Corte d’Appello Catanzaro, Sez. lavoro, Sent., 09/03/2023, n. 157

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Corte D’Appello di Catanzaro
SEZIONE LAVORO

La Corte, riunita in camera di consiglio, così composta:

1. dott.ssa Barbara Fatale – Presidente rel.

2. dott. Rosario Murgida – Consigliere

3. dott.ssa Giuseppina Bonofiglio – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nella causa in grado di appello iscritta al numero 138 del Ruolo generale affari contenziosi dell’anno 2022 e vertente

TRA

M.A., con l’Avv. DURANTE EUGENIO, che lo rappresenta e difende in virtù di procura a margine del ricorso di primo grado, presso il cui studio, sito in Lamezia Terme, via S. Miceli n. 24/O, è elettivamente domiciliato

appellante
E
ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (INPS) (C.F.:.(…) – PIVA:(…)), in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliato in Catanzaro, Via Milano, 9, presso l’ufficio legale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avv.ti Maria Teresa Pugliano, Giacinto Greco, Silvia Parisi e Francesco Muscari Tomaioli, giusta procura generale ad lites, ad atto Notaio Dott. P.C. ni, in R., lì (…), rep. (…), rogito (…)

appellato

e

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, p.iva (…), in persona del Legale Rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Catanzaro, Via V. Cortese n. 12 presso lo Studio dell’Avv. Vincenzo GALLO, da cui è rappresentata e difesa, giusta procura allegata alla memoria di costituzione in appello

appellato

Avente ad oggetto: appello avverso sentenza del Tribunale di Lamezia Terme. Obbligo contributivo

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con ricorso depositato presso la cancelleria del Tribunale di Lamezia Terme, Giudice del lavoro, il 23.1.2013, M.A. ha chiesto di annullare e/o dichiarare nullo e/o di risolvere e/o rescindere e/o rettificare, e, comunque di dichiarare inefficace, l’accordo di rateazione perfezionato a seguito dell’istanza presentata dal medesimo M. il 29.1.2012 ed accettata da Equitalia Sud Spa con comunicazione del 14.2.2012, avente ad oggetto “Accoglimento dell’istanza di rateazione protocollo n. (…) del 31/01/2012 presentata dal CF: (…)”. Ciò poiché nell’accettazione della rateazione: a) è stato erroneamente computato l’importo pari ad Euro 269.213,15, riportato attraverso l’espresso richiamo della cartella di pagamento n. (…) e del sotteso Decreto Ingiuntivo n. 44/2001, che è titolo giudiziale in verità emesso per un credito di gran lunga inferiore e pari a L. 2.211.877 (quindi poco oltre i 2 milioni di L.); b) è stato erroneamente computato anche l’importo di Euro 56.182,89, riportato attraverso l’espresso richiamo della cartella di pagamento n. (…). Le dette somme, ed i relativi titoli, sono stati erroneamente inseriti da Equitalia nel piano di rateazione, e non erano presenti nella istanza del M., la quale non conteneva alcun importo né il riferimento ad alcuna specifica cartella di pagamento. Invero il M. aveva formulato l’istanza di rateazione in modo del tutto generico al solo fine di eliminare ogni pendenza nei confronti dell’agente della riscossione, chiedendo semplicemente e genericamente di rateizzare tutti i debiti in quel momento esistenti. Sulla scorta di tali vizi ed errori, il ricorrente ha chiesto la condanna dei convenuti Equitalia e Inps, in solido tra loro, alla restituzione delle corrispondenti maggiori somme non dovute, medio tempore versate, maggiorate di interessi e rivalutazione, dal dì del dovuto sino all’integrale soddisfo. Sempre nel ricorso, l’istante ha chiesto al Tribunale di accertare la prescrizione di tutti i crediti riportati nelle due cartelle sopra indicate, e nella specie l’intervenuta prescrizione decennale del credito INPS contenuto nel citato D.I. n. 47 del 2001, emesso dal Tribunale del Lavoro di Lamezia Terme in data 1.9.2001 per il valore di L. 80.848,596 (quindi oltre 80 milioni di L.), che è titolo non compreso nella cartella impugnata, ove si fa invece espresso riferimento al diverso decreto ingiuntivo n. 44/2001. Ciò poiché il credito contenuto nel decreto ingiuntivo n. 47/2001 era stato azionato – da ultimo – con la notifica dell’atto di pignoramento avvenuta il 21.12.2001, e questo ha rappresentato l’ultimo atto interruttivo della prescrizione. Invero la procedura è stata dichiarata estinta e dunque non si è mai formato alcun successivo atto e/o provvedimento che abbia potuto interrompere – nuovamente – la prescrizione decennale. Il relativo credito si è pertanto prescritto il 21.12.2011, dunque in epoca antecedente alla istanza di rateazione del M. (del 29.1.2012) e della sua accettazione da parte di Equitalia, e quindi, è ovvio, in epoca anteriore all’instaurazione del presente giudizio. In ogni caso ed infine, il ricorrente ha chiesto il risarcimento dei danni cagionati in seguito e per l’effetto della erronea e/o colposa e/o dolosa iscrizione a ruolo da parte dell’INPS e di Equitalia delle somme di cui alla ripetuta cartella n. (…), e dunque della fittizia esposizione debitoria cagionata in danno al ricorrente, costretto ad accettare una rateazione a condizioni ben più svantaggiose di quelle di cui avrebbe usufruito se fosse stato invitato a rateizzare solo le somme – ben più modiche – effettivamente dovute. Allo stesso modo ha eccepito la prescrizione del credito INAIL riportato nella cartella di pagamento n. (…).

In giudizio si sono costituiti i resistenti Equitalia, INPS ed Inail, i quali hanno chiesto il rigetto delle domande del ricorrente.

Il processo è stato istruito tramite prova per testi ed in via documentale, ed è stato dichiarato interrotto in data 19/01/2018, a seguito dell’assorbimento di Equitalia in Agenzia delle Entrate Riscossione. Esso è stato poi riassunto dal ricorrente in data 11/4/2018 tramite il deposito di ricorso in riassunzione.

Il Tribunale ha rigettato il ricorso alla luce delle seguenti argomentazioni:

“Ai fini della decisione ritiene opportuno questo Giudice che sia necessario fare alcune precisazioni. Riguardo al riconoscimento del debito e dell’effetto interruttivo della istanza di rateizzazione, la S.C. ha avuto modi confermare con decisioni dal n.12731 al 12735 del 2020 che “… Va rammentato che, in materia tributaria, non costituisce acquiescenza, da parte del contribuente, l’aver chiesto ed ottenuto, senza alcuna riserva, la rateizzazione degli importi indicati nella cartella di pagamento, atteso che non può attribuirsi al puro e semplice riconoscimento d’essere tenuto al pagamento di un tributo, contenuto in atti della procedura di accertamento e diriscossione (denunce, adesioni, pagamenti, domande di rateazione o di altri benefici), l’effetto di precludere ogni contestazione in ordine all’an debeatur, salvo che non siano scaduti i termini di impugnazione e non possa considerarsi estinto il rapporto tributario (Cass. n. 3347 del 2017). Correttamente, pertanto, la CTR ha escluso che l’istanza di rateazione avanzata dalla contribuente costituisse acquiescenza, rilevando, altresì, ai fini del decorso del termine di impugnazione, che la presentazione di tale istanza non comportava l’effettiva conoscenza della cartella di pagamento, ben potendo il contribuente richiedere il pagamento rateale per finalità (evitare di subire un’esecuzione o misure cautelar’) che non presuppongono il riconoscimento del debito. …” . Già con precedenti decisioni la S.C. ha avuto modo di affermare che “… Considerato che la Corte territoriale, confermando la decisione del giudice di primo grado – premesso che l’atto di riconoscimento di debito per avere effetto interruttivo della prescrizione deve essere univoco e sorretto da specifica intenzione ricognitiva, dovendosi escludere tale effetto escludere quando abbia finalità diverse – ha ritenuto che tale valore non potesse nel caso attribuirsi alla richiesta di rateizzazione, valorizzando le dichiarazioni rese dal legale rappresentante della società – già valutate dal giudice di primo grado – a conferma di una diversa volontà da parte del debitore, confermata a pochi mesi di distanza dalla presentazione dell’istanza di trattazione del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado in cui si faceva anche valere l’intervenuta prescrizione. Il primo motivo di ricorso di Equitalia Servizi di Riscossione è dunque inammissibile, in quanto valorizza solo la presentazione dell’istanza di rateizzazione ed il pagamento di alcune delle rate, senza confutare la motivazione della Corte che ha avuto riguardo alla volontà ivi espressa dalla parte, quale ricostruita anche in base al comportamento complessivo da questa tenuto, ritenuta non univocamente significativa della volontà ricognitiva. …” (S.C. n.13506/2018) ed ancora con Ordinanza n.16098/2018 ha avuto modo di precisare ulteriormente che “… Con il primo motivo la ricorrente denuncia in rubrica violazione dell’art. 100 c.p.c., artt. 2 e 111 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sviluppando nel corpo dell’articolazione della censura, in relazione alla giurisprudenza della Corte ivi richiamata, l’argomentazione anche in relazione alla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, rilevando l’erroneità dell’impugnata pronuncia nella parte in cui ha ritenuto ammissibile l’originaria impugnazione proposta dal contribuente avverso le cartelle ed i ruoli in questione per il tramite di estratto di ruolo, quantunque le risultanze probatorie avessero dimostrato che il contribuente aveva acquisito piena conoscenza di tutte le cartelle in questione, la cui impugnazione doveva ritenersi quindi inammissibile perchè tardiva, non potendo assumersi – una volta notificate le cartelle – l’autonoma impugnabilità dell’estratto di ruolo quale atto interno dell’Amministrazione. Il motivo è manifestamente fondato alla stregua dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. 2 ottobre 2015, n. 19704), che hanno chiarito che la tutela del contribuente può estendersi sì anche all’impugnazione delle cartelle e dei ruoli ad esse sottesi sempre che l’interesse all’impugnazione nasca effettivamente dalla conoscenza che se ne abbia, in assenza di notifica, solo per mezzo della consegna dell’estratto di ruolo, restando, al di fuori di detta ipotesi, non consentita l’impugnazione in sè dell’estratto di ruolo quale atto interno dell’Amministrazione. Di detto principio la sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione, ritenendo che solo per una delle cartelle l’agente della riscossione avesse provato l’avvenuta rituale notifica. Per le altre cartelle per le quali l’agente della riscossione aveva prodotto documentazione comprovante la richiesta di rateizzazione del debito dalle stesse portato e finanche il pagamento di un certo numero di rate (17 su 72 del beneficio concesso), pur richiamando remoto precedente di questa Corte (Cass. sez. 1^, 19 giugno 1975, n. 2436), la sentenza impugnata se ne è in concreto discostata, perchè, se è vero che di per sè in materia tributaria, non può costituire acquiescenza da parte del contribuente l’avere chiesto ed ottenuto, senza riserva alcuna, la rateizzazione degli importi indicati nelle cartelle di pagamento, nondimeno il riconoscimento del debito comporta in ogni caso l’interruzione del decorso del termine di prescrizione e si pone quindi in maniera incompatibile con l’allegazione del contribuente di non avere ricevuto notifica delle cartelle. Ciò comporta, come chiarito più di recente anche da Cass. sez. 5, 8 febbraio 2017, n. 3347, che in tanto è possibile, comunque, la contestazione nell’an della pretesa tributaria, sempre che non siano scaduti i termini per la proposizione dell’impugnazione avverso le cartelle, nella fattispecie in esameampiamente decorsi all’atto della proposizione del ricorso in primo grado, avuto riguardo alla data del 15 gennaio 2012 dei provvedimenti che avevano autorizzato la rateizzazione del debito richiesta dal contribuente. Il ricorso è dunque fondato in relazione al primo motivo, ciò comportando l’assorbimento del terzo, e la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., perché la causa non avrebbe potuto essere proposta. …”. Alla luce di quanto sinora esposto, quindi, vista la giurisprudenza, non si può non confermare il principio che sottoscrivere un piano di rateizzazione con Agenzia delle Entrate Riscossione non costituisce riconoscimento del debito, ma può comportare al limite una riapertura dei termini di prescrizione, salvo che non siano già decorsi ed in mancanza legittimando eventualmente l’ente ad intraprendere nuove azioni esecutive in danno del debitore. Valutazione quest’ultima che sarà, eventualmente, affrontata ove dovesse presentarsi l’esigenza d’analisi di una simile circostanza nel caso in specie. In aggiunta a quanto si rende necessario precisare che la S. C. a Sezioni Unite, con la sentenza n.23397/2016 ha affermato il principio, costante in giurisprudenza di legittimità, non per ultime la n.18360 e n.18362 del 20020, n.1088 e n.6888 del 2019, la n.23418/2018, di cui deve farsi applicazione, secondo il quale “… La scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 3, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo sena determinare anche la cd. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale, secondo la L. n. 333 del 1993, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato. Lo stesso vale per l’avviso di addebito dell’INPS, che, dal 1 gennaio 2011, ha sostituito la cartella di pagamento per i crediti di natura previdenziale di detto Istituto (D.L. n. 78 del 2010, art. 30, conv., con modif., dalla L. n. 122 del 2010). …”. Orbene, nel caso in esame, parte ricorrente lamenta, l’intervenuta prescrizione dei crediti INPS contenuti nella Cartella Esattoriale n.(…) notificata in data 7.10.2010, e conseguentemente l’illegittimo inserimento della stessa nell’istanza di rateizzazione, in quanto non più riscuotibili per previsione normativa, evidenziando identica questione per l’altra cartella contenente crediti per premi INAIL, il cui esame però è stato demandato alla competenza del Giudice del Lavoro del Tribunale di Catanzaro. Inoltre, lamenta che all’interno della cartella è indicato come titolo il decreto ingiuntivo n.44/2001, mentre i contributi risultano riferirsi al decreto ingiuntivo n.47/2001, di cui non si fa menzione, per cui lo stesso risulta essersi prescritto insieme ai contributi in esso contenuti. Ritiene questo Giudice che il ricorso sulla base della documentazione in atti ed in applicazione proprio dei principi della S.C., non possa esser accolto.

Atteso che i contributi contenuti nei due decreti ingiuntivi n.44 e n.47 del 2001 risultano regolarmente azionati per stessa ammissione di parte ricorrente, con un’esecuzione terminata con l’estinzione della procedura esecutiva il 28.02.2002, e trattandosi di titoli giudiziari la prescrizione è decennale e questa inizia a decorrere certamente dal 01.03.2002 per cui sino al 28.02.2012 non poteva verificarsi alcuna prescrizione dei crediti in essi contenuti. A ciò si aggiunga che la Cartella Esattoriale n.(…) notificata in data 7.10.2010 al di là della corretta o meno indicazione del decreto ingiuntivo ritenuto azionato, indica in modo inequivocabile i contributi e gli anni richiesti in pagamento e non essendo stata opposta, pur essendo stata regolarmente notificata, per stessa ammissione di parte ricorrente che ne ha allegato l’originale in atti, ha fatto sì che questi siano divenuti intangibili, con la conseguenza che l’eventuale loro prescrizione, ove possibile, ha iniziato a decorrere dal 08.10.2010, ancorché quinquennale, per gli anni non contenuti correttamente nel decreto ingiuntivo n.44/2001, per cui la loro prescrizione al limite poteva verificarsi solo dopo il 08.10.2015 . Per cui pur ipotizzando la possibilità di eccepirne la prescrizione dei contributi in essa contenuti, questa doveva esser fatta valere con la tempestiva opposizione alla cartella esattoriale, ma così non è stato, rendendo il suo contenuto irretrattabile, come da giurisprudenza richiamata. Negli atti di causa, fascicolo INPS, vi è un atto di precetto, regolarmente notificato al M. inerente il decreto ingiuntivo n.47/2001, considerato che si intima il pagamento di £.80.848.596 più accessori ecorrispondente all’importo del decreto richiamato, e notificato il precetto il 02.12.2002, per cui anche in questo caso gli importi dei contributi contenuti in detto titolo esecutivo giudiziario, in mancanza di altri atti interruttivi, si sarebbero prescritti a decorrere dal 01.12.2012. Da quanto sopra, essendo l’istanza di rateizzazione è del 31.01.2012, l’Agente della Riscossione ha correttamente inserito la Cartella Esattoriale n.(…), la quale non risulta esser prescritta e ne lo sono i contributi in essa contenuti, per le ragioni su esposte. Conseguenza di quanto sopra è che il ricorso risulta privo di fondamento, non essendoci alcuna prescrizione contributiva, né tantomeno risulta fondata l’affermazione di un abuso dell’Agente per la Riscossione nell’inserire la cartella in questione in quelle da rateizzare, per le ragioni su esposte. Riguardo alla Cartella Esattoriale contenente i crediti INAIL, per come già evidenziato, si è già disposto con Ordinanza d’incompetenza territoriale in favore del Giudice del Lavoro di Catanzaro, conseguentemente, la valutazione ha riguardato solo ed esclusivamente la Cartella Esattoriale n.(…) notificata in data 07.10.2010, sulla cui avvenuta notifica e non opposizione, nel termine di 40 gg dalla sua notifica ai sensi dell’art. 24 del D.Lgs. n. 46 del 1999, non vi è contestazione. Riguardo all’eccezione di inammissibilità avanzata da parte ricorrente inerente il deposito della memoria di costituzione da parte dell’INPS dopo al riassunzione avvenuta cartaceamente e non già per via telematicamente, questa oltre a presentarsi tardiva, perchè proposta all’odierna udienza e non già alla prima utile dopo la riassunzione, risulta essere generica e priva di riferimenti normativi e quindi inammissibile. La domanda è rigettata, le spese di lite, seguono la soccombenza, le quali vengono liquidate anche in favore dell’INAIL, attesa la rinnovata chiamata in giudizio nella riassunzione, nonostante né fosse stata dichiarata l’estromissione per incompetenza territoriale, e che per tutti si liquidano come da dispositivo”.

La sentenza è gravata d’appello da M.A., nei soli confronti di Agenzia Entrate Riscossione e dell’Inps, con atto depositato il 25 febbraio 2022.

Costituitisi in giudizio, gli appellati hanno rassegnato le conclusioni sopra riportate.

La Corte, acquisito il fascicolo telematico di primo grado, alla fissata udienza, sentiti i procuratori delle parti, decide come da allegato dispositivo.

Con il proposto gravame, il sig. M. lamenta che:

1) Il Tribunale ha correttamente rilevato che la richiesta di rateizzazione formulata dal ricorrente non comporta acquiescenza e che ha effetto interruttivo della prescrizione solo quando in essa vi sia atto di riconoscimento del debito univoco e sorretto da specifica intenzione ricognitiva, citando, tra le tante, Cass. civ. n. 13506/2018, salvo che alla data di rateizzazione non siano già decorso il termine prescrizionale (pagg. 7, 8 e 9). Il Giudice di prime cure ha poi correttamente delineato i termini della questione ove ha dedotto “Orbene, nel caso in esame, parte ricorrente lamenta, l’intervenuta prescrizione dei crediti INPS contenuti nella Cartella Esattoriale n.(…) notificata in data 7.10.2010, e conseguentemente l’illegittimo inserimento della stessa nell’istanza di rateizzazione”. Esso ha poi fatto, però, mal governo del principio sopra esposto, omettendo di rilevare l’intervenuta prescrizione del credito riportato nella ripetuta cartella n.(…), afferente il decreto ingiuntivo n. 44/2011. Invero, a parere del Giudice, posto che il titolo è stato azionato con la procedura esecutiva dichiarata estinta in data 28.2.2002, solo dopo il provvedimento di estinzione sarebbe iniziato il nuovo decorso del termine prescrizionale interrotto con l’atto di pignoramento, in concreto il termine inziale per la prescrizione cadrebbe in data 1.3.2002 mentre quello finale in data 28.2.2012 (in realtà, secondo l’errata tesi qui censurata, il decorso della prescrizione si sarebbe compiuto il giorno seguente, ossia l’1.3.2012). “Atteso che i contributi contenuti nei due decreti ingiuntivi n.44 e n.47 del 2001 risultano regolarmente azionati per stessa ammissione di parte ricorrente, con un’esecuzione terminata con l’estinzione della procedura esecutiva il 28.02.2002, e trattandosi di titoli giudiziari la prescrizione è decennale e questa inizia a decorrere certamente dal 01.03.2002 per cui sino al 28.02.2012 non poteva verificarsi alcuna prescrizione dei crediti in essi contenuti” (pag. 10). Tale statuizione è del tutto errata posto che il Tribunale ha ritenuto che il termine di prescrizione sia rimasto sospeso fino alla dichiarazione di estinzione, allo stesso modo di quanto avviene per i giudizi regolarmente esitati con sentenza. Ed invece il Tribunale non ha affatto considerato che “In caso di estinzione del processo, solo l’atto introduttivo del giudizio ha efficacia interruttiva istantanea della prescrizione,che ricomincia a decorrere dalla data di tale atto, non avendo efficacia interruttiva le attività processuali svolte nei processo estinto” (Cass. civ. n. 11016/2003). Dunque, il Tribunale avrebbe dovuto accertare, quale ultimo atto interruttivo, il pignoramento notificato il 21.12.2001, e avrebbe dovuto accertare e dichiarare l’intervenuta prescrizione del credito contenuto risalente al 21.12.2011, dunque in epoca antecedente alla istanza di rateazione del M. (del 29.1.2012) e della sua accettazione da parte di Equitalia, e dunque in epoca anteriore all’instaurazione del presente giudizio;

2) Sempre nella sentenza impugnata, in maniera contraddittoria, il Tribunale ha poi aggiunto che essendo il medesimo credito riportato nella cartella n.(…) notificata il 7.10.2010, esso è divenuto intangibile e che la sua prescrizione ha iniziato a decorrere dal 8.10.2020, ovvero dal giorno seguente al termine per la sua impugnazione. Anche in parte qua la pronuncia si rivela errata, posto che la cartella non può in alcun modo rappresentare atto interruttivo della prescrizione posto che essa è del tutto errata, sebben riferita al d.i. 44/2017 contiene in realtà il credito di cui al d.i. n. 47/2017. Essa non rappresenta certo atto nel quale si richieda in modo chiaro e non equivoco il pagamento di una certa somma di denaro. Al contrario, esso è atto manifestamente errato non certo in grado produrre effetto interruttivo. Non può essere certo condivisibile quanto affermato dal Tribunale, secondo cui la cartella non risulta esser prescritta (come è noto però la prescrizione non riguarda la cartella ma il diritto di credito) e ne lo sono i contributi in essa contenuti.

In via preliminare, si osserva che l’appellante ha espressamente dichiarato di non volere impugnare la parte di sentenza nella parte riguardante l’Inail, sicché i relativi capi devono reputarsi coperti da giudicato; del resto, trattandosi di cause scindibili, non si pone l’esigenza di integrazione del contraddittorio nei confronti del suddetto ente previdenziale.

Nel merito, l’appello non si presta ad essere accolto

Orbene, dalla disamina dell’atto di pignoramento (cfr fascicolo di primo grado di parte ricorrente) notificato il 21.12.2001 si evince che questo si riferisce ad entrambi i decreti ingiuntivi (44/01 e 47/01); d’altro canto, la cartella n. (…) (prodotta dallo stesso ricorrente), riguarda il decreto ingiuntivo 44/01 (lo si legge nella causale della cartella); la sua notifica (è pacifico tra le parti), risale al 7.10.2011, ed è dunque antecedente alla presentazione dell’istanza di rateazione (31.1.2012); nell’istanza che risulta depositata dall’odierno appellante nel suo fascicolo di primo grado, non si indicano le cartelle cui l’istanza è riferita (nel relativo spazio si fa riferimento al prospetto allegato, che però non è stato prodotto); tale istanza, peraltro, non reca il timbro di deposito presso il concessionario, diversamente da quella depositata da Equitalia in primo grado, nel proprio fascicolo, che risulta completa dell’indicazione delle cartelle cui l’istanza si riferisce – tra le quali figura anche la cartella qui in contestazione -, e che reca la sottoscrizione del ricorrente e la data.

Tali notazioni consentono di disattendere le questioni prospettate dall’appellante/opponente inerenti alla mancata conoscenza del contenuto dell’accordo di rateazione; è infatti evidente che, allorché il sig. M. lo sottoscrive, è pienamente consapevole dei titoli cui è riferito, compreso quello del cui inserimento qui si lamenta – che era a lui noto, visto che gli era stato previamente notificato.

Quanto all’eccezione di prescrizione, è vero che dopo l’estinzione del processo esecutivo non inizia a decorrere un nuovo termine di prescrizione, come avviene ai sensi di secondo comma di art. 2945 c.c. allorquando il processo si chiude con sentenza, ma è altrettanto vero che la notifica (7.10.2011) della cartella, riferita al decreto ingiuntivo n. 44/2011, è intervenuta entro dieci anni dalla notifica (21.12.2001) dell’atto di pignoramento ed il termine di prescrizione è decennale, perché si tratta di titolo di formazione giudiziale (il decreto ingiuntivo, appunto).

Ne discende che, quando viene inserito nell’istanza di rateazione, non era ancora prescritto.

Le considerazioni che precedono conducono al rigetto dell’appello e alla conseguente conferma della sentenza gravata.

Le spese del grado di lite seguono la soccombenza e si liquidano nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte, definitivamente pronunciando sull’appello proposto da A.M., con ricorso in data 25 febbraio 2022, avverso la sentenza del Tribunale di Lamezia Terme, giudice del lavoro, n. 439/2021, resa in data 13 settembre 2021, così provvede:

1. rigetta l’appello;

2. condanna M.A. alla rifusione delle spese del grado di lite, che liquida, per ciascun appellato, in complessivi Euro 7120,00,00, oltre accessori come per legge dovuti;

3. dà atto che sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato dovuto dall’appellante, ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1 comma 17 L. n. 228 del 2012, salva verifica del requisito soggettivo di esenzione.

Conclusione
Così deciso in Catanzaro, nella camera di consiglio della Corte di appello, Sezione lavoro, 2 febbraio 2023.

Depositata in Cancelleria il 9 marzo 2023.


Cass. pen., Sez. IV, Ord., 13/02/2023, n. 5897

Leggi: Suprema Corte di Cassazione sentenza n. 5897-2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 15/12/2022) 24/01/2023, n. 2193

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CRIVELLI Alberto – rel. Consigliere –

Dott. ANGARANO Rosanna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 14092/2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato, e presso la stessa domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, 12;

– ricorrente –

contro

A.A., (cf (Omissis)), rappresentata e difesa dall’avv. Sabrina Mariani, elettivamente domiciliata presso la stessa in Roma, via Gregorio VII, 186, il tutto come da procura in calce al controricorso del 12 giugno 2022;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, n. 6270/2019, depositata il 12 novembre 2019.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15 dicembre 2022 dal consigliere Alberto Crivelli.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia, in data 10 marzo 2016, notificava a A.A. intimazione di pagamento relativa a numerose cartelle. La contribuente impugnava la stessa sollevando questioni inerenti a vizi dell’intimazione e, limitatamente alle cartelle nn. (Omissis) e (Omissis), (dichiarazione dei redditi anni (Omissis)) decadenza. La CTP accoglieva il ricorso rilevando la mancata prova della notifica delle cartelle, oltre a ritenere fondate le altre censure all’atto impugnato. L’Agenzia proponeva gravame eccependo in particolare l’avvenuta notifica delle due cartelle sopra indicate rispettivamente in data (Omissis) e (Omissis). Il giudice d’appello respingeva il gravame, osservando che le notifiche del (Omissis) erano intervenute dopo l’intervenuta decadenza. Anche l’intimazione del (Omissis) era a sua volta tardiva rispetto al termine di decadenza quinquennale.

2. Ricorre dunque in cassazione l’Agenzia, affidando l’impugnativa a due motivi. Peraltro, la stessa procedeva al rinnovo della notifica via pec in data (Omissis), dopo che la precedente notifica, anch’essa via pec ed effettuata in data (Omissis) era stato “rifiutato dal sistema” in quanto la casella del legale della contribuente risultava “piena”, come risulta dal relativo messaggio. La contribuente, a seguito del suddetto rinnovo, si è costituita a mezzo di controricorso per eccepire la tardività dell’impugnativa e resistere nel merito. La difesa dell’Agenzia ha depositato memoria illustrativa in data (Omissis).

Motivi della decisione
1. Va anzitutto esaminata la questione inerente al perfezionamento della notifica, essendosi verificato che quella effettuata nel termine di legge per l’impugnazione era stata rifiutata dal sistema in quanto la casella di destinazione era “piena”.

In proposito si rileva che l’art. 16-sexies, D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 – articolo rubricato “Domicilio digitale” e introdotto dall’art. 52, D.L. n. 90 del 2014, convertito, con modificazioni, nella l. n. 114 del 2014 prevede testualmente: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 del codice di procedura civile, quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.

Tale disposizione normativa, nell’ambito della giurisdizione civile (e fatto salvo quanto disposto dall’art. 366 c.p.c. per il giudizio di cassazione), impone alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis (Codice dell’amministrazione digitale), ovvero presso il Re.G.Ind.E, di cui al D.M. n. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, escludendo che tale notificazione possa avvenire presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, salvo nei casi di impossibilità a procedersi a mezzo p.e.c., per causa da addebitarsi al destinatario della notificazione.

La prescrizione del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 -sexies prescinde dalla stessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, trovando applicazione direttamente in forza dell’indicazione normativa degli elenchi/registri da cui è dato attingere l’indirizzo p.e.c. del difensore, stante l’obbligo in capo ad esso di comunicarlo al proprio ordine e dell’ordine di inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel Re.G.Ind.E. La norma in esame, dunque, depotenzia la portata dell’elezione di domicilio fisico, la cui eventuale inefficacia non consente, pertanto, la notificazione dell’atto in cancelleria, ma la impone pur sempre e necessariamente alla p.e.c. del difensore domiciliatario, salvo l’impossibilità per causa al medesimo imputabile, e, al contempo, attenua l’efficacia prescrittiva l’art. 82, R.D. n. 37 del 1934, che, stante l’obbligo di notificazione tramite p.e.c. presso gli elenchi/registri normativamente indicati, può assumere rilievo unicamente in caso di mancata notificazione via p.e.c. per causa imputabile al destinatario della stessa, quale localizzazione dell’ufficio giudiziario presso il quale operare la notificazione in cancelleria (Cass., sez. 3, 11/07/2017, n. 17048; Cass., sez. 3, 08/06/2018, n. 14914; Cass., sez. 6-2, 23/05/2019, n. 14140; Cass., sez. L, 20/05/2019, n. 13532; Cass., sez. 3, 29/01/2020, n. 1982; Cass., sez. 6-3, 11/02/2020, n. 3164; Cass., sez. 1, 03/02/2021, n. 2460).

Occorre a questo punto rilevare come una recente giurisprudenza di questa Corte equipari tale situazione all’avvenuta consegna della pec. Infatti “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello Spa zio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi” (Cass. 11/02/2020, n. 3164).

Tale decisione basa la propria ratio sull’art. 149-bis, comma 3, c.p.c., in tema di notificazioni a mezzo posta elettronica eseguite dall’ufficiale giudiziario, secondo cui “La notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario.”. La norma andrebbe letta alla luce del D.M. n. 179 del 2012. Va ricordato che il disposto dell’art. 20 comma 5 del D.M. n. 44 del 2011, in base al quale “Il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello Spa zio disco a disposizione.”.

Sarebbe dunque onere del difensore provvedere al controllo periodico della propria casella di pec, finalizzato ad assicurare che gli effetti giuridici connessi alla notifica di atti tramite quel mezzo sia effettivo.

In proposito, dunque, per tale orientamento, rileva l’espressione “rendere disponibile” figurante nel citato disposto codicistico, che “individua un’azione dell’operatore determinativa di effetti potenziali e non una condizione di effettività della detta potenzialità dal punto di vista del destinatario (Cass. 3164 DEL 2020). Si giustificherebbe così che “qualora il “rendere disponibile” quale azione dell’operatore non possa evolversi in una effettiva disponibilità da parte del destinatario per causa a lui imputabile, come per essere la casella satura, la notificazione si abbia per perfezionata, con la conseguenza che il notificante può procedere all’utilizzazione dell’atto come se fosse stato notificato” (ancora Cass. 3164 del 2020).

Nello stesso senso andrebbe letto il riferimento all’art. 138, comma 2, c.p.c., il quale considera il rifiuto del destinatario di ricevere la copia di un atto che si tenti di notificargli a mani proprie come equivalente ad una notificazione di tale genere. Il lasciare la casella di PEC satura equivale – nell’ottica della notifica telematica e in generale dell’attività svolta in via telematica, cui si aderisce con l’acquisizione del relativo indirizzo, vieppiù quando richiesto dalla legge – ad un preventivo rifiuto di ricevere notificazioni tramite la stessa.

1.2. Va però segnalato un diverso indirizzo, di cui è espressione Cass. 20/12/2021, n. 40758, in base al quale se la notificazione telematica non vada a buon fine per una ragione non imputabile al notificante – essendo invece addebitabile al destinatario per inadeguata gestione dello Spa zio di archiviazione necessario alla ricezione dei messaggi (Cass., 20/05/2019, n. 13532, Cass., 21/03/2018, n. 8029) – il notificante stesso deve ritenersi abbia il “più composito onere”, anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domicilio (fisico) eletto, in un tempo adeguatamente contenuto (arg. ex Cass., Sez. U., 15/07/(Omissis), n. 14594, secondo cui “In caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa”; Cass., 19/07/2017, n. 17864, Cass., 31/07/2017, n. 19059, Cass., 11/05/2018, n. 11485, Cass., 09/08/2018, n. 20700). Tale orientamento si fonda sul principio per cui dev’esser escluso che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati (Cass., 11/02/2021, n. 3557), e solo così potranno conservarsi gli effetti della originaria notifica. A tale stregua, il mancato perfezionamento della stessa per non avere il destinatario reso possibile la ricezione dei messaggi sulla propria casella p.e.c., pur chiaramente imputabile al destinatario, impone alla parte di provvedere tempestivamente (nei termini dimezzati che si sono indicati nella pronuncia a Sezioni Unite sopra ripotata) al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dagli artt. 137 e seguenti, c.p.c., e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui all’art. 16, comma 6, ultima parte, del (citato) D.L. n. 179 del 2012, prevista per il caso in cui la ricevuta di mancata consegna venga generata a seguito di notifica o comunicazione effettuata dalla Cancelleria, atteso che la notifica trasmessa a mezzo p.e.c. dal difensore si perfeziona al momento della generazione della ricevuta di avvenuta consegna (RAC) (Cass., 18/11/2019, n. 29851).

L’onere, incombente sul notificante pur a fronte del comportamento obiettivamente negligente del destinatario, appare ragionevole a fronte della persistente domiciliazione fisica (ovviamente se presente), con gli effetti (in caso di notifica del ricorso in cassazione e in generale di impugnazione) di cui all’art. 330 c.p.c., e del fatto che lo stesso notificante può subito controllare l’esito della mancata consegna, tramite appunto il messaggio di rifiuto. Tutto ciò sufficientemente accompagnato, grazie alle indicazioni giurisprudenziali sopra indicate, da elementi di certezza anche in caso di un giudizio la cui proposizione sia oggetto di un termine decadenziale, ed a fronte del fatto che in simili evenienze, al destinatario non viene consegnato nulla, ma soltanto, ai sensi del D.M. n. 44 del 2011, art. 16, comma 4, , ” viene pubblicato nel portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite 14 ai sensi dell’art. 34, un apposito avviso di avvenuta comunicazione o notificazione dell’atto nella cancelleria o segreteria dell’ufficio giudiziario contenente i soli elementi identificativi del procedimento e delle parti e loro patrocinatori”.

In definitiva “se si può ritenere che l’elezione di domicilio fisico non impedisca l’utilizzo di quello telematico sopra richiamato, ciò non può viceversa imporre al difensore destinatario della notifica, in assenza di norme esplicite, gli stessi oneri che sono a lui richiedibili quando non possa aver fatto affidamento sulla suddetta legittima elezione e, anzi, abbia dato speculare valore al luogo elettronico di ricezione appositamente eletto; e, parimenti, l’onere del notificante si articola diversamente, dovendo tenersi congruo conto della specifica elezione di domicilio fisica; pertanto, la notifica telematica al domicilio digitale sarà valida nell’ipotesi di avvenuta consegna, mentre, qualora vi sia una differente e specifica elezione di diverso domicilio (nell’odierna fattispecie, fisico), nell’eventualità di casella telematica piena” (presso il domicilio digitale più sopra ricordato) per insufficiente gestione dello Spa zio da parte del destinatario della notifica, il notificante dovrà, per tempo, riprendere il procedimento notificatorio presso il domicilio eletto, e ciò a valere solo nel caso specificato, altrimenti non potendo sussistere alcun altro affidamento, da parte del notificatario, se non alla propria costante gestione della casella di posta elettronica, e nessun’altra appendice alla condotta esigibile dal notificante” (ancora Cass. 40758 del 21).

1.3. Quanto agli argomenti spesi dall’altro orientamento (sostanzialmente riproposto da Cass. 12/09/2022, n. 26810), si può osservare che il disposto di cui all’art. 149-bis, comma 3, c.p.c., appare norma neutra ai fini in parola, prevedendosi, infatti, solo che “la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario”. L’onere di consentire un’effettiva disponibilità da parte del destinatario deve peraltro tener conto del predicato difetto di esclusività del domicilio digitale e della mancata elisione della prerogativa processuale di eleggere domicilio fisico con effetti alternativi.

Quanto al D.M. n. 44 del 2011, art. 20, comma 5, trattasi di norma secondaria (come del resto osservato dalla stessa pronuncia suddetta). Nè decisivo pare il disposto di cui all’art. 138, secondo comma, c.p.c., posto che l’atteggiamento negligente consistente nel lasciare piena la casella non può essere equiparato al volontario di rifiuto di ricevere la notifica.

Circa poi l’ultimo precedente citato (Cass. n. 26810 del 22), lo stesso concerneva un caso differente, poichè non vi era stata valida elezione di domicilio fisico da parte dell’appellato, per cui il ricorso in cassazione venne notificato tramite deposito presso la cancelleria del giudice a quo (ex plurimis, Cass. 15/05/1996, n. 4502).

1.4. Calando i suesposti principi alla concreta fattispecie, a fronte della pacifica circostanza per cui la casella di posta elettronica certificata del legale della contribuente era piena, si ha l’elezione di domicilio fisico, come emerge dalla memoria di costituzione depositata in appello, ed in particolare dalla procura in calce alla stessa, in cui si legge che la stessa era elettivamente domiciliata presso il proprio legale in Roma, via di Santa Croce in Gerusalemme, 9; nonchè il ricevimento dell’avviso di mancata consegna all’Avvocatura notificante alla stessa data della notifica. In simile fattispecie, in cui in base a quanto precede non si è compiuta la fattispecie notificatoria mancando l’elemento della “consegna”, cui è subordinata l’esistenza della medesima, occorreva – appunto in base ai superiori rilievi – il rinnovo della notificazione stessa. La sua esecuzione solo due anni dopo, ben oltre quindi quello pari alla metà del termine stabilito (nel caso del ricorso in cassazione) dall’art. 325, comma 2, c.p.c., indicato come congruo dalla giurisprudenza delle sezioni unite (principio da ultimo fatto proprio da Cass. 24/10/2022, n. 31346), risulta quindi tardiva.

2. Alla stregua di quanto precede il ricorso deve intendersi inammissibile, con integrale compensazione delle spese del giudizio di legittimità, tenuto conto del fatto che la questione risultava ancora oggetto di contrastante soluzione al momento dell’introduzione del giudizio stesso.

Nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, non sussistono i presupposti processuali per dichiarare l’obbligo di versare, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla l. 24 dicembre 2012, n. 228 art.7, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, non potendo tale norma trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. 29/01/2016, n. 1778).

P.Q.M.
La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso.

Dichiara le spese del giudizio di legittimità interamente compensate fra le parti.

Conclusione
Così deciso in Roma,il 15 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2023


Cons. Stato, Sez. II, Sent., (data ud. 13/12/2022) 24/01/2023, n. 793

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 9040 del 2017, proposto da

-OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato Giuseppe Zaccaglino, domiciliato in via digitale come da pubblici registri;

contro

Ministero della Difesa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in via digitale come da pubblici registri e domicilio fisico in Roma, via dei Portoghesi, 12;

per la riforma

della sentenza del T.R.G.A. – della Provincia di Trento – Sezione Unica n. -OMISSIS- resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Ministero della Difesa;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 dicembre 2022 il Cons. Fabrizio D’Alessandri e nessuno presente per le parti;

Svolgimento del processo
Parte appellante impugna la sentenza n.-OMISSIS-pronunciata dalla Sezione Unica del Tribunale Regionale Giustizia Amministrativa di Trento.

In particolare, l’odierno appellante, sottufficiale dell’aeronautica militare con il grado di maresciallo di prima classe, ha prestato attività nell’ambito dei servizi di meteorologia e climatologia dell’arma, con assegnazione presso il teleposto meteo di -OMISSIS-e, da ultimo, presso il teleposto meteo del -OMISSIS-

Nel 2008 il maresciallo, a seguito di diverbi professionali, ha subito un’aggressione da parte di un collega, e, successivamente a tale episodio, si è manifestata la patologia di seguito indicata, che ha dato origine ai provvedimenti qui impugnati.

Nel 2014 l’Amministrazione ha riconosciuto l’infermità “disturbo d’ansia in trattamento”, diagnosticata all’odierno appellante, come dipendente da causa di servizio (con decreto n. 672/D datato 14.03.2014), senza l’indicazione di ascrivibilità tabellare ai fini dell’equo indennizzo, non essendo il quadro clinico stabilizzato.

Successivamente, dopo un periodo di più di due anni di assenza dal servizio, la C.M.O. ha visitato il militare in data 24.10.2016 e, con verbale modello BL/S n. ACMOII167472 datato 24.10.2016, ha diagnosticato l’esistenza di un “disturbo dell’adattamento con umore depresso in trattamento” e lo ha giudicato non idoneo permanentemente al servizio militare, con collocamento in congedo assoluto e reimpiego nelle corrispondenti aree funzionali del personale civile del Ministero della difesa.

E’ stato, altresì, negato l’accertamento della interdipendenza o l’aggravamento da infermità già riconosciuta dipendente da causa di servizio.

L’infermità da ultimo diagnosticata corrisponde, secondo la suddetta commissione medica, alla tabella B del D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834.

In sede di visita sopra indicata, l’odierno appellante è stato assistito dal proprio medico di fiducia, specialista in medicina legale, che ha formulato osservazioni ed eccezioni, in merito a una diversa valutazione medico legale rispetto a quella effettuata dalla CMO, relativa alla menomazione dell’integrità psico-fisica-sensoriale.

Lo stesso medico ha redatto anche propria relazione peritale in data 12.12.2016, nella quale ha concluso per una corretta attribuzione delle menomazioni subite, valutandole come corrispondenti alla V categoria della precitata tabella A della norma di riferimento.

Di pari tenore risulterebbero, inoltre, altre certificazioni mediche prodotte dall’odierno appellante.

Quest’ultimo, ritenendo che la sua patologia sia ascrivibile alla V categoria della tabella A del richiamato D.P.R. 30 dicembre 1981, n. 834, ha impugnato dinanzi al T.A.R. il provvedimento gravato, contestando la determinazione della categoria e della tabella di ascrivibilità.

In particolare, l’odierno appellante, come dallo stesso dedotto, non ha impugnato il verbale che lo ha dichiarato inidoneo permanentemente al servizio militare incondizionato, in quanto non contesta l’affezione patologica esistente, bensì l’assegnazione a tabella e categoria effettuata dall’organismo sanitario militare che ha valutato la menomazione dovuta all’infermità ritenendola corrispondente alla tabella B di cui al D.P.R. n. 834 del 1981.

A seguito della notificazione del decreto ministeriale della Direzione Generale per il personale militare, con il quale è stato disposto il collocamento in congedo assoluto, con effetto dalla data del 24.10.16, l’odierno appellante ha proposto motivi aggiunti.

Nello specifico ha contestato che il decreto gravato, notificato al dipendente, non risulta sottoscritto dal dirigente della 5^ Divisione, delegato con D.Dirig. n. 0700883 del 2016. Lo stesso, infatti, non risulterebbe sottoscritto né in forma cartacea, né in forma digitale e, in ogni caso, qualora si dovesse considerare come sottoscritto, sarebbe stato sottoscritto da un soggetto non abilitato.

La parte appellante ha, altresì, lamentato l’inidoneità della copia semplice (ovverosia non autentica) del decreto notificata all’odierno appellante a finalità legali, quale quella di determinare l’interruzione del rapporto di servizio.

L’adito T.A.R., con la sentenza gravata in questa sede ha rigettato sia il ricorso introduttivo che quello per motivi aggiunti.

L’appellante ha gravato la suindicata sentenza sostenendo l’erroneità e la carenza di motivazione del giudizio della C.M.O. che ha ascritto la patologia alla tabella B, in contrasto, peraltro, con altri pareri medico-legali che l’hanno, invece, riconosciuta come rientrante nella tabella A.

Ciò a fronte della decisione del giudice di prime cure di non disporre una verificazione o consulenza tecnica d’ufficio, pur in presenza di una questione inerente a una valutazione tecnica.

Quanto al gravame sui motivi aggiunti, l’appellante invoca il travisamento dei fatti da parte del T.A.R. che ha ritenuto che il decreto di congedo depositato in atti sia stato sottoscritto digitalmente dal titolare del potere di firma.

Il Giudice avrebbe omesso di osservare che il decreto depositato in giudizio dall’Amministrazione è diverso da quello partecipato al dipendente prima della causa e della proposizione dei motivi aggiunti.

Il decreto partecipato al ricorrente è, infatti, sottoscritto digitalmente da soggetto terzo non corrispondente al titolare del potere di firma del decreto di congedo.

L’Amministrazione, in corso di causa, ha provveduto a integrare e depositare il decreto regolarmente sottoscritto digitalmente dal dirigente della divisione ma l’atto notificato al ricorrente è, in effetti, sottoscritto digitalmente da diverso soggetto e ciò sarebbe documentalmente incontrovertibile.

Per tale ragione il ricorso per motivi aggiunti avrebbe dovuto essere accolto per un vizio fondamentale dell’atto gravato e cioè la sottoscrizione da parte di soggetto sprovvisto dei poteri di firma.

Analogamente, anche la doglianza espressa avverso la notifica senza valenza legale di una mera fotocopia del decreto di congedo avrebbe dovuto essere rilevata e opportunamente considerata dal Collegio di primo grado mentre, invece, quanto attuato è stato ritenuto pienamente legittimo.

La medesima parte appellante, invocando l’effetto devolutivo dell’appello, ha, infine, riproposto per intero i motivi di impugnazione prodotti in primo grado, nel ricorso principale e in quello per motivi aggiunti, riportandoli integralmente.

Si è costituta in giudizio l’Amministrazione appellata, a mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato.

Nelle more del giudizio l’Amministrazione, con verbale del 7.01.20219, ha riconosciuto all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII e, conseguentemente la spettanza del trattamento di quiescenza privilegiato a partire dal 25/10/2016. Conseguentemente l’INPS, con determina n. 166693 del 14.10.2019, ha corrisposto il pagamento del trattamento di quiescenza privilegiato.

L’adito Consiglio, con ordinanza n. -OMISSIS-ha chiesto alle parti chiarimenti “Atteso che, all’esito del depositato Verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, che ha attribuito all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII, e della corresponsione del trattamento di quiescenza privilegiato, è indispensabile acquisire dalle parti puntuali chiarimenti in ordine alla persistenza dell’interesse alla decisione dell’appello”.

I richiesti chiarimenti non sono stati resi dalle parti in quanto l’Amministrazione è rimasta silente, mentre parte ricorrente si è limitata meramente a dichiarare la sussistenza dell’interesse a ottenere una sentenza di merito, senza indicarne le ragioni.

Con ordinanza n. -OMISSIS- è stata reiterata richiesta di chiarimenti “Visto che l’adito Consiglio, con ordinanza n. -OMISSIS-ha disposto adempimenti istruttori e, in particolare, ha richiesto alle parti chiarimenti con la seguente motivazione “atteso che, all’esito del depositato Verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, che ha attribuito all’appellante un’infermità ascritta alla tabella A categoria VIII, e della corresponsione del trattamento di quiescenza privilegiato, è indispensabile acquisire dalle parti puntuali chiarimenti in ordine alla persistenza dell’interesse alla decisione dell’appello”; Rilevato che l’appellante ha depositato una mera dichiarazione di persistenza dell’interesse senza indicare le ragioni per cui, alla luce dell’intervenuto riconoscimento, permangono delle ragioni di concreta utilità alla definizione del giudizio di appello, mentre nulla ha indicato in merito l’Amministrazione intimata; Ritenuta la necessità, ai fini del decidere, di acquisire dall’Amministrazione e dal ricorrente chiarimenti in ordine ai concreti effetti dell’intervenuta ascrizione, con il verbale sanitario mod. BL/B n. 2 del 7.01.20219, dell’infermità alla tabella A categoria VIII, in relazione alla sussistenza dell’attualità dell’interesse a ricorrere nel presente giudizio”.

Sia l’Amministrazione che l’appellante hanno reso i richiesti ulteriori chiarimenti.

L’appello è stato trattenuto in decisione all’udienza pubblica del 13.12.2022.

Motivi della decisione
1) Il ricorso deve essere rigettato.

2) Quanto all’interesse a ricorrere oggetto di richiesta di chiarimenti per entrambe le parti, il Collegio ritiene che il suddetto interesse si possa considerare persistente.

Infatti, da un lato, l’Amministrazione non ha ammesso l’ascrivibilità inziale della patologia attribuita alla Categoria 8^ (ora riconosciuta dal verbale BL/B n. 2 del 07.01.2019 della C.M.O. di -OMISSIS-) al momento dell’impugnata valutazione da parte della C.M.O. di -OMISSIS-, nel verbale n. II154895 del 24.10.2016, che l’aveva ricondotta alla Tabella B; dall’altro, tale nuova valutazione è stata effettuata, e ha spiegato i suoi effetti, solo ai fini del trattamento pensionistico di privilegio (corrisposto dal 25/10/2016) e non rispetto all’equo indennizzo.

3) Nel merito il ricorso si rivela infondato.

Come suindicato, l’infermità “disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso misti cronico in trattamento” è stata riconosciuta dall’Amministrazione come ascrivibile alla tabella A categoria VIII solo a seguito dell’accertamento contenuto nel Verbale sanitario del 7.1.2019 e ai fini del trattamento pensionistico privilegiato.

Da ciò non è evincibile che a tale categoria fosse ascrivibile l’indicata infermità al momento della valutazione impugnata effettuata diverso tempo prima (verbale del 24.10.2016).

4) In sede di appello parte appellante ha altresì ribadito l’erroneità della sentenza sostanzialmente in quanto: – l’esito di inidoneità permanente al servizio militare con collocamento in congedo assoluto risulta incompatibile con l’assegnazione alla tabella B del D.P.R. n. 834 del 1981, dovendo riconnettersi a patologie classificabili nella tabella A; – nella tabella B, allegata al D.P.R. n. 834 del 1981, non si rinvengono tipologie di patologia sofferte dalla medesima parte, presenti invece nella tabella A. La medesima parte appellante deduce, altresì, la mancata assunzione da parte del giudice di primo grado di una verificazione.

Cita al riguardo precedenti giurisprudenziali che classificano la patologia disturbo dell’adattamento con ansia ed umore depresso nell’ambito della più volte richiamata tabella A, nonché le perizie di medici specialisti di fiducia.

5) Il Collegio rileva come sia granitica la giurisprudenza che sussume i giudizi medico legali formulati dalle commissioni mediche come rientranti nell’ambito della discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, con la conseguenza che gli stessi non sono sindacabili se non nei casi di manifesta abnormità, illogicità, travisamento ed erroneità.

Nel caso di specie, il Collegio concorda con la valutazione del giudice di primo grado secondo cui non risultano profili di manifesta illogicità, travisamento ed erroneità che soli possano giustificare il sindacato del giudice sul giudizio diagnostico in esame.

Il giudice infatti in tali casi non può sostituire la valutazione dell’organo amministrativo cui la legge attribuisce la tutela dell’interesse pubblico nell’apprezzamento del caso concreto, poiché, così facendo, invaderebbe una sfera propria della pubblica amministrazione.

La parte può contestare ab intrinseco il nucleo dell’apprezzamento complesso della discrezionalità tecnica, ma in tal caso ha l’onere di metterne seriamente in discussione l’attendibilità tecnico-scientifica. Se questo onere non viene assolto e si fronteggiano soltanto opinioni divergenti, tutte parimenti plausibili, il giudice deve dare prevalenza alla posizione espressa dall’organo istituzionalmente (e legalmente) investito della competenza ad adottare decisioni in attuazione dell’interesse pubblico, rispetto alla prospettazione individuale dell’interessato.

La sentenza impugnata ha rilevato come la diagnosi sia coerente con quelle precedenti effettuate dalla commissione medica e con le plurime certificazioni riguardanti l’infermità dell’interessato, sin dal 2009, e come la patologia sia ascrivibile nell’ambito della voce 2207 (nevrosi ansiosa), corrispondente alla tabella B.

Sul punto la parte appellante non ha specificamente evidenziato elementi di illogicità della sussunzione della patologia sofferta nell’ambito della voce ascrivibile a nevrosi ansiosa, limitandosi a fornire interpretazioni alternative delle risultanze mediche e prospettando la sussumibilità della patologia quale “Sindrome neurosiche lievi ma persistenti”, piuttosto che “Isteronevrosi di media gravità” oppure “psiconevrosi di media entità”.

In tal senso, pertanto, la parte appellante ha chiesto al giudice di sostituire il suo giudizio alla discrezionalità tecnica dell’Amministrazione al fine di inquadrare diversamente, quando al contrario avrebbe dovuto fornire elementi volti a comprovare l’illogicità della classificazione operata dall’Amministrazione e confermata dal giudice di prime cure.

Il sindacato sulla discrezionalità tecnica si sarebbe potuto positivamente effettuare solo nel caso in cui fosse stato positivamente dimostrato che la classificazione operata dall’amministrazione fosse affetta da travisamento di fatti, manifesta illogicità, palese incongruità, potendo il giudice valutare ab externo tali profili.

6) Infondata è altresì la censura d’appello relativa alla circostanza che l’esito di inidoneità permanente al servizio militare con collocamento in congedo assoluto risulta incompatibile con l’assegnazione alla tabella B.

Il Collegio rileva innanzitutto come l’appellante non abbia specificamente criticato il ragionamento del giudice di prime cure sul punto, limitandosi a riproporre le censure di primo grado, in violazione del principio di specificità dei motivi di appello.

In ogni caso il Collegio ritiene di condividere l’iter argomentativo del T.A.R. che ha evidenziato

l’insussistenza di espresse disposizioni di legge che impediscono il riconoscimento dell’inidoneità al servizio militare in caso di patologie sussumibili nella tabella B del D.P.R. n. 834 del 1981, e rileva altresì che la direttiva del comando logistico dell’esercito, dipartimento di sanità, MDE24363/33204/Sez.Med.Leg/10.3.4.1 del 18 marzo 2009 precisa che “i limiti di categoria nell’ambito delle tabelle indicati al fine della idoneità non possono comunque essere applicati in modo tassativo, e che la valutazione dell’idoneità non segue i medesimi criteri dell’invalidità e non consegue automaticamente all’ascrivibilità a una determinata categoria e tabella. Pertanto la direttiva consente margini elastici di applicazione che, nella fattispecie, risultano essere giustificati dalla rilevata assunzione di psicofarmaci, determinante l’inidoneità al servizio indipendentemente dalla tabella in cui è annoverata la patologia”

7) Anche la censura d’appello riguardante il rigetto del ricorso per motivi aggiunti è infondata.

Il Consiglio concorda con la sentenza gravata che ha rilevato come sia, comunque, determinante la circostanza che l’Amministrazione abbia prodotto in primo grado copia del decreto dirigenziale che presenta la firma digitale del Dirigente abilitato, e dalla quale si evince che lo stesso decreto è stato sottoscritto digitalmente la stessa data di protocollo dell’atto del 2.12.2016.

L’atto quindi è stato effettivamente sottoscritto e dal soggetto competente e abilitato e non vi è quindi spazio per contestare l’inesistenza della sottoscrizione – con conseguente nullità secondo il tenore della norma dell’art. 21-septies, lett. a) della L. n. 241 del 1990 – vizi di forma invalidanti o profili di incompetenza.

Semmai la questione controversa si sposta sulla valenza della circostanza, asserita dall’appellante, che allo stesso sarebbe stata notificata una copia priva di firma e non autenticata.

Sul punto il Collegio ritiene di aderire a quanto indicato in sentenza ovverosia che “non essendo prevista nel caso di specie una formale notifica e trattandosi di una comunicazione mediante consegna a mani del decreto dirigenziale con il quale è stato disposto il collocamento in congedo assoluto, la copia autentica non è necessaria”.

Inoltre, la notifica in forma non corretta non sarebbe idonea a inficiare l’atto, risultando la stessa condizione di efficacia, ma non di validità dell’atto, stante anche che il collocamento a riposo ha una sua decorrenza autonoma specificamente indicata nel 24 ottobre 2016 e, pertanto, non dipende dalla data di notifica.

Anche fosse vero che la copia notificata all’appellante fosse priva di firma, la notifica ha conseguito lo scopo di rendere conoscibile l’atto, né può dirsi che non risultasse certa la provenienza dello stesso, per cui la mancanza di sottoscrizione si presenterebbe quale elemento meramente formale inidoneo a inficiare l’atto.

Ciò tanto più in presenza del principio giurisprudenziale secondo cui la stessa mancanza di sottoscrizione di un atto non è idonea a metterne in discussione la validità e gli effetti nei casi in cui detta omissione, come nella fattispecie in esame, non metta in dubbio la riferibilità dell’atto stesso all’organo competente (T.A.R. Sicilia Catania Sez. II, 12-11-2019, n. 2713 Cons Stato sez. IV 5 ottobre 2010 n. 7309; 11 maggio 2007 n. 2325; 23 febbraio2007 n. 981;Sez. VI, 7 giugno 2011, n. 3414; Sez. VI, 10 dicembre 2010, n. 8702; 5 dicembre 2010, n. 7309; 18 settembre 2009, n. 5622;18 dicembre 2007, n. 6517).

Nell’atto in questione era, infatti, chiaramente indicata l’autorità emanante e il nominativo del firmatario.

Tale principio deve ritenersi tanto più valido qualora, come nel caso di specie, il provvedimento sia stato effettivamente sottoscritto e solo la copia notificata al privato sia priva di sottoscrizione.

8). L’appello di palesa, infine, inammissibile nella parte in cui ha riproposto integralmente i motivi di impugnazione formulati in primo grado, sia nel ricorso principale che in quello per motivi aggiunti.

E, infatti, principio consolidato che in ambito amministrativo il principio della specificità dei motivi di impugnazione, posto dalla normativa di cui all’art. 101, comma 1, del D.Lgs. n. 104 del 2010, impone che sia rivolta una critica puntuale alle ragioni poste a fondamento della sentenza impugnata, non essendo sufficiente la mera riproposizione dei motivi contenuti nel ricorso introduttivo (Cons. Stato Sez. VI, 11/01/2021, n. 342).

Innanzi al Consiglio di Stato, la pura e semplice riproposizione dei motivi di ricorso di primo grado (in assenza di una specifica indicazione dei motivi in concreto assorbiti e delle ragioni per cui ciascuno di essi viene riproposto in relazione alle diverse statuizioni della sentenza gravata), si pone in contrasto con il generale principio della specificità dei motivi di appello nonché con il principio secondo cui è inammissibile la mera riproposizione dei motivi di primo grado, senza che sia sviluppata alcuna confutazione della statuizione del primo giudice (Cons. Stato Sez. II, 04/01/2021, n. 111).

9) Per le suesposte ragioni l’appello deve essere in parte rigettato, in parte dichiarato inammissibile, nei sensi esposti in motivazione.

Le specifiche circostanze inerenti al ricorso in esame costituiscono elementi che militano per l’applicazione dell’art. 92 c.p.c., come richiamato espressamente dall’art. 26, comma 1, c.p.a. e depongono per la compensazione delle spese del grado di giudizio di appello tra le parti.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, in parte lo rigetta, in parte lo dichiara inammissibile..

Compensa le spese del grado di giudizio di appello tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, e all’articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 dicembre 2022 con l’intervento dei magistrati:

Oberdan Forlenza, Presidente

Antonella Manzione, Consigliere

Francesco Guarracino, Consigliere

Giancarlo Carmelo Pezzuto, Consigliere

Fabrizio D’Alessandri, Consigliere, Estensore


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 08/11/2022) 16/01/2023, n. 981

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. DI MARZIO Paolo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO Maria Giulia – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– ricorrente –

contro

A.A.;

– intimato –

avverso la senteza n. 2642, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Calabria il 12.6.2020, e pubblicata il 22.10.2020;

ascoltata, nella camera di consiglio non partecipata dell’8.11.2022, la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio;

la Corte osserva:

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate notificava ad A.A., quale titolare di ditta individuale esercente l’attività di bar, l’avviso di accertamento n. (Omissis), fondato sull’applicazione di metodo induttivo, mediante il quale recuperava a tassazione il maggior reddito ritenuto conseguito nell’anno 2013, nella misura di Euro 43.341,95.

2. Il contribuente impugnava l’atto impositivo innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di (Omissis), proponendo plurime censure, procedurali e di merito. La CTP riteneva che l’Amministrazione finanziaria non fosse riuscita a provare la ricorrenza di indizi gravi, precisi e concordanti, di evasione contributiva, ed annullava l’avviso di accertamento.

3. L’Agenzia delle Entrate spiegava appello avverso la decisione sfavorevole conseguita nel primo grado del giudizio, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Calabria, ed il contribuente non si costituiva. Il giudice dell’appello dichiarava inammissibile il ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria, a causa del difetto di prova della notificazione dell’atto introduttivo del gravame, per non essere stata attestata la conformità dell’atto, nativo digitale, “dei suoi allegati e della ricevuta di attestazione e di consegna” (sent. CTR, p. 3), dal difensore dell’Ente impositore impugnante.

4. Ha proposto ricorso per cassazione, avverso la decisione sfavorevole assunta dalla CTR, l’Amministrazione finanziaria, affidandosi ad un motivo di ricorso. La notificazione del ricorso è stata effettuata dall’Agenzia delle Entrate presso il difensore della contribuente costituito nel primo grado del giudizio, indicato anche quale domiciliatario, e l’atto è stato consegnato il (Omissis). L’intimato non si è costituito.

Motivi della decisione
1. Mediante il suo strumento di impugnazione, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’Ente impositore contesta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, commi 1 e 2, del decreto MEF n. 163 del 2013, art. 5, comma 2, della L. n. 53 del 1994, art. 9, nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16 bis, per avere la CTR erroneamente ritenuto inesistente la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di appello, documento nativo digitale, al domiciliatario di controparte, perchè il difensore dell’Amministrazione finanziaria non ha attestato l’autenticità del ricorso, degli allegati e dell’attestazione di consegna, tutti prodotti in forma digitale.

2. Preliminarmente occorre chiarire che il Collegio, rettificando la proposta del relatore, ritiene di aderire all’orientamento ora maggioritario di questa Corte, secondo cui deve ritenersi valida la notifica del ricorso per cassazione effettuata dall’Agenzia delle Entrate presso il procuratore domiciliatario costituito in primo grado di parte contribuente, rimasta contumace in grado di appello. Invero, le Sezioni Unite con sentenza 20.7.2016, n. 14916, hanno affermato che, sebbene in tema di ricorso per cassazione avverso le sentenze delle Commissioni Tributarie Regionali si applichi, con riguardo al luogo della sua notificazione, la disciplina dettata dall’art. 330 c.p.c., tuttavia, in ragione del principio di ultrattività dell’indicazione della residenza o della sede e dell’elezione di domicilio effettuate in primo grado, sancito dal D.Lgs. n. 31.12.1992, n. 546, art. 17, comma 2, è valida la notificazione eseguita presso uno di tali luoghi, ai sensi del citato art. 330, comma 1, seconda ipotesi, c.p.c., ove la parte non si sia costituita nel giudizio di appello oppure, costituitasi, non abbia espresso al riguardo alcuna indicazione. A tali consolidati principi si è uniformata la giurisprudenza successiva, evidenziando che il processo tributario ha un proprio regime di notificazione degli atti, disciplinato dal D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16 e 17, a tenore dei quali le notificazioni sono eseguite, salva la consegna a mani proprie, nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte all’atto della sua costituzione in giudizio e l’indicazione della residenza e del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi di giudizio.(cfr., Sez. V, 7.12.2016, n. 25117). Ora, nel caso in esame, il ricorso per cassazione risulta essere stato già notificato tempestivamente, tramite pec, alla parte contribuente presso il domicilio eletto in primo grado sicchè, alla luce dei principi appena esposti, la notifica è corretta con conseguente ammissibilità del ricorso (cfr. Cass. sez. V, 27.4.2021, n. 11031; v. anche, nello stesso senso, ex multis, Cass. sez. V, 19.11.2020, n. 26308; Cass. sez. V, 8.2.2022, n. 3984).

3. Può quindi esaminarsi il motivo di ricorso proposto dall’Amministrazione finanziaria, secondo cui è incorso in errore il giudice dell’appello, nel ritenere l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione, per non avere il difensore della notificante Agenzia delle Entrate attestato l’autenticità del ricorso, degli allegati e della ricevuta di consegna del documento.

3.1. Occorre evidenziare subito che il ricorso in appello dell’Amministrazione finanziaria è stato redatto e notificato in forma digitale, e la notifica è stata effettuata a mezzo Pec presso il domiciliatario del contribuente. Quindi l’Agenzia delle Entrate ha depositato nel fascicolo processuale l’documenti digitali riportanti il ricorso e l’attestazione di consegna, sempre mediante modalità telematica. Non ricorre, pertanto, l’ipotesi che il notificante abbia estratto una copia analogica dell’originale telematico, ed abbia depositato tale copia in atti.

3.2. Il giudice dell’appello scrive che “difetta la prova della notificazione dell’atto introduttivo” dell’impugnazione innanzi a sè. “E’, infatti, principio generale che l’appellante debba fornire prova dell’avvenuta notifica a controparte dell’atto di gravame nei termini previsti dalla legge in qualsiasi modalità essa sia avvenuta: a mezzo di ufficiale giudiziario, del servizio postale o, più recentemente, a mezzo pec. In particolare in quest’ultima ipotesi, il difensore deve provvedere ai sensi della L. 21 gennaio 1994 n 53, art. 9, commi 1 bis e 1 ter che disciplina le notifiche nel settore civile, amministrativo e stragiudiziale (D.L. n. n 119/2018, art. 16, comma 3,) e prevede che l’avvocato estragga copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del D.Lgs. n. 7 marzo 2005, n 82l, art. 23, comma 1. Non essendo stati eseguiti questi incombenti, nè essendo stata fornita prova con alcun altro mezzo, l’appello va dichiarato inammissibile” (sent. CTR, p. 3).

3.2.1. La CTR è incorsa in equivoco, ed il giudice dell’appello ha proposto valutazioni inconferenti, tutte relative all’ipotesi in cui dell’originale digitale dell’atto di notifica, e degli ulteriori relativi al procedimento di notificazione, il difensore notificante abbia estratto e depositato copia analogica, il che non è avvenuto nel caso di specie.

3.3. Si trae conferma di quanto rilevato esaminando le norme richiamate dalla Commissione Tributaria Regionale della Calabria nella sua decisione.

Il D.Lgs. n. 82 del 2005, all’art. 23, prevede infatti: “1. Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato.

– 2. Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale se la loro conformità non è espressamente disconosciuta. Resta fermo, ove previsto l’obbligo di conservazione dell’originale informatico.

– 2-bis. Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo” (evidenza aggiunta), e disciplina pertanto esclusivamente l’ipotesi che l’atto digitale sia stato copiato su supporto analogico, pertanto su carta, e sia stato successivamente depositato.

3.3.1. La CTR richiama anche il Dl n. 119 del 2018, art. 16, come conv., il quale, introducendo nel D.Lgs. n. 546 del 1992, l’art. 25 bis, ha previsto, al comma 1, lett. b), n. 3: “3. La copia informatica o cartacea munita dell’attestazione di conformità ai sensi dei commi precedenti equivale all’originale o alla copia conforme dell’atto o del provvedimento detenuto ovvero presente nel fascicolo informatico” (evidenza aggiunta), e prevede pertanto che la copia cartacea munita di attestazione di conformità dell’atto informatico equivale all’originale, così come anche la copia informatica, in relazione alla quale non è richiesta l’attestazione di conformità. Tale conclusione risulta confermata dal testo di cui al comma 3 della medesima norma, la quale dispone: “In tutti i casi in cui debba essere fornita la prova della notificazione o della comunicazione eseguite a mezzo di posta elettronica certificata e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, il difensore o il dipendente di cui si avvalgono l’ente impositore, l’agente della riscossione ed i soggetti iscritti nell’albo di cui al decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, art. 53, provvedono ai sensi della L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 9, commi 1-bis e 1-ter,. I soggetti di cui al periodo precedente nel compimento di tali attività assumono ad ogni effetto la veste di pubblico ufficiale” (evidenza aggiunta), pertanto il ricorso alla disciplina dell’attestazione richiamata è previsto nella sola ipotesi che non sia possibile fornire con modalità telematica la prova della notificazione o della comunicazione eseguite a mezzo posta elettronica certificata, mentre tale procedura non deve essere attivata quando sia possibile fornire in modalità telematica la prova della notificazione eseguita mediante invio telematico.

3.3.2. Ancora, la CTR opera infine riferimento alla L. n. 53 del 1994, art. 9, il quale dispone: “1. Nei casi in cui il cancelliere deve prendere nota sull’originale del provvedimento dell’avvenuta notificazione di un atto di opposizione o di impugnazione, ai sensi dell’art. 645 del codice di procedura civile e dell’art. 123 delle disposizioni per l’attuazione, transitorie e di coordinamento del codice di procedura civile, il notificante provvede, contestualmente alla notifica, a depositare copia dell’atto notificato presso il cancelliere del giudice che ha pronunciato il provvedimento.

– 1-bis. Qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a norma dell’art. 3-bis, l’avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. (29), art. 23, comma 1.

1-ter. In tutti i casi in cui l’avvocato debba fornire prova della notificazione e non sia possibile fornirla con modalità telematiche, procede ai sensi del comma 1-bis.” (evidenza aggiunta). La disposizione fornisce quindi ulteriore evidenza che l’attestazione di conformità dell’atto depositato è richiesta soltanto nel caso in cui l’atto notificato sia allegato al fascicolo dibattimentale previa estrazione di copia analogica, e l’evento si verifica nel solo caso in cui non sia stato possibile procedere al deposito con modalità telematica dell’atto notificato con modalità telematica.

3.4. La ragione della scelta operata dal legislatore, che non richiede l’attestazione di conformità in relazione all’atto nativo digitale, il quale sia prodotto in giudizio in tale forma, mediante allegazione telematica al fascicolo dibattimentale, dipende dal fatto che, a differenza dei documenti su supporto cartaceo, in cui vi è un problema di conformità dell’atto depositato con l’originale, quando il deposito riguarda l’atto digitale, lo stesso non viene prodotto in “copia”, bensì in originale, essendo l’originale dell’atto suscettibile di ripetute riproduzioni, senza perdere le sue caratteristiche di essere un atto originale.

3.5. Pertanto, anche a prescindere dalla normativa secondaria richiamata dall’Ente impositore nel suo ricorso (cfr. ric., p. VIII s.), il deposito telematico di un documento telematico, secondo le previsioni dell’ordinamento vigente, non richiede attestazione di conformità da parte del difensore che lo produce.

4. Non rinvenendosi specifici precedenti in termini, sembra opportuno esprimere il principio di diritto secondo cui “quando la produzione di un atto, nativo digitale, quale la notificazione a mezzo Pec del ricorso in appello, degli allegati e dell’attestazione di consegna, avvenga in giudizio tramite l’allegazione al fascicolo dibattimentale mediante modalità telematica, non è richiesta l’attestazione di conformità all’originale dell’atto prodotto da parte del difensore”.

5. Non si è attenuta a questi principi la Commissione Tributaria Regionale della Calabria nella pronuncia impugnata, e pertanto il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate deve essere accolto, cassandosi la decisione del giudice dell’appello con rinvio innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Calabria, perchè proceda a nuovo giudizio.

La Corte,

P.Q.M.
accoglie il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, cassa la decisione impugnata e rinvia innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Calabria che, in diversa composizione, procederà a nuovo giudizio, nel rispetto dei principi esposti, e provvederà anche a liquidare le spese di lite del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 08 novembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2023


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 23/11/2022) 22/12/2022, n. 37493

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Presidente –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8541-2021 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (Omissis)), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI, 268/A, presso lo studio dell’avvocato VALERIO CIONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LORENZO TROMBELLA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2131/8/2020 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA, depositata il 30/09/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 23/11/2022 dal Consigliere Relatore Dott. MARCELLO MARIA FRACANZANI.

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle entrate ricorre avverso la sentenza della CTR per la Lombardia che ha confermato la pronuncia della CTP di Milano dove erano apprezzate le ragioni della parte contribuente in tema di sottoscrizione digitale e notifica cartacea. Nel particolare, il collegio d’appello ha ritenuto nullo l’avviso di accertamento adottato nel 2016, sottoscritto digitalmente e notificato in forma cartacea, con attestazione di conformità della copia analogica dell’originale informatico ai sensi del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, commi 1 e 2 bis.

Il ricorso è affidato ad unico motivo cui replica la parte contribuente con tempestivo controricorso.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, comma 2-bis – Codice dell’Amministrazione digitale, nella sostanza lamentando sia stato annullato un avviso di accertamento formato e sottoscritto digitalmente, ma notificato al contribuente in copia analogica, seppur con annessa dichiarazione di conformità all’originale.

Sul punto è già intervenuta questa Suprema Corte di legittimità affermando che la regola è l’atto informatico, rimanendo eccezione ogni limitazione all’uso dell’informatica. Con particolare riguardo al caso in esame, gli atti impositivi non figurano tra gli atti emessi “nell’esercizio delle attività o funzioni ispettive e di controllo fiscale”, trattandosi di atti ad essi successivi (cfr. Cass. V, n. 1555/2021). Peraltro, “nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta” (ancora n. 1555/2021, cit.).

Più in particolare, la notificazione della copia analogica di un atto impositivo è legittima se la sua conformità all’originale informatico è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato, poichè tale attestazione è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto, conferendogli un valore probatorio equiparato all’originale informatico; viceversa, l’avviso di accertamento, notificato in formato cartaceo, contente la sola indicazione “firmato digitalmente” in corrispondenza del nominativo del funzionario, ma privo dell’attestazione di conformità, è nullo, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, in quanto privo di sottoscrizione (cfr. Cass. VI – 5, n. 24681/2022).

Pertanto, il ricorso è fondato e merita accoglimento.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo grado per la Lombardia, in diversa composizione, cui demanda altresì la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 23 novembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 18/10/2022) 16/12/2022, n. 36894

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3908-2021 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (Omissis), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

MAXIMILIANKAUTOMOBILI Srl IN LIQUIDAZIONE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1450/16/2020 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA LOMBARDIA, depositata il 02/07/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 18/10/2022 dal Consigliere Relatore Dott. MARCELLO MARIA FRACANZANI.

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle entrate ricorre avverso la sentenza della CTR per la Lombardia che ha confermato la pronuncia della CTP di Milano, ove sono state accolte le ragioni della parte contribuente in tema di firma digitale. Più in particolare, entrambi i collegi di merito rilevavano il vizio di sottoscrizione dell’atto impositivo, privo di autografo, ma indicato come copia conforme ad originale informatico sottoscritto digitalmente ed archiviato su supporto parimenti digitale di conservazione.

Il ricorso è affidato ad unico motivo, mentre è rimasta intimata la parte contribuente.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si prospetta censura ex art. 360 c.p.c., n. 3 per violazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, artt. 2 e 23 in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56. Più in particolare, il patrono erariale censura l’interpretazione degli articoli precitati che ritiene inapplicabili le disposizioni del Codice dell’Amministrazione Digitale e della relativa sottoscrizione “all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e controllo fiscale”, intendendo con ciò anche gli atti impositivi e non solo quelli prodromici di ispezione e controllo.

Sul punto è intervenuta questa Corte, affermando che la citata disposizione limitativa riguarda solo le attività di controllo, ma non quelle di accertamento ovvero l’atto impositivo. Ed infatti, rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.

La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.

In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 dello stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonchè di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza. Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni. Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed agli artt. 54 e ss. le rettifiche e gli accertamenti. Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

Correttamente la rado dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicchè l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

Non da ultimo va evidenziato che l’interpretazione contraria proposta dalla CTR si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi (cfr. Cass. V, n. 1557/2021).

L’orientamento ha trovato continuità, affermandosi che l’avviso di accertamento firmato digitalmente nel regime di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6, (“ratione temporis” vigente dal 14 settembre 2016 fino al 26 gennaio 2018), non è nullo per difetto di sottoscrizione, posto che l’esclusione dell’utilizzo di strumenti informatici prevista per l’esercizio delle attività e funzioni ispettive fino all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 217 del 2017 riguarda la sola attività di controllo fiscale e non può estendersi agli avvisi di accertamento ed in genere agli atti impositivi (cfr. Cass. VI-5, n. 32692/2021).

Pertanto, il ricorso è fondato e merita accoglimento.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di Giustizia Tributaria di Secondo grado per la Regione Lombardia in diversa composizione, cui demanda altresì la regolazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 18 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2022


Il Garante per la protezione dei dati personali; provvedimento n. 419 del 15.12.2022

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Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 13/10/2022) 29/11/2022, n. 35022

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22607/2019 proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in Roma Via Filippo Corridoni 19 presso lo studio dell’avvocato De Francesco Giandomenico, che si rappresenta e difende in proprio;

– ricorrente –

contro

B.B., elettivamente domiciliato in Roma, Via della Scrofa 47 presso lo studio dell’avvocato Lucio Anelli, che lo rappresenta e difende unitamente gli avvocati Michael Longo e Gianluca Tessier;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2117/2019 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 23/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/10/2022 dal cons. Lina RUBINO.

Svolgimento del processo
1. Con atto di citazione notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c. l’avv. A.A. convenne in giudizio il sig. B.B. in qualità di liquidatore della società Jesoloestate Srl , per sentirlo condannare al risarcimento del danno ex art. 2941 c.c., (rectius, art. 2491), u.c., in ragione del credito vantato dall’attore nei confronti della società in liquidazione.

2. Espose l’attore di essere creditore della società in liquidazione per la somma di Euro 26.599,78 e di aver inutilmente esperito l’azione esecutiva presso terzi; agì, pertanto, per l’accertamento della responsabilità personale del liquidatore per aver provveduto allo scioglimento e alla cancellazione della società dal Registro delle Imprese senza aver preventivamente provveduto al pagamento del credito del A.A., avendogli reso in tal modo impossibile il recupero del credito dalla società estinta.

3. Il convenuto rimase contumace.

4. Il Tribunale di Venezia, in accoglimento della domanda attorea, accertò con la sentenza n. 567/2017 la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 2495 c.c. in relazione all’art. 2491 c.c., u.c., ritenendo che il liquidatore, già socio e amministratore unico della società debitrice, non potesse non essere a conoscenza dell’esposizione debitoria della società verso l’attore al momento della richiesta della cancellazione dal Registro delle Imprese. Per l’effetto, condannò il sig. B.B. al pagamento della somma di Euro 26.599,78 oltre interessi legali ed al rimborso delle spese di lite.

5.Avverso tale decisione ha proposto appello l’B.B., deducendo preliminarmente la nullità della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado nonchè della sentenza di primo grado e, nel merito, l’assenza di responsabilità in capo al liquidatore medesimo con riferimento alla cancellazione della società debitrice dal registro delle imprese.

6.La Corte di Appello di Venezia, con sentenza n. 2117/2019, pubblicata il 23.5.2019, notificata il 30.5.2019, qui impugnata, ha dichiarato la nullità della notificazione della sentenza n. 567/2017 munita della formula esecutiva e del contestuale atto di precetto, nonchè della notifica dell’atto di citazione di primo grado e degli atti conseguenti. Per l’effetto, ha rimesso la causa avanti al Tribunale di Venezia.

7.L’avv. A.A. propone ricorso per cassazione notificato il 24 luglio 2019, affidato a due motivi.

Resiste con controricorso illustrato da memoria il sig. B.B.. La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c. Il Pubblico Ministero non ha presentato conclusioni scritte.

Motivi della decisione
1.Preliminarmente, il controricorrente deduce l’inammissibilità del ricorso, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, ovvero per mancanza della sommaria esposizione dei fatti di causa, segnalando che il ricorrente non ne elabora una propria, autonoma ricostruzione, ma si limita a riportare testualmente la parte di esposizione dedicata al fatto contenuta nella sentenza di appello.

2. Il controricorrente eccepisce inoltre, in via preliminare, l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, per omessa indicazione degli atti e dei documenti su cui si fonda il ricorso.

3. Con il primo motivo di ricorso, prospettando la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione all’art. 143 c.p.c., il ricorrente censura la gravata decisione nella parte in cui ha ritenuto non rispettose dei precetti normativi tanto la notificazione ex art. 143 c.p.c. della sentenza di primo grado in forma esecutiva e dell’atto di precetto, quanto la notificazione, anch’ essa eseguita ai sensi dell’art. 143 c.p.c., dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado. Sottolinea, in particolare, l’adeguatezza delle ricerche svolte al fine di reperire le informazioni relative alla residenza, al domicilio ed alla dimora del convenuto, avuto riguardo al criterio dell’ordinaria diligenza richiesta al notificante valutata in relazione ai parametri di normalità e buona fede di cui all’art. 1147 c.c., avendo richiesto, e poi fornito all’ufficiale giudiziario, il certificato di residenza dell’B.B., indicante la sua ultima residenza conosciuta, ed avendo l’ufficiale giudiziario ivi tentato la notifica, non giunta a buon fine in quanto il destinatario risultava trasferito, nonchè acquisito informazioni dai vicini, delle quali aveva verbalizzato l’esito negativo, in ordine al luogo di trasferimento del destinatario (v. pag. 12 del ricorso), e solo dopo il compimento di tali adempimenti avendo provveduto ad eseguire la notifica ex art. 143 c.p.c..

Precisa, altresì, che il rapporto professionale pregresso tra le parti, cessato molti anni addietro, non può essere considerato indice della possibilità di effettuare ricerche maggiormente accurate atteso il lungo periodo intercorso tra la cessazione del rapporto professionale e l’avvio del procedimento.

Evidenzia, parimenti, che il fatto che il ricorrente avesse proceduto a costituire in pegno le quote sociali della società di cui il resistente risultava amministratore unico ed unico socio e che quest’ultimo avesse attivato il servizio “seguimi” di Poste Italiane a nulla rileva ai fini della corretta individuazione della sua effettiva dimora o domicilio.

4. Con il secondo motivo, prospettando la violazione e falsa applicazione di norme di diritto in relazione agli artt. 326 e 327 c.p.c., il ricorrente si duole della tardività dell’appello, notificato in data 25.9.2017, a fronte della notifica della sentenza di primo grado avvenuta ex art. 143 c.p.c. il 30.5.2017, oltre il termine breve di impugnazione di cui all’art. 325 c.p.c. ed in ogni caso, oltre il termine lungo di sei mesi di cui all’art. 327 c.p.c., erroneamente indicato in un anno dalla Corte di Appello di Venezia.

5. Il rilievo relativo alla violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, per omissione della sommaria esposizione dei fatti di causa, è infondato.

Non può ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione che, in luogo di formulare una autonoma ricostruzione dei fatti di causa, ai fini della sommaria esposizione di essi, riproduca l’esposizione in fatto contenuta nella sentenza d’appello laddove, come nella specie, essa sia funzionale all’uso cui la esposizione sommaria è destinata, ovvero se la predetta esposizione dei fatti non è sovrabbondante ed è sufficientemente chiara allo scopo di ricostruire la vicenda processuale.

6.Il rilevo preliminare denunciante l’omessa indicazione degli atti e documenti su cui si fonda il ricorso e della loro collocazione, deve ritenersi privo di pregnanza, per le ragioni che seguono.

Il primo motivo di ricorso è volto in principalità a censurare la decisione della corte territoriale in ordine alla tempestività dell’appello, in quanto l’appello proposto è stato ritenuto tempestivo sul presupposto che la notifica della sentenza di primo grado fosse invalida.

L’esposizione in fatto contenuta nella sentenza impugnata, riprodotta – legittimamente, come si è detto – nel ricorso, consente di esaminare il motivo senza aver bisogno di esaminare la relata di notifica della sentenza unitamente al precetto, in quanto dalla testuale riproduzione della esposizione in fatto del provvedimento impugnato emerge che la prospettazione della nullità sia della notificazione della citazione sia della nullità della notificazione della sentenza di primo grado era stata fatta dalla parte qui resistente adducendo che “le minimali informazioni assunte dall’Ufficiale giudiziario all’atto delle notifiche ex art. 143 c.p.c. non appaiono soddisfare il criterio di normale diligenza alla luce, etc.”.

La corte d’appello ha dunque giudicato sulla base di una prospettazione in fatto che presupponeva l’avvenuta notifica della sentenza (ed anche della citazione: questione, peraltro, che la sentenza esamina negli stessi termini solo a pag. 14, per rilevare la nullità della notificazione della citazione) ai sensi dell’art. 143 c.p.c., sulla base di informazioni assunte dall’Ufficiale Giudiziario, sebbene prospettate come “minimali”. Quella corte ha dunque giudicato della validità delle notifiche effettuate ai sensi dell’art. 143 c.p.c. in una situazione in cui l’Ufficiale Giudiziario si era recato nella località di ultima residenza del destinatario, aveva tentato la notifica, aveva riscontrato che il destinatario non abitava più sul posto ed aveva effettuato delle ricerche in loco, per appurare il luogo di trasferimento. Aveva dunque svolto adeguatamente il suo compito, nè la notifica, successivamente effettuata ex art. 143 c.p.c. poteva ritenersi invalida.

Il primo motivo è fondato, non avendo la corte di merito fatto corretta applicazione del principio di diritto secondo il quale “Il ricorso alle formalità di notificazione previste dall’art. 143 c.p.c. per le persone irreperibili non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto. (Nella specie, la S.C. ha ritenuto la invalidità di una notificazione ex art. 143 c.p.c. la cui relata recava la mera indicazione di “vane ricerche eseguite sul posto” dall’ufficiale giudiziario, senza la specificazione delle concrete attività a tal fine compiute)” (Cass. n. 40467 del 2021).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, ai fini della notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass. n. 8638 del 2017). Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (Cass. n. 24107 del 2016), il che val quanto dire, come affermato da Cass. n. 18385 del 2003, che “l’ufficiale giudiziario debba comunque preliminarmente concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine fra l’altro – di attingere, anche nell’ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione.

La notifica della sentenza di primo grado doveva ritenersi regolarmente eseguita, alla luce dei principi che precedono. Il primo motivo che in realtà si occupa solo della notifica della sentenza quanto alla motivazione anche critica è pertanto fondato.

Dall’accoglimento del primo motivo discende l’assorbimento del secondo, nonchè ai sensi dell’art. 382 c.p.c., la cassazione senza rinvio della sentenza impugnata, in quanto l’appello, notificato in data 25.9.2017 avverso la sentenza notificata in data 30 maggio 2017, era tardivo, essendo stato notificato ampiamente oltre il termine breve di trenta giorni fissato dall’art. 325 c.p.c..

Le spese di lite, del giudizio di legittimità e del giudizio di appello, seguono la soccombenza e si liquidano come al dispositivo.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo, assorbito il secondo, cassa senza rinvio la sentenza impugnata.

Pone le spese di lite a carico del controricorrente e le liquida, quanto al giudizio di appello, in Euro 3.000,00 oltre 200,00 per esborsi, e quanto al giudizio di legittimità in Euro 4.200,00 oltre 200,00 per esborsi, oltre contributo spese generali, iva ed accessori.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 13 ottobre 2022.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2022


Corte cost., Sent., (data ud. 12/09/2022) 13/10/2022, n. 209

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA;

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quarto e quinto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, promossi complessivamente dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli con ordinanza del 22 novembre 2021 e dalla Corte costituzionale con ordinanza del 12 aprile 2022, iscritte, rispettivamente, ai numeri 3 e 50 del registro ordinanze 2022 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, numeri 4 e 19, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 settembre 2022 il Giudice relatore Luca Antonini;

deliberato nella camera di consiglio del 12 settembre 2022.

1.- Con ordinanza del 22 novembre 2021, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2022, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.

1.1.- Il rimettente riferisce che le questioni sono sorte nel corso di un giudizio d’impugnativa avverso avvisi di accertamento con i quali il Comune di Napoli contestava a M. M. il mancato pagamento dell’IMU (anni dal 2015 al 2018) in relazione alla sua abitazione principale in Napoli.

Più precisamente, la CTP espone che: a) il contribuente, “assumendo di possedere i requisiti di legge e provandoli documentalmente”, avrebbe rivendicato il diritto all’esenzione sul presupposto che l’immobile costituisse residenza anagrafica e dimora abituale dell’intero nucleo familiare; b) il Comune di Napoli avrebbe negato tale diritto perché il nucleo familiare non risiederebbe “interamente” nel medesimo immobile, atteso che il coniuge risulterebbe aver trasferito la propria residenza nel Comune di Scanno.

1.2.- Ad avviso del giudice a quo, alla spettanza dell’agevolazione, come pure alla praticabilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata, osterebbe la “presenza di un “diritto vivente” espresso dall’organo istituzionalmente titolare della funzione nomofilattica” (sono citate Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 19 febbraio 2020, n. 4166; sezione quinta civile, ordinanza 17 giugno 2021, n. 17408), che, con “un univoco indirizzo interpretativo”, riterrebbe preclusivo del beneficio “il solo fatto che un componente della famiglia risieda in altro Comune”; ciò, peraltro, nonostante la diversa interpretazione sostenuta dal Ministero dell’economia e delle finanze (circolare n. 3/DF del 18 maggio 2012) secondo cui, in caso di residenza e dimora di un componente il nucleo familiare in un comune diverso, l’agevolazione sarebbe dovuta, poiché “il limite quantitativo”, stabilito dalla norma censurata, sarebbe espressamente riferito ai soli immobili nel medesimo comune.

1.3.- In punto di rilevanza, il rimettente afferma che dall’accoglimento della prospettata questione di legittimità costituzionale dipenderebbe l’esito della controversia della quale è investito.

1.4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, la CTP ritiene che l’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, così come interpretato dalla Corte di cassazione, si porrebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’irragionevole, ingiustificata, contraddittoria e incoerente disparità di trattamento “fondata su un neutro dato geografico … a parità di situazione sostanziale” tra il possessore componente di un nucleo familiare residente e dimorante in due diversi immobili dello stesso comune e quello il cui nucleo familiare, invece, risieda e dimori in distinti immobili ubicati in comuni diversi.

La norma censurata, inoltre, lederebbe: la “parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare” (artt. 1, 3, 4 e 35 Cost.); il “diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto” (artt. 3, 29 e 31 Cost.); i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.); la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.); l’”aspettativa rispetto alle provvidenze per la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” (art. 31 Cost.); infine, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

1.5.- Con atto depositato il 15 febbraio 2022, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque non fondate.

1.6.- In data 15 febbraio 2022, in applicazione dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, è stata depositata un’opinione scritta a cura dell’associazione Camera degli avvocati tributaristi del Veneto, ammessa con decreto del Presidente del 17 febbraio 2022.

2.- Nel corso del giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 94 del 12 aprile 2022, iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2022, ha sollevato innanzi a sé questioni di legittimità costituzionale del quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost., nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare.

Segnatamente, nella suddetta ordinanza questa Corte anzitutto ha precisato – dopo aver dichiarato non fondate le relative eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa statale – che il petitum della CTP è circoscritto a un intervento additivo sul quinto periodo del citato art. 13, comma 2, al fine di attingere al riconoscimento, attualmente precluso dal diritto vivente, dell’esenzione IMU per l’abitazione principale del nucleo familiare situata in un determinato comune, anche quando la residenza anagrafica di uno dei suoi componenti sia stata stabilita in un immobile ubicato in altro comune.

Quindi, questa Corte ha rilevato che, tuttavia, “le questioni sollevate dal giudice a quo in relazione a tale specifica norma sono strettamente connesse alla più ampia e pregiudiziale questione derivante dalla regola generale stabilita dal quarto periodo del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, che, ai fini del riconoscimento della suddetta agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore ma anche del suo nucleo familiare”.

Infatti, in forza di tale disciplina “la possibilità di accesso all’agevolazione per ciascun possessore dell’immobile adibito ad abitazione principale viene meno al verificarsi della mera costituzione del nucleo familiare, nonostante effettive esigenze possano condurre i suoi componenti a stabilire residenze e dimore abituali differenti”.

Pertanto, sarebbe tale previsione a determinare un trattamento diverso del nucleo familiare rispetto non solo alle persone singole ma anche alle coppie di mero fatto, poiché, sino a che il rapporto non si stabilizzi nel matrimonio o nell’unione civile, la struttura della norma consentirebbe a ciascuno dei partner di accedere all’esenzione IMU per la rispettiva abitazione principale.

Da qui la conclusione che “la risoluzione della questione avente ad oggetto la regola generale stabilita dal quarto periodo del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, nella parte in cui stabilisce il descritto nesso tra il riconoscimento della agevolazione IMU per l’abitazione principale e la residenza anagrafica e la dimora abituale del nucleo familiare, si configura come logicamente pregiudiziale e strumentale per definire le questioni sollevate dal giudice a quo (ex multis, ordinanza n. 18 del 2021)”.

2.1.- Quanto alla non manifesta infondatezza, l’ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 ha ravvisato la sussistenza di un contrasto della indicata regola generale con gli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost.

In particolare, quanto al primo dei suddetti parametri, nella fattispecie in esame questa Corte ha dubitato “dell’esistenza di un ragionevole motivo di differenziazione tra la situazione dei possessori degli immobili in quanto tali e quella dei possessori degli stessi in riferimento al nucleo familiare, quando, come spesso accade nell’attuale contesto sociale, effettive esigenze comportino la fissazione di differenti residenze anagrafiche e dimore abituali da parte dei relativi componenti del nucleo familiare”.

Quanto, poi, al principio di capacità contributiva di cui all’art. 53, primo comma, Cost., si è parimenti dubitato “della maggiore capacità contributiva, peraltro in relazione a un’imposta di tipo reale quale l’IMU, del nucleo familiare rispetto alle persone singole”; ciò anche richiamando la sentenza n. 179 del 1976, con la quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale delle disposizioni dell’imposta complementare e dell’imposta sui redditi sul cumulo dei redditi dei coniugi.

Infine, quanto all’art. 31 Cost., si è osservato che la disciplina in oggetto non agevolerebbe “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”, ma anzi comporterebbe per i nuclei familiari un trattamento deteriore rispetto a quello delle persone singole e dei conviventi di mero fatto.

2.2.- Di conseguenza, questa Corte ha disposto la sospensione del giudizio sollevato dalla CTP con l’ordinanza iscritta al n. 3 del reg. ord. 2022.

2.3.- Nel giudizio introdotto dall’ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. n. 2022, in data 3 maggio 2022 la Confederazione italiana della proprietà edilizia (Confedilizia) ha depositato, in qualità di amicus curiae, un’opinione scritta – ammessa con decreto del Presidente del 16 giugno 2022 – argomentando a sostegno dell’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale.

In particolare, ad avviso dell’associazione, nella disciplina dell’IMU il sintagma “nucleo familiare” mancherebbe di un preciso significato, così da costituire un elemento di irragionevolezza nell’ordinamento tributario. Sarebbero, pertanto, del tutto replicabili le motivazioni poste a fondamento della già citata sentenza n. 179 del 1976 che – seppure in tema di imposizione diretta – ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di quelle norme che, in violazione degli artt. 3, 31 e 53 Cost., irragionevolmente avevano riservato ai “coniugi conviventi un trattamento fiscale più oneroso rispetto a quello previsto per conviventi non uniti in matrimonio”.

Inoltre, secondo la Confedilizia, lungi dall’introdurre ragionevolmente un “nuovo soggetto passivo” – quale cambiamento sistemico sulla scorta delle esperienze straniere – il riferimento al nucleo familiare sarebbe stato introdotto in funzione di “mere esigenze contabili”, tralasciando del tutto la considerazione dell’evidente evoluzione sociale e delle esigenze di mobilità nel mondo del lavoro, ciò che renderebbe sterile qualsiasi tentativo di giustificare la disposizione censurata con finalità antielusive (anche in ragione del potere di vigilanza e controllo demandato ai comuni impositori).

Motivi della decisione
1.- Con ordinanza del 22 novembre 2021, iscritta al n. 3 del registro ordinanze 2022, la Commissione tributaria provinciale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, convertito nella L. n. 214 del 2011, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013, nella parte in cui non prevede l’esenzione dall’imposta municipale propria (IMU) per l’abitazione adibita a dimora principale del nucleo familiare, nel caso in cui uno dei suoi componenti sia residente anagraficamente e dimori in un immobile ubicato in altro comune.

Ad avviso del giudice rimettente, la norma censurata, così come interpretata dalla Corte di cassazione, violerebbe l’art. 3 Cost., in quanto determinerebbe un’irragionevole, ingiustificata, contraddittoria e incoerente disparità di trattamento “fondata su un neutro dato geografico … a parità di situazione sostanziale” tra il possessore componente di un nucleo familiare residente e dimorante in due diversi immobili dello stesso comune e quello il cui nucleo familiare, invece, risieda e dimori in distinti immobili ubicati in comuni diversi.

Essa inoltre lederebbe: la “parità dei diritti dei lavoratori costretti a lavorare fuori dalla sede familiare” (artt. 1, 3, 4 e 35 Cost.); il “diritto alla parità dei contribuenti coniugati rispetto a partner di fatto” (artt. 3, 29 e 31 Cost.); i principi di capacità contributiva e progressività dell’imposizione (art. 53 Cost.); la famiglia quale società naturale (art. 29 Cost.); l’”aspettativa rispetto alla provvidenze per la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi” (art. 31 Cost.); infine, la tutela del risparmio (art. 47 Cost.).

2.- Nel corso del citato giudizio, questa Corte, con ordinanza n. 94 del 12 aprile 2022, iscritta al n. 50 del registro ordinanze 2022, ha sollevato innanzi a sé le questioni di legittimità costituzionale del quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, in riferimento agli artt. 3, 31 e 53, primo comma, Cost., nella parte in cui, ai fini del riconoscimento della relativa agevolazione, definisce quale abitazione principale quella in cui si realizza la contestuale sussistenza del duplice requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale non solo del possessore, ma anche del suo nucleo familiare. Ciò nel presupposto che le questioni sollevate dalla CTP di Napoli sono “strettamente connesse alla più ampia e pregiudiziale questione derivante dalla regola generale” stabilita appunto dal censurato quarto periodo.

Segnatamente, la norma censurata, facendo venire meno la possibilità di accesso all’agevolazione per ciascun possessore dell’immobile adibito ad abitazione principale “al verificarsi della mera costituzione del nucleo familiare, nonostante effettive esigenze possano condurre i suoi componenti a stabilire residenze e dimore abituali differenti”, irragionevolmente ne discriminerebbe il trattamento rispetto non solo alle persone singole, ma anche alle coppie di mero fatto.

La disciplina contrasterebbe poi con il principio di capacità contributiva di cui all’art. 53, primo comma, Cost., posto che non sarebbe riscontrabile una “maggiore capacità contributiva, peraltro in relazione a un’imposta di tipo reale quale l’IMU, del nucleo familiare rispetto alle persone singole”.

Il citato art. 13, comma 2, quarto periodo, lederebbe, infine, l’art. 31 Cost., in quanto non agevolerebbe “con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi”, ma anzi comporterebbe per i nuclei familiari un trattamento deteriore rispetto a quello delle persone singole e dei conviventi di mero fatto.

3.- Preliminarmente, i giudizi promossi dalla CTP di Napoli con ordinanza iscritta al n. 3 del reg. ord. 2022 e da questa Corte con ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 possono essere riuniti e decisi con unica sentenza, poiché hanno ad oggetto questioni fra loro connesse, anche in considerazione dello stretto rapporto tra le previsioni coinvolte, riguardanti, rispettivamente, i periodi quinto e quarto del medesimo art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato.

3.1.- Il carattere pregiudiziale delle questioni di legittimità costituzionale sollevate da questa Corte rispetto alla decisione di quelle sollevate dalla CTP di Napoli ne impone la previa trattazione.

4.- Le questioni sollevate da questa Corte con ordinanza iscritta al n. 50 del reg. ord. 2022 sono fondate.

Nel nostro ordinamento costituzionale non possono trovare cittadinanza misure fiscali strutturate in modo da penalizzare coloro che, così formalizzando il proprio rapporto, decidono di unirsi in matrimonio o di costituire una unione civile.

Tale è invece proprio l’effetto prodotto dal censurato quarto periodo dell’art. 13, comma 2, perché, in conseguenza del riferimento al nucleo familiare ivi contenuto, sino a che non avviene la costituzione di tale nucleo, la norma consente a ciascun possessore di immobile che vi risieda anagraficamente e dimori abitualmente, di fruire pacificamente dell’esenzione IMU sull’abitazione principale, anche se unito in una convivenza di fatto: i partner in tal caso avranno diritto a una doppia esenzione, perché ciascuno di questi potrà considerare il rispettivo immobile come abitazione familiare.

La scelta di accettare che il proprio rapporto affettivo sia regolato dalla disciplina legale del matrimonio o dell’unione civile determina, invece, l’effetto di precludere la possibilità di mantenere la doppia esenzione anche quando effettive esigenze, come possono essere in particolare quelle lavorative, impongano la scelta di residenze anagrafiche e dimore abituali differenti.

Soprattutto, poi, nel diritto vivente, il suddetto riferimento al nucleo familiare è interpretato nel senso di precludere addirittura ogni esenzione ai coniugi che abbiano stabilito la residenza anagrafica in due abitazioni site in comuni diversi; secondo questa interpretazione, in tal caso, infatti, nessuno dei loro immobili potrà essere considerato abitazione principale e beneficiare dell’esenzione.

Per comprendere come si sia giunti a tale esito, criticato in dottrina, è opportuno ricostruire l’evoluzione del quadro normativo che ha caratterizzato il beneficio in questione (che, nelle varie fasi della sua esistenza giuridica, ha assunto anche il carattere di semplice agevolazione, oltre quello, più recente, di completa esenzione dall’IMU).

5.- Il riferimento al nucleo familiare non era presente nell’originaria disciplina dell’IMU (istituita dall’art. 8 del D.Lgs. 14 marzo 2011, n. 23, recante “Disposizioni in materia di federalismo Fiscale Municipale”), che subordinava il riconoscimento dell’esenzione per l’abitazione principale alla sussistenza del solo requisito della residenza anagrafica e della dimora abituale del possessore dell’immobile: a questi veniva riconosciuto il diritto all’esenzione in termini oggettivi, del tutto a prescindere dal suo status soggettivo di coniugato. Ciò che rilevava, ai fini della identificazione della abitazione principale, era, infatti, che egli si trovasse a risiedere e dimorare abitualmente in un determinato immobile.

Il riferimento al nucleo familiare nemmeno figurava nella successiva formulazione, con la quale “è stata disposta l’anticipazione dell’introduzione dell’IMU al 2012” (sentenza n. 262 del 2020), ovvero l’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, dove l’agevolazione – consistente non più in un’esenzione, ma in una riduzione dell’aliquota – era riconosciuta, anche in questo caso, per l’immobile nel quale “il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

Pertanto, sino a quel momento, se due persone unite in matrimonio avevano residenze e dimore abituali differenti, a ciascuna spettava l’agevolazione per l’abitazione principale.

5.1.- Solo con l’art. 4, comma 5, lettera a), del D.L. 2 marzo 2012, n. 16 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazioni tributarie, di efficientamento e potenziamento delle procedure di accertamento), convertito, con modificazioni, nella L. 26 aprile 2012, n. 44, che è intervenuto su diversi aspetti della disciplina dell’IMU, è stata modificata la definizione di abitazione principale, introducendo, in particolare, il riferimento al nucleo familiare ai fini di individuare l’immobile destinatario dell’agevolazione.

Segnatamente, il comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, è stato così modificato e integrato: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Tale disciplina è stata poi confermata dalla L. n. 147 del 2013 che ha reintrodotto la completa esenzione dell’abitazione principale dal 1 gennaio 2014 per tutte le categorie catastali abitative, tranne quelle cosiddette di lusso (A/1, A/8 e A/9), ed è stata quindi ribadita nel comma 741, lettera b), dell’art. 1 della L. 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022) all’interno della disciplina della cosiddetta “nuova IMU”, divenuta sostanzialmente comprensiva anche del tributo sui servizi indivisibili (TASI).

5.2.- La nuova formulazione introdotta con il D.L. n. 16 del 2012, come convertito, è stata interpretata in senso vieppiù restrittivo dalla giurisprudenza di legittimità, applicando il criterio “di stretta interpretazione delle norme agevolative (tra le molte, in tema di ICI, più di recente, cfr. Cass. sez. 5, 11 ottobre 2017, n. 23833; Cass. sez. 6-5, ord. 3 febbraio 2017, n. 3011), condiviso anche dalla Corte costituzionale (cfr. Corte Cost. 20 novembre 2017, n. 242)” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 24 settembre 2020, n. 20130).

La Corte di cassazione, infatti, in una prima fase, disattendendo una diversa interpretazione inizialmente proposta dal Ministero dell’economia e delle finanze con la circolare n. 3/DF del 2012 (diretta a riconoscere, nel silenzio della norma, il beneficio per ciascuno degli immobili, ubicati in comuni diversi, adibiti a residenza e dimora), ha ritenuto che l’agevolazione spettasse per un solo immobile per nucleo familiare, non solo nel caso di immobili siti nel medesimo comune, come del resto espressamente recita il suddetto comma 2 dell’art. 13, ma anche in caso di immobili situati in comuni diversi (situazione non espressamente regolata dalla disposizione in oggetto); ciò a meno che non fosse fornita la prova della rottura dell’unità familiare. Infatti solo “la frattura” del rapporto di convivenza comporta “una disgregazione del nucleo familiare e, conseguentemente, l’abitazione principale non potrà essere più identificata con la casa coniugale (vedi da ultimo: Cass., Sez. 5, n. 15439/2019)” (Corte di cassazione, ordinanza n. 17408 del 2021).

La giurisprudenza di legittimità ha poi compiuto un ulteriore passaggio ed è giunta a negare ogni agevolazione ai coniugi che risiedono in comuni diversi, facendo leva sulla necessità della coabitazione abituale dell’intero nucleo familiare nel luogo di residenza anagrafica della casa coniugale (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanze 19 febbraio 2020, n. 4170 e n. 4166 del 2020, poi confermate dall’ordinanza n. 17408 del 2021). Dunque, “nel caso in cui due coniugi non separati legalmente abbiano la propria abitazione in due differenti immobili, il nucleo familiare (inteso come unità distinta ed autonoma rispetto ai suoi singoli componenti) resta unico, ed unica, pertanto, potrà essere anche l’abitazione principale ad esso riferibile, con la conseguenza che il contribuente, il quale dimori in un immobile di cui sia proprietario (o titolare di altro diritto reale), non avrà alcun diritto all’agevolazione se tale immobile non costituisca anche dimora abituale dei suoi familiari, non realizzandosi in quel luogo il presupposto della “abitazione principale” del suo nucleo familiare” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 17 gennaio 2022, n. 1199).

In altri termini, si è ritenuto che per fruire del beneficio in riferimento a una determinata unità immobiliare sia necessario che “tanto il possessore quanto il suo nucleo familiare non solo vi dimorino stabilmente, ma vi risiedano anche anagraficamente” (Corte di cassazione, ordinanza n. 4166 del 2020; ribadita in ordinanze n. 17408 del 2021 e n. 4170 del 2020): l’esenzione è stata quindi subordinata alla contestuale residenza e dimora unitaria del contribuente e del suo nucleo familiare.

Il diritto vivente è pertanto giunto alla conclusione, prima anticipata, di negarne ogni riconoscimento nel caso contrario, “in cui i componenti del nucleo familiare hanno stabilito la residenza in due distinti Comuni perché quello che consente di usufruire del beneficio fiscale è la sussistenza del doppio requisito della comunanza della residenza e della dimora abituale di tutto il nucleo familiare nell’immobile per il quale si chiede l’agevolazione” (Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 25 novembre 2021, n. 36676).

5.3.- È in reazione a tale approdo della giurisprudenza di legittimità, giunto quindi a negare ogni esenzione sull’abitazione principale se un componente del nucleo familiare risiede in un comune diverso da quello del possessore dell’immobile, che il legislatore è intervenuto con l’art. 5-decies, comma 1, del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2021, n. 215. La relazione illustrativa all’emendamento governativo che ha introdotto tale disposizione espressamente precisa, infatti, l’intenzione di superare gli ultimi orientamenti della Corte di cassazione (sono citate le ordinanze della Corte di cassazione n. 4170 e n. 4166 del 2020).

L’art. 1, comma 741, lettera b), della L. n. 160 del 2019 è stato pertanto integrato prevedendo che: “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare”.

6.- La ricostruzione dell’evoluzione normativa mette in evidenza, in sintesi, come si sia realizzato, nella struttura della misura fiscale in oggetto, il passaggio dalla considerazione di una situazione meramente oggettiva (la residenza e la dimora abituale del possessore dell’immobile, prescindendo dalla circostanza che si trattasse di soggetti singoli, coabitanti, coniugati o uniti civilmente) al rilievo dato a un elemento soggettivo (la relazione del possessore dell’immobile con il proprio nucleo familiare).

La descrizione dello sviluppo giurisprudenziale ha poi evidenziato come l’introduzione di questo elemento soggettivo si sia risolta, infine, nell’esito di una radicale penalizzazione dei possessori di immobili che hanno costituito un nucleo familiare, i quali, se residenti in comuni diversi, si sono visti escludere dal regime agevolativo entrambi gli immobili che invece sarebbero stati candidati a fruirne con la originaria formulazione prevista nel D.Lgs. n. 23 del 2011.

A tale esito il diritto vivente sembra essere pervenuto per un duplice motivo.

Da un lato l’assenza, nella disciplina dell’IMU, di una specifica definizione di “nucleo familiare”, a fronte di diversi riferimenti presenti – a vario titolo e oltre quelli civilistici – nell’ordinamento. Si pensi, ad esempio, a quello stabilito ai fini dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE) dall’art. 3 del D.P.C.M. 5 dicembre 2013, n. 159, recante “Regolamento concernente la revisione delle modalità di determinazione e i campi di applicazione dell’indicatore della situazione economica equivalente (ISEE)”, oppure a quello, stabilito però esclusivamente con riguardo all’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) dall’art. 5, comma 5, del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi). Dall’altro la dichiarata esigenza di interpretare restrittivamente le agevolazioni tributarie; esigenza che peraltro non appare contestabile in riferimento a un’agevolazione del tipo di quella in esame (si veda al riguardo il punto successivo).

Ciò che, nell’insieme, conferma come l’effettiva origine dei problemi applicativi determinati dagli approdi del diritto vivente si ponga, in realtà, a monte, ovvero nel censurato quarto periodo del comma 2, dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, che ha introdotto nella fattispecie generale dell’agevolazione il riferimento al nucleo familiare, piuttosto che nel quinto periodo del medesimo comma censurato dalla CTP di Napoli, che ne disciplina, invece, solo una specifica ipotesi.

È per tale motivo che questa Corte ha ritenuto, dato il “rapporto di presupposizione” tra le questioni (ordinanza n. 94 del 2022), di sollevare dinanzi a se stessa quella sulla disciplina, appunto, a monte.

7.- Ciò precisato, è fondata la questione sollevata con riferimento all’art. 3 Cost.

Va, in primo luogo, chiarito che l’agevolazione in oggetto non rientra tra quelle strutturali, essendo senza dubbio inquadrabile tra quelle in senso proprio (sentenza n. 120 del 2020). Inoltre, se da un lato, essa si può ritenere rivolta a perseguire la finalità di favorire “l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione” (art. 47, secondo comma, Cost.), dall’altro esenta le abitazioni principali dei residenti dalla più importante imposta municipale (l’IMU), determinando un effetto poco lineare rispetto ai principi che giustificano l’autonomia fiscale locale: se gran parte dei residenti è esentata dall’imposta, questa finirà per risultare a carico di chi non vota nel comune che stabilisce l’imposta.

In difetto di una chiara causa costituzionale l’esenzione in oggetto è pertanto riconducibile a una scelta rimessa alla discrezionalità del legislatore; ciò che evoca per costante giurisprudenza un sindacato particolarmente rigoroso sulla sussistenza di una eadem ratio (sentenza n. 120 del 2020).

8.- Nella questione che questa Corte si è autorimessa, tuttavia, viene direttamente in rilievo il contrasto della norma censurata con i principi costituzionali di cui agli artt. 3, 31 e 53 Cost. e solo indirettamente il tema dell’estensione di un’agevolazione a soggetti esclusi.

In altri termini, nonostante una eadem ratio sia comunque identificabile nelle varie situazioni in comparazione – perché se la logica dell’esenzione dall’IMU è quella di riferire il beneficio fiscale all’abitazione in cui il possessore dell’immobile ha stabilito la residenza e la dimora abituale, dovrebbe risultare irrilevante, al realizzarsi di quella duplice condizione, il suo essere coniugato, separato o divorziato, componente di una unione civile, convivente o singolo -, la questione non è direttamente rivolta a estendere l’esenzione, quanto piuttosto a rimuovere degli elementi di contrasto con i suddetti principi costituzionali quando tali status in sostanza vengono, attraverso il riferimento al nucleo familiare, invece assunti per negare il diritto al beneficio.

9.- In un contesto come quello attuale, infatti, caratterizzato dall’aumento della mobilità nel mercato del lavoro, dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e tecnologici, dall’evoluzione dei costumi, è sempre meno rara l’ipotesi che persone unite in matrimonio o unione civile concordino di vivere in luoghi diversi, ricongiungendosi periodicamente, ad esempio nel fine settimana, rimanendo nell’ambito di una comunione materiale e spirituale.

In tal caso, ai fini del riconoscimento dell’esenzione dell’abitazione principale, non ritenere sufficiente la residenza e – si noti bene – la dimora abituale in un determinato immobile (cioè un dato facilmente accertabile, come si preciserà di seguito, attraverso i dovuti controlli) determina una evidente discriminazione rispetto a chi, in quanto singolo o convivente di fatto, si vede riconosciuto il suddetto beneficio al semplice sussistere del doppio contestuale requisito della residenza e della dimora abituale nell’immobile di cui sia possessore.

Non vi è ragionevole motivo per discriminare tali situazioni: non può, infatti, essere evocato l’obbligo di coabitazione stabilito per i coniugi dall’art. 143 del codice civile, dal momento che una determinazione consensuale o una giusta causa non impediscono loro, indiscussa l’affectio coniugalis, di stabilire residenze disgiunte (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta civile, ordinanza 28 gennaio 2021, n. 1785). Né a tale possibilità si oppongono le norme sulla “residenza familiare” dei coniugi (art. 144 cod. civ.) o “comune” degli uniti civilmente (art. 1, comma 12, della L. 20 maggio 2016, n. 76, recante “Regolamentazione delle unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze”).

Inoltre, il secondo comma dell’art. 45 cod. civ., contemplando l’ipotesi di residenze disgiunte, conferma la possibilità per i genitori di avere una propria residenza personale.

Nella norma censurata, invece, attraverso il riferimento al nucleo familiare, tale ipotesi finisce per determinare il venir meno del beneficio, deteriorando così, in senso discriminatorio, la logica che consente al singolo o ai conviventi di fatto di godere pro capite delle esenzioni per i rispettivi immobili dove si realizza il requisito della dimora e della residenza abituale.

D’altra parte, a difesa della struttura della norma censurata nemmeno può essere invocata una giustificazione in termini antielusivi, motivata sul rischio che le cosiddette seconde case vengano iscritte come abitazioni principali.

In disparte che tale rischio esiste anche per i conviventi di fatto, va precisato che i comuni dispongono di efficaci strumenti per controllare la veridicità delle dichiarazioni, tra cui, in base a quanto previsto dall’art. 2, comma 10, lettera c), punto 2, del D.Lgs. n. 23 del 2011, anche l’accesso ai dati relativi alla somministrazione di energia elettrica, di servizi idrici e del gas relativi agli immobili ubicati nel proprio territorio; elementi dai quali si può riscontrare l’esistenza o meno di una dimora abituale.

In conclusione, la norma censurata, disciplinando situazioni omogenee “in modo ingiustificatamente diverso” (ex plurimis, sentenza n. 165 del 2020), si dimostra quindi in contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost. nella parte in cui introduce il riferimento al nucleo familiare nel definire l’abitazione principale.

10.- Altresì fondata è la censura riferita all’art. 31 Cost.

Va premesso che, come hanno rilevato numerosi studi dottrinali, il sistema fiscale italiano si dimostra avaro nel sostegno alle famiglie. E ciò nonostante la generosità con cui la Costituzione italiana ne riconosce il valore, come leva in grado di accompagnare lo sviluppo sociale, economico e civile, dedicando ben tre disposizioni a tutela della famiglia, con un’attenzione che raramente si ritrova in altri ordinamenti.

In tale contesto l’art. 31 Cost., statuisce: “la Repubblica agevola con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose”.

In questo modo tale norma suggerisce ma non impone trattamenti, anche fiscali, a favore della famiglia; li giustifica, quindi, ove introdotti dal legislatore; senz’altro si oppone, in ogni caso, a quelli che si risolvono in una penalizzazione della famiglia.

Di qui la violazione anche dell’art. 31 Cost. da parte della norma censurata in quanto ricollega l’abitazione principale alla contestuale residenza anagrafica e dimora abituale del possessore e del nucleo familiare, secondo una logica che, come si è visto, ha condotto il diritto vivente a riconoscere il diritto all’esenzione IMU (o alla doppia esenzione) solo in caso di “frattura del rapporto di convivenza tra i coniugi” e conseguente “disgregazione del nucleo familiare”.

11.- Fondata, infine, è anche la censura relativa all’art. 53 Cost.

Avendo come presupposto il possesso, la proprietà o la titolarità di altro diritto reale in relazione a beni immobili, l’IMU riveste la natura di imposta reale e non ricade nell’ambito delle imposte di tipo personale, quali quelle sul reddito.

Appare pertanto con ciò coerente il fatto che nella sua articolazione normativa rilevino elementi come la natura, la destinazione o lo stato dell’immobile, ma non le relazioni del soggetto con il nucleo familiare e, dunque, lo status personale del contribuente.

Ciò salvo, in via di eccezione, una ragionevole giustificazione, che nel caso però non sussiste: qualora, infatti, l’organizzazione della convivenza imponga ai coniugi o ai componenti di una unione civile l’effettiva dimora abituale e residenza anagrafica in due immobili distinti, viene ovviamente meno la maggiore economia di scala che la residenza comune potrebbe determinare, ovvero la convivenza in un unico immobile, fattispecie che per tabulas nel caso in considerazione non si verifica.

Sotto tale profilo, le ragioni che spingono ad accogliere la censura formulata in relazione all’art. 53 Cost. rafforzano l’illegittimità costituzionale in riferimento anche all’art. 3 Cost.; infatti “ogni diversificazione del regime tributario, per aree economiche o per tipologia di contribuenti, deve essere supportata da adeguate giustificazioni, in assenza delle quali la differenziazione degenera in arbitraria discriminazione” (sentenza n. 10 del 2015).

12.- Conclusivamente deve dichiararsi l’illegittimità costituzionale del quarto periodo del comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dalla L. n. 147 del 2013, nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

13.- L’illegittimità costituzionale del censurato quarto periodo del comma 2 dell’art. 13, nei termini descritti, determina, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), quella di ulteriori norme.

13.1.- Innanzitutto comporta l’illegittimità costituzionale consequenziale del quinto periodo del medesimo comma 2 dell’art. 13 del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, che stabilisce: “nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Tale disposizione, infatti, risulta incompatibile con la ratio della decisione di questa Corte sul quarto periodo del medesimo comma 2, poiché lascerebbe in essere le descritte violazioni costituzionali all’interno dello stesso comune, dove, in caso di residenze e dimore abituali disgiunte, una coppia di fatto godrebbe di un doppio beneficio, che risulterebbe invece precluso, senza apprezzabile motivo, a quella unita in matrimonio o unione civile.

È ben vero che la necessità di residenza disgiunta all’interno del medesimo comune rappresenta una ipotesi del tutto eccezionale (e che come tale dovrà essere oggetto di accurati e specifici controlli da parte delle amministrazioni comunali), ma, da un lato, date sia le grandi dimensioni di alcuni comuni italiani, sia la complessità delle situazioni della vita, essa non può essere esclusa a priori; dall’altro, mantenere in vita la norma determinerebbe un accesso al beneficio del tutto casuale, in ipotesi favorendo i nuclei familiari che magari per poche decine di metri hanno stabilito una residenza al di fuori del confine comunale e discriminando quelli che invece l’hanno stabilita all’interno dello stesso.

13.2.- L’illegittimità costituzionale in via consequenziale va dichiarata anche con riguardo alla lettera b) del comma 741, dell’art. 1 della L. n. 160 del 2019, dove, in relazione alla cosiddetta “nuova IMU”, è stato identicamente ribadito che “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile”.

Con riferimento al primo periodo di tale disposizione la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale va dichiarata nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”.

Con riferimento al secondo periodo essa investe, invece, l’intera disposizione.

13.3.- Deve, infine, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale in via consequenziale anche dell’ultima formulazione del medesimo comma 741, lettera b), secondo periodo, all’esito delle modifiche apportate con l’art. 5-decies, comma 1, del D.L. n. 146 del 2021, come convertito, che dispone: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente. Nel caso in cui i componenti del nucleo familiare abbiano stabilito la dimora abituale e la residenza anagrafica in immobili diversi situati nel territorio comunale o in comuni diversi, le agevolazioni per l’abitazione principale e per le relative pertinenze in relazione al nucleo familiare si applicano per un solo immobile, scelto dai componenti del nucleo familiare”.

Rispetto a tale disciplina risultano replicabili le motivazioni, sopra esposte, che hanno condotto all’accoglimento delle questioni che questa Corte si è autorimessa.

Infatti, consentendo alla scelta dei contribuenti l’individuazione dell’unico immobile da esentare, la novella disancora, ancora una volta, la spettanza del beneficio dall’effettività del luogo di dimora abituale, negando così una doppia esenzione per ciascuno degli immobili nei quali i coniugi o i componenti di una unione civile abbiano avuto l’esigenza, in forza delle necessità della vita, di stabilirla, assieme, ovviamente, alla residenza anagrafica.

14.- Da ultimo questa Corte, ritiene opportuno chiarire che le dichiarazioni di illegittimità costituzionale ora pronunciate valgono a rimuovere i vulnera agli artt. 3, 31 e 53 Cost. imputabili all’attuale disciplina dell’esenzione IMU con riguardo alle abitazioni principali, ma non determinano, in alcun modo, una situazione in cui le cosiddette “seconde case” delle coppie unite in matrimonio o in unione civile ne possano usufruire. Ove queste abbiano la stessa dimora abituale (e quindi principale) l’esenzione spetta una sola volta.

Da questo punto di vista il venir meno di automatismi, ritenuti incompatibili con i suddetti parametri, responsabilizza i comuni e le altre autorità preposte ad effettuare adeguati controlli al riguardo; controlli che, come si è visto, la legislazione vigente consente in termini senz’altro efficaci.

15.- L’accoglimento delle questioni riferite al quarto periodo dell’art. 13, comma 2, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato, e la dichiarazione di illegittimità costituzionale in via consequenziale del successivo quinto periodo del medesimo comma, determinano l’inammissibilità per sopravvenuta carenza di oggetto delle questioni sollevate con l’ordinanza iscritta al r.o. n. 3 del 2022 dalla CTP di Napoli (ex multis, ordinanze n. 102 del 2022, n. 206 e n. 93 del 2021, n. 125 e n. 105 del 2020, n. 71 del 2017).

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quarto periodo, del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, come modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”, nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e il suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”;

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito, e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013;

3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), primo periodo, della L. 27 dicembre 2019, n. 160 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2020 e bilancio pluriennale per il triennio 2020-2022), nella parte in cui stabilisce: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore e i componenti del suo nucleo familiare dimorano abitualmente e risiedono anagraficamente”, anziché disporre: “per abitazione principale si intende l’immobile, iscritto o iscrivibile nel catasto edilizio urbano come unica unità immobiliare, nel quale il possessore dimora abitualmente e risiede anagraficamente”;

4) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), secondo periodo, della L. n. 160 del 2019;

5) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della L. n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 741, lettera b), secondo periodo, della L. n. 160 del 2019, come successivamente modificato dall’art. 5-decies, comma 1, del D.L. 21 ottobre 2021, n. 146 (Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili), convertito, con modificazioni, nella L. 17 dicembre 2021, n. 215;

6) dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, quinto periodo, del D.L. n. 201 del 2011, come convertito e successivamente modificato dall’art. 1, comma 707, lettera b), della L. n. 147 del 2013, sollevate, in riferimento agli artt. 1, 3, 4, 29, 31, 35, 47 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli con l’ordinanza in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 settembre 2022.

Depositata in Cancelleria il 13 ottobre 2022.


Cass. civ., Sez. VI – 1, Ord., (data ud. 10/05/2022) 19/09/2022, n. 27379

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MELONI Marina – Presidente –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27405/2021 proposto da:

R.E., B.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA POMPEO UGONIO, 3, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO ODDI, rappresentati e difesi dall’avvocato ALESSANDRO BONNI;

– ricorrenti –

contro

BANCA INTESA SAN PAOLO SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, PIAZZA CAVOUR, ROMA, rappresentata e difesa dall’avvocato FULVIO FERLITO PUCCINOTTI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1547/2021 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata l’11/08/2021;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/05/2022 dal Consigliere Relatore Dott. ANDREA FIDANZIA.

Svolgimento del processo
– che viene proposto da B.S. ed R.E., affidandolo ad un unico articolato motivo, ricorso avverso la sentenza n. 1547/2021 dell’11.8.2021 con la quale la Corte d’Appello di Firenze ha dichiarato inammissibile per tardività l’appello proposto dai medesimi e da altri appellanti avverso la sentenza n. 76/2017 con cui il Tribunale di Livorno aveva respinto l’opposizione proposta da tali soggetti, quali fideiussori della (OMISSIS) (poi fallita), avverso il decreto ingiuntivo emesso dallo stesso tribunale a titolo di saldo del conto anticipi n. 282. – che il giudice di secondo ha disatteso la prospettazione degli appellanti secondo cui la prima notificazione della sentenza di primo grado (la seconda era avvenuta cinque giorni dopo), avvenuta in data 25 gennaio 2017, sarebbe stata nulla, non riportando la sentenza medesima nè la firma digitale nè quella autografa del giudice che la aveva emessa – evidenziando che il duplicato informatico della sentenza, seppur non materialmente visibile, era comunque esistente e poteva essere verificato attraverso i programmi di verifica della firma elettronica;

– che, pertanto, la predetta notifica del 25 gennaio 2017 era pienamente valida ed idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione, con conseguente tardività dell’atto di appello che era stato consegnato per la notifica il 28.2.2017 e ricevuto dalla banca il 3.3.2017;

– che Banca Intesa San Paolo Alberto si è costituita in giudizio con controricorso;

– che sono stati ritenuti sussistenti i presupposti ex art. 380 bis c.p.c.;

– che entrambe le parte hanno deposito la memoria ex art. 380 bis. c.p.c..

Motivi della decisione
1. che i ricorrenti hanno dedotto la violazione e falsa applicazione dell’art. 326 c.p.c., in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 5, e art. 161 c.p.c., comma 2, sul rilievo che la sentenza notificata in data 25.1.2017 costituiva un documento che, ancorchè autenticato dall’avvocato, non poteva essere considerato un provvedimento giurisdizionale in quanto privo sia della sottoscrizione giudice in calce all’atto, sia della firma digitale, non presentando quel documento alcun segno grafico (coccarda e stringa) da cui si potesse presumere l’avvenuta sottoscrizione; che, pertanto, il legale della banca aveva autenticato un atto inesistente ex art. 161 c.p.c., e come tale inidoneo a far decorrere il termine breve ex art. 326 c.p.c., con la conseguenza che la Corte d’Appello avrebbe dovuto considerare come termine di decorrenza per la proposizione dell’appello quello della seconda notifica avvenuta in data 30.1.2017;

2. che il ricorso è manifestamente infondato;

– che, in proposito, va osservato che i ricorrenti, nel sostenere la nullità della notifica della sentenza di primo grado, effettuata in data 25.1.2017, per essere il documento privo di alcun segno grafico che attestasse l’esistenza della firma digitale, hanno, in modo evidente, confuso l’istituto del duplicato informato della sentenza sottoscritta telematicamente con quello della copia informatica della stessa;

che, in particolare, i requisiti che i ricorrenti associano al duplicato informatico appartengono, invece, alla copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta effettivamente, sul bordo destro delle pagine, la “coccarda” e la stringa alfanumerica indicante i firmatari dell’atto/provvedimento, segni grafici, che sono generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari e che non rappresentano, peraltro, la firma digitale, ma una mera attestazione in merito alla firma digitale apposta sull’originale di quel documento (vedi Cass. n. 11306/2021);

che, invece, come si evince dal D.L n. 179 del 2012, art. 1, lett. i quinques, e art. 16 bis, comma 9 bis, (codice dell’amministrazione digitale), il duplicato informatico è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (che si misurano in bit);

che ne consegue che la corrispondenza del duplicato informatico (in ogni singolo bit) al documento originario non emerge (come, invece, nelle copie informatiche) dall’uso di segni grafici – la firma digitale è, infatti, una sottoscrizione in “bit”, una firma elettronica, il cui segno, restando nel file, è invisibile sull’atto analogico, ovvero sulla carta – ma dall’uso di programmi di algoritmi, che consentano di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato (esattamente come affermato dalla Corte d’Appello);

che, infine, correttamente il giudice d’appello ha, altresì, affermato la non necessità di attestazione di conformità tra originale e duplicato (nel caso di specie, peraltro, tale attestazione è pure stata prodotta dalla banca), atteso che l’art. 23 bis del CAD (D.L. n. 179 del 2012) comma 1 recita che: “I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida”;

che, alla luce delle predette considerazioni, l’assunto dei ricorrenti secondo cui il duplicato informatico della sentenza (notificato il 25.1.2017) sarebbe privo delle firma digitale è frutto solo di un fraintendimento sul significato di duplicato informatico, e comunque si appalesa come di merito, in quanto finalizzato a sollecitare una diversa ricostruzione dei fatti rispetto a quella operata dalla Corte d’Appello;

che, in conclusione, essendo la prima notifica della sentenza di primo grado del 25 gennaio 2017 (effettuata dalla banca) pienamente valida, correttamente la Corte d’Appello ha fatto decorrere il termine breve per l’impugnazione da quella data;

– che sussistono giusti motivi per compensare integralmente le spese di lite tra le parti in ragione della novità della questione sottoposta a questa Corte.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Compensa tra le parti le spese di lite.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002D.P.R. 30/05/2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 10 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 19 settembre 2022


Comm. trib. regionale Puglia Foggia, Sez. XXVI, Sent., 12/09/2022, n. 2387

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE PER LA PUGLIA

VENTISEISIMA SEZIONE

riunita in udienza il 24/06/2022 alle ore 11:30 con la seguente composizione collegiale:

VENTURA FRANCESCO SAVERIO, – Presidente e Relatore

VALENTE MARIA MICHELA AMALIA, – Giudice

MERCURIO FRANCESCO, – Giudice

in data 24/06/2022 ha pronunciato la seguente

SENTENZA

– sull’appello n. 2301/2020 depositato il 24/08/2020

proposto da

(…)

Difeso da

Vincenzo Guerra – (…)

ed elettivamente domiciliato presso vincenzo.guerra159@pec.commercialisti.it

contro

(…)

Avente ad oggetto l’impugnazione di:

– pronuncia sentenza n. 1073/2019 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale FOGGIA sez. 5 e pubblicata il 12/04/2019

Atti impositivi:

– CARTELLA DI PAGAMENTO (…)

– CARTELLA DI PAGAMENTO (…)

– CARTELLA DI PAGAMENTO (…)

– CARTELLA DI PAGAMENTO (…)

a seguito di discussione in pubblica udienza

Richieste delle parti:

Svolgimento del processo

(…) avverso la sentenza n. 1073/05/2019, del 12/04/19, depositata il 26 novembre 2019, della CTP di Foggia, Sez. 5, con cui venivano rigettati i ricorsi riuniti, con condanna al pagamento delle spese di lite, liquidate in Euro 1500,00, oltre accessori di Legge, proposti avverso numero tre cartelle di pagamento per gli anni d’imposta 2010, 2011 e 2012, proponeva appello a questa CTR, eccependo l’errata determinazione dei Giudici di cure per non avere considerato l’inesistenza giuridica e/o l’irritualità delle relative notifiche, l’errata considerazione del termine prescrizionale decennale della pretesa tributaria azionata, senza spiegarne i motivi e per non essersi pronunciati su tutti i motivi di ricorso e concludeva chiedendo la riforma della sentenza impugnata, con vittoria di spese per i due gradi di giudizio, da distrarsi in favore del difensore anticipatario.

In data 1/9/2020 si costituiva l’Agenzia delle Entrate – Riscossione di Foggia, depositando atto di controdeduzioni con cui eccepiva l’infondatezza dei motivi di appello, di cui chiedeva il rigetto, la correttezza e la piena legittimità della sentenza impugnata, le cui conclusioni chiedeva che fossero confermate, con vittoria di spese di giudizio.

Motivi della decisione

L’appello proposto dal contribuente (…) avverso la sentenza n. 1073/05/2019, del 12/04/2019, della CTP di Foggia, Sez.5, è fondato e viene, pertanto, accolto.

Osserva, preliminarmente, il Collegio, che il contribuente censura l’operato dei Giudici di Prime Cure, i quali sarebbero pervenuti alla conclusione del rigetto dei ricorsi riuniti, sul presupposto che, testualmente, “gli Uffici hanno documentato mediante esibizione di copia delle relative ricevute l’avvenuta regolare notifica delle cartelle impugnate. In particolare 1) la cartella (…) è stata regolarmente notificata in data 9/12/2014 mediante messo notificatore che consegnava l’atto alla moglie convivente del ricorrente e inviava raccomandata informativa a quest’ultimo; 2) la cartella è stata (…) regolarmente notificata in data 22/2/2014 mediante messo notificatore che consegnava l’atto alla moglie convivente del ricorrente e inviava raccomandata informativa a quest’ultimo; 3) la cartella (…) è stata regolarmente notificata in data 20/2/2016 mediante messo notificatore che consegnava l’atto alla moglie convivente del ricorrente e inviava raccomandata informativa a quest’ultimo.

Dagli atti presenti nel fascicolo processuale non emerge che il ricorrente abbia mai proposto querela di falso avverso le ricevute di consegna sopra richiamate che pertanto a giudizio di questa commissione attestano l’avvenuta regolare notifica al medesimo delle cartelle di pagamento… Alla luce delle sopra indicate date in cui si perfezionava la notifica delle cartelle di pagamento questa Commissione rileva che al momento del deposito dei ricorsi oggi in valutazione erano ampiamente decorsi i tempi per la proposizione di gravame avverso le suddette cartelle”.

Più in particolare, il contribuente eccepisce la inesistenza dei documenti probatori attestanti la ritualità della notifica delle cartelle di pagamento opposte, precisando di avere contestata tale circostanza già nel giudizio di primo grado, senza che l’Ufficio si sia preoccupato di fornire i relativi elementi di prova, in violazione di quanto disposto dall’art. 2697 c.c., lamentando una generica dichiarazione di rituale notificazione delle cartelle di pagamento anche da parte dei Primi Giudici, pur in assenza di specifica prova.

Sulla base delle suddette censure, il Collegio, prioritariamente dovrà accertare se la carenza dei suddetti elementi di prova è effettivamente sussistente, oppure no.

A tal fine occorre, preliminarmente, considerare che, per tutte le tre notifiche delle cartelle di pagamento, si è in presenza di una c.d. “irreperibilità relativa del destinatario”, temporaneamente assente al momento di accesso al suo domicilio, ove il messo notificatore dichiarava di avere avuto la presenza di persona di famiglia, individuata nella moglie del contribuente destinatario dell’atto e che, quindi, per realizzare la definizione di un corretto, efficace e valido procedimento notificatorio, occorre che risultino assolti compiutamente tutti di gli adempimenti di cui al combinato disposto dell’art. 140 c.p.c., dell’art. 26, comma 6, del D.P.R. n. 602 del 1973 e dell’art. 60, comma 1, lettera b/bis, del D.P.R. n. 600 del 1973. Sotto tale profilo, il Collegio rileva che manca agli atti la prova valida dell’esistenza della lettera raccomandata informativa, della avvenuta spedizione di detta raccomandata, nonché la prova dell’effettiva ricezione della stessa da parte del destinatario dell’atto; rileva altresì che, nonostante le suddette carenze ed i suddetti vizi documentali, anche per quanto riferito alle validità fotocopie depositate dall’Ufficio, espressamente e formalmente contestate dalla difesa del contribuente sin dal primo grado di giudizio, né l’ufficio ha inteso assolvere l’onere probatorio, neppure in questa fase di giudizio, né il Giudice di prime cure ha indicato gli elementi e spiegato le ragioni, in base alle quali, contrariamente a quanto sostenuto dal contribuente e supportato da riferimenti giurisprudenziali di legittimità, le notifiche delle cartelle di pagamento potevano essere considerate regolari ed efficaci.

Sulla base dei suddetti elementi di giudizio considerati, il Collegio, tenuto conto delle statuizioni giurisprudenziali di legittimità citate dalla difesa del contribuente a supporto della tesi della inesistenza delle notifiche effettuate per vizi del procedimento notificatorio, nonché delle conformi recentissime statuizioni di legittimità e di merito, richiamate e depositate in copia, (Cass. Sez.VI Civ.-T, ORD. n.06818/22, del 25/01/2022 e Ord. n. 14093/2022 del 22/03/2022 e CTR Campania Sez. 22, sent. N. 4997, del 26/10/2021), all’odierna udienza di trattazione, dal difensore del contribuente, da cui questo Giudice non ha motivo di discostarsi, ritiene che le notifiche delle cartelle di pagamento effettuate dall’Ufficio risultano inesistenti, con conseguente nullità della sottostante pretesa impositiva; pertanto, assorbite tutte le altre questioni proposte e formulate dalle parti, giacché ininfluenti ai fini della presente decisione, in riforma della sentenza impugnata accoglie l’appello del contribuente.

Le spese di giudizio vengono interamente compensate tra le parti in considerazione dei contrasti giurisprudenziali sulle questioni trattate, definite soltanto recentemente dai Giudici di legittimità e, comunque, in data successiva alla proposizione del ricorso, tenuto conto anche che l’appello viene accolto per questioni di rito, mentre il ricorrente appellante non ha mai disconosciuto, nel merito, la pretesa fiscale.

P.Q.M.

Accoglie l’appello. Spese compensate per il doppio grado di giudizio.

Conclusione

Foggia il 24 giugno 2022.


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 21/06/2022) 12/09/2022, n. 26810

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A. P. – rel. Consigliere –

Dott. ROSSELLO Carmelo Carlo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 21313/2019 R.G. proposto da:

L.G., rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Giacomo Triolo, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Giuliano Dominici, in Roma, Viale Giulio Cesare, n. 6;

– ricorrente –

contro

B.F., rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, giusta procura speciale in calce al controricorso, dall’avv. Salvatore Ziino, e dall’avv. Antonino Maria Cremona, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Paolo Palmeri, in Roma, Piazza del Fante, n. 2;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Palermo n. 2408/2018, pubblicata in data 18 gennaio 2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21 giugno 2022 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina A. P. Condello.

Svolgimento del processo
1. L.G. convenne dinanzi al Tribunale di Agrigento B.F. al fine di ottenere il risarcimento dei danni subiti a seguito dello sprofondamento di parte dell’immobile adibito ad uso commerciale condotto in locazione, causato dal cedimento del costone retrostante il fabbricato.

A sostegno della domanda evidenziava che la convenuta, in violazione dei canoni di buona fede e correttezza, aveva omesso di rappresentarle che l’immobile si trovava in grave stato di pericolo già prima della stipula del contratto di locazione e che il crollo del costone aveva determinato lo sprofondamento di una parte dell’immobile locato adibito a magazzino, con conseguente distruzione di tutta la merce ivi depositata.

La B. dedusse l’inammissibilità della domanda, facendo presente che aveva richiesto ed ottenuto Decreto Ingiuntivo dell’importo di Euro 14.000,00, a titolo di canoni di locazione non corrisposti, nei confronti della L., la quale aveva proposto opposizione facendo rilevare in quella sede le medesime pretese risarcitorie azionate nel presente giudizio.

Disposto il mutamento del rito, il Tribunale di Agrigento, respinte le richieste istruttorie, dichiarò risolto il contratto di locazione per impossibilità sopravvenuta ex art. 1256 c.c. e condannò la convenuta al pagamento, in favore dell’attrice, a titolo di risarcimento dei danni, patrimoniali e non, dell’importo di Euro 1.000.000,00, già comprensivo di rivalutazione monetaria ed interessi legali maturati alla data di deposito della sentenza, nonchè al rimborso delle spese di lite.

2. Avverso la predetta sentenza la B. propose appello, sostenendo, tra l’altro, che il giudice di primo grado aveva errato nel rigettare l’eccezione di improponibilità delle domande proposte dalla L. per violazione del divieto di frazionamento della domanda, ribadendo che, antecedentemente all’introduzione del presente giudizio, aveva ottenuto dal Tribunale di Agrigento decreto ingiuntivo per canoni non pagati e che, proponendo opposizione, la L. aveva replicato che la locatrice non le aveva fatto presente che l’immobile versava in grave stato di pericolo, ma aveva anzi garantito che l’immobile non presentava pericolo alcuno di crollo, cosicchè, a fronte del grave inadempimento, non era tenuta al pagamento dei canoni di locazione.

In riforma parziale della sentenza impugnata, la Corte d’appello di Palermo rigettò la domanda di risarcimento danni proposta dall’appellata, annullando la statuizione della sentenza di primo grado che condannava la B. al pagamento di somme a titolo risa rcitorio.

Osservò, in particolare, che:

a) la B. aveva ottenuto dal Tribunale di Agrigento, in data 13 marzo 2015, Decreto Ingiuntivo nei confronti della L. per canoni non pagati; avverso il decreto ingiuntivo era stata proposta opposizione dalla L. che aveva lamentato il grave inadempimento della locatrice, negando di essere obbligata al versamento dei canoni di locazione;

b) con l’atto introduttivo del presente giudizio la L. aveva chiesto il risarcimento dei danni fondato sullo stesso fatto posto a fondamento delle difese svolte nell’opposizione a Decreto Ingiuntivo;

c) non era ravvisabile il frazionamento della domanda da parte della L., in quanto quest’ultima, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, non aveva proposto alcuna domanda risarcitoria nei confronti della B., ma si era limitata, in via di eccezione, ad esporre che il diritto al pagamento dei canoni non sussisteva, in quanto non le era stato rappresentato il grave stato di pericolo in cui si trovava l’immobile oggetto di locazione;

d) in assenza di impugnazione, si era formato il giudicato interno sul capo della sentenza di primo grado che aveva dichiarato risolto il contratto di locazione stipulato tra le parti per impossibilità sopravvenuta ex art. 1256 c.c., cosicchè non era possibile verificare se l’obbligo della locatrice di garantire l’idoneità dell’immobile locato da vizi che ne impedivano in modo apprezzabile l’idoneità all’uso pattuito, per tutta la durata del rapporto contrattuale, fosse o meno possibile all’atto della conclusione del contratto;

e) per effetto del giudicato interno formatosi, non poteva trovare applicazione il disposto di cui all’art. 1578 c.c., che faceva riferimento ai vizi dell’immobile esistenti all’atto della sua consegna;

f) nella fattispecie era da escludersi la configurabilità di un comportamento in mala fede della locatrice nell’avere locato l’immobile, dato che lo stesso, al momento della stipula del contratto di locazione, appariva perfettamente idoneo all’uso concordato poichè non esistevano segni apparenti dell’imminente crollo del costone roccioso e del muro di contenimento posti sul retro dell’immobile, nè poteva ritenersi che, all’atto della stipula del contratto di locazione, fosse prevedibile che in futuro, nel corso della durata del contratto di locazione, non sarebbe stato possibile utilizzare l’immobile locato;

g) antecedentemente alla stipula del contratto di locazione si erano verificati soltanto fenomeni di colamento di detriti di terra a monte del banco calcarenitico, ma tali fenomeni si erano interrotti al limite delle gabbionate che sovrastavano il muro di sostegno posto dietro l’edificio dove si trovava l’immobile locato; a seguito di sopralluoghi effettuati dal Comune di Agrigento era stata emanata l’ordinanza sindacale n. 52 del 7 marzo 2011, con la quale era stato inibito l’uso degli spazi condominiali adibiti a garage retrostanti l’edificio dal n. (OMISSIS) al n. (OMISSIS) fino alla messa in sicurezza del sovrastante terreno, ma i predetti numeri civici non afferivano alla proprietà B.; nessun pericolo di instabilità del costone e del muro posti a tergo dell’immobile era stato ravvisato dalle autorità intervenute il (OMISSIS);

h) dalla consulenza tecnica eseguita dalla Procura della Repubblica di Agrigento risultava che: il muro di sostegno della montagna posto dietro l’edificio non presentava dissesti all’atto degli eventi verificatisi in data (OMISSIS); la causa del crollo del costone roccioso e di parte del muro di contenimento retrostanti era riconducibile alla formazione di una frattura del terreno di fondazione calcarenitico al piede del muro di sostegno, con conseguente perdita di equilibrio del muro e frana a tergo del muro stesso; la propagazione della frattura era avvenuta in un intervallo temporale ampio, via via che si incrementavano le pressioni neutre per effetto della perdita di efficienza dei drenaggi esistenti del pendio, a causa di una miscela di acque di falda ed acque potabili provenienti da consistenti perdite della rete idrica dell’ex Ospedale (OMISSIS) poste a monte del pendio;

i) gli ulteriori avvenimenti verificatisi successivamente al (OMISSIS) erano del tutto irrilevanti; infatti, la circostanza che la società ADR s.r.l., amministrata dal figlio della L., avesse stipulato, in data 1 marzo 2014, ossia quattro giorni prima della frana, un contratto di locazione di altro immobile nello stesso fabbricato, era del tutto irrilevante, in quanto era ben possibile che l’amministratore della società non fosse a conoscenza degli eventi o che, pur essendone a conoscenza, avesse comunque inteso stipulare il contratto di locazione, ritenendo che gli eventi del (OMISSIS) fossero insignificanti in relazione all’utilizzabilità dell’immobile locato; parimenti irrilevante era la circostanza che la B. fosse a conoscenza degli eventi del (OMISSIS), in quanto proprietaria dell’immobile ed in quanto il fratello, per sua delega, aveva partecipato all’assemblea condominiale del 17 marzo 2011, in cui si era discusso della nomina di un legale a tutela del danno temuto a causa dello smottamento che si era verificato e dell’ordinanza del 9 marzo 2011 inviata dal Comune con la quale si inibiva l’uso degli spazi condominiali retrostanti l’immobile.

3. L.G. ha proposto ricorso per la cassazione della suddetta decisione d’appello, sulla base di due motivi.

B.F. ha resistito con controricorso e proposto ricorso incidentale condizionato, con un unico motivo.

4. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1. c.p.c..

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero presso la Corte.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 380-bis.1. c.p.c..

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo d’impugnazione si deduce la violazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 1571, 1575, 1578 e 1256 c.c., nonchè “l’omessa valutazione di un fatto decisivo risultante dagli atti di causa ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”.

Segnatamente, la ricorrente lamenta che la Corte d’appello avrebbe errato nel ritenere non provata la responsabilità della B., pur a fronte della prova documentale della sussistenza dei vizi dell’immobile in data antecedente alla stipula del contratto di locazione, e ribadisce che la locatrice l’aveva indotta in errore garantendo che l’immobile si trovava in ottime condizioni e che era esente da pericolo di crollo, pur essendo a conoscenza che l’immobile locato fosse affetto da vizi gravi che ne impedivano l’utilizzo, presentando il costone retrostante, di natura argillosa, già a far data dal 2010, fenomeni di colamento gravitativo con grave rischio di crollo sull’immobile condotto in locazione.

Rimarca, in particolare, la ricorrente, a comprova che la B. fosse a conoscenza dello stato di pericolo dell’immobile locato, che:

a) nei primi mesi del 2011, ossia prima della stipula del contratto di locazione, avvenuta in data 31 maggio 2011, si erano verificati consistenti smottamenti e caduta di abbondante terriccio sull’edificio ove era ubicato l’immobile locato;

b) in data 17 marzo 2011 era stata convocata una assemblea condominiale – alla quale aveva partecipato il fratello della B., su delega di quest’ultima – avente come ordine del giorno la “nomina di legale a tutela per danno temuto a causa dello smottamento verificatosi nel terreno lato nord dell’edificio”; nel corso dell’assemblea l’amministratore aveva comunicato di avere ricevuto in data 9 marzo 2011 l’ordinanza del Sindaco di Agrigento, datata 7 marzo 2011, con cui si inibiva l’utilizzo degli spazi condominiali retrostanti l’immobile ed in quella stessa sede era stata istituita una commissione composta da alcuni condomini, tra i quali B.G., fratello della controricorrente, al fine di affiancare l’amministratore del Condominio per la risoluzione del problema;

c) il Condominio, in data 11 marzo 2011, aveva inviato atto di costituzione in mora a diversi enti e, in data 20 marzo 2011, al Comune e a Girgenti Acque, rappresentando che vi era grave pericolo sull’immobile a causa degli “smottamenti nel costone (OMISSIS) e retrostante edificio (OMISSIS)”;

d) il Comune di Agrigento aveva inviato al Condominio (OMISSIS) una nota datata 14 giugno 2012, nella quale si faceva riferimento ad una ordinanza sindacale n. 52/2011 in cui si prescriveva all’amministratore dell’edificio e, quindi, ai proprietari degli immobili, di inibire l’utilizzo degli spazi condominiali retrostanti l’edificio fino ad avvenuta eliminazione del pericolo;

e) il Condominio (OMISSIS) in precedenza aveva inviato al Comune di Agrigento una missiva chiedendo di revocare l’ordinanza sindacale n. 52/2011, che era stata riscontrata dal Comune con nota del 27 marzo 2012, con cui era stato comunicato che l’ordinanza non poteva essere revocata in quanto il pericolo era imminente e sussistente.

Ad avviso della ricorrente, pertanto, già dal mese di (OMISSIS) la B. era a conoscenza dei vizi da cui era affetto l’immobile, ma, nonostante ciò, pur non essendo stati effettuati i lavori di messa in sicurezza dell’immobile, lo aveva concesso in locazione, omettendo di comunicare alla conduttrice il grave stato di pericolo.

A seguito della stipula del contratto di locazione – soggiunge la ricorrente – aveva effettuato ingenti investimenti, sostenendo elevati costi per l’acquisto di attrezzature, arredamenti e per interventi di manutenzione edilizia, aveva inoltre assunto dipendenti e proceduto all’acquisto di un vasto assortimento di merce; il fatto verificatosi in data (OMISSIS) aveva comportato una improvvisa interruzione dell’attività commerciale, dato che l’Autorità pubblica aveva disposto l’evacuazione dell’intero condominio, con conseguente impossibilità di utilizzare l’immobile locato che era crollato. Erra, pertanto, secondo la ricorrente, la sentenza impugnata laddove afferma che non vi era prova che il vizio fosse esistente al momento della stipula del contratto e che l’evento verificatosi nel (OMISSIS) non fosse strettamente collegato agli eventi verificatisi nel (OMISSIS), essendo al contrario la B. incorsa in grave inadempimento contrattuale, a nulla valendo che l’evento dannoso si fosse verificato a distanza di tre anni dalla stipula del contratto. Dalle stesse argomentazioni esposte dalla Corte di appello, prosegue la ricorrente, si evince che la causa del crollo del costone roccioso era da ascrivere alla formazione della frattura del terreno di fondazione calcarenitico al piede del muro di sostegno e la stessa consulenza tecnica disposta dalla Procura della Repubblica di Agrigento aveva chiarito che gli eventi erano iniziati nel (OMISSIS) e poi terminati nel (OMISSIS) quando si era verificato l’evento dannoso.

La ricorrente sottolinea, quindi, che la locatrice avrebbe violato i canoni di buona fede e correttezza, avendo l’obbligo di mantenere il bene locato in buone condizioni di utilizzo, e addebita alla Corte d’appello di avere erroneamente affermato che si fosse formato il giudicato interno sulla dichiarata risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, posto che in appello aveva insistito nel sostenere che si era in presenza di una risoluzione contrattuale per inadempimento, contestando dunque la impossibilità sopravvenuta; in ogni caso, l’impossibilità sopravvenuta, seppure sussistente, era addebitabile a colpa della locatrice che era a conoscenza dell’evento che aveva reso impossibile la prestazione ed era pertanto tenuta al risarcimento del danno. In ogni caso, secondo la ricorrente, la sentenza gravata sarebbe censurabile per avere trascurato di valutare fatti storici decisivi, quali le delibere condominiali, le ordinanze del Comune di Agrigento e la consulenza disposta dalla Procura della Repubblica di Agrigento.

2. Con il secondo motivo d’impugnazione si deduce nullità della sentenza, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione dell’art. 1223 c.c..

La ricorrente, partendo dalla premessa che si verte in ipotesi di inadempimento contrattuale per grave responsabilità della locatrice, sostiene che quest’ultima era tenuta al risarcimento sia del danno emergente che del lucro cessante, di cui era stata fornita piena prova mediante la documentazione prodotta.

3. Con l’unico motivo del ricorso incidentale condizionato, B.F. denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., artt. 645, 647 e 653 c.p.c., nonchè dell’art. 111 Cost..

Precisa che nel giudizio di appello aveva dedotto che le domande proposte dalla L. erano inammissibili, poichè l’opposizione avverso il decreto ingiuntivo richiesto per il pagamento dei canoni era stata dichiarata inammissibile con sentenza passata in giudicato, di cui era stata depositata copia. La Corte d’appello aveva ritenuto che la L. con l’instaurazione del giudizio di risarcimento dei danni non avesse frazionato la domanda, ma tale statuizione, ad avviso della controricorrente, non teneva conto degli effetti del giudicato che si era formato nel giudizio sulla debenza dei canoni, che copriva il dedotto ed il deducibile, precludendo l’esame delle domande proposte dalla L. che erano basate su fatti costitutivi incompatibili con l’accertamento passato in giudicato.

4. In controricorso la B., in via preliminare, ha eccepito l’inammissibilità del ricorso per cassazione perchè tardivamente proposto dopo il decorso di sessanta giorni dalla notifica della sentenza impugnata, avvenuta presso la cancelleria della Corte d’appello in data 22 gennaio 2019. Ha spiegato che in data 18 gennaio 2019, pur avendo tentato la notifica della sentenza d’appello alle caselle p.e.c. dei difensori della odierna ricorrente, questa non è andata a buon fine: la notifica all’avv. Sgarito non è stata consegnata per “casella piena”, mentre quella all’avv. Triolo non si è perfezionata per “errore tecnico presso il gestore ricevente”. Considerato che la L. non aveva eletto domicilio nel circondario in cui aveva sede l’ufficio giudiziario dinanzi al quale si era svolto il giudizio d’appello, bensì presso lo studio dei suoi difensori, sito in (OMISSIS), in data 22 gennaio 2019 aveva eseguito la notifica presso la cancelleria della Corte d’appello di Palermo, ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 e D.L. n. 179 del 2012, art. 16-sexies, posto che la notifica a mezzo Pec aveva avuto esito negativo per cause imputabili ai destinatari delle caselle di posta elettronica.

4.1. L’eccezione è fondata.

4.2. Occorre osservare che il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-sexies, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221 – articolo rubricato “Domicilio digitale” e introdotto dal D.L. n. 90 del 2014, art. 52, convertito, con modificazioni, nella L. n. 114 del 2014 -prevede testualmente: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.

Tale disposizione normativa, nell’ambito della giurisdizione civile (e fatto salvo quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., per il giudizio di cassazione), impone alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis (Codice dell’amministrazione digitale), ovvero presso il Re.G.Ind.E, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, escludendo che tale notificazione possa avvenire presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, salvo nei casi di impossibilità a procedersi a mezzo p.e.c., per causa da addebitarsi al destinatario della notificazione.

La prescrizione del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-sexies, prescinde dalla stessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, trovando applicazione direttamente in forza dell’indicazione normativa degli elenchi/registri da cui è dato attingere l’indirizzo p.e.c. del difensore, stante l’obbligo in capo ad esso di comunicarlo al proprio ordine e dell’ordine di inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel Re.G.Ind.E. La norma in esame, dunque, depotenzia la portata dell’elezione di domicilio fisico, la cui eventuale inefficacia non consente, pertanto, la notificazione dell’atto in cancelleria, ma la impone pur sempre e necessariamente alla p.e.c. del difensore domiciliatario, salvo l’impossibilità per causa al medesimo imputabile, e, al contempo, svuota di efficacia prescrittiva anche il R.D. n. 37 del 1934, art. 82, che, stante l’obbligo di notificazione tramite p.e.c. presso gli elenchi/registri normativamente indicati, può assumere rilievo unicamente in caso di mancata notificazione via p.e.c. per causa imputabile al destinatario della stessa, quale localizzazione dell’ufficio giudiziario presso il quale operare la notificazione in cancelleria (Cass., sez. 3, 11/07/2017, n. 17048; Cass., sez. 3, 08/06/2018, n. 14914; Cass., sez. 6-2, 23/05/2019, n. 14140; Cass., sez. L, 20/05/2019, n. 13532; Cass., sez. 3, 29/01/2020, n. 1982; Cass., sez. 6-3, 11/02/2020, n. 3164; Cass., sez. 1, 03/02/2021, n. 2460).

Da quanto esposto discende che, nel caso di specie, essendo il D.L. n. 179 del 2012, art. 16-sexies, entrato in vigore il 19 agosto 2014 e trovando esso immediata efficacia nei giudizi in corso per gli atti compiuti successivamente alla sua vigenza, in applicazione del principio del tempus regit actum (Cass., sez. 3, 18/07/2013, n. 17570; Cass., sez. 1, 24/03/2016, n. 5925; Cass., sez. 6-5, 20/01/2017, n. 1635; Cass., sez. 6-3,14/12/2017, n. 30139), la notificazione della sentenza di appello a L.G. avrebbe dovuto essere effettuata presso l’indirizzo p.e.c. dei difensori della stessa risultante dagli elenchi/registri indicati dall’art. 16-sexies citato e, soltanto ove impossibile per causa imputabile a detti difensori, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pendeva la lite 4.3. Come emerge dagli atti, il difensore della B. ha effettuato la notificazione della sentenza d’appello nei confronti dei difensori della odierna ricorrente a mezzo p.e.c., ma il sistema ha generato un avviso di mancata consegna, segnalando, con riguardo all’avv. Carla Sgarito, che la casella risultava “piena” e, quanto all’avv. Triolo, che “presso il gestore ricevente si era verificato un errore tecnico che impediva la consegna”.

4.4. La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la notifica a mezzo Pec della L. n. 53 del 1994, ex art. 3-bis, di un atto del processo ad un legale implica l’onere per il suo destinatario di dotarsi degli strumenti per decodificarla o leggerla, non potendo la funzionalità dell’attività del notificante essere rimessa alla mera discrezionalità del destinatario, salva l’allegazione e la prova del caso fortuito, come in ipotesi di malfunzionamenti del tutto incolpevoli, imprevedibili e comunque non imputabili al professionista coinvolto; peraltro, costituendo la normativa sulle notifiche telematiche la mera evoluzione della disciplina delle notificazioni tradizionali ed il suo adeguamento al mutato contesto tecnologico, l’onere in questione non può dirsi eccezionale od eccessivamente gravoso, in quanto la dotazione degli strumenti informatici integra un necessario complemento dello strumentario corrente per l’esercizio della professione (Cass., sez. 6-3, 25/9/2017 n. 22320).

4.5. In particolare, con specifico riferimento alla ipotesi di saturazione della casella PEC, è stato escluso che essa configuri un impedimento non imputabile al difensore (Cass., sez. 6-1, 12/11/2018 n. 28864, in motivazione; Cass., sez. 1, 20/05/2019, n. 13532; Cass., sez. 3, 09/01/2020, n. 3164; Cass., sez. 3, 20/12/2021, n. 40758). Tale affermazione si pone in continuità con precedenti pronunzie di questa Corte che hanno sottolineato come, una volta ottenuta dall’ufficio giudiziario l’abilitazione all’utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, l’avvocato, che abbia effettuato la comunicazione del proprio indirizzo di PEC al Ministero della Giustizia per il tramite del Consiglio dell’Ordine di appartenenza, diventa responsabile della gestione della propria utenza, nel senso che ha l’onere di procedere alla periodica verifica delle comunicazioni regolarmente inviategli a tale indirizzo, indicato negli atti processuali, non potendo far valere la circostanza della mancata apertura della posta per ottenere la concessione di nuovi termini per compiere attività processuali (Cass., sez. L, 02/07/2014 n. 15070; Cass., sez. L, 20/05/2019, n. 13532).

4.6. Va, peraltro, evidenziato, come precisato da Cass., sez. 6-5, 18/02/2020, n. 3965, che, in caso di mancata ricezione della comunicazione per causa a lui imputabile, il destinatario è comunque nella condizione di prendere cognizione degli estremi della comunicazione medesima, in quanto il sistema invia un avviso al portale dei servizi telematici, di modo che il difensore destinatario, accedendovi, viene informato dell’avvenuto deposito. Infatti, ai sensi del D.M. n. 44 del 2011, art. 16, comma 4, “nel caso in cui viene generato un avviso di mancata consegna previsto dalle regole tecniche della posta elettronica certificata (…) viene pubblicato nel portale dei servizi telematici, secondo le specifiche tecniche stabilite ai sensi dell’art. 34, un apposito avviso di avvenuta comunicazione o notificazione dell’atto nella cancelleria o segreteria dell’ufficio giudiziario contenente i soli elementi identificativi del procedimento e delle parti e loro patrocinatori”.

4.7. Per completezza espositiva il Collegio deve pure rilevare che, secondo alcune pronunce di questa Corte (Cass., sez. 5, 20/07/2018, n. 19397; Cass., sez. L, 30/12/2019, n. 34736; Cass., sez. 6-3, 26/05/2021, n. 14446; Cass., sez. 3, 20/12/2021, n. 40758), il mancato perfezionamento della notifica telematica effettuata dall’avvocato per non avere il destinatario reso possibile la ricezione di messaggi sulla propria casella p.e.c. impone alla parte notificante di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dagli artt. 137 c.p.c. e segg., e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, u.p., prevista per il caso in cui la ricevuta di mancata consegna venga generata a seguito di notifica o comunicazione effettuata dalla Cancelleria, atteso che la notifica trasmessa a mezzo p.e.c. dal difensore si perfeziona al momento della generazione di avvenuta consegna. Secondo altro orientamento (Cass., sez. 6-3, 11/02/2020, n. 3164), “la notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di avere rinvenuto la cd. casella PEC del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi”.

4.8. Nella fattispecie in esame si può, tuttavia, prescindere da ogni valutazione sulla questione prospettata dalle pronunce sopra richiamate. E ciò in quanto, a fronte del mancato perfezionamento della notifica all’avv. Sgarito a causa del riempimento della casella p.e.c., e dunque per una ragione non imputabile al notificante, ma piuttosto addebitabile al destinatario per inadeguata gestione dello spazio di archiviazione necessario alla ricezione dei messaggi (Cass., sez. L, 20/05/2019, n. 13532), il difensore della B. ha comunque proceduto (anche in un tempo adeguatamente contenuto, in conformità ai principi espressi da Cass., sez. U., 15/07/2016, n. 14594) alla notificazione della sentenza d’appello mediante deposito dell’atto presso la cancelleria della Corte di appello presso la quale pendeva la lite, considerato che entrambi i difensori della odierna ricorrente erano domiciliati extra discrictum, cosicchè da tale momento è sicuramente iniziato a decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c., per la impugnazione della sentenza d’appello.

Resta, peraltro, del tutto irrilevante che la notificazione telematica della sentenza di appello eseguita nei confronti dell’altro difensore della L., avv. Triolo, non sia stata consegnata a causa di un errore tecnico imputabile al gestore, e non al titolare della casella di posta elettronica, posto che la notificazione della sentenza ad uno soltanto dei difensori nominati dalla parte è idonea a far decorrere il termine breve per impugnare, di cui all’art. 325 c.p.c. (Cass., sez. 1, 31/08/2017, n. 20625; Cass., sez. 6-3, 27/05/2011, n. 11744; Cass., sez. 2, 31/05/2006, n. 12963).

Ne deriva che il ricorso per cassazione, notificato in data 28 giugno 2019, è stato tardivamente proposto oltre il termine di sessanta giorni dalla notificazione della sentenza previsto dall’art. 325 c.p.c., avvenuta presso la cancelleria della Corte d’appello in data 22 gennaio 2019.

5. In ogni caso, il primo motivo del ricorso non si sottrae alla declaratoria di inammissibilità.

Con tale doglianza, in realtà, non si denuncia la violazione delle norme di diritto invocate, ma si sollecita la rivalutazione della quaestio facti mediante la reiterazione di deduzioni difensive già svolte e mediante il richiamo a circostanze di fatto già sottoposte all’esame dei giudici di merito e da questi già adeguatamente valutate.

In sostanza, la ricorrente muove una contestazione alla motivazione resa dai giudici di appello, non consentita dall’attuale art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, tra l’altro invocato non già secondo il paradigma dell’omesso esame, ma secondo il paradigma della omessa valutazione e, comunque, senza rispettare, quanto alle emergenze fattuali richiamate, i criteri di deduzione fissati da Cass., sez. U., n. 8053 e n. 8054 del 7 aprile 2014, ossia senza specificare se e dove le circostanze di fatto di cui si denuncia l’omesso esame siano state oggetto di deduzione in giudizio.

Occorre, invero, ribadire che, dopo la modifica dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile ratione temporis, non trova più accesso al sindacato di legittimità di questa Corte il vizio di mera insufficienza ed incompletezza dell’impianto motivazionale per inesatta valutazione delle risultanze istruttorie, qualora dalla sentenza sia evincibile una regula iuris che, prendendo le mosse da una determinata premessa, conduca ad una determinata conseguenza (in diritto) idonea a giustificare il decisum.

Rimangono, pertanto, estranei al perimetro del vizio di legittimità ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la contestazione volta a criticare, come nel caso in esame, il convincimento che il giudice si è formato ex art. 116 c.p.c., in esito all’esame del materiale probatorio mediante la valutazione della maggiore o minore attendibilità delle fonti di prova, ed operando il conseguente giudizio di prevalenza (Cass., sez. 3, 10/06/2016, n. 11892), come pure asseriti errori attinenti alla preminente rilevanza attribuita a talune “questioni” o alle stesse argomentazioni nelle quali si estrinseca l’esercizio del potere discrezionale di apprezzamento delle prove, restando precluso nel giudizio di cassazione l’accertamento dei fatti ovvero la loro valutazione ai fini istruttori.

Quanto ai denunciati vizi di violazione di legge, le doglianze prospettate dalla ricorrente non sono riconducibili nell’ambito della previsione normativa dettata dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, poichè si risolvono nella denuncia di violazione di disposizioni normative sulla base di una errata ricognizione della fattispecie concreta, laddove, invece, tale vizio consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta recata da una previsione normativa, implicante un problema interpretativo della stessa, o ancora nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista non è idonea a regolarla, oppure nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione (Cass., sez. 1, 5/02/2019, n. 3340; Cass., sez. 1, 14/01/2019, n. 640; Cass., sez. 5, 25/09/2019, n. 23851). Viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

6. Il secondo motivo del ricorso, con il quale si lamenta che la Corte territoriale avrebbe violato le norme che regolano la quantificazione del danno, resta assorbito, in quanto presuppone l’accoglimento nell’an della domanda di risarcimento dei danni.

7. Il ricorso incidentale condizionato, in ragione dell’inammissibilità del ricorso principale, resta parimenti assorbito.

Le spese del giudizio di legittimità seguono i criteri della soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e dichiara assorbito il ricorso incidentale. Condanna la ricorrente principale al pagamento, in favore di B.F., delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 8.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi, liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificati pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 giugno 2022.

Depositato in Cancelleria il 12 settembre 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 05/07/2022) 02/09/2022, n. 25910

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 851-2021 R.G. proposto da:

SICIL TOURING s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.G., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dagli avv.ti Luigi Piergiuseppe MURCIANO, e Valerio CIONI, ed elettivamente domiciliata presso lo studio legale del predetto ultimo difensore, sito in Roma, alla via degli Scipioni, n. 268/a;

– ricorrente –

contro

COMUNE di ERICE, in persona del Sindaco in carica;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2951/12/2020 della Commissione tributaria regionale della SICILIA, depositata in data 26/05/2020;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 05/07/2022 dal Consigliere Dott. Lucio LUCIOTTI.

Svolgimento del processo
che:

– in controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento ai fini IMU per l’anno d’imposta (OMISSIS), con la sentenza in epigrafe indicata la CTR della Sicilia rigettava l’appello della Sicil Touring s.r.l. avverso la sfavorevole sentenza di primo grado dell’amministrazione finanziaria avverso la sfavorevole sentenza di primo grado rilevando la regolarità della notifica dell’atto impositivo effettuata a mezzo posta elettronica certificata che comunque aveva raggiunto lo scopo essendo stato regolarmente impugnato; nel merito, sosteneva che l’avviso di accertamento era congruamente motivato e “la doglianza inerente ai valori dell’immobile introdotta in primo grado e qui riproposta è del tutto generica e priva di prova”;

– avverso tale statuizione la società contribuente propone ricorso per cassazione affidato a due motivi cui non replica l’intimato;

– sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale la ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, artt. 6 e 22 e art. 156 c.p.c. sostenendo che nel caso di specie non poteva operare la sanatoria della irregolarità della notifica dell’avviso di accertamento effettuata a mezzo posta elettronica certificata perchè recante allegazione al messaggio di una copia informatica di un documento analogico, senza alcuna attestazione di conformità e firma digitale, tale da integrare, quindi, un’ipotesi di inesistenza della notifica.

2. Il motivo è manifestamente infondato e va rigettato.

3. Va premesso che le disposizioni del D.Lgs. n. 82 del 2005 (c.d. Codice dell’amministrazione digitale – CAD) si applicano, ai sensi dell’art. 2, comma 2, nella versione anteriore alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 217 del 2017, “alle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2”, nelle quali sono ricompresi anche i comuni (l’appena citato comma 2 prevede, infatti, che “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi (…) i Comuni”).

3.1. il D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 5-bis, comma 1, seconda parte, prevede, inoltre, che “Con le medesime modalità”, ovvero “esclusivamente utilizzando le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”, “le amministrazioni pubbliche”, tra cui appunto gli enti locali, “adottano e comunicano atti e provvedimenti amministrativi nei confronti delle imprese”. Al riguardo va precisato che il D.L. n. 185 del 2008, art. 16, comma 6, convertito con modificazioni dalla L. n. 2 del 2009, ha previsto l’obbligo, per le imprese costituite in forma societaria, di dotarsi di un indirizzo di PEC. 3.2. L’art. 6 del CAD, nella versione anteriore alla modifica apportata dal D.Lgs. n. 217 del 2017 (con efficacia dal 28/01/2018), prevedeva che “Fino alla piena attuazione delle disposizioni di cui all’art. 3-bis, per le comunicazioni di cui all’art. 48, comma 1”, ovvero quelle telematiche, “con i soggetti che hanno preventivamente dichiarato il proprio indirizzo ai sensi della vigente normativa tecnica, le pubbliche amministrazioni utilizzano la posta elettronica certificata”.

3.3. Il comma 2 dell’art. 48 CAD prevede poi espressamente che “La trasmissione del documento informatico per via telematica, effettuata ai sensi del comma 1, equivale, salvo che la legge disponga diversamente, alla notificazione per mezzo della posta”.

4. Successivamente, il D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 7 ha apportato modifiche al D.Lgs. n. 82 del 2005 (CAD) tra cui, per quanto qui di interesse, agli artt. 2 e 6.

4.1. L’art. 2, nel cui comma 2 l’indicazione dei soggetti cui si applicano le disposizioni del CAD sono ora suddivise in lettere, è rimasto invariato quanto alla previsione di applicazione del CAD “alle pubbliche amministrazioni di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2”, tra cui si è detto (precedente par. 3) essere ricompresi anche gli enti locali.

4.2. L’art. 6 del CAD (D.Lgs. n. 82 del 2005), all’art. 1-quater, introdotto dalla legge di modifica del 2017, prevede che “I soggetti di cui all’art. 2, comma 2, notificano direttamente presso i domicili digitali di cui all’art. 3-bis i propri atti, compresi i verbali relativi alle sanzioni amministrative, gli atti impositivi di accertamento e di riscossione e le ingiunzioni di cui al R.D. 14 aprile 1910, n. 639, art. 2 fatte salve le specifiche disposizioni in ambito tributario. La conformità della copia informatica del documento notificato all’originale è attestata dal responsabile del procedimento in conformità a quanto disposto agli artt. 22 e 23-bis”.

4.3. La disposizione da ultimo citata non si riferisce soltanto agli enti locali ma a tutte le amministrazioni pubbliche indicate nell’art. 2, comma 2, prevedendo per queste una generale facoltà di notifica a mezzo PEC degli atti emessi dalle singole amministrazioni pubbliche, con salvezza di eventuali disposizioni speciali che impongano forme diverse.

5. Pertanto, anche ove si volesse ritenere che agli enti locali solo a decorrere dal 27 gennaio 2018, data di entrata in vigore del D.Lgs. n. 217 del 2017, è stata attribuita la facoltà di avvalersi della posta elettronica certificata per la notifica degli atti impositivi, la notifica degli atti impositivi effettuata in data anteriore non può ritenersi affetta da inesistenza ma, al più, da nullità sanabile.

6. A tale soluzione è, peraltro, pervenuta questa Corte con riferimento agli avvisi di accertamento emessi dall’Agenzia delle entrate in formato elettronico, e sottoscritti con firma digitale, nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6 (cd CAD – Codice dell’Amministrazione digitale), come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, sino alle ulteriori modifiche apportate allo stesso art. 2, comma 6, con l’aggiunta altresì del comma 6-bis, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. d) ed e), entrato in vigore dal 27 gennaio 2018.

7. Interpretando il citato art. 2, comma 6, prima parte, CAD (D.Lgs. n. 82 del 2005), nel testo vigente in detto arco temporale (secondo cui “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, di ordine e sicurezza pubblica, difesa e sicurezza nazionale, polizia giudiziaria e polizia economico-finanziaria e consultazioni elettorali”), questa Corte (cfr. da ultimo Cass. n. 32692 del 2021; v. anche Cass. n. 13137 del 2022), sulla premessa “che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo e-IDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento,/2 il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici” e che, “Ai sensi dell’art. 40 CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. 13 novembre 2014”, ha rilevato che “la regola generale è divenuta il ricorso ai documenti informatici”, esclusa soltanto per “gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni” ma non per gli atti impositivi ovvero, quelli “eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.- 8. Ad analoga conclusione, stante a quanto sopra detto circa l’inclusione degli enti locali tra le amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 1, comma 2, cui si applicano le disposizioni del Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 2), deve pervenirsi per gli atti impositivi notificati dagli enti locali antecedentemente all’introduzione, a decorrere dal 27 gennaio 2018, dell’art. 6, comma 1-quater CAD. 9. Pare opportuno ricordare al riguardo che secondo la giurisprudenza di questa Corte “L’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dell’atto ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale. (Nella specie la S.C. ha escluso che la notifica a mezzo PEC attuata prima del 15 maggio 2014, giorno di entrata in vigore delle norme tecniche di cui al D.M. n. 44 del 2011, art. 18 che secondo i ricorrenti rendevano attuabile la notificazione a mezzo PEC, fosse inesistente, riscontrandone la nullità e il successivo raggiungimento dello scopo)” (Cass. n. 20625 del 2017; v. anche Cass. n. 12217 del 2022).

10. Pertanto, anche ove si volesse accedere alla tesi dell’irregolarità della notifica, la stessa sarebbe affetta da nullità e non certo dalla più grave forma di invalidità indicata dalla ricorrente.

11. Nullità che nella specie sarebbe indubbiamente sanata dalla regolare e tempestiva notifica dell’atto impositivo, ex art. 156 c.p.c. (cfr. Cass. n. 11043 del 2018 e n. 21071 del 2018).

12. Sanatoria che copre anche gli ulteriori vizi dedotti dalla ricorrente, quanto a formato e sottoscrizione dell’atto trasmesso a mezzo PEC. 13. Al riguardo pare opportuno precisare che il D.P.R. n. 68 del 2005, art. 1, lett. f), definisce il messaggio di posta elettronica certificata, come “un documento informatico composto dal testo del messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici allegati”. La lett. i-ter), dell’art. 1 del CAD – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c), -, poi, definisce “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico” come “il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico”, mentre la lett. lett. i-quinquies), dell’art. 1 del medesimo CAD inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c), -, nel definire il “duplicato informatico” parla di “documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario”. Dunque, alla luce della disciplina surriferita, la notifica della cartella di pagamento (può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC: un documento informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d. “atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. “copia informatica”)”. Nel caso esaminato dalla Corte nell’ordinanza n. 30948 del 2019 in tema di notifica a mezzo PEC di una cartella di pagamento, il concessionario della riscossione aveva “provveduto a inserire nel messaggio di posta elettronica certificata un documento informatico in formato PDF (portable document format) – cioè il noto formato di file usato per creare e trasmettere documenti, attraverso un software comunemente diffuso tra gli utenti telematici realizzato in precedenza mediante la copia per immagini di una cartella di pagamento composta in origine su carta”. La Corte, sulla base della predetta normativa ha escluso la denunciata illegittimità della notifica della cartella di pagamento eseguita a mezzo posta elettronica certificata, “per la decisiva ragione che era nella sicura facoltà del notificante allegare, al messaggio trasmesso alla contribuente via PEC, un documento informatico realizzato in forma di copia per immagini di un documento in origine analogico”.

13.1. Non è quindi necessaria alcuna attestazione di conformità del documento informatico a quello analogico.

13.2. Al riguardo deve poi osservarsi che nel caso di specie la società contribuente non ha neppure dedotto nè provato di avere disconosciuto la conformità del documento notificatole a quello originale.

14. Conclusivamente, quindi, il primo motivo di ricorso è infondato e va rigettato.

15. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 162, della L. n. 212 del 2000, art. 7 e della L. n. 241 del 1990, art. 3 sostenendo che aveva errato la CTR a ritenere “la doglianza inerente i valori dell’immobile” avanzata dalla società contribuente “generica e priva di prova” e quindi “congruamente motivato” l’atto impositivo.

15.1. Sostiene al riguardo la società ricorrente che il Comune aveva attribuito agli immobili “valori di stima del tutto arbitrari, senza alcuna esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a supporto di ciò”, con conseguente difetto di motivazione dell’atto impositivo, e che la pretesa impositiva era “illegittima ed infondata anche perchè afferente a c.d. beni merce”, come tali non assoggettabili ad IMU. 16. Il motivo è manifestamente inammissibile sia per genericità della censura con cui la ricorrente lamenta l’arbitrarietà dei valori di stima degli immobili adottati dall’ente impositore, che si sarebbe tradotto, a suo dire, in un difetto di motivazione dell’atto impositivo, sia perchè omette di censurare l’accertamento in fatto compiuto dal giudice di merito che ha rilevato che “la doglianza inerente ai valori dell’immobile (…) è del tutto generica e priva di prova”. Inoltre il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza per non avere la ricorrente riprodotto, neppure per estratto, il contenuto dell’avviso di accertamento e per novità della questione dedotta con riferimento alla natura di beni-merce degli immobili assoggettati ad IMU. Non emergendo tale ultima questione dalla sentenza impugnata, era onere di parte ricorrente, nella specie non adempiuto, indicare specificamente il luogo in cui la relativa questione era stata dedotta nei giudizi di merito.

17. Al riguardo va ricordato che il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (tra le altre: Cass., Sez. 5″, 15 luglio 2015, n. 14784; Cass., Sez. 6″-1, 27 luglio 2017, n. 18679; Cass., Sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34593; Cass., Sez. 6-5, 15 dicembre 2020, n. 28537; Cass., Sez. 5, 21 luglio 2021, n. 20974; Cass., Sez. 5, 28 settembre 2021, n. 26220).

18. E’ ben vero che “Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) quale corollario del requisito di specificità dei motivi – anche alla luce dei principi contenuti nella sentenza CEDU Succi e altri c. Italia del 28 ottobre 2021 – non deve essere interpretato in modo eccessivamente formalistico, così da incidere sulla sostanza stessa del diritto in contesa, e non può pertanto tradursi in un ineluttabile onere di integrale trascrizione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, insussistente laddove nel ricorso sia puntualmente indicato il contenuto degli atti richiamati all’interno delle censure, e sia specificamente segnalata la loro presenza negli atti del giudizio di merito” (Cass., Sez. U, n. 8950 del 2022), ma resta il fatto che la ricorrente era comunque tenuta ad indicare in maniera specifica il luogo in cui aveva posto la questione, non potendo limitarsi ad effettuare, come in concreto ha fatto, un generico riferimento agli atti processuali (ricorso di primo grado e d’appello) demandando alla Corte il compito di individuare esattamente nel corpo degli atti processuali la domanda che si assume essere stata pretermessa dal giudice di merito, con una ricerca esplorativa ufficiosa, che trascende le funzioni del giudice di legittimità.

19. In estrema sintesi, il ricorso va rigettato senza necessità di provvedere sulle spese processuali in mancanza di costituzione in giudizio dell’ente intimato.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore, importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 5 luglio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2022


Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 25/05/2022) 01/09/2022, n. 25848

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Lucia – Presidente –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – rel. Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20180/2015 proposto da:

COMUNE (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA CIRCONVALLAZIONE CLODIA 29, presso lo studio dell’avvocato PAOLA COCCOLI, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO GIORGINO;

ricorrente contro

C.D., elettivamente domiciliato in ROMA VIA CARLO POMA 2, presso lo studio dell’avvocato SANTE ASSENNATO, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI RENNA;

avverso la sentenza n. 855/2015 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 12/05/2015 R.G.N. 1125/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/05/2022 dal Consigliere Dott. CARLA PONTERIO.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Lecce ha accolto l’appello di C.D. e, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato il COMUNE (OMISSIS) al pagamento delle differenze stipendiali tra il trattamento spettante al lavoratore in base alla categoria C, posizione 1, e quello relativo alla categoria B formalmente rivestita, di cui al c.c.n.l. enti locali, per il periodo ottobre 2003 – dicembre 2008, oltre interessi legali.

2. Avverso tale sentenza il COMUNE (OMISSIS) ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi. C.D. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
3. Con il primo motivo del ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 387 del 1998 art. 15 e del D.Lgs. 165 del 2001 art.52 nonchè dei contratti collettivi di lavoro.

4. Si sostiene, richiamando la giurisprudenza amministrativa, che il trattamento economico per lo svolgimento di mansioni superiori è subordinato alle seguenti condizioni giuridiche e di fatto: le mansioni devono essere svolte su un posto esistente in pianta organica vacante e disponibile; non deve essere stato bandito alcun concorso per tale posto; l’incarico deve essere stato conferito con atto deliberativo dell’organo competente con la verifica dei presupposti e l’assunzione delle responsabilità. Tali requisiti difetterebbero nel caso in esame poichè non esisteva nella pianta organica dell’ente comunale un posto con qualifiche e mansioni come quelle rivendicate dal C.; nessun concorso era stato bandito per tale posto; non esisteva alcun atto deliberativo, collettivo o dirigenziale, conferente al lavoratore le mansioni superiori.

5. Si assume che la sentenza d’appello sia stata resa in violazione del contratto collettivo di categoria enti locali, che ha previsto un nuovo sistema di classificazione del personale fondato sull’accorpamento delle precedenti qualifiche prima applicazione l’inquadramento nell’area è effettuato in base all’ex qualifica di appartenenza, secondo la corrispondenza indicata nel contratto; che la adibizione dei dipendenti appartenenti a fasce diverse a mansioni ricomprese nella medesima area professionale non comporta il diritto alla retribuzione corrispondente alle superiori mansioni; che il C. ha svolto mansioni rientranti sempre nello stesso livello economico di appartenenza; che non ha svolto mansioni superiori di competenza dei funzionari comunali inquadrati in un superiore livello poichè non è mai esistita nella pianta organica del comune un posto con qualifica e livello come quelli rivendicati dal predetto.

6. Con il secondo motivo di ricorso è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione.

7. Si osserva che la Corte d’appello ha fondato il proprio convincimento solo sui dati documentali, omettendo di esaminare le deposizioni testimoniali rese dal dottor P. e dalla dottoressa F. (di cui ai verbali di udienza del 17.1.11 e del 14.11.11 del giudizio di primo grado) che avrebbero potuto determinare un esito diverso della controversia.

8. Deve preliminarmente rilevarsi come la parte controricorrente non abbia fornito prova della notifica del controricorso. E’ stata unicamente depositata la ricevuta di spedizione della raccomandata, peraltro con data non leggibile, ma nessuna prova della ricezione da parte del destinatario. Non si procede quindi all’esame delle eccezioni sollevate nel controricorso.

9. Il primo motivo di ricorso non può trovate accoglimento.

10. La Corte d’appello, all’esito di un rigoroso accertamento fattuale, ha riconosciuto lo svolgimento da parte del C., negli anni in contestazione, di mansioni corrispondenti al superiore inquadramento ed il conseguente diritto del medesimo alle differenze retributive.

11. La sentenza impugnata si è attenuta all’orientamento consolidato di questa S.C. secondo cui, in materia di pubblico impiego contrattualizzato, il diritto al compenso per lo svolgimento di fatto di mansioni superiori, da riconoscersi nella misura indicata nel D.Lgs. n. 165 del 2001 art. 52, comma 5, non è condizionato alla sussistenza dei presupposti di legittimità di assegnazione delle mansioni o alle previsioni dei contratti collettivi, nè all’operatività del nuovo sistema di classificazione del personale introdotto dalla contrattazione collettiva, posto che una diversa interpretazione sarebbe contraria all’intento del legislatore di assicurare comunque al lavoratore una retribuzione proporzionata alla qualità del lavoro prestato, in ossequio al principio di cui all’art. 36 Cost. (v. Cass. n. 2102 del 2019; Cass. n. 18808 del 2013). Si è ulteriormente precisato che, in tema di impiego pubblico contrattualizzato, il diritto a percepire la retribuzione commisurata allo svolgimento, di fatto, di mansioni proprie di una qualifica superiore a quella di inquadramento formale, ex art. 52, comma 5, del D.Lgs. n. 165 del 2001, non è condizionato alla legittimità, nè all’esistenza di un provvedimento del superiore gerarchico, e trova un unico limite nei casi in cui l’espletamento sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente, oppure quando sia il frutto di una fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente, o in ogni ipotesi in cui si riscontri una situazione di illiceità per contrasto con norme fondamentali o generali o con principi basilari pubblicistici dell’ordinamento (v. Cass. n. 24266 del 2016).

12. Il motivo di ricorso in esame non solo ignora i principi di diritto enunciati da questa Corte nella materia del pubblico impiego contrattualizzato e richiama una non pertinente giurisprudenza del Consiglio di Stato, ma non si confronta in alcun modo con l’accertamento in fatto compiuto dai giudici di appello sul contenuto delle mansioni svolte dal lavoratore nel periodo oggetto di causa, e risulta pertanto inammissibile.

13. Parimenti inammissibile è il secondo motivo di ricorso perchè attiene non all’omesso esame di un fatto intenso in senso storico fenomenico e decisivo, cioè idoneo a incidere sull’esito della controversia, bensì alla valutazione di elementi istruttori (nello specifico, le prove testimoniali) e si colloca pertanto all’esterno del perimetro di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, come delineato dalle S.U. di questa Corte con le sentenze nn. 8053 e 8054 del 2014.

14. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

15. Non si provvede sulle spese in difetto di prova della notifica del controricorso.

16. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 25 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2022