Corte cost., Sent., (data ud. 09/05/2023) 23/06/2023, n. 130

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

Presidente: Silvana SCIARRA

Giudici: Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Marco D’ALBERTI,

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo
SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122, promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, nel procedimento vertente tra A. R., il Ministero dell’interno e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2022 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell’anno 2022.

Visti gli atti di costituzione di A. R. e dell’INPS, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri, di E. M. e della Federazione C.U.;

udito nell’udienza pubblica del 9 maggio 2023 il Giudice relatore Maria Rosaria San Giorgio;

uditi gli avvocati Massimo Zhara Buda per A. R., Piera Messina e Gino Madonia per l’INPS, Antonio Mirra per E. M. e per la Federazione C.U., e l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 19 giugno 2023.

1.- Con ordinanza del 17 maggio 2022, iscritta al n. 124 del registro ordinanze 2022, il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, ha sollevato, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122.

1.1.- Il rimettente riferisce di essere investito della decisione sul ricorso con il quale A. R., dirigente della Polizia di Stato cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, ha chiesto il pagamento del trattamento di fine servizio senza il differimento e la rateizzazione previsti dalle disposizioni censurate.

In punto di rilevanza, il giudice a quo assume che l’applicazione delle norme in scrutinio, la cui chiarezza testuale preclude una interpretazione adeguatrice, condurrebbe al rigetto del ricorso, con conseguente dilazione del termine del pagamento delle somme spettanti al ricorrente per effetto della cessazione dal rapporto di servizio.

1.2.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice rimettente deduce che il dubbio di legittimità costituzionale “è alimentato dall’esame della giurisprudenza della Corte costituzionale, con particolare riguardo alla sentenza n. 159 del 25 giugno 2019”, la quale, nel dichiarare non fondate le questioni di legittimità costituzionale delle stesse norme qui censurate, sia pure nella parte in cui si riferiscono ai lavoratori che non hanno raggiunto i limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, ha affermato che la disciplina che ha progressivamente dilatato i tempi di erogazione delle prestazioni dovute alla cessazione del rapporto di impiego “ha smarrito un orizzonte temporale definito e la iniziale connessione con il consolidamento dei conti pubblici che l’aveva giustificata”.

Il TAR Lazio ricorda, altresì, che, secondo la giurisprudenza costituzionale, le indennità di fine servizio costituiscono parte del compenso dovuto per il lavoro prestato, la cui corresponsione viene differita al momento della cessazione dall’impiego, al fine di agevolare il superamento delle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione.

Il rimettente argomenta che “una retribuzione corrisposta con ampio ritardo ha per il lavoratore una utilità inferiore a quella corrisposta tempestivamente”.

Il carattere di retribuzione differita riconosciuto alle indennità di fine rapporto comporterebbe che anche queste ultime debbano essere corrisposte tempestivamente e che non possano essere scaglionate nel tempo “strutturalmente oltre la fuoriuscita dal mondo del lavoro”. Ciò, specie ove si consideri che, di norma, con il trattamento economico in questione il lavoratore, sia pubblico che privato, specie se in età avanzata, si propone di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita, ovvero di far fronte ad impegni finanziari già assunti.

Il giudice a quo ricorda, quindi, che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, una normativa come quella in esame può superare lo scrutinio di legittimità costituzionale solo se opera in un tempo definito e se è giustificata da una crisi contingente.

In ultimo, illustrati gli interventi normativi che hanno modificato le disposizioni censurate in senso progressivamente peggiorativo per il lavoratore pubblico, il rimettente conclude che la previsione di un pagamento rateizzato comprime in maniera irragionevole e sproporzionata i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., “non essendo sorretta dal carattere contingente, ma al contrario avendo carattere strutturale”.

2.- Nel giudizio si è costituito A. R., ricorrente nel giudizio principale, argomentando a sostegno della fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

La parte richiama, a sua volta, la sentenza n. 159 del 2019 di questa Corte per evidenziare come la stessa abbia lasciato impregiudicate le questioni di legittimità costituzionale della normativa all’odierno esame, nella parte in si riferisce ai dipendenti cessati dall’impiego per raggiungimento dei limiti di età e di servizio o per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio.

Il pagamento ritardato dei trattamenti di fine servizio – i quali costituiscono retribuzione differita – si porrebbe, pertanto, in contrasto con il principio di proporzionalità della retribuzione, espresso dall’art. 36 Cost., e, al contempo, attesa la sua natura previdenziale, con il principio di adeguatezza dei mezzi per la vecchiaia dettato dall’art. 38 Cost.

La parte privata deduce che soltanto nei primi anni di vigenza delle misure oggetto di censura il legislatore ha conseguito l’obiettivo di contenimento della dinamica della spesa corrente e di riequilibrio della finanza pubblica, mentre, una volta che le stesse misure sono entrate a regime, l’effetto positivo è cessato, “perché l’indebitamento è stato semplicemente reso strutturale, senza alcun vantaggio economico nella gestione corrente”.

3.- Nel giudizio si è costituito anche l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), parte resistente nel processo a quo, chiedendo dichiararsi l’inammissibilità e comunque la non fondatezza delle questioni sollevate.

3.1.- L’INPS rileva, anzitutto, l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il giudice rimettente, secondo il quale la prestazione che viene nella specie in rilievo costituirebbe un trattamento di fine rapporto, inteso come “mera retribuzione differita”, anziché un trattamento di fine servizio.

La prestazione in scrutinio – si osserva – coincide, per contro, con l’indennità di buonuscita istituita dal D.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Approvazione del testo unico delle norme sulle prestazioni previdenziali a favore dei dipendenti civili e militari dello Stato), la cui speciale disciplina ne impedisce l’assimilazione al trattamento di fine rapporto di cui all’art. 2120 del codice civile. Ciò in quanto, a differenza di quest’ultimo, la prestazione in esame è erogata da un ente previdenziale terzo e, dunque, da un soggetto distinto sia dal datore di lavoro, sia dal dipendente.

L’Istituto evidenzia, ancora, che il trattamento in esame è più vantaggioso di quello privatistico, perché viene parametrato all’ultima retribuzione spettante al dipendente prima del suo collocamento a riposo, che, di norma, è la più elevata.

Tale maggiore vantaggiosità si rivelerebbe anche sotto il profilo fiscale, posto che l’art. 24 del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4 (Disposizioni urgenti in materia di reddito di cittadinanza e di pensioni), convertito, con modificazioni, nella L. 28 marzo 2019, n. 26, ha introdotto una parziale detassazione del solo trattamento di fine servizio, “sotto forma di riduzione dell’aliquota determinata ai sensi dell’articolo 19 comma 2-bis del D.P.R. n. 917 del 1986 (TUIR), da applicarsi all’imponibile dei trattamenti di fine servizio (TFS) con importo fino a 50.00,00 euro”.

Un ulteriore elemento di differenziazione andrebbe individuato nell’essere l’indennità di buonuscita alimentata da un contributo previdenziale obbligatorio, pari al 9,60 per cento della base contributiva, gravante sull’ente datore di lavoro, il quale si rivale sul dipendente in misura del 2,50 per cento della medesima base contributiva.

Argomenta, ancora, l’Istituto che, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, per l’indennità di buonuscita non è contemplato il diritto all’anticipazione della prestazione, né è stata mai prevista la possibilità di ottenerne una parte in busta paga, come invece disposto dalla legge di stabilità per l’anno 2015 per i lavoratori privati.

A dimostrazione che il trattamento di fine servizio non potrebbe essere assimilato al trattamento di fine rapporto e che, quindi, non avrebbe natura di retribuzione differita, l’INPS evoca la giurisprudenza di legittimità che ritiene applicabile alla fattispecie in scrutinio il principio di automaticità delle prestazioni previdenziali.

Dalla mancata considerazione, da parte del rimettente, delle illustrate peculiarità dell’indennità di buonuscita deriverebbe l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale per incompletezza della ricostruzione del quadro normativo di riferimento.

3.2.- Le questioni sarebbero, comunque, non fondate, in quanto la disciplina censurata sarebbe conforme al principio di solidarietà, specie ove si abbia riguardo alla grave crisi in cui verserebbe il sistema previdenziale.

Nel caso di specie dovrebbero, pertanto, trovare applicazione i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 173 del 2016 in tema di contributo di solidarietà sulle pensioni di importo più elevato, alla stregua dei quali la dilazione del pagamento introdotta dalle disposizioni censurate non contrasterebbe con i principi di ragionevolezza, di affidamento e di tutela previdenziale espressi dagli artt. 3 e 38 Cost.

D’altro canto, prosegue l’INPS, come confermato dalla citata sentenza n. 159 del 2019, questa Corte nello scrutinare le odierne questioni, non può non tenere conto delle esigenze della finanza pubblica e di razionale programmazione nell’impiego di risorse limitate.

L’INPS sottolinea, poi, che l’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni in tema di dilazione e di rateizzazione comporterebbe per l’Istituto un onere assai elevato, posto che, nel caso in cui entrambi i meccanismi dilatori previsti dalle norme censurate venissero eliminati, l’onere complessivo della spesa aggiuntiva sarebbe di 13,9 miliardi di euro per l’anno 2023.

In ultimo, l’Istituto si fa carico del monito espresso da questa Corte nella citata sentenza n. 159 del 2019, con la quale si è rilevato che, nei casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione, retributiva e previdenziale, delle indennità di cui si tratta rischia di essere compromessa, in contrasto con i principi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona. Evidenzia, tuttavia, l’Istituto che successivamente a tale pronuncia, sono stati adottati il D.P.C.M. 22 aprile 2020, n. 51 (Regolamento in materia di anticipo del TFS/TFR, in attuazione dell’articolo 23, comma 7, del D.L. 28 gennaio 2019, n. 4, convertito, con modificazioni, dalla L. 28 marzo 2019, n. 26), contenente le modalità di attuazione delle disposizioni di cui all’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, nonché il decreto del Ministro per la pubblica amministrazione 19 agosto 2020, relativo all’approvazione dell’accordo quadro per il finanziamento verso l’anticipo della liquidazione dell’indennità di fine servizio comunque determinata, secondo quanto previsto dall’art. 23, comma 2, del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, accordo siglato tra il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro per la pubblica amministrazione e l’Associazione bancaria italiana.

Espone, ancora, l’INPS che gli atti citati consentono ai lavoratori dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) – che cessano o sono cessati dal servizio con diritto a pensione per raggiungimento dei requisiti previsti dall’art. 24 del D.L. 6 dicembre 2011, n. 201 (Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, nella L. 22 dicembre 2011, n. 214, o con diritto a pensione al raggiungimento della cosiddetta “quota 100” come previsto dall’art. 14 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito – di presentare a banche ed intermediari finanziari richiesta di finanziamento per una somma pari all’importo dell’indennità di fine servizio maturata, nella misura massima di 45.000 euro ovvero all’importo spettante qualora la predetta indennità sia di importo inferiore.

In aggiunta, si sottolinea che, con deliberazione del consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219, è stata istituita una nuova prestazione a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali, avente ad oggetto l’anticipazione ordinaria delle somme spettanti ai dipendenti pubblici a titolo di trattamento di fine servizio o di trattamento di fine rapporto.

L’Istituto precisa che si tratta di un finanziamento di importo pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse fisso pari all’1 per cento, e con spese di amministrazione a carico del finanziato in misura pari allo 0,50 per cento dell’importo, da erogarsi in un’unica soluzione, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto.

4.- Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi non fondate le odierne questioni di legittimità costituzionale.

Richiamati i passaggi salienti della ricordata sentenza n. 159 del 2019, l’interveniente sostiene che il differimento della corresponsione delle indennità di buonuscita e di altri analoghi trattamenti non pregiudica la garanzia sancita dall’art. 36 Cost., in quanto la disciplina censurata non ha negato o decurtato le indennità spettanti ai dipendenti pubblici, ma ne ha soltanto differito il versamento mediante un meccanismo che privilegia le ipotesi di cessazione per inabilità, derivante o meno da causa di servizio, nonché per decesso del dipendente, nelle quali ha fissato un termine di tre mesi in luogo di quello di ventiquattro mesi previsto per i titolari di pensione di anzianità anticipata.

Sottolinea la difesa statale che i meccanismi oggetto di censura sono ispirati a esigenze di solidarietà sociale e sono intesi a fronteggiare la grave e perdurante situazione di crisi della finanza pubblica.

Il sacrificio imposto ai dipendenti pubblici sarebbe, pertanto, improntato alla solidarietà previdenziale, in quanto concorrerebbe a finanziare gli oneri del sistema della previdenza, peraltro in un contesto di crisi dello stesso, e rispetterebbe il principio di proporzionalità, incidendo in special modo sui trattamenti più elevati.

In aggiunta, la difesa statale ricorda il monito contenuto nella citata sentenza n. 159 del 2019, per evidenziare che allo stesso il legislatore ha dato seguito mediante l’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, avente ad oggetto la disciplina dell’anticipo agevolato di una quota del trattamento di fine servizio o di fine rapporto, comunque denominato, per i dipendenti pubblici che abbiano avuto accesso al trattamento pensionistico nel regime ordinario, nonché di quello sperimentale previsto al raggiungimento della cosiddetta “quota 100” e “quota 102”.

In ultimo, l’interveniente rimarca che la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate comporterebbe per l’INPS un onere oltremodo gravoso, posto che lo stesso Istituto dovrebbe farsi carico sia del pagamento immediato di tutti i trattamenti di fine servizio relativi a cessazioni per pensionamento di vecchiaia intervenute nell’ultimo anno, sia dell’integrazione degli importi relativi alle cessazioni avvenute negli anni precedenti, le cui rate non sono state ancora corrisposte in conformità ai termini previsti dalle disposizioni censurate.

5.- È, altresì, intervenuto ad adiuvandum E. M., svolgendo difese di segno adesivo alle deduzioni del rimettente.

L’interveniente, dipendente del Ministero dell’economia e delle finanze collocato in quiescenza per vecchiaia, espone di avere introdotto un giudizio davanti al Tribunale ordinario di Velletri, in funzione di giudice del lavoro, in cui ha chiesto accertarsi il proprio diritto alla corresponsione del trattamento di fine servizio senza dilazioni, deducendo l’illegittimità costituzionale delle norme che ne autorizzano il differimento e la rateizzazione, e che il giudice adito ha disposto il rinvio della causa in attesa dell’esito dell’odierno giudizio di legittimità costituzionale, in quanto vertente sulle medesime questioni.

E. M. assume di essere legittimato all’intervento sia in ragione dell’analogia della sua posizione giuridica rispetto a quella di A. R., ricorrente nel giudizio principale, sia in forza dell’identità tra le censure di illegittimità costituzionale svolte a sostegno dell’azione esperita e quelle qui in scrutinio.

6.- Ha, inoltre, spiegato intervento adesivo la Federazione C.U. per chiedere l’accoglimento delle questioni sollevate.

La federazione deduce di essere legittimata all’intervento in quanto titolare di un interesse, “se pur collettivo e superindividuale”, diretto, attuale e concreto, connesso alla posizione soggettiva dedotta nel giudizio principale.

7.- In ultimo, l’A.N.F. ha depositato un’opinione scritta quale amicus curiae di segno adesivo alle censure del giudice a quo.

A fondamento della propria legittimazione ai sensi dell’art. 6 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’associazione deduce di essere il sindacato maggiormente rappresentativo dei dirigenti della Polizia di Stato e di avere tra i suoi fini statutari prioritari la protezione degli interessi della collettività organizzata dei funzionari di polizia, sotto i profili giuridico, economico e pensionistico.

L’opinione è stata ammessa con decreto presidenziale del 24 marzo 2023.

8.- Nell’imminenza dell’udienza pubblica, hanno depositato memorie sia la parte privata, sia l’INPS, sia l’Avvocatura generale dello Stato, insistendo nelle rispettive conclusioni.

Motivi della decisione
1.- Il TAR Lazio, sezione terza quater, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, in riferimento all’art. 36 Cost.

1.1.- Il rimettente, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale che riconduce i trattamenti di fine servizio, comunque denominati, spettanti ai dipendenti pubblici nel paradigma della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, ritiene che le disposizioni censurate, nel prevedere rispettivamente il differimento e la rateizzazione del versamento di tali prestazioni, si pongano in contrasto con la garanzia costituzionale della giusta retribuzione.

La corresponsione differita e rateale dell’indennità di fine servizio arrecherebbe al beneficiario un’utilità inferiore rispetto a quella derivante da una liquidazione tempestiva, posto che “proprio attraverso l’integrale e immediata percezione” di tali spettanze il lavoratore si propone “di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita, ovvero di fronteggiare o adempiere in modo definitivo ad impegni finanziari già assunti”.

In linea con le enunciazioni espresse da questa Corte nella sentenza n. 159 del 2019, il giudice a quo sostiene che le disposizioni in scrutinio ledano in modo irragionevole e sproporzionato i diritti dei lavoratori pubblici, in violazione dell’art. 36 Cost., in quanto, pur essendo state introdotte per far fronte ad una situazione di crisi contingente, hanno ormai assunto carattere strutturale.

2.- In via preliminare, va ribadito quanto affermato nell’ordinanza di cui è stata data lettura in udienza, allegata al presente provvedimento, sull’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum.

2.1.- L’intervento di E. M. è inammissibile in quanto rinviene la sua ragione fondante nella semplice analogia della posizione sostanziale dell’interveniente rispetto a quella della parte ricorrente nel giudizio principale (sentenza n. 106 del 2019; ordinanza n. 191 del 2021).

2.2.- Neanche la Federazione C.U., quale organismo rappresentativo di soggetti titolari di rapporti giuridici regolati dalle disposizioni censurate, può ritenersi portatrice di un interesse specifico direttamente riconducibile all’oggetto del giudizio principale. Al contrario, essa persegue un “mero indiretto, e più generale, interesse connesso agli scopi statutari della tutela degli interessi economici e professionali degli iscritti” (sentenze n. 159 del 2019 e n. 77 del 2018).

3.- L’esame delle questioni sollevate richiede la ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le disposizioni censurate.

3.1.- La disciplina delle modalità di pagamento dell’indennità di buonuscita era originariamente contenuta nell’art. 26, terzo comma, del D.P.R. n. 1032 del 1973, a mente del quale, in caso di cessazione dal servizio per limiti di età, l’amministrazione doveva predisporre gli atti tre mesi prima del raggiungimento del limite predetto e inviarli almeno un mese prima al Fondo di previdenza per il personale civile e militare dello Stato, il quale era tenuto ad emettere il mandato di pagamento in modo da rendere possibile l’effettiva corresponsione del trattamento “immediatamente dopo la data di cessazione dal servizio e comunque non oltre quindici giorni dalla data medesima”.

Il termine per la effettiva corresponsione della prestazione in esame è stato successivamente elevato a novanta giorni dall’art. 7, terzo comma, della L. 20 marzo 1980, n. 75, recante “Proroga del termine previsto dall’articolo 1 della L. 6 dicembre 1979, n. 610, in materia di trattamento economico del personale civile e militare dello Stato in servizio ed in quiescenza; norme in materia di computo della tredicesima mensilità e di riliquidazione dell’indennità di buonuscita e norme di interpretazione e di attuazione dell’articolo 6 della L. 29 aprile 1976, n. 177, sul trasferimento degli assegni vitalizi al Fondo sociale e riapertura dei termini per la opzione”.

In seguito, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, qui in scrutinio, ha rimodulato i tempi di erogazione dei “trattamenti di fine servizio, comunque denominati”, spettanti ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni (oggi definite dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 165 del 2001) o ai loro superstiti o aventi causa che ne hanno titolo, disponendo che alla liquidazione “l’ente erogatore provvede decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro e, nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, per collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio prevista dalle norme di legge o di regolamento applicabili nell’amministrazione, decorsi dodici mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”.

La citata disposizione prevede, altresì, che alla erogazione si dia corso “entro i successivi tre mesi, decorsi i quali sono dovuti gli interessi”.

3.2.- Nella versione originaria, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, stabiliva il termine di sei mesi per la liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, e quello dei successivi tre mesi per la relativa corresponsione.

Tale previsione è stata modificata dapprima dall’art. 1, comma 22, lettera a), del D.L. 13 agosto 2011, n. 138 (Ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo), convertito, con modificazioni, nella L. 14 settembre 2011, n. 148, e in seguito dall’art. 1, comma 484, lettera b), della L. 27 dicembre 2013, n. 147, recante “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di stabilità 2014)”.

La prima delle richiamate disposizioni ha innalzato da sei a ventiquattro mesi il termine per il versamento del trattamento di fine servizio, decorrente dalla cessazione del rapporto di lavoro, senza modificare il termine semestrale per la corresponsione dell’emolumento nei casi di cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio.

Tale ultimo termine è stato elevato a dodici mesi dall’art. 1, comma 484, lettera b), della L. n. 147 del 2013.

3.3.- Al differimento, appena illustrato, delle liquidazioni di cui si tratta si affianca la disciplina introdotta dall’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, che ha previsto un regime di rateizzazione delle spettanze di fine servizio al dichiarato fine di concorrere “al consolidamento dei conti pubblici attraverso il contenimento della dinamica della spesa corrente nel rispetto degli obiettivi di finanza pubblica previsti dall’Aggiornamento del programma di stabilità e crescita”.

Il testo originario della disposizione citata prevedeva che la corresponsione del trattamento avvenisse in un unico importo annuale per le indennità di fine servizio di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, pari o inferiore a 90.000 euro; in due importi annuali per le indennità di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, superiore a 90.000 euro, ma inferiore a 150.000 euro; in tre importi annuali per le indennità di ammontare complessivo, al lordo delle relative trattenute fiscali, uguale o superiore a 150.000 euro.

3.4.- A seguito delle modifiche apportate all’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito, dall’art. 1, comma 484, lettera a), della L. n. 147 del 2013, la scansione dei pagamenti è stata rimodulata.

L’indennità di buonuscita, l’indennità premio di servizio, il trattamento di fine rapporto e “ogni altra indennità equipollente corrisposta una-tantum comunque denominata spettante a seguito di cessazione a vario titolo dall’impiego” sono oggi riconosciuti “in un unico importo annuale se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente pari o inferiore a 50.000 euro” (art. 12, comma 7, lettera a); “in due importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente superiore a 50.000 euro ma inferiore a 100.000 euro. In tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro e il secondo importo annuale è pari all’ammontare residuo” (art. 12, comma 7, lettera b); “in tre importi annuali se l’ammontare complessivo della prestazione, al lordo delle relative trattenute fiscali, è complessivamente uguale o superiore a 100.000 euro, in tal caso il primo importo annuale è pari a 50.000 euro, il secondo importo annuale è pari a 50.000 euro e il terzo importo annuale è pari all’ammontare residuo” (art. 12, comma 7, lettera c).

4.- In via preliminare si rileva che, come emerge dall’esame della ordinanza di rimessione, essendo il ricorrente nel giudizio a quo cessato dal servizio per raggiunti limiti di età, l’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, trova applicazione nella parte in cui differisce la liquidazione del trattamento di fine servizio di dodici mesi dalla cessazione del rapporto.

Lo scrutinio di legittimità costituzionale relativamente alla predetta disposizione deve intendersi, pertanto, circoscritto alla parte di essa che si riferisce ai dipendenti cessati dal lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio.

5.- Sempre in via preliminare, deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità per incompleta ricostruzione del quadro normativo formulata dall’INPS.

5.1.- Il giudice a quo, ripercorrendo la genesi delle disposizioni censurate e richiamando l’interpretazione che ne ha dato questa Corte nella sentenza n. 159 del 2019, ha esaustivamente ricomposto la cornice normativa e giurisprudenziale in cui si innesta la disciplina in scrutinio.

6.- Le questioni sono inammissibili per le ragioni di seguito illustrate.

6.1.- L’evoluzione normativa, “stimolata dalla giurisprudenza costituzionale” (sentenza n. 243 del 1993, punto 4 del Considerato in diritto), ha ricondotto le indennità di fine servizio erogate nel settore pubblico al paradigma comune della retribuzione differita con concorrente funzione previdenziale, nell’àmbito di un percorso di tendenziale assimilazione alle regole dettate nel settore privato dall’art. 2120 del codice civile (sentenze n. 258 del 2022, n. 159 del 2019 e n. 106 del 1996).

Tale processo di armonizzazione, contraddistinto anche da un ruolo rilevante dell’autonomia collettiva (sentenza n. 213 del 2018), rispecchia la finalità unitaria dei trattamenti di fine rapporto, che si prefiggono di accompagnare il lavoratore nella delicata fase dell’uscita dalla vita lavorativa attiva (sentenza n. 159 del 2019).

Le indennità di fine servizio costituiscono una componente del compenso conquistato “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996) e, quindi, una parte integrante del patrimonio del beneficiario, il quale spetta ai superstiti in caso di decesso del lavoratore (sentenza n. 243 del 1993).

6.2.- La natura retributiva attira le prestazioni in esame nell’ambito applicativo dell’art. 36 Cost., essendo l’emolumento di cui si tratta volto a sopperire alle peculiari esigenze del lavoratore in una “particolare e più vulnerabile stagione dell’esistenza umana” (sentenza n. 159 del 2019).

La garanzia della giusta retribuzione, proprio perché attiene a principi fondamentali, “si sostanzia non soltanto nella congruità dell’ammontare concretamente corrisposto, ma anche nella tempestività dell’erogazione” (sentenza n. 159 del 2019).

Il trattamento viene, infatti, corrisposto nel momento della cessazione dall’impiego al preciso fine di agevolare il dipendente nel far fronte alle difficoltà economiche che possono insorgere con il venir meno della retribuzione.

In ciò si realizza la funzione previdenziale, che, pure, vale a connotare le indennità in scrutinio, e che concorre con quella retributiva.

6.3.- Questa Corte deve farsi carico della considerazione che il trattamento di fine servizio costituisce un rilevante aggregato della spesa di parte corrente e, per tale ragione, incide significativamente sull’equilibrio del bilancio statale (sentenza n. 159 del 2019).

Non è da escludersi, pertanto, in assoluto che, in situazioni di grave difficoltà finanziaria, il legislatore possa eccezionalmente comprimere il diritto del lavoratore alla tempestiva corresponsione del trattamento di fine servizio. Tuttavia, un siffatto intervento è, anzitutto, vincolato al rispetto del criterio della ragionevolezza della misura prescelta e della sua proporzionalità rispetto allo scopo perseguito.

Un ulteriore limite riguarda la durata di simili misure.

La legittimità costituzionale delle norme dalle quali possa scaturire una restrizione dei diritti patrimoniali del lavoratore è, infatti, condizionata alla rigorosa delimitazione temporale dei sacrifici imposti (sentenza n. 178 del 2015), i quali devono essere “eccezionali, transeunti, non arbitrari e consentanei allo scopo prefisso” (ordinanza n. 299 del 1999).

6.4.- Ebbene, il termine dilatorio di dodici mesi quale risultante dall’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, e successive modificazioni, oggi non rispetta più né il requisito della temporaneità, né i limiti posti dai principi di ragionevolezza e di proporzionalità.

A differenza del pagamento differito dell’indennità di fine servizio in caso di cessazione anticipata dall’impiego – in cui il sacrificio inflitto dal meccanismo dilatorio trova giustificazione nella finalità di disincentivare i pensionamenti anticipati e di promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa (sentenza n. 159 del 2019) – il, sia pur più breve, differimento operante in caso di cessazione dal rapporto di lavoro per raggiunti limiti di età o di servizio non realizza un equilibrato componimento dei contrapposti interessi alla tempestività della liquidazione del trattamento, da un lato, e al pareggio di bilancio, dall’altro.

Ciò in quanto la previsione ora richiamata ha “smarrito un orizzonte temporale definito” (sentenza n. 159 del 2019), trasformandosi da intervento urgente di riequilibrio finanziario in misura a carattere strutturale, che ha gradualmente perso la sua originaria ragionevolezza.

6.5.- A ciò deve aggiungersi che la perdurante dilatazione dei tempi di corresponsione delle indennità di fine servizio rischia di vanificare anche la funzione previdenziale propria di tali prestazioni, in quanto contrasta con la particolare esigenza di tutela avvertita dal dipendente al termine dell’attività lavorativa.

Non è, infatti, infrequente che l’emolumento in esame venga utilizzato per sopperire ad esigenze non ordinarie del beneficiario o dei suoi familiari, e la possibilità che tali necessità insorgano nelle more della liquidazione del trattamento espone l’avente diritto ad un pregiudizio che la immediata disponibilità dell’importo eviterebbe.

6.6.- Occorre, ancora, considerare che l’odierno scrutinio di legittimità costituzionale si innesta in un quadro macroeconomico in cui il sensibile incremento della pressione inflazionistica acuisce l’esigenza di salvaguardare il valore reale della retribuzione, anche differita, posto che il rapporto di proporzionalità, garantito dall’art. 36 Cost., tra retribuzione e quantità e qualità del lavoro, richiede di essere riferito “ai valori reali di entrambi i suoi termini” (sentenza n. 243 del 1993).

Di conseguenza, la dilazione oggetto di censura, non essendo controbilanciata dal riconoscimento della rivalutazione monetaria, finisce per incidere sulla stessa consistenza economica delle prestazioni di cui si tratta, atteso che, ai sensi dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, allo scadere del termine annuale in questione e di un ulteriore termine di tre mesi sono dovuti i soli interessi di mora.

6.7.- Questa Corte, con la richiamata sentenza n. 159 del 2019, ha dichiarato la non fondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, nella parte in cui prevede che alla liquidazione dei trattamenti di fine servizio, comunque denominati, l’ente erogatore provveda “decorsi ventiquattro mesi dalla cessazione del rapporto di lavoro”, nelle ipotesi diverse dalla cessazione dal servizio per raggiungimento dei limiti di età o di servizio previsti dagli ordinamenti di appartenenza, rilevando che, per costante giurisprudenza costituzionale, ben può il legislatore “disincentivare il conseguimento di una prestazione anticipata” (fra le molte, sentenza n. 416 del 1999, punto 4.1. del Considerato in diritto) e, in pari tempo, promuovere la prosecuzione dell’attività lavorativa mediante adeguati incentivi a chi rimanga in servizio e continui a mettere a frutto la professionalità acquisita” (sentenza n. 159 del 2019).

In tale occasione, è stata nondimeno segnalata, quanto alla medesima normativa, per l’effetto combinato del pagamento differito e rateale delle indennità di fine rapporto nelle ipotesi di raggiungimento dei limiti di età e di servizio o di collocamento a riposo d’ufficio a causa del raggiungimento dell’anzianità massima di servizio, “l’urgenza di ridefinire una disciplina non priva di aspetti problematici, nell’àmbito di una organica revisione dell’intera materia, peraltro indicata come indifferibile nel recente dibattito parlamentare […]. Con particolare riferimento ai casi in cui sono raggiunti i limiti di età e di servizio, la duplice funzione retributiva e previdenziale delle indennità di fine servizio, conquistate “attraverso la prestazione dell’attività lavorativa e come frutto di essa” (sentenza n. 106 del 1996, punto 2.1. del Considerato in diritto), rischia di essere compromessa, in contrasto con i princìpi costituzionali che, nel garantire la giusta retribuzione, anche differita, tutelano la dignità della persona umana” (sentenza n.159 del 2019).

6.8.- A tale monito non ha, tuttavia, fatto seguito una riforma specificamente volta a porre rimedio al vulnus costituzionale riscontrato.

Non può, infatti, ritenersi tale la disciplina dell’anticipazione della prestazione dettata dall’art. 23 del D.L. n. 4 del 2019, come convertito, ai sensi del quale è possibile richiedere il finanziamento di una somma, pari all’importo massimo di 45.000 euro, dell’indennità di fine servizio maturata, garantito dalla cessione pro solvendo del credito avente ad oggetto l’emolumento, dietro versamento di un tasso di interesse fissato dall’art. 4, comma 2, del D.M. 19 agosto 2020 in misura pari al rendimento medio dei titoli pubblici (Rendistato) maggiorato dello 0,40 per cento.

Analoghe considerazioni, peraltro, possono essere svolte in merito all’anticipazione istituita con la deliberazione del Consiglio di amministrazione dell’INPS 9 novembre 2022, n. 219. Essa è prevista a favore degli iscritti alla Gestione unitaria delle prestazioni creditizie e sociali e consente di usufruire di un finanziamento pari all’intero ammontare del trattamento maturato e liquido, erogato al tasso di interesse pari all’1 per cento fisso, unitamente alle spese di amministrazione in misura pari allo 0,50 per cento dell’importo, dietro cessione pro solvendo della corrispondente quota non ancora esigibile del trattamento di fine servizio o di fine rapporto.

Le normative richiamate investono solo indirettamente la disciplina dei tempi di corresponsione delle spettanze di fine servizio.

Esse non apportano alcuna modifica alle norme in scrutinio, ma si limitano a riconoscere all’avente diritto la facoltà di evitare la percezione differita dell’indennità accedendo però al finanziamento oneroso delle stesse somme dovutegli a tale titolo.

Il legislatore non ha, infatti, espunto dal sistema il meccanismo dilatorio all’origine della riscontrata violazione, né si è fatto carico della spesa necessaria a ripristinare l’ordine costituzionale violato, ma ha riversato sullo stesso lavoratore il costo della fruizione tempestiva di un emolumento che, essendo rapportato alla retribuzione e alla durata del rapporto e quindi, attraverso questi due parametri, alla quantità e alla qualità del lavoro, è parte del compenso dovuto per il servizio prestato (sentenza n. 106 del 1996).

7.- Al vulnus costituzionale riscontrato con riferimento all’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito, questa Corte non può, allo stato, porre rimedio, posto che il quomodo delle soluzioni attinge alla discrezionalità del legislatore. Deve, infatti, considerarsi il rilevante impatto in termini di provvista di cassa che il superamento del differimento in oggetto, in ogni caso, comporta; ciò che richiede che sia rimessa al legislatore la definizione della gradualità con cui il pur indefettibile intervento deve essere attuato, ad esempio, optando per una soluzione che, in ossequio ai richiamati principi di adeguatezza della retribuzione, di ragionevolezza e proporzionalità, si sviluppi muovendo dai trattamenti meno elevati per estendersi via via agli altri.

7.1.- La discrezionalità di cui gode il legislatore nel determinare i mezzi e le modalità di attuazione di una riforma siffatta deve, tuttavia, ritenersi, temporalmente limitata.

La lesione delle garanzie costituzionali determinata dal differimento della corresponsione delle prestazioni in esame esige, infatti, un intervento riformatore prioritario, che contemperi l’indifferibilità della reductio ad legitimitatem con la necessità di inscrivere la spesa da essa comportata in un organico disegno finanziario che tenga conto anche degli impegni assunti nell’ambito della precedente programmazione economico-finanziaria.

7.2.- In proposito, questa Corte deve evidenziare, come in altre analoghe occasioni, “che non sarebbe tollerabile l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati dalla presente pronuncia” (da ultimo, sentenza n. 22 del 2022; si vedano anche sentenze n. 120 e n. 32 del 2021).

8.- Accertata la necessità della espunzione della disciplina concernente tale differimento, va rilevato, quanto alla previsione del pagamento rateale del trattamento di fine servizio di cui all’art. 12, comma 7, del D.L. n. 78 del 2010, come convertito – l’altra disposizione censurata – che il sistema cui essa ha dato luogo, essendo strutturato secondo una progressione graduale delle dilazioni, via via più ampie in proporzione all’incremento dell’ammontare della prestazione, da un lato, calibra il sacrificio economico derivante dalla percezione frazionata dell’indennità in modo tale da renderne esenti i beneficiari dei trattamenti più modesti; dall’altro, assicura ai titolari delle indennità ricadenti negli scaglioni via via più elevati la percezione immediata – rectius: che diverrà immediata solo all’esito della eliminazione del differimento previsto dall’art. 3, comma 2, del D.L. n. 79 del 1997, come convertito – almeno di una parte della prestazione loro spettante.

8.1.- Tuttavia, questa Corte non può esimersi dal considerare che tale disciplina – peraltro connessa, per espressa previsione della stessa norma censurata, alle esigenze, necessariamente contingenti, di consolidamento dei conti pubblici – in quanto combinata con il descritto differimento, finisce per aggravare il vulnus sopra evidenziato.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, del D.L. 28 marzo 1997, n. 79 (Misure urgenti per il riequilibrio della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, nella L. 28 maggio 1997, n. 140, e dell’art. 12, comma 7, del D.L. 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122, sollevate, in riferimento all’art. 36 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione terza quater, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 giugno 2023.

Depositata in Cancelleria il 23 giugno 2023.


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 13/04/2023) 15/06/2023, n. 17251

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –
Dott. LENOCI Valentino – Consigliere –
Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –
Dott. CRIVELLI Alberto – Consigliere –
Dott. ANGARANO Rosanna – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 19529/2018 R.G. proposto da:
A.A. Srl , elettivamente domiciliata in Roma, Viale XXI Aprile, 21, presso lo studio dell’Avvocato Marco Cianfarini, che la rappresenta e difende unitamente all’Avv. Francesca Cesaroni;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
e AGENZIA ENTRATE RISCOSSIONE;
– intimata –
avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. LAZIO, n. 7802/17, depositata il 19/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13 aprile 2023 dal consigliere
Dott. Rosanna Angarano.
Svolgimento del processo
che:
1. A.A. S rl ricorre, con cinque motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con controricorso, e nei confronti di Agenzia delle Entrate Riscossione, che non ha svolto attività difensiva, avverso la sentenza indicata in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello della contribuente avverso la sentenza che, a propria volta, aveva rigettato il ricorso spiegato avverso l’intimazione dipagamento, la cartella esattoriale e il preavviso di fermo amministrativo emessi in ragione di tre avvisi di accertamento per maggiori imposte – iva, irpeg ed irap – accertate per gli anni (Omissis).
2. Con un primo ricorso la contribuente impugnava l’intimazione di pagamento (Omissis) e la sottesa cartella esattoriale (Omissis), relativa a tre avvisi di accertamento con i quali l’Ufficio aveva rilevato, ai fini Irpeg, Irap ed Iva che per gli anni (Omissis) erano stati dedotti costi per fatture emesse da una terza società, la Temo Costruzioni Srl , per operazioni ritenute inesistenti. Con un secondo ricorso la contribuente impugnava il preavviso di fermo n. (Omissis) notificato il 21 novembre 2014 in ragione di alcune cartelle tra le quali anche quella oggetto del precedente ricorso.
2. La C.t.p., riuniti i ricorsi, li rigettava con sentenza confermata in appello.
Motivi della decisione
che:
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 140 e 145 c.p.c. Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la notifica della cartella esattoriale. In particolare, assume che la C.t.r. ha errato nel non considerare che la notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c. – utilizzata nella fattispecie – poteva essere effettuata solo in caso di notifica infruttuosa al legale rappresentante e non alla società presso la sua sede, come verificatosi nel caso concreto.
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 140 c.p.c. e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26.
Censura la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la notifica della cartella esattoriale ai sensi dell’art. 140 c.p.c. senza esaminare le prospettazioni della contribuente in ordine alla querela di falso sporta avverso l’avviso di ricevimento.
3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per non aver rilevato che l’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2003 era stato annullato con sentenza passata in giudicato.
4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per non aver esaminato l’illegittimitàdella notifica degli avvisi di accertamento ((Omissis) per l’anno (Omissis) e (Omissis) per l’anno (Omissis)).
5. Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per carenza della motivazione nella parte in cui ha ritenuto provata l’insussistenza delle operazioni commerciali oggetto del recupero a tassazione senza esaminare le censure sollevate.
6. Il primo motivo è fondato, restando assorbito il secondo.
6.1. L’art. 145 c.p.c., comma 1, come modificato dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. c) prevede che la notifica alle persone giuridiche si esegue nella loro sede mediante consegna ai soggetti ivi espressamente indicati, ossia al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa ovvero al portiere dello stabile ove ha sede la società. In alternativa, se nell’atto risultano le indicazioni necessarie, la notifica può essere eseguita anche alla persona fisica che rappresenta l’ente, secondo le modalità di cui agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.
Il comma 3 precisa che se la notificazione non può essere eseguita ai sensi del comma 1 la notificazione alla persona fisica che rappresenta l’ente può eseguirsi ai sensi degli artt. 140 e 143 c.p.c. 6.2. Ciò posto, risulta in fatto che la notifica della cartella esattoriale è stata tentata in data 27 agosto 2009 presso la sede della società, in (Omissis). Il messo notificatore attestava, tuttavia, il rifiuto delle persone ivi rinvenute e non identificate. Precisava, infatti, che queste ultime non avevano voluto declinare le proprie generalità nè ricevere l’atto; quindi, annotava il rifiuto della cartella e dava atto di aver provveduto al deposito dell’atto presso la Casa Comunale, affiggendo il relativo avviso, e di aver dato comunicazione del deposito e dell’affissione con raccomandata con avviso di ricevimento. Dall’avviso di ricevimento, versato in atti, risulta, poi, che la raccomandata, veniva indirizzata anch’essa alla società presso la sua sede e veniva ricevuta dal portiere.
6.3. In primo luogo deve rilevarsi che la notifica presso la sede sociale non è andata a buon fine in quanto il messo notificatore, oltre ad annotare il rifiuto, ha precisato che non era stato possibile identificare le persone ivi presenti.
La Corte, sul punto ha precisato che, a norma dell’art. 138 c.p.c., comma 2, il rifiuto di ricevere la copia dell’atto è legalmente equiparabile alla notificazione effettuata in mani proprie soltanto ove sia certa l’identificazione dell’autore del rifiuto con il destinatario dell’atto (Cass. 19/04/2018, n. 9779 , Cass. 03/11/2014, n. 23388). Si è aggiunto che non è consentita un’analoga equiparazione nel caso in cui il rifiuto sia stato opposto da un soggetto del tutto estraneo, oppure ove l’accipiens sia un suo congiunto o addetto alla casa e, a maggior ragione, un vicino o il portiere (Cass. 22/05/2013, n. 12545). Inoltre, qualora la notifica della cartella di pagamento avvenga presso la sede legale della società, e non nel luogo di residenza del legale rappresentante della stessa, l’atto deve essere consegnato solo ai soggetti indicati dall’art. 145 c.p.c., comma 1, ossia al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa, (Cass. 06/04/2018, n.
8472).
La mancata identificazione del rappresentante legale della società – ed invero, in ragione di quanto espressamente attestato nella relata, di tutti soggetti presenti nella sede della società che hanno rifiutato l’atto – impedisce, pertanto, di equiparare il rifiuto all’avvenuta notifica ex art. 138 c.p.c., comma 2.
6.4. Non essendo stato possibile procedere ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 1, prima parte, la notifica avrebbe dovuto seguire le modalità di cui all’art. 145 c.p.c., u.c. nella versione, applicabile ratione temporis, risultante dalle modifiche apportate dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. c) n. 1) e 3) ovvero esclusivamente nei confronti del rappresentante legale.
Sul punto la Corte ha chiarito che la norma novellata, applicabile alla fattispecie per cui è causa, prevede espressamente, con riguardo alla persona giuridica e all’ente non personificato, la notificazione ex art. 140 c.p.c., ma tale forma – operante solo nel caso in cui sia impedita la notificazione
presso la sede della società, o presso il legale rappresentante, ai sensi degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. – non può attuarsi nei confronti dell’ente in quanto tale. Il vano esperimento delle modalità previste dall’art. 145 c.p.c., comma 1 per la notificazione degli atti processuali alle persone giuridiche consente l’utilizzazione delle forme previste dagli artt. 140 e 143 c.p.c., purchè la notifica sia fatta alla persona fisica che rappresenta l’ente e non già all’ente in forma impersonale (Cass. 30/01/2017, n. 2232 , Cass. 07/06/2012, n. 9237; Cass. 13/09/2011, n. 18762).
6.5. La C.t.r. non si è attenuta a questi principi.
Infatti, ha ritenuto valida la notifica affermando che è sufficiente che ” il consegnatario” si trovi presso la sede della persona giuridica non occasionalmente e che la persona rivenuta presso la sede è da presumere che sia addetta alla ricezione degli atti. Così motivando, ha equiparato la fattispecie in esame – caratterizzata dal rifiuto di ricevere l’atto da parte di soggetti non identificati, ancorchè presenti nella sede – a quella in cui l’atto sia stato consegnato a persona rinvenuta nella sede che abbia, pertanto, ricevuto il plico.
Inoltre, non ha tenuto conto che successivamente si è provveduto secondo le modalità di cui all’art. 140 c.p.c. – deposito della copia dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso e spedizione della c.d. raccomandata informativa – ma non nei confronti del rappresentante legale della società, bensì della società stessa, con spedizione della raccomandata informativa alla società presso la sua sede.
7. Il terzo motivo è infondato.
7.1. La ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto legittima la cartella di pagamento anche per gli importi oggetto dell’avviso di accertamento (Omissis) per l’anno di imposta (Omissis), sebbene in entrambi i gradi di merito fosse stato eccepito che quest’ultimo era stato annullato con sentenza passata in giudicato.
7.2. Deve rilevarsi, tuttavia, che la sentenza di cui all’allegato 5, indicata dalla ricorrente con il motivo in esame, non è stata prodotta in copia attestane il passaggio in giudicato.
La Corte sul punto ha ripetutamente affermato che, affinchè il giudicato esterno possa fare stato nel processo è necessaria la certezza della sua formazione, che deve essere provata, pur in assenza di contestazioni, attraverso la produzione della sentenza munita del relativo attestato di cancelleria (Cass. 02/03/2022, n. 6868, Cass. 23/08/2018, n. 20974).
Inoltre, l’Agenzia delle Entrate, che pure in controricorso, ha confermato la definitività della sentenza, ha anche precisato, con allegazione che non risulta contestata, di aver provveduto allo sgravio totale del carico di cui alla stessa con provvedimento del 19 dicembre 2013.
8. Il quarto motivo è inammissibile.
8.1. La ricorrente, facendo valere error in procedendo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, censura testualmente “nullità della sentenza in ordine all’omesso esame dell’illegittimità della notifica degli avvisi di accertamento ((Omissis) per l’anno (Omissis) e (Omissis) per l’anno (Omissis))”. Nel corpo del motivo si duole del fatto che sia la C.t.p. che la C.t.r., in odine all’invalidità della notifica degli avvisi di
accertamento, “nulla hanno motivato”.
Infine, dopo aver esposto le ragioni per le quali dette notifiche devono considerarsi invalide, nell’ultimo capoverso del motivo, ha concluso affermando che “entrambe le commissioni tributarie nulla hanno esaminato o deciso”.
8.2. La Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato che è contraddittoria la denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione su un punto decisivo della controversia. Il primo, infatti, implica la completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e si traduce in una violazione dell’art. 112 c.p.c. che deve essere fatta valere esclusivamente a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 4 mentre il secondo presuppone l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione, e va denunciato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.
8.3. Anche a voler valutare la censura, in conformità all’epigrafe, come denuncia di omessa pronuncia su uno dei motivi di appello, se ne ravvisa ugualmente l’inammissibilità.
La C.t.r. nel secondo paragrafo, destinato alla individuazione dei motivi di appello, ha dato atto che il primo motivo aveva ad oggetto l’irregolarità della notifiche ex art. 140 c.p.c. a favore di una società mentre il secondo ed il terzo motivo avevano ad oggetto l’omessa motivazione in ordine alle notifiche degli avvisi di accertamento riguardanti gli anni (Omissis) e (Omissis). Nel quinto paragrafo, destinato i motivi della decisione, la sentenza affermato testualmente quanto segue: “procedendo per argomenti, che in realtà ripercorrono i motivi di appello, non può sfuggire che tutte le notifiche vanno considerate regolari”.
La C.t.r., pertanto, dopo aver puntualmente individuato i motivi di appello, si è pronunciata con riferimento a tutte le notifiche fatte oggetto di censura – ivi incluse le notifiche degli avvisi di accertamento – affermandone la validità. Resta escluso, pertanto, il denunciato vizio di omessa pronuncia.
9. Il quinto motivo è anch’esso inammissibile.
9.1. Con il motivo in esame la ricorrente censura la sentenza impugnata, assumendo vizio di motivazione, nella parte in cui la C.t.r. si è pronunciata sul merito della pretesa tributaria.
9.2. Per giurisprudenza costante della Corte, la cartella esattoriale avente titolo in un precedente avviso di accertamento notificato a suo tempo e non impugnato, può essere contestata innanzi agli organi del contenzioso tributario ed essere da essi invalidata solo per vizi propri, non già per vizi
suscettibili di rendere nullo o annullabile l’avviso di accertamento presupposto (Cass. 31/10/2017, n. 25995).
All’inammissibilità del precedente motivo di ricorso relativo alla notifica degli avvisi di accertamento consegue la definitività della pronuncia della C.t.r. che ne ha accertato la validità. Da ciò consegue l’inammissibilità del motivo volto a censurare nel merito la pretesa impositiva.
10. In conclusione, il ricorso va accolto limitatamente al primo motivo, assorbito il secondo, rigettato il terzo, inammissibili il quarto ed il quinto. Di conseguenza la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla Corte di giustizia di secondo grado del Lazio in diversa composizione, la quale provvederà al riesame, fornendo congrua motivazione, e al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, rigettato il terzo, inammissibili il quarto ed il quinto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà anche al regolamento delle spese del giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 aprile 2023.
Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2023


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 04/04/2023) 08/06/2023, n. 16189

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. Spa ZIANI Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 15215 del 2021, R.G. proposto da:

A.A.; rappresentata e difesa dall’Avvocato Riccardo Lana (riccardo.lana(AT)legalmail.it), in virtù di procura su foglio separato allegato al ricorso;

– ricorrente –

nei confronti di B.B.; rappresentato e difeso dall’Avvocato Sara Veri (avvsaraveri(at)bergamo.pecavvocati.it), in virtù di procura in calce al controricorso;

-controricorrente-

per la cassazione della sentenza in unico grado n. 1570-2020 del TRIBUNALE di BERGAMO, depositata il 10 novembre 2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 4 aprile 2023 dal Consigliere relatore, Paolo Spa ziani.

Svolgimento del processo
Con sentenza 10 novembre 2020, n. 1570, il Tribunale di Bergamo, nella dichiarata contumacia di A.A., ha accolto l’opposizione (espressamente qualificata come opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.), proposta nei suoi confronti dal coniuge separato, B.B., e ha dichiarato la nullità del precetto, fondato sul decreto di omologa della separazione personale, con cui la prima aveva intimato al secondo il pagamento dell’importo di Euro 11.569,10, quale somma asseritamente dovuta in ragione del protratto inadempimento dell’obbligo di mantenimento della figlia.

Ha proposto ricorso per cassazione A.A. sulla base di un unico motivo.

Ha risposto con controricorso B.B..

La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Il pubblico ministero non ha presentato conclusioni scritte.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
1.1. Con l’unico motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, nullità della sentenza per estensione di quella concernente la notificazione a mezzo PEC della citazione introduttiva del giudizio di opposizione.

La ricorrente ha sostenuto che, ai sensi del combinato disposto della L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, 9, commi 1 e 1-bis, 11, e 19-bis, comma 5, delle “specifiche tecniche” date con Provvedimento 16 aprile 2014 del Responsabile per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia, la notificazione effettuata a mezzo PEC deve essere provata mediante il deposito telematico dell’atto processuale notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “DatiAtto.xml”.

Nel caso di specie, tali prescrizioni non sarebbero state rispettate, in quanto l’opponente, effettuata la notificazione della citazione in opposizione a mezzo PEC, avrebbe indebitamente proceduto ad estrarre copia analogica del messaggio di posta elettronica certificata e degli atti allegati, e, dopo averli scansionati, avrebbe proceduto al loro deposito telematico.

L’inosservanza dei richiamati adempimenti avrebbe comportato la nullità della notificazione, rilevabile anche d’ufficio, in conformità al disposto della citata L. n. 53 del 1994, art. 11.

1.2. Nel resistere alla doglianza, il controricorrente ha dedotto che, a seguito della notifica della citazione a mezzo PEC, la “certificazione di notifica” era stata generata dal PCT, ove risultava inserito un unico file, costituito dall’atto notificato, dalla procura, dalla relata digitale e dall’attestazione della data di notifica effettuata il giorno 11 dicembre 2017, alle ore 13.39, all’indirizzo PEC del difensore domiciliatario di controparte, nonchè dalle ricevute PEC di accettazione e consegna, comprovanti l’avvenuta notificazione e il giorno e l’ora della stessa.

Il deposito telematico non sarebbe dunque avvenuto mediante estrazione di copia su supporto analogico e successiva scansione, bensì mediante deposito nel PCT di documenti originali informatici, sia pure in formato PDF. Il mancato inserimento dei dati identificativi delle ricevute di accettazione e consegna nel file “DatiAtto.xml” avrebbe determinato la mera irregolarità dell’atto, sanabile con il raggiungimento dello scopo (viene citata la pronuncia di questa Corte n. 8815 del 2020).

Inoltre, la circostanza che le suddette ricevute non fossero in formato “.eml” o “.msg” non avrebbe inciso sul perfezionamento del procedimento notificatorio, avvenuto nel momento di generazione delle suddette ricevute a prescindere dal formato informatico assunto al momento del successivo deposito in PCT (viene citata la sentenza n. 12488 del 2020 di questa Corte).

1.3. In sede di memoria illustrativa, la ricorrente – sulla premessa che il deposito delle ricevute in formato “.eml” o “.msg” sarebbe necessario per mantenere i certificati e l’autenticità dei messaggi, mentre, invece, il deposito dei files previamente salvati in formato PDF determinerebbe la perdita delle proprietà dei messaggi originali, come le firme e i metadati -, con riguardo alla dedotta sanatoria dell’irregolarità per raggiungimento dello scopo, ha replicato che, nel caso di specie, non era stata lamentata la mera irregolarità ma l’inesistenza della notificazione; inoltre, ha evidenziato che all’omissione del notificante non era seguita la costituzione in giudizio della destinataria dell’atto, che era rimasta contumace, per modo che non vi sarebbe stata comunque una sanatoria del vizio.

Con riguardo alla deduzione circa la non incidenza dell’irregolarità sul perfezionamento del procedimento notificatorio, la ricorrente ha ribadito che, nella vicenda in esame, mancherebbero proprio i files sorgenti in formato “.eml” delle ricevute di accettazione e consegna, sicchè nessuna prova sarebbe stata data del buon fine della notifica.

2. Il ricorso è fondato.

2.1. Ai sensi della L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, e 9 (ed avuto riguardo anche all’art. 19-bis del Provvedimento del Responsabile S.I.A. del 16 aprile 2014), la prova della notifica a mezzo PEC deve essere offerta esclusivamente con modalità telematica, ovverosia mediante deposito in PCT dell’atto notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “DatiAtto.xml”.

Solo qualora non si possa procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a mezzo PEC, l’avvocato estrae copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte, ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1, (L. n. 53 del 1994, cit., art. 9, comma 1-bis).

Se, una volta effettuata la notifica dell’atto a mezzo di posta elettronica certificata, la parte non sia in grado di fornirne la prova ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1-bis, la violazione delle forme digitali non determina l’inesistenza della notifica dell’atto medesimo, bensì la sua nullità, vizio che può essere sanato per convalidazione oggettiva (art. 156, comma 3, c.p.c.), ove l’atto abbia raggiunto comunque lo scopo cui è destinato.

La configurazione del vizio in termini di nullità, anzichè di inesistenza, è conforme al disposto di cui alla L. n. 53 del 1994, art. 11, che prevede appunto la sanzione della nullità, comunque rilevabile d’ufficio, per le notificazioni previste dalla medesima legge in mancanza dei requisiti soggettivi ed oggettivi ivi stabiliti, nonchè in caso di inosservanza dei precedenti articoli della stessa legge, oltre che nell’ipotesi di incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica.

Tale configurazione, inoltre, trova rispondenza nell’orientamento di questa Corte, secondo cui la violazione delle forme digitali non integra una causa di inesistenza della notifica, unico vizio che non ammette la sanatoria per il raggiungimento dello scopo (Cass. 15/07/2021, n. 20214; in precedenza, v. Cass. Sez. U. 18/04/2016, n. 7665; Cass. 31/08/2017, n. 20625; Cass. Sez. U. 28/09/2018, n. 23620; Cass. 05/03/2019, n. 6417; Cass. 12/05/2020, n. 8815; in generale, sulla definitiva sistemazione del concetto di inesistenza della notifica, v. Cass. Sez. U. 20/07/2016, n. 14916).

2.2. Nell’ipotesi in cui – come nella fattispecie in esame – la notifica telematica concerna l’atto introduttivo del giudizio, il raggiungimento dello scopo legale dell’atto di notificazione, con conseguente sanatoria del vizio per convalidazione oggettiva, non postula necessariamente la costituzione in giudizio del destinatario, il quale potrebbe volontariamente scegliere di non costituirsi, pur avendo ricevuto una notificazione rituale.

Tuttavia, ove si consideri che, a differenza della comunicazione (la quale ha la funzione di portare la semplice notizia dell’atto processuale), la notificazione è deputata alla consegna dell’atto nella sua interezza al destinatario, il raggiungimento dello scopo legale dell’atto processuale, nella predetta ipotesi, postula pur sempre che esso, oltre ad essere giunto a conoscenza del destinatario – nel senso che questi ne abbia avuto notizia – sia stato portato nella sua disponibilità appunto nella sua interezza.

La prova che l’atto sia stato portato nella disponibilità del notificando – ove non risulti da altre specifiche circostanze verificatesi nel caso concreto (come, ad es., nell’ipotesi in cui il suo difensore, nell’ambito di uno scambio di corrispondenza difensiva con il difensore del notificante, provveda a ritrasmettergli la copia ricevuta dell’atto notificato: Cass. 15/07/2021, n. 20214, cit.) – viene data istituzionalmente solo mediante il deposito telematico delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” e “.msg” e mediante l’inserimento dei relativi dati identificativi nel file “Dati.Atto.xml”, l’accesso al quale consente di verificare la presenza dell’atto nella disponibilità del destinatario.

Viceversa, il solo deposito dell’atto notificato a mezzo PEC e delle ricevute di accettazione e consegna in formato PDF non consente analoga prova.

2.3. Nel caso di specie, in cui è incontroverso che i files informatici non sono stati depositati in formato “.eml” e “.msg”, la ricorrente ha dedotto di essere venuta a conoscenza della sentenza impugnata solo dopo avere ricevuto la lettera raccomandata contenente l’intimazione a pagare le spese del giudizio.

In mancanza di qualsiasi affidabile elemento da cui evincere che la parte destinataria avesse avuto la tempestiva consegna dell’atto di citazione in opposizione, in funzione della possibilità di costituirsi in giudizio ed esercitare appieno il proprio diritto di difesa, deve allora escludersi la sanatoria del vizio di nullità della notificazione della citazione per violazione delle forme digitali di deposito dell’atto notificato a mezzo PEC. In definitiva, alla fattispecie va applicato il seguente principio di diritto:

“In tema di notificazione a mezzo posta elettronica certificata, la violazione delle forme digitali previste dalla L. n. 53 del 1994, artt. 3-bis, comma 3, e 9, nonchè dall’art. 19-bis delle “specifiche tecniche” date con provvedimento 16 aprile 2014 del Responsabile per i Sistemi Informativi Automatizzati del Ministero della giustizia – che impongono il deposito in PCT dell’atto notificato, delle ricevute di accettazione e consegna in formato “.eml” o “.msg” e dell’inserimento dei dati identificativi delle suddette ricevute nel file “datiAtto.xml” -, previste in funzione non solo della prova ma anche della validità dell’atto processuale (arg. ex art. 11 della stessa L. n. 53 del 1994), determina, salvo che sia impossibile procedere al deposito con modalità telematiche dell’atto notificato a norma dell’art. 3-bis legge cit. (nel qual caso l’avvocato fornisce prova della notificazione estraendo copia su supporto analogico del messaggio di posta elettronica certificata, dei suoi allegati e della ricevuta di accettazione e di avvenuta consegna e ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1: L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter), la nullità della notificazione: atteso, per un verso, che soltanto il rispetto delle predette forme (le quali permettono, attraverso l’apertura del file, di verificare la presenza dell’atto notificato nella disponibilità informatica del destinatario) consente di ritenere provato il raggiungimento dello scopo legale dell’atto processuale di notificazione che, a differenza della comunicazione, non ha la funzione di portare la semplice notizia di un altro atto processuale, ma la diversa funzione di realizzarne la tempestiva consegna, nella sua interezza, al destinatario per consentirgli di esercitare appieno il diritto di difesa e al contraddittorio; e considerato, per altro verso, che tale dimostrazione non è invece consentita ove il deposito dell’atto notificato a mezzo PEC e delle ricevute di accettazione e consegna avvenga in diverso formato (ad es. in formato PDF), salvo che, in tale ipotesi, la prova della tempestiva consegna sia desumibile ed in concreto desunta aliunde, sulla base delle circostanze emerse nella fattispecie concreta, nel qual caso la nullità è sanata per convalidazione oggettiva, ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c.”.

3. Nel caso di specie, il rilievo della (non sanata) nullità della notificazione telematica dell’atto di citazione in opposizione, propagatasi ai successivi atti processuali sino alla sentenza impugnata, impone, ai sensi degli artt. 383, comma 3, e 354 c.p.c., di rimettere le parti al primo giudice, previa cassazione della sentenza stessa, perchè il giudizio sia rinnovato a contraddittorio integro e correttamente instaurato.

Il giudice della rimessione provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte dichiara la nullità del giudizio di merito di unico grado, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Bergamo, in persona di diverso magistrato, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, il 4 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 8 giugno 2023


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 04/05/2023) 06/06/2023, n. 5534

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4532 del 2022, proposto da Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L., tutti rappresentati e difesi dall’avvocato Corrado Diaco, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Napoli, via dei Mille, n. 40;

contro

Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico), in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

nei confronti

E.B.O., rappresentato e difeso dall’avvocato Dario Scognamillo, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Prima) n. 1697/2022.

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dello Sviluppo Economico e di O.E.B.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 4 maggio 2023 il Cons. Giovanni Gallone e uditi per le parti gli avvocati Corrado Diaco e Dario Scognamillo;

Svolgimento del processo
1. Con ricorso notificato il 30 gennaio 2020 e depositato il 6 febbraio 2020, proposto in riassunzione ex art. 15 c.p.a. a seguito di ordinanza declinatoria della competenza per territorio n. 449/2020 del 15 gennaio 2020 resa dal T.A.R. per il Lazio – sede di Roma, P.A., in proprio e quale presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., P.F. e D.L. quali socie della medesima cooperativa, hanno impugnato dinanzi al T.A.R. per la Campania – sede di Napoli, domandandone l’annullamento, il D.Dirett. n. 127 del 28 agosto 2019 con cui il Ministero per lo sviluppo economico ha disposto lo scioglimento della prefata cooperativa ex art. 2545-septiesdecies c.c. sulla base di una ravvisata discontinuità aziendale.

1.1 A sostegno del ricorso di primo grado sono state dedotte le censure così rubricate:

1) violazione dell’art. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990;

2) violazione dell’art. 3 comma 1 della L. n. 241 del 1990, con riferimento al D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 – carenza e genericità della motivazione, violazione dell’art. 3, comma 3 della L. n. 241 del 1990, con riferimento all’art. 12 del D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 ed all’art. 2545 c.c. – motivazione per relationem, mancata indicazione dell’atto richiamato; difetto di motivazione;

3) Violazione di Legge – Eccesso di Potere – Difetto di istruttoria;

4) Violazione dei Principi di Corretta Amministrazione – Sproporzione.

2. Ad esito del relativo giudizio, con la sentenza indicata in epigrafe, il T.A.R. per la Campania – sede di Napoli ha respinto il ricorso.

3. Con ricorso notificato il 24 maggio 2022 e depositato l’1 giugno 2022 P.A., in proprio e quale presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., P.F. e D.L. quali socie della medesima cooperativa, hanno proposto appello avverso la suddetta sentenza chiedendone la riforma previa sospensione dell’efficacia.

3.1 A sostegno dell’impugnazione ha dedotto i motivi così rubricati:

1) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono legittimo lo scioglimentoviolazione e falsa applicazione dell’art. 2545 cod. civ.;

2) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono la rituale notifica- violazione dell’art. 24 Costituzione- Violazione dell’art. 7 e 8 della L. n. 241 del 1990- nullità dell’atto;

3) error in procedendo e iudicando. Erronea valutazione della sentenza appellata in ordine alla fondatezza del ricorso laddove i giudici di prime cure sostengono adempiuto l’obbligo di motivazione- Violazione dell’art. 3, comma 1 e 3, della L. n. 241 del 1990, con riferimento al D.Lgs. 2 agosto 2002, n. 220 -ed all’art. 2545 cod. civ. – motivazione per relationem, mancata indicazione dell’atto richiamato.

4. In data 7 giugno 2022 si è costituito in giudizio, a mezzo dell’Avvocatura erariale, il Ministero dello sviluppo economico.

5. Il 23 giugno 2022 l’Avvocatura dello Stato ha depositato, nell’interesse del predetto Ministero, memorie difensive.

5.1 Il 27 giugno 2022 anche parte appellante ha depositato memorie difensive.

6. Il 24 giugno 2022 si è costituito in giudizio E.B.O., nella qualità di commissario liquidatore della cooperativa appellante in virtù di decreto del Ministero dello Sviluppo Economico del 20 maggio 2020 pubblicato in G. U. n. 153 del 18 giugno 2020.

7. Ad esito dell’udienza in Camera di consiglio del 30 giugno 2022 questa Sezione, con ordinanza cautelare n. 3032 dell’1 luglio 2022 ha respinto l’istanza cautelare proposta ex art. 98 c.p.a. da parte appellante osservando che “i motivi di appello, ad un giudizio sommario proprio della presente fase cautelate, non appaiono idonei a superare la statuizione di primo grado”.

8. Il 22 marzo 2023 società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del commissario liquidatore nominato, ha depositato memorie difensive insistendo per l’accoglimento dell’appello.

9. Il 27 marzo 2023 anche il Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico) ha depositato memorie difensive chiedendo la reiezione del gravame.

10. Il 30 marzo 2023 E.B.O. ha depositato memorie difensive chiedendo, in via preliminare, ai sensi dell’art. 89, comma II, c.p.c., di “disporre con ordinanza la cancellazione dell’espressione contenuta a pagina 2 dell’avversa memoria dell’appellante del 22/3/2023” ove si legge che “alla complessità della vicenda fin ora già descritta si sono aggiunte altre problematiche derivanti dalla circostanza che, in parallelo al giudizio, il commissario liquidatore ha continuato la propria attività operando ambiguamente. Dopo molteplici istanze dell’odierno appellante, è intervenuta l’Autorità di Vigilanza del Ministero delle Imprese e del Made in Italy che, in data 3.3.2023, ha sospeso il provvedimento prot.n. (…) del 8.11.2022 inerente la vendita senza incanto degli immobili sociali della Cooperativa prevista per il 4.3.2023 e di tutti gli atti compiuti dal liquidatore”. Per l’effetto ha chiesto, quindi, di “assegnare nella emananda sentenza al Dott. E.O.B. una somma a titolo di risarcimento del danno da liquidarsi anche in via equitativa”.

Nel merito ha, invece, chiesto la reiezione dell’appello perché manifestamente infondato.

11. All’udienza pubblica del 4 maggio 2023 la causa è stata introitata per la decisione.

Motivi della decisione
1. L’appello è infondato e deve essere respinto.

2. Con il primo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di prime cure ha ritenuto che il solo mancato deposito dei bilanci sia un indice sintomatico di discontinuità aziendale tale da rendere legittimo lo scioglimento ex art. 2545-septiesdecies c.c.. Più segnatamente, la sentenza meriterebbe riforma nella parte in cui, omettendo qualsiasi valutazione in ordine alla fattispecie concreta che viene in rilievo, ha affermato che “il potere di scioglimento della società a seguito del mancato deposito dei bilanci di esercizio per due anni consecutivi è espressamente contemplato dall’art. 2545-septiesdecies c.c. Con tale disposizione il legislatore ha ritenuto che il mancato deposito del bilancio societario per due anni consecutivi costituisca circostanza rilevante di per sé ai fini dello scioglimento della compagine societaria, a prescindere da ogni valutazione discrezionale circa la tenuità di tale omissione in base alle circostanze concrete che l’hanno determinata”.

Parte appellante osserva, in proposito, che, nonostante la vita societaria fosse diventata per diverse vicissitudini quasi impossibile, l’attività sarebbe tuttavia sempre regolarmente proseguita. Tanto sarebbe comprovato dalla documentazione societaria versata in atti e, in particolare, dai verbali delle assemblee ed i brogliacci contabili, risultando dalla suddetta documentazione peraltro adempiuti tutti gli obblighi della Cooperativa sia sotto il profilo di approvazione dei bilanci che sotto il profilo della tassazione.

Si sostiene, poi, alla luce della ratio della normativa in materia, che il mancato deposito dei bilanci non potrebbe giustificare ex se lo scioglimento della cooperativa atteso che, con quest’ultimo, il legislatore vorrebbe sanzionare non la trasmissione o meno dei bilanci aziendali alla Camera di Commercio bensì l’inattività dell’azienda. Più nel dettaglio, il Ministero dello sviluppo economico sarebbe, quindi, incorso in un error in iudicando nel fare applicazione dell’art. 2545-septiesdecies c.c., non potendosi ritenere P.A., presidente e legale rappresentante pro tempore della società Cooperativa E.U. a r.l., responsabile della mancata trasmissione dei bilanci aziendali (compito che era stato delegato in via esclusiva ad un professionista esterno, nei cui confronti la cooperativa ha pure intrapreso un giudizio civile per assistenza infedele). Per contro, ad escludere che la società cooperativa de qua sia rimasta effettivamente inattiva militerebbe la circostanza che questa ha provveduto, seppur tardivamente, alla presentazione dei bilanci dagli anni 2013 al 2019 (deliberati ed approvati negli anni di riferimento) e che in tale frangente abbia provveduto con regolarità al pagamento dei fornitori, dei tributi e delle utenze aziendali.

2.1 La censura è priva di giuridico pregio dovendosi condividere in toto le considerazioni svolte sul punto dal giudice di prime cure.

L’art. 2545-septiesdecies c.c. stabilisce, infatti, che “L’autorità di vigilanza, con provvedimento da pubblicarsi nella Gazzetta Ufficiale e da iscriversi nel registro delle imprese, può sciogliere le società cooperative e gli enti mutualistici che non perseguono lo scopo mutualistico o non sono in condizione di raggiungere gli scopi per cui sono stati costituiti o che per due anni consecutivi non hanno depositato il bilancio di esercizio o non hanno compiuto atti di gestione”.

È, quindi, di tutta evidenza, sulla scorta dell’inequivoco tenore letterale della disposizione in parola, che l’omesso tempestivo deposito del bilancio di esercizio è stato elevato dal legislatore ad autonoma fattispecie idonea ex se a fondare, anche in alternativa rispetto alla distinta ipotesi del mancato compimento di atti di gestione, lo scioglimento governativo di una cooperativa.

Deve aggiungersi che, nel caso di specie, il verificarsi della fattispecie dell’omesso tempestivo deposito dei bilanci è contestato e pacifico tra le parti né alcun rilievo esimente può essere attribuito alle presunte responsabilità del dott. P., essendo quest’ultimo un incaricato esterno, in quanto espressione di una scelta gestoria della stessa cooperativa (che resta responsabile, anche sul piano meramente omissivo ed a titolo oggettivo dell’operato del proprio ausiliario nei rapporti con l’amministrazione pubblica).

3. Con il secondo motivo di appello si lamenta l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui è stato ritenuto che la notifica della comunicazione di avvio dell’istruttoria del procedimento culminato con l’emanazione del decreto di scioglimento impugnato in primo grado sia rituale nonostante l’amministrazione avesse ricevuto l’avviso di mancata consegna. Il T.A.R. per la Campania -sede di Napoli avrebbe errato nell’affermare che “Da tale quadro normativo, che si pone come applicazione della più generale regola della presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., discende che se non ricorre “causa non imputabile al destinatario”, opera la presunzione di ricezione della PEC”.

Sotto un primo profilo parte appellante deduce che la causa della mancata consegna della PEC non sarebbe stata imputabile alla Cooperativa intesa quale persona giuridica. In proposito si rappresenta che, a seguito di plurime richieste al servizio clienti di Aruba si sarebbe venuti a conoscenza che la PEC in questione risultava attiva dal 22 ottobre 2012 al 21 gennaio 2014 poi riattivata il 24 luglio 2018 e rinnovata il 31 maggio 2019 fino alla cancellazione il 24 ottobre 2020, con la conseguenza che la casella di posta elettronica, al momento di notifica dell’avvio del procedimento avvenuta il 7 maggio 2018 non era attiva, per un lasso temporale limitato, per causa non imputabile alla Cooperativa bensì ad un terzo soggetto (id est il professionista incaricato).

Si segnala che, secondo una parte della giurisprudenza, nel caso di mancata consegna per casella piena, la notifica sarebbe irrituale imponendosi un secondo tentativo cartaceo (in tal senso si invocano le pronunce della Cassazione civile n. 3164 del 2020 e n. 7029 del 2018). Si sostiene, pertanto, che il M.I.S.E. avrebbe dovuto procedere all’invio cartaceo del provvedimento versandosi, peraltro, nell’ipotesi in esame, fuori dal caso di casella piena (ma tout court inattiva).

Si aggiunge, poi, che, nel caso di specie, in data 20 settembre 2016 l’amministrazione aveva già notificato in forma cartacea con raccomandata A/R presso il domicilio del legale rappresentante della società la diffida per la revisione ordinaria (da cui poi è originata la procedura di scioglimento) e che, pur consapevole che la PEC di avvio del procedimento de quo non era stata consegnata alla Cooperativa, ha successivamente scelto di non procedere all’invio anche di quest’ultima a mezzo di della raccomandata A/R.

Sotto altro connesso profilo si deduce l’erroneità della sentenza impugnata anche nella parte in cui essa ha ritenuto irrilevante la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3-bis della L. n. 53 del 1994 (nella parte in cui non prevede espressamente che si applichino i medesimi principi di cui all’ultimo comma dell’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973) per violazione degli artt. 3 e 24 Cost. sollevata in seno al ricorso di primo grado, affermando che “sebbene siano pregevoli le osservazioni di parte ricorrente circa l’opportunità di un intervento legislativo che disciplini espressamente tale ipotesi, la q.l.c prospettata non può essere accolta perché priva di rilevanza ai fini della definizione del presente giudizio”. Secondo gli appellanti la prospettata questione di legittimità costituzionale sarebbe rilevante e fondata in quanto la disparità di trattamento sarebbe evidente ove si consideri che:

– l’ultimo comma dell’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, in materia di accertamento delle imposte sui redditi, stabilisce che “Se la casella di posta elettronica risulta satura, l’ufficio effettua un secondo tentativo di consegna decorsi almeno sette giorni dal primo invio. Se anche a seguito di tale tentativo la casella di posta elettronica risulta satura oppure se l’indirizzo di posta elettronica del destinatario non risulta valido o attivo, la notificazione deve essere eseguita mediante deposito telematico dell’atto nell’area riservata del sito internet della società I. Scpa e pubblicazione, entro il secondo giorno successivo a quello di deposito, del relativo avviso nello stesso sito, per la durata di quindici giorni; l’ufficio inoltre dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata, senza ulteriori adempimenti a proprio carico. Ai fini del rispetto dei termini di prescrizione e decadenza, la notificazione si intende comunque perfezionata per il notificante nel momento in cui il suo gestore della casella di posta elettronica certificata gli trasmette la ricevuta di accettazione con la relativa attestazione temporale che certifica l’avvenuta spedizione del messaggio”;

– in materia giudiziaria opera, invece, una disciplina specifica che consente al destinatario di prendere conoscenza della tentata notifica e che stabilisce, nel caso in cui la trasmissione via PEC non vada a buon fine per causa imputabile al destinatario, trovi applicazione l’art. 16, comma 6, del D.L. n. 179 del 2012 (secondo cui le notifiche e le comunicazioni “sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria”).

Ciò determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra fattispecie analoghe, dalla quale deriverebbe la necessità di estendere la soluzione di cui all’art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973 anche alle altre comunicazioni – notifiche telematiche, ivi comprese quelle effettuate dalla P.A..

3.1 Le suddette doglianze non meritano positivo apprezzamento.

Anzitutto, è opportuno ribadire quanto già osservato al precedente punto 2.1 e, in particolare, che la cooperativa risponde direttamente e sul piano oggettivo, nei rapporti con la P.A., della condotta colposa del proprio incaricato come ausiliario.

Dal punto di vista giuridico, infatti, l’obbligo di tempestivo deposito dei bilanci grava a carico della cooperativa medesima in persona del legale rappresentante pro tempore sicché quello con l’eventuale professionista incaricato resta un rapporto a rilevanza meramente interna che non sottrae l’ente dalle conseguenze giuridiche di eventuali ritardi o omissioni (come, peraltro, ricavabile dalla disciplina generale delle obbligazioni e, segnatamente, dal disposto dell’art. 1228 c.c.).

3.2 Quanto al secondo profilo di doglianza è appena il caso di ribadire che, la PEC costituisce ormai mezzo ordinario (nonché esclusivo) per le comunicazioni tra P.A. e imprese (artt. 5-bis e 48 del Codice dell’amministrazione digitale – D.Lgs. n. 82 del 2005).

Il D.P.C.M. 22 luglio 2011, contenente le “Comunicazioni con strumenti informatici tra imprese e amministrazioni pubbliche” ed adottato in attuazione proprio del menzionato art. 5-bis, comma 2, C.A.D., prevede, peraltro, al suo art. 3, che, a decorrere dal 1 luglio 2013, “le pubbliche amministrazioni non possono accettare o effettuare in forma cartacea le comunicazioni” (comma 1) e che “in tutti i casi in cui non è prevista una diversa modalità di comunicazione telematica, le comunicazioni avvengono mediante l’utilizzo della posta elettronica certificata”, ai sensi degli artt. 48 e 65, comma 1, lett. c-bis, C.A.D. (comma 2).

Ne discende che, nel caso di specie, il Ministero appellato ha fatto legittimamente ricorso, nell’inoltrare l’avviso ex art. 7 della L. n. 241 del 1990, all’unico strumento di comunicazione a sua disposizione (la PEC), essendo del tutto irrilevante che la stessa amministrazione abbia in precedenza notificato in forma cartacea con raccomandata A/R presso il domicilio del legale rappresentante della società la diffida per la revisione ordinaria.

3.3 Né assume rilievo che la PEC dichiarata dalla società cooperativa appellante fosse temporaneamente fuori servizio.

Sulla base del combinato disposto degli artt. 5, comma 1, D.L. n. 179 del 2012 (convertito con modificazioni dalla L. n. 221 del 2012) e 16, comma 6, del D.L. n. 185 del 2008 e ss.mm., ogni impresa individuale o collettiva ha, infatti, l’obbligo di essere titolare di PEC ed ha, di riflesso, l’onere di mantenere la stessa in condizioni di efficienza, adottando ogni accorgimento idoneo a garantirne l’ordinaria operatività (ad esempio con lo spostamento o eliminazione dei messaggi per prevenire l’esaurimento della capacità di ricezione ovvero, per quanto qui più di interesse, col regolare adempimento delle eventuali obbligazioni assunte nei confronti del gestore del servizio).

Nello stesso solco l’art. 45, comma 2, C.A.D. in tema di “Trasmissione informatica dei documenti” stabilisce che “Il documento informatico trasmesso per via telematica si intende spedito dal mittente se inviato al proprio gestore, e si intende consegnato al destinatario se reso disponibile all’indirizzo elettronico da questi dichiarato, nella casella di posta elettronica del destinatario messa a disposizione dal gestore”.

Nel vigente quadro normativo v’è, pertanto, da un lato, l’obbligo (rectius onere) giuridico dell’impresa di rendersi reperibile presso un indirizzo PEC e, dall’altro, l’obbligo della P.A. di impiegare quale unico strumento di comunicazione nei rapporti con le imprese, proprio la posta elettronica certificata.

Ne discende che, nel silenzio della legge, in caso di mancato assolvimento da parte dell’impresa dell’obbligo di munirsi di un indirizzo PEC attivo e funzionante, si determinerebbe un’insuperabile stasi procedimentale con lesione del valore costituzionale del buon andamento ex art. 97 Cost.. Tanto consentirebbe, peraltro, all’impresa di sottrarsi agevolmente all’adozione di provvedimenti limitativi della propria sfera giuridica, traendo un ingiusto vantaggio dall’inadempimento dell’obbligazione legale posta a suo carico.

Per scongiurare una simile aporia ordinamentale pare, pertanto, condivisibile la soluzione già seguita dalla giurisprudenza amministrativa (così T.A.R. per il Lazio, Roma, Sez. III-ter sentenza n. 11614 del 2016) secondo cui è applicabile, in via analogica, quale espressione del principio generale di cui all’art. 1335 c.c., anche alle comunicazioni tra P.A. e imprese, l’art. 16 del già citato D.L. n. 179 del 2012 il quale stabilisce, con riguardo al processo telematico, al comma 6, che “Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti … per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, che non hanno provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, sono eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria. Le stesse modalità si adottano nelle ipotesi di mancata consegna del messaggio di posta elettronica certificata per cause imputabili al destinatario” ed, al successivo comma 8, che solo “Quando non è possibile procedere ai sensi del comma 4 per causa non imputabile al destinatario, nei procedimenti civili si applicano l’articolo 136, terzo comma, e gli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile”.

Ne discende che nell’ipotesi, come quella che occupa, di negligente gestione della casella PEC da parte del titolare, opera una presunzione legale iuris tantum di ricezione del messaggio di posta elettronica vincibile solo a mezzo della dimostrazione, a cura del destinatario medesimo, di una “causa non imputabile” allo stesso.

È, peraltro, evidente, in questa prospettiva, da un lato, che il rinnovo della casella PEC è adempimento assolutamente non gravoso e che può essere posto in essere anche senza l’assistenza di un professionista e che, dall’altro, la condotta del terzo delegato non può integrare la causa non imputabile al destinatario necessaria a superare la presunzione in parola, valendo le considerazioni già svolte supra al punto 3.1 in ordine alla responsabilità diretta dell’obbligato per fatto dell’ausiliario.

3.4 In disparte dalle considerazioni appena svolte in ordine all’intervenuto perfezionamento, nel caso di specie, della comunicazione a mezzo PEC, preme per completezza rilevare che l’eventuale violazione dell’obbligo di comunicazione di avvio del procedimento ex art. 7 della L. n. 241 del 1990 non avrebbe comunque potuto determinare l’annullamento del provvedimento impugnato dovendo trovare applicazione il meccanismo di cui all’art. 21-octies, comma 2, primo alinea, della L. n. 241 del 1990 essendo palese che il contenuto dispositivo dello stesso non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato.

Il potere amministrativo contemplato dall’art. 2545-septiesdecies c.c. ha, infatti, natura tout court vincolata sicché l’amministrazione ha il potere-dovere di disporre lo scioglimento della società cooperativa al semplice riscontro della ricorrenza di una delle fattispecie alternative contemplate dalla medesima disposizione. Ciò in quanto deve ritenersi che il legislatore, proprio attraverso detta articolata tipizzazione delle fattispecie di scioglimento coattivo-provvedimentale della cooperativa abbia operato ex ante un bilanciamento tra l’esigenza di assicurare il corretto e regolare funzionamento della società (anche in ragione della particolare meritevolezza dell’interesse mutualistico che connota questo specifico tipo societario) e quello alla prosecuzione della vita della compagine sociale. Sicché, come condivisibilmente affermato nella decisione di primo grado qui impugnata, deve ritenersi preclusa all’amministrazione ogni valutazione discrezionale circa la tenuità dell’omissione in base alle circostanze concrete che l’hanno determinata ed all’incidenza che la stessa ha avuto sul funzionamento della cooperativa.

3.5 L’operatività del meccanismo di cui all’art. 21-octies, comma 2, primo alinea, della L. n. 241 del 1990 importa, peraltro, l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale pure prospettata in appello con riguardo all’ art. 3-bis della L. n. 53 del 1994 in quanto, anche ove la pregiudiziale di costituzionalità fosse ritenuta fondata dalla Consulta, parte appellante non sarebbe comunque in condizione di ottenere l’annullamento dell’atto lesivo e, quindi, di ottenere una qualche utilità dall’accoglimento del ricorso di primo grado (non avendo, peraltro, neppure mai manifestato l’intenzione di chiedere de residuo una tutela di tipo risarcitorio).

4. Con il terzo motivo di appello si censura la sentenza impugnata anche nella parte in cui ha statuito che “La natura vincolata del provvedimento gravato, a fronte del chiaro manifestarsi dei presupposti di legge per disporre lo scioglimento della società, mostra l’infondatezza anche delle censure di parte ricorrente circa la mancata osservanza dell’obbligo di motivazione. Ed infatti, il decreto impugnato assolve in pieno tale onere, mediante l’espressa indicazione del comportamento tenuto dalla società e delle norme violate consentendo così la ricostruzione dell’iter logico e giuridico seguito dall’intimato Ministero”. Parte appellante osserva che l’unica motivazione addotta dalla P.A. sarebbe costituita dall’omesso deposito dei bilanci per il biennio e che il soggetto interessato sarebbe stato, in ogni caso, privato della facoltà/diritto di proporre osservazioni e/o contestazioni, atteso il mancato recapito della comunicazione ex art. 7 L. n. 241 del 1990.

4.1 La censura non merita positivo apprezzamento.

La motivazione dedotta a sostegno del provvedimento impugnato in primo grado, per quanto sintetica, è esaustiva dando conto della circostanza (id est l’omesso deposito dei bilanci di esercizio per due annualità) che impone lo scioglimento, nell’esercizio di un potere come visto tout court vincolato, della cooperativa.

5. Per le ragioni sopra succintamente esposte l’appello è infondato e va respinto con conferma della sentenza appellata.

6. Non può essere, poi, accolta la domanda ex art. 89 comma 2 c.p.c. avanzata da parte di E.B.O. atteso che le espressioni impiegate dalla parte appellante nella memoria del 22 marzo 2023 sono inerenti l’oggetto di causa, non trasmodano nella gratuita contumelia e paiono, in ogni caso, rispettose del limite della continenza oltre che lato sensu funzionali allo svolgimento della difesa tecnica.

7. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex artt. 26 c.p.a. e 91 c.p.c. la soccombenza e sono da porre, nei rapporti tra l’appellato Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico) e gli appellanti, integralmente a carico di questi ultimi in solido tra loro.

7.1 Sussistono invece, anche alla luce della peculiare qualifica soggettiva rivestita dal commissario liquidatore, giustificati motivi per disporre l’integrale compensazione delle spese di lite nei rapporti tra gli appellanti e E.B.O..

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge.

Respinge la domanda ex art. 89 comma 2 c.p.c. avanzata da E.B.O..

Condanna gli appellanti Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L., in solido tra loro, al pagamento, a titolo di spese processuali, in favore dell’appellato Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già Ministero dello sviluppo economico), in persona del Ministro pro tempore, della somma complessiva di € 3.000,00 (tremila/00) oltre accessori di legge.

Spese compensate tra gli appellanti Società Cooperativa E.U. a r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, P.A., P.F., D.L. e E.B.O..

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 maggio 2023 con l’intervento dei magistrati:

Hadrian Simonetti, Presidente

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

Oreste Mario Caputo, Consigliere

Roberto Caponigro, Consigliere

Giovanni Gallone, Consigliere, Estensore


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 05/04/2023) 10/05/2023, n. 12613

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – Consigliere –

Dott. POLETTI Dianora – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.A., rappresentato e difeso per procura alle liti in calce al ricorso dall’Avvocato Marco Naccarato, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Corigliano Rossano, viale Michelangelo n. 55. – Ricorrente –

contro

Comune di Rocca Imperiale, in persona del sindaco, rappresentato e difeso per procura alle liti in calce al controricorso dall’Avvocato Antonio Chiaromonte, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Rocca Imperiale, viale Europa n. 22. – Controricorrente –

e Area Riscossioni Srl ;

– Intimata –

avverso la sentenza n. 392/2022 del Tribunale di Castrovillari, pubblicata il 25.3.2022.

Udita la relazione della causa svolta dal consigliere Mario Bertuzzi alla camera di consiglio del 5.4.2023.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con atto notificato il 25.5.2022 A.A. ricorre per la cassazione della sentenza n. 392/2022 del Tribunale di Castrovillari, pubblicata il 25.3.2022, che aveva confermato la decisione di primo grado di rigetto della sua opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento di sanzioni amministrative per violazione del codice della strada, dichiarando valida la notifica del verbale di contestazione eseguita presso il luogo di dimora dell’opponente, pur diverso dalla sua residenza anagrafica. In particolare, il Tribunale motivava tale conclusione sui rilievi che il verbale era stato ricevuto da persona che si era qualificato convivente, che l’ingiunzione di pagamento era stata ricevuta presso tale indirizzo personalmente dall’opponente e che ivi era stato notificato anche un preavviso di fermo.

Il comune di Rocca Imperiale ha notificato controricorso, mentre la società Area Riscossioni non ha svolto attività difensiva.

La causa è stata avviata in decisione in camera di consiglio.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal comune controricorrente sul presupposto che esso sia stato notificato oltre il termine di sessanta giorni dalla data della sentenza impugnata, atteso che, non risultando che tale provvedimento sia stato notificato, l’impugnazione soggiace al termine lungo stabilito dall’art. 327 c.p.c..

Il primo motivo di ricorso denunzia violazione o falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che, ai fini della determinazione del luogo di residenza o di dimora del destinatario della notificazione, rilevi esclusivamente la dimora abituale, rivestendo le risultanze anagrafiche mero valore presuntivo e potendo le stesse essere superate.

Il secondo motivo di ricorso denunzia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonchè dell’art. 24 Cost. e art. 2697 c.c., con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5 per avere il giudice omesso di valutare il certificato storico di residenza e la querela di falso del 12 novembre 2020, nonchè il certificato storico dello stato di famiglia del 7 aprile 2020.

I due motivi, che possono trattarsi congiuntamente, sono entrambi inammissibili.

Il Tribunale ha motivato il proprio convincimento in ordine alla validità della notifica del verbale di accertamento della violazione, oggetto di contestazione da parte dell’opponente, rilevando che essa era stata eseguita presso la sua dimora o domicilio, essendo stata ricevuta da persona qualificatasi con lui convivente e risultando anche le notifiche degli atti successivi ricevute al predetto indirizzo, tra cui quella dell’ingiunzione di pagamento della sanzione di cui si tratta, ricevuta personalmente dallo stesso opponente. Ha quindi ritenuto che non fosse causa di nullità della notifica che essa non fosse stata eseguita presso la residenza anagrafica del destinatario, essendo comunque stata ricevuta presso il suo luogo di dimora.

Tanto precisato, il principio di diritto applicato dalla Corte distrettuale in tema di luogo di notifica del verbale di contestazione delle violazioni del codice della strada appare conforme all’art. 201 C.d.S., comma 3, che richiama, a tal fine, le modalità previste dal codice di procedura civile, secondo cui se la notificazione non è fatta a mani proprie, va fatta presso il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario, nonchè al costante orientamento di questa Corte, secondo cui, ai fini della corretta determinazione del luogo di residenza o di dimora del destinatario, assume rilevanza esclusiva il luogo ove questi dimori di fatto in via abituale, con la conseguenza che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo di residenza, e possono essere superate da una prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, e quindi anche mediante presunzioni (Cass. n. 9049 del 2020; Cass. n. 19387 del 2017; Cass. n. 11550 del 2013).

Il medesimo indirizzo giurisprudenziale inoltre sottolinea che il relativo apprezzamento di tali elementi, integrando un apprezzamento di fatto delle risultanze probatorie, costituisce valutazione demandata all’esclusiva competenza del giudice di merito. Anche sotto tale profilo, pertanto, le censure sollevate sono inammissibili, in quanto l’accertamento del giudice di merito in ordine alla effettiva dimora del destinatario dell’atto non è sindacabile in sede di giudizio di legittimità.

La censura di omesso esame di fatti decisivi per il giudizio è infine inammissibile ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., secondo cui il ricorso per cassazione non è proponibile per il motivo indicato dall’art. 360 c.p.c., n. 5 nel caso in cui, come nella specie, il giudice di secondo grado abbia deciso le questioni di fatto conformemente alla decisione appellata (c.d. doppia conforme).

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio in favore della controricorrente comune di Rocca Imperiale, che liquida in Euro 950,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.

Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 5 aprile 2023.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 21/12/2022) 21/04/2023, n. 10805

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. HMELJAK Tania – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. SALEMME Andrea Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 4425/2020 R.G. proposto da:

A.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA OVIDIO N. 32, presso lo studio dell’avvocato CHIARANTANO BRUNO, (CHRBRN77R21L719W) rappresentato e difeso dall’avvocato RIJLI SALVATORE, (RJLSVT62C25H224Y);

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE-RISCOSSIONE;

– intimata –

avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della CALABRIA-SEZ.DIST. REGGIO CALABRIA n. 2162/2019 depositata il 17/06/2019.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 21/12/2022 dal Consigliere ANDREA ANTONIO SALEMME.

Svolgimento del processo
CHE:

1. In data 23 dicembre 2012, A.A. riceveva notificazione di intimazione di pagamento n. (Omissis) per la complessiva somma di Euro 185.822,71 quanto all’anno di imposta (Omissis) in riferimento ai ruoli (Omissis) e (Omissis). L’intimazione era fondata sulla cartella di pagamento n. (Omissis).

2. Proponeva impugnazione il contribuente eccependo la nullità dell’intimazione per mancata notifica della cartella.

3. La CTP di Reggio Calabria, con la sentenza n. 1147/03/2014, rigettava il ricorso.

4. Proponeva appello il contribuente e la CTR della Calabria, con la sentenza impugnata, accoglieva in parte il gravame, relativamente al calcolo degli interessi.

In particolare, la CTR così motivava:

“La notifica della cartella appare del tutto rituale. Dalla fotocopia prodotta e non contestata dal contribuente si deduce infatti che la copia è stata ritirata dalla moglie del contribuente che si è soltanto rifiutata di sottoscrivere la relata. Di conseguenza la notifica appare corretta e conforme alla normativa vigente.” 5. Propone ricorso per cassazione il contribuente con un unico motivo. L’Agenzia delle entrate-Riscossione resta intimata.

Motivi della decisione
CHE:

1. Con l’unico motivo di ricorso si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione DEL D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60 e degli artt. 138, 139 e 140 c.p.c. 1.1. Le considerazioni della CTR sono smentite dalle evidenze documentali, poichè è indubitabile che la consegna del plico non è mai avvenuta. La circostanza assunta a fondamento della decisione, ossia la consegna dell’atto presupposto alla moglie del contribuente, nonostante il rifiuto della medesima di sottoscrivere l’atto, risulta incontestabilmente esclusa dalla relata di notificazione depositata dall’agente della riscossione: come emerge da detta relata (riprodotta per autosufficienza a pagina 5 del ricorso), “il messo notificatore non attesta di aver consegnato alla moglie del contribuente la cartella stessa, circostanza(,) questa(,) emergente dalla mancata apposizione del contrassegno alla casella: ‘Consegnandola in assenza del contribuentè”. Risulta quindi smentita la regolarità della notificazione, atteso che, in costanza di rifiuto opposto da persona diversa dal destinatario, il messo avrebbe dovuto procedere ai sensi dell’art. 140 c.p.c. L’osservanza della procedura ai sensi di quest’ultimo articolo era in ogni caso dovuta, essendo normativamente prescritto che solo il rifiuto del destinatario possa assumere rilevanza ai fini della regolarità della notificazione.

2. Il motivo è fondato e merita accoglimento.

2.1. Dalla relazione di notificazione della cartella di pagamento, costituente il presupposto dell’intimazione oggetto di impugnazione, notificazione, come detto, riprodotta nel corpo del ricorso, emerge che:

– non è contrassegnato il riquadro relativo alla casella che recita: “Consegnandola in assenza del contribuente”;

– la “moglie convivente” del contribuente “si rifiuta di firmare”.

2.2. In ragione di quanto precede, ed in particolare della dicitura: “Si rifiuta di firmare”, la suddetta “moglie convivente” ha espressamente ricusato di ricevere la notifica, senza peraltro che, a differenza di quanto ritenuto dalla CTR, il tenore letterale della relata consenta di affermare che la medesima abbia comunque ricevuto il piego.

2.3. Pertanto, a fronte dell’art. 139 c.p.c., comma 2, secondo cui, “se il destinatario non viene trovato in uno d(ei) luoghi (ove deve essere ricercato), l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purchè non minore di quattordici anni o non palesemente incapace”, nella specie, trova applicazione l’art. 140 c.p.c., secondo cui, “se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’articolo precedente, l’ufficiale giudiziario deposita la copia nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi, affigge avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e gliene dà notizia per raccomandata con avviso di ricevimento”.

Invero, come detto, ricorre l’ipotesi del “rifiuto”.

3. La sentenza impugnata va pertanto annullata e cassata senza rinvio.

3.1. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito, questa Suprema Corte è abilitata a decidere definitivamente la causa, accogliendo il ricorso introduttivo del giudizio, in ragione dell’omessa rituale notificazione della cartella di pagamento al contribuente.

3.2. L’esito del giudizio comporta, in punto di spese, che, compensate quelle dei gradi di merito, l’Agenzia delle entrate-Riscossione sia condannata a rifondere al contribuente quelle del grado di legittimità, liquidate, secondo tariffa, come in dispositivo.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso.

Per l’effetto, annulla e cassa senza rinvio la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, accoglie il ricorso introduttivo del giudizio.

Compensa integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito.

Condanna l’Agenzia delle entrate-Riscossione a rifondere alla contribuente le spese del presente grado di giudizio, che liquida in Euro 5.600, oltre esborsi per Euro 200, spese forfetarie in misura del 15% ed accessori, se ed in quanto dovuti.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2023


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 25/11/2020) 11/02/2021, n. 3557

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – rel. Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7271/2018 proposto da:

G.A., in persona del curatore pro tempore, domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCO CAMPO;

– ricorrente –

contro

LIBERO CONSORZIO COMUNALE DI TRAPANI già PROVINCIA REGIONALE DI TRAPANI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE MELLINI 44, presso lo studio dell’avvocato NICOLA ADRAGNA, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA STELLA PORRETTO;

– controricorrente –

e contro

ASSESSORATO REGIONALE DELLA FAMIGLIA, DELLE POLITICHE SOCIALI E DEL LAVORO, SERVIZIO UFFICIO PROVINCIALE DEL LAVORO DI TRAPANI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 782/2017 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 20/11/2017 R.G.N. 1032/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/11/2020 dal Consigliere Dott. AMELIA TORRICE;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito l’Avvocato FRANCO CAMPO;

udito l’Avvocato NICOLA ADRAGNA per delega verbale Avvocato MARIA STELLA PORRETTO.

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Trapani aveva dichiarato il diritto di G.A. ad essere assunto a tempo indeterminato, a decorrere dal 10.2.2009, come soggetto appartenente alle categorie protette ex L. n. 68 del 1999, e condannò la Provincia di Trapani (poi, Libero Consorzio Comunale di Trapani) al risarcimento del danno, liquidandolo in misura pari alla differenza tra quanto il G. aveva percepito dal 10.2.2009 e quanto il medesimo avrebbe percepito ove l’obbligo di assunzione fosse stato assolto.

2. Adita dal Libero Consorzio Comunale di Trapani, la Corte di Appello di Palermo, in riforma della sentenza di primo grado, ha rigettato la domanda proposta dal G..

3. Avverso questa sentenza G.A. ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi, illustrati da successiva memoria, al quale ha resistito con controricorso il Libero Consorzio Comunale Di Trapani.

4. L’Assessorato Regionale della Famiglia, delle Politiche Sociali e del Lavoro e il Servizio Ufficio Provinciale del Lavoro di Trapani non risultano costituiti in giudizio.

Motivi della decisione
Sintesi dei motivi.

5. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 68 del 1999, art. 3 e art. 4, comma 4, per avere la Corte territoriale affermato che il transito del lavoratore già dipendente del datore di lavoro pubblico, nella quota di riserva non comporta una novazione del rapporto che rimane immutato nè la trasformazione del rapporto di lavoro da rapporto a tempo determinato e part-time in rapporto a tempo indeterminato a tempo pieno.

6. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 68 del 1999, art. 7.

7. Sostiene l’erroneità della statuizione della Corte territoriale nella parte in cui ha affermato che, in base alla L. n. 68 del 1999, art. 7, che rinvia al D.Lgs. n. 29 del 1993, oggi D.Lgs. n. 165 del 2001, la P.A. deve procedere alleòassunzioni delle categorie protette mediante chiamata numerica degli iscritti nelle apposte liste e che a tale regola non farebbe eccezione l’ipotesi disciplinata dalla L. n. 68 del 1999, art. 4, comma 4, secondo l’indicazione di questa Corte Cass. n. 14153/2012.

8. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 5, comma 4 quater e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, comma 3 bis. Deduce che dalla documentazione acquisita agli atti del giudizio di primo grado era stato dimostrato che nel 2007 la Provincia Regionale di Trapani non rispettava la quota di assunzioni obbligatorie prevista dalla L. n. 68 del 1999, art. 3 e che l’Ufficio Provinciale del Lavoro la aveva diffidata a procedere al reclutamento della L. n. 68 del 1999, ex art. 3, conformemente alle previsioni di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, prescrizione alla quale la Provincia non aveva ottemperato.

9. In via preliminare deve essere esaminata la questione (affrontata funditus da entrambe le parti nel ricorso, nel controricorso e nella memoria depositata dal ricorrente), della quale si impone il rilievo d’ufficio, riguardante la ammissibilità del ricorso proposto il 20 febbraio 2018 a fronte della notifica della sentenza impugnata avvenuta il 30 novembre 2017 “nei confronti di G.A. il quale agisce con l’assistenza del curatore G.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Franco Campo nel domicilio eletto”.

10. E’ infondata la prospettazione difensiva del ricorrente, che al fine di negare la validità di detta notificazione ai fini della decorrenza del termine breve per l’impugnazione, asserisce che a seguito dell’introduzione del domicilio digitale, corrispondente all’indirizzo PEC che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, conv. con modif. in L. n. 221 del 2012, la notificazione degli atti processuali deve essere effettuata unicamente all’indirizzo p.e.c. sul rilievo che soluzioni alternative sono possibili solo ove la posta certificata non funzioni”.

11. Il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-sexies, convertito dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, rubricato “Domicilio digitale”, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 52, comma 1, convertito con modificazioni dalla L. 11 agosto 2014, dispone che Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia.

12. Il dato testuale (quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario…) attesta in modo chiaro ed inequivoco che la disposizione innanzi richiamata, nell’ambito della giurisdizione civile, fatto salvo quanto disposto dall’art. 366 c.p.c., per il giudizio di cassazione, ha depotenziato la domiciliazione ex lege presso la Cancelleria dell’ufficio giudiziario imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo PEC risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis (Codice dell’amministrazione digitale), ovvero presso il ReGindE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia, salvo nei casi di impossibilità di procedere alla notifica a mezzo PEC, per causa da addebitarsi al destinatario della notificazione.

13. Ad un tempo l’art. 16 sexies, ha ridimensionato il campo di applicazione del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, ormai limitato nella sua applicazione al caso in cui la notificazione a mezzo p.e.c non è possibile per causa imputabile al destinatario della stessa.

14. La prescrizione prescinde, dunque, dalla stessa indicazione dell’indirizzo di posta elettronica ad opera del difensore, e trova applicazione direttamente in forza dell’indicazione normativa degli elenchi/registri dai quali è possibile attingere l’indirizzo PEC del difensore; ciò in ragione dell’obbligo gravante su quest’ultimo di comunicarlo al proprio ordine e in capo al Consiglio dell’Ordine di inserirlo sia nel registro INIPEC, che nel ReGindE. 15. In altri termini, la domiciliazione ex lege presso la cancelleria è oggi prevista solamente nelle ipotesi in cui le comunicazioni o le notificazioni della cancelleria o delle parti private non possano farsi presso il domicilio telematico per causa imputabile al destinatario (Cass. n. 14140 del 2019, n. 14914 del 2018, Cass. 17048/2017).

16. Deve, però, escludersi che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati (Cass. 1982/2020, Cass. 2942/2019, Cass. 22892/2015).

17. Quest’ affermazione non contrasta con i principi affermati nella decisione di questa Corte n. 10355 del 2020 relativa a fattispecie, diversa da quella in esame, nella quale veniva in rilievo la notificazione della sentenza di appello effettuata presso il domiciliatario nonostante l’indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata del difensore costituito.

18. Prevista per agevolare le comunicazioni di cancelleria e le notificazioni delle parti, l’indicazione della PEC non rende, infatti, inapplicabile l’intero insieme delle norme e dei principi sulla domiciliazione nel giudizio, soprattutto allorchè sia la stessa parte o il suo difensore a designare l’elemento topografico dell’elezione di domicilio in maniera compatibile con le regole del processo.

19. Deve, pertanto, affermarsi che ai fini della decorrenza del termine breve per proporre ricorso per cassazione, anche dopo l’introduzione del “domicilio digitale” (D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, conv. con modif. in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv., con modif., in L. n. 114 del 2014), resta valida la notificazione effettuata presso il domicilio fisico ove il destinatario abbia scelto, eventualmente in associazione a quello digitale, di eleggervi il domicilio.

20. Nella fattispecie in esame è indiscusso che vi era stata esplicitata elezione del domicilio fisico (topograficamente coincidente con l’indirizzo dello studio del difensore dell’odierno ricorrente costituito in giudizio) e che non vi fu alcuna scelta di ricevere le notificazioni e/o le comunicazioni presso l’indirizzo p.e.c..

21. Dall’esame degli atti del giudizio emerge, inoltre, che la sentenza impugnata era stata notificata in data 30.11.2017 “nei confronti di G.A. il quale agisce con l’assistenza del curatore G.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Franco Campo nel domicilio eletto” ed era stata ricevuta da quest’ultimo, raggiungendo lo scopo di provocare e attivare l’attività di impugnazione, scopo proprio della notificazione della sentenza (Cass. Sez. Un. 20866 del 2020; Cass. 2396 del 2020, Cass. 16663 del 2018, Cass. n. 2220 del 2016, Cass. 7365 del 2010, Cass. 11093 del 1998).

22. La notifica effettuata a G.A. presso il difensore costituito, al di là della formula letterale che è stata oggetto di specifica contestazione da parte del ricorrente, è idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione.

23. La notificazione della sentenza munita della formula esecutiva alla parte presso il procuratore costituito, è, infatti, equivalente alla notificazione al procuratore stesso, prescritta dagli artt. 285 e 170 c.p.c., ed è pertanto idonea a far decorrere il termine di sessanta giorni per proporre ricorso per cassazione previsto dall’art. 325 c.p.c., comma 2 (Cass. 2974/20020, Cass. 11216/2008).

24. Come già evidenziato, è indiscusso tra le parti, e la circostanza emerge dall’esame degli atti, che il ricorso per cassazione è stato notificato al Libero Consorzio del Comune di Trapani il 20 febbraio 2018, ben oltre, quindi il termine di sessanta giorni previsto dall’art. 325 c.p.c., u.c., decorrente, ai sensi dell’art. 326 c.p.c., comma 1, dalla data della notificazione della sentenza impugnata (come detto 30 novembre 2017).

25. Va, in conclusione dichiarata l’inammissibilità del ricorso.

26. La complessità della questione concernente la validità della notifica della sentenza impugnata giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

27. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte;

Dichiara il ricorso inammissibile.

Compensa le spese del giudizio di legittimità.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 11 febbraio 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 27/01/2023) 18/04/2023, n. 10282

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’AQUINO Filippo – Presidente –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO VISCIDO Maria Giulia – Consigliere –

Dott. SALEMME Andrea Antonio – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26239-2016 R.G. proposto da:

A.A. DI B.B. e C Snc , elettivamente domiciliata in ROMA VIA VITTORIA COLONNA 40, presso lo studio dell’avvocato DI CAPUA ALBERTO, rappresentata e difesa dall’avvocato SANGIOVANNI GIUSEPPE (SNGGPP63S18A345I);

-ricorrente-

CONTRO

AGENZIA DELLE ENTRATE, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO ((Omissis)) che la rappresenta e difende;

-controricorrente-

avverso SENTENZA di COMM.TRIB.REG. della CAMPANIA-NAPOLI n. 3273-2016 depositata il 07/04/2016.Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27/01/2023 dal Consigliere ANDREA ANTONIO SALEMME.

Svolgimento del processo
1. A.A. DI B.B. e C. Snc era attinta da atto di irrogazione della sanzione accessoria ex D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 12, comma 2, della sospensione dall’esercizio dell’attività per la durata di tre giorni consecutivi in esito alla contestazione nel quinquennio di quattro violazioni dell’obbligo di emettere lo scontrino fiscale.

Ai fini del presente giudizio, rileva che l’atto di contestazione della quarta violazione era stato notificato due volte, avendo l’Agenzia delle entrate provveduto alla cd. doppia notifica, mediante inoltro per la notifica ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14 sia alla società, sia al suo legale rappresentante; l’una aveva ricevuto la notifica in data 26 aprile 2012, l’altro in data 20 aprile 2012.

2. La società proponeva ricorso avanti la CTP di Napoli per intervenuta decadenza dell’amministratore dal potere di irrogare sanzioni in quanto l’atto era stato notificato oltre il previsto termine di sei mesi dalla quarta contestazione.

2.1. Con sentenza n. 13766 del 28 maggio 2014, la CTP di Napoli accoglieva l’eccezione di decadenza.

3. L’Agenzia delle entrate proponeva appello, che la CTR della Campania accoglieva, osservando:

– la motivazione della sentenza di primo grado è contraddittoria: “mentre da un lato si dà atto delle regolarità del provvedimento impugnato e della tempestività della notifica, facendo decorrere il termine di sei mesi dall’ultima notifica dell’atto di contestazione avvenuta il 26/04/2012, poi si considera (la stessa) non idonea alla prova della avvenuta notifica, sul presupposto della mera contestazione da parte della società contribuente”;

– “deve invece ritenersi che (…) l’eccezione relativa alla tardività della notifica del provvedimento con il quale l’Ufficio irrogava le sanzioni accessorie risulti (…) priva di fondamento”;

– il termine di sei mesi è rispettato, “atteso che nel caso in esame l’Ufficio provvedeva a notificare l’avviso di irrogazione di sanzioni una prima volta il 20/04/2012 all’amministratore della società appellata Sig. B.B. e una seconda volta il 26/04/2012 con ulteriore raccomandata inviata alla società A.A. di B.B. e C. s.n.c.”;

– “avendo l’amministrazione finanziaria provveduto ad una doppia notifica appare corretto considerare quale ‘dies a quò, per far decorrere il termine di sei mesi previsto dalla legge, l’ultimo atto notificato alla società nelle mani del legale rappresentante, non comprendendosi per quale motivo e sulla base di quale presupposto di legge dovrebbe tenersi conto solo della prima raccomandata”.

4. Avverso la sentenza della CTR propone la società ricorso per cassazione con tre motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso. La società deposita memoria, mediante la quale ulteriormente illustra i motivi di cui al ricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 12, comma 2-bis, dell’art. 149 c.p.c. e della L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3.

1.1. Alla stregua delle rubricate disposizioni di legge, in caso di consegna dell’atto notificando, l’efficacia della notificazione, per il notificante, retroagisce al momento dell’invio. Di conseguenza il termine di sei mesi avrebbe dovuto nella specie essere computato dal 18 aprile 2012, giorno in cui era avvenuto l’invio delle due distinte raccomandate attraverso le quali l’atto di irrogazione di sanzioni era stato rimesso alla società ed alla persona fisica che la rappresentava.

2. Con il secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione del D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 12, comma 2-bis, e dell’art. 145, comma 2, c.p.c. nel testo “ratione temporis” applicabile.

2.1. Pur non volendo accedere alla tesi di cui al primo motivo, il termine di sei mesi avrebbe dovuto, in ogni caso, computarsi dal 20 aprile 2012, giorno in cui era avvenuta la consegna al legale rappresentante della società, e non dal 26 aprile 2012, giorno in cui era avvenuta la consegna alla società. A partire dal 1 marzo 2006, l’art. 145, comma 2, c.p.c. prevede che la notificazione ad una società non avente personalità giuridica si possa fare a norma del comma precedente (ossia mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata) presso la sede o alla persona fisica che rappresenta l’ente. Conseguentemente, nella specie, la notificazione al legale rappresentante della società, con consegna dell’atto a quest’ultima attraverso di essa, già in data 20 aprile 2012 ha reso irrilevante la successiva consegna direttamente alla società il 26 aprile 2012.

3. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione della Cost., art. 11, comma 6, e dell’art. 132 c.p.c. e motivazione apparente e/o perplessa ed obiettivamente incomprensibile.

3.1. La motivazione della sentenza impugnata sulla tempestività dell’atto di irrogazione è tautologica ed incomprensibile, ragion per cui essa, meramente apparente, è sostanzialmente inesistente.

4. Procedendo in ordine logico nella disamina dei motivi, rileva preliminarmente l’esame del terzo.

4.1. Esso è infondato, in quanto la motivazione della sentenza impugnata si esprime chiaramente – ed in tal senso, infatti, è stata intesa in ricorso – nel senso di individuare il “dies a quo” del termine semestrale nella seconda delle due notificazioni dell’atto di contestazione della quarta violazione effettuate dall’Agenzia delle entrate, per il fatto di avere quest’ultima “provveduto ad una doppia notifica”. In buona sostanza, secondo la CTR, la doppia notifica si perfeziona con l’ultima notificazione, nel senso che, a fronte della duplice notificazione alla società ed al legale rappresentante, quantunque quella a questi siasi perfezionata prima, è alla seconda, perfezionatasi dopo, ossia per ultima, a dover essere accordata preminenza.

Trattasi di una motivazione errata, come subito si dirà, ma non per questo perplessa e men che meno apparente.

5. Fondato è il secondo motivo.

5.1. Esso assume come presupposto che l’art. 145, comma 2, c.p.c. (nella versione vigente dal 1 marzo 2006) prevede la possibilità di effettuare la notificazione di un atto a un ente non personificato o mediante notificazione all’ente stesso nella sede legale o al legale rappresentante dello stesso nei luoghi di sua residenza o domicilio.

5.2. La previsione del novellato art. 145, comma 2, c.p.c. – che pone il criterio dell’alternatività tra la notificazione nella sede o al legale rappresentante (atteso che “la notificazione alle società non aventi personalità giuridica, alle associazioni non riconosciute e ai comitati di cui agli artt. 36 e seguenti del codice civile si fa a norma del comma precedente, nella sede indicata nell’art. 19, comma 2, ovvero alla persona fisica che rappresenta l’ente qualora nell’atto da notificare ne sia indicata la qualità e risultino specificati residenza, domicilio e dimora abituale”) – si applica, ai sensi della l. n. 263 del 2005, art. 2, comma 4, ai procedimenti instaurati successivamente al 1 marzo 2006.

5.3. Il criterio dell’alternatività della notificazione trova suggello nella costante giurisprudenza di legittimità (Sez. 5, 10 maggio 2022, n. 14716; Sez. 5, 10 novembre 2020, n. 25137, Sez. 5, 7 giugno 2021, n. 17266; Sez. 5, 22 novembre 2021, n. 35889; Sez. 5, 10 maggio 2022, n. 14716; Sez. 6-3, 7 settembre 2001, n. 24061, Rv. 662217-01); così come si afferma che l’obbligo di notificazione degli atti tributari presso il domicilio fiscale ex D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c, non esclude la possibilità di eseguire la notificazione in via alternativa a quella nella loro sede, direttamente alla persona fisica che le rappresenta, purchè ne siano indicati nell’atto la qualità, la residenza, il domicilio o la dimora abituale (Sez. 5, 10 novembre 2010, n. 25137).

5.4. Non si tratta, pertanto, di “eccesso di zelo” dell’Ufficio, bensì di notifica alternativa correttamente eseguita e sottoscritta dal destinatario. Nella specie, trattandosi di notificazioni effettuate nel 2012, deve farsi applicazione della disciplina pro tempore, ritenendosi corretta la prima notificazione, con conseguente fondatezza del motivo.

5.5. La fondatezza del secondo motivo – da cui discende l’assorbimento del primo – comporta l’annullamento della sentenza impugnata. Non essendo necessari nuovi accertamenti di fatto ex art. 384 c.p.c., la causa può essere decisa nel merito, accogliendosi il ricorso introduttivo spiegato dalla contribuente avverso l’atto di irrogazione della sanzione. Invero, come risulta dalla sentenza impugnata e dalla concorde versione delle parti, a fronte dell’essere stato l’avviso di contestazione della quarta violazione validamente (per le esposte ragioni) notificato all’amministratore della contribuente il 20 aprile 2012, la notificazione dell’atto di irrogazione della sanzione in data 22 ottobre 2012 è avvenuta oltre il termine semestrale, previsto espressamente a pena di decadenza, dal D.Lgs. n. 471 del 1997, art. 12, comma 2-bis.

5.6. In punto spese, l’esito del giudizio comporta che, compensate integralmente tra le parti quelle di entrambi i gradi di merito, l’Agenzia delle entrate va condannata a rifondere alla contribuente quelle del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il terzo ed assorbito il primo.

Per l’effetto, in relazione al motivo accolto, annulla e cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, accoglie l’originario ricorso.

Compensa integralmente tra le parti le spese di entrambi i gradi di merito.

Condanna l’Agenzia delle entrate a rifondere a A.A. DI B.B. e C. Snc le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000, oltre Euro 200 a titolo di esborsi, 15% a titolo di contributo forfetario e accessori se e in quanto dovuti.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2023.

Depositato in Cancelleria il 18 aprile 2023


Cons. Stato, Sez. VII, Sent., (data ud. 24/02/2023) 17/04/2023, n. 3829

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Settima)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 8297 del 2018, proposto da P.P., rappresentato e difeso dagli avvocati Roberto Giromini, Federico Pardini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

contro

Comune di Bolano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avvocato Marialuisa Zanobini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 243/2018, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio di Comune di Bolano;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 87, comma 4-bis, cod. proc. amm.;

Relatore all’udienza straordinaria di smaltimento dell’arretrato del giorno 24 febbraio 2023 il Cons. Fabrizio D’Alessandri e presenti le parti come da verbale;

Svolgimento del processo
L’odierna appellante ha impugnato la sentenza del T.A.R. Liguria, sez. I, n. 243/2018, pubblicata in data 26 marzo 2018, che ha respinto, previa riunione, i ricorsi R.G. 284/2016 e 285/2017 proposti rispettivamente per:

– l’annullamento del diniego di accertamento di conformità urbanistica del fabbricato residenziale di sua proprietà, successivo a un’ordinanza di demolizione, nonché della comunicazione con la quale il Comune di Bolano ha avvertito che si sarebbe tenuto un sopralluogo finalizzato alla verifica circa l’ottemperanza all’ordine di demolizione precedentemente adottato (R.G. 284/2016);

– l’annullamento della determinazione con cui il Responsabile dei Servizi Area Urbanistico Edilizia Privata e Ambiente ha dichiarato l’intervenuta acquisizione gratuita dell’area al patrimonio del Comune (R.G. 285/2017).

Più precisamente, con il primo ricorso n. 284 del 2016, l’odierna appellante ha impugnato la Det. n. 8 del 2 marzo 2016 con cui il Comune di Bolano ha dichiarato irricevibile per tardività la domanda di sanatoria presentata in data 18/11/2015, al fine di ottenere l’accertamento di conformità urbanistica del suo fabbricato residenziale sito nel predetto Comune, oggetto di una precedente ordinanza di demolizione, in quanto realizzato in mancanza dei prescritti titoli edilizi.

Ad avviso della ricorrente, il provvedimento risultava meritevole di annullamento perchè ritenuto viziato per violazione di legge, in quanto privo della firma autografa del Responsabile dell’Area, nonché per incompetenza perché adottato da personale privo di qualifica dirigenziale.

Successivamente, con atto di motivi aggiunti, la ricorrente ha impugnato la comunicazione del 12/03/2016 con la quale il Comune aveva avvertito che in data 31/03/2016 si sarebbe tenuto un sopralluogo volto a verificare l’ottemperanza all’ordine di demolizione precedentemente emesso, ossia in data 30/10/2007.

Con tale impugnativa, la ricorrente ha censurato la violazione dell’obbligo del preavviso di rigetto di cui all’art. 10-bis della L. n. 241 del 1990 e, analogamente a quanto dedotto con il ricorso principale, la mancanza di sottoscrizione autografa della Det. n. 8 del 2016 che avrebbe, a suo avviso, invalidato il successivo provvedimento.

Il 21 aprile 2016, in pendenza del giudizio, il Comune di Bolano ha notificato all’odierna appellante il verbale di accertamento dell’inottemperanza all’ordine di demolizione e successivamente, con Det. n. 21 del 10 febbraio 2017, ha dichiarato l’intervenuta acquisizione gratuita delle opere realizzate al patrimonio comunale, cui ha fatto seguito la nota di iscrizione presso la Conservatoria dei Registri Immobiliari di La Spezia.

L’odierna appellante, pertanto, con distinto ricorso R.G. n. 285 del 2017, ha impugnato quest’ultima Det. n. 21 del 2017, censurando le modalità con cui il Comune avrebbe applicato gli articoli 31 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 45 della L.R. n. 16 del 2008, che prevedono – in caso di inottemperanza dell’ordine di demolizione – l’acquisizione non solo del bene o dell’area di sedime coperta dall’opera abusiva, ma anche di quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive purché non superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita.

Ad avviso dell’odierna appellante, infatti, il Comune, nell’individuazione dell’ulteriore superficie da acquisire, si sarebbe limitato a dar conto del rispetto del limite massimo previsto dalla richiamata normativa, senza motivare lo specifico interesse pubblico a detto ampliamento nonché le modalità di determinazione ed individuazione della superficie complessiva oggetto di acquisizione.

Inoltre, anche con tale gravame, la ricorrente ha dedotto l’illegittimità della determinazione per carenza di sottoscrizione autografa.

Il T.A.R. Liguria, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto i suddetti ricorsi, previa riunione, ritenendo:

– infondata la censura concernente la mancanza di sottoscrizione autografa in quanto, ad avviso del Giudice di prime cure, tale carenza non integrerebbe ex se motivo di invalidità dell’atto amministrativo, ove concorrano altri elementi testuali che consentano di individuare la sicura provenienza e attribuibilità dell’atto al suo autore;

– infondata e insufficientemente argomentata la doglianza concernente l’adozione della determinazione da parte di organo incompetente, atteso che non sono presenti figure dirigenziali all’interno dell’Amministrazione intimata;

– che il provvedimento impugnato con l’atto di motivi aggiunti non risulta affetto, pertanto, da invalidità derivata;

– che l’Amministrazione comunale non ha violato l’obbligo del preavviso di rigetto, stante la natura officiosa del procedimento di cui trattasi;

– infondata, infine, la censura riguardante l’errata modalità di individuazione della superficie ulteriore da acquisire, ritenendo che il Comune abbia adeguatamente motivato le determinazioni assunte sulla base della normativa urbanistica esistente e delle esigenze di utilizzabilità dell’area.

Avverso la suddetta sentenza, l’odierna appellante ha proposto il presente gravame, formulando i seguenti rubricati motivi di appello:

I. Error in iudicando sul primo motivo del ricorso n. rg 284/2016. violazione di legge. Eccesso di

potere per travisamento dei fatti, erroneità sui presupposti, mancanza dei requisiti essenziale dell’atto impugnato;

II. Error in iudicando sul secondo motivo di ricorso n. rg 284/2016. Violazione di legge. Eccesso di

potere per travisamento dei fatti, erroneità sui presupposti, mancanza dei requisiti essenziale dell’atto impugnato;

III. Error in iudicando sul primo motivo di ricorso dei motivi aggiunti. Violazione di legge. Eccesso di potere per travisamento dei fatti, erroneità sui presupposti, mancanza dei requisiti essenziali dell’atto impugnato anche in via derivata;

IV. Error in iudicando sul secondo motivo di ricorso dei motivi aggiunti. Violazione di legge con

specifico riferimento all’art. 10 bis della L. n. 241 del 1990. Eccesso di potere per travisamento, sviamento, erroneità sui presupposti, ingiustizia grave e manifesta, difetto di motivazione ed istruttoria;

V. Error in iudicando sul primo motivo del ricorso 285/2017. Violazione degli artt. 31 e 45 D.P.R. n. 380 del 2001. Eccesso di potere per travisamento, sviamento, erroneità sui presupposti, illogicità, ingiustizia, difetto di motivazione;

VI. Error in iudicando sul secondo motivo del ricorso 285/2017. violazione degli artt. 18 e 19 D.P.R. n. 445 del 2000 e L. n. 69 del 2009. eccesso potere per travisamento dei fatti, erroneità sui presupposti, mancanza dei requisiti essenziale dell’atto impugnato;

VII. Error in iudicando sulle spese di lite.

Il Comune si è costituito in giudizio in data 26 maggio 2021, concludendo per la reiezione dell’appello, in quanto inammissibile, irricevibile e infondato.

In vista dell’udienza di trattazione l’Amministrazione comunale ha depositato documenti e una memoria, con cui ha illustrato le proprie difese e replicato in maniera puntuale alle censure ex adverso proposte.

In particolare, con memoria depositata in data 16 gennaio 2023, il Comune intimato ha eccepito l’inammissibilità dell’appello per carenza di interesse, atteso che la statuizione del giudice di prime cure concernente l’intervenuto silenzio diniego, ex art. 36 del D.P.R. n. 380 del 2001, non sarebbe stata puntualmente censurata dalla parte appellante.

La parte resistente ha ribadito, altresì, che l’area di sedime su cui insistono gli abusi, nonché l’area necessaria alle opere analoghe a quelle realizzate sine titulo, sono state calcolate in modo esatto.

A sostegno di tale assunto, il Comune intimato ha richiamato il contenuto del documento inerente i criteri per la determinazione dell’area da acquisire, all’interno del quale risulta correttamente illustrato il procedimento seguito dall’Amministrazione nella determinazione del perimetro della c.d. pertinenza urbanistica.

L’acquisizione, infatti, sarebbe stata effettuata con quelle modalità al fine di garantire l’accesso della viabilità di uso pubblico esistente, la distanza dal perimetro del fabbricato abusivo di almeno 5 metri da ogni spigolo dello stesso, nonché ogni possibilità di manovra durante le operazioni di demolizione.

In data 7 febbraio 2023, le parti hanno depositato un’istanza congiunta di passaggio in decisione della causa sulla base degli scritti difensivi depositati.

All’udienza di smaltimento del 24 febbraio 2023, svoltasi da remoto, la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione
1. L’appello è da rigettare.

2. In via preliminare, il Collegio deve dare atto della fondatezza, relativamente al solo primo motivo di appello, dell’eccezione di inammissibilità dell’appello per carenza di interesse formulata dalla difesa comunale.

Sul punto, il Collegio osserva che, analogamente a quanto sostenuto dal giudice di prime cure, nonché evidenziato dalla parte resistente, l’eventuale accoglimento della prima censura afferente alla carenza di sottoscrizione autografa del provvedimento di rigetto (che lo renderebbe a detta dell’appellante inesistente), non consentirebbe – in ogni caso – all’odierno appellante di conseguire il pieno soddisfacimento dell’interesse fatto valere in giudizio, atteso che l’istanza di sanatoria dovrebbe ritenersi comunque rigettata dal Comune, versandosi in un’ipotesi di silenzio-diniego prevista ex lege.

Secondo la consolidata giurisprudenza amministrativa, al silenzio serbato dal Comune sull’istanza di accertamento di conformità, possono ricollegarsi gli effetti di un provvedimento esplicito di diniego, essendo pacificamente annoverato tra le ipotesi di silenzio significativo cui la legge attribuisce natura provvedimentale (Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 07/04/2022, n. 3396; Consiglio di Stato, sezione VI, 06/06/2018, n. 3417).

In virtù della mancata impugnazione della statuizione del giudice di prime cure concernente tale profilo e del conseguente passaggio in giudicato del capo della sentenza non censurato, pertanto, deve dichiararsi l’inammissibilità dell’appello in ordine al primo motivo del ricorso, in considerazione della mancanza di utilità pratica che deriverebbe dall’accoglimento della doglianza, a causa della formazione del silenzio-diniego.

3. Fatto salvo quanto indicato, il Collegio rileva per completezza dell’esame come, in ogni caso, il primo motivo di ricorso risulti infondato anche nel merito.

Infatti, con il primo motivo di gravame, l’appellante ha censurato la sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondata la doglianza afferente alla mancanza della sottoscrizione autografa del Responsabile Area Urbanistica Edilizia del Comune di Bolano.

Al riguardo, l’appellante ha dedotto anche in sede di appello l’illegittimità della Det. n. 8 del 02 marzo 2016 di rigetto della domanda di sanatoria per carenza del requisito essenziale della sottoscrizione ed evidenziato come la giustificazione addotta dal Comune, in ordine alle procedure utilizzate per la formazione degli originali e delle copie conformi all’epoca dell’adozione dell’atto, non potesse ritenersi sufficiente ai fini della totale irrilevanza della firma.

Ad avviso dell’appellante sarebbe stata necessaria, infatti, almeno un’attestazione di conformità della copia all’originale ad opera di un pubblico ufficiale autorizzato, non potendo ritenersi sufficiente l’apposizione della dicitura “firmato” sul duplicato del provvedimento.

In replica a quanto dedotto dalla parte appellante, l’Amministrazione comunale ha ribadito quanto già esposto in primo grado in ordine alle procedure informatiche in uso all’epoca dell’adozione del provvedimento impugnato, che avrebbero consentito la stampa di un unico originale cartaceo e di una pluralità di copie, la cui conformità sarebbe stata attestata dal funzionario, in qualità di autore dell’atto.

Il Collegio, ritiene corretto il ragionamento logico-giuridico proposto dal T.A.R. a sostegno della reiezione del motivo, in quanto l’assenza di sottoscrizione non può ritenersi invalidante qualora risulti possibile e inequivocabile l’accertamento circa la concreta riconducibilità dell’atto al suo autore.

Invero, in virtù del principio di correttezza e buona fede cui devono essere improntati i rapporti tra Pubblica Amministrazione e cittadino, l’autografia della sottoscrizione non può essere qualificata in termini di requisito di esistenza o validità giuridica degli atti amministrativi ove concorrano ulteriori elementi testuali (indicazione dell’ente competente, qualifica, ufficio di appartenenza del funzionario che lo ha adottato), emergenti anche dal contesto documentativo dell’atto, che consentano di individuare la sicura provenienza e l’attribuibilità dell’atto al suo autore (Cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. II, 24/01/2023, n. 793; Consiglio di Stato, sez. V, 28/5/2012, n. 3119; Consiglio di Stato, sez. IV, 11/5/2007, n. 2325).

Inoltre, come già affermato, anche qualora si ritenesse che l’atto fosse inesistente, ci si troverebbe comunque al cospetto di un’ipotesi di silenzio-diniego prevista ex lege, atteso che l’art. 36 del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, dispone che il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale si pronuncino sulla richiesta di permesso in sanatoria entro il termine di sessanta giorni, decorsi i quali la richiesta si intende rifiutata.

4. Nel merito il Collegio ritiene infondati anche gli altri motivi di appello per le ragioni che seguono.

Con il secondo motivo di appello, l’appellante ha criticato la sentenza nella parte in cui ha ritenuto infondata e insufficientemente argomentata la censura riguardante l’incompetenza dell’organo che ha adottato il provvedimento impugnato.

Ad avviso dell’odierna appellante, nella fattispecie di giudizio non possono ritenersi applicabili i presupposti di cui all’art. 109, comma 2, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, che consentono, in assenza di personale con qualifica dirigenziale, l’attribuzione delle competenze in materia edilizia in capo ai responsabili degli uffici o servizi, in quanto, alla data di emissione del provvedimento impugnato, nel Comune di Bolano erano presenti numerose figure dirigenziali.

Al riguardo, la difesa comunale ha ribadito la competenza del Responsabile dell’ufficio,

atteso che alla data di adozione del provvedimento impugnato non risultavano presenti figure dirigenziali nella pianta organica dell’ente, in guisa tale da poter affermare la legittimazione dell’organo che ha adottato il provvedimento.

Sul punto, il Collegio ritiene che le argomentazioni esposte in sede di appello dall’appellante non sono idonee a sovvertire la valutazione effettuata dal giudice di prime cure, in quanto non è stato acquisito alcun elemento probatorio che possa attribuire rilievo alla doglianza dedotta dalla ricorrente.

La mera indicazione del rinvio all’analisi del “portale web” dell’Amministrazione comunale in ordine all’esistenza al momento dell’adozione dell’atto di figure dirigenziali all’interno del Comune, non suffragato da alcuna produzione documentale, non può ritenersi sufficiente ai fini dell’accoglimento della censura.

L’appellante avrebbe dovuto dare ben altra evidenza rispetto a tale circostanza meramente affermata sia in primo che in secondo grado e non ammessa dall’Amministrazione resistente.

Conseguentemente, va ritenuto che il Responsabile dell’ufficio comunale abbia legittimamente adottato il provvedimento di rigetto della sanatoria, tenuto conto che, in materia edilizia, la normativa statale è univoca nel consentire ai Comuni sprovvisti di personale con qualifica dirigenziale l’attribuzione delle funzioni previste dall’art. 107, commi 2 e 3, D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, ai responsabili degli uffici o servizi (Cfr., ex multis, Consiglio Stato, Sez. V, 15/10/2009, n. 6327; Cons. Stato, sez. IV, 31/03/2009, n. 2024).

5. Con il quarto motivo di doglianza, l’appellante contesta il ragionamento logico-giuridico seguito dal Giudice di prime cure. Quest’ultimo, nel ritenere infondata la censura riguardante l’omissione del “preavviso di rigetto”, in virtù della natura officiosa del procedimento, non avrebbe analizzato correttamente le garanzie partecipative sottese all’istituto di cui all’art. 10-bis della L. 7 agosto 1990, n. 241.

In altri termini, l’appellante ritiene che la mancata adozione del preavviso di rigetto abbia invalidato la comunicazione del 12 marzo 2016, ritenuta completamente immotivata, irrituale e, pertanto, violativa del diritto partecipativo dell’appellante.

Ad avviso del Collegio, anche tale motivo si appalesa infondato in quanto, come sostenuto correttamente dal T.A.R., l’atto impugnato risulta attinente a una procedura ufficiosa volta all’acquisizione gratuita del bene abusivo che non necessita dell’obbligo di comunicazione dei motivi ostativi all’accoglimento dell’istanza, previsto dall’articolo 10-bis della L. 7 agosto 1990, n. 241, soltanto per i procedimenti ad istanza di parte (ex pluris: Consiglio di Stato, sez. V, 30.12.2015, n. 5868; Consiglio di Stato, Sez. V, 3/05/2012, n. 2548).

6. Con il quinto motivo di appello, sono state contestate le argomentazioni della sentenza impugnata in ordine all’individuazione della complessiva area oggetto di acquisizione comunale.

In sintesi, l’appellante sostiene che il Comune non abbia adeguatamente motivato l’interesse pubblico sotteso all’acquisizione gratuita della porzione ulteriore rispetto a quella coincidente con l’area su cui insistono le opere contestate e che difetterebbe il nesso funzionale tra i due acquisti.

Sempre secondo l’appellante, l’area di acquisizione individuata dal Comune eccede largamente la necessità di garantire un accesso dalla viabilità ad uso pubblico esistente e una distanza dal perimetro del fabbricato abusivo di 5 metri in tutti i punti.

Inoltre, l’individuazione dell’area oggetto di acquisizione si appaleserebbe errata poichè il Comune intimato non avrebbe considerato che la ricorrente è proprietaria di 30.000 mq di terreno, a fronte dei 12.682 mq riconosciuti.

Sul punto, il Collegio ritiene non sussista alcun difetto di motivazione e sia condivisibile quanto illustrato dal giudice di prime cure in ordine all’esatta individuazione dell’area oggetto di acquisizione gratuita.

E invero, sulla base degli atti processuali e dei documenti versati nel giudizio, sono emerse le modalità di calcolo con cui l’Amministrazione è pervenuta all’individuazione dell’”area ulteriore”.

Dal contenuto dell’ordinanza di demolizione n. 81 del 30/10/2007, del provvedimento di rigetto della istanza di sanatoria, del provvedimento di acquisizione gratuita delle opere, nonché della planimetria catastale, della documentazione fotografica e degli allegati criteri per l’individuazione dell’area, si evince esplicitamente la superficie complessiva del fabbricato realizzato abusivamente, pari a 126,82 mq., la zona urbanistica in cui ricade il predetto manufatto, nonché le modalità di calcolo dell’area circostante acquisibile.

L’Amministrazione comunale, infatti, in ottemperanza a quanto previsto dagli articoli 31, comma 3, del D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 e 45 della L.R. n. 16 del 2008, ha esplicitato

correttamente la superficie necessaria alla realizzazione di opere analoghe a quelle realizzate abusivamente, pari a 12.682 mq, poi ridotta a 1.268,20 mq., ai fini del rispetto del limite massimo di dieci volte la superficie utile abusivamente costruita.

A ciò si aggiunga che, come può evincersi dalla planimetria catastale, la predetta superficie garantisce l’accesso dalla viabilità ad uso pubblico esistente e una distanza dal perimetro del fabbricato abusivo di almeno 5 metri, al fine di garantire la possibilità di manovra durante le operazioni di demolizione.

Tali motivazioni, peraltro, costituendo esercizio di discrezionalità tecnica dell’Amministrazione, non possono essere sindacate se non per evidente violazione di criteri di ragionevolezza o illogicità o per travisamento dei fatti; profili che il Collegio ritiene non siano ravvisabili nel caso in esame.

7. Per le ragioni suindicate, che hanno confermato la legittimità degli atti gravati, devono ritenersi prive di pregio anche le doglianze, di cui al terzo e sesto motivo di appello, con cui è stata dedotta l’illegittimità, in via derivata, dell’atto impugnato con i motivi aggiunti, nonché della Det. n. 21 del 10 febbraio 2017 con cui il Comune ha dichiarato l’intervenuta acquisizione gratuita delle opere realizzate al patrimonio comunale.

8. Infondato è, altresì, il settimo motivo di appello volto a contestare genericamente la condanna alle spese in primo grado, che va rigettato in ragione della circostanza che il Collegio di primo grado ha seguito il corretto criterio della soccombenza e che la sentenza è stata confermata in questa sede di appello.

9. Per quanto suindicato, l’appello in epigrafe deve essere respinto, con conferma della sentenza di primo grado.

Le spese del grado di appello seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Settima), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Condanna l’appellante alla rifusione delle spese e degli onorari del grado di giudizio di appello, che liquida in € 4.000,00, oltre accessori di legge se dovuti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 febbraio 2023 con l’intervento dei magistrati:

Marco Lipari, Presidente

Raffaello Sestini, Consigliere

Giovanni Tulumello, Consigliere

Laura Marzano, Consigliere

Fabrizio D’Alessandri, Consigliere, Estensore


Corte di giustizia tributaria di secondo grado Lazio Roma, Sez. XVII, Sent., (data ud. 21/12/2022) 30/12/2022, n. 6507

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DI GIUSTIZIA TRIBUTARIA DI II GRADO DEL LAZIO
DICIASSETTESIMA SEZIONE

riunita in udienza il 21/12/2022 alle ore 09:30 con la seguente composizione collegiale:
PANNULLO NICOLA, – Presidente
MERCURIO FRANCESCO, – Relatore
FRETTONI FRANCESCO, – Giudice
in data 21/12/2022 ha pronunciato la seguente
SENTENZA
– sull’appello n. 3244/2021 depositato il 22/06/2021
proposto da
Agenzia Delle Entrate Riscossione – (…)
Difeso da
Adriano Rocco – (…)
ed elettivamente domiciliato presso avvadrianorocco@puntopec.it
contro
(…)
Difeso da
Maria Laura Vicari – (…)
ed elettivamente domiciliato presso marialauravicari@ordineavvocatiroma.org
Avente ad oggetto l’impugnazione di:
– pronuncia sentenza n. 1698/2021 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale ROMA sez. 29 e pubblicata il 15/02/2021
Atti impositivi:
– CARTELLA DI PAGAMENTO n. (…) IRPEF-ALTRO 2015
a seguito di discussione in pubblica udienza
Richieste delle parti:
Ricorrente/Appellante: come in atti.
Resistente/Appellato: come in atti.

Svolgimento del processo

L’Agenzia delle Entrate – Riscossione, ha impugnato la sentenza n. 1698/2021, pronunciata il 04.02.2021 dalla Sez. 29 della Commissione Tributaria Provinciale di Roma e depositata il 15.02.2021, che ha accolto il ricorso, proposto dal sig. G.G., codice fiscale (…), avverso la cartella di pagamento n. (…) relativa ad IRPEF, annualità 2015 dell’importo di Euro. 3.284,45.
Con il ricorso introduttivo in primo grado il ricorrente eccepiva l’omessa ed irregolare notifica della cartella tramite p.e.c.; l’omessa motivazione dell’atto; il corretto versamento delle imposte derivanti dalla propria dichiarazione; l’assenza di solidarietà tra sostituto e sostituito d’imposta, in relazione al mancato versamento delle ritenute d’acconto; l’omessa indicazione delle modalità di calcolo degli interessi.
Si costituiva in giudizio l’Agenzia delle Entrate – Riscossione che eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva per le questioni di merito; mentre deduceva la regolarità della notifica effettuata tramite p.e.c. e la corretta motivazione della cartella.
Con la sentenza n. 1698/2021 la CTP di Roma accoglieva il ricorso, atteso che dalla documentazione fornita dall’Agenzia delle Entrate – Riscossione risultava che la notifica della cartella di pagamento proveniva dall’indirizzo p.e.c. notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it e che tale indirizzo non risultava nell’elenco del Reginde (Registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della Giustizia), nonostante la ricorrente si fosse costituita in giudizio eccependo l’inesistenza della notifica.
L’Agenzia delle Entrate Riscossione ha interposto appello avverso la suddetta sentenza, eccependo: 1) la regolare notifica della cartella di pagamento, siccome avvenuta nel pieno rispetto della normativa speciale in materia di riscossione esattoriale, ritenendo sul punto inconferente la pronuncia della Suprema Corte di Cassazione n. 17346/2019; 2) la legittimità della cartella di pagamento redatta in conformità al modello ministeriale; 3) la pretestuosità dell’eccezione sul difetto di attestazione di conformità all’originale; 4) sanatoria per raggiungimento dello scopo; 5) nel merito, difetto di legittimazione passiva e richiesta di intervento adesivo dell’Agenzia delle Entrate Direzione Provinciale 1 di Roma; 6) legittimità della cartella esattoriale; 7) legittimità delle somme azionate a titolo di interessi e saggio. Conclude per l’accoglimento dell’appello ed in riforma dell’impugnata sentenza dichiarare la validità e l’esigibilità della stessa. Con vittoria di spese ed onorari del doppio grado di giudizio.
L’atto di appello pur essendo stato regolarmente notificato anche l’Agenzia delle Entrate – Direzione Provinciale 1 di Roma, non risulta costituita in giudizio.
Il sig. (…) si è costituito in giudizio, con proprie controdeduzioni, e contesta i motivi di appello poiché asseritamente infondati e ripropone le eccezioni formulate nel primo grado di giudizio. Preliminarmente eccepisce sull’inammissibilità della richiesta di intervento dell’ente impositore, posto che il giudizio di appello non può che svolgersi nei confronti delle parti già evocate nel primo grado di giudizio. Insiste che la sentenza di prime cure risulta immune dai vizi ascrittigli, avendo fatto corretta applicazione della normativa speciale e dei principi vigenti in tema di esistenza e notificazione di documenti informatici. Ribadisce che per la valida esistenza della notificazione di atti civili, amministrativi e stragiudiziali, come previsti dall’art. 3-bis della L. n. 53 del 1994, può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante, risultante da pubblici elenchi, come statuito anche dalla Suprema Corte con la pronuncia n. 17346/2019. Ripropone l’eccezione di illegittimità della pretesa derivante dal mancato riconoscimento di ritenute d’acconto regolarmente operate dal ricorrente sui compensi (come risulta dalle relative parcelle) ma, presumibilmente, non versate dai sostituti di imposta. Conclude per il rigetto dell’appello e, per l’effetto, confermare la sentenza impugnata. Con vittoria di spese e compensi del doppio grado di giudizio, oltre accessori come per legge.
L’appellante ha replicato con memorie illustrative, in particolare precisa sull’eccezione di inammissibilità della richiesta di intervento dell’ente impositore e in ipotesi di mancato accoglimento debba essere tenuta indenne da qualsiasi conseguenza pregiudizievole. Ribadisce sulla fondatezza dei motivi di appello.
All’odierna trattazione in pubblica udienza le parte costituite illustrano le proprie ragioni, come in atti, e successivamente la causa viene posta in decisione.

Motivi della decisione

Il Collegio, preliminarmente, osserva che è inesistente la notificazione della cartella di pagamento proveniente da un indirizzo di posta elettronica certificata non risultante in nessuno dei pubblici elenchi previsti per legge. In base all’art. 3-bis, L. n. 53 del 1994, la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. In particolare, l’art. 16-ter del D.L. n. 179 del 2012 ha previsto che, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale, si intendono per pubblici elenchi i tre registri: IPA, REGINDE e INI-PEC. Nel caso di specie la notifica proveniva dall’indirizzo “notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it” non risultante, a nome di “Agenzia delle Entrate – riscossione” in nessuno dei citati registri. L’indirizzo da cui è giunta la cartella impugnata non è oggettivamente e con certezza riferibile all’Agenzia delle Entrate Riscossione, non risultando nell’elenco del Reginde (Registro Generale degli Indirizzi Elettronici gestito dal Ministero della Giustizia), né nella pagina ufficiale del sito internet dell’Agenzia Entrate Riscossione, né tantomeno nella pagina della CCIAA (Camera di Commercio di Roma). D’Altro canto, questo Collegio non si vuole discostare dalla recente pronuncia di questa Corte, resa con la sentenza 3514/2022 del 2 agosto 2022, che ha affermato “l’illegittimità della notifica effettuata con spedizione da un indirizzo di PEC (notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it) non risultante da alcun registro pubblico degli indirizzi elettronici IPA, REGINDE o INIPEC”. Precisando, ancora, che “L’art. 16 ter, del D.L. n. 179 del 2012 (convertito in legge, con modifiche, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221), rubricato “pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni”, al comma 1, dispone: “A decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 6-bis, 6-quater e 62 del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, dall’articolo 16, comma 12, del presente decreto, dall’articolo 16, comma 6, del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, nonché il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia” e la notifica Pec si intende validamente effettuata soltanto se effettuata a un indirizzo Pec certificato ed inviato da un indirizzo Pec anch’esso certificato. Anche l’art. 57-bis, del D.Lgs. n. 82 del 2005 (Codice dell’Amministrazione Digitale, ‘CAD’), stabilisce, al comma 1, che “al fine di assicurare la pubblicità dei riferimenti telematici delle pubbliche amministrazioni e dei gestori dei pubblici servizi è istituito l’indice degli indirizzi della pubblica amministrazione e dei gestori di pubblici servizi, nel quale sono indicati gli indirizzi di posta elettronica certificata da utilizzare per le comunicazioni e per lo scambio di informazioni e per l’invio di documenti a tutti gli effetti di legge tra le pubbliche amministrazioni, i gestori di pubblici servizi ed i privati”. Se manca un tale accreditamento, è precluso al contribuente verificare la provenienza del messaggio e, in particolare, la sua attribuibilità alla specifica Amministrazione menzionata come mittente. In altri termini, il Legislatore ha sancito la necessità che l’attività di notifica avvenga mediante l’utilizzo di indirizzi di posta elettronica risultanti dai pubblici elenchi, al fine di assicurare la necessaria certezza sulla provenienza e sulla destinazione dell’atto da notificare e ciò non può valere soltanto rispetto alla parte contribuente. Dunque, nel caso in esame, non può reputarsi valida la notifica effettuata dall’Ufficio avvalendosi di indirizzi non ufficiali, poiché ciò non consente assoluta certezza della provenienza dell’atto impugnato, atta a comprovare l’affidabilità giuridica del contenuto dello stesso, profili che devono invece essere entrambi garantiti, a salvaguardia della pienezza del diritto di difesa del contribuente. Ne consegue l’inesistenza giuridica della consegna informatica dell’atto tributario proveniente da indirizzo formalmente non opponibile al contribuente.
Il vizio della notifica inviata attraverso p.e.c. non ufficiale comporta, quindi, una nullità insanabile, essendo minata proprio la certezza circa la sua provenienza, a fronte dell’oggettiva impossibilità di riferire quell’indirizzo all’AdER, non essendo lo stesso rintracciabile in alcun pubblico elenco ufficiale, conseguendone la sua inesistenza e impossibilità di operare la sanatoria ex art. 156 c.p.c. Quanto sin qui osservato trova conferma anche negli ulteriori arresti della giurisprudenza di questa Commissione (oggi Corte di Giustizia), ex multis CTR Lazio, sentenza n. 915/2022, con cui è stato chiarito che la mancata dimostrazione dell’inserimento della casella di posta elettronica erariale nei registri pubblici rende la notifica della cartella originariamente impugnata inesistente e, come tale, non suscettibile di sanatoria. Atteso che all’inesistenza consegue l’impossibilità di operare la sanatoria, escludendo qualsiasi effetto per raggiungimento dello scopo ex art. 156 c.p.c., perché: “utilizzando un indirizzo pec non certificato e non inserito in pubblici registri, il messaggio di posta elettronica difetta di un requisito indispensabile a tal fine, non consentendo al destinatario di essere messo in condizioni di conoscerne il contenuto, senza correre il rischio di essere attaccato da c.d. “Malware.”
Del resto, in linea con l’indirizzo di legittimità, atteso che la Corte di Cassazione, con la sentenza n. 17346/2019, ha stabilito che la notifica deve essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici registri. Nel caso di specie, il messaggio pec inviato al contribuente risulta proveniente dal dominio “notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it”, del tutto sconosciuto e non presente nei pubblici registri, ove invece quale dominio riferito all’Agenzia delle Entrate Riscossione risulta: “protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it” nel registro IndicePA, valevole in materia tributaria e amministrativa (e pct@pec.agenziariscossione.gov.it nel registro ReGIndE per le notifiche in materia civile). Infatti, la presenza dell’indirizzo del mittente in uno dei pubblici registri, previsti dalla legge, consente al destinatario la riconoscibilità del mittente, garantendo l’identità e la provenienza del messaggio di posta elettronica. Ancora, più recentemente, con l’ordinanza n. 3093/2020, riprendendo la citata sentenza, la Suprema Corte ha confermato il predetto principio, affermando che “La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”.
Passando al merito della controversia, la ripresa a tassazione di una ritenuta fiscale operata alla fonte, in relazione al mancato versamento delle ritenute d’acconto del sostituto d’imposta, non può essere addebitata al sostituito, posto che la Suprema Corte, con la pronuncia resa a Sezioni Unite, n. 10387 del 12/4/2019, ha definitivamente sancito l’assenza di un vincolo di solidarietà, nei confronti del Fisco, tra il sostituto e il sostituito. In particolare i giudici di legittimità hanno ribadito il principio, per cui il professionista non può rispondere per l’omesso versamento delle ritenute d’acconto regolarmente effettuate, essendo il sostituto d’imposta l’unico responsabile di detta obbligazione tributaria. Tale pronuncia rammenta che la sostituzione e la solidarietà nell’imposta sono istituti distinti, che il versamento della ritenuta d’acconto costituisce un’obbligazione autonoma rispetto all’imposta, e che essa grava unicamente sul sostituto e trova la sua causa nel corrispondente obbligo di rivalsa.
In conclusione, assorbita ogni altra istanza, l’appello deve essere rigettato. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte di Giustizia Tributaria di II Grado del Lazio, Sezione 17a, definitivamente pronunciando, rigetta l’appello. Condanna l’appellante alle spese di giudizio che liquida in Euro 1.000,00 oltre accessori di legge, se dovuti.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2022.


Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 05/11/2019) 10/02/2020, n. 3093

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto L. C. G. – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. GHINOY Paola – Consigliere –

Dott. SOLAINI Luca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 34135/2018 proposto da:

T.M., elettivamente domiciliato in Roma, V.le Angelico 38, presso lo studio dell’avvocato Roberto Maiorana, che lo rappresenta e difende in forza di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso la sentenza n. 333/2018 della CORTE D’APPELLO di PERUGIA, depositata il 14/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 05/11/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35, T.M., cittadino del Mali, ha adito il Tribunale di Perugia impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Con ordinanza del 17/2/2017 il Tribunale di Perugia ha rigettato il ricorso, ritenendo la non sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

2. L’atto di citazione in appello proposto dal T., corredato da quattro motivi1è stato dichiarato nullo dalla Corte di appello di Perugia, in difetto di costituzione del Ministero appellato, con sentenza del 14/5/2018, con dichiarazione di irripetibilità delle spese processuali.

La notifica dell’atto di citazione in appello era stata eseguita all’Avvocatura dello Stato di Perugia presso un indirizzo di posta elettronica (perugia.mailcert.avvocaturastato.it) diverso da quello (ads.pg.mailcert.avvocaturastato.it) risultante dal registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della Giustizia (c.d. REGINDE).

Poichè alla prima udienza la difesa dell’appellante, affermando di ritenere valida la notifica effettuata, aveva rifiutato il termine per il rinnovo della notifica al Ministero, la Corte di appello ha ritenuto la notifica nulla perchè ai sensi del D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 17, comma 4 (regolamento emanato in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82 e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito in L. 22 febbraio 2019, n. 24) il sistema informatico dell’UNEP individua l’indirizzo di posta elettronica del destinatario dal registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della Giustizia (REGINDE), con unica regola applicabile in caso di notificazione al difensore della parte.

3. Avverso la predetta sentenza ha proposto ricorso T.M., con atto notificato il 14/11/2018, svolgendo cinque motivi, di cui gli ultimi quattro destinati solamente a riproporre le censure svolte con i quattro motivi di appello non esaminati dalla Corte territoriale, vertenti rispettivamente in tema di erronea valutazione delle dichiarazioni rese alla Commissione Territoriale, di erronea considerazione di inattendibilità delle prove e delle dichiarazioni rese, di mancata concessione della protezione sussidiaria nonostante le attuali condizioni sociopolitiche del Paese di origine e di mancata concessione del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 291 c.p.c. e del R.D. 1611 del 1933, art. 11.

Il ricorrente richiama una pronuncia del Tribunale di Milano e sostiene che la notifica all’Avvocatura doveva ritenersi valida perchè ai fini della validità della notifica a nulla rileva da quale elenco sia stato estratto l’indirizzo p.e.c. utilizzato, purchè si tratti di un elenco pubblico; l’elenco di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 12, non è pubblico ma ristretto alla consultazione di uffici giudiziari, ufficiali giudiziari, avvocati, esecuzioni e protesti; inoltre l’elencazione dei pubblici registri non è esclusiva ma tassativa e fondata sulla pubblica riconducibilità dell’indirizzo al soggetto.

L’esclusività della notificazione a indirizzi contenuti in pubblici elenchi non abroga la domiciliazione presso l’Avvocatura dello Stato ex R.D. n. 1611 del 1933, art. 11, che va ad aggiungersi a quella della L. n. 53 del 1994, ex art. 3 bis.

In ogni caso INI-PEC (acronimo per Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica certificata) non è un mero indirizzario informatico ma un pubblico elenco, tenuto conto di quanto disposto dal D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16 ter, comma 1, convertito in L. 7 dicembre 2012, n. 221 e dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ossia del Codice dell’Amministrazione Digitale, nonchè dell’art. 149 bis c.p.c., commi 1 e 2, nonchè della L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 3 bis, comma 1.

L’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita in giudizio.

Motivi della decisione
1. Il Collegio osserva in linea preliminare che la giurisprudenza di questa Corte appare orientata in senso opposto a quello argomentato dal ricorrente e invece conforme alla decisione impugnata.

E’ stato affermato, sia pur ad altri fini, che in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, secondo le previsioni di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies (convertito con modificazioni in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, convertito con modificazioni in L. n. 114 del 2014), la notificazione dell’atto di appello va eseguita all’indirizzo p.e.c. del difensore costituito risultante dal REGINDE, pur non indicato negli atti dal difensore medesimo, sicchè è nulla la notificazione effettuata – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra anche la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario (Sez. 6, 23/05/2019, n. 14140; Sez. 1, 18/01/2019, n. 1411).

Quanto, più in particolare, ai registri di indirizzi da cui le parti possono estrarre i recapiti di posta elettronica certificata utilizzabili ai fini della notificazione, questa Corte, in tempi recentissimi, ha più volte affermato che l’unico registro à cui occorre far riferimento è il REGINDE. Secondo la pronuncia della Sez. 3, 08/02/2019, n. 3709, il domicilio digitale previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, (convertito, con modifiche, in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, convertito con modifiche in L. n. 114 del 2014), corrisponde all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza e che, per il tramite di quest’ultimo, è inserito nel Registro Generale degli Indirizzi Elettronici (REGINDE) gestito dal Ministero della giustizia. Solo questo indirizzo è qualificato ai fini processuali ed idoneo a garantire l’effettiva difesa, sicchè la notificazione di un atto giudiziario ad un indirizzo p.e.c. riferibile – a seconda dei casi – alla parte personalmente o al difensore, ma diverso da quello inserito nel REGINDE, è nulla, restando del tutto irrilevante la circostanza che detto indirizzo risulti dall’Indice Nazionale degli Indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI -PEC).

La citata pronuncia richiama quali precedenti conformi le decisioni della Sez. 6 del 14/12/2017, n. 30139 e del 25/05/2018, n. 13224: nel primo caso, la notifica dell’atto di appello era stata eseguita presso la cancelleria ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82, senza ricorrere ai recapiti p.e.c. risultanti dai registri INIPEC e REGINDE; nel secondo caso, la notificazione a mezzo p.e.c. era stata eseguita a un indirizzo, diverso da quello risultante dal REGINDE e indicato dalla parte nella sua comparsa di risposta.

La stessa conclusione è stata raggiunta da Sez. 6, 05/04/2019, n. 9562, secondo la quale per i soggetti censiti all’interno del REGINDE l’unico indirizzo utilizzabile ai fini della notificazione è quello inserito in detto registro e non anche quello eventualmente presente in altri registri PEC, anche qualora gli stessi siano annoverati all’interno del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-ter; pertanto, in tema di notificazione a mezzo p.e.c., ai sensi del combinato disposto dell’art. 149 bis c.p.c. e del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter, introdotto dalla Legge di Conversione n. 221 del 2012, l’indirizzo del destinatario al quale va trasmessa la copia informatica dell’atto è, per i soggetti i cui recapiti sono inseriti nel Registro generale degli indirizzi elettronici gestito dal Ministero della giustizia (REGINDE), unicamente quello risultante da tale registro. Ne consegue, ai sensi dell’art. 160 c.p.c., la nullità della notifica eseguita presso un diverso indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario (in quel caso non risulta da quale registro fosse stato estratto l’indirizzo utilizzato e la Corte ha valorizzato quale elemento di non specificità del mezzo di ricorso l’omessa deduzione dell’estrazione dell’indirizzo utilizzato dal REGINDE).

Ancor più recentemente si sono pronunciate, sempre nella stessa direzione, le ordinanze della Sezione 6-1, del 27/9/2019 n. 24110 (ove non risultava da quale registro, diverso dal REGINDE, l’indirizzo utilizzato fosse stato estratto) e della Sezione 6-3, del 27/9/2019 n. 24160, in tema di notifica dell’atto di impugnazione (in cui l’indirizzo utilizzato era stato estratto da INIPEC, ma tale considerazione era stata espressa ad abundantiam rispetto ad una principale concorrente ratio decidendi).

Quest’ultima decisione è stata tuttavia corretta d’ufficio ex art. 391 bis c.p.c., con ordinanza del 15/11/2019 n. 29749 (pubblicata successivamente alla Camera di consiglio del 5/11/2019) che ha eliminato il riferimento, ritenuto erroneo, alla inidoneità oggettiva dell’estrazione dell’indirizzo p.e.c. dai registri INIPEC. La predetta ordinanza di correzione richiama in motivazione il contenuto della sentenza delle Sezioni Unite del 23/9/2018 n. 23620, che ha ritenuto che il D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale”, imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INIPEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il REGINDE di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INIPEC, che nel REGINDE. La sentenza della Sez. 1, 09/01/2019, n. 287 ha invece escluso la rimessione in termine per la parte che ha effettuato la notifica dell’atto processuale ad un indirizzo PEC non presente nel REGINDE; infatti solo ove l’esito negativo del processo notificatorio sia dipeso da un fatto oggettivo ed incolpevole, del quale la parte notificante deve offrire una puntuale e rigorosa dimostrazione, è possibile fissare un ulteriore termine per la notificazione.

1.2. L’ordinanza della Sez. 6-1, del 27/6/2019 n. 13746 ha invece ritenuto che un’analoga questione fosse stata proposta in termini astratti e teorici, privi della necessaria specificità perchè il ricorrente non aveva assunto chiaramente di aver estratto l’indirizzo utilizzato dal Registro INIPEC. Nella specie il ricorrente presuppone tale estrazione nella sua complessiva argomentazione, e l’afferma espressamente a pagina 8 (10-11 rigo, del ricorso).

1.3. Il “domicilio digitale” di cui al D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies e successive modifiche e integrazioni, prevede che, salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6-bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia.

Tale norma richiama anche gli (altri) elenchi di cui all’art. 6 bis e riguarda l’ipotesi specifica in cui la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario: eventualità ora scongiurata dalla disponibilità di un recapito di posta elettronica ut supra.

Il D.L. 18 otto 2012, n. 179, art. 16, comma 12 (modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 19, lett. b) e successivamente dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 47, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114) in tema di “Biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica” ha previsto che al fine di favorire le comunicazioni e notificazioni per via telematica alle pubbliche amministrazioni, le amministrazioni pubbliche di cui al D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2 e successive modificazioni, comunicassero al Ministero della giustizia, con le regole tecniche adottate ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 febbraio 2010, n. 24, entro il 30/11/2014 l’indirizzo di posta elettronica certificata conforme a quanto previsto dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68 e successive modificazioni, a cui ricevere le comunicazioni e notificazioni. L’elenco formato dal Ministero della giustizia è consultabile esclusivamente dagli uffici giudiziari, dagli uffici notificazioni, esecuzioni e protesti, e dagli avvocati.

Tale norma non sancisce espressamente un privilegio di esclusività.

Il D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis (c.d. Codice dell’amministrazione digitale), in tema di “Indice nazionale dei domicili digitali delle imprese e dei professionisti” per favorire la presentazione di istanze, dichiarazioni e dati, nonchè lo scambio di informazioni e documenti tra i soggetti di cui all’art. 2, comma 2 e le imprese e i professionisti in modalità telematica, dispone l’istituzione del pubblico elenco denominato Indice nazionale dei domicilii digitali (INI-PEC) delle imprese e dei professionisti, presso il Ministero per lo sviluppo economico (realizzato a partire dagli elenchi di indirizzi p.e.c. costituiti presso il registro delle imprese e gli ordini o collegi professionali).

Il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16 ter, comma 1 (modificato dal D.L. 24 giugno 2014, n. 90, art. 45-bis, comma 2, lett. a), n. 1) convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114 e successivamente sostituito dal D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217, art. 66, comma 5) in tema di “Pubblici elenchi per notificazioni e comunicazioni” prevede che a decorrere dal 15/12/2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, artt. 6-bis, 6-quater e 62, dall’art. 16, comma 12, dello stesso decreto, dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 16, comma 6, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, nonchè il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia.

L’art. 149 bis c.p.c., comma 2, in tema di “Notificazione a mezzo posta elettronica dispone che se procede ai sensi del comma 1, l’ufficiale giudiziario trasmette copia informatica dell’atto sottoscritta con firma digitale all’indirizzo di posta elettronica certificata del destinatario risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni. Il D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16, comma 2, convertito con modificazioni in L. 17 dicembre 2012, n. 221, ha aggiunto le parole: “o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni”.

La L. 21 gennaio 1994, n. 53, art. 3-bis, dispone che la notificazione con modalità telematica si esegue a mezzo di posta elettronica certificata all’indirizzo risultante da pubblici elenchi, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi.

Sulla base di tali norme il ricorrente sostiene che il Registro INIPEC è un pubblico elenco e nega che la legge privilegi ai fini delle notifiche giudiziarie esclusivamente gli indirizzi contenuti nel REGINDE, come sostenuto dal richiamato orientamento giurisprudenziale.

3. Il contesto normativo e giurisprudenziale illustrato, secondo il Collegio, colora la questione preliminare processuale sollevata dal ricorso di un evidente interesse nomofilattico, che trascende il caso concreto e ne consiglia la trattazione in pubblica udienza.

P.Q.M.
La Corte:

rinvia la trattazione del ricorso alla pubblica udienza.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 5 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2020


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 01/03/2023) 24/03/2023, n. 8463

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1720/2022 proposto da:

A.A., rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO CALDERARO, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PURPLE SPV Srl , quale mandataria di CERVED CREDIT MANAGEMENT Spa , elettivamente domiciliata in ROMA VIA C. POMA 2, presso lo studio dell’avvocato GREGORIO TROILO, e rappresentata difesa dall’avvocato GIUSEPPE CINELLI, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1833/2020 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata l’11/12/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 01/03/2023 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie delle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con ordinanza emessa ex art. 702 bis, in data 09/04/2018 il Tribunale di Agrigento rigettava la domanda di Banca delle Marche Spa in amministrazione straordinaria – creditore procedente nella procedura esecutiva immobiliare n. 175/2013 pendente presso il Tribunale di Agrigento – di accertamento dell’avvenuta accettazione tacita, da parte del debitore esecutato, A.A., dell’eredità della defunta madre B.B., deceduta in (Omissis), tra i cui beni era ricompreso anche il bene pignorato.

Avverso detta ordinanza la Cerved Credit Management Spa quale procuratrice di PURPLE SPV, successore di Banca delle Marche Spa per effetto della cessione dei crediti posti a fondamento della procedura esecutiva, propose appello e, nella contumacia dell’appellato, A.A., la Corte d’Appello di Palermo, con la sentenza n. 1833 dell’11 dicembre 2020, in accoglimento del gravame, ha accertato che il convenuto era divenuto proprietario del bene pignorato, per avere tacitamente accettato l’eredità materna.

Il giudice di appello rilevava che l’accettazione tacita di eredità, che si ha quando il chiamato all’eredità compia un atto che presuppone la sua volontà di accettare e che non avrebbe diritto di compiere se non nella qualità di erede, può desumersi anche dal comportamento del chiamato che abbia posto in essere una serie di atti incompatibili con la volontà di rinunciare o che siano concludenti e significativi della volontà di accettare, sicchè mentre non sono idonei a tale scopo gli atti di natura meramente fiscale, come la denuncia di successione, l’accettazione tacita può evincersi dal compimento di atti che siano al contempo fiscali e civili, come la voltura catastale che nella specie il convenuto aveva posto in essere, quanto ad un bene caduto in successione.

2. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso A.A. sulla base di un motivo.

La Cerved Credit Management, nella qualità di mandataria della Purple SPV Srl , resiste con controricorso.

Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.

3. Con il motivo di ricorso si denuncia la nullità della sentenza e del procedimento di appello, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, per violazione degli artt. 330, 160 e 170 c.p.c., stante la nullità e/o inesistenza della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di appello, deducendosi altresì che il ricorso è proposto oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c., decorrente dalla pubblicazione della sentenza di appello, attesa la qualità di contumace involontario del ricorrente, che ha avuto conoscenza della sentenza della Corte d’Appello solo in data 18/11/2021, quando il proprio difensore nel giudizio di esecuzione immobiliare ha ricevuto comunicazione dell’ordinanza del GE del 15/11/2021, nella quale si faceva menzione della sentenza oggi gravata.

Assume il ricorrente la nullità e/o inesistenza della notifica dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di appello, perchè eseguita ad un indirizzo diverso dal proprio luogo di residenza, e con il quale quest’ultimo non aveva collegamento alcuno al tempo della notifica.

Si rileva che l’atto di citazione in appello è stato notificato presso l’indirizzo di (Omissis), sebbene il ricorrente a decorrere dal 30.09.2008 sia residente in (Omissis), come da certificato storico di residenza.

Per l’effetto, il plico raccomandato contenente la citazione non è stato recapitato ed è stato restituito al mittente per compiuta giacenza. Attesa la nullità e/o inesistenza della detta notifica anche il giudizio di appello e la relativa sentenza sono nulli.

Il motivo è infondato.

Ritiene la Corte che colgano nel segno le argomentazioni difensive spese da parte controricorrente.

La tesi che è a sostegno del ricorso è essenzialmente correlata alla divergenza tra la residenza anagrafica ed il luogo presso cui è stata effettuata la notifica dell’atto di appello, traendosi da tale divergenza la conclusione necessitata della prevalenza della prima, idonea quindi ad inficiare radicalmente la validità della notifica compiuta presso il diverso indirizzo.

Tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte ha reiteratamente affermato che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo dell’effettiva abituale dimora, che è accertabile con ogni mezzo di prova, anche contro le stesse risultanze anagrafiche, assumendo rilevanza esclusiva il luogo ove il destinatario della notifica dimori, di fatto, in via abituale (Cass. n. 19387/2015; Cass. n. 11550/2013).

Pertanto, onde dimostrare la nullità della notifica della citazione, in quanto eseguita in luogo diverso dalla residenza effettiva del destinatario, non costituisce prova idonea la sola produzione di risultanze anagrafiche che indichino una residenza difforme rispetto al luogo in cui è stata effettuata la notifica (Cass. n. 19132/2004), essendosi anzi affermato che (Cass. n. 10107/2014) nell’ipotesi in cui la notifica venga eseguita, nel luogo indicato nell’atto da notificare e nella richiesta di notifica, secondo le forme previste dall’art. 140 c.p.c., è da presumere che in quel luogo si trovi la dimora del destinatario e, qualora quest’ultimo intenda contestare in giudizio tale circostanza al fine di far dichiarare la nullità della notificazione stessa, ha l’onere di fornirne la prova (conf. Cass. n. 15200/2005).

E’ stato altresì specificato che (Cass. n. 26985/2009) la prova contraria, idonea a vincere la presunzione scaturente dalle risultanze anagrafiche, può essere desunta da qualsiasi fonte di convincimento, e quindi anche mediante presunzioni, come quelle desunte dall’indicazione di dimora abituale quale emerge dall’esecuzione del contratto intercorso tra le parti (conf. Cass. n. 17040/2003; Cass. n. 26985/2009; Cass. n. 17021/2015).

Una volta richiamati tali principi, ed avuto riguardo alle puntuali osservazioni svolte in controricorso, emerge che in data anteriore al cambiamento di residenza avvenuto nel (Omissis), come attestato dalla certificazione anagrafica prodotta dal ricorrente, questi risiedeva proprio all’indirizzo ove è stata effettuata la notifica dell’atto di appello.

Ancora risulta che nel 2010, in occasione della sottoscrizione delle fideiussioni, dalle quali è scaturito il credito che poi ha fatto sorgere la procedura esecutiva, cui è funzionale l’accertamento della qualità di erede oggetto del presente giudizio, il A.A. ha indicato come proprio indirizzo quello ove è stato notificato l’appello, sebbene, secondo la certificazione anagrafica prodotta, si fosse trasferito presso il nuovo indirizzo già da due anni.

Ancora, emerge che varie missive, sempre relative al rapporto creditorio oggetto di causa, nonchè la notifica del precetto che ha preceduto l’esecuzione immobiliare, sono state inviate, sempre dopo il mutamento di residenza anagrafica, all’indirizzo in (Omissis), pervenendo nella disponibilità del ricorrente che ha provveduto alla sottoscrizione dei relativi avvisi di ricevimento.

Infine, anche la notifica dell’atto di appello, avvenuta a mezzo posta ai sensi della L. n. 53 del 1994, consente di rilevare dall’avviso di ricevimento, riprodotto in ricorso, come l’ufficiale postale non abbia riferito dell’irreperibilità del destinatario, ma solo della sua temporanea assenza, avendo reperito anche una cassetta postale, evidentemente recante il nominativo del destinatario, nella quale ha immesso l’avviso.

I plurimi e concordanti elementi ora riassunti permettono di affermare che, a dispetto delle risultanze anagrafiche, non possa negarsi come anche l’indirizzo presso cui è stata effettuata la notifica dell’appello avesse un evidente legame con il ricorrente, e che quindi la censura mossa, che si fonda sulla sola asserita prevalenza delle risultanze anagrafiche, non sia idonea ad inficiare la conclusione circa la validità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di secondo grado.

Il ricorso è pertanto rigettato.

4. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

5. Poichè il ricorso è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese che liquida in complessivi Euro 4.300,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi, ed accessori di legge;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 1 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2023


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 01/02/2023) 24/03/2023, n. 8453

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. ZULIANI Andrea – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

Dott. CASCIARO Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso n. 5847-2022 proposto da:

A.A., domiciliato ope legis in ROMA, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dagli avv.ti ZOBOLI LUIGI ALBERTO e MORONI ALESSANDRO;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI (Omissis), in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato ope legis in ROMA, presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avv.ti GIANNINI MARCO e PIZZORNI CRISTINA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 307/2021 della CORTE D’APPELLO DI GENOVA, pubblicata il 23/12/2021 R.G. n. 153/2021;

udita la relazione della causa svolta nell’udienza del 01/02/2023 dal Consigliere Dott. SALVATORE CASCIARO. il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA visto il D.L. n. 28 ottobre 2020 n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020 n. 176, ha depositato conclusioni scritte.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza in data 23 dicembre 2021, la Corte d’appello di Genova respingeva il reclamo proposto da A.A., dipendente del Comune di (Omissis) con funzioni di coordinatrice dei Servizi educativi di prima infanzia (funzionario D5, profilo tecnico), avverso la sentenza del Tribunale di Sanremo, a sua volta reiettiva dell’impugnativa di licenziamento per giusta causa intimato in data (Omissis).

Il licenziamento in parola aveva fatto seguito a una contestazione del (Omissis), relativa a plurime irregolarità nella registrazione della presenza in servizio, e dei relativi orari di entrata e uscita, ritenuta adeguatamente comprovata alla stregua delle risultanze delle indagini della Guardia di finanza che avevano dato luogo anche a un giudizio penale chiusosi poi, per la A.A., con l’assoluzione.

2. Per quanto ancora in discussione, la Corte territoriale, riteneva che l’UPD avesse autonomamente valutato gli atti del procedimento penale, accertando la violazione degli obblighi di attestazione delle presenze, profilo (questo) di rilevanza oggettiva, senza che potesse configurarsi una commistione tra il procedimento disciplinare e quello penale, con violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis comma 4.

Osservava che gli episodi contestati erano in realtà quattro (17 gennaio, 5 febbraio, 11 giugno e 16 settembre 2014), ma aggiungeva che anche uno solo di essi avrebbe potuto valere a giustificare il licenziamento; le condotte addebitate erano rimaste tutte comprovate, e, previa verifica dell’elemento intenzionale o colposo (quest’ultimo “quanto meno” configurabile nella specie), nonchè dell’assenza di scriminanti, il giudice d’appello avrebbe dovuto tener conto del “rigore della norma”, che tipizzava le condotte in esame come atte a giustificare il recesso, misura disciplinare senz’altro adeguata e proporzionata alla gravità delle infrazioni.

3. Non rilevava il fatto che la A.A. potesse non avere tratto benefici economici dalla falsa attestazione degli orari di servizio, atteso che ciò avrebbe potuto riguardare solo alcuni degli episodi descritti e non certo il primo di essi, che era il più grave in considerazione dei ripetuti “tentativi della ricorrente di alterare la realtà dei fatti”, con sicura lesione, anche per tal guisa, dell’elemento fiduciario, qui particolarmente intenso per le “delicate e importanti funzioni” svolte, con espletamento anche all’esterno degli uffici comunali e, dunque, inevitabile difficoltà di controllo da parte datoriale.

4. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza A.A., articolato in cinque motivi, assistiti da memoria, opposti dal Comune di (Omissis) con controricorso.

5. La Procura generale ha rassegnato conclusioni scritte ex D.L. n. 137/2020, art. 23, comma 8 bis, conv. dalla L. n. 176/2000, e ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
1. Preliminarmente, quanto alla produzione della sentenza penale di assoluzione in sede di memoria difensiva ex art. 378 c.p.c., va osservato che il principio secondo cui, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata, con correlativa inopponibilità del divieto di cui all’art. 372 c.p.c., non può trovare applicazione laddove la sentenza passata in giudicato venga invocata, ai sensi dell’art. 654 c.p.p., unicamente al fine di dimostrare l’effettiva sussistenza (o insussistenza) dei fatti. In tali casi il giudicato non assume alcuna valenza enunciativa della “regula iuris” alla quale il giudice civile ha il dovere di conformarsi nel caso concreto, mentre la sua astratta rilevanza potrebbe ravvisarsi soltanto in relazione all’affermazione (o negazione) di meri fatti materiali, ossia a valutazioni di stretto merito non deducibili nel giudizio di legittimità. Ne consegue che va in questi casi ritenuta l’inammissibilità della produzione della sentenza penale, siccome estranea all’ambito previsionale dell’art. 372 c.p.c. (Cass. 27321 del 2021, Cass. 22376 del 2017, Cass. n. 23483 del 2010).

2. Con il primo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis comma 4 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3).

La Corte d’Appello ha ritenuto erroneamente che l’ingerenza indebita di militari della Guardia di finanza – e, dunque, di soggetti estranei all’UPD e non connotati da terzietà – nell’istruttoria disciplinare non costituirebbe violazione di legge, e aveva errato nel trascurare che il fatto costituente addebito disciplinare era stato, con sentenza penale di assoluzione (con formula “per insussistenza del fatto”), ritenuto insussistente.

2.1 Il motivo è infondato.

Il procedimento è stato instaurato, e concluso, dall’UPD competente e la dedotta nullità sarebbe al più seguita ove fosse stato instaurato da soggetto diverso rispetto al già menzionato ufficio (Cass. n. 17357/2019); sicchè, la lamentata partecipazione o l’indebita ingerenza di soggetti estranei non si riflette, come opina la difesa della ricorrente, in termini di nullità.

Aggiungasi, in proposito, che la Corte di merito ha affermato, con valutazione di fatto incensurabile in questa sede, che nella specie l’UPD ha operato con autonoma valutazione della vicenda disciplinare; nè può sostenersi, sotto altro verso, che occorreva attendere l’esito del giudizio penale: secondo principi ormai acquisiti nel pubblico impiego privatizzato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-ter, inserito dal D.Lgs. n. 150 del 2009, ha introdotto la regola generale dell’autonomia del procedimento disciplinare da quello penale, contemplandone la possibilità di sospensione, dunque facoltativa e non obbligatoria, come ipotesi eccezionale, nei casi di illeciti di maggiore gravità, qualora ricorra il requisito della particolare complessità nell’accertamento, restando la P.A. libera di valutare autonomamente gli atti del processo penale e di ritenere che essi forniscano, senza necessità di ulteriori acquisizioni e indagini, elementi sufficienti per la contestazione di illecito disciplinare al proprio dipendente (Cass. n. 8410 del 2018; Cass. n. 29376 del 2018).

La censura è, nel resto, infondata.

Nella specie, la A.A. dà atto che, anche al momento della notifica del ricorso per cassazione, la sentenza della Corte d’appello di Genova non era ancora passata in giudicato (“passerà in giudicato, con ogni probabilità, nel corso del prossimo mese di giugno 2022”, così a a pag. 3 del ricorso), sicchè un problema di applicabilità della disposizione dell’art. 654 c.p.p. neppure si pone.

3. Con il secondo motivo deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3). La Corte d’Appello ha ritenuto provato un addebito in via presuntiva, fondando l’inferenza su fatti e presunzioni non connotati da gravità, precisione e concordanza ed anzi smentiti da prove testimoniali, completamente ignorate. La ricorrente sottopone a un analitico riesame tutte le risultanze dell’istruttoria, assumendo che la Corte le avrebbe travisate.

3.1 Il motivo è inammissibile.

Le Sezioni Unite di questa Corte (Cass., Sez. U, n. 1785/2018) hanno precisato che la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c. si può formulare quando il giudice di merito affermi che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni che non siano gravi, precise e concordanti ovvero fondi la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, e non anche quando la critica si concreti nella diversa ricostruzione delle circostanze fattuali o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica diversa da quella ritenuta applicata dal giudice del merito o senza spiegare i motivi della violazione dei paradigmi della norma (cfr. Cass. n. 9054/2022).

Non può avere ingresso in questa sede il tentativo di prospettare una diversa ricostruzione dei fatti e/o di sottoporre a revisione le risultanze istruttorie, atteso che, così facendo, le doglianze, sotto l’apparente deduzione di una violazione di legge per violazione dei principi che sovrintendono alla prova per presunzioni, si rivelano più che altro finalizzate a un riesame del merito, chiaramente precluso in questa sede (Cass. n. 6960/2020).

4. Con il terzo motivo si deduce violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) il motivo contesta la sussunzione nelle norme in rubrica di tre episodi. Quello del 5 febbraio 2014 in relazione al quale la Corte d’appello ha erroneamente affermato che non rilevasse accertare se la condotta sia stata colposa o dolosa. In realtà il fatto che la dipendente avesse avvertito il proprio dirigente del rientro anticipato a casa escluderebbe il dolo. Quello dell’11 giugno 2014 che non poteva essere sussunto nella fattispecie legale perchè connotato da assenza di danno per l’amministrazione e da mera colpa. Ed infine, quello de 16 settembre 2014 dove la Corte d’appello ha sussunto nella fattispecie legale un allontanamento estraneo all’orario di lavoro della ricorrente.

4.1 Il terzo motivo è inammissibile anzitutto per carenza di interesse.

Esso infatti censura le valutazioni del giudice d’appello in relazione a tre episodi: 5 febbraio 2014, 11 giugno 2014, 16 settembre 2014, non anche in riferimento a quello del 17.1.2014, peraltro ritenuto dal giudice d’appello come di maggiore gravità; eppure la Corte di merito, con passaggio argomentativo (si noti) non specificamente censurato e idoneo a sorreggere la motivazione, aveva rilevato in sentenza come comunque “anche un solo episodio di falsa attestazione delle presenze può valere a determinare il licenziamento”. Il motivo è comunque infondato per l’accertamento puntuale, contenuto nella sentenza impugnata, delle condotte contestate e l’assenza di circostanze scriminanti.

5. Con il quarto motivo denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) per avere la sentenza impugnata ritenuto proporzionato il licenziamento, senza considerare che l’accertata presenza di un elemento soggettivo connotato da mera colpa, unitamente agli altri elementi emersi in causa, avrebbe dovuto portare a concludere per una valutazione di segno opposto.

5.1 La censura, là dove è formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 non è conforme al testo dell’art. 360 c.p.c. n. 5 come novellato del D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, ed inoltre incontra l’ulteriore sbarramento della “doppia conforme” ai sensi dell’art. 348 ter, comma 5, c.p.c., norma introdotta dal medesimo D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 1, lett. a) e applicabile ai giudizi di appello instaurati, come nella specie, dopo il trentesimo giorno successivo alla entrata in vigore della medesima legge.

6. Con il quinto mezzo lamenta violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2106 c.c. e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) si censura l’incoerenza della decisione in relazione “agli standards conformi ai valori dell’ordinamento” perchè la Corte di merito non avrebbe compiutamente valutato i fatti nella loro componente oggettiva e soggettiva che ne sminuiva la gravità.

6.1 Anche tale critica va disattesa.

Non risponde al vero che la Corte territoriale non abbia valutato la gravità della condotta, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi. Si deve qui ribadire che, anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare (Cass. n. 1351/2016, Cass. n. 18326/2016, Cass. n. 18858/2016, Cass. n. 24574/2016), perchè della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali.

Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che la privazione di una valutazione di graduazione della sanzione in riferimento al caso concreto vulnera i principi della tutela del lavoro (Cost., artt. 4 e 35), del buon andamento amministrativo (Cost., art. 97) e quelli fondamentali di ragionevolezza (i.e., art. 3 Cost., cfr. Corte Cost. n. 971/1988 e Corte Cost. n. 706/1996 in materia di destituzione di diritto; Corte Cost. n. 170/2015 in materia di trasferimento obbligatorio in caso di violazione di specifici doveri da parte dei magistrati).

E’ stato, però, evidenziato anche, in relazione all’assenza ingiustificata, che “la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a scriminante della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa” (Cass. n. 18326/2016).

Nel caso di specie, la Corte territoriale, dopo avere escluso, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, la fondatezza delle giustificazioni fornite dalla A.A., ha anche evidenziato che l’addebito contestato, per la sussistenza dell’elemento soggettivo (“quanto meno della colpa”) e per la sua gravità, era idoneo a integrare una giusta causa di licenziamento, non solo sulla base della previsione normativa, ma anche “per le delicate e importanti funzioni svolte dalla A.A.”, per il fatto che il suo servizio “si svolgeva in maniera rilevante all’esterno con minor possibilità di controllo del Comune”, vuoi per l’irrilevanza, in riferimento ad alcuni episodi, dell’assenza di benefici economici collegati alla falsa attestazione. La pronuncia risulta, pertanto, rispettosa del principio di diritto sopra enunciato.

7. Conclusivamente, alla stregua dei rilievi suesposti, il ricorso è da rigettare, con addebito alla parte soccombente delle spese processuali ex art. 91 c.p.c., liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro Euro. 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 1 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 24 marzo 2023

 


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 17/03/2023) 22/03/2023, n. 8201

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. CANDIA Ugo – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. PEPE Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15350-2018 proposto da:

RISCOSSIONE SICILIA Spa , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’Avvocato GIANCARLO GRECO giusta procura speciale agli atti;

– ricorrente –

contro

A.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 228/3/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della SICILIA, depositata il 17/1/2018, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 17/3/2023 – tenutasi in modalità da remoto previo decreto di autorizzazione del Presidente del Collegio – dal Consigliere Relatore Dott.ssa ANTONELLA DELL’ORFANO.

Svolgimento del processo
la Commissione tributaria regionale della Sicilia, con la sentenza indicata in epigrafe, accoglieva l’appello di A.A. avverso la pronuncia n. 4595/2014 della Commissione tributaria provinciale di Palermo con cui era stato respinto il ricorso proposto avverso intimazione di pagamento e relative cartelle esattoriali ad essa sottesa;

avverso la pronuncia della Commissione tributaria regionale Riscossione Sicilia Spa propone ricorso per cassazione, affidato a due motivi;

A.A. è rimasto intimato.

Motivi della decisione
1.2. con il primo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione del D.Lgs. n. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 56 e dell’art. 2719 c.c. e lamenta che la Commissione tributaria regionale abbia erroneamente richiesto la produzione degli originali delle relate di notifica degli atti impugnati, pur non avendo il contribuente mai provveduto a disconoscere la conformità della documentazione prodotta in copia;

1.3. con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione del D.P.R. n. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, seconda parte, e lamenta che la Commissione tributaria regionale abbia erroneamente affermato che, sulla base della citata norma, l’ente di riscossione abbia l’onere di esibire copia conforme della cartella impugnata “allorquando il contribuente ne richieda la copia”;

2.1. le doglianze, da esaminare congiuntamente, sono fondate;

2.2. in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, la prova del perfezionamento del procedimento di notifica e della relativa data è assolta, infatti, mediante la produzione della relazione di notificazione o dell’avviso di ricevimento, recanti il numero identificativo della cartella, non essendo necessaria la produzione in giudizio della copia della cartella stessa (cfr. Cass. 21/7/20121 n. 20769, Cass. 11/10/2018, n. 25292, Cass. n. 11/10/2017, n. 23902);

2.3. in tema di notifica della cartella esattoriale ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, ai fini della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio non è necessaria, dunque, la produzione in giudizio dell’originale o della copia autentica della cartella, essendo altresì sufficiente la produzione della matrice o della copia della cartella con la relativa relazione di notifica;

2.4. nel caso di specie, la Commissione tributaria regionale dà conto dell’avvenuta produzione, da parte dell’agente della riscossione, delle copie fotostatiche delle relate di notifica degli atti impugnati dal contribuente, e dei relativi estratti di ruolo, e la conformità delle copie agli originali non risulta essere stata posta in discussione da quest’ultimo in sede di appello (ritualmente trascritto nel ricorso);

2.5. l’estratto di ruolo, inoltre, è l’equipollente della matrice, in quanto è la fedele riproduzione della parte del ruolo relativa alla o alle pretese creditorie azionate verso il debitore con la cartella esattoriale, che contiene tutti gli elementi essenziali per identificare la persona del debitore, la causa e l’ammontare della pretesa creditoria (cfr. Cass. 14/6/2019, n. 16121, Cass. 24/4/2018, n. 33563, Cass. 11/10/2017, n. 23902);

3. i motivi in esame devono essere dunque accolti e la sentenza deve essere cassata;

4. atteso che nell’originario ricorso il contribuente aveva impugnato l’intimazione di pagamento e le cartelle unicamente facendo valere l’omessa notifica di queste ultime, la causa può essere decisa nel merito con rigetto dell’originario ricorso;

5. le spese del merito devono essere compensate in ragione dell’evolversi della vicenda processuale mentre le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta l’originario ricorso del contribuente; compensa le spese dei gradi di merito; condanna il contribuente a rifondere alla ricorrente le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.800,00 per compensi, oltre spese forfetarie, accessori di legge ed oltre Euro 200,00 per esborsi.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, tenutasi in modalità da remoto, della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, il 17 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 22 marzo 2023


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 24/02/2023) 20/03/2023, n. 7994

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – rel. Consigliere –

Dott. LUME Federico – Consigliere –

Dott. ANGARANO Rosanna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

A.A., rappresentata e difesa, giusta procura speciale stesa in calce al ricorso, dagli Avv.ti Gianfilippo Elti di Rodeano e Andrea Recchi, che hanno indicato recapito PEC, avendo la ricorrente dichiarato domicilio presso lo studio del primo difensore, alla via Paolo Emilio n. 28 in Roma;

– ricorrente –

Contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– controricorrente –

E Contro

Equitalia Sud Spa , in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 2949, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio il 20.5.2015, e pubblicata il 25.5.2015; ascoltata la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio.

la Corte osserva.

Svolgimento del processo
1. L’Incaricato per la riscossione, Equitalia Sud Spa , notificava in data 12.5.2011 a A.A. la cartella di pagamento n. (Omissis) (Omissis) per l’importo di Euro 89.859,03, recante l’iscrizione a ruolo a titolo definitivo degli avvisi di accertamento n. (Omissis), avente ad oggetto Irpef ed accessori in relazione all’anno 2004, e n. (Omissis), avente ad oggetto Irpef ed accessori con riferimento all’anno 2005, dichiaratamente notificati in data 30.12.2009.

2. L’odierna ricorrente impugnava la cartella esattoriale innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, contestando l’inefficacia dell’atto impugnato a causa dell’insussistenza del diritto dell’Ufficio a richiedere il pagamento di somme afferenti al tributo dell’Irpef, in riferimento agli anni 2004 e 2005, senza aver preliminarmente provveduto a notificare correttamente i prodromici avvisi di accertamento, peraltro non essendo da lei dovuta la somma richiesta. La contribuente comunque domandava, se del caso, di ridurre la pretesa di pagamento alla somma effettivamente dovuta. La CTP dichiarava inammissibile il ricorso proposto dalla contribuente, ritenendo che gli atti impositivi fossero stati regolarmente notificati.

3. A.A. spiegava appello avverso la decisione sfavorevole conseguita in primo grado, innanzi alla Commissione Tributaria Regionale di Roma. La CTR rigettava l’impugnativa introdotta dalla contribuente e confermava la decisione assunta dalla CTP. 4. Avverso la pronuncia della CTR di Roma ha proposto ricorso per cassazione A.A., affidandosi a due motivi di impugnazione.

Resiste mediante controricorso l’Agenzia delle Entrate. Equitalia Sud Spa ha ricevuto la notificazione del ricorso in data 31.12.2015, ma non si è costituita nel giudizio di legittimità.

Motivi della decisione
1. Con il suo primo motivo di ricorso, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la contribuente contesta la violazione dell’art. 140 cod. proc. civ, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, in cui è incorsa la CTR nell’aver erroneamente applicato le regole legali in materia di adempimenti necessari per il perfezionarsi della notifica a soggetti irreperibili.

2. Mediante il secondo strumento d’impugnazione, introdotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, la ricorrente contesta l’omesso esame dell’eccezione circa la mancata ricerca da parte dell’Ufficiale notificatore di persone idonee alla ricezione della notifica ai sensi dell’art. 139 c.p.c., e di richiesta di informazioni sull’eventuale trasferimento del contribuente.

3. Con il primo mezzo di impugnazione la ricorrente censura la violazione di legge in cui ritiene essere incorso il giudice del gravame, per non aver correttamente applicato il combinato disposto dagli artt. 140 c.p.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, 60, in ordine agli adempimenti relativi al procedimento di notificazione dei prodromici avvisi di accertamento in esame.

3.1. Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 prevede che, in caso di irreperibilità del destinatario della notifica, non è applicabile l’art. 143 c.p.c., espressamente escluso dalla disposizione di cui alla lett. f) della norma, che non esclude, però, la necessità che si provveda agli adempimenti di cui all’art. 140 c.p.c..

Il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), offre comunque delle indicazioni specifiche sulla modalità di compimento del processo di notificazione di un atto tributario al contribuente irreperibile, e detta “e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione”.

Siamo pertanto in presenza di un procedimento notificatorio che segue regole sue proprie e, (soltanto) per quanto non specificamente disciplinato, si svolge in applicazione delle previsioni di cui all’art. 140 c.p.c. ed alle norme dallo stesso richiamate, con particolare riferimento all’art. 139 c.p.c. ed alle ricerche del destinatario previste dalla disposizione.

3.2. La disciplina della notifica prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, prevede comunque deroghe significative rispetto alla disciplina prevista dall’art. 140 del codice di rito. Ai sensi della disciplina ordinaria, risultando irreperibile il destinatario, l’atto da notificare è depositato presso la casa comunale, con affissione di avviso, in busta chiusa e sigillata, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e deve essergli data notizia mediante raccomandata con avviso di ricevimento. Ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), invece, l’avviso del deposito, sempre in busta chiusa e sigillata, non si affigge alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, bensì presso la casa comunale, e non è previsto l’invio della raccomandata informativa.

3.2.1. Tanto premesso il giudice del gravame ha osservato che “Nella fattispecie il Collegio evidenzia che l’Ufficio ha dimostrato l’intervenuta e regolare notifica degli atti sottesi alla cartella. Nel caso di effettuazione della notifica a soggetti assolutamente irreperibili il D.P.R. n. 600/73, art. 60, comma 1, lett. e) dispone che l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c. in busta chiusa e sigillata si affigge all’albo del comune e la notificazione si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello dell’affissione.

Pertanto, il provvedimento notificatorio si è concluso per compiuta giacenza non avendo il destinatario curato il ritiro.

Ritiene che la cartella di pagamento risulta ritualmente notificata” (sent. CTR, p. 4).

3.3. Dunque, pur dando atto la CTR che la questione relativa agli adempimenti necessari per la corretta notificazione degli avvisi di accertamento è risultata controversa sin dal primo grado del giudizio, il giudice dell’appello limita la sua analisi all’affissione dell’atto presso la casa comunale.

4. La pronuncia del giudice del gravame è sottoposta a specifica censura sul punto, perchè la ricorrente, richiamando plurima giurisprudenza di legittimità, evidenzia che “la notificazione ai sensi dell’art. 60, lett. e), è valida soltanto se non sia effettivamente possibile reperire l’abitazione, l’ufficio o l’azienda del contribuente nel comune ove il medesimo ha il domicilio fiscale, malgrado le ricerche del messo notificatore, sempre che queste, secondo giudizio insindacabile in sede di legittimità, siano state sufficienti… l’unica parte redatta e sottoscritta dall’ufficiale postale… è quella relativa alla cartolina dalla quale risulta la mancata consegna per ‘irreperibilità’ non meglio precisata… nulla riferisce l’Ufficiale Postale in ordine alle motivazioni dell’irreperibilità nè delle cause per le quali non sia stata eseguita la consegna sul perchè il destinatario o altro possibile consegnatario non è stato rinvenuto in detto indirizzo… Alcuna attività ai sensi dell’art. 140 c.p.c. risulta effettuata dall’Ufficiale notificatore…” (ric., p. 7).5. Può allora ricordarsi come questa Corte regolatrice abbia già avuto modo di statuire che “la notificazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e) è ritualmente eseguita solo nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente. Solo in questi casi la notificazione è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune” (evidenza aggiuta), Cass. sez. V, 12.2.2020, n. 3378. Non si è del resto mancato di chiarire, ancor più specificamente con riferimento alla vicenda processuale in esame, che “la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata ex D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), quando il notificatore non reperisca il contribuente perchè trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale” (evidenza aggiunta), Cass. sez. V, 15.3.2017, n. 6788.Non si è attenuta a questi principi la impugnata CTR, ed il primo motivo di ricorso introdotto dalla contribuente deve essere pertanto accolto, cassandosi la decisione impugnata, con rinvio innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio. Il secondo strumento di impugnazione rimane assorbito.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso proposto da A.A., assorbito il secondo, cassa la decisione impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia innanzi alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado del Lazio perchè, in diversa composizione, proceda a nuovo giudizio nel rispetto dei principi esposti, e provveda anche a regolare le spese di lite del giudizio di legittimità tra le parti.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2023.

Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2023