primo tentativo di notificazione a mezzo posta, era stata rimessa dal Comune convenuto ai messi del Comune di Buonabitacolo, luogo in cui il M. risultava residente, affinchè gli stessi provvedessero alla notifica ai sensi della L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1.

I detti mesi avevano però provveduto alla notifica del plico, tuttavia non in busta chiusa, alla residenza del ricorrente a mani della madre del medesimo, la quale, per quanto lui sosteneva era così venuta a conoscenza della vicenda.

p.2. Sulla base di tali deduzione il ricorrente, sulla premessa che era stata lesa la propria privacy, chiedeva il risarcimento dei danni adducendo, che, se la notifica fosse stata fatta al domicilio eletto, nè la madre, nè gli abitanti di Buonabitacolo, tra cui la notizia si era invece, a suo dire, diffusa, ne sarebbero venuti a conoscenza.

Adduceva, inoltre, che nelle more egli aveva in corso una causa di separazione e la diffusione della notizia avrebbe potuto incidere sul diritto di visita al figlio minore.

p.3. Il Comune convenuto si costituiva e chiedeva il rigetto del ricorso. Si costituiva altresì il Garante per la Protezione dei Dati Personali, per far tutelare asseriti aspetti di interesse pubblico generale della vicenda.

p.4 Con la memoria ai sensi dell’art. 180 c.p.c., il M. affermava che, come risultava dalla relata di notifica nella seconda pagina del provvedimento, l’ordinanza ingiunzione era stata trasmessa in plico aperto dal Comune di Montecatini a quello di Buonabitacolo.

Il Comune dichiarava di non accettare il contraddittorio su questo nuovo profilo, che sosteneva rappresentare la deduzione di una nuova causa petendi.

p.5. Con sentenza del 18 febbraio 2010, il Tribunale, dopo avere dichiarato inammissibile la domanda quanto al profilo introdotto con la memoria ai sensi dell’art. 180 c.p.c., perchè integrante nuova causa petendi, condannava il Comune convenuto, in accoglimento della domanda originaria, al pagamento – ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 – della somma di Euro 5000,00 oltre accessori.

p.6. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione affidato a quattro motivi il Comune di Montecatini Terme. Ha resistito con controricorso il Garante per la Protezione dei Dati Personali, tramite l’Avvocatura Generale dello Stato.

p.7. Parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
p.1. Con il primo motivo di ricorso si deduce “Violazione e falsa applicazione art. 141 c.p.c. – art. 170 c.p.c. – art. 360, n. 3 Omessa motivazione”.

Vi si censura la sentenza impugnata nella parte in cui, sulla premessa della natura contenziosa del procedimento di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 18, ha ritenuto sussistente un comportamento illegittimo del Comune per non avere notificato l’ordinanza ingiunzione, ai sensi dell’art. 170 c.p.c., nel domicilio eletto presso il suo legale nella memoria difensiva depositata nella fase contenziosa amministrativa ai sensi della L. n. 689 del 1989, art. 17, e art. 18, comma 1. A parere del ricorrente questa statuizione, essendo errata l’assimilazione del procedimento nella fase amministrativa a quello giurisdizionale e, quindi, l’applicazione dell’art. 170 c.p.c., avrebbe violato oltre che tale norma, anche la norma dell’art. 141 c.p.c., rifluendo la vicenda sotto di essa e tenuto conto che essa considera la notificazione presso il domicilio eletto obbligatoria solo in caso di espressa previsione contrattuale, siccome emerge dal suo comma 2, mentre in tutti gli altri casi l’elezione di domicilio sarebbe facoltativa.

p.2. Con un secondo motivo si fa valere “Violazione falsa applicazione L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, in combinato disposto con l’art. 141 c.p.c., comma 1”, nonchè “motivazione contraddittoria”.

Il ricorrente, con una prima censura, imputa alla sentenza impugnata di avere erroneamente ritenuto che il Comune non potesse avvalersi della notifica a mezzo dei messi comunali per il sol fatto che il tentativo di una precedente notifica a mezzo posta non era andato a buon fine, a motivo che il principio di residualità dell’utilizzo dei messi comunali sancito dalla L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, imponeva comunque che il Comune, prima di trasmettere l’atto ai messi comunali, dovesse provvedere alla notifica presso lo studio del difensore domiciliatario.

Il Comune contesta questo assunto perchè, a suo avviso, il citato art. 10, comma 1 – ai sensi del quale “le pubbliche amministrazioni possono avvalersi per le notifiche dei propri atti, dei messi comunali, qualora non sia possibile eseguire utilmente le notificazioni ricorrendo al servizio postale o alle forme di notificazione prevista dalla legge” – prevedrebbe due ipotesi alternative fra loro, come emergerebbe dall’uso della disgiuntiva “o”. Per cui, posto che la notifica a mezzo posta non era andata a buon fine, il Comune avrebbe legittimamente fatto ricorso ai messi comunali.

p.2.1. D’altro canto – e l’argomento integra una seconda censura parametrata ad una ulteriore motivazione del Tribunale – il carattere meramente facoltativo della notificazione presso il domicilio eletto, comportando che nel non effettuarla il Comune non avesse violato alcuna norma, escludeva – ad avviso dello stesso ricorrente – la violazione, pure ritenuta dal Tribunale, della disciplina del trattamento dei dati sensibili.

p.3. I primi due motivi del ricorso possono esaminarsi congiuntamente, essendo strettamente connessi tra loro.

Va considerato che il Tribunale ha giustificato l’assunto che la notificazione, per evitare di incorrere in responsabilità, doveva farsi al domicilio eletto nella fase amministrativa, con una motivazione alternativa, che correttamente viene censurata dai due motivi con riferimento ai suoi due termini.

L’alternatività delle due motivazioni comporta che l’eventuale riconoscimento della fondatezza di una di esse, renderebbe irrilevante l’altra e, per tale ragione, precluderebbe comunque la cassazione della sentenza impugnata, ma semmai comporterebbe solo la correzione della motivazione sbagliata.

Ciò, naturalmente, prescindendo dalla terza ulteriore motivazione, oggetto della seconda censura del secondo motivo.

p.3.1. Tanto premesso, ritiene il Collegio che la prima motivazione esposta dalla sentenza impugnata a giustificazione dell’obbligatorietà della notificazione al domicilio eletto, cioè quella – criticata dal primo motivo – secondo cui l’elezione di domicilio nella fase amministrativa del procedimento sanzionatorio avrebbe comportato l’effetto di determinare una domiciliazione ai sensi dell’art. 170 c.p.c., nel successivo procedimento contenzioso di opposizione all’ordinanza-ingiunzione, non appare fondata.

In tanto va osservato che, in mancanza di una norma che attribuisca alla domiciliazione, effettuata dal preteso responsabile nel procedimento amministrativo che prelude all’emanazione dell’ordinanza- ingiunzione ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, effetti per il successivo procedimento contenzioso e, dunque nel silenzio della legge in proposito, non è in alcun modo possibile sostenere una simile estensione di effetti. Non è, dunque, possibile argomentare una valenza ai sensi dell’art. 170 della domiciliazione fatta nella fase amministrativa, in ragione di una previsione di una sua estensione al successivo eventuale processo. Estensione che, al contrario, l’avvalorerebbe.

Ne segue che la domiciliazione fatta nel procedimento in fase amministrativa ha valore solo come tale e, quindi, per esso.

Ne consegue che come fattispecie di domiciliazione essa va ricondotta solo alla norma generale sull’elezione di domicilio, quella dell’art. 141 c.p.c..

p.3.1.1. Aggirare il dato della mancata previsione della detta estensione osservando lapidariamente che “quello in esame sarebbe un procedimento contenzioso”, come ha fatto il Tribunale, è un’operazione assolutamente priva di base normativa per l’assorbente ragione che il processo in tema di sanzioni amministrative secondo la citata legge è costruito come processo di impugnazione di un atto amministrativo qual è l’ordinanza-ingiunzione, che è manifestazione di un caso di giurisdizione esclusiva (anche su interessi legittimi) dell’A.G.O. ai sensi dell’art. 113 Cost., u.c., e dunque come processo oppositivo.

Come tale il processo nasce e la giurisdizione comincia con il ricorso in opposizione.

Anteriormente vi è solo un procedimento di carattere amministrativo, sebbene a contenuto c.d. giustiziale, ma ad esso non possono applicarsi i principi in tema di notificazione alla parte costituita tramite difensore nel processo.

Il Tribunale ha, dunque, errato nel postularlo.

p.3.1.2. Nè il suo avviso trova giustificazione in Cass. n. 16882 del 2006, che ha richiamato in modo del tutto anodino, ma concerne fattispecie in alcun modo apparentabile a quella di cui è processo, atteso che si trattava di ipotesi di notifica dell’ordinanza ingiunzione nulla non perchè eseguita presso un domicilio eletto nel procedimento amministrativo, bensì perchè eseguita in un luogo non costituente la residenza dell’ingiunto (ma in cui l’atto era stato consegnato alla sua madre), in situazione nella quale alla P.A. la sua residenza risultava per averla egli indicata nel ricorso amministrativo: nella specie la Corte ha ritenuto, peraltro, che la nullità fosse rimasta irrilevante in quanto l’ingiunto aveva proposto tempestiva opposizione.

p.3.1.3. Ne segue che deve affermarsi che la fattispecie dell’elezione di domicilio in sede di memoria depositata ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 1, non può in alcun modo essere ricondotta all’ambito di disciplina di cui all’art. 170 c.p.c., ma deve essere ricondotta all’ambito dell’art. 141 c.p.c., e, quindi, il domicilio eletto rappresenta, conforme a tale norma, solo un luogo possibile di notificazione dell’ordinanza-ingiunzione.

p.3.2. Peraltro, proprio tale riconduzione dell’elezione di domicilio nel procedimento giustiziale che precede l’emanazione dell’ordinanza all’art. 141 c.p.c., non può considerarsi nella specie irrilevante, come pretenderebbe il Comune.

Essa costituisce certamente, una volta effettuata, un dato che la P.A. deve tenere presente nel procedere alla notificazione dell’ordinanza-ingiunzione, le cui forme sono determinate innanzitutto per relationem dalla L. n. 689 del 1981, art. 18, comma 4, il quale rinvia all’art. 14 della legge, e, quindi, dal sesto comma, che prevede la possibilità di ricorrere alla notificazione a mezzo posta.

Ora, il quarto comma dell’art. 14 (che si occupa della notificazione della contestazione della violazione nell’ambito del procedimento amministrativo), nel suo secondo inciso, dopo che nel primo ha disposto l’applicazione delle disposizioni vigenti, prevede che la P.A. possa in ogni caso procedere alla notificazione, sebbene anche tramite un suo funzionario (e, dunque senza ricorrere all’ufficiale giudiziario), nelle forme previste dal codice di procedura civile.

Ebbene, qualora nell’ambito del procedimento amministrativo il preteso responsabile abbia eletto domicilio, come nella specie, tra le forme di notificazione previste dal codice di procedura civile per il tramite dell’art. 14 rientra certamente, quale forma di notificazione facoltativa possibile, per non essere esistente, secondo il testo dell’art. 141 c.p.c., un caso di domiciliazione vincolante ed obbligatoria all’effetto della notificazione, proprio quella al domicilio eletto.

Essa anzi assume anche un certo tendenziale carattere preferenziale alla stregua di un agire della P.A. improntato a trasparenza, lealtà e imparzialità, dato che il responsabile ha certamente manifestato una preferenza per interloquire con la stessa P.A..

p.3.3. Tale connotazione, peraltro, non giustifica, però, una sua obbligatorietà, come s’è già detto.

p.3.4. Il Comune, e si viene all’esame del secondo motivo quanto alla sua prima censura, non era, d’altro canto, obbligato – come invece ha ritenuto il Tribunale – dalla L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, ad esperire anche la notificazione presso il detto domicilio prima di ricorrere alla notificazione tramite i messi.

Deve, infatti, ritenersi che la semplice lettura della norma evidenzia che, come prospetta il ricorrente, per poter ricorrere a quella particolare forma di notifica è sufficiente che anche una sola delle altre possibili forme di notifica non sia andata a buon fine, come fa manifesto la disgiuntiva “o”.

E’ sufficiente, cioè, perchè ci si possa avvalere dei messi a norma della L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, o che sia tentata la notificazione a mezzo posta o che si siano tentate le altre forme di notificazione previste dalla legge, ma non è necessario che si siano prima praticate entrambe le alternative.

Il Comune avrebbe, dunque, certamente potuto avvalersi dei messi anche soltanto dopo aver tentato la notificazione presso il domicilio eletto, quale forma di notificazione prevista dalla legge, ma, poichè nel caso di specie aveva tentato già la notifica a mezzo posta, era abilitato a far ricorso ai messi comunali senza prima tentare la pur possibile forma di notificazione prevista dalla legge, di ci all’art. 141 c.p.c..

Il secondo motivo, quanto alla prima censura, sarebbe, dunque, fondato.

p.3.5. Va rilevato a questo punto che la fondatezza del primo motivo in ordine all’applicabilità dell’art. 170 c.p.c., e quella del secondo motivo quanto alla prima censura concernente le condizioni di notificazione tramite i messi comunali, non giustificano, tuttavia, la cassazione della sentenza, atteso che il Tribunale, oltre a spendere le due ragioni criticate dal primo motivo e dalla prima censura del secondo motivo, ne ha enunciato un’altra, che non solo è idonea a giustificare l’avere ravvisato nel comportamento del Comune una condotta di violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, ai fini risarcitori, ma, a monte risulta criticata in modo del tutto privo di pertinenza con la motivazione e del tutto generico nell’argomentazione svolta nel secondo motivo.

Ha osservato il Tribunale che “altresì il principio di correttezza stabilito dall’art. 4 codice privacy ed il carattere di dato sensibile delle informazioni contenute nell’atto notificando imponevano al Comune di optare senz’altro in prima battuta per la notifica nel domicilio eletto, ossia quello scelto dal trasgressore perchè più rispondente alle proprie esigenze; tra l’altro nella specie il luogo del domicilio eletto era lo studio del difensore, massima garanzia di riservatezza. La scelta del Comune per un procedimento di notifica più defatigante e complesso non ha alcuna giustificazione, considerato che la comunicazione al difensore era pure quella che garantiva la massima probabilità di successo e che in precedenza il Comune aveva scelto proprio queste modalità per la comunicazione di un atto. La violazione invocata pertanto sussiste sotto il profilo della mancata notifica al domicilio eletto, e comporta la responsabilità del Comune ai sensi dell’art. 15 cod. privacy”.

Ebbene con tale motivazione il Tribunale ha in realtà aggiunto alle altre due motivazioni criticate con il primo motivo e con la prima censura del secondo motivo, un’ulteriore motivazione del tutto autonoma, tendente a ravvisare nel comportamento del Comune, rappresentato dal non essersi avvalso della notificazione presso il domicilio eletto, pur in ipotesi facoltativa, una condotta riconducibile ad un illecito trattamento di dati personali, come tale riconducibile alla fattispecie risarcitoria di cui all’art. 15 citato.

p.3.5.1. Ora, nella parte finale dell’illustrazione del secondo motivo tale terza autonoma motivazione viene criticata semplicemente assumendo che, una volta escluso il carattere obbligatorio della notificazione presso il domicilio eletto, la facoltatività della notificazione presso di esso escluderebbe la responsabilità del Comune perchè non sarebbe “stata violata alcuna norma”.

La critica appare del tutto generica e tanto integra inammissibilità della censura, giusta il seguente principio di diritto. “Il requisito di specificità e completezza del motivo di ricorso per cassazione è diretta espressione dei principi sulle nullità degli atti processuali e segnatamente di quello secondo cui un atto processuale è nullo, ancorchè la legge non lo preveda, allorquando manchi dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (art. 156 c.p.c., comma 2). Tali principi, applicati ad un atto di esercizio dell’impugnazione a motivi tipizzati come il ricorso per cassazione e posti in relazione con la particolare struttura del giudizio di cassazione, nel quale la trattazione si esaurisce nella udienza di discussione e non è prevista alcuna attività di allegazione ulteriore (essendo le memorie, di cui all’art. 378 c.p.c., finalizzate solo all’argomentazione sui motivi fatti valere e sulle difese della parte resistente), comportano che il motivo di ricorso per cassazione, ancorchè la legge non esiga espressamente la sua specificità (come invece per l’atto di appello), debba necessariamente essere specifico, cioè articolarsi nella enunciazione di tutti i fatti e di tutte le circostanze idonee ad evidenziarlo”. (Cass. n. 4741 del 2005, seguita da numerose conformi).

p.3.5.2. In ogni caso, se la censura in esame si ritenesse ammissibile, la critica non coglierebbe nel segno ed essa sarebbe infondata.

Il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, afferma la responsabilità per danni cagionati per effetto del trattamento dei dati personali ai sensi dell’art. 2050 c.c., cioè ai sensi della norma del codice civile sulla responsabilità per l’esercizio di attività pericolose.

Tale norma, com’è noto, consente di sottrarsi all’obbligo risarcitorio soltanto provando di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

Sulla portata e sul significato del rinvio operato dall’art. 15, è sorto un dibattito tra gli interpreti, fra chi sostiene che così si sia qualificato il trattamento dei dati personali come una attività pericolosa e chi invece reputa che ci sia limitati a richiamare per tale forma di responsabilità la regola probatoria sancita dall’art. 2050.

Si discute, poi, sulla natura della responsabilità ex art. 15 citato, ma per l’orientamento maggioritario si tratterebbe di una responsabilità extracontrattuale.

In disparte tali problematiche, che non è necessario affrontare, interessa allora rilevare che, nella giurisprudenza di questa Corte (ex multis, Cass. n. 8457 del 2004), per la sussistenza di una responsabilità ai sensi dell’art. 2050 c.c., il danneggiato si deve limitare a provare l’evento di danno e il nesso di causalità tra l’attività ed esso, spettando invece all’esercente dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

Applicando questi principi alla fattispecie che si giudica si devono svolgere i seguenti rilievi.

p.3.5.3. Nella vicenda in questione il Comune di Montecatini Terme, per sottrarsi all’obbligo risarcitorio, avrebbe dovuto dimostrare di avere adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno.

A questo scopo non è sufficiente dimostrare, come pure il Comune ha fatto e deve ritenersi, che la notifica a mezzo dei messi comunali era consentita (per essere stata tentata la notificazione a mezzo posta) e che quella al domicilio eletto non era obbligatoria, ma sarebbe stato necessario altresì dimostrare che non si poteva ricorrere ad alcun altra forma di notifica, che, seppur non imposta dalle leggi in materia, avrebbe consentito, più adeguatamente rispetto alla notifica a mezzo dei messi comunali, di evitare il danno derivante dal trattamento dei dati sensibili, ricollegabile alla propalazione del contenuto dell’oggetto della violazione sanzionata con l’ordinanza-ingiunzione.

Quest’altra possibile forma di notifica nel caso di specie c’era ed era rappresentata dalla pur facoltativa, ma pur sempre possibile e pienamente lecita, notifica al domicilio eletto dal M. presso il proprio legale. Infatti, sebbene tale forma di notifica non fosse obbligatoria, giacchè non trovava applicazione, al caso di specie, come s’è già detto, l’art. 170 c.p.c., e la L. n. 265 del 1999, art. 10, comma 1, non la rendeva necessaria prima dell’avvalimento dei messi comunali di Buonabitacolo, era però una forma di notificazione possibile ai sensi dell’art. 141 c.p.c., comma 1.

L’avere il Comune scelto di non praticarla lo pone in una condizione per cui deve escludersi ed anzi è conclamato che il suo comportamento non si è affatto concretato nell’aver “adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno” ai sensi dell’art. 2050 c.c..

Ciò, per l’assorbente ragione che la cautela da osservarsi dal Comune, quale titolare del trattamento di dati personali, nella gestione della pratica amministrativa in relazione al contenuto della violazione contestata, gli imponeva, alla stregua direttamente dell’art. 2050 c.c., di esperire anche, prima di ricorrere ai messi, la notificazione al domicilio eletto.

E’ appena il caso di considerare che nel caso di specie non può trovare applicazione il principio affermato di recente dalle Sezioni Unite, secondo cui in tema di protezione dei dati personali non costituisce violazione della relativa disciplina il loro utilizzo mediante lo svolgimento di attività processuale, giacchè detta disciplina non trova applicazione in via generale, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 7, 24, 46 e 47, allorquando i dati stessi vengano raccolti e gestiti nell’ambito di un processo (così Cass. sez. un. n. 3034 del 2011). Infatti nel caso di specie viene in considerazione un’ipotesi di trattamento dei dati personali che è avvenuta nell’ambito di un non di un processo bensì all’esito e nell’ambito di un procedimento amministrativo, che come si è detto non può assimilarsi ad un processo in senso proprio.

p.4. Conclusivamente, poichè la seconda censura proposta dal secondo motivo è gradatamele inammissibile e infondata, là dove critica la motivazione della sentenza circa l’attribuzione di rilevanza alla mancata notificazione presso il domicilio eletto del carattere di comportamento rilevante ai fini della configurazione della fattispecie di trattamento illecito fonte di danno, la natura di motivazione autonoma dell’avviso del Tribunale oggetto della censura stessa, rispetto alle altre due motivazioni criticate con il primo motivo e con la prima censura del secondo, rende irrilevante la fondatezza di questi ultimi, sì che è solo giustificata la corrispondente correzione delle altre due motivazioni nei sensi sopra indicati, ma la sentenza impugnata non può cassarsi (art. 384, ultimo comma, c.p.c.).

p.5. Con il terzo motivo di ricorso si deduce “violazione e falsa applicazione art. 2043 c.c.. Inesistenza del nesso eziologico tra mancata esecuzione della notifica al domicilio eletto e evento dannoso (notifica ordinanza alla madre del M. non in busta chiusa.”, nonchè “Insufficiente e contraddittoria motivazione”.

Vi si censura la sentenza impugnata per non avere considerato la assoluta mancanza di nesso eziologico tra la mancata esecuzione della notifica al domicilio eletto e la notifica effettuata dai messi di altro Comune a mani della madre del ricorrente. Questo perchè, come detto dallo stesso Tribunale, la notifica dell’atto non in busta chiusa a persona diversa al destinatario “è avvenuta per il mancato rispetto da parte del messo comunale delle forme che il novellato art. 138 c.p.c., pone a carico dell’organo notificante e non del richiedente la notifica alla cui organizzazione il messo di altro Comune è estraneo”. Erroneamente il Tribunale, pur dando atto di ciò (avendo ritenuto domanda nuova la prospettazione che già il Comune qui ricorrente avesse trasmesso l’incarto “aperto”), avrebbe affermato la responsabilità del Comune di Montecatini Terme, reputando che “il vizio di forma di una notifica non è evento assolutamente imprevedibile ma rientra nel novero di eventi con una certa probabilità di verificazione”. In tal modo il Tribunale avrebbe attribuito al Comune la responsabilità di un comportamento altrui e quindi, avrebbe affermato la responsabilità senza ricorrenza di nesso causale.

p.5.1. Ebbene, la motivazione enunciata dal Tribunale palesa che quel giudice in buona sostanza non ha considerato il fatto dei messi comunali di Buonabitacolo (erroneamente ricondotto all’art. 138 c.p.c., senza rilievo dell’errore da parte del ricorrente: in realtà la norma cui il Tribunale intende fa riferimento e che sarebbe stata violata dai messi è chiaramente quella dell’art. 137 c.p.c., comma 4, inserito dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 174) come un concausa efficiente sopravvenuta, avente i requisiti del caso fortuito, cioè quelli della eccezionalità ed imprevedibilità, ed idonea, dunque, da sola a causare l’evento recidendo il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, cioè il trattamento dei dati personali concretatosi nell’avere il Comune omesso di far ricorso alla notificazione presso il domicilio eletto nello svolgimento dell’attività procedimentale amministrativa diretta a sanzionare il M.. Il Tribunale ha, cioè, ritenuto che il principio causa causae est causa causati, cioè l’inserirsi nella serie causale originata dall’attività procedimentale sanzionatorio del Comune di Montecatini Terme della mancata notificazione, pur possibile e cautelativamente imposta dall’art. 2050 c.c., non fosse stato nel caso di specie eliso dal verificarsi di un comportamento certamente inosservante della norma dell’art. 138 c.p.c., da parte dei messi notificatori del Comune di Buonabitacolo.

p.5.2. Ora, della motivazione in tal senso enunciata dal Tribunale, il ricorrente non si fa carico e tanto varrebbe ad evidenziare l’inammissibilità del motivo, che avrebbe dovuto articolarsi, ponendo una quaestio iuris nella necessaria attività argomentativa di come il ragionamento seguito dal Tribunale stesso contenesse un error iuris sui principi regolatori del nesso causale in relazione alla fattispecie dell’art. 2050 c.c. (norma riguardo alla quale la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nell’affermare il seguente principio di diritto: “In tema di illecito aquiliano, perchè rilevi il nesso di causalità tra un antecedente e l’evento lesivo deve ricorrere la duplice condizione che si tratti di un antecedente necessario dell’evento, (nel senso che questo rientri tra le conseguenze normali ed ordinarie del fatto), e che l’antecedente medesimo non sia poi neutralizzato, sul piano eziologico, dalla sopravvenienza di un fatto di per sè idoneo a determinare l’evento.

Ne consegue che, anche nell’ipotesi in cui l’esercente dell’attività pericolosa non abbia adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno, realizzando quindi una situazione astrattamente idonea a fondare una sua responsabilità ex art. 2050 c.c., la causa efficiente sopravvenuta che abbia i requisiti del caso fortuito (eccezionalità ed oggettiva imprevedibilità) e sia idonea, da sola, a causare l’evento, recide il nesso eziologico tra quest’ultimo e l’attività pericolosa, producendo effetti liberatori anche quando sia attribuibile al fatto del danneggiato stesso o di un terzo”: così Cass. n. 8457 del 2004

In disparte il rilievo di inammissibilità (che così sarebbe giustificato alla stregua di Cass. n. 359 del 2005, perchè non si critica nella sostanza la motivazione della sentenza impugnata), il Collegio osserva comunque che la valutazione della Tribunale appare anche corretta in quanto il nesso causale, allorquando taluno si avvalga, nel caso di specie sulla base di una previsione di legge, di altri per il compimento di un’attività non risulta interrotto dalla tenuta da parte dell’ausiliario di un comportamento semplicemente inosservante delle norme che doveva osservare nel compimento dell’attività commessagli, occorrendo all’uopo, per spezzare il nesso causale, che egli si sia posto, con un’attività di natura illecita, su un piano di antigiuridicità. Tale principio trova applicazione anche in un caso come quello di specie in cui a giovarsi dell’attività dell’ausiliare è stata una struttura amministrativa, nell’esercizio di un potere amministrativo, sebbene controllabile dalla giurisdizione ordinaria, quale quello di sanzione della violazione delle norme amministrative.

Poichè nell’attività dei messi modificatori del Comune di Buonabitacolo non si configura dunque e comunque non è stato nemmeno allegato che si configuri alcuna attività illecita, tanto giustifica la conclusione che nella specie il nesso causale bene è stato ritenuto esistente dal Tribunale.

D’altro canto, se si volesse configurare invece nel comportamento dei messi de quibus, quali titolari, per effetto dell’incarico del Comune ricorrente, di un trattamento, un illecito ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, si dovrebbe comunque ritenere che il non avere il Comune provato, come era suo onere ai sensi dell’art. 2050 c.c., di avere raccomandato ai messi di osservare l’art. 137 c.p.c., comma 4, (raccomandazione che, nel momento in cui il Comune correva il rischio del mancato utilizzo della notifica al domicilio eletto, tanto più presso un legale, il che evidenziava la particolare importanza della vicenda per il M.), non sottrarrebbe il Comune comunque, in forza di tale duplice condotta omissiva a diretta responsabilità, sebben concorrente con quella dei messi, verso il M..

p.5.3. Il motivo è pertanto inammissibile e gradatamente infondato.

p.6. Con un quarto motivo si fa valere “violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, art. 2050 c.c., artt. 113, 115 e 116 c.p.c., e art. 118 disp. att. c.p.c., mancata prova del danno, errato ricorso ai criteri di qualificazione equitativa del danno”, nonchè “Insufficiente contraddittoria motivazione”.

Il ricorrente censura la sentenza gravata per avere violato i principi fondamentali dell’onere della prova – a carico dell’attore – in ordine al previo accertamento dell’esistenza del nesso eziologico tra l’attività e l’evento dannoso ed ancor prima in ordine alla sussistenza vera e propria del danno, la cui dimostrazione incombe sempre e comunque sul danneggiato.

In realtà, tuttavia, la doglianza imputa alla sentenza impugnata di avere riconosciuto un danno senza che ne fosse stata dimostrazione ed è questa la censura che si mostra adeguata alla motivazione della stessa.

p.6.1. Il motivo è fondato sotto tale profilo.

La motivazione della sentenza impugnata, che viene ripresa dal ricorrente, ha avuto il seguente tenore: “Venendo alla quantificazione del danno, deve rilevarsi che i profili di pregiudizio concreto all’immagine ed alla reputazione del ricorrente sono stati per lo più mero flatus vocis, non corroborato da alcun riscontro. Il ricorrente ha sostenuto che la madre non fosse al corrente dell’infrazione contestata al M., che l’intero municipio di Buonabitacolo e poi forse l’intera cittadina fossero venuti a conoscenza del fatto. Nulla risulta al riguardo dal’istruttoria. Certamente al momento della notifica la madre non era a conoscenza dell’esito infausto del procedimento (non lo era neppure il figlio), certamente i messi comunali di Buonabitacolo hanno preso conoscenza del fatto. Questi ultimi peraltro sono soggetti tenuti al segreto d’ufficio e quindi sino a prova contraria non vi è stata propagazione della notizia all’esterno del loro ufficio. Il limitato pregiudizio accertato i concreto per il ricorrente a fronte di un’indubbia seria violazione alla tutela dei dati sensibili da parte di soggetto della qualità di Ente Pubblico, induce a stimare congrua ed equa riparazione la somma di Euro 5.000,00 oltre interessi e rivalutazione dalla domanda al saldo”.

p.6.2. Ebbene, anche se il Tribunale non l’ha detto espressamente deve ritenersi che il danno che ha ritenuto esistente sia un danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., cioè “un danno determinato la lesione di interessi inerenti la persona non connotate da rilevanza economica” (Cass. Sez. Un. n. 26972 del 2008), dato che l’art. 15, comma 2, del D.Lgs. prevede espressamente la risarcibilità del danno di cui a detta norma con specifico riferimento all’ipotesi dell’art. 11, del D.Lgs. e in aggiunta alla risarcibilità normale dei danni scaturente dalla qualificazione della responsabilità alla stregua dell’art. 2050 c.c..

Ora, secondo la citata decisione delle Sezioni Unite anche il danno non patrimoniale dev’essere dimostrato, dato che costituisce danno conseguenza.

Esso, dunque, dev’essere allegato dal danneggiato e, quindi, da lui provato. Il danno di cui all’art. 15, non si può, dunque, identificare nell’evento dannoso, cioè nell’illecito trattamento dei dati personali, ma occorre che si concreti in un pregiudizio della sfera non patrimoniale di interessi del danneggiato.

Il danno riconosciuto dal Tribunale, come fa manifesto il riferimento ad una indubbia seria violazione dei dati sensibili, risulta, invece, essere stato identificato proprio nell’illecito trattamento.

Tanto è sufficiente a giustificare la cassazione della decisione impugnata.

Il Tribunale avrebbe dovuto individuare il danno non patrimoniale sofferto dal M. come conseguenza dell’illecito trattamento, mentre non lo ha fatto ed anzi ha mostrato di non ritenerlo necessario.

Emerge anzi dalla motivazione che il Tribunale ha ravvisato e dato per esistente una situazione delle allegazioni del M. che palesava l’assoluta mancanza di elementi idonei ad evidenziare la verificazione del danno non patrimoniale, tanto che non si palesa la necessità di un rinvio.

Invero, una volta considerato che la previsione della risarcibilità del danno non patrimoniale supposta dal legislatore in relazione ad un trattamento illecito di dati si correla ad un danno che deve essere risentito dalla persona come tale e che è identificabile in danni comunque correlati ad aspetti del modo di essere della persona ricollegati in primo luogo alla lesione di diritti fondamentali, come il diritto all’immagine, alla reputazione e all’onore (per le implicazioni no patrimoniali della loro lesione), che pure possono essere lesi dall’illecito trattamento, nonchè all’attitudine del fatto dannoso costituito dal trattamento illecito a comportare anche un patema, una sofferenza psichica al danneggiato, si deve prendere atto di quanto che il Tribunale ha detto sostanzialmente inesistenti e non dimostrati i danni all’immagine ed all’onore ed alla reputazione. Si deve, dunque, reputare che abbia riconosciuto il danno non patrimoniale alla stregua dell’art. 2059 c.c., che ha provveduto a liquidare equitativamente, soltanto identificandolo nella sofferenza da percezione dell’illecito trattamento come idoneo a propalare i dati sensibili.

Ne segue che sarebbe stato essenziale dimostrare in che termini la percezione della propalazione od anche del pericolo di essa da parte del M. si era verificata.

Poichè dal silenzio della sentenza impugnata emerge che il M. non si è preoccupato di dimostrare alcunchè al riguardo, cioè circostanze idonee ad evidenziare una sofferenza ricollegabile all’illecito trattamento, come conseguenza della percezione della vicenda risultante dall’atto notificato da parte della madre o di altri parenti e del paventare la possibile incidenza sul diritto di visita del figlio nel procedimento di separazione che il M. aveva detto pendente (come emerge dalla sentenza nell’esposizione del fatto), si deve ravvisare che un rinvio sarebbe del tutto inutile, in mancanza di apporti istruttori valutabili ed esperibili, dato il carattere chiuso del giudizio di rinvio.

D’altro canto, è vero che l’unico elemento certo risultante dall’istruzione, cioè che i messi sicuramente avevano preso conoscenza del contenuto dell’atto notificato, è stato considerato dal Tribunale privo di influenza, con una motivazione – quella dell’essere i medesimi vincolati al segreto d’ufficio – di più che dubbia validità, se non altro perchè anche il rischio di una violazione di tale segreto era pur sempre esistente, ma non v’è traccia di un’attività dimostrativa del M. idonea a dimostrare, anche per presunzioni, che la percezione di tale possibilità sarebbe stata fonte di patema.

A tacer d’altro, il M. avrebbe potuto, per esempio, dedurre prova per testi in ordine all’esistenza di un suo stato di disagio, di patema, di sofferenza a causa della vicenda.

L’assenza totale di attività probatoria, lo si ribadisce, induce a ravvisare i presupposti per decidere nel merito, non occorrendo accertamenti di fatto per evidenziarsi il mancato assolvimento dell’onere della prova circa il danno conseguenza.

p.6.3. In tale situazione il Collegio ritiene, dunque, inutile cassare con rinvio e deve prendere atto, pronunciando nel merito, che il M., pur essendo sussistito un illecito trattamento di dati personali da parte del Comune ricorrente, non risulta aver adempiuto all’onere di provare il danno conseguenza ai sensi dell’art. 2059 c.c., sotto l’unico aspetto cui il Tribunale l’ha – per quanto s’è detto – correlato e liquidato equitativamente, quello del patema e della sofferenza derivanti dai rischi della possibile propalazione dei dati.

La domanda dev’essere, pertanto, rigettata.

p.7. L’oggettiva novità e delicatezza delle questioni esaminate integra gravi ed eccezionali ragioni per la compensazione delle spese per tutti i due gradi di giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso per quanto di ragione.

Rigetta i primi tre motivi. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, pronunciando nel merito, rigetta la domanda di M.E.. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Sesta Civile – 3, il 22 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2014


Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 08-05-2014) 29-07-2014, n. 4021

Si deve ritenere precluso alla P.A. fondare il provvedimento conclusivo su ragioni del tutto nuove rispetto a quelle rappresentate nella comunicazione ex art. 10-bis legge 241, pena la violazione del diritto dell’interessato di effettiva partecipazione al procedimento, che si estrinseca nella possibilità di presentare le proprie controdeduzioni utili all’assunzione della determinazione conclusiva dell’ufficio. L’obbligo dell’Amministrazione inerente al contraddittorio partecipativo non implica la confutazione puntuale di tutte le osservazioni svolte dall’interessato, essendo sufficiente che il provvedimento amministrativo sia corredato da una motivazione che renda nella sostanza percepibile la ragione del mancato adeguamento dell’azione dell’Amministrazione alle deduzioni difensive del privato

Leggi: Cons. Stato Sez. III, Sent., (ud. 08-05-2014) 29-07-2014, n. 4021


Cons. Stato Sez. IV, Sent., 16-07-2014, n. 3735

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 2005 del 2014, proposto da:
P.M., rappresentato e difeso dall’avv. Riccardo Marone, con domicilio eletto presso Luigi Napolitano in Roma, via Sicilia. 50;
contro
Consiglio Superiore della Magistratura, Ministero della Giustizia, rappresentati e difesi per legge dall’Avvocatura gen. dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;
nei confronti di
G.C., rappresentato e difeso dagli avv. Filippo Lattanzi, Francesco Cardarelli, con domicilio eletto presso Filippo Lattanzi in Roma, via G.P. Da Palestrina,47;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE I n. 01126/2014, resa tra le parti, concernente attribuzione ad altro magistrato delle funzioni di Procuratore della Repubblica presso il tribunale di Napoli
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visti gli atti di costituzione in giudizio di Consiglio Superiore della Magistratura e di G.C. e di Ministero della Giustizia;
Viste le memorie difensive;
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 maggio 2014 il Cons. Oberdan Forlenza e uditi per le parti gli avvocati Riccardo Marone, l’avvocato dello Stato Giustina Noviello e Francesco Cardarelli;
Svolgimento del processo
1. Con l’appello in esame, il dott. P.M. impugna la sentenza 29 gennaio 2014, con la quale il TAR per il Lazio, sez. I, ha dichiarato irricevibile il suo ricorso proposto avverso il Provv. 2 maggio 2012, con il quale il Consiglio Superiore della Magistratura ha nominato il dott. G.C. Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli.
Il Tribunale – rilevato che il dott. C. non si è costituito in giudizio – ha innanzi tutto chiarito, in fatto, quanto segue:
– il ricorso è stato inizialmente spedito per la notifica a mezzo posta al dott. C. “presso la sede della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli”, ma “non risulta che l’atto sia stato consegnato personalmente al C.”;
– un secondo originale, spedito per la notifica tramite ufficiale giudiziario, è stato notificato il 17 luglio 2012 a mani del canc. Esposito Raffaele;
– sempre il 17 luglio 2012, il difensore del dott. M. ha chiesto al CSM ed al Ministero della Giustizia “la residenza del dott. G.C., essendo la stessa riservata, in considerazione della carica rivestita dallo stesso dott. C., ai fini della notifica del ricorso in qualità di controinteressato”;
– il successivo 26 luglio 2012, il CSM rappresentava al difensore di non poter fornire i dati richiesti, ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, potendo esso comunicare solo l’indirizzo dell’ufficio giudiziario di servizio;
– in data 21 ottobre 2013, il difensore del dott. M. – confermato che il rifiuto di fornire i dati di residenza del dott. C. era stato ribadito il 14 settembre 2012 dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Napoli – chiedeva al Presidente del TAR di “ordinare alle amministrazioni di fornirgli l’indirizzo del controinteressato . . . ovvero, in via gradata, qualora dovesse ritenere prevalente l’interesse del controinteressato alla riservatezza e sicurezza personale, voglia autorizzare il ricorrente a notificare il ricorso e i motivi aggiunti tramite forme alternative di notifica”. Ciò sempre che, in primis, non fosse stata ritenuta rituale la notifica effettuata presso l’ufficio del dott. C. (come invece sostenuto dal ricorrente).
La sentenza impugnata – anche richiamando conforme giurisprudenza – afferma, in particolare:
– la notificazione di un atto giudiziario, ex art. 139 c.p.c., presso il luogo ove l’interessato lavori alle dipendenze di altri, deve avvenire a mani proprie, potendosi derogare a questa regola solo in presenza di un ufficio “creato, organizzato e diretto per la trattazione degli affari propri” dal medesimo interessato;
– ne consegue che è da ritenere inammissibile per nullità della notificazione, il ricorso che sia stato notificato al controinteressato, presso l’ufficio ove questi presti attività per effetto di un rapporto di lavoro dipendente, ma non nelle sue mani bensì in quelle di altro dipendente della medesima amministrazione;
– nel caso di specie, “le peculiarità del caso concreto possono scusare l’omessa tempestiva notifica, ma non possono evidentemente modificare il precetto che la disciplina”, di modo che “la notifica effettuata dal difensore del M. presso la Procura della Repubblica è sicuramente nulla, quali che possano essere i concreti motivi che hanno indotto ad effettuarla in tal forma”;
– al caso di specie non risulta applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa (in base al quale “il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla”), poiché trova invece applicazione l’art. 143 c.p.c., che regola la materia della notificazione agli irreperibili;
– anche a ritenere “non conferente” tale ultima disposizione, il M. avrebbe dovuto attivarsi innanzi al giudice prima della scadenza del termine decadenziale, “affinché questi, se lo avesse ritenuto, autorizzasse ex art. 51 cpa e 151 c.p.c., che la notificazione al controinteressato fosse eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”.
Avverso tale decisione, vengono proposti i seguenti motivi di appello:
a) error in iudicando; violazione art. 139, co. 2 c.p.c.; ciò in quanto deve ritenersi corretta la notifica effettuata presso l’ufficio, ma non a mani proprie dell’interessato, essendo sufficiente che, in questo caso, esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto, gravando inoltre sulla parte che eccepisce la irregolarità della notifica la prova della mancanza di tale rapporto. Nel caso di specie, l’atto è stato notificato a mani del direttore di cancelleria della Procura di Napoli e avrebbe dovuto essere la parte (Avvocatura dello Stato) a dimostrare l’inesistenza del rapporto tra funzionario più alto in grado della Procura e Procuratore;
b) error in iudicando; violazione e falsa applicazione art. 44, co. 4, Cpa. Ciò in quanto: per un verso, non è invocabile nel caso di specie l’art. 51 Cpa, che riguarda il terzo che il giudice ritiene utile far intervenire in giudizio e non il controinteressato; per altro verso, che non è previsto che la parte debba fare l’istanza al giudice di essere autorizzata a forme diverse di notifica entro il termine decadenziale di sessanta giorni; per altro verso ancora, non risulta applicabile l’art. 143 c.p.c., posto che il ricorrente non conosce né l’ultima residenza, né l’ultimo domicilio, né dove sia nato il dott. C.. Infine, risulta al contrario applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa.
Ciò premesso, l’appellante riporta i motivi di ricorso non esaminati dal giudice di I grado, per effetto della impugnata pronuncia di irricevibilità (pagg. 10 – 23 app.).
Si sono costituiti in giudizio il Ministero della Giustizia ed il Consiglio Superiore della Magistratura, che hanno concluso per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
Si è altresì costituito in giudizio il dott. G.C., che ha concluso anch’egli per il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.
All’udienza di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.
Motivi della decisione
2. L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente rimessione della causa al giudice di I grado ex art. 105 Cpa, per le ragioni di seguito esposte.
Il Collegio deve innanzi tutto confermare quanto sostenuto nella sentenza impugnata (e correlativamente rigettare il primo motivo di appello), con riferimento ai limiti della notificazione effettuata presso l’ufficio ove il dipendente pubblico rende la propria prestazione lavorativa.
Ed infatti, come affermato dal primo giudice, la notificazione di un atto giudiziario, ex art. 139 c.p.c., presso il luogo ove l’interessato lavori alle dipendenze di altri, deve avvenire a mani proprie, potendosi derogare a questa regola solo in presenza di un ufficio “creato, organizzato e diretto per la trattazione degli affari propri” dal medesimo interessato; e tale non può essere certamente considerato un ufficio pubblico.
Sul punto, questa Sezione ha già avuto modo di pronunciarsi (Cons. Stato, sez. IV, 21 gennaio 2013 n. 328), con considerazioni dalle quali non vi è motivo di discostarsi nella presente sede:
“Nel processo amministrativo la regola generale è che la notificazione a persone fisiche è la consegna a mani proprie ex artt.3 R.D. n. 642 del 1907 e 137 e 138 c.p.c.
In particolare, sul versante strettamente processuale amministrativo, la giurisprudenza è unanime nel ritenere che sia affetta da nullità la notificazione effettuata, come verificatosi nel caso de quo, nella sede di lavoro del destinatario ma non a mani proprie ( Cons. Stato Sez. .V 3 febbraio 2006; idem 25agosto2008 n.4078) .
Quanto poi alla possibilità di notificare il ricorso alla persona addetta all’ufficio, trattasi di ipotesi, per così dire derogatoria della regola sopra indicata, applicabile solo agli uffici privati”.
A fronte di ciò, occorre ritenere estranea ai compiti del personale dell’ufficio pubblico la ricezione di notifiche di atti giudiziari diretti ad altri pubblici dipendenti, pur incardinati nel medesimo ufficio, non essendovi alcun obbligo di portare detti atti a conoscenza degli interessati, né potendosi al contempo presumere che – in ragione di rapporti di “colleganza” o “dipendenza” gerarchica e/o funzionale – l’atto sia giunto nella sfera di conoscenza del suo effettivo destinatario.
Per le ragioni esposte, quindi, non può trovare accoglimento il I motivo di appello.
3. Risulta, invece, fondato il secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), con il quale l’appellante, lamentando la violazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, rileva:
– per un verso, che non è invocabile nel caso di specie l’art. 51 Cpa, che riguarda il terzo che il giudice ritiene utile far intervenire in giudizio e non il controinteressato;
– per altro verso, che non è previsto che la parte debba fare l’istanza al giudice di essere autorizzata a forme diverse di notifica entro il termine decadenziale di sessanta giorni;
– per altro verso ancora, che non risulta applicabile l’art. 143 c.p.c., posto che il ricorrente non conosce né l’ultima residenza, né l’ultimo domicilio, né dove sia nato il dott. C.; mentre risulta applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa.
La sentenza appellata ha ritenuto:
– che la notificazione effettuata presso l’ufficio sia nulla;
– che non risulti applicabile l’art. 44, co. 4, Cpa, poiché, posto che “la residenza, la dimora ed il domicilio del C. erano, all’epoca, ignoti e non conoscibili”, occorre invece fare applicazione dell’art. 143 c.p.c., che regola la materia della notificazione agli irreperibili, procedura invece non osservata nel caso in esame;
– che, in ogni caso, anche a voler considerare applicabile il citato art. 44, co. 4, Cpa, l’”esito negativo della notificazione”, ivi indicato quale presupposto perché il giudice possa concedere un termine perentorio per rinnovarla ed impeditivo della decadenza, è stato causato anche dallo stesso M. che, entro il termine decadenziale di sessanta giorni, avrebbe dovuto attivarsi innanzi al giudice “affinché questi, se lo avesse ritenuto, autorizzasse ex art. 51 cpa e 151 c.p.c., che la notificazione al controinteressato fosse eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”.
Questo Collegio non ritiene di poter condividere le affermazioni della sentenza oggetto di impugnazione.
Il problema più generale che il caso di specie solleva consiste nello stabilire le forme da utilizzarsi nelle ipotesi in cui il destinatario della notificazione del ricorso giurisdizionale amministrativo (nella specie, controinteressato), in virtù di particolari circostanze – quali possono essere eccezionali ragioni di riservatezza, ovvero misure di protezione conseguenti alla delicatezza delle funzioni svolte – abbia una residenza o domicilio non già sconosciuti, bensì non comunicabili, da parte dell’amministrazione che ha emanato l’atto, a colui che contro l’atto medesimo intende esercitare il proprio diritto alla tutela giurisdizionale.
In tali ipotesi, dunque, a fronte dell’art. 41 Cpa che obbliga, a pena di decadenza, a notificare il ricorso giurisdizionale “ad almeno uno dei controinteressati, che sia individuato nell’atto stesso”, si pone una Pubblica Amministrazione che ha emanato l’atto, e che è certamente a conoscenza della residenza del soggetto contemplato dall’atto predetto (a maggior ragione, nel caso in cui questi sia un pubblico dipendente), la quale ritiene di non poter fornire i dati indispensabili (residenza) perché la notificazione possa avvenire.
Nel caso considerato, la residenza, la dimora o il domicilio – la cui mancata conoscenza è indicata dall’art. 143 c.p.c. a presupposto per la propria applicazione – sono ben conoscibili, proprio perché conosciuti dalla Pubblica Amministrazione emanante l’atto.
Ne consegue che non ricorre una ipotesi di mancanza assoluta di conoscenza – il che renderebbe applicabile l’art. 143 cit. – ma la ben diversa ipotesi di impossibilità di acquisizione della conoscenza del dato per rifiuto di comunicazione del medesimo da parte del soggetto (pubblico) che ne è in possesso.
E ciò si determina, per di più, nel caso di specie, per effetto del comportamento non già di un (qualsivoglia) soggetto terzo depositario di atti o dati il cui contenuto non ritiene di estendere al richiedente, quanto per rifiuto della stessa amministrazione emanante l’atto, e dunque, di una parte processuale necessaria dell’instaurando giudizio.
In definitiva, l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale di una parte viene in tal modo reso difficoltoso, se non impossibile, in conseguenza del comportamento tenuto da una parte del medesimo (instaurando) giudizio.
Al tempo stesso, ove si intendesse seguire il rito della notifica agli irreperibili, anche il diritto di difesa del controinteressato ne risulterebbe compresso, poiché questi non riceverebbe, in tal caso, direttamente e tempestivamente, copia dell’atto processuale nella propria sfera di conoscenza, posto che questo deve essere depositato, a seconda dei casi, “nella casa comunale dell’ultima residenza o, se questa è ignota, in quella del luogo di nascita del destinatario” (art. 143, co. 1); ovvero presso l’ufficio del pubblico ministero (co. 2).
In definitiva, si intende affermare che l’art. 41 Cpa, nel momento in cui prevede, a pena di decadenza, la notificazione entro un termine perentorio del ricorso giurisdizionale ad almeno un controinteressato “che sia individuato nell’atto”, pone al tempo stesso un obbligo a carico della Pubblica Amministrazione emanante, di comunicare a chi intende ricorrere contro l’atto (e ne faccia richiesta) i dati essenziali concernenti il soggetto “individuato”, onde rendere possibile la notificazione del ricorso e, dunque, l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale, ex artt. 24 e 113 Cost.
Tali dati, peraltro, non risultano acquisibili dal ricorrente aliunde, posto che l’art. 1 L. 24 dicembre 1954, n. 1228 (Ordinamento delle anagrafi della popolazione residente), se pur qualifica gli “atti anagrafici” come atti pubblici, per un verso non sottrae i medesimi alle regole generali disciplinanti l’accesso agli atti amministrativi ed i suoi limiti; per altro verso, richiede comunque, sul piano concreto, la conoscenza della residenza o del luogo di nascita dell’interessato, onde poter procedere alla ricerca ed alla richiesta dei dati medesimi.
Una conclusione diversa da quella innanzi esposta proporrebbe profili di possibile illegittimità costituzionale dell’art. 41 Cpa.
Ed infatti, diversamente opinando, si otterrebbe che, mentre, da un lato, tale norma impone un obbligo di notifica entro un termine decadenziale a pena di inammissibilità del ricorso, al soggetto individuato dall’atto amministrativo, dall’altro lato si esime l’amministrazione (parte processuale necessaria) dal rendere possibile l’adempimento dell’onere processuale previsto, in tal modo consentendo ad una controparte (appunto, la P.A.) di incidere sull’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale nei confronti dei propri atti. Ed allo stesso tempo verrebbe a determinarsi una categoria di atti (quelli contemplanti beneficiari i cui dati anagrafici non sono, in tutto o in parte, ostensibili), per i quali vi sarebbero condizioni di limitazione di tutela giurisdizionale, in violazione dell’art. 113, co. 2, Cost.
4. Il Collegio non esclude che l’amministrazione possa opporre giustificazioni (valide e/o ragionevoli, e dunque legittime), tali da fondare il dubbio sulla possibilità di comunicare i dati indispensabili per la notifica del ricorso, ovvero sulle quali fondare il rifiuto espresso di comunicazione di detti dati.
Ma questa ora descritta costituisce proprio una delle ipotesi rientranti nella astratta previsione dell’art. 44, co. 4, Cpa, in base al quale “nei casi in cui sia nulla la notificazione e il destinatario non si costituisca in giudizio, il giudice, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante, fissa al ricorrente un termine perentorio per rinnovarla. La rinnovazione impedisce ogni decadenza”.
Tale disposizione del Codice del processo amministrativo ben può essere a sua volta integrata dall’art. 151 c.p.c., che consente al giudice di prescrivere “che la notificazione sia eseguita in modo diverso da quello stabilito dalla legge”, proprio valutando, tra l’altro, particolari esigenze di riservatezza del soggetto destinatario.
Ovviamente, perché possa trovare applicazione tale norma, occorre che il ricorrente abbia effettivamente dato luogo ad un tentativo di notificazione e che dimostri di avere effettuato quanto nelle sue possibilità, onde raggiungere lo scopo di una corretta vocatio in ius, e che ciò sia stato impedito da cause a lui non imputabili, come il rifiuto opposto dall’amministrazione di fornire dati, da essa conosciuti, idonei alla reperibilità del soggetto individuato dall’atto da essa emanato.
5. Nel caso di specie, il ricorrente dott. M. ha dato dimostrazione di avere effettuato quanto possibile per giungere ad una corretta notificazione del ricorso instaurativo del giudizio al controinteressato dott. C..
Ciò è affermato dalla stessa sentenza impugnata, laddove sottolinea (pag. 7), che le indagini espletate “possono ritenersi necessarie e sufficienti secondo l’ordinaria diligenza”.
In considerazione di ciò, e per le ragioni innanzi esposte, il primo giudice – come rilevato con il secondo motivo di appello – avrebbe dovuto fare applicazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, non risultando applicabili né l’art. 143 c.p.c., né l’art. 51 Cpa (riguardante la diversa ipotesi dell’intervento iussu iudicis).
D’altra parte, ai fini della possibile applicazione dell’art. 44, co. 4, Cpa, non occorre che il ricorrente si rivolga al giudice prima della scadenza del termine decadenziale, affinché questi possa disporre forme di notifica diverse: per un verso, tale condizione non è prevista dalla norma; per altro verso, essa risulterebbe non avere integrale riscontro fattuale, ben potendo la nullità della notifica (per ipotesi richiesta l’ultimo giorno utile) risultare solo a termine decadenziale spirato.
Per le ragioni esposte, ed in accoglimento del secondo motivo di appello (sub b) dell’esposizione in fatto), occorre dichiarare, ai sensi dell’art. 105 Cpa, la nullità della sentenza impugnata (ritenendo tale domanda ricompresa nei motivi di appello innanzi indicati), per essere stata la medesima sentenza pronunciata a contraddittorio non integro (in violazione dell’art. 24 Cost.).
Ne consegue la rimessione della causa al giudice di I grado, innanzi al quale il processo sarà riassunto ai sensi dell’art. 105, co. 3, Cpa.
Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando sull’appello proposto da M.P. (n. 2005/2014 r.g.):
a) accoglie l’appello, nei sensi di cui in motivazione;
b) per l’effetto, dichiara la nullità della sentenza impugnata e rimette la causa al giudice di I grado;
c) compensa tra le parti spese, diritti ed onorari di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 maggio 2014 con l’intervento dei magistrati:
Giorgio Giaccardi, Presidente
Sandro Aureli, Consigliere
Andrea Migliozzi, Consigliere
Umberto Realfonzo, Consigliere
Oberdan Forlenza, Consigliere, Estensore


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 09-05-2014) 15-07-2014, n. 16133

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARLEO Giovanni – Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28962/2008 proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI ROMA TRE ((OMISSIS)), in persona del suo Magnifico Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MONTEZEBIO 28, presso lo studio dell’avvocato BERNARDI GIUSEPPE, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.M. ((OMISSIS)), M.P. ((OMISSIS)) e V.P. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 38, presso lo studio dell’avvocato MONZINI MARIO, che li rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

CITTADINANZATTIVA ONLUS;

– intimato –

avverso la sentenza n. 14435/2008 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 02/07/2008, R.G.N. 21403/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/05/2014 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;

udito l’Avvocato MARIO MONZINI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. – P.M., M.P. e V.P. proponevano ricorso D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, ex art. 152, per ottenere tutela del proprio diritto alla riservatezza, violato dall’illecito trattamento, ad opera della Università degli Studi Roma Tre, dei rispettivi dati personali.

In particolare, risultava possibile, oltre che attraverso l’indirizzo, inserito direttamente in Internet, ” (OMISSIS)”, anche con la sola digitazione del nome e cognome o soltanto il cognome sul motore di ricerca “Google”, avere accesso al file excel “(OMISSIS)”, recante il nominativo di 3.724 studenti specializzandi e/o ex studenti specializzati, tra cui quello dei ricorrenti, con evidenziazione dei relativi dati personali e cioè generalità, codice fiscale, attività di studio, posizione lavorativa e retributiva.

2. – Con sentenza resa pubblica il 2 luglio 2008, l’adito Tribunale di Roma accoglieva la domanda dei ricorrenti e cosi disponeva la cancellazione dal web dei dati personali ed identificativi dei medesimi, contenuti nel predetto file excel, inibendone la diffusione all’Università resistente, che condannava, altresì, al risarcimento dei danni non patrimoniali patiti dagli stessi attori, liquidati nella somma di Euro 3.000,00, oltre interessi legali, in favore di ciascuna parte.

Il Tribunale, ritenuto che la divulgazione delle informazioni personali dei ricorrenti risultava sproporzionata rispetto alle finalità proprie del trattamento, escludeva che gli stessi avessero subito un danno patrimoniale, mentre, quanto al danno non patrimoniale, pur essendo stato dedotto “il patema d’animo sofferto per rischio di possibili furti della propria identità, con la necessità di continui controlli”, riteneva non dimostrata “tale ultima circostanza”, riscontrando, però, a fondamento del liquidato pregiudizio, un “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione personale anche di carattere economico”.

3. – Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’Università degli Studi di Roma Tre, affidando le sorti dell’impugnazione a tre motivi, illustrati da memoria.

Resistono con unico controricorso P.M., V.P. e M.P..

Motivi della decisione
1. – Preliminarmente, va esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dai controricorrenti sul presupposto che l’impugnazione è stata tardivamente proposta rispetto al termine di sessanta giorni, di cui all’art. 325 c.p.c..

1.1. – A sostegno dell’eccezione si deduce: che la sentenza impugnata in questa sede veniva notificata all’Università degli Studi di Roma Tre in data 3 ottobre 2008; che l’Università provvedeva a notificare il ricorso per cassazione soltanto il 16 dicembre 2008 e, dunque, oltre il termine di legge; che un primo tentativo di notificazione in data 27 novembre 2008, effettuato presso il domicilio eletto, non era andato a buon fine per il trasferimento del difensore di essi attuali controricorrenti; che, tuttavia, lo stesso difensore aveva comunicato al proprio Ordine professionale già in data 4 novembre 2008 il nuovo indirizzo e questo, a far data dal successivo 10 novembre, era visibile sul sito web dell’Ordine; che in data 28 novembre 2008 veniva notificata all’Università altra copia della sentenza con indicazione del nuovo indirizzo del difensore e, in pari data, venivano inviate una missiva via fax ed altra comunicazione per lettera raccomandata, quest’ultima pervenuta il 1 dicembre 2008.

I controricorrenti assumono, dunque, che la prima notificazione del 27 novembre 2008 era “inesistente” (dovendo essere effettuata presso il domicilio reale del procuratore trasferitosi) e che, comunque, l’Università, venuta tempestivamente a conoscenza del nuovo indirizzo del domicilio eletto, era stata negligente nel notificare ivi il ricorso ben 14 giorni dopo la scadenza del termine di cui all’art. 325 c.p.c..

1.2. – L’eccezione va respinta alla luce della più recente giurisprudenza di questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità.

A tal riguardo rileva, infatti, il principio – enunciato da Cass. 30 settembre 2011, n. 19986 (nello stesso senso, anche Cass., 26 marzo 2012, n. 4842) – per cui, “in tema di notificazione di un atto di impugnazione, tempestivamente consegnato all’ufficiale giudiziario, qualora la notificazione non si sia perfezionata per cause non imputabili al notificante (quale, in particolare, l’avvenuto trasferimento del difensore domiciliatario, non conoscibile da parte del notificante) e l’ufficiale giudiziario abbia appreso, già nel corso della prima tentata notifica, il nuovo domicilio del procuratore, il procedimento notificatorio non può ritenersi esaurito ed il notificante non incorre in alcuna decadenza, non potendo ridondare su di lui la mancata immediata rinotifica dell’atto da parte dell’ufficiale giudiziario, non dipendente dalla sua volontà, ove provveda con sollecita diligenza (da valutarsi secondo un principio di ragionevolezza) a rinnovare la richiesta di notificazione, a nulla rilevando che quest’ultima si perfezioni successivamente allo spirare del termine per proporre gravame”.

Nella specie, la documentazione versata in atti non consente di evincere con certezza che il nuovo indirizzo del difensore degli attuali ricorrenti fosse effettivamente conoscibile in base a consultazione del sito web dell’Ordine degli Avvocati già prima del 26 novembre 2008, allorquando l’Università ebbe a richiedere all’Ufficiale giudiziario la notificazione del ricorso per cassazione.

In ogni caso, non è dato ascrivere a negligenza della stessa Università, che aveva ricevuto la notificazione della sentenza in data 6 ottobre 2008 (giacchè ai fini della decorrenza del termine per l’impugnazione rileva la data di ricezione della notificazione da parte del destinatario e non già quella di spedizione ad opera del mittente), prima del trasferimento del difensore dei notificanti presso altro domicilio, la mancata consultazione del predetto sito web nel ridotto lasso temporale utile per impugnare il provvedimento, in assenza di previe sollecitazioni che potevano far presumere il mutamento di indirizzo.

Sicchè, il momento in cui l’Università degli Studi Roma Tre ha avuto contezza del nuovo indirizzo va collocato non prima del 27 novembre 2008 e, segnatamente, allorquando l’Ufficiale giudiziario, investito della originaria richiesta di notificazione del ricorso in data 26 novembre 2008 (dunque, entro il termine di sessanta giorni di cui all’art. 325 c.p.c., che scadeva il 5 dicembre 2008), ebbe a restituire l’atto da notificare con la relata in cui risultava indicato il nuovo domicilio presso il quale si era trasferito il legale degli attuali controricorrenti. E’ da ritenere, dunque, rispettosa del criterio di ragionevolezza la riattivazione del procedimento notificatorio il successivo 15 dicembre 2008.

2. – Del pari infondata è l’eccezione, sollevata sempre dai controricorrenti, di inammissibilità del ricorso per carente esposizione dei fatti ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, giacchè detta carenza non è affatto ravvisabile nell’atto della presente impugnazione, in cui è sintetizzata in modo intelligibile la vicenda storica e processuale, nonchè l’oggetto della pretesa azionata in giudizio.

3. – Con il primo motivo è denunciata, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, (di seguito anche codice della privacy o soltanto codice), in combinato disposto con l’art. 2059 c.c..

Il Tribunale di Roma avrebbe errato a ritenere che quanto dedotto dai ricorrenti – e cioè il “patema d’animo sofferto per il rischio di possibili furti della propria identità” – concretasse un danno non patrimoniale risarcibile ai sensi D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15.

Ciò, anzitutto, perchè si trattava di c.d. danno morale soggettivo, che le Sezioni Unite civili della Cassazione (sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008) hanno ritenuto “irrisarcibile”, negando che esso possa configurarsi come “categoria concettuale”.

Inoltre, e sotto diverso profilo, il giudice del merito “ha radicalmente omesso di accertare nel caso di specie la serietà del danno ipoteticamente risarcibile e la gravità della lesione dei diritti fondamentali della persona”.

Vengono, quindi, formulati i seguenti quesiti ex art. 366 bis c.p.c.:

“Nei casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno, è autonomamente risarcibile il patema d’animo lamentato dal danneggiato? Nei casi in cui la legge prevede il risarcimento del danno non patrimoniale, quest’ultimo è risarcibile anche se non è stata accertata la sua serietà e la gravità della lesione?” 4. – Con il secondo motivo è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, un vizio di motivazione della sentenza impugnata.

Integrerebbe fatto controverso decisivo ai fini del presente giudizio l’omessa valutazione, da parte del tribunale, “di serietà del danno e di gravità della lesione”, malgrado anche la contestazione mossa da essa Università degli Studi Roma Tre circa la mancanza di prova del danno lamentato e del nesso di causalità tra il comportamento ascritto al danneggiante e l’evento dannoso.

5. – Con il terzo motivo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 18 e 19, art. 24, lett. c).

Il Tribunale di Roma avrebbe omesso di considerare che la disciplina giuridica applicabile al trattamento dei dati personali non sensibili, nè giudiziari, deriva dalla natura giuridica del suo titolare che, se pubblico, deve utilizzare i dati in modo tale che il loro trattamento sia finalizzato allo svolgimento delle funzioni istituzionali, anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente (art. 19, comma 1, codice della privacy). La sentenza che si impugna, pur non negando, nel caso di specie, l’asservimento alla finalità istituzionale del trattamento dei dati, ha, tuttavia, ritenuto il trattamento stesso eccedente le finalità istituzionali perseguite dal soggetto pubblico che lo effettua. Invero, l’utilizzo di dati desumibili da pubblici registri, la cui consultazione li avrebbe resi altrimenti disponibili, non deve essere necessariamente proporzionato rispetto alle finalità istituzionali. Infatti, ai sensi dell’art. 24, comma 1, lett. c), del codice, non è richiesto alcun consenso da parte dell’interessato per il trattamento di dati provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque.

Viene formulato il seguente quesito di diritto: “I dati personali provenienti da pubblici registri, elenchi, atti o documenti conoscibili da chiunque possono essere trattati da un ente pubblico anche indipendentemente dal nesso di proporzionalità rispetto alle sue finalità istituzionali?”.

6. – E’ logicamente prioritario lo scrutinio del terzo motivo, che veicola una quaestio iuris attinente all’an debeatur e cioè alla sussistenza, o meno, della violazione della disciplina dettata a tutela del diritto alla protezione dei dati personali.

6.1. – Il Tribunale di Roma ha ritenuto che la condotta tenuta dall’Università Roma Tre integrasse una “divulgazione del contenuto del file sproporzionata rispetto alle finalità proprie del trattamento” dei dati personali degli interessati.

Tale convincimento, nella sua intrinseca portata, non è affatto censurato dalla ricorrente Università, che incentra la denuncia soltanto su un asserito error in indicando, sostenendo che il requisito della proporzionalità non sarebbe necessario in presenza di un trattamento sottratto al consenso dell’interessato, come quello di specie, riguardante dati provenienti da pubblici registri.

La doglianza è infondata.

I principi relativi alle modalità di trattamento ed ai requisiti dei dati, recati dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11, – e che si compendiano in quelli di proporzionalità, di pertinenza e di non eccedenza rispetto agli scopi per i quali i dati stessi sono raccolti – hanno carattere generale, nel senso che trovano applicazione in riferimento a tutti i trattamenti, pubblici e privati, segnando i confini di liceità degli stessi, ove la stessa regolamentazione specifica di settore non ne limiti o conformi diversamente la portata.

Il fatto, dunque, che per gli enti pubblici non sia necessario il consenso dell’interessato per il trattamento dei dati nell’ambito delle finalità istituzionali (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 18, comma 2), che può essere effettuato (ove non riguardi dati sensibili) anche in mancanza di una norma di legge o di regolamento che lo preveda espressamente (art. 19, comma 1, stesso D.Lgs.) – e, quindi, a maggior ragione se trattasi di dati provenienti da pubblici registri, per i quali anche i soggetti privati e gli enti pubblici economici sono esentati dall’acquisire il consenso art. 24, comma 1, lett. c), del medesimo D.Lgs.; cfr. in tale prospettiva Cass., 11 luglio 2013, n. 17203, in motivazione – non esclude, alla stregua di quanto contempla la stessa disciplina appena richiamata ed applicabile nella fattispecie, che il trattamento debba comunque essere effettuato in modo lecito e corretto ai sensi del citato art. 11 e, dunque, nel rispetto degli anzidetti principi generali e, tra questi, di quello di proporzionalità o non eccedenza del trattamento rispetto alle finalità proprie (cfr. anche Cass., sez. un., 8 febbraio 2011, n. 3033).

7. – I primi due motivi, che vanno congiuntamente scrutinati per la loro stretta connessione, sono fondati nei limiti appresso specificati.

7.1. – Occorre da subito sfrondare il thema decidendum dalla censura con cui si deduce l’erroneità della decisione impugnata là dove la stessa avrebbe risarcito il “danno morale soggettivo”, che le Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 26972 del 2008) avrebbero “viceversa ritenuto irrisarcibile”, giacchè – prima ancora della non corretta e, comunque, parziale lettura della citata pronuncia su cui viene imperniata la doglianza – quest’ultima non coglie, in parte qua, l’effettiva ratio decidendo della sentenza del giudice del merito, che riconosce la sussistenza del danno non patrimoniale non già nel “patema d’animo sofferto per il rischio di possibili furti della propria identità” (ritenuto anzi non dimostrato), ma per l’esistenza, in capo ai ricorrenti, di un “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione anche di carattere economico”. E cioè di un tipo di pregiudizio che, astrattamente, non può dirsi estraneo al paradigma del danno non patrimoniale risarcibile in base al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, come “effetto del trattamento di dati personali”.

7.2. – Fondato, per quanto di ragione, è invece il profilo di censura che investe la c.d. “soglia di risarcibilità” (secondo un’espressione icastica che intende soltanto riassumere la quaestio iuris) del danno non patrimoniale anche ai sensi del citato art. 15 del codice della privacy.

7.2.1. – Nella sua attuale ontologia giuridica, segnata dalla norma vivente dell’art. 2043 c.c., cui è da ricondurre la struttura stessa dell’illecito aquiliano, il danno risarcibile non si identifica con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento, ma con le conseguenze di tale lesione.

Il superamento della teorica del c.d. “danno evento”, elaborata compiutamente dalla sentenza n. 184 del 1986 della Corte costituzionale in tema di danno biologico, è frutto di successive elaborazioni giurisprudenziali, tributarie del revlrement operato dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 372 del 1994, i cui esiti possono compendiarsi nelle parole della sentenza n. 26972 dell’11 novembre 2008 delle Sezioni Unite di questa Corte (che, unitamente alle coeve decisioni n. 26973, n. 26974 e n. 26975, ha segnato l’approdo del diritto vivente in tema di danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c.), secondo cui “gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva)… consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata…)”.

Nell’alveo dell’art. 2043 c.c., va ricondotto anche il danno indicato dall’art. 2059 c.c., nel senso che tale ultima norma non disciplina un’autonoma fattispecie di illecito, produttiva di danno non patrimoniale, distinta da quella di cui all’art. 2043 c.c., bensì “regola i limiti e le condizioni di risarcibilità dei pregiudizi non patrimoniali (intesa come categoria omnicomprensiva, all’interno della quale non è possibile individuare, se non con funzione meramente descrittiva, ulteriori sottocategorie) sul presupposto dell’esistenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito richiesti dall’art. 2043 c.c.” (così Cass., 9 aprile 2009, n. 8703, che ribadisce in sintesi l’elaborazione della citata Cass., sez. un., n. 26972 del 2008, sulla scia delle sentenze n. 8827 e n. 8828 del 31 maggio 2003, di questa stessa Corte).

Sicchè, in una lettura costituzionalmente orientata, l’art. 2059 c.c., nell’affermare la risarcibilità del danno non patrimoniale, è norma di rinvio “ai casi previsti dalla legge (e quindi ai fatti costituenti reato o agli altri fatti illeciti riconosciuti dal legislatore ordinario produttivi di tale tipo di danno) ovvero ai diritti costituzionali inviolabili presidiati dalla tutela minima risarcitoria, con la precisazione, in quest’ultimo caso, che la rilevanza costituzionale deve riguardare l’interesse leso e non il pregiudizio conseguentemente sofferto e che la risarcibilità del pregiudizio non patrimoniale presuppone, altresì, che la lesione sia grave (e cioè superi la soglia minima di tollerabilità, imposta dai doveri di solidarietà sociale) e che il danno non sia futile (vale a dire che non consista in meri disagi o fastidi o sia addirittura meramente immaginario)” (ancora la citata Cass. n. 8703 del 2009).

7.2.2. – Può, dunque, affermarsi in via generale che la “gravità della lesione” attiene al momento determinativo dell’evento dannoso, quale incidenza pregiudizievole sul diritto/interesse selezionato (dal legislatore o dall’interprete) come meritevole di tutela aquiliana, e la sua portata è destinata a riflettersi sull’ingiustizia del danno, che non potrà più predicarsi tale in presenza di una minima offensività della lesione stessa. In definitiva, la gravità dell’offesa è funzione plastica del requisito dell’ingiustizia del danno, che ne modella il suo orbitare nella cerchia gravitazionale dell’illecito.

La “serietà del danno” riguarda, invece, il piano delle conseguenze della lesione e cioè l’area dell’obbligazione risarcitoria, che si appunta sulla effettività della perdita subita (il c.d. danno- conseguenza); il pregiudizio “non serio” esclude che vi sia una perdita di utilità derivante da una lesione che pur abbia superato la soglia di offensività.

Ed è questo il piano rispetto al quale la ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, escludendo che, nel sistema della responsabilità civile, al risarcimento del danno possa ascriversi una funzione punitiva, afferma l’insussistenza di un “danno in re ipsa” e ciò, per quanto qui interessa, non solo in riferimento alle ipotesi di lesione di diritti inviolabili (tra le altre, Cass., 21 giugno 2011, n. 13614; Cass., 14 maggio 2012, n. 7471; Cass., 24 settembre 2013, n. 21865), ma anche in quelle in cui il risarcimento del danno non patrimoniale sia previsto espressamente dalla legge (in tema di tutela della privacy: Cass., 26 settembre 2013, n. 22100; in tema di equa riparazione per durata irragionevole del processo:

Cass., 26 maggio 2009, n. 12242).

7.2.2.1. – L’accertamento della gravità della lesione e della serietà del danno spetta al giudice, in forza del “parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico” (Cass., sez. un., n. 26972 del 2008, cit.).

Dunque, è accertamento di fatto ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l’indagine proiettarsi sugli aspetti contingenti dell’offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi.

E’ accertamento di fatto che, naturalmente, richiede la previa allegazione di parte degli elementi fattuali atti ad innescarlo, sui quali incentrare il thema probandum, alla cui definizione possono ben concorrere le presunzioni di cui all’art. 2727 c.c..

7.2.3. – La giustificazione della cosi modulata “soglia di risarcibilità” del danno non patrimoniale, dettata dall’esigenza di arginare la “proliferazione delle c.d. liti bagatellari”, si rinviene – come affermato dalla citata sent. n. 26972 del 2008 – nel “bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile.

Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.)”.

7.2.3.1. – Il principio che configura una soglia nell’accesso alla tutela risarcitoria non rimane, del resto, isolato nell’ambito dei confini nazionali, giacchè non solo, de iure condendo, è campo di elaborazione di regole Europee in materia di tort law, ma trova espressione, direttamente positiva o frutto di interpretazione giurisprudenziale, in altri, ed a noi vicini, ordinamenti.

Nondimeno, quello che icasticamente viene indicato come il principio de minimi s non curat praetor guida la Corte Europea dei diritti dell’uomo nella delibazione di ricevibilità dei ricorsi, ai sensi dell’art. 35, p.2 b), della Convenzione, alla stregua del criterio del “pregiudizio significativo”, che porta a vetrificare, in concreto, se la violazione di un diritto abbia raggiunto “una soglia minima di gravità per giustificare l’esame da parte di una giurisdizione internazionale” (cosi, da ultimo, Corte EDU, sentenza Cusan e Fazzo c. Italia, n. 77/07, 7 gennaio 2014).

7.2.3.2. – Invero, quel che più preme porre in rilievo è che alla radice delle ragioni giustificative della “soglia di risarcibilità” opera il principio di solidarietà, di cui quello di tolleranza è intrinseco precipitato, il quale, nella sua portata etica, è immanente nello stesso concetto di societas umana e la cui trasposizione in norma giuridica costitutiva si è avuta, nel nostro ordinamento, con l’art. 2 Cost., ponendosi esso, insieme ai diritti inviolabili, tra i valori fondanti dell’ordinamento giuridico stesso, “come base della convivenza sociale normativamente prefigurata dal Costituente” (Corte costituzionale, sentenza n. 75 del 1992).

Un principio, dunque, che informa lo stesso sistema costituzionale- democratico, che per sua propria vocazione è orientato dal valore cardine rappresentato dalla persona umana e dalla sua dignità. Con ciò, il vincolo solidale è destinato a segnare l’agire sociale di ogni sua componente, sia pubblica, che privata, operando, inscindibilmente con il principio di uguaglianza, quel necessario contemperamento tra posizioni idiosincratiche e socialità, attraverso doveri che si impongono per la tutela e protezione di beni e valori della comunità nel suo complesso.

Il principio di solidarietà costituisce allora il punto di mediazione che consente al sistema ordinamentale di salvaguardare il diritto del singolo nell’ambito della collettività; esso, pertanto, non giustifica in sè la necessità di un apparato di tutela dei diritti inviolabili, ma, tuttavia, ne sorregge l’effettività, rendendolo sostenibile come sistema operante all’interno di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva.

7.2.4. – Il risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 2059 c.c., “nei casi previsti dalla legge”, presuppone, dunque, una previa individuazione positiva, da parte del legislatore, del diritto/interesse meritevole di una siffatta tutela, oppure l’opera selezionatrice del giudice, tenuto ad individuare esso stesso i diritti inviolabili già inscritti nella Carta Fondamentale, inverandone la portata valoristica che ruota intorno alla dignità della persona.

Gravità della lesione e serietà del danno sono, però, connotazioni logicamente indipendenti dalla selezione (legislativa o giudiziale) del diritto/interesse giuridicamente rilevante e suscettibile di tutela aquiliana ai sensi dell’art. 2059 c.c., nel senso che esse presuppongono che tale selezione sia già avvenuta.

Ciò consente di affermare, in linea di principio, che la verifica di gravità della lesione e di serietà del danno, giustificata a monte dalla forza pervasiva del principio di solidarietà (art. 2 Cost.), è operazione consentanea anche al risarcimento del danno non patrimoniale nelle ipotesi in cui sia lo stesso legislatore ad avere positivamente tipizzato tale rimedio rispetto a quel determinato diritto/interesse.

In altri termini, la mera inclusione da parte del legislatore di un dato diritto/interesse nell’alveo del rimedio risarcitorio del danno non patrimoniale non si risolve, di per sè, nell’affermazione stessa di gravità della lesione del diritto/interesse medesimo e di serietà del danno che ne consegue.

Tuttavia, essendo rimessa all’esercizio ragionevole della discrezionalità legislativa la conformazione stessa della tutela, anche nella sua modulazione di grado ed intensità, occorre verificare, caso per caso, quale sia la concreta disciplina che la legge ha dettato per quel determinato diritto/interesse che ha ritenuto di selezionare come suscettibile di essere ristorato, in caso di lesione, anche sotto il profilo del danno non patrimoniale.

Invero, de iure condendo, la interpositio del legislatore nella tipizzazione delle ipotesi di danno non patrimoniale potrebbe concentrarsi soltanto nella selezione dell’interesse giuridicamente meritevole di tale tutela risarcitoria e lasciare interamente al momento applicativo della legge l’indagine sull’ingiustizia del danno e sulla sua serietà; ovvero potrebbe attrarre nell’orbita della operata selezione anche la gravità della lesione, attraverso un bilanciamento effettuato a priori, in ragione di esigenze complessive che non attengano di per sè alla preminenza del diritto/interesse tutelato – posto che istituire tra i diritti inviolabili una rigida gerarchia inibirebbe il loro fisiologico dispiegarsi – bensì alla interazione tra il principio di solidarietà ed il tipo di rapporti che tali diritti innestano. Potrebbe, infine, lo stesso legislatore, confezionare misure rimediali ancor più intense, in ipotesi derogando anche al principio di effettività della perdita subita e, in un’ottica (diversa da quella attuale) privilegiante piuttosto una funzione meramente sanzionatoria della responsabilità civile, ipotizzare un danno in re ipsa, che prescinda dalla stessa effettività della perdita subita, magari valutando che lo stesso vincolo di solidarietà imponga, in quel dato contesto, una assoluta preminenza di salvaguarda dei diritti implicati.

E così, in una prospettiva questa volta de iure condito, se può ritenersi che il giudizio sulla gravità della lesione (ma non quello sulla serietà del danno) sia già definitivamente espresso dal legislatore nella stessa scelta di politica criminale di punire, per il particolare disvalore che lo caratterizza, un fatto come reato (quale ipotesi che da luogo al risarcimento del danno non patrimoniale ai sensi dell’art. 185 c.p., comma 2; per l’ingiustizia in re ipsa del danno da reato, cfr. Cass., 11 febbraio 1995, n. 1540), la stessa gravità della lesione, oltre che la serietà del danno, è delibazione che la L. 24 marzo 2001, n. 89, art. 2, comma 2, (c.d. legge Pinto), nella sua attuale formulazione, sembra affidare complessivamente all’apprezzamento del giudice, salvo poi ravvisare – al comma 2 quinquies – talune ipotesi in cui la pur esistente violazione della durata ragionevole del processo non da luogo ad alcun indennizzo.

7.2.5. – Nel caso che qui interessa, il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15, prevede che chiunque è tenuto a risarcire, ai sensi dell’art. 2050 c.c., il danno ad altri cagionato “per effetto del trattamento di dati personali” (comma 1) e che il “danno non patrimoniale è risarcibile anche in caso di violazione dell’art. 11” (comma 2).

Posto che il significato della congiunzione “anche” utilizzata dal citato comma 2 è quello di non confinare la risarcibilità del danno non patrimoniale alle ipotesi di pregiudizio conseguente ai fatti incriminati dalle disposizioni previste dallo stesso codice della privacy (art. 167, sul trattamento illecito di dati), occorre valutare in che termini l’accesso al risarcimento, che il legislatore ha ancorato alla “violazione dell’art. 11”, si atteggi sulla verifica di gravità della lesione e serietà del danno. Con l’ulteriore precisazione che dall’ambito applicativo dell’art. 11 sono escluse talune ipotesi (trattamento effettuato per scopi esclusivamente personali e rispetto a dati non destinati ad una comunicazione sistematica o alla diffusione; trattamento effettuato da soggetto non annoverabile tra le figure, di titolare e responsabile, tipizzate dagli artt. da 28 a 30 del codice), le quali, tuttavia, possono dar luogo (rispettivamente: la prima, per effetto della esplicita previsione dell’art. 5, comma 3, del codice; la seconda, per la clausola soggettiva generale del “chiunque” di cui al comma 1 dell’art. 15 del codice) ad un danno di natura non patrimoniale, la cui risarcibilità dovrà essere vagliata, già in punto di antigiuridicità della condotta, in base alle comuni regole sulla responsabilità aquiliana.

7.2.5.1. – Invero, la questione appare problematica unicamente sotto il profilo della gravità della lesione, e dunque dell’ingiustizia del danno, giacchè la necessità di una delibazione giudiziale sulla serietà dello stesso, come conseguenza della lesione, non può essere revocata in dubbio neppure ove si ritenesse che la legge abbia configurato la lesione apprezzabile dell’interesse tutelato con il rimedio risarcitorio come effetto diretto di una mera violazione dell’art. 11. Ciò in quanto la norma dell’art. 15, prevedendo espressamente come “risarcibile” il “danno non patrimoniale”, lascia impregiudicato il profilo della sussistenza, o meno, di una perdita (non patrimoniale) effettivamente subita dal danneggiato, non esibendo ulteriori indici significativi dai quali possa evincersi che l’interpositio legislatoris sia giunta sino a configurare un danno in re ipsa.

7.2.5.2. – Ciò premesso, più di un elemento milita nel senso che l’art. 11 del codice costituisce l’architrave su cui verificare l’antigiuridicità della condotta di trattamento dei dati personali, ma non già l’ingiustizia del danno, intesa come lesione al diritto/interesse tutelato dalla normativa di settore, necessaria per dare ingresso al risarcimento del pregiudizio patito, là dove esso si presenti serio.

Sotto un primo profilo, che attiene al dato letterale delle disposizioni implicate, rileva la circostanza per cui la violazione dell’art. 11 – in quanto la norma è volta a delineare i criteri di comportamento, lecito e corretto, ai quali si deve conformare il titolare o il responsabile del trattamento dei dati personali – non assorbe in sè tutte le componenti materiali dell’illecito, mentre l’art. 15, sia pure non aggettivandolo come ingiusto, indica in ogni caso la necessità dell’esistenza di un danno che sia effetto di un trattamento di dati personali.

Tale rilievo è da coniugare con l’ulteriore considerazione – fatta propria dalla giurisprudenza di questa Corte – secondo cui la tutela apprestata dal codice della privacy al diritto alla protezione dei dati personali non è espressione di una concezione “statica” della riservatezza, bensì “dinamica” di essa, “tesa al controllo dell’utilizzo e del destino dei dati” (Cass., 18 luglio 2013, n. 17602).

Tale evoluzione esalta, per contro, le finalità rispetto alle quali è improntato il sistema delineato dallo stesso decreto, in cui diventa prioritaria la tutela “dei diritti e delle libertà fondamentali e della dignità della persona, e in particolare della riservatezza” e, per l’appunto, “del diritto alla protezione dei dati personali nonchè dell’identità personale o morale del soggetto”, indicati dall’art. 2 del codice (tra le molte, oltre alla già citata Cass. n. 17602 del 2013, anche Cass., 8 agosto 2013, n. 18981 e, in precedenza, Cass., 8 luglio 2005, n. 14390). Di qui, la necessità di un bilanciamento tra contrapposti diritti e libertà fondamentali, in cui, seppur senza posizioni gerarchicamente definite, dovrà trovare adeguata considerazione anche il diritto fondamentale “alla protezione dei dati personali, tutelato agli artt. 21 e 2 Cost., nonchè all’art. 8 Carta dei diritti fondamentali dell’U.E., quale diritto a mantenere il controllo sulle proprie informazioni che, spettando a chiunque (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 1) e ad ogni persona (art. 8 Carta), nei diversi contesti ed ambienti di vita, concorre a delineare l’assetto di una società rispettosa dell’altro e della sua dignità in condizioni di eguaglianza” (cosi Cass. n. 17602 del 2013, cit.; Cass., 4 gennaio 2011, n. 186).

Sicchè, nel sistema del d.lgs. n. 196 del 2003, il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali non vive isolatamente, ma simbioticamente con gli altri ed implicati diritti fondamentali ed inviolabili della persona umana, operando strumentalmente per la sua integrale tutela.

In tale quadro, non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 determinerà, quindi, una lesione ingiustificata del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, ma soltanto quella che ne offenda in modo sensibile (e cioè oltre la soglia di tollerabilità) la sua portata effettiva, calata in un contesto in cui si combinano strettamente i diritti e le libertà contemplate dai primi due articoli del codice, perchè il risultato sia quello di una tutela piena della persona umana a fronte di un vulnus concreto ed effettivo, che, come tale, necessita di essere ristorato.

Agli evidenziati rilievi va aggiunto che il rimedio risarcitorio si accompagna, nel disegno del legislatore del codice, ad una tutela inibitoria composita, che rende pertanto suscettibile di graduare la risposta in funzione delle concrete esigenze di salvaguardia dell’interessato. Tra i vari rimedi (si veda, segnatamente, l’art. 7 del codice) è da annoverare anche quello della inutilizzabilità dei dati personali “trattati in violazione della disciplina rilevante in materia”, prevista dallo stesso art. 11, comma 2; inutilizzabilità che, questa volta, opererà direttamente in ragione della illiceità e/o scorrettezza della condotta del responsabile e/o del titolare del trattamento.

Vi è, dunque, una sinergia tra tutela preventiva (eminentemente inibitoria) e quella risarcitoria che il legislatore, nel costruire l’apparato rimediale, ha tenuto presente, cosi da far convergere la seconda là dove il pregiudizio risulti attuale, effettivo ed apprezzabile.

Conclusivamente può, quindi, essere enunciato il seguente principio di diritto:

“il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15, (c.d. codice della privacy) non si sottrae alla verifica di “gravità della lesione” (concernente il diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, quale intimamente legato ai diritti ed alle libertà indicate dall’art. 2 del codice, convergenti tutti funzionalmente alla tutela piena della persona umana e della sua dignità) e di “serietà del danno” (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato), che, in linea generale, si richiede in applicazione dell’art. 2059 c.c., nelle ipotesi di pregiudizio inferto ai diritti inviolabili previsti in Costituzione. Ciò in quanto, anche nella fattispecie di danno non patrimoniale di cui al citato art. 15, opera il bilanciamento (siccome pienamente consentito all’interprete dal modo in cui si è realizzata nello specifico l’interpositio legislatoris) del diritto tutelato da detta disposizione con il principio di solidarietà – di cui il principio di tolleranza è intrinseco precipitato -, il quale, nella sua immanente configurazione, costituisce il punto di mediazione che permette all’ordinamento di salvaguardare il diritto del singolo nell’ambito di una concreta comunità di persone che deve affrontare i costi di una esistenza collettiva. L’accertamento di fatto rimesso, a tal fine, al giudice del merito, in forza di previe allegazioni e di coerenti istanze istruttorie di parte, dovrà essere ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale, dovendo l’indagine, illuminata dal bilanciamento anzidetto, proiettarsi sugli aspetti contingenti dell’offesa e sulla singolarità delle perdite personali verificatesi. Un siffatto accertamento – che, ove l’offesa non superi la soglia di minima tollerabilità o il danno sia futile, può condurre anche ad escludere la possibilità di somministrare il risarcimento del danno – è come tale sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato”.

8. – Nella specie, il Tribunale di Roma, nell’accertamento del danno non patrimoniale poi liquidato ai ricorrenti D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152, ha fatto riferimento al mero “disagio conseguente alla propria (indiscriminata) esposizione personale anche di carattere economico”, mancando, altresì, di rendere pienamente intelligibile lo sviluppo dei criteri che hanno guidato un tale giudizio, il quale, come sopra evidenziato in linea di principio, avrebbe dovuto formarsi all’esito di una verifica in concreto circa la gravità della lesione e la serietà del danno.

9. – Sicchè, rigettato il terzo motivo di ricorso ed accolti, per quanto di ragione, i primi due motivi, la sentenza impugnata deve essere cassata in punto di riconoscimento del danno non patrimoniale e la causa rinviata al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, che nel delibare nuovamente la questione dovrà attenersi al principio di diritto innanzi enunciato.

Al giudice del rinvio spetterà anche la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il terzo motivo di ricorso ed accoglie i primi due per quanto di ragione;

cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Roma, in persona di diverso magistrato, anche per la regolamentazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 9 maggio 2014.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2014


CTR Lazio – sentenza n. 3711/39/14

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Commiss. Trib. Prov. Lombardia Milano Sez. XXI, 24/06/2014, n. 6087

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T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. II, Sent., (ud. 09-05-2014) 15-05-2014, n. 730

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T.A.R. Abruzzo Pescara Sez. I, Sent., (ud. 03-04-2014) 05-05-2014, n. 210

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Commissione Tributaria di Benevento, Sentenza 17.03.2014, n. 832

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