Corte cost., (ud. 20-11-2002) 26-11-2002, n. 477

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 149 del codice di procedura civile e 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), promosso con ordinanza del 2 febbraio 2002 dalla Corte di Cassazione sul ricorso proposto da Rizzacasa Giovambattista contro ENEL S.p.a., iscritta al n. 134 del registro ordinanze 2002 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2002.

Visto l’atto di costituzione di Rizzacasa Giovambattista;

udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2002 il Giudice relatore Annibale Marini;

udito l’avvocato Claudio Chiola per Rizzacasa Giovambattista.

Svolgimento del processo
1.- La Corte di Cassazione, con ordinanza depositata il 2 febbraio 2002, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), «richiamato implicitamente dall’art. 149 c.p.c., nella parte in cui fa decorrere la notifica dell’atto da notificare dalla data della consegna del plico al destinatario, anziché dalla data della spedizione».

Il medesimo giudice aveva precedentemente sollevato, nei termini di cui sopra e nel corso dello stesso procedimento, questione di legittimità costituzionale dell’art. 149 del codice di procedura civile come interpretato dalla giurisprudenza «nel silenzio del dettato normativo». Questione dichiarata manifestamente inammissibile, con ordinanza n. 322 del 2001, non avendo la Corte rimettente «assolto l’onere di verificare, prima di sollevare la questione di costituzionalità, la concreta possibilità di attribuire alla norma denunciata un significato diverso da quello censurato e tale da superare i prospettati dubbi di legittimità costituzionale».

Il giudice a quo precisa ora che l’art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982, nel disporre che «l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’eseguita notificazione», non lascerebbe spazi interpretativi e non consentirebbe, dunque, soluzioni ermeneutiche diverse da quella, costituente diritto vivente, secondo la quale gli effetti della notificazione a mezzo posta si produrrebbero, anche per il notificante, solo con la consegna del plico al destinatario da parte dell’agente postale.

Sulla base di tale premessa, il rimettente assume che la disciplina censurata sarebbe lesiva dell’art. 24 della Costituzione in quanto ostacolerebbe, fino a vanificarlo sostanzialmente, l’esercizio del diritto di impugnazione a chi, risiedendo in luogo diverso da quello in cui deve essere eseguita la notificazione, si avvalga della notificazione a mezzo posta, adempiendo tempestivamente alle formalità previste dall’art. 149 del codice di procedura civile e dalla legge n. 890 del 1982, ma «restando nondimeno esposto alla disorganizzazione di Uffici pubblici, quali quelli postali che sono soltanto strumenti ausiliari dell’Amministrazione della Giustizia».

Le norme impugnate – ad avviso del medesimo rimettente – non esprimerebbero, d’altro canto, una regola generale dell’ordinamento, considerato che la notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 del codice di procedura civile si perfezionerebbe, invece, alla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento, così come sarebbe del resto previsto per la notificazione dei ricorsi amministrativi e per le notificazioni eseguite nell’ambito del contenzioso tributario.

Il ricorso al servizio postale in materia di notificazioni di atti giudiziari risulterebbe, dunque, diversamente disciplinato in relazione a fattispecie analoghe, escludendosi solo in alcuni casi, e non in altri, l’esposizione della parte notificante al rischio del disservizio postale. Con conseguente violazione del principio di eguaglianza garantito dall’art. 3 della Costituzione.

2.- Si è costituito in giudizio Giovambattista Rizzacasa, ricorrente nel giudizio a quo, il quale preliminarmente sottolinea la sicura ammissibilità della questione in quanto sostanzialmente diversa da quella dichiarata manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 322 del 2001.

Nel merito, secondo la parte privata, verrebbero nella specie in considerazione due distinte esigenze: quella di assicurare la certezza del diritto, per cui l’impugnativa dovrebbe essere esercitata entro precisi limiti temporali, e quella di garantire il diritto di difesa del destinatario dell’atto notificato.

La prima delle due esigenze – secondo la stessa parte – potrebbe essere adeguatamente soddisfatta facendo riferimento alla data di presentazione del ricorso all’ufficiale giudiziario per la notifica, mentre solo ai fini della seconda occorrerebbe avere riguardo al momento della effettiva consegna dell’atto al destinatario.

Siffatta distinzione sarebbe, d’altro canto, ben presente nella giurisprudenza di questa Corte, così come il principio secondo cui gli effetti derivanti dall’operato della pubblica amministrazione non possono risolversi nella menomazione del diritto di difesa della parte incolpevole.

Se si volesse, poi, richiamare, in contrapposizione al diritto di difesa del notificante, l’interesse generale alla certezza dei rapporti giuridici, dovrebbe allora considerarsi – ad avviso sempre della parte privata – che il principio di ragionevole durata del processo, di cui al novellato art. 111 della Costituzione, impone di disciplinare le cadenze temporali del processo stesso in modo da consentire l’agevole esercizio del diritto di difesa.

Il sacrificio del diritto di difesa a favore della rapidità del processo potrebbe, dunque, essere giustificato solamente in conseguenza di condotte omissive della parte processuale e non già in relazione a ritardi od omissioni riferibili all’operato della pubblica amministrazione, cui il cittadino-attore sia obbligato a rivolgersi.

La disciplina dettata dall’art. 140 del codice di procedura civile e quella relativa alle notifiche in materia di ricorsi amministrativi e nell’ambito del contenzioso tributario costituirebbero poi – sempre secondo la parte privata – adeguati termini di comparazione ai fini del giudizio di legittimità costituzionale sotto il profilo della violazione del principio di eguaglianza.

Conclude dunque la parte per l’accoglimento della questione «e, in subordine, per l’adozione di una sentenza interpretativa del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c. e dell’art. 4 della L. n. 890/92 (recte: legge 890/82) che consenta un’adeguata tutela del diritto di difesa, affermando che lo scopo della notifica per posta è legittimamente raggiunto nel momento in cui vengono realizzati gli adempimenti formali gravanti sulla parte intimante».

Motivi della decisione
1.- La Corte di Cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 149 del codice di procedura civile e 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui dispongono che gli effetti della notificazione a mezzo posta decorrono, anche per il notificante, dalla data di consegna del plico al destinatario anziché dalla data della spedizione.

Tale disposizione si porrebbe in contrasto sia con la garanzia costituzionale del diritto di difesa, in quanto esporrebbe il notificante, pur incolpevole, al rischio del disservizio postale, sia con il principio di eguaglianza, in quanto – in materia di notificazioni di atti giudiziari o di ricorsi amministrativi – altre norme dell’ordinamento attribuirebbero invece rilevanza esclusiva alla data di spedizione dell’atto.

2.- In via preliminare, va affermata la proponibilità della presente questione di costituzionalità, in quanto essenzialmente diversa, sia sotto l’aspetto normativo che argomentativo, da quella proposta nello stesso giudizio e dichiarata da questa Corte manifestamente inammissibile con l’ordinanza n. 322 del 2001.

La questione in esame, infatti, oltre ad avere un oggetto solo parzialmente coincidente con quello della precedente (con la quale veniva impugnato il solo art. 149 del codice di procedura civile), si fonda sulla premessa della impossibilità di una diversa opzione interpretativa e non risulta, dunque, come l’altra, censurabile sotto il profilo della mancata ricerca di una interpretazione alternativa rispetto a quella sospettata di illegittimità costituzionale.

3.- Nel merito la questione è fondata.

3.1.- Il rimettente muove dalla premessa secondo la quale l’inequivoco tenore testuale dell’art. 4, comma terzo, della legge n. 890 del 1982 non consentirebbe interpretazione diversa da quella del perfezionamento della notificazione, anche per il notificante, alla data di ricezione del plico da parte del destinatario. Tale premessa – pur opinabile nei termini assoluti in cui è formulata, come del resto dimostra la rimessione della predetta questione interpretativa alle Sezioni unite da parte di altra sezione della stessa Corte di Cassazione – è, peraltro, conforme ad un orientamento da tempo consolidato del giudice di legittimità e tale, dunque, da poter essere senz’altro assunto a base della presente decisione.

3.2.- Questa Corte ha avuto modo di affermare, in tema di notificazioni all’estero, che gli artt. 3 e 24 della Costituzione impongono che «le garanzie di conoscibilità dell’atto, da parte del destinatario, si coordinino con l’interesse del notificante a non vedersi addebitato l’esito intempestivo di un procedimento notificatorio parzialmente sottratto ai suoi poteri di impulso» ed ha, altresì, individuato come soluzione costituzionalmente obbligata della questione sottoposta al suo esame quella desumibile dal «principio della sufficienza […] del compimento delle sole formalità che non sfuggono alla disponibilità del notificante» (sentenza n. 69 del 1994).

Principio questo che, per la sua portata generale, non può non riferirsi ad ogni tipo di notificazione e dunque anche alle notificazioni a mezzo posta, essendo palesemente irragionevole, oltre che lesivo del diritto di difesa del notificante, che un effetto di decadenza possa discendere – come nel caso di specie – dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile non al medesimo notificante, ma a soggetti diversi (l’ufficiale giudiziario e l’agente postale) e che, perciò, resta del tutto estranea alla sfera di disponibilità del primo.

In ossequio ai richiamati principi costituzionali, gli effetti della notificazione a mezzo posta devono, dunque, essere ricollegati – per quanto riguarda il notificante – al solo compimento delle formalità a lui direttamente imposte dalla legge, ossia alla consegna dell’atto da notificare all’ufficiale giudiziario, essendo la successiva attività di quest’ultimo e dei suoi ausiliari (quale appunto l’agente postale) sottratta in toto al controllo ed alla sfera di disponibilità del notificante medesimo.

Resta naturalmente fermo, per il destinatario, il principio del perfezionamento della notificazione solo alla data di ricezione dell’atto, attestata dall’avviso di ricevimento, con la conseguente decorrenza da quella stessa data di qualsiasi termine imposto al destinatario medesimo. Ed è appena il caso di sottolineare, al riguardo, che la possibilità di una scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio risulta affermata dalla stessa legge n. 890 del 1982, laddove all’art. 8 prevede, secondo l’interpretazione vigente, che, nel caso di assenza del destinatario e di mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere il piego, la notificazione si perfezioni per il notificante alla data di deposito del piego presso l’ufficio postale e, per il destinatario, al momento del ritiro del piego stesso ovvero alla scadenza del termine di compiuta giacenza. Confermandosi in tal modo la necessità che le norme impugnate siano dichiarate costituzionalmente illegittime nella parte in cui prevedono che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché alla data, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 del codice di procedura civile e dell’art. 4, comma terzo, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che la notificazione si perfeziona, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella, antecedente, di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 novembre 2002.


Cass. civ. Sez. I, 07-06-2002, n. 8287

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Vincenzo PROTO – Presidente –

Dott. Ugo VITRONE – Consigliere –

Dott. Donato PLENTEDA – Consigliere –

Dott. Mario Rosario MORELLI – Consigliere –

Dott. Massimo BONOMO – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

CIMMINO STEFANO, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE ANGELICO 193, presso l’avvocato FRANCO IADANZA, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

DAMA ROSANNA, nella qualità di Curatore speciale del minore CIMMINO ANDREA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA NOMENTANA 257, presso l’avvocato GIANFRANCO DOSI, rappresentata e difesa da se medesima;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 331/01 della Corte d’Appello di NAPOLI SEZIONE MINORI, depositata il 12/02/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2001 dal Consigliere Dott. Massimo BONOMO;

udito per il resistente, l’Avvocato Dama, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Francesco MELE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il 16 febbraio 1990 l’avv. Rosanna Dama, nominata dal Tribunale per i minorenni di Napoli curatore speciale del minore Andrea Cimmino, nato l’11 agosto 1986, convenne in giudizio Stefano Cimmino, impugnando, per difetto di veridicità, il riconoscimento di figlio naturale compiuto dallo stesso Cimmino nei confronti del detto minore.

Si costituì e resistette il Cimmino.

Disposta consulenza tecnica immunoematologicacitogenetica sul DNA, non espletata per rifiuto del convenuto a sottoporsi al prelievo, il Tribunale, con sentenza in data 13 marzo- 31 marzo 1998, accolse la domanda e conseguentemente dichiarò non veridico il riconoscimento del minore Andrea compiuto da Stefano Cimmino, disponendo le relative annotazioni e condannando il convenuto al pagamento delle spese di lite.

Notificata la sentenza in data 27 maggio 1998, il Cimmino ne ha chiesto la totale riforma, appellandola con atto notificato il 25 giugno 1998 al p.m. presso il Tribunale di Napoli, ma non notificato all’avv. Rosanna Dama, risultata. il 25 maggio 2000, sloggiata da anni al domicilio i via Martucci n. 35.

Nell’udienza del 27 ottobre 1998, l’istruttore ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti del curatore speciale dell’attore e il relativo atto è stato notificato il 2 dicembre 1998. Il curatore speciale, avv. Dama, si è costituta e ha chiesto il rigetto dell’appello, sia perché inammissibile per tardività, sia perché infondato nel merito.

Con sentenza del 24 gennaio – 12 febbraio 2001, la Corte d’Appello di Napoli dichiarava inammissibile l’appello condannando l’appellante al pagamento delle spese di quel grado di giudizio. Osservava la Corte territoriale, in particolare:

a) che l’impugnazione nei confronti del curatore speciale del minore era stata proposta oltre il termine di cui all’art. 325 c.p.c.;

b) che il p.m. presso il giudice “a quo”, cui era stata tempestivamente notificata l’impugnazione, non era parte del giudizio sicché non avrebbe potuto essere integrato il contraddittorio nei confronti del curatore speciale;

c) che era irrilevante la notifica con esito negativo presso il domicilio dichiarato nel giudizio “a quo”.

Avverso la sentenza d’appello Stefano Cimmino ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati con memoria.

Il curatore speciale del minore ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
1) Eccepisce il ricorrente con la memoria che il controricorso sarebbe inammissibile perché esso non è stato notificato presso il domicilio eletto in Roma, ma presso lo studio in Napoli, senza che assuma rilievo il tentativo di notifica per posta effettuato senza successo al domicilio in Roma.

2) L’eccezione è fondata nei termini appresso precisati.

La notifica a mezzo posta del controricorso al domicilio del ricorrente in Roma, con spedizione in data 23 maggio 2001, non ha avuto successo perché il destinatario è risultato sconosciuto all’ufficiale giudiziario su citofoni e cassette.

Il ricorso è stato poi notificato il 31 maggio 2001 presso lo studio del difensore domiciliatario a Napoli.

Ora, a prescindere dalle questioni della validità o meno di tale ultima notifica ovvero, in caso di nullità, della eventuale sanatoria, è assorbente la considerazione che la notifica è comunque tardiva, poiché la notifica del controricorso avrebbe dovuto essere effettuata entro mercoledì 30 maggio 2001 (e cioè, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso, nella specie giovedì 10 maggio 2001, atteso che il ricorso era stato notificato il 20 aprile).

Pure tardivo risulta il tentativo di notifica del controricorso al ricorrente presso la cancelleria della Corte di Cassazione con spedizione per posta il 1 giugno 2001.

Il controricorso è quindi inammissibile.

3) Con il primo mezzo d’impugnazione il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 330, 141, 121, 331, 325, 184-bis, 294 e 359 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

In data 27 maggio 1998 l’avv. Rosanna Dama, nella qualità di curatore speciale del minore Andrea Cimmino, aveva notificato al procuratore costituito dell’attuale ricorrente copia autentica della sentenza di primo grado nella quale (vedasi frontespizio) era indicato, quale domicilio eletto, lo studio sito in Napoli alla via Martucci n. 35. Tale atto, proveniente dalla parte, oltre ad essere cronologicamente posteriore a tutti i documenti dai quali – a detta della Corte d’Appello – si sarebbe dovuto evincere il cambio di domicilio, non recava alcun timbro (dal quale ricavare l’eventuale differente indirizzo) né tanto meno una specifica indicazione in tal senso, ad opera del procuratore notificante.

Il Cimmino, pertanto, il 25 giugno 1998, un giorno prima della scadenza del termine per l’impugnazione aveva notificato correttamente l’appello presso il domicilio indicato in sentenza, ovvero in via Martucci n. 35. Solo al ritiro dell’atto, a termini ormai scaduti, aveva appreso che da tempo l’avv. Dama aveva trasferito il proprio studio altrove.

L’indicazione di uno specifico domicilio nella sentenza notificata dalla parte era apparsa come un’implicita dichiarazione di domicilio, trattandosi di atto proveniente dalla controparte, sicché l’impugnazione, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., doveva essere notificata in quel luogo.

Inoltre, non poteva equivalere a mutamento del domicilio eletto, in assenza di formale comunicazione, il differente indirizzo indicato sulla documentazione richiamata dalla Corte d’Appello (e costituito da comunicazioni di cancelleria e carta intestata) a sostegno del cambio di domicilio e del relativo onere, per il ricorrente, di effettuare adeguate ricerche.

Ove, interpretando l’art. 330 c.p.c., si ponesse a carico del soccombente l’onere della ricerca del domicilio del difensore di controparte in assenza di formale comunicazione di mutamento dello stesso ed in presenza di atti equivoci, tali da ingenerare nell’appellante il legittimo affidamento circa il permanere dell’originaria elezione di domicilio, la norma sarebbe incostituzionale in relazione agli artt. 24 e 3 Cost.

4) Il motivo non è fondato.

Nella specie, non vi è stata una dichiarazione di domicilio nell’atto di notificazione della sentenza, essendosi la parte limitata a notificare la sentenza di primo grado. La circostanza che dall’intestazione della sentenza risultasse l’elezione di domicilio dell’attore in primo grado non poteva integrare una dichiarazione di domicilio nell’atto di notificazione della sentenza, per la quale sarebbe stata necessaria un’apposita e distinta dichiarazione. La sentenza non poteva essere notificata che nella sua integrità, compresa l’intestazione, il cui contenuto era riferibile però al giudizio di primo grado e non alla fase successiva al deposito della sentenza stessa.

Ora, la notifica presso il domicilio dichiarato nel giudizio “a quo”, che abbia avuto esito negativo perché il procuratore si sia successivamente trasferito altrove, non ha alcun effetto giuridico, dovendo essere effettuata al domicilio reale del procuratore (quale risulta dall’albo, ovvero dagli atti processuali) anche se non vi sia stata rituale comunicazione del trasferimento alla controparte. Ed infatti, il dato di riferimento personale prevale su quello topografico, e non sussiste alcun onere del procuratore di provvedere alla comunicazione del cambio di indirizzo; tale onere è previsto, infatti, per il domicilio eletto autonomamente, mentre l’elezione operata dalla parte presso lo studio del procuratore ha solo la funzione di indicare la sede dello studio del procuratore, sicché costituisce onere del notificante l’effettuazione di apposite ricerche atte ad individuare il luogo di notificazione (Cass. 13 marzo 1998 n. 2740; cfr. pure Cass. 29 maggio 1997 n. 4746).

Nel caso in esame, l’appellante non si è fatto carico del suddetto onere, mentre avrebbe potuto individuare presso il Consiglio dell’Ordine il nuovo domicilio del procuratore della controparte. In punto di fatto, la Corte d’Appello ha osservato, in particolare, che il procuratore dell’appellante aveva dedotto, senza contestazioni di sorta, di aver provveduto alla comunicazione di cambio di domicilio del suo studio legale al Consiglio dell’Ordine e che il nuovo domicilio risultava anche da alcuni atti inseriti nel fascicolo di ufficio del giudizio di primo grado.

La dedotta conoscenza del trasferimento dello studio dell’avv. Dama dopo che il termine per la notifica dell’atto di impugnazione era ormai scaduto costituisce una conseguenza della scelta di effettuare la notifica l’ultimo giorno utile. Tale scelta, imputabile al soggetto tenuto alla notifica, comporta il rischio di non essere in grado di svolgere le eventuali ricerche che si rendessero necessarie in caso di mancata notificazione.

La prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 330 c.p.c. è manifestamente infondata, potendo l’attività di ricerca posta a carico della parte essere facilmente svolta, sicché essa non viola il canone della ragionevolezza né costituisce una limitazione del diritto di difesa (cfr. Cass. n. 4746/1997 citata).

5) Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 325, 350, 184-bis, 294, 359 c.p.c., nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione.

L’ordinanza con la quale l’istruttore aveva disposto la rinotifica nei confronti dell’avv. Dama doveva qualificarsi come remissione in termini per errore scusabile. La Corte d’Appello, pur riconoscendo che il Cimmino aveva qualificato la disposizione impartita dall’istruttore come remissione in termini, non aveva esplicitato le ragioni per le quali avrebbe dovuto escludersi l’ammissibilità di tale istituto.

Indipendentemente dal carattere inscindibile o meno del giudizio e dalla qualità di parte del p.m., la possibilità di disporre la rinnovazione della notificazione dell’atto d’appello era prevista dall’art. 350 c.p.c. nella formulazione anteriore alla riforma introdotta dalla legge n. 353 del 1990 (applicabile nel caso di specie, trattandosi di causa instaurata anteriormente all’entrata in vigore della riforma).

Gli artt. 184-bis, 294 e 359 c.p.c., ove interpretati nel senso dell’omessa previsione della rimessione in termini per errore scusabile, nel caso dell’appellante che, senza sua colpa, non abbia potuto proporre tempestivamente l’impugnazione, sarebbero incostituzionali in relazione agli artt. 3 e 34 Cost.

L’espressa previsione nell’ordinamento processuale amministrativo dell’istituto della remissione in termini per errore scusabile anche per il giudizio di appello rende manifesta l’illegittimità costituzionale delle corrispondenti norme processuali civili (184-bis, 294, 350 e 359) che non prevedono l’istituto.

6) Nemmeno questo motivo è fondato.

La rinnovazione della notificazione dell’atto di appello non è applicabile nei casi in cui, come nella specie, la notifica non è nulla, ma inesistente.

Quanto alla questione di costituzionalità per la mancata previsione della remissione in termini per errore scusabile, essa è irrilevante non potendosi configurare, nel caso in esame, un errore di tale natura per le ragioni espresse in ordine al primo motivo di ricorso.

7) Il terzo motivo di ricorso esprime doglianze di violazione degli artt. 325, 331, 350, 292 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

La motivazione della Corte d’Appello relativamente alla qualità di mero interventore necessario del p.m. non tiene conto della circostanza che la notifica dell’atto di citazione al p.m. ha comunque consentito l’instaurazione del giudizio e che, alla prima udienza, conformemente al dettato degli artt. 350 e 331 c.p.c., era stato richiesto termine per la rinotifica nei confronti dell’avv. Dama.

8) Il motivo non è fondato.

La possibilità di integrazione del contraddittorio nelle cause inscindibili (art. 351 c.p.c.) presuppone l’avvenuta impugnazione nei confronti di almeno una delle parti. Questa ipotesi non ricorre nella specie, essendo stato l’atto di appello notificato tempestivamente al solo pubblico ministero, il quale non è parte nel giudizio in oggetto, come affermato dalla Corte d’Appello e non contestato in questa sede.

Poiché l’atto di impugnazione non era stato tempestivamente notificato a nessuna delle parti, non poteva disporsi l’integrazione del contraddittorio.

9) Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come nel dispositivo con riferimento alla difesa effettuata dall’avv. Dama all’udienza, vanno poste a carico del ricorrente, in considerazione della soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara inammissibile il controricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro 516,46 [L. 1.000.000] per onorari.

Così deciso in Roma il 3 dicembre 2001.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 7 GIUGNO 2002.


Corte Suprema di Cassazione, Sez. Unite, n. 8091 del 4.06.2002

Notificazione : a persone giuridiche : a persone non residenti o irreperibili

Svolgimento del processo

La s.r.l. Sud Zuccheri, con sede in Melito (Napoli) alla via Roma 168 bis, fu dichiarata fallita dal Tribunale di Napoli con sentenza del 12 febbraio 1991.

La detta società, in persona dell’amministratore unico Corrado Wurzburghen propose opposizione contro tale pronunzia, chiedendo che ne fosse dichiarata la nullità per violazione dell’art. 15 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267. La nullità sarebbe stata conseguente all’omessa convocazione e audizione del legale rappresentante davanti al tribunale fallimentare in camera di consiglio, omissione derivante dall’irrituale notifica del ricorso di fallimento. La notificazione, infatti, era stata eseguita nelle forme di cui all’art. 1423 c.p.c. nei confronti del menzionato legale rappresentante, pur essendo possibile accertare sia la sede sociale (che non era stata trasferita ma aveva soltanto subito un cambio di numerazione civica) sia la residenza del legale rappresentante.

La curatela rimase contumace, mentre i creditori si costituirono contestando il fondamento dell’opposizione.

In sede collegiale l’opponente propose querela di falso contro la relata di notifica del ricorso (avanzato dal Banco di Napoli) ad opera del messo di conciliazione di merito, attestante che la società era “sconosciuta al sito indicato e/o al civico” (cioè all’indirizzo in Melito alla via Roma 168 bis, sede sociale risultante dalla certificazione della cancelleria commerciale), nonché contro l’analoga relata dell’agente postale, apposta sulla busta dell’atto da notificare ad istanza di I.S.I. S.p.A.

Le parti costituite contestarono la querela, mentre il P.M. ne addusse l’inammissibilità.

Con sentenza depositata il 10 aprile 1995 il Tribunale rigettò l’opposizione e la querela di falso proposta contro la notifica ad istanza dell’I.S.I., dichiarò inammissibile la querela proposta contro la notifica ad istanza del Banco di Napoli e condannò l’opponente al pagamento delle spese giudiziali.

A seguito d’impugnazione della società Sud Zuccheri la Corte di Appello di Napoli, con sentenza n. 2549/97 depositata il 25 novembre 1997, respinse il gravarne, considerando:

– che l’esame dell’impugnazione restava circoscritto al tema di diritto, relativo al seguente punto: se, nell’ipotesi d’impossibilità di eseguire la notifica ai sensi dell’art. 145, comma 1, c.p.c. presso la sede della società (impossibilità imputabile esclusivamente alla società stessa, per avere omesso di rendere conoscibile ai terzi, nelle debite forme pubblicitarie, la variazione d’indirizzo della sede sociale, sia pur dovuta a nuova numerazione civica), e di ulteriore impossibilità di reperire il legale rappresentante della medesima (circostanza accertata dalle risultanze documentali acquisite dal primo giudice e non rimessa in discussione con l’appello), fosse possibile eseguire la notifica diretta al detto legale rappresentante nelle forme di cui all’art. 143 c.p.c.;

– che a tale quesito il tribunale aveva dato risposta positiva con argomentazioni meritevoli di essere condivise;

– che, invero, la mancata menzione dell’art. 143 c.p.c. tra le norme richiamate dal terzo comma dell’art. 145 c.p.c. non assumeva rilievo decisivo al fine di escludere il ricorso come “extrema ratio”, a tale forma di notifica quando, come nella specie, non fosse stato possibile reperire la sede della società né la residenza, dimora o domicilio del suo amministratore unico e legale rappresentante;

– che il contrario argomento dell’appellante si basava su un’analisi letterale e superficiale della norma e, peraltro, mal si conciliava con la soluzione alternativa proposta, ossia la notifica nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c., in quanto neppure tale disposizione era richiamata dall’art. 145 c.p.c., comma 3;

– che, allora, se ogni argomento desumibile dalla mera letteralità del richiamo non poteva essere decisivo (finendosi altrimenti, in simili casi, col ritenere impossibile qualsiasi forma di notificazione), andava compiuta una lettura sistematica delle norme, allo scopo di giungere ad una soluzione rispondente alle finalità del sistema in guisa da assicurare, in ogni caso, la possibilità di eseguire le notificazioni;

– che tutte le norme comprese tra l’art. 138 c.p.c. e l’art. 143 c.p.c. riguardavano le persone fisiche, incluso quindi l’art. 140 c.p.c., al quale non vi era ragione di dare preferenza, trattandosi di disposizione non direttamente prevista per le notificazioni alle persone giuridiche, né oggetto di richiamo da parte dell’art. 145 c.p.c.;

– che l’ultimo comma di tale norma, col rinvio agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c., rivelava l’intento del legislatore di consentire la notifica al legale rappresentante secondo la disciplina delle notificazioni alle persone fisiche, quando non fosse possibile la notifica presso la sede della persona giuridica e dall’atto risultasse la persona fisica titolare della rappresentanza legale dell’ente;

– che, pertanto, qualora nei confronti di detta persona fisica non fosse possibile la notifica a mani proprie (art. 138 c.p.c.), oppure presso la residenza, la dimora o il domicilio (art. 139 c.p.c.), o ancora presso l’eventuale domiciliatario (art. 141 c.p.c.), occorreva fare ricorso alle ulteriori disposizioni contemplanti le sussidiarie modalità di notifica alle persone fisiche, e quindi all’art. 140 c.p.c. (in caso di residenza, dimora o domicilio noti della persona fisica del legale rappresentante dell’ente), ovvero all’art. 143 c.p.c. (nel caso di residenza, dimora o domicilio ignoti dello stesso legale rappresentante);

– che, nella fattispecie, il Wurzburgher risultò sloggiato dai suoi ultimi dichiarati domicilii di Napoli e di Pozzuoli, dove – come emerse dalle ricerche poi eseguite presso i due Comuni – mai aveva avuto la residenza anagrafica, onde ritualmente la notificazione fu effettuata ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

– che l’impossibilità di eseguire la notificazione diretta alla società nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c. discendeva dal rilievo che, siccome tale norma prescrive, oltre al deposito della copia dell’atto nella casa comunale, anche l’affissione dell’avviso del deposito “alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario”, nonché la “notizia per raccomandata con avviso di ricevimento”, nel caso di specie non si sarebbe potuto procedere a tali adempimenti, in quanto nel luogo dell’ultima sede nota della società medesima non esistevano uffici o altre strutture alla stessa riferibili;

– che, in definitiva, l’appello andava respinto, perché la mancata audizione dell’imprenditore, dovuta a fatto a questo imputabile, non costituiva motivo di nullità.

Contro la suddetta sentenza, notificata il 18 febbraio 1998, Sud Zuccheri S.r.l., in persona dell’amministratore unico Corrado Wurzburgher, ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo.

La Banca Nazionale dell’agricoltura S.p.A. e la I.S.I (Industria Saccarifera Agroindustriale) S.p.A. hanno resistito con separati controricorsi.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Con ordinanza depositata il 16 giugno 2000 la prima sezione civile di questa Corte, rilevato che sulla questione addotta (“la notifica avrebbe dovuto essere effettuata a norma dell’art. 140 c.p.c. nei confronti della società e non ai sensi dell’art. 143 c.pc., nei confronti del suo legale rappresentante”) esisteva un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

La causa è stata quindi assegnata alle Sezioni unite di questa Corte e chiamata all’udienza di discussione.

Motivi della decisione

1) Con l’unico mezzo di cassazione la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 143 c.p.c., in relazione agli artt. 145, 140 e 160 c.p.c.

Il Tribunale avrebbe riconosciuto che la formula dell’art. 145 c.p.c., e in particolare il 1º e il 3º comma (che rinviano agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.), avrebbe posto la necessità di valutare, esaminando l’intera disciplina in modo sistematico, se la notificazione ad una persona giuridica consenta il ricorso alle forme di cui all’art. 143 c.p.c., sia con riferimento alla società in quanto tale, sia come forma di notifica al legale rappresentante.

Il Tribunale avrebbe riconosciuto, ancora, che, secondo un primo orientamento della giurisprudenza (in realtà si tratterebbe dell’ultimo, ormai da tempo consolidato) la notificazione alla società – in caso d’impossibilità di eseguirla ai sensi dell’art. 145, primo comma, c.p.c. e di portarla a compimento nelle forme di cui all’art. 145, terzo comma, c.p.c. – andrebbe effettuata a norma dell’art. 140 c.p.c.

Da ciò sarebbe dovuto discendere l’accoglimento dell’opposizione.

Ma poi il Tribunale si sarebbe riportato ad un diverso (e risalente) orientamento della giurisprudenza, dichiarando di aderirvi e così pervenendo al rigetto della domanda.

Sarebbe però incorso in errore, limitandosi a rilevare che l’indirizzo in Melito alla via Roma 168 bis sarebbe stato quello rispondente alla sede della società, come risultante dalla certificazione della cancelleria commerciale, e che la società sarebbe stata obbligata a rendere pubblica presso gli organi competenti la variazione apportata dal Comune al numero civico.

Avrebbe però trascurato di considerare che, se la notifica fosse stata eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., al Comune sarebbe risultato certamente il nuovo civico e il ricorso si sarebbe potuto notificare ritualmente.

Peraltro la mancata notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c. sarebbe stata sufficiente per stabilire che, il ricorso non era stato notificato secondo le norme e che la società fallita mai sarebbe stata convocata davanti al Tribunale fallimentare, con conseguente nullità della dichiarazione di fallimento.

I rilievi già esposti nei precedenti gradi del giudizio troverebbero conferma nei fatti enunciati, che porrebbero in evidenza l’illegittimità della pronunzia impugnata, viziata anche da errori logici e da insufficiente motivazione.

Andrebbe aggiunto che soltanto parte della giurisprudenza si sarebbe mostrata favorevole all’applicazione dell’art. 143 c.p.c. alle persone giuridiche, mentre di segno opposto sarebbe l’orientamento più recente.

2) Ancorché formalmente diretto a censurare la pronunzia del Tribunale (per quello che appare essere un errore materiale di trascrizione), il ricorso investe in realtà la sentenza della Corte d’Appello, come è dato desumere dalla sua complessiva formulazione. Pertanto l’impugnazione va dichiarata ammissibile.

3) La questione sottoposta all’esame del collegio può riassumersi nei termini seguenti (tenendo conto del tema della decisione identificato dalla Corte territoriale e delle censure mosse dalla ricorrente, che definiscono i confini dell’indagine in questa sede): se ed in quali limiti siano utilizzabili nei confronti di una persona giuridica le modalità di notificazione previste dall’art. 13 c.p.c., essendo indicata nell’atto la persona fisica che rappresenta l’ente.

Nel caso di specie, infatti, non è controversa l’applicabilità dell’art. 140 c.p.c. anche per le notificazioni alle persone giuridiche (ed ai soggetti indicati nel secondo comma dell’art. 145 c.p.c.). Anzi la società ricorrente lamenta appunto che nel caso in esame non si sia proceduto a notifica nelle forme di cui al citato articolo 140, affermando che, se tale procedura fosse stata adottata, presso il Comune sarebbe risultato il nuovo civico identificante la sede della società medesima, sicché l’istanza di fallimento si sarebbe potuta notificare ritualmente.

Tanto premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 145, primo comma, c.p.c. (norma nella specie rilevante perché la ricorrente è una società di capitali), la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna della copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa. A norma dell’art. 46, comma secondo, c.c., nei casi in cui la sede stabilita ai sensi dell’art. 16 c.c. o la sede risultante dal registro è diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima, intendendosi per sede effettiva il luogo in cui abbiano concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente, e dove operino i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti con poteri direttivi (Cass. 4 agosto 2000, n. 10243; 28 luglio 2000, n. 9978; 18 gennaio 1997, n. 497).

Come posto in luce anche in dottrina, è dunque accolto il principio dell’effettività della sede quale criterio interpretativo generale, valido pure per le notificazioni.

Il secondo comma dell’art. 145 c.p.c. prevede modalità analoghe di notificazione, con riferimento alla sede indicata nell’art. 19, secondo comma, del codice civile.

Il terzo comma aggiunge che, se la notificazione non può essere eseguita a norma dei commi precedenti, e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, si osservano le disposizioni degli articoli 138, 139 e 141 cod. proc. civ.

Come il testuale tenore della norma rende palese, le modalità prescritte nei primi due commi vanno sperimentate per prime; se la notificazione non può essere eseguita con quelle modalità, e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, si osservano le disposizioni dell’art. 138 c.p.c. (notificazione nella residenza, nella dimora o nel domicilio), e art. 141 c.p.c. (notificazione presso il domiciliatario).

Qualora neppure le modalità richiamate nel terzo comma dell’art. 145 c.p.c. possano essere ultimate praticate, la giurisprudenza dominante – sia pur con talune distinzioni che qui non possono formare oggetto di pronuncia perché estranee al quesito rilevante ai fini della decisione – ammette l’applicabilità del rito previsto dall’art. 140 c.p.c. anche nei confronti della società (“ex multis” e tra le più recenti: Cass. 10 aprile 2000, n. 4529; 9 febbraio 2000, n. 1427; 17 giugno 1999, n. 6065; 27 gennaio 1999, n. 716; 3 novembre 1998, n. 11004; 11 gennaio 1994, n. 239; 3 dicembre 1993, n. 12004; 29 maggio 1992, n. 6529).

Anche nella dottrina prevale nettamente la soluzione favorevole all’applicazione del rito anzidetto, pur con alcune divergenze circa i presupposti ed i limiti d’impiego.

Un contrasto più marcato, invece, sussiste in ordine all’applicabilità dell’art. 143 c.p.c.

Secondo alcune pronunzie, infatti, la notifica mediante il rito previsto da detta norma sarebbe inapplicabile alle persone giuridiche. Le disposizioni della norma medesima, invero, postulerebbero che sia sconosciuto il luogo in cui il destinatario ha la sua residenza, la dimora o il domicilio ed inoltre che tale mancata conoscenza non sia superabile attraverso le normali ricerche ed adottando la comune diligenza. Queste situazioni, però, non potrebbero realizzarsi per le società di capitali, munite di personalità giuridica, per le quali sarebbe in vigore l’obbligo di dichiarare quale sia la sede della società all’atto stesso della costituzione (artt. 2328, 2464, 2475 c.c.), nonché l’obbligo di dichiarare i mutamenti della sede, esistendo peraltro un sistema di pubblicità legale idoneo a consentire di conoscere l’attualità della sede dichiarata e l’inopponibilità ai terzi dei mutamenti non pubblicizzati. Con la conseguenza che, qualora la sede dichiarata non coincida con quella effettiva e questa non sia nota, il terzo non potrebbe legittimamente ignorare la sede effettiva, effettuando le notifiche nel luogo pubblicizzato come “sede” dalla stessa società e risultante dai pubblici registri, salvo giovarsi nel disposto dell’art. 140 c.p.c. nel caso in cui il legale rappresentante della società, o altre persone legittimate a ricevere l’atto, risultino irreperibili in tale luogo (Cass. 29 gennaio 1998 n. 904; 11 gennaio 1994 n. 239; 1 marzo 1989 n. 1102; 3 luglio 1971 n. 2070).

Un altro orientamento, invece, ammette l’applicazione dell’art. 143 c.p.c. anche nei confronti dei soggetti diversi dalle persone fisiche, avendo riguardo alla funzione complementare della menzionata norma (Cass. 29 maggio 1992 n. 6529; 12 aprile 1990 n. 3107; 28 luglio 1989 n. 3528; 5 giugno 1987 n. 4927; 16 ottobre 1979 n. 5392; 12 maggio 1979 n. 2758).

Prima di procedere all’esame della questione, ai fini della composizione del suddetto contrasto, va premesso che il sistema delle notificazioni deve rispondere ad una duplice esigenza: la prima è quella di consentire al destinatario dell’atto di venire a conoscenza nei tempi previsti del contenuto di questo, in guisa da poter svolgere al riguardo ogni attività difensiva, nel rispetto del principio del contraddittorio, oggi ribadito nell’art. 111, comma 2, Cost. (come novellato dall’art. 1 della L.Cost. 23 novembre 1999 n. 2); la seconda è quella di permettere al soggetto, ad istanza del quale la notifica si esegue, di poter agire in giudizio ponendo in essere i relativi atti d’impulso. Entrambe le esigenze ricevono tutela costituzionale (artt. 24 e 111 Cost.). Lo sforzo ermeneutico, quindi, deve essere diretto a bilanciarle, da un lato garantendo al destinatario un effetto di conoscenza o, nei casi previsti dalla legge, di conoscibilità leale dell’atto in stretta aderenza alla disciplina normativa, in modo da assicurare il pieno spiegamento del diritto di difesa, dall’altro consentendo al soggetto, che intenda agire in giudizio, di esercitare il potere di azione (anche) con l’adozione dei necessari strumenti di notifica.

In altre parole, non sarebbe conforme a Costituzione un approccio interpretativo che, facendosi carico della non completezza delle regole contenute nell’art. 145 c.p.c., proceda ad un esame sistematico e coordinato delle norme dettate in tema di notificazioni con riferimento a quelle indirizzate a soggetti diversi dalle persone fisiche e, per quanto qui rileva, con riguardo alle notificazioni alle persone giuridiche.

In questo quadro la tesi, espressa nel primo degli orientamenti sopra richiamati (circa l’inapplicabilità in via di principio dell’art. 143 c.p.c.), non è persuasiva.

Va subito sgombrato il campo da un primo argomento di ordine letterale, secondo il quale l’art. 145, terzo comma, c.p.c. rinvierebbe in modo espresso soltanto agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.

Il richiamo limitato a queste tre norme si spiega col rilievo che l’art. 145, terzo comma, c.p.c., nel contemplare una modalità di notificazione sussidiaria rispetto a quella prevista dal primo comma della medesima norma, stabilisce che la notifica sia indirizzata alla persona fisica che rappresenta l’ente (qualora essa sia indicata nell’atto) e dispone perciò l’osservanza delle disposizioni previste per le situazioni ordinarie o fisiologiche che consentono l’esecuzione della notifica direttamente al destinatario o ad un consegnatario normativamente individuato. Ma ciò non vuole dire che, quando la notifica ai sensi di tali disposizioni si riveli non praticabile, la mancata menzione dell’art. 143 c.p.c. (come, del resto, dell’art. 140 c.p.c., che neppure forma oggetto di richiamo nel terzo comma dell’art. 145 c.p.c.) debba essere intesa come implicita esclusione dell’applicabilità di queste norme. Infatti, una volta prevista la notifica al legale rappresentante dell’ente, non sarebbe ragionevole (né conforme all’art. 24 Cost.) un’interpretazione del dettato normativo diretta ad affermare che, nei confronti del medesimo rappresentante, possono trovare applicazione soltanto le forme ordinarie di notificazione e non quelle stabilite per i casi (eccezionali) nei quali si debba prendere atto dell’impossibilità di adottare quelle forme.

Maggior consistenza presenta l’argomento secondo cui l’art. 143 c.p.c. sarebbe inapplicabile alle persone giuridiche perché esso postulerebbe che sia sconosciuto il luogo in cui il destinatario ha la sua residenza, la dimora o il domicilio ed inoltre che tale mancata conoscenza non sia superabile attraverso le normali ricerche ed adottando la comune diligenza. Queste situazioni non potrebbero realizzarsi per le società di capitali, esistendo un sistema di pubblicità legale idoneo a consentire di conoscere l’attualità della sede dichiarata e l’inopponibilità ai terzi dei mutamenti non pubblicizzati.

Tali affermazioni sono, in via di principio, esatte. Esse, tuttavia, valgono a rimarcare il carattere residuale (di “extrema ratio”, come si esprime la sentenza impugnata: pag. 6) che la notifica ex art. 143 c.p.c. al legale rappresentante della persona giuridica deve avere. Non giovano però per escludere in radice l’applicabilità di tale norma (che, in sostanza, è una norma di chiusura del sistema delle notificazioni), perché non assicurano in ogni caso che una notificazione possa essere eseguita. Il che è reso palese dalla fattispecie (certamente molto peculiare) qui in esame.

In essa è avvenuto che, a seguito di cambio della numerazione civica fatto eseguire dal Comune di Melito di Napoli, la sede della società Sud Zuccheri, già stabilita in quel Comune alla via Roma n. 168 bis, è venuta a trovarsi in quel medesimo Comune ma alla via Roma n. 438. La variazione d’indirizzo della sede sociale, conseguente alla nuova numerazione civica, non fu resa conoscibile attraverso le annotazioni – che la società avrebbe dovuto curare (artt. 2196, 2436 c.c.) – nel registro della cancelleria commerciale (all’epoca in essere, non essendo ancora operativo il registro delle imprese), come accertato dalla sentenza impugnata e com’è incontroverso. Pertanto il sito di via Roma 168 bis, a far tempo dall’impianto della nuova numerazione (impianto di cui s’ignora l’epoca) venne a perdere qualsiasi capacità d’identificare la sede della società, perché in realtà l’indirizzo di via Roma 168 bis conduceva ad un luogo del tutto diverso e privo di ogni collegamento con la società medesima, tant’è che, a seguito delle notifiche tentate dal Banco di Napoli e da I.S.I. S.p.A. a quell’indirizzo – sede sociale risultante dalla certificazione della cancelleria commerciale, come la sentenza impugnata rileva: pag. 3 – la società medesima risultò sconosciuta.

Né vale addurre che, attraverso più attente ricerche, il nuovo indirizzo poteva essere reperito. È ben vero che, qualora la sede dichiarata nell’atto costitutivo non venga trovata, devono essere eseguite ulteriori ricerche. Ma tali ricerche, specialmente quando esiste un sistema di pubblicità che dovrebbe consentire di trovare sempre almeno la sede legale della società se la legge fosse rispettata, devono essere quelle normalmente esigibili secondo la comune diligenza. Orbene, le ricerche e le richieste d’informazioni suggerite in casi come quello in esame dall’ordinaria diligenza riguardano la sede della società e perciò vanno indirizzate verso gli uffici e le persone che possono dare informazioni in tal senso, ossia per l’appunto il registro della cancelleria commerciale (v. Cass., Sez. Un., 5 novembre 1981, n. 5825, in motivazione). Una volta acclarato, tramite il detto registro, che la sede dell’impresa risultava quella di via Roma n. 168 bis, non possono essere comprese nella nozione di ordinaria diligenza ulteriori e più approfondite ricerche, per di più in un contesto nel quale non risulta che i creditori istanti fossero tenuti a sapere che (in epoca imprecisata) la numerazione civica era stata modificata.

Neppure potrebbe utilmente affermarsi che l’omessa annotazione nell’apposito registro del mutamento d’indirizzo conservasse l’attualità della sede risultante dal medesimo registro, onde comunque la notifica si sarebbe potuta eseguire ai sensi dell’art. 140 c.p.c.

Si deve replicare che, come già sopra si è accennato, a seguito della diversa numerazione civica il numero 168 bis individuava un sito del tutto differente da quello in cui era (ed era rimasta) la sede della società, cioè un sito nel quale quest’ultima mai aveva avuto uffici o strutture di qualsiasi tipo. La mancanza (originaria e non sopravvenuta) di tali strutture rendeva impossibile) – dare corso alle formalità previste dal citato art. 140 c.p.c. che, per costante giurisprudenza, in quanto organicamente coordinate tra loro hanno tutte carattere essenziale e, come tali, condizionano al loro integrale adempimento l’efficacia giuridica della notifica (tra le più recenti: Cass. 14 gennaio 2002 n. 359; 20 novembre 2000 n. 14986; 29 aprile 1999 n. 4307).

Invero, la notifica ex art. 140 c.p.c. postula che, pur essendo noto il luogo in cui la notifica stessa può essere eseguita, l’esecuzione di essa nelle forme ordinarie risulti impedita dall’irreparabilità, dall’incapacità o dal rifiuto dei consegnatari normativamente individuati. Nella fattispecie l’indirizzo che avrebbe dovuto condurre alla sede sociale portava in realtà ad un luogo in cui detta sede mai era stata collocata, con conseguente difetto del presupposto per procedere alla menzionata forma di notificazione (infatti, l’adozione di tale forma è stata ritenuta irrituale nel caso in cui all’indirizzo indicato il destinatario risulti sconosciuto: Cass. 11 agosto 2000 n. 10629).

Dalle esposte considerazioni consegue che il sistema di pubblicità in vigore per le società di capitali non consente di reperire in ogni ipotesi una sede legale, quando le eventuali variazioni non siano annotate. Il caso in esame ne costituisce la prova ed altri esempi potrebbero addursi (come il caso in cui l’edificio in cui era situata la sede sociale risulti totalmente demolito e sia ignota l’eventuale sede effettiva).

In ipotesi del genere il ricorso alla notificazione ai sensi dell’art. 143 c.p.c. nei confronti della persona fisica che rappresenta l’ente non può ritenersi precluso.

Invero, l’applicazione di detta norma direttamente alla persona giuridica va esclusa, perché la sua testuale formulazione impone di considerarla ontologicamente incompatibile con soggetti diversi dalle persone fisiche. Ma quando nell’atto il legale rappresentante sia indicato (e il notificante può identificarlo, formulando quindi la relativa indicazione, attraverso il sistema di pubblicità), non vi sono ostacoli – sulla base delle considerazioni sopra svolte – all’adozione nei suoi confronti delle forme di cui all’art. 143 c.p.c., quando ne risultino sconosciuti la residenza, la dimora e il domicilio. Ciò non soltanto per esigenze di completezza del sistema notificatorio ma anche perché, una volta ammessa la notifica al legale rappresentante nelle forme ordinarie, non appare giustificato escludere la possibilità di far ricorso alle particolari modalità di cui alla detta norma, che risulta riferibile a tutte le persone fisiche.

Conclusivamente, la sequenza del procedimento notificatorio nei confronti delle persone giuridiche, con particolare riguardo alle società di capitali (caso ricorrente nella specie), va così specificata:

a) la notificazione si esegue, in primo luogo, con le modalità di cui all’art. 145, 1º comma, c.p.c., cioè nella sede (legale o effettiva) mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa;

b) se la notifica non può essere eseguita con tali modalità, e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, in applicazione dell’art. 145, 3º comma, c.p.c. la notifica stessa va eseguita nei confronti di tale persona, osservando le disposizioni degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.;

c) se neppure l’adozione di tali modalità consente di pervenire alla notificazione, si procede con le formalità dell’art. 140 c.p.c., qualora di detta norma ricorrano i presupposti, nei confronti del legale rappresentante (se indicato nell’atto e purché abbia un indirizzo diverso da quello della sede dell’ente), oppure, nel caso in cui la persona fisica non sia indicata nell’atto da notificare direttamente nei confronti della società;

d) se tali modalità non si rivelino applicabili, e nell’atto sia indicata la persona fisica che rappresenta l’ente (la quale perciò risulti di residenza, dimora e domicilio sconosciuti), la notificazione sarà eseguibile con le forme di cui all’art. 143 c.p.c. nei confronti del detto legale rappresentante.

In questi sensi il contrasto sopra segnalato resta quindi composto.

Alla stregua dei principi fin qui esposti, il ricorso della società Sud Zuccheri si rivela infondato.

Non è esatto, per quanto chiarito in precedenza, che gli atti andassero notificati alla società ai sensi dell’art. 140 c.p.c., dovendosi replicare che, a seguito del cambiamento della numerazione civica, l’indirizzo della società medesima era riferito ad un luogo in cui questa non aveva (e mai aveva avuto) sede, sicché non si sarebbe neppur potuto procedere agli adempimenti contemplati dalla citata norma (il punto, rimarcato dalla Corte territoriale, non ha formato oggetto di specifica censura).

La ricorrente, poi, nulla ha addotto in ordine alla reperibilità del legale rappresentante, il cui nome risultava dagli atti in notifica (anche questo profilo, posto in luce dalla sentenza impugnata non è stato censurato); né ha formulato doglianze in ordine al rispetto delle formalità previste dall’art. 143 c.p.c.

Essa, in effetti, ha imperniato l’impugnazione sull’asserita nullità/inesistenza delle notificazioni eseguite, nel caso in esame, ai sensi dell’articolo ora citato, perché detta norma sarebbe stata inapplicabile; e questa tesi – nel quadro delle considerazioni in precedenza svolte – non può essere condivisa.

Ne segue il rigetto del ricorso.

Avuto riguardo al contrasto di giurisprudenza esistente sulla questione si ravvisano giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti costituite le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte Suprema di cassazione, pronunziando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti costituite le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2002, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 04 GIUGNO 2002.


Cass. civ., Sez. V, (data ud. 30/05/2002) 30/05/2002, n. 7939

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Pasquale REALE – Presidente –

Dott. Massimo ODDO – Consigliere –

Dott. Stefano MONACI – Rel. Consigliere –

Dott. Antonio MERONE – Consigliere –

Dott. Giuseppe FALCONE – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FRATTA CESARE LUIGI, FUMAGALLI GIUSEPPINA, elettivamente domiciliati in ROMA VIA CRESCENZIO 62, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLI CAMPOSARCUNO PAOLO, che li difende unitamente all’avvocato ALLEGRO ENRICO, giusta procura in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 108/97 della Commissione tributaria regionale di MILANO, depositata il 22/09/97;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/02 dal Consigliere Dott. Stefano MONACI;

udito per il ricorrente, l’Avvocato ANTONELLI, che insiste per l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pietro ABBRITTI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1) Il primo Ufficio delle Imposte dirette di Milano emetteva un accertamento fiscale nei confronti dei coniugi Fratta Cesare e Fumagalli Giuseppina, rideterminandone, ai fini Irpef ed Ilor, i redditi per l’anno 1982.

L’accertamento nei loro confronti traeva origine da un altro accertamento effettuato a carico di Fratta Ernesto, figlio dei contribuenti, e titolare di un’impresa familiare cui la madre Fumagalli Giuseppina partecipava nella misura del 45%, ed il padre Fratta Cesare partecipava, invece, nella misura percentuale del 10%.

I due contribuenti Fratta Cesare e Fumagalli Giuseppina impugnavano l’accertamento in sede giurisdizionale, ma i loro ricorsi successivi venivano respinti prima dalla Commissione Tributaria di primo grado di Milano, e poi, in sede di appello, con sentenza del 23 giugno-22 settembre 1997, dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia.

Questa ultima rilevava in motivazione che l’altro accertamento, impugnato dalla società (dalla quale derivavano a loro volta i redditi accertati ai ricorrenti) era stato riconosciuto legittimo dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano che aveva respinto il relativo ricorso.

2) Propongono ricorso per cassazione i contribuenti Fratta Cesare Luigi e Fumagalli Giuseppina, chiedendo l’annullamento, con ogni provvedimento consequenziale, della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, ed allegando tre motivi di impugnazione.

Con il primo eccepiscono la mancanza assoluta di motivazione e la conseguente nullità della sentenza.

La sentenza della Commissione Tributaria Regionale (come del resto quella della Commissione Tributaria Provinciale) si sarebbe basata esclusivamente sull’esistenza di un’altra pronunzia della stessa Commissione Provinciale, a carico del figlio Fratta Ernesto, sentenza questa ultima che aveva dichiarato legittimo l’accertamento a carico dell’impresa familiare.

Invece le due liti fiscali (peraltro non riunite) erano distinte, e soprattutto, la pronunzia di primo grado a carico del figlio sarebbe stata appellata.

3) Con il secondo motivo di impugnazione i coniugi ricorrenti eccepiscono l’erronea e falsa applicazione della legge per quanto concerne la valutazione delle prove, e la conseguente nullità della sentenza.

L’accertamento fiscale a carico del figlio Fratta Ernesto, che svolgeva un’attività di commercio all’ingrosso di oreficeria a Milano (ed a carico, nello stesso tempo, dell’impresa familiare) era scaturito da una indagine più ampia, volta a sgominare un’associazione a delinquere finalizzata all’esportazione clandestina di capitali allo scopo di acquisire all’estero oro greggio.

Il Fratta Ernesto era stato coinvolto in questa vicenda, ed era stato fatto oggetto di accertamenti tributari per cinque anni di imposta (esattamente dal 1982 e 1987), nonché di due procedimenti penali, uno di carattere valutario e l’altro di carattere tributario, che si erano conclusi, peraltro entrambi con la sua assoluzione con formula piena, per l’esattezza una volta con la formula “perché il fatto non sussiste”, e l’altra con quella “per non aver commesso il fatto”.

Invece i giudici tributari non avevano valutato gli esiti di questi procedimenti penali e le prove raccolte nel corso di essi.

4) Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano una violazione del diritti della difesa con conseguente nullità del procedimento.

Sostengono che all’udienza del 5 febbraio 1996 dinanzi alla Commissione Tributaria di primo grado di Milano non erano stati posti in grado di difendersi in pubblica udienza.

L’avviso di convocazione era, infatti, pervenuto al Fratta Cesare solo mesi dopo l’udienza, e da esso risultava che la notificazione era stata effettuata mediante deposito presso la Casa Comunale di Milano, e con l’invio di una raccomandata che il contribuente negava di avere mai ricevuto (che, comunque, gli sarebbe stata spedita due giorni dopo l’affissione dell’avviso sulla porta di casa del ricorrente).

5) Si è costituita con apposito controricorso l’Amministrazione finanziaria.

Nega, innanzi tutto, che sia stata impugnata la pronunzia di primo grado che ha respinto il ricorso proposto da Fratta Ernesto avverso l’accertamento a suo carico per l’anno 1982.

Quella sentenza di primo grado aveva perciò acquisito carattere di giudicato, con l’effetto di rendere definitivo anche il reddito di partecipazione dei contribuenti Cesare Luigi Fratta e Fumagalli Giuseppina.

Le rispettive liti fiscali erano sì distinte, ma, in realtà, inscindibilmente collegate tra loro.

La resistente sottolinea poi che il fatto contestato al Fratta Ernesto in sede penale (esportazione di valuta) sarebbe stato diverso da quello (acquisto senza fattura di oro grezzo) contestatogli invece in sede fiscale.

Soprattutto, quest’ultimo fatto sarebbe risultato provato.

Per quanto concerne, infine, la pretesa nullità processuale, la resistente sostiene che – come riconosciuto nella sentenza di appello impugnata – dalla documentazione esistente presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale di Milano non risultava nessuna violazione delle norme in materia di notificazione.

Motivi della decisione
1) Il ricorso non è fondato, e non può trovare accoglimento. Considerazioni di razionalità di trattazione inducono ad esaminare per primo il terzo motivo di impugnazione, che, investendo la regolarità del procedimento, assume carattere preliminare rispetto agli altri.

Il motivo non è fondato

Non appare esatto, innanzi tutto, che la Commissione Regionale non abbia motivato sull’eccezione relativa alla pretesa mancata convocazione dei contribuenti per l’udienza di discussione nel giudizio tributario di primo grado: sia pure sinteticamente la sentenza afferma che l’esercizio del diritto di difesa da parte dei contribuenti era stato sostanzialmente rispettato.

Ciò significa che La Commissione ha ritenuto regolare la notificazione dell’avviso di convocazione dei contribuenti per l’udienza di discussione in questione.

Inoltre i ricorrenti non indicano elementi astrattamente idonei a comprovare la nullità della notificazione stessa, e pertanto l’effettività dell’asserita lesione dei loro diritti di difesa.

Non è tale la circostanza secondo cui avrebbero avuto effettiva notizia dell’udienza soltanto alcuni mesi dopo, perché – come dichiarano gli stessi ricorrenti – la notificazione è stata effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., cioè con il rito degli irreperibili, e questa forma di comunicazione, per la sua stessa natura, non assicura che i destinatari abbiano effettiva notizia dell’atto notificato.

Né rileva che, come dichiarato dai ricorrenti, la raccomandata contenente l’avviso sia stata inviata al Fratta Cesare due giorni dopo l’affissione dell’avviso alla porta del ricorrente.

L’art. 140 c.p.c. prevede che “se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate”, la notificazione abbia luogo ugualmente con lo svolgimento di tre formalità distinte: il deposito di copia dell’atto da notificare nella casa comunale, l’affissione dell’avviso del deposito sulla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario, ed infine l’invio di una raccomandata con avvio di ricevimento anch’essa con l’avviso del deposito.

La notificazione si considera perfezionata soltanto con l’esecuzione dell’ultima, in senso temporale, delle tre formalità.

Queste ultime debbono essere eseguite in uno stesso contesto temporale, nell’ambito di quella certa notificazione, ma nulla impone che vengano eseguite in uno stesso giorno. Una distanza di due giorni tra di esse non interrompe certo l’unità del contesto temporale: in sostanza, rimane irrilevante che per ragioni operative, per la mancanza di un ufficio postale aperto in orario utile, o per altro motivo, l’invio della raccomandata sia stato seguito di qualche giorno l’affissione dell’avviso sulla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario (che nella normalità dei casi verrà effettuata quando l’ufficiale giudiziario si sarà recato in luogo e non avrà potuto eseguire la notificazione con uno dei sistemi ordinari, e sarà perciò la prima, temporalmente, ad essere eseguita delle tre formalità richieste), ed il deposito dell’atto nella casa comunale.

2) Sono infondati anche i primi due motivi di impugnazione, quelli concernenti il merito.

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano un vizio di carenza assoluta di motivazione, perché la sentenza di appello si sarebbe limitata a far riferimento alla pronunzia – che essi assumevano non ancora passata in giudicato – della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, che aveva respinto il ricorso proposto dall’impresa familiare del loro figlio Fratta Ernesto, impresa da cui sarebbero derivati i redditi di partecipazione dei genitori, attuali ricorrenti, per l’anno 1982.

Secondo questi ultimi la sentenza, invece, non avrebbe esaminato affatto le argomentazioni difensive contenute nel loro atto di appello.

In realtà, come espressamente disponeva (nella formulazione vigente all’epoca dei fatti) il quarto comma dell’art. 5 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, anche il reddito di partecipazione dei genitori Fratta Cesare Luigi e Fumagalli Giuseppina dipende da quello accertato a carico dell’impresa familiare del figlio.

Per la precisione nel testo originario della norma si leggeva che “i redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile sono imputati a ciascun collaboratore familiare, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili dell’impresa…”.

Di conseguenza la Commissione Regionale ha motivato adeguatamente e compiutamente con il riferimento alla decisione relativa all’impresa familiare del figlio, né era tenuta a rispondere più in dettaglio ad eventuali ulteriori argomentazioni difensive delle parti (che, del resto, rimanevano assorbite).

L’affermazione, contenuta in ricorso, secondo cui quella pronunzia a carico dell’impresa familiare non sarebbe ancora passata in giudicato, ed il relativo giudizio sarebbe pendente, non trova nessun riscontro nella sentenza impugnata, e, del resto, neppure i ricorrenti offrono alcun elemento concreto, alcuna indicazione, in questo senso.

La circostanza, invece, avrebbe dovuto essere provata nel corso dei giudizi di merito, da coloro che l’affermavano, vale a dire dagli stessi ricorrenti.

3) Per quanto riguarda il secondo motivo di merito, relativo alla pretesa influenza di alcune pronunzie penali con cui il figlio Fratta Ernesto era stato assolto da imputazioni a suo carico, va rilevato che non risulta affatto che i fatti materiali contestati in sede penale fossero i medesimi posti alla base dell’accertamento da cui trae origine questa controversia fiscale.

Anche su questo punto la prova avrebbe dovuto essere fornita, nel corso dei giudizi di merito, da chi aveva interesse a dimostrarla, e perciò dagli attuali ricorrenti.

La circostanza, invece, non trova riscontro alcuno nella pronunzia della Commissione Regionale.

4) Concludendo, dunque, il ricorso non può che essere respinto, ed i ricorrenti vanno condannati in solido a rifondere, in favore dell’Amministrazione finanziaria, le spese del presente giudizio, che vengono liquidate negli importi riportati in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna i ricorrenti a rifondere favore dell’Amministrazione finanziaria, le spese d presente giudizio che liquida in € 2.100, di cui € 2.000 per onorari, oltre a quelle prenotate a debito.

Cosi deciso in Roma il 17 gennaio 2001

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 30 MAGGIO 2002.


Corte Suprema di Cassazione civ. Sez. Unite, 10-05-2002, n. 6737

REVOCAZIONE (GIUDIZIO DI)

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Vincenzo CARBONE – Primo Presidente f.f. –

Dott. Rafaele CORONA – Presidente di sezione –

Dott. Giovanni PRESTIPINO – Consigliere –

Dott. Erminio RAVAGNANI – Consigliere –

Dott. Alessandro CRISCUOLO – Consigliere –

Dott. Vincenzo PROTO – Consigliere –

Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI – Consigliere –

Dott. Mario Rosario MORELLI – Consigliere –

Dott. Stefanomaria EVANGELISTA – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MONTANA GIUSEPPE, MONTANA MARIO, SCARFA ANTONIETTA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PRINI 12, presso lo studio dell’avvocato TIZIANA CAPEZZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ARMANDO CALAFATO, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

GUCCIARDO (*) ANTONINO , elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONINO MARIA CREMONA, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 768/96 del Tribunale di AGRIGENTO, depositata il 25/09/96;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/02/02 dal Consigliere Dott. Stefanomaria EVANGELISTA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. Domenico IANNELLI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 15 febbraio 1989, Giuseppe Montana, Mario Montana ed Antonietta Scarfa, convennero in giudizio davanti al pretore di Agrigento Antonio (*) Guicciardo, Francesco Barrafato e Lorenza Tamburello, al fine di ottenere la costituzione coattiva, ex art. 1051 cod. civ., di una servitù di passaggio.

Il giudice adito accolse la domanda in contumacia dei convenuti, con sentenza del 14 dicembre 1989, notificata nelle date del 28 marzo e 7 luglio 1990.

Con citazione in appello notificata nelle date del 25, 27 e 30 maggio 1991, Antonio (*) Guicciardo, rappresentato dal fratello Antonio (*), suo procuratore generale, impugnò la sentenza, sostenendo, nonostante il decorso del termine di cuiall’art. 327 cod. proc. civ., la tempestività del gravame, per avere egli ignorato l’esistenza del giudizio a causa della nullità della notificazione del relativo atto introduttivo. Questa, invero, era stata eseguita con le formalità previstedall’art. 143 cod. proc. civ., laddove le risultanze anagrafiche, dalle quali emergeva che egli si era trasferito all’estero, e precisamente a Detroit, negli Stati Uniti d’America, avrebbero consentito di conoscere il suo esatto indirizzo facendo uso dell’ordinaria diligenza, ossia consultando sul punto le autorità consolari competenti.

Il Tribunale di Agrigento, con sentenza depositata in cancelleria il 25 settembre 1996, accolse l’appello, ritenuto ammissibile in base al rilievo che, da un lato, l’indicazione dell’indirizzo estero è da escludere dal novero degli adempimenti anagrafici connessi alla dichiarazione di trasferimento; e dall’altro lato, il notificante, prima di ricorrere alle formalitàdell’art. 143 cod. proc. civ., avrebbe dovuto, facendo uso dell’ordinaria diligenza, verificare se le carenti informazioni anagrafiche potessero essere integrate con altre da assumersi presso le competenti autorità consolari, atteso anche il disposto dell’art.6dellalegge n. 470 del 1988(istitutivo dell’obbligo del cittadino che si trasferisca all’estero di darne comunicazione entro novanta giorni all’ufficio consolare nella cui circoscrizione si trova la sua nuova residenza).

Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso, affidato a due motivi, Giuseppe Montana, Mario Montana e Scarfa Antonietta. Ha resistito con controricorso Antonino Guicciardo, per il tramite del suo procuratore generale, Giuseppe Guicciardo (*).

La seconda Sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 461 del 24 maggio 2000, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, in relazione al contrasto di giurisprudenza riscontrato sulla questione, introdotta col primo motivo del ricorso stesso, se, a carico del soggetto che intenda notificare un atto nei confronti di destinatario trasferitosi in una città estera risultante dai registri anagrafici, i quali non contengano, peraltro, l’indicazione dell’indirizzo dello stesso, sia configurabile l’onere di compiere ulteriori ricerche prima di poter procedere alla notificazione secondo le modalità di cuiall’art. 143 cod. proc. civ.

Il Primo Presidente ha provveduto in conformità.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, denunciandosi violazione dell’art. 143 cod. proc. civ. e vizi di motivazione, si sostiene che colui il quale trasferisca definitivamente all’estero la propria residenza è tenuto a dichiarare sia la località, sia l’esatto indirizzo, ai fini della iscrizione nell’apposito registro anagrafico e dell’opponibilità ai terzi delle relative risultanze.

Si aggiunge che il difetto di tale adempimento – richiesto non solo dal combinato disposto dell’art. 2 della legge 24 dicembre 1954, n. 1120 e dell’art. 11 del D.P.R. 31 gennaio 1958, n. 136, ma anche dall’art.2 della legge 27 ottobre 1988, n. 470, in cui, relativamente all’istituita anagrafe dei cittadini italiani all’estero, si stabilisce che “l’ufficiale di anagrafe annota sulle schede individuali l’indirizzo all’estero comunicato dall’interessato o comunque accertato” – è imputabile a colpevole inerzia del destinatario dell’atto da notificare, il cui comportamento omissivo non può tradursi nell’onere del notificante di provvedere ad accertamenti ulteriori rispetto a quelli condotti sulle risultanze anagrafiche.

Col secondo motivo di ricorso, denunciandosi violazione dell’art. 2909 cod. civ e vizi di motivazione, si assume che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza resa dal pretore di Agrigento in esito al giudizio introdotto da Antonio (*) Guicciardo per la revocazione della stessa sentenza contro la quale era stato proposto appello, il Tribunale avrebbe dovuto ritenere precluso l’esame della questione concernente la tempestività di tale ultimo gravame, poiché il giudizio sul merito dell’istanza revocatoria proposta ex art. 396, primo comma, cod. proc. civ., implicitamente, ma necessariamente, presupponeva l’accertamento della conseguita inappellabilità della sentenza revocanda.

L’esame del secondo motivo di ricorso è pregiudiziale, poiché, ove dovesse affermarsi l’efficacia panprocessuale dell’eccepito giudicato (formatosi relativamente all’implicito accertamento dell’inoppugnabilità della sentenza oggetto della suddetta istanza revocatoria), dovrebbe trarsene la conseguenza della preclusione di identico accertamento nel presente giudizio e, quindi, dell’inammissibilità – a prescindere dalla questione della validità o meno della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio – dell’appello sul quale è stata pronunciata la sentenza qui impugnata.

L’eccezione è, però, infondata.

L’implicito accertamento (relativo all’avvenuta scadenza dei termini per la proposizione dell’appello) della condizione di ammissibilità dell’istanza di revocazione straordinaria ex art. 396, primo comma, cod. proc. civ., riguarda questione di natura meramente processuale, e la Corte reputa di non doversi discostare dall’orientamento giurisprudenziale, prevalente e condiviso da autorevole parte della dottrina, secondo cui la soluzione (implicita o esplicita) di questioni pregiudiziali di rito, avendo funzione meramente preparatoria della decisione finale sul merito, non può formare oggetto di cosa giudicata in senso sostanziale, ma può operare soltanto con effetti limitati al processo in cui è stata pronunciata.

Tale avviso discende dalla considerazione che la diversità di efficacia tra le sentenze che accolgono o respingono la domanda e le sentenze processuali si ricollega al particolare oggetto e contenuto di queste ultime: in ogni processo sono individuabili due distinti e non confondibili oggetti di giudizio, l’uno (processuale) concernente la sussistenza del dovere del giudice di decidere il merito della causa, l’altro (sostanziale) relativo alla fondatezza della domanda proposta; e se può, per tale ragione, riconoscersi che anche le pronunzie di rito partecipano a pieno titolo dell’accertamento giudiziale (di cui è espressa menzione nell’art. 2909 cod. civ.), non è men vero che tali decisioni sono destinate a vedere confinata la loro rilevanza nel giudizio in cui sono state rese, avendo un oggetto che è, per definizione, strettamente inerente alla vicenda processuale in corso, perché ad essa esclusivamente attiene l’accertamento del suddetto dovere e perché la questione processuale decisa (nella specie, la scadenza dei termini per l’appello) è confinata nell’ambito della cognizione pregiudiziale rispetto alla statuizione di rito, che esclude o riconosce “principaliter” l’esistenza di questo stesso dovere del giudice di pronunciare sulla fondatezza della domanda.

Correttamente, pertanto, il giudice dell’appello ha provveduto allo scrutinio di ammissibilità del gravame e ad autonomo accertamento della sussistenza delle condizioni che, ai sensi dell’art. 327, secondo comma, consentono tale ammissibilità pur dopo la scadenza del termine annuale previsto dal primo comma della medesima norma, così escludendo qualsiasi preclusione derivante dalla sentenza del giudice della revocazione.

La ritenuta correttezza di siffatta esclusione comporta, dunque, col rigetto del primo motivo di ricorso, la necessità di stabilire se sia conforme a diritto la statuizione del giudice di appello concernente la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, in riferimento alle condizioni che legittimano il ricorso alle modalità di cuiall’art. 143 cod. proc. civ.

Sulla questione implicata dalle censure svolte, al riguardo, col primo motivo di ricorso, la giurisprudenza della Corte ha espresso orientamenti contrastanti.

Secondo un primo orientamento – di cui è precipua espressione la sentenza 4 aprile 1986, n. 2341 – le garanzie del diritto di difesa, dalle quali discende la necessità che le forme della notificazione risultino idonee ad assicurare la conoscibilità, da parte del destinatario, dell’atto notificategli, impongono altresì di ritenere legittimo il ricorso alle forme di cuiall’art. 143 cod. proc. civ.solo in presenza di una situazione di irreperibilità che derivi da comportamento imputabile al destinatario medesimo e non sia superabile se non tramite complesse indagini: donde l’affermazione dell’insufficienza del mancato reperimento di quest’ultimo presso la sua residenza in Italia, a seguito di trasferimento all’estero, quando egli, in conformità a quanto disposto dall’art. 11 delD.P.R. 31 gennaio 1958, n. 136 (e con gli effetti di opponibilità ai terzi di cui all’art. 44 cod. civ. e all’art. 31 disp. att. c.c.), abbia provveduto a far annotare, presso l’anagrafe del comune di detta ultima residenza, lo Stato estero e la nuova località di residenza, mentre è in proposito irrilevante l’omessa indicazione anche dell’indirizzo della nuova abitazione, tenendo conto che essa non è prescritta dalla citata norma, e che comunque si tratta di un dato agevolmente acquisibile, tramite le autorità consolari.

In quest’ordine di idee si collocano anche le sentenze 8 maggio 1978, n. 2221 e 28 marzo 1991, n. 3358; la prima, infatti, ha formulato il principio per cui, qualora dai registri anagrafici risulti che la parte, alla quale deve essere notificato un atto processuale, si è trasferita all’estero, ma non risulti il comune, o l’analoga unità territoriale, del nuovo domicilio, la notificazione viene legittimamente effettuata secondo le forme dell’art. 143 solo ove il giudice del merito abbia accertato, con apprezzamento incensurabile, il vano espletamento di ricerche diligenti da parte del notificante; la seconda – emessa in una fattispecie in cui dai registri anagrafici era risultato che il convenuto era emigrato in Colombia, ma non era emerso neanche in quale città egli si trovasse -, ha ugualmente escluso la validità della notifica eseguita ai sensidell’art. 143 cod. proc. civ.in assenza del compimento di indagini diverse da quelle anagrafiche, concluse con esito negativo.

Di segno opposto è, invece, l’orientamento espresso dalla sentenza 29 novembre 1994, n. 10223, ad avviso della quale il principio secondo cui il ricorso alle modalità di notificazione di cui all’art. 143 cod. proc. civ. (notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuto) è consentito solo se sono state eseguite le ricerche suggerite dall’ordinaria diligenza per individuare un indirizzo presso cui eseguire la notificazione, non comporta l’onere di svolgere indagini nel caso in cui dalle ricerche anagrafiche effettuate nell’ultimo domicilio risulti il trasferimento in una città estera (nella specie, una città australiana), ma non il nuovo indirizzo.

In buona sostanza, mentre il primo dei riferiti orientamenti giurisprudenziali esige, per il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 cod. proc. civ., la duplice condizione che il difetto di risultanza anagrafica sia imputabile a colpevole inadempimento del destinatario e non superabile con informazioni che il notificante possa assumere facendo uso dell’ordinaria diligenza, l’altro sottolinea la portata, ed i limiti, della nozione di ordinaria diligenza, al cui ambito ritiene estranea, in caso di generica risultanza anagrafica circa il trasferimento all’estero del destinatario, ogni onere del notificante di attivarsi per acquisire la conoscenza dell’esatto indirizzo del destinatario medesimo.

È avviso delle Sezioni unite che debba essere accordata preferenza al primo dei segnalati orientamenti, ancorché per ragioni non pienamente coincidenti con quelle alle quali esso è stato affidato dalle ricordate sentenze, stante l’evoluzione del quadro normativo di riferimento, nel frattempo realizzatosi, anche per effetto della giurisprudenza costituzionale sul regime delle notificazioni.

In particolare, la sentenza n. 2341 del 1986 appare per larga parte improntata alla riconosciuta inesistenza di un obbligo del cittadino che trasferisca all’estero la propria residenza di comunicare all’ufficio anagrafico competente anche il proprio indirizzo.

Questa conclusione, con riguardo al caso di specie, non è più pienamente mutuabile, poiché, attesa la data dell’atto introduttivo del giudizio, il suddetto quadro normativo di riferimento, per le procedure anagrafiche di trasferimento all’estero, si era ormai arricchito delle disposizioni della legge 27 ottobre 1988, n. 470, recante “Anagrafe e censimento degli italiani all’estero”, con la quale sono state istituite le Aire (anagrafi dei cittadini italiani residenti all’estero), tenute dai Comuni e dal Ministero dell’interno sulla base delle schede, individuali e di famiglia, eliminate dall’anagrafe della popolazione residente in dipendenza del trasferimento permanente all’estero delle persone cui esse si riferiscono.

L’art. 2 della legge citata, dopo avere elencato, al comma 1, i casi di iscrizione nelle menzionate anagrafi, tra i quali figura, alla lett. a), il trasferimento della residenza da un comune italiano all’estero, dichiarato o accertato a norma del regolamento di esecuzione dellalegge n. 1228 del 1954, al comma 2 precisa che l’ufficiale di anagrafe annota sulle schede individuali “l’indirizzo all’estero comunicato dall’interessato o comunque accertato”.

L’art. 3 della stessa legge dispone che nelle istituite anagrafi degli italiani residenti all’estero devono essere registrate le mutazioni conseguenti, tra l’altro, alle dichiarazioni, rese dagli interessati, concernenti i “trasferimenti di residenza o di abitazione” che hanno avuto luogo all’estero (lett. a).

Inoltre, l’art. 6, dopo avere stabilito, al comma 1, che i cittadini italiani che trasferiscono la loro residenza da un comune italiano all’estero devono fame dichiarazione all’ufficio consolare della circoscrizione di immigrazione entro novanta giorni dalla immigrazione, prevede, al comma 2, per i cittadini già residenti all’estero alla data di entrata in vigore della legge, l’obbligo di dichiarare la propria residenza al competente ufficio consolare entro un anno da tale data ed aggiunge, al comma 3, che i cittadini residenti all’estero, in caso di mutamento della residenza o “dell’abitazione”, devono farne dichiarazione entro novanta giorni all’ufficio consolare nella cui circoscrizione si trova la nuova residenza o la nuova abitazione.

Il Regolamento per l’esecuzione dellalegge n. 470 del 1988, approvato conD.P.R. 6 settembre 1989, n. 323, all’art. 4, fa riferimento all’”indirizzo estero”, annoverandolo fra i dati da riportare, “in quanto disponibili”, per ciascuno dei cittadini italiani iscritti nelle Aire, il cui elenco nominativo i comuni, a norma dello stesso art. 4, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del regolamento stesso, devono trasmettere alle competenti prefetture per il successivo inoltro al Ministero dell’interno, ai fini della prima formazione della pane principale dell’anagrafe presso lo stesso Ministero.

Giova, peraltro, porre H luce che, l’acquisizione dei dati rilevanti ai fini della formazione degli schedari di cui sopra, se è in via prioritaria rimessa all’onere del cittadino tenuto alle relative dichiarazioni (delle quali è responsabile ex art. 6 delD.P.R. n. 223 del 1989, anche nel caso di trasferimento all’estero, come emerge dal successivo art. 13, comma 1, lett. a), è, in via sussidiaria, oggetto di una specifica funzione dell’Amministrazione competente, essendo stabilito dall’art.6, comma 5 della legge n. 470 del 1988che, scaduti i termini per la presentazione delle dichiarazioni oggetto dell’onere anzidetto, “gli uffici consolari provvedono ad iscrivere d’ufficio nei predetti schedari i cittadini italiani che non abbiano presentato le dichiarazioni, ma dei quali gli uffici consolari abbiano conoscenza, in base ai dati il loro possesso”. Né è senza rilievo la prevista rilevazione dei cittadini italiani all’estero (che, giusta l’art. 8 della stessa legge, ha luogo contemporaneamente al censimento dei cittadini residenti in Italia), ai fini della quale è del pari prevista un’iniziativa officiosa delle rappresentanze diplomatiche e degli uffici consolari, cui è demandato di “svolgere ogni opportuna azione intesa ad ottenere la segnalazione da parte delle pubbliche autorità locali dei nominativi e del recapito di cittadini italiani che si trovano nella loro circoscrizione” (art. 13), con conseguente acquisizione di dati dei quali è espressamente stabilita la destinazione, fra l’altro, ad aggiornamento degli schedari dell’Aire (art. 14, terzo comma e art. 18).

Ne emerge, dunque, un sistema che, a differenza di quello esaminato dalla sentenza del 1986, indubbiamente contempla la necessità di registrazione del dato concernente l’indirizzo del cittadino che si trasferisca all’estero o che vi risieda al momento dell’entrata in vigore della legge: necessità soddisfatta per il tramite dei competenti Uffici consolari, quali organi amministrativi destinatari dell’adempimento dell’obbligo di tali cittadini di fornire le informazioni necessarie alla propria reperibilità, ovvero titolari essi stessi del potere – dovere di provvedere agli opportuni accertamenti.

La consultazione dell’Aire è, dunque, il primo ed indispensabile adempimento cui il notificante è tenuto, allorché le risultanze dell’anagrafe ordinaria indichino l’avvenuto trasferimento all’estero del destinatario della notificazione, atteso che tale schedario speciale è lo strumento che, a normadell’art. 44 cod. civ., assume la funzione di rendere opponibili ai terzi i dati dichiarati, nei modi prescritti dalla legge, dai cittadini non residenti, sicché la detta consultazione si configura come un mero completamento di quella iniziata con riguardo ai registri anagrafici dei cittadini residenti nella Repubblica.

Da ciò, tuttavia non è dato trarre la conclusione che il difetto di risultanza anagrafica (ordinaria e speciale) circa l’esatto indirizzo del destinatario all’estero sia condizione sufficiente per esonerare il notificante da qualsivoglia ricerca ulteriore.

Vi ostano due fondamentali ragioni: l’una tutta interna alla disciplina stessa che ha istituito l’obbligo suddetto; l’altra, di carattere sistematico, che induce a negare un effettivo collegamento fra l’inadempimento dell’obbligo gravante sul destinatario e l’ambito della diligenza richiesta al notificante in ordine alla ricerca dei dati di identificazione del luogo in cui il primo può essere raggiunto.

Sotto il primo aspetto, rileva la posizione centrale che nella descritta disciplina assumono ali uffici consolari.

La disposizione per cui, in via sussidiaria, è rimesso al potere – dovere degli stessi Uffici di provvedere all’accertamento diretto dei medesimi dati non comunicati tempestivamente dall’interessato ha un effetto additivo rispetto alle fonti di conoscenza, con conseguente impossibilità di rinvenire nell’inerzia di quest’ultimo la ragione di un’impossibilità pratica di colmare la lacuna informativa del notificante circa quei dati. Correlativamente, passando dal piano pratico a quello giuridico, è plausibile il rilievo che i suddetti Uffici, in quanto collettori dell’informazione destinata ad alimentare i registri anagrafici, sia essa ottenuta per adempimento dell’obbligo suddetto o per iniziativa autonoma degli uffici medesimi, si collocano in una posizione non dissimile da quella delle Amministrazioni competenti alla tenuta di tali registri e, pertanto, rappresentano, anche istituzionalmente, organi che possono essere utilmente aditi per la soddisfazione delle menzionate necessità informative: il che va ribadito anche alla luce del disposto dell’art.67 del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, il quale, nel prevedere che presso ogni ufficio consolare è istituito e mantenuto uno schedario il più possibile aggiornato, tenuto conto delle circostanze locali, dei cittadini residenti nella circoscrizione, stabilisce che l’autorità consolare può rilasciare certificazione dei dati risultanti dallo schedario stesso.

Né il ricorso a questa possibile fonte alternativa di acquisizione del dato d’interesse del notificante comporta a carico del medesimo oneri abnormi, trattandosi di uffici esattamente identificati dalla legge, compulsabili senza necessità di osservare procedure complesse ed eventualmente anche per il tramite dell’Amministrazione centrale cui essi fanno capo, nonché con l’ausilio di mezzi elettronici, idonei ad assicurare l’evasione della richiesta in “tempo reale”, come emerge dalle prescrizioni dell’art. 4 delD.P.R. 6 settembre 1989, n. 323, in coerenza col disposto anche dell’art. 74 del citato D.P.R. n. 200 del 1967, che autorizza l’utilizzazione del mezzo telegrafico o telefonico nei rapporti fra l’Amministrazione centrale e l’ufficio consolare che trasmette informazioni.

Per quanto attiene al secondo, e più complesso, aspetto, deve porsi in evidenza che la disciplina della notificazione in generale e, in particolare di quella che governa il caso di destinatario non residente, né dimorante, né domiciliato nella Repubblica, costituisce punto di equilibrio fra esigenze contrapposte, ancorché parimenti presidiate dalle garanzie che l’art. 24 Cost.somministra al diritto di agire in giudizio ed a quello di difendersi dall’altrui azione. Sta, invero, da un lato, la necessità di garantire al notificante, anche in relazione ai termini di prescrizione o decadenza che questi sia eventualmente tenuto ad osservare, il libero e sollecito esercizio dei propri diritti; e, dall’altro, la non minore importanza delle garanzie di effettiva conoscenza dell’atto che devono essere offerte al destinatario, per assicurargli concretamente la possibilità di difendersi dalle pretese svolte nei suoi confronti.

Gli interventi della Corte Costituzionale e del legislatore, susseguitisi sugli artt. 142 e 143, terzo comma ne sono convincente dimostrazione, in quanto concorrono a costituire un sistema strutturato sulla distinzione tra perfezionamento ed efficacia dell’atto, che, già proprio, nei suoi aspetti sostanziali, dell’impianto originario delle norme codificate, si ulteriormente arricchito di precisazioni successive, intese a meglio salvaguardare ora l’interesse all’effettività della conoscenza, ora quello alla speditezza del procedimento.

Così, la dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenza n. 10 del 1978) dell’originario comma terzo dell’art. 143, nella parte in cui non prevedeva che, in ipotesi di notificazione diretta a persona non residente, né dimorante, né domiciliata nel territorio della Repubblica, la sua applicazione fosse subordinata all’accertata impossibilità di eseguire nei modi consentiti dalle convenzioni internazionali e dal D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, recante disposizioni sulle funzioni e sui poteri consolari, privilegia, rispetto al principio di conoscenza legale, le esigenze di conoscenza effettiva, attraverso il richiamo alla preliminare rilevanza della disciplina pattizia, generalmente improntata al principio dell’effettività della conoscenza.

Di qui il successivo intervento del Legislatore, che con lalegge 6 febbraio 1981, n. 42, di ratifica ed esecuzione della convenzione relativa alla notifica all’estero di atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale, adottata a l’Aja il 15 novembre 19658, ha modificato (articoli 8, 9 e 10) definitivamente il testo degliartt. 142 e 143 cod. proc. civ., inserendo nell’art. 142 un terzo comma, che prevede che “le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano soltanto nei casi in cui risulta impossibile eseguire la notificazione in uno dei modi consentiti dalle convenzioni internazionali e dagli artt.30e75 del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200”; e sostituendo il terzo comma dell’art. 143 nel senso che “nei casi previsti dal presente articolo e nei primi due commi dell’articolo precedente, la notificazione si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità prescritte”.

Un riequilibrio a favore delle garanzie di effettività dell’esercizio dei diritti del notificante si è realizzato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 69 del 1994, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale, per violazione degliartt. 3 e 24 Cost., del combinato dispostodell’art. 142, terzo comma, c.p.c.dell’art. 143, terzo comma, c.p.c. e dell’art. 680, primo comma, cod. proc. civ.nella parte in cui non prevedono che la notificazione all’estero del sequestro si perfezioni, ai fini dell’osservanza del prescritto termine, con il compimento delle formalità imposte al notificante dalle convenzioni internazionali e dalla legge consolare.

E la stessa Corte Costituzionale, con la successiva sentenza n. 358 del 1996 (nel rigettare la questione di legittimità costituzionale, sollevata per contrasto con l’art. 3 Cost.) e l’art. 24 Cost.,dell’art. 669-octies cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che in ipotesi di rilascio “ante causam” della misura cautelare, il giudizio di merito debba essere instaurato entro il termine stabilito dal giudice e comunque non superiore a trenta giorni, senza distinzione a seconda che la notifica dell’atto di citazione debba essere effettuata in Italia oppure all’estero) ha specificato che il meccanismo della notificazione all’estero, sotto l’aspetto funzionale, è stato modificato dalla intervenuta declaratoria di illegittimità di cui alla citata sentenza n. 69 del 1994, la quale assume una valenza generale poiché trascende la specifica fattispecie oggetto di quel giudizio e coinvolge il complessivo sistema notificatorio degli atti processuali risultante dagliartt. 142 e 143 cod. proc. civ. delimitandone l’ambito di operatività, le modalità ed i momenti di perfezionamento a seconda dei soggetti coinvolti e, soprattutto, a prescindere dal contenuto degli atti stessi.

Si riconosce, dunque, elevato a principio fondamentale della materia l’anticipazione del perfezionamento dell’atto, nei riguardi della parte notificante, al compimento delle formalità volta a volta indicate dalla legge – e, in particolare, dalle convenzioni internazionali vigenti in materia – con persistente operatività della suesposta regola della scissione tra il detto perfezionamento e la successiva efficacia dell’atto nei confronti del destinatario e con riguardo alla esigenza di operare un bilanciamento dei valori tutelati dalla Costituzione, ponendo quale limite al concreto esercizio del diritto di difesa del destinatario la esigenza dell’istante al rituale e spedito svolgimento del processo, che si estrinseca in un sistema idoneo ad una più agevole notificazione degli atti.

Del resto, seguendo la “ratio” della necessità di assicurare un siffatto bilanciamento, la Corte Costituzionale, già con la sentenza n. 213 del 1975, aveva espressamente formulato il principio secondo il quale nel processo civile, a differenza di quanto accade nel processo penale, “il diritto di difesa di ciascuna parte va contemperato con quello dell’altra, cosicché, con riguardo alle notifiche, a ragione vengono tenuti presenti non solo gli interessi del destinatario dell’atto, ma anche le esigenze del notificante, sul quale possono gravare oneri di notifica entro termini di decadenza”.

Orbene, identica “ratio” appare sottesa alla giurisprudenza di questa Corte sull’interpretazione dell’art. 143 cod. proc. civ., improntata a costante affermazione del principio per cui, al fine della validità della notificazione eseguita secondo questa norma, occorre che la conoscenza del luogo di residenza, dimora o domicilio del notificando sia oggettivamente impossibile per il notificante, nel senso che l’ignoranza di tali dati non sia superabile con l’impiego dell’ordinaria diligenza, la quale comporta la necessità di ricerche e richieste di informazioni suggerite dal caso concreto, non limitabili alla riscontrata insufficienza delle risultanze anagrafiche (si vedano, fra le tante, Cass., 26 marzo 2001, n. 4339; Id., 3 febbraio 1998, n. 1092; Id., 2 maggio 1997, n. 3799; Id., 18 luglio 1997, n. 6618; Id., 10 luglio 1997, n. 6257; Id. 20 dicembre 1996, n. 11428; Id., 25 novembre 1995, n. 12223; Id., 13 maggio 1991, n. 5329).

In effetti, come le contrapposte esigenze cui deve assicurare soddisfazione il procedimento notificatorio confluiscono e si contemperano nell’operatività della regola della scissione del momento del perfezionamento rispetto a quello dell’efficacia, così si esclude un rapporto di causalità – dipendenza fra l’onere (di colui che voglia rendere opponibile ai terzi la propria reperibilità in un determinato luogo) di provvedere ad un’apposita dichiarazione finalizzata alle opportune annotazioni in pubblici registri e l’onere del notificante di ricercare diligentemente i dati personali del destinatario della notificazione, anche al di là di tali annotazioni: i comportamenti richiesti ai soggetti portatori delle esigenze suddette rilevano su piani diversi, essendo il puntuale assolvimento del proprio onere, da parte del destinatario, funzionale alla realizzazione delle condizioni in presenza delle quali deve farsi luogo a formalità di notificazione che meglio assecondano la realizzazione dell’effettiva conoscenza dell’atto; mentre l’onere, imposto al notificante di provvedere alla suddetta ricerca è strumentale all’interesse al perfezionamento del procedimento notificatorio, anche con eventuale ricorso a formalità che, rispetto all’esigenza dell’effettività della conoscenza, privilegino questo stesso interesse, con compressione dei diritti di difesa del destinatario che non avrebbe ragion d’essere qualora, nonostante l’esito negativo della consultazione dei registri, ancorché determinato dalla negligenza del destinatario medesimo, rimanessero sperimentabili, ma inesplorate, ulteriori possibilità di ricerca, richiedenti l’impiego di normale diligenza, non diversa da quella implicata da siffatta consultazione.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, può, conclusivamente affermarsi in via di principio che, sebbene la disciplina degli adempimenti anagrafici dovuti dal cittadini italiani che trasferiscano all’estero la propria residenza risulti improntata al principio dell’acquisizione anche del dato costituito dall’indirizzo dell’interessato e della disponibilità del medesimo attraverso i registri dell’AIRE, il difetto di risultanze anagrafiche relative ad esso, ancorché imputabile, in via prioritaria, ad inerzia del destinatario di una notificazione, non legittima, per questo solo fatto il notificante al ricorso alle formalità di notificazione di cuiall’art. 143 cod. proc. civ., che resta, invece, subordinato all’esito negativo di ulteriori ricerche eseguibili con l’impiego dell’ordinaria diligenza presso l’Ufficio consolare di cui all’art.6 della legge 27 ottobre 1988, n. 470, che costituisce non solo il tramite istituzionale attraverso il quale il contenuto informativo dell’adempimento degli obblighi di dichiarazione del cittadino all’estero perviene alle amministrazioni competenti alla tenuta dei menzionati registri, ma anche l’organo cui competono poteri sussidiari di accertamento e rilevazione, intesi a porre rimedio alle lacune informative derivanti dall’inerzia suddetta.

Le statuizioni della sentenza impugnata, in punto di nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio eseguita ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., senza alcuna preventiva indagine presso i competenti uffici consolari, si palesano, dunque, conformi al diritto, con conseguente infondatezza anche del primo motivo del ricorso.

Il ricorso stesso va, pertanto, va rigettato.

Il contrasto di giurisprudenza esistente sull’esaminata questione costituisce giusto motivo di compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma il 21 febbraio 2002.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 10 MAGGIO 2002.

(*) ndr: così nel testo.


Cass. pen. Sez. VI, (ud. 14-11-2001) 01-02-2002, n. 3883

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. Francesco Romano Presidente

1. Dott. Dolfo Di Virginio Consigliere

2. ” Antonio Stefano Agrò “

3. ” Nicola Milo (rel.)”

4. ” Giorgio Colla “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da , nato a Teggiano l’1-2-1950,

avverso la sentenza 9-11-2000 della Corte d’Appello di Salerno:

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dr. N. Milo;

Udito il Pubblico Ministero in persona del dr. Enrico Delehaye che ha concluso per il rigetto del ricorso;

il difensore avv. M. Pinto non è comparso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’Appello di Salerno, con sentenza 9-11-’00, riformando in parte quella in data 14-10-’98 del GUP del Tribunale di Sala Consilina che, all’esito del rito abbreviato, aveva dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 314/2^ c.p., attenuato ex artt. 62 bis e 62 n. 6 c.p., concedeva all’imputato anche l’attenuante della speciale tenuità del danno (art. 62 n. 4 c.p.) e riduceva la pena principale, già condizionalmente sospesa, a mesi due e giorni dieci di reclusione, ferma restando la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Al , in particolare, si era addebitato di avere ripetutamente fatto uso, per ragioni personali e private, tra il maggio e il giugno 1995, dell’utenza telefonica installata presso il Comune di Teggiano, della quale, in quanto consigliere comunale, aveva la disponibilità.

Ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione il prevenuto e ha lamentato la violazione degli art. 323 bis c.p. e 53 della legge 689/’81, nonché il connesso vizio di motivazione, sostenendo che ricorrevano i presupposti per ritenere il fatto di particolare tenuità e per accordargli la sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria.

La difesa dell’imputato ha depositato, in data 21-5-2001, memoria, con la quale, insistendo nelle censure già articolate, ha dedotto una ulteriore doglianza finalizzata a sostenere, attraverso il richiamo di un precedente giurisprudenziale di questa Corte, l’irrilevanza penale del fatto.

All’odierna udienza pubblica, assente il difensore del ricorrente, il P.G. ha concluso come da epigrafe.

Preliminarmente, va disattesa l’istanza di differimento della trattazione del presente procedimento, per allegato impedimento del difensore. Detta istanza, infatti, è supportata da una documentazione giustificativa generica e non è stata comunicata tempestivamente, ma solo in data 5 novembre u.s.

Il ricorso, in quanto manifestamente infondato, va dichiarato inammissibile.

Non ha pregio il motivo aggiunto di cui alla memoria 21-5-2001.

Il richiamo che in questa si è fatto al recente precedente di questa Corte (sentenza n. 554 del 20-4-2001, P.M. c. ) è fuori luogo, perché la soluzione in quel caso adottata, in quanto coerente con una certa ricostruzione fattuale, non può essere, per così dire, “estesa” al caso in esame, per ritenere l’irrilevanza penale dello stesso.

Quel precedente giurisprudenziale va, anzi, tenuto presente per qualificare più correttamente, “sub specie iuris”, la condotta scritta all’imputato.

Posto che questa è consistita nell’utilizzazione dell’utenza telefonica del Comune di Teggiano, per lunghe e ripetute conversazioni personali dal contenuto erotico – sentimentale, va precisato che, in questo caso, si è verificata una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici attraverso i quali si trasmette la voce, atteso che l’art. 624/2^c.p. dispone che “agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico”.

Se, quindi, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell’ufficio o del servizio, dell’utenza telefonica intestata alla P.A. la utilizza per effettuare chiamate d’interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell’uso dell’apparecchio telefonico quale oggetto fisico, come ritenuto in sede di merito, bensì nell’appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a fare parte della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le conversazioni telefoniche.

Ciò porta a inquadrare l’ipotesi in esame nel peculato ordinario di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., considerato che non sono immediatamente restituibili, dopo l’uso, le energie utilizzate (e lo stesso eventuale rimborso delle somme corrispondenti all’entità dell’utilizzo non potrebbe che valere come ristoro del danno arrecato).

Nel caso specifico, a differenza dell’episodio oggetto della decisione di questa Corte richiamata nella memoria difensiva, non ricorrono, avuto riguardo al tenore delle conversazioni, quelle “rilevanti e contingenti esigenze personali” che, in via eccezionale, potrebbero giustificare l’utilizzo della linea telefonica di una pubblica amministrazione.

Nessun riflesso sul trattamento sanzionatorio, difettando il gravame del P.M.

La Corte di merito ha, poi, dato conto, con motivazione adeguata e immune da vizi logici. delle ragioni che l’hanno indotta a non accordare la sollecitata attenuante di cui all’art. 323 bis C.P. e la sostituzione della pena detentiva: si è fatto leva su argomentazioni non meramente formali e tangibili, ma indicativi della particolare gravità del fatto e della negativa personalità dell’agente, apprezzamenti questi che, implicano una valutazione fattuale, non possono essere contestati in questa sede, anche perché sono in linea con la “ratio” delle norme di legge denunciate.

Consegue, di diritto, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese e della sanzione pecuniaria di L 1.000.000 (ritenuta congrua) alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.
Qualificato il fatto come peculato di cui al primo comma dell’art. 314 C.P., dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di L 1.000.000 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 14.11.’01

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 1 FEB. 2002


Cass. civ. Sez. lavoro, 14-08-2001, n. 11105

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Antonio SAGGIO – Presidente –

Dott. Alberto SPANÒ – Consigliere –

Dott. Attilio CELENTANO – Rel. Consigliere –

Dott. Paolo STILE – Consigliere –

Dott. Aldo DE MATTEIS – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

LATTANZI BRUNO, elettivamente domiciliato in ROMA V.LE MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato ELIO VITALE, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA A FAVORE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VLE DELLE MILIZIE 19, presso lo studio dell’avvocato ALDO LUCIO LANIA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 668/99 del Tribunale di MACERATA, depositata il 10/11/99 R.G.N. 10/97;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/01 dal Consigliere Dott. Attilio CELENTANO;

udito l’Avvocato VITALE;

udito l’Avvocato LANIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Renato FINOCCHI GHERSI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso del 17 marzo 1989 il signor Bruno Lattanzi chiedeva al Pretore di Ancona la condanna della Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti a corrispondergli la pensione di vecchiaia, negata in sede amministrativa.

Costituitasi, la convenuta si opponeva alla domanda, sostenendo che dalla documentazione prodotta dal Lattanzi erano risultate solo sporadiche prestazioni professionali, per le quali il ricorrente non aveva ricevuto compensi.

Con sentenza del 23 maggio/27 novembre 1990 il Pretore rigettava la domanda, escludendo l’esercizio di un’attività qualificabile come libera professione.

Il Tribunale di Ancona, adito in sede di appello dal Lattanzi, riconosceva invece l’esistenza del diritto vantato dall’appellante e condannava la Cassa al pagamento della pensione. I giudici di secondo grado osservavano che il Lattanzi aveva maturato il diritto alla pensione prima dell’entrata in vigore della legge n. 21 del 29 gennaio 1986, che aveva sancito l’obbligo di iscrizione alla Cassa solo per i dottori commercialisti, iscritti all’albo professionale, che esercitassero la libera professione con carattere di continuità.

Secondo la previgente disciplina, applicabile alla posizione del Lattanzi, la iscrizione alla Cassa era obbligatoria a prescindere dalla continuità dell’esercizio dell’attività professionale, per cui era irrilevante l’entità di tale esercizio, spettando la pensione anche con il versamento della sola contribuzione minima obbligatoria.

Avverso tale sentenza la Cassa ricorreva per cassazione, sostenendo che fin dalla legge 3 febbraio 1983 n. 100 il libero professionista, per avere diritto alla pensione, doveva in ogni caso ricavare dalla sua attività un reddito, anche modesto; il che non era avvenuto nel caso del Lattanzi, il quale, per sua esplicita ammissione, negli anni dal 1972 al 1981 aveva lavorato, in regime di subordinazione, alle dipendenze del Consorzio nazionale obbligatorio tra gli esattori delle imposte dirette, mentre prima del 1972 aveva lavorato alle dipendenze dell’istituto Bancario, tanto da essere pensionato INPDAI.

Il ricorso veniva accolto “per quanto di ragione” da questa Corte con sentenza n. 3493 del 13 aprile 1996.

Ricordato che secondo l’art. 2 della legge 3 febbraio 1963 n. 100, applicabile alla fattispecie, il diritto alla pensione sorge pur sempre quando vi sia stata una effettiva pratica professionale, pur essendo irrilevante l’entità e la intensità del lavoro concretamente svolto e sussistendo, inoltre, una presunzione semplice di esercizio dell’attività professionale per chi fosse iscritto alla Cassa, la Corte rilevava che il Tribunale di Ancona non aveva affatto proceduto ad accertare se il Lattanzi avesse effettivamente esercitato la professione, sia pure senza il carattere della continuità (punto sul quale le circostanze di fatto non erano per nulla pacifiche).

Cassava, pertanto, la sentenza impugnata e rinviava la causa al Tribunale di Macerata, perché accertasse in fatto “la natura e la entità, sia pur minima dell’attività svolta dal Lattanzi nel corso di tutto il suo periodo di iscrizione alla Cassa, al fine del raggiungimento del periodo minimo di contribuzione”.

La Cassa riassumeva la causa davanti al giudice di rinvio, chiedendo rigettarsi la domanda del ricorrente; il Lattanzi si costituiva, chiedendo, invece, l’accoglimento del suo ricorso.

Con sentenza del 27 ottobre/10 novembre 1999 il Tribunale di Macerata rigettava l’appello, confermando quindi la sentenza del Pretore di Ancona.

Il giudice del rinvio osservava, da un lato, che il Lattanzi non aveva provato la prestazione da parte sua di attività libero professionale di dottore commercialista per il periodo necessario al maturare del diritto alla pensione e, dall’altro, che dalla istruttoria espletata in primo grado era risultato che per almeno tredici anni il Lattanzi aveva svolto attività di vice direttore del Consorzio nazionale per la meccanizzazione, di assorbente impegno, sicché veniva confermato anche il mancato compimento del periodo temporale necessario per il maturare del diritto alla prestazione previdenziale.

Per la cassazione della sentenza del Tribunale di Macerata ricorre, formulando tre motivi di censura, illustrati con memoria, il dottor Bruno Lattanzi.

La Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, denunciando “violazione delle norme di diritto relative alle presunzioni”, la difesa del dott. Lattanzi deduce che erroneamente il Tribunale ha rigettato la domanda per la mancata prova dell’esercizio dell’attività professionale. Assume che, sussistendo una presunzione semplice di esercizio, sia pur minimo, di attività professionale per gli iscritti alla Cassa, non competeva al ricorrente dimostrare l’esistenza di tale attività, ma alla Cassa dimostrare il mancato esercizio.

Aggiunge che, comunque, il Tribunale ha illegittimamente escluso che le prove addotte fossero idonee ad attivare una attività istruttoria di ufficio, non essendosi tenuto conto del fatto che la stessa controparte aveva riconosciuto che nel periodo considerato, 1972/1976, il Lattanzi aveva svolto attività libero professionale, contestando solo il requisito della continuità.

Con il secondo motivo la difesa del dottor Lattanzi denuncia violazione delle norme relative al procedimento di rinvio, con particolare riguardo all’art 112 in relazione all’art. 394 c.p.c..

Assume che il Tribunale di Macerata ha errato nel ritenere insufficienti gli elementi probatori prodotti dal Lattanzi, ed in particolare la dichiarazione della Consulmarche.

Rileva, poi, che il Lattanzi non poteva, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, chiedere di espletare nuova attività istruttoria, atteso il carattere chiuso del processo di rinvio.

Con il terzo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione delle norme di legge in ordine alla valutazione delle prove.

Si deduce che, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata circa la carenza di elementi identificativi della Consulmarche (pag. 6, ultimo capoverso), erano depositai in atti, fin dal primo grado, “oltre alla dichiarazione del 3.7.87 del Presidente della succitata Società, anche diversi depliant pubblicitari relativi alla Consulmarche srl e relativi sia a convegni da essa organizzati, sia di presentazione della stessa, oltre a numerosi bollettini informativi predisposti dalla stessa Società la quale, sarà bene precisarlo è una società di consulenza aziendale che vanta tra i propri Clienti i maggiori Industriali delle Marche a cui fornisce vari servizi, tra i quali anche quelli tributari, commerciali, e di formazione”.

Il ricorso, i cui tre motivi si trattano congiuntamente in considerazione della loro stretta connessione, non è fondato, anche se alcune censure appaiono esatte; si tratta però di erronee affermazioni, da parte del giudice di rinvio, che non hanno inciso sulla correttezza della decisione.

Va infatti sottolineato che la sentenza del Tribunale di Macerata si fonda su una doppia motivazione.

Da una parte il Tribunale ha affermato che il dottor Lattanzi, cui incombeva l’onere di dimostrare l’esercizio di attività professionale per il periodo necessario al maturare del diritto alla pensione, non aveva chiesto l’espletamento di alcuna nuova attività istruttoria in sede di rinvio, e che la dichiarazione in data 3.7.87 a firma illeggibile del presidente della srl Consulmarche (della quale non venivano forniti ulteriori elementi identificatori) si limitava ad attestare che il Lattanzi avrebbe collaborato “per diversi anni” al periodico “consulmarche informa”, che avrebbe avuto contenuto amministrativo e fiscale; per il resto la dichiarazione era generica e ricognitiva di giudizi piuttosto che di fatti inerenti l’attività professionali del Lattanzi. La domanda andava pertanto rigettata per il mancato assolvimento dell’onere della prova da parte del dottore commercialista.

Né il Tribunale riteneva che la documentazione prodotta, attesa la scarsa o nulla valenza probatoria in ordine allo svolgimento di attività professionale, giustificasse l’attivarsi istruttorio dell’Ufficio.

Dall’altra, il giudice di rinvio ha osservato che dalla istruttoria pretorile era risultato che per almeno tredici anni il Lattanzi aveva svolto attività di vice direttore del Consorzio per la meccanizzazione, di assorbente impegno per la importanza e molteplicità delle attività connesse, per cui veniva confermata la circostanza del mancato compimento del periodo temporale necessario per il maturare del diritto alla prestazione previdenziale.

La prima motivazione contiene, indubbiamente, alcune inesattezze.

Avendo la sentenza rescindente affermato che esiste, per chi sia iscritto alla Cassa, la presunzione semplice dell’effettivo esercizio di attività libero – professionale, il che sposta sulla Cassa l’onere di dimostrare la insussistenza dell’esercizio della libera professione (pag. 9 della sentenza n. 3493/96), erroneamente il Tribunale di Macerata ha addossato l’onere della prova al dottor Lattanzi (salvo per quanto concerne la prova di elementi atti a contrastare gli opposti elementi forniti dalla Cassa). Ed erroneamente ha ritenuto che nel giudizio di rinvio – nel quale non risultavano spostati i termini del contendere – avrebbero potuto essere richiesti, dalle parti, nuovi mezzi istruttori.

Questa seconda affermazione non tiene conto del fatto che l’art. 394 c.p.c. vieta alle parti di prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata (salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione), per cui nel giudizio di rinvio non possono essere articolate prove non dedotte nel primo giudizio di appello, a meno che dalla sentenza di annullamento non risulti modificato il thema decidendum (Cass., 12 ottobre 1994 n. 8334; 14 aprile 1999 n. 3680).

La seconda motivazione, invece, appare corretta ed è da sola idonea a fondare la decisione di rigetto della richiesta di prestazione previdenziale.

Il Tribunale di Macerata ha ritenuto, infatti, che dalla istruttoria pretorile era risultato che per almeno tredici anni il Lattanzi aveva svolto attività di vice direttore di un consorzio, attività di assorbente impegno, sicché veniva comunque a mancare il compimento del periodo temporale necessario per il maturare del diritto alla pensione.

Tale seconda motivazione non viene puntualmente censurata dal ricorrente, il quale si limita a criticare genericamente la valutazione che il Tribunale ha dato della dichiarazione 3.7.87 a firma del presidente della Consulmarche srl.

Va però ribadito che i documenti provenienti da terzi estranei alla lite possono offrire solo elementi indiziari che, in concorso con altre risultanze, sono suscettibili, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, di integrare il fondamento della decisione; e che tale apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità (cfr. Cass., 1° agosto 2000 n. 10041).

Nella fattispecie in esame il Tribunale dì Macerata ha ampiamente esposto le ragioni per le quali il contenuto della dichiarazione proveniente da un non identificato presidente della Consulmarche srl non fosse idoneo a dimostrare l’espletamento, “per il periodo necessario al maturare del diritto previdenziale”, di attività libero professionale di dottore commercialista: la estrema genericità della dichiarazione, priva di riferimenti precisi, temporali e spaziali, ricognitiva di giudizi piuttosto che di fatti.

Quanto poi al mancato esercizio dei poteri istruttori di ufficio, il Tribunale lo ha spiegato con la scarsa o nulla consistenza della documentazione prodotta (mentre l’istruttoria pretorile aveva dimostrato l’esercizio, per tredici anni, di una attività subordinata di assorbente impegno).

Si tratta di una motivazione congrua e non illogica, donde la sua insindacabilità in sede di legittimità.

Né è poi vero che la Cassa nei precedenti gradi di giudizio avesse ammesso, nella comparsa di costituzione o “negli altri atti del procedimento”, l’espletamento di attività libero professionale, negando solo la continuità.

Non vengono riportate le dedotte ammissioni, con violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione; e comunque la memoria difensiva in primo grado – l’unico “atto del procedimento” indicato specificamente – non contiene alcuna ammissione di espletamento di attività libero professionale, essendosi limitata la Cassa, dopo aver sottolineato che il ricorrente aveva svolto attività subordinata di dirigente amministrativo, tale da procurargli la pensione di vecchiaia INPDAI, a dichiarare di aver appreso dal medesimo dr. Lattanzi che lo stesso non aveva “mai esercitato se non saltuariamente e con incarichi di poco conto e senza remunerazione, la professione di dottore commercialista: tanto vero che non ha mai conseguito redditi soggetti ad IRPEF ed IVA!”.

Per tutto quanto esposto il ricorso va rigettato; nessun provvedimento va preso in ordine alle spese, atteso il carattere previdenziale della controversia e la carenza della temerarietà della pretesa (art. 152 disp att. c.p.c.).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso: nulla per le spese.

Così deciso in Roma il 6 giugno 2001.

DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 14 AGO. 2001.


Cass. civ., Sez. III, (data ud. 23/04/2001) 23/04/2001, n. 5963

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Ernesto LUPO – Presidente –

Dott. Vincenzo SALLUZZO – Rel. Consigliere –

Dott. Michele VARRONE – Consigliere –

Dott. Italo PURCARO – Consigliere –

Dott. Giuliano LUCENTINI – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ATZORI SILVANA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LUCA SIGNORELLI 12, presso lo studio dell’avvocato ABATE ROSARIO, che la difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

RENTMACCHINE SPA, in liquidazione – in persona del liquidatore, legale rappresentante della società, corrente in Bologna, elettivamente domiciliato in ROM VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato OZZOLA MASSIMO, che lo difende unitamente all’avvocato DI MARCO DANIELE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3404/97 della Corte d’Appello di ROMA, emessa il 22/10/1997, depositata il 20/11/97; RG. 3474/1995;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/10/00 dal Consigliere Dott. Vincenzo SALLUZZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele PALMIERI che ha concluso per preliminarmente inammissibilità del controricorso; nel merito: rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con istanza rivolta al Presidente del Tribunale di Viterbo la s.p.a. Rentmacchine (già Cimino Leasing spa), assumendo di avere concesso in locazione a Silvana Atzori, con contratto stipulato il 7.11.1989, una macchina lavasecco verso corrispettivo di pagamento, oltre l’anticipo, di 59 canoni mensili dell’importo di L. 569.400 ciascuno, determinando il valore del riscatto in L. 260.000 e pattuendo, per il caso di mora, la corresponsione di interessi al tasso mensile del 3%; che nel contratto era stato convenuto che, in caso di ritardato o mancato pagamento anche di una sola rata, il rapporto si sarebbe risolto di diritto, con obbligo per la locataria di restituire il bene e corrispondere una penale pari ai canoni insoluti, ai relativi interessi, al valore di riscatto e alla metà dei canoni non ancora scaduti; che la Atzori si era resa morosa nel pagamento di numerose rate onde essa società le aveva comunicato che intendeva valersi della clausola risolutiva; chiedeva emettersi contro la stessa ingiunzione per il pagamento del complessivo importo di L. 19.986.714, con interessi moratori dalla risoluzione al saldo.

Accordata, con decreto reso il 22.12.1992, l’invocata ingiunzione, la Atzori, con atto notificato il 29.1.1993, proponeva opposizione e conveniva la spa Rentmacchine dinanzi al Tribunale di Viterbo per sentirne dichiarare la nullità ed inefficacia.

Sosteneva che già con citazione notificata il 2.5.1990 aveva promosso un giudizio dinanzi al Tribunale di Roma al fine di ottenere la risoluzione del contratto per vizi della cosa ed eccepiva quindi la litispendenza e la continenza di cause dietro l’assunto che l’esistenza dello stesso aveva determinato l’incompetenza del Presidente del tribunale di Viterbo ad emanare il provvedimento monitorio.

Negava infine l’esistenza del preteso credito per esserle stata fornita una macchina inidonea all’uso.

La Rentmacchine, costituendosi, contestava la fondatezza dell’opposizione e ne chiedeva il rigetto.

Con sentenza in data 7.5.1995 l’adito Tribunale rigettava l’opposizione e condannava l’opponente alla rifusione delle spese.

Avverso tale decisione proponeva gravame la Atzori al quale resisteva la Rentmacchine.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza in data 22.10-20.11.1997, rigettava l’impugnazione ed onerava l’appellante delle spese del grado.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la Atzori affidandone l’accoglimento ad un solo motivo.

Resiste con controricorso la Rentmacchine.

Motivi della decisione
Va preliminarmente rilevata l’inammissibilità del controricorso per nullità della procura a margine che risulta rilasciata dal liquidatore – legale rappresentante della società intimata del quale, tuttavia, né nella procura medesima, né nell’epigrafe del controricorso vengono indicati il nome ed il cognome, mentre la firma apposta in calce alla procura non è leggibile.

Per costante, pacifica giurisprudenza di questa Suprema Corte, infatti (v. ex plurimis Cass. 23.5.1998 n. 5154, 20.5.1998 n. 5023, 4.10.1995 n. 10427 e 18.5.1995 n. 5455) “nel conferimento della procura alle liti ai sensi dell’art. 83 comma terzo cod. proc. civ.

la certificazione da parte del difensore dell’autografia della sottoscrizione del conferente postula che ne sia accertata l’identità ed esige perciò che ne sia indicato il nome. Pertanto, quando né dall’intestazione del ricorso per cassazione (o del controricorso) proposto da una società o da altro ente collettivo, né nella procura speciale ex art. 365 cod. proc. civ. risulti il nome della persona fisica che l’ha conferita, perché non vi è nominativamente indicata e la firma è illegibile (*), l’incertezza sulla persona del conferente, preclusiva della successiva indagine sulla esistenza in capo a lui dei necessari poteri rappresentativi, rende invalida la procura e inammissibile il ricorso (o il controricorso) a meno che, entro i limiti di cui all’art. 372 cod. proc. civ., e tanto non si è sicuramente verificato nel caso che ci occupa – sia idoneamente documentato, mediante la produzione di atti già esistenti al momento del conferimento, il riferimento della già indicata qualità di legale rappresentante ad una ben individuata persona fisica”.

Tanto non esonera però questa Corte dall’esame della dedotta questione di inammissibilità del ricorso che va verificato d’ufficio prescindendo da qualsiasi eccezione di controparte.

A tale specifico riguardo va affermata l’assoluta irrilevanza della effettuata notifica alla Rentmacchine s.p.a. (vecchia denominazione sociale) anziché alla Rentmacchine srl (nuova ragione sociale della resistente – per come è dato evincere dal prodotto certificato della CCIAA di Bologna) e cioé, almeno apparentemente, a soggetto diverso.

Come questo Supremo Collegio ha infatti già avuto modo di precisare (cfr. ex plurimis Cass. 4.11.1998 n. 1107 e 9 aprile 1987 n. 3481) la trasformazione di una società da uno ad altro dei tipi previsti dalla legge, ancorché dotato di personalità giuridica, non si traduce nell’estinzione di un soggetto e correlativa creazione di altro soggetto, in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale non incide sui rapporti sostanziali e processuali che ad esso fanno capo.

Quanto al merito del ricorso va osservato che con l’unico mezzo la ricorrente, deducendo “contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.) – violazione dell’art. 39 c.p.c.” si duole che il giudice dell’opposizione non abbia dichiarato la propria incompetenza nel dimostrato presupposto della pendenza tra le parti di causa anteriormente proposta davanti al Tribunale di Roma avente ad oggetto la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno e quindi della sussistenza di una situazione di continenza di tale causa rispetto a quella instaurata con il decreto monitorio.

Il ricorso è fondato.

É pacifico tra le parti, e risulta comunque dall’impugnata sentenza, che con citazione notificata il 2.5.1990 Silvana Atzori, adducendo l’inefficienza della macchina vendutale, ha convenuto in giudizio la srl IGEA, quale fornitrice, e la spa Barclays Cimino Leasing, quale locatrice, al fine di sentir dichiarare la risoluzione del contratto di vendita e la nullità, o la risoluzione, del contratto di locazione, nonché al fine di ottenere la restituzione degli acconti versati ed il risarcimento del danno.

Ed atteso quanto sopra deve riconoscersi l’esistenza tra le due cause – contrariamente all’assunto della corte territoriale – di un rapporto di continenza.

Al riguardo deve premettersi che la nozione di continenza ricomprende quelle situazioni caratterizzate dalla pendenza di cause in cui le questioni dedotte con la domanda anteriormente incardinata, e da risolvere con efficacia di giudicato, costituiscano il necessario presupposto della definizione del giudizio successivo, nel senso cioé della sussistenza tra le due cause di un nesso di pregiudizialità logico – giuridica, come avviene quando le contrapposte domande concernano il riconoscimento e la tutela di diritti che derivino dallo stesso rapporto negoziale ed il loro esito dipenda dalla soluzione di una o più questioni comuni (v. Cass. 95/10676, 95/10594, 94/2803 e 90/3146).

Ne consegue, alla stregua di tale principio, che si deve riconoscere che nella causa proposta anteriormente dalla attuale ricorrente davanti al Tribunale di Roma, avente ad oggetto la risoluzione del contratto di vendita, la nullità o la risoluzione del contratto di locazione ed il risarcimento del danno, si era dedotta una questione la cui soluzione costituiva il necessario antecedente logico – giuridico della causa introdotta successivamente con la richiesta di decreto ingiuntivo da parte della Rentmacchine e con l’opposizione proposta dalla Atzori. E tanto considerato che la decisione sul diritto al pagamento delle rate di leasing, che costituiva l’oggetto della seconda causa, era condizionata dall’esito della prima e cioé dall’accoglimento o dal rigetto della domanda di risoluzione del contratto, in quanto fatto costitutivo del diritto azionato nell’altra.

Infatti, se la continenza di causa non è idonea a spostare la competenza funzionale ed inderogabile del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, come questa Corte ha ripetutamente affermato anche a sezioni unite (v. al riguardo Cass. 8.2.92 n. 10985, 26.4.93 n. 4807, 19.6.93 n. 6838, 12.7.93 n. 7684 e 8.10.93 n. 9988) essa tuttavia determina, ai sensi dell’art. 39 comma 2° c.p.c., l’incompetenza del giudice che ha emesso il decreto e la competenza del giudice preventivamente adito, se competente anche per la causa successivamente proposta. E in conseguenza di ciò è il giudice dell’opposizione che in tale caso deve dichiarare l’incompetenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo e la nullità dello stesso (v. in termini Cass. 95/10676, 95/10594, 93/9988, 91/10484 e 90/12083).

Sulla scorta degli esposti principi va quindi pronunciato l’accoglimento del ricorso, cassata senza rinvio l’impugnata sentenza e con decisione nel merito accolta l’opposizione e dichiarata la nullità del decreto ingiuntivo.

Quanto alle spese dell’intero processo sussistono giusti motivi, ai sensi dell’art. 92, comma 2° cod. proc. civ., per disporre la compensazione tra le parti.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa senza rinvio l’impugnata sentenza e pronunciando nel merito accoglie l’opposizione e, dichiara la nullità del decreto ingiuntivo e compensa le spese dell’intero processo.

Cosi deciso in Roma nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione il 30.10.2000.

(*) ndr: così nel testo.

DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 23 APR. 2001.


Corte cost., Ord., (ud. 13-04-2000) 03-05-2000, n. 128

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Ordinanza

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, secondo, terzo, quarto e quinto comma (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), promosso con ordinanza emessa il 27 gennaio 1999 dal Pretore di Udine, sezione distaccata di Latisana, nel procedimento civile vertente tra Meneghello Bertilla e Ministero delle finanze ed altra, iscritta al n. 212 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 1999.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 22 marzo 2000 il Giudice relatore Annibale Marini.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che il Pretore di Udine, con ordinanza emessa il 27 gennaio 1999, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 15, 24, 29 e 53 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, secondo, terzo, quarto e quinto comma (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche);

che, ad avviso del rimettente, la norma denunciata sarebbe lesiva del principio di eguaglianza tra i coniugi, in quanto – prevedendo che gli accertamenti in rettifica, in caso di dichiarazione congiunta dei redditi da parte di coniugi non legalmente ed effettivamente separati, siano notificati al solo marito – attribuirebbe a questi una posizione di ingiustificato vantaggio rispetto alla moglie;

che di contro la moglie, per il solo fatto di essersi avvalsa della facoltà di presentare la dichiarazione dei redditi unitamente al coniuge, subirebbe una limitazione del proprio diritto di conoscere atti idonei ad incidere nella propria sfera giuridica;

che qualsiasi presunzione di conoscibilità degli atti notificati al marito, da parte della donna coniugata, sarebbe d’altro canto esclusa nei casi di mancanza di coabitazione, per effetto di separazione o divorzio, con sicura violazione, in danno di costei, del diritto di difesa e del diritto all’inviolabilità della corrispondenza;

che, sotto un diverso aspetto, la medesima norma, nel prevedere – secondo l’interpretazione costituente diritto vivente – la responsabilità solidale dei coniugi non solo per gli obblighi tributari risultanti dalla dichiarazione dei redditi, ma anche per quelli derivanti da futuri accertamenti e dipendenti da comportamenti omissivi non riconducibili alla sfera volitiva e cognitiva di entrambi, determinerebbe, stante la non identità dei rapporti tributari facenti capo ai coniugi stessi, un’irragionevole ipotesi di responsabilità patrimoniale per fatto altrui;

che nel giudizio “a quo” la ricorrente – assoggettata a pignoramento, senza previa notifica della cartella esattoriale né dell’avviso di mora, per debiti d’imposta accertati nei confronti del coniuge separato, relativamente ad un periodo d’imposta, anteriore alla separazione, per il quale era stata presentata dichiarazione congiunta – ha proposto opposizione di terzo all’esecuzione sul presupposto della propria estraneità al rapporto tributario ed alla stessa attività di impresa svolta dal coniuge;

che alla medesima ricorrente, proprio in considerazione del vincolo di solidarietà passiva derivante dalla norma della cui legittimità costituzionale il rimettente dubita, andrebbe tuttavia negata la qualità di terzo rispetto all’esecuzione intrapresa dal concessionario del servizio di riscossione dei tributi e conseguentemente il giudice adito dovrebbe dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, in quanto, ai sensi dell’art. 53 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nel testo vigente al momento dell’opposizione, avverso gli atti esecutivi dell’esattore il contribuente ed i coobbligati possono fare ricorso esclusivamente all’Intendente di Finanza;

che la prospettata questione di costituzionalità sarebbe perciò, sotto tale profilo, rilevante ai fini della decisione;

che l’Avvocatura generale dello Stato, intervenuta in giudizio per il Presidente del Consiglio dei Ministri, ha concluso per la declaratoria di infondatezza della questione.

Considerato che il rimettente dubita, in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 29 e 53 Cost., della legittimità costituzionale della disciplina dettata, in tema di dichiarazione congiunta dei redditi da parte dei coniugi non legalmente ed effettivamente separati, dall’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, secondo, terzo, quarto e quinto comma;

che in ordine alla medesima questione, sollevata in riferimento al parametro di cui all’art. 3 Cost., questa Corte ha già affermato che la dichiarazione congiunta dei redditi rappresenta l’esercizio di una facoltà dei contribuenti, con i conseguenti oneri e vantaggi ad essa connessi, e che pertanto la relativa disciplina, anche procedimentale, resta riservata all’apprezzamento discrezionale del legislatore, cosicché la disposizione impugnata non può ritenersi lesiva del principio di eguaglianza laddove, nell’evidente intento di semplificazione e snellezza del procedimento tributario, prevede la notificazione degli atti impositivi al solo marito (sent. n. 184 del 1989, ord. n. 4 del 1998 e ord. n. 36 del 1998);

che sulla scorta di analoghe considerazioni va esclusa la prospettata violazione del principio di eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, di cui all’art. 29 Cost.;

che, per quanto riguarda il parametro di cui all’art. 24 Cost., non viene addotta dal rimettente ragione alcuna che induca a disattendere l’interpretazione adeguatrice della norma censurata, prospettata nelle pronunce già citate, a tenore della quale deve ritenersi che alla moglie, coobbligata in solido, sia comunque garantita dall’ordinamento la possibilità di tutelare i propri diritti entro i termini decorrenti dalla notifica dell’avviso di mora o del diverso atto con il quale venga per la prima volta a legale conoscenza della pretesa avanzata dall’Amministrazione finanziaria in via solidale, e ciò anche al fine di contestare eventualmente nel merito l’obbligazione tributaria del coniuge;

che anche con riferimento al parametro di cui all’art. 53 Cost. la medesima questione è stata già dichiarata manifestamente infondata, in base alla considerazione che il principio di capacità contributiva non esclude che la legge possa stabilire prestazioni tributarie solidali a carico oltreché del debitore principale anche di altri soggetti, comunque non estranei alla posizione giuridica a cui inerisce il rapporto tributario (sent. n. 184 del 1989, ord. n. 187 del 1991, ord. n. 301 del 1988, ord. n. 316 del 1987);

che del tutto inconferente è infine il riferimento al parametro di cui all’art. 15 Cost., in quanto la previsione di notifica degli atti di accertamento al solo marito non comporta evidentemente alcuna menomazione, in danno della moglie, delle garanzie di libertà e segretezza della corrispondenza di costei.

Visti l’art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e l’art. 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte Costituzionale.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 17 della legge 13 aprile 1977, n. 114, secondo, terzo, quarto e quinto comma (Modificazioni alla disciplina dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 15, 24, 29 e 53 della Costituzione, dal Pretore di Udine con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 aprile 2000.


Cass. civ. Sez. I, 21-04-2000, n. 5240

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.. Aldo VESSIA – Presidente

Dott. Ugo VITRONE – Cons. Relatore

Dott. Mario ADAMO – Consigliere

Dott. Laura MILANI – Consigliere

Dott. Angelo SPIRITO – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso per regolamento di competenza proposto da:

COOPERATIVA COSTRUTTORI s.r.l. in persona del legale rappresentante dott. Renzo Ricci Maccarini, quale capogruppo dell’Associazione Temporanea di Imprese tra la Cooperativa Costruttori s.r.l. e la C.I.L. S.p.A., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Parioli, n. 180, presso l’avv. Mario Sanino, che unitamente agli avv.ti Marco Colombo e Alessandro Alessandri la rappresenta e difende per procura a margine del ricorso;

ricorrente

ENTE AUTONOMO DEL FLUMENDOSA, in persona, del suo legale rappresentante, elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;

resistente

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 1063 pubblicata il 6 aprile 1999;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20 gennaio 2000 dal Relatore Cons. Ugo VITRONE;

lette le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Guido RAIMONDI, che ha concluso per la dichiarazione della competenza arbitrale con ogni conseguenza di legge;

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 23 settembre 1997 l’Ente Autonomo del Flumendosa proponeva dinanzi alla Corte d’Appello di Roma impugnazione per nullità del lodo arbitrale in data 5 maggio 1996, con il quale era stato condannato al pagamento della somma di L. 2.787.814.564, oltre accessori, in favore della Cooperativa Costruttori s.r.l. quale capogruppo dell’associazione temporanea di imprese tra essa Cooperativa e la C.I.L. S.p.A. a definizione della controversia insorta in dipendenza dell’esecuzione dei lavori di approvvigionamento idropotabile degli insediamenti turistici lungo la costa sud – orientale del Golfo di Cagliari e dei centri urbani di Settimo San Pietro, Sinnai e Maracalagonis, giusta contratto di appalto stipulato a seguito di licitazione privata il 26 settembre 1996. A sostegno della proposta impugnazione deduceva, preliminarmente, la nullità del lodo per incompetenza del collegio arbitrale.

Costituitasi in giudizio la Cooperativa Costruttori contestava la fondatezza dell’impugnazione e ne chiedeva il rigetto proponendo a sua volta impugnazione incidentale per sentir dichiarare la nullità del lodo sui punti oggetto di specifica impugnazione da parte della Cooperativa Costruttori.

Con sentenza del 12 marzo – 6 aprile 1999 la corte adita dichiarava la nullità del lodo ravvisando nella specie l’incompetenza del collegio arbitrale.

Osservava la corte che a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 16 della legge 10 dicembre 1981, n. 741, che aveva modificato il testo dell’art. 47 del Capitolato Generale delle Opere Pubbliche (sent. 9 maggio 1996, n. 152) era stata ripristinata l’originaria disciplina secondo cui, pur in presenza del principio di normale devoluzione ad arbitri delle controversie nascenti dai contratti di appalto di opere pubbliche, entrambi i contraenti avevano al facoltà di derogare alla competenza arbitrale, dovendo escludersi la legittimità di un arbitrato obbligatorio. La pronuncia del giudice delle leggi, avente efficacia retroattiva ed immediatamente applicabile alle controversie in corso, doveva ritenersi operante nella specie indipendentemente dalla considerazione che la disciplina del capitolato generale delle opere pubbliche nel testo poi dichiarato incostituzionale avesse valore negoziale poiché non poteva dubitarsi che le parti avevano inteso trasfondere nel contratto tutta la normativa richiamata, la cui contrarietà a norma imperativa ne impediva qualsiasi efficacia nell’ordine giuridico. Né poi la declinatoria della competenza arbitrale notificata dall’Ente Flumendosa alla controparte poteva essere considerata tardiva in quanto il termine di decadenza di trenta giorni, non operante al momento della notificazione dell’atto di accesso agli arbitri, iniziava a decorrere dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 16 della legge n. 741 del 1981, che aveva ripristinato la facoltà di deroga, quale era esclusa alla data della domanda di accesso agli arbitri.

Contro la sentenza ha proposto regolamento di competenza la Cooperativa Costruttori s.r.l. nella qualità di cui in epigrafe con cinque motivi.

L’Ente Autonomo del Flumendosa ha depositato memoria.

Il Pubblico Ministero ha depositato le sue conclusioni in data 15 novembre 1999.

Motivi della decisione
Con i cinque motivi di ricorso – che denunciano, sotto vari profili, l’errata interpretazione della portata della pronuncia di incostituzionalità posta a fondamento della decisione impugnata e che sono perciò suscettibili di considerazione unitaria – la Cooperativa Costruttori sostiene che la facoltà di deroga alla competenza arbitrale, ripristinata dalla Corte costituzionale, potrebbe essere invocata solo dall’appaltatore e non pure dall’Amministrazione, che aveva originariamente imposto l’obbligatorietà dell’arbitrato (primo motivo); che non si era tenuto conto del fatto che la clausola compromissoria trovava nella specie la sua fonte nella volontà negoziale delle parti le quali, attraverso il rinvio materiale alle norme del capitolato generale delle opere pubbliche avevano inteso devolvere concordemente ad arbitri le controversie nascenti dal contratto (secondo motivo); che la pronuncia di incostituzionalità poteva produrre effetti solo sulle norme giuridiche e non sulle pattuizioni contrattuali, le quali avevano cristallizzato la disciplina normativa recepita dalle parti (terzo motivo); che la declinatoria della competenza arbitrale, ripristinata dalla Corte costituzionale, non poteva operare nei confronti delle parti per le quali il termine di decadenza fosse, come nella specie, già scaduto (quarto motivo); che la declinatoria della competenza arbitrale sarebbe stata implicitamente revocata dalla nomina del proprio arbitro da parte dell’Ente Autonomo Flumendosa (quinto motivo).

Il ricorso non ha fondamento e deve essere respinto.

Va considerato, innanzi tutto, che la natura pattizia rivestita nella specie dalla disciplina del capitolato generale delle opere pubbliche, se vale ad escluderne il carattere di norma imperativa, recepisce pur sempre come regola negoziale quella disciplina normativa la quale resta sensibile ad ogni sua evoluzione. Ne consegue che, se non può contestarsi che la volontà resta insensibile alla disciplina normativa sopravvenuta, la quale, com’é noto, ha effetto ex nunc – come è stato sottolineato da questa Corte, la quale ha negato che la disciplina introdotta dal capitolato delle opere pubbliche del 1962 potesse essere invocata dai contraenti i quali avevano recepito pattiziamente quella del capitolato generale del 1895, in vigore all’epoca della stipulazione del contratto, e ciò in forza del principio generale espresso dal brocardo tempus regit actus (Cass. 13 gennaio 1982, n. 178) – essa non resta però insensibile alla dichiarazione di incostituzionalità della normativa convenzionalmente recepita, poiché la pronuncia di incostituzionalità non sostituisce alla normativa non conforme a costituzione una diversa normativa, ma adegua la norma denunciata ai dettami della costituzione, con effetti ex tunc i quali incontrano il solo limite delle situazioni esaurite, e tale non può dirsi una disciplina negoziale contestata in sede giudiziale in un processo tuttora in corso.

Ciò chiarito, la facoltà di deroga della competenza arbitrale prevista nel quadro di un sistema che prevede in via generale che le controversie nascenti dall’appalto di opere pubbliche siano deferite ad arbitri (art. 43 Cap. Gen.OO.PP.), dev’essere consentita ad entrambe le parti quali che siano le previsioni del bando di gara, in quanto la mera adesione ad una disciplina che prevedeva la possibilità di imporre unilateralmente un arbitrato obbligatorio, non vale a escludere che la ripristinata facoltà di esclusione della competenza arbitrale operi a favore di entrambe le parti, come avveniva del resto sotto il vigore del testo originario dell’art. 47 del Cap. Gen. OO. PP., non essendosi mai dubitato prima della novellazione della norma in esame che l’Amministrazione, normalmente convenuta, potesse chiedere che la controversia venisse sottoposta al giudice ordinario.

Affermata l’operatività della pronuncia della corte costituzionale nei confronti di entrambe le parti di un contratto nel quale la disciplina legale operi non già come norma imperativa ma per effetto del richiamo negoziale operato dai contraenti, debbono ritenersi prive di pregio anche le censure relative alla decadenza dell’Ente Autonomo Flumendosa e alla implicita rinuncia alla deroga della competenza arbitrale.

Per quanto attiene alla eccepita decadenza va, intatti rilevato che se la decadenza determina normalmente la perdita definitiva di una facoltà, dando luogo ad una situazione consolidata che opera come limite alla retroattività delle pronunce di incostituzionalità, ciò però non si verifica quando la dichiarazione di incostituzionalità investe proprio la norma che avrebbe dovuto rendere operante la prescrizione o la decadenza o, come nella specie, la norma che aveva precluso l’esercizio di tale facoltà (vedi: Cass. 3 maggio 1975, n. 1507; 9 luglio 1976, n. 2632, le quali hanno ritenuto proponibili le azioni giudiziarie a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della norma che imponeva la preventiva e tempestiva presentazione del reclamo gerarchico come condizione di proponibilità dell’azione nelle controversie di lavoro aventi a oggetto competenze arretrate).

Tale facoltà potrà quindi essere sempre esercitata con decorrenza dalla data di pubblicazione della sentenza costituzionale fino a quando il giudizio arbitrale non abbia avuto concretamente inizio, non potendo derogarsi alla competenza di arbitri già investiti della controversia.

E, poiché nella specie la facoltà di deroga alla competenza arbitrale è stata esercitata dall’Ente Autonomo Flumendosa con atto notificato il 2l marzo 1996, ancor prima della pubblicazione della sentenza di incostituzionalità, avvenuta il 9 maggio successivo, e prima della costituzione del collegio arbitrale, avvenuta il 23 gennaio 1997, essa deve ritenersi tempestiva poiché è stata proposta quando non era consentita dalla disciplina pattizia che aveva recepito la normativa all’epoca vigente, e che è divenuta legittima e operativa di effetti a seguito della dichiarazione di incostituzionalità.

Né maggior valore ha poi la censura secondo cui la sentenza impugnata avrebbe dovuto interpretare la nomina dell’arbitro da parte dell’Ente Autonomo Flumendosa come rinuncia implicita alla facoltà preventivamente esercitata, poiché, in assenza di una normativa che consentisse la deroga preventiva della competenza arbitrale sino al momento dell’introduzione del giudizio, la parte convenuta che avesse rivendicato l’esercizio della facoltà di deroga non avrebbe potuto sottrarsi al giudizio arbitrale e avrebbe solo potuto riproporre la questione di incompetenza dinanzi agli arbitri e, in caso di mancato accoglimento, impugnare di nullità il lodo sollevando dinanzi al giudice ordinario la questione di incostituzionalità – preclusa nel giudizio arbitrale – della norma che negava la possibilità di deroga fino al momento dell’introduzione della controversia.

In conclusione, perciò, il ricorso non può trovare accoglimento e deve essere rigettato con la conseguente dichiarazione della competenza del giudice ordinario.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese giudiziali che liquida in complessive L.28.800, al rimborso delle spese prenotate a debito e al pagamento degli onorari che liquida in L. 2.000.000.

Così deciso in Roma il 20 gennaio 2000.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 APR. 2000


Cass. civ., Sez. II, (data ud. 26/01/2000) 26/01/2000, n. 851

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Gaetano GAROFALO – Presidente;

Dott. Michele ANNUNZIATA – Consigliere;

Dott. Francesco CRISTARELLA ORESTANO – Consigliere;

Dott. Roberto Michele TRIOLA – Consigliere;

Dott. Francesca TROMBETTA – Rel. Consigliere;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FLAVIKER S.R.L., in persona del legale rappresentante pro – tempore Sig. SIROTTI FERMO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MICHELE DI LANDO 10, presso lo studio dell’avvocato EUGENIO TAMBURELLI, che lo difende unitamente all’avvocato DOMENICO ROSATI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

FERGOLA ADDOLORATA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA THAILANDIA 27, presso lo studio dell’avvocato C. GATTI, difesa dall’avvocato PAOLILLO FRANCESCO PAOLO M, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 14/97 del Tribunale di TRANI, depositata il 09/01/97;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/04/99 dal Consigliere Dott. Francesca TROMBETTA;

udito l’Avvocato EUGENIO TAMBURELLI, difensore del ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Alberto RUSSO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 14 marzo 1989 la ditta Addolorata Fergola, deducendo di aver acquistato dalla Flaviker S.p.A. piastrelle in ceramica per pavimenti e di aver rilevato, al momento della posa in opera, la sussistenza di vizi occulti (striature rettilinee biancastre), conveniva in giudizio, davanti al pretore di Barletta, la suddetta società perché fosse dichiarata la risoluzione del contratto per inadempimento della venditrice nonché fosse condannata la medesima al risarcimento danni.

Costituitasi, la società convenuta contestava la domanda chiedendone il rigetto ed in via riconvenzionale chiedeva la condanna dell’attrice al pagamento del saldo prezzo di L. 1.444.381, oltre accessori.

Escussi testi e disposta C.T.U. il pretore di Barletta con sentenza del 14 dicembre 1991 dato atto della tempestività della denuncia dei vizi accoglieva la domanda attrice, aderendo alle risultanze della consulenza che aveva confermato l’esistenza dei vizi denunciati. Dichiarava, pertanto, la risoluzione del contratto condannando la Flaviker S.p.A. al pagamento della somma di L. 5.000.000 a titolo di risarcimento danni in favore dell’attrice, oltre interessi legali.

Su impugnazione della Flaviker il Tribunale di Trani, con sentenza 9 gennaio 1997, confermava la sentenza del pretore, condannando l’appellante al pagamento delle spese giudiziali.

Afferma il Tribunale in ordine alla ritenuta inapplicabilità della clausola n. 2 stampata sul retro della fattura (“non si accettano contestazioni di sorta sul materiale posto in opera”) e non sottoscritta da alcuna delle parti, che trattandosi di clausola vessatoria, essa andava specificamente approvata per iscritto.

Quanto all’eccezione di nullità del supplemento di C.T.U., per non essere stato il consulente di parte posto in grado di partecipare alle operazioni peritali, la nullità doveva intendersi sanata perché non tempestivamente opposta. Nel merito, non poteva trovare accoglimento la tesi della società appellante secondo la quale le piastrelle acquistate allo stato grezzo non andavano né levigate, né lucidate; per cui i vizi lamentati andavano imputati esclusivamente alla lucidatura effettuata dopo la posa in opera delle stesse.

Premesso, infatti, che alla perizia di parte non poteva essere attribuita alcuna rilevanza, non essendo essa, con certezza, ricollegabile al caso di specie, andava rilevato che, essendo stato consegnato all’appellata, al momento della scelta, un campionario lucido, privo delle lamentate striature bianche, verosimilmente le era stato lasciato intendere che, tramite la lucidatura anche con le piastrelle grezze poteva conseguirsi l’effetto estetico del campione.

Né era stato provato che la ditta Fergola fosse stata resa edotta delle conseguenze cui andava incontro in caso di lucidatura delle piastrelle acquistate; né della circostanza che il campione era costituito da una piastrella “levigata” in sede di fabbricazione.

Non vi era, poi, motivo di dubitare della correttezza del procedimento di lucidatura seguito, posto che anche quella eseguita dal C.T.U. su altre piastrelle di rimanenza (quelle che allo stato grezzo, presentavano rigature sospette) aveva evidenziato l’identico difetto. Era, in ogni caso, pacifico (v. C.T.U.) che le denunciate striature (visibili dalla non contestata documentazione fotografica allegata alla perizia di parte appellata) erano apparse a seguito della lucidatura soltanto su circa il 50% delle mattonelle poste in opera; il che confermava che il restante 50% era stato “trattato” senza dar adito a problemi, con la conseguenza che il lamentato fenomeno delle striature era dipeso dalla intrinseca inidoneità di una parte del materiale oggetto della fornitura.

Tali considerazioni escludevano la necessità di ulteriori approfondimenti istruttori.

Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione la società Flaviker S.p.A., alla quale resiste, con controricorso, la ditta Fergola.

Motivi della decisione
Deduce la società ricorrente a motivi di impugnazione:

1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1341 c.c., nonché l’omessa applicazione degli artt. 1340 e 1491 c.c., illogicità di motivazione – per avere il Tribunale erroneamente:

A) ritenuto vessatoria la clausola n. 2 stampata sul retro della fattura (“non si accettano contestazioni di sorta, sul materiale posto in opera”), come la clausola “non si risponde del materiale levigato dopo la posa in opera”, nonostante si trattasse di clausole rientranti tra i c.d. usi negoziali, inserite automaticamente in ogni contratto di compravendita di piastrelle concluso tramite rappresentanti;

B) ritenuto applicabile la garanzia per vizi della cosa venduta, nonostante tale garanzia non fosse dovuta, trattandosi di vizi palesi (“sospette striature biancastre”), come accertato dal C.T.U. su alcune piastrelle di rimanenza allo stato grezzo, con la conseguenza che la loro posa in opera, comportava accettazione delle stesse;

2) l’omessa, insufficiente o, comunque, contraddittoria motivazione – per avere il Tribunale, nell’affermare che alla ditta acquirente fu consegnato un campione lucidato, privo delle striature biancastre, lasciando intendere che tramite la lucidatura si sarebbe potuto ottenere anche con le piastrelle grezze, l’effetto estetico del campione, non considerato:

A) che la ditta acquirente scelse il materiale oggetto del contratto dopo aver visionato sia le piastrelle grezze che quelle levigate;

B) che la ditta acquirente, operante da molti anni nella zona, era a conoscenza sia degli usi negoziali, che delle norme di manutenzione;

C) che sui cataloghi, listini, retro delle fatture vi era espresso richiamo alle norme d’uso e di manutenzione, secondo le quali le piastrelle “grezze” non andavano né levigate, né lucidate;

D) che non poteva esserci stata dolosa induzione in errore da parte della venditrice stante l’avvenuta stipula del contratto tramite rappresentante e la professionalità della ditta acquirente che ben conosceva le caratteristiche del materiale, anche in considerazione del prezzo di vendita (triplo quello delle piastrelle levigate);

E) che, se le striature erano visibili sul 50% delle piastrelle, bastava non porre in opera quelle viziate e farsele sostituire;

F) che comunque, anche il C.T.U. nel lucidare le piastrelle “grezze” della rimanenza non si era reso conto che esse non andavano lucidate e che la levigatura dopo la posa in opera presentava rischi;

G) che se fosse stato possibile ottenere da piastrelle grezze successivamente levigate lo stesso effetto estetico di quelle levigate sin dall’origine, non avrebbe avuto senso vendere queste ultime ad un prezzo triplo rispetto alle prime;

– per avere il Tribunale insufficientemente motivato:

A) sulla mancata considerazione della C.T.U. di parte;

B) sulla inammissibilità di una nuova perizia;

C) sulla correttezza delle operazioni peritali;

D) sulla supposta esistenza del raggiro;

E) sulla conclusione che il 50% delle mattonelle trattate non aveva dato problemi;

4) la violazione degli artt. 342, 345, 346, 350, 352, 356 c.p.c., l’illogicità di motivazione,

– per avere il Tribunale:

A) omesso di considerare in toto i motivi specifici dell’appello;

B) per aver omesso di considerare la C.T.U. di parte che si richiamava alla fattispecie concreta riferendosi alla Salso, utilizzatrice finale delle piastrelle;

C) non ammesso una nuova C.T.U. nonostante gli errori e la superficialità di quella espletata e ciò con violazione del diritto di difesa della Flaviker;

D) non ammesso nuovi mezzi di prova.

Va preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dalla Fergola, per carenza di legittimazione a ricorrere della Soc. Flaviker S.r.l. perché soggetto diverso dalla Flaviker S.p.A., società che ha preso parte alle precedenti fasi di merito.

Trattasi, infatti, di trasformazione dell’originaria società per azioni in società a responsabilità limitata, fenomeno che, come è noto, non importa l’estinzione del precedente soggetto giuridico e la creazione di un nuovo soggetto; ma implica soltanto la modifica dell’atto costitutivo della società, permanendo l’identità dell’originario soggetto.

La Flaviker S.r.l. è pertanto legittimata a ricorrere in questa sede.

Quanto al profilo sub A del primo motivo, non può essere condivisa la tesi della ricorrente che, attribuendo natura di usi negoziali alle clausole riprodotte nel retro delle fatture, afferma la loro inclusione automatica nel contratto stipulato dalle parti.

Infatti, nella presente fattispecie, trattandosi di clausole che incidono sulla responsabilità della parte venditrice, limitando la facoltà di opporre eccezioni dell’acquirente, la natura vessatoria delle stesse, anche ove fosse provata l’esistenza dell’uso contrattuale dedotto, escluderebbe la loro inserzione automatica nel contenuto del contratto, non potendosi la parte onerata ritenere obbligata in forza di una manifestazione tacita di volontà, qual è quella che costituisce il presupposto dell’operatività automatica degli usi contrattuali; ed occorrendo, viceversa, una espressa manifestazione di volontà delle parti, al momento della conclusione del contratto, attuata con le forme di cui all’art. 1342 c.c.

Tali clausole, infatti, valide, come si assume nella specie, per tutti i contratti aventi ad oggetto la vendita di mattonelle, e stipulati a mezzo di rappresentanti, sono assimilabili alle condizioni generali predisposte dagli imprenditori del settore.

Infondato è il profilo sub B del motivo in esame.

Premesso, infatti, che la facile riconoscibilità dei vizi che esclude la garanzia ex art. 1491 c.c., presuppone che essi siano tali al momento della conclusione del contratto (v. sent. n. 5075/83; n. 6073/95), per cui la citata norma non opera quando, come nella specie, trattandosi di contratto concluso a mezzo di rappresentante, la consegna della merce è successiva alla stipula del contratto; va rilevato che, l’onere di diligenza imposto dall’art. 1491 c.c. al compratore, deve essere apprezzato tenendo presenti le particolari circostanze della vendita, e nella specie che la scelta è avvenuta in base ad un campione lucido, che non presentava striature di sorta.

Ciò aveva fatto supporre all’acquirente (ed in tal senso, secondo il Tribunale il consenso si è perfezionato tra le parti) che, qualunque fosse stato l’aspetto delle mattonelle grezze, il risultato, dopo la lucidatura, sarebbe stato conforme a quello della mattonella mostrata al momento della conclusione del contratto.

Nessuna accettazione di mattonelle viziate può, quindi, ritenersi intervenuta attraverso la loro posa in opera.

Sulla base delle suddette specifiche modalità di conclusione del contratto, nonché dell’accertamento di fatto operato dal Tribunale, secondo cui solo il 50% delle mattonelle poste in opera hanno presentato gli inconvenienti lamentati, si appalesano prive di fondamento le censure sollevate con il secondo motivo di ricorso, dal momento che, come il Tribunale ha rilevato, non è stata la lucidatura a determinare le striature evidenziatesi sulle mattonelle; ma esse sono derivate dalla intrinseca struttura del materiale. Ne consegue che restano prive di rilievo le considerazioni della ricorrente, sia in ordine alla necessaria conoscenza da parte dell’acquirente dei rischi, in termini di risultato, cui si andava incontro con il sottoporre a lucidatura o levigatura le mattonelle grezze (rischi che, peraltro, come ha evidenziato il Tribunale non risultavano fatti presenti in sede di contrattazione), sia in ordine all’insussistenza della dolosa induzione in errore da parte della venditrice ai danni dell’acquirente; induzione in errore che, secondo il Tribunale ben poteva essersi verificata in mancanza di prova circa la conoscenza da parte dell’acquirente, che la levigatura o lucidatura della mattonella campione era avvenuta in sede di fabbricazione e non successivamente.

Non sussiste, poi, il vizio di motivazione dedotto nel motivo in esame, sia in ordine al mancato esame della perizia di parte, avendo il Tribunale spiegato che la stessa non poteva essere con certezza riferita al caso di specie, a causa della carenza di oggettivi termini di riferimento; sia in ordine alla ritenuta inammissibilità di una nuova perizia la cui disposizione è rimessa al potere discrezionale ed insindacabile del giudice di merito.

Del tutto infondato è, infine, il terzo motivo di ricorso che evidenzia una serie di censure generiche sulle quali in parte si è già risposto specificamente (ad es. quelle relative alle consulenze tecniche); e che per il resto rimangono superate alla luce della ratio decidendi seguita dalla sentenza impugnata.

Il ricorso va, pertanto, respinto e la società ricorrente va condannata al pagamento in favore della ditta Fergola, delle spese del presente giudizio, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore della resistente delle spese del presente giudizio nella misura di L. 357.900, oltre a L. 1.200.000 di onorari.

Così deciso in Roma il 27 aprile 1999.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 26 GENNAIO 2000.


Cass. civ. Sez. Unite, 19-11-1999, n. 793

riunita in camera di consiglio nelle persone dei signori magistrati:

dott. Romano PANZARANI – Primo Presidente f.f.;

dott. Francesco AMIRANTE – Pres. di sezione;

dott. Francesco CRISTARELLA ORESTANO – Consigliere;

dott. Antonio VELLA – Consigliere;

dott. Erminio RAVAGNANI – Consigliere;

dott. Alessandro CRISCUOLO – Consigliere;

dott. Francesco SABATINI – relatore Consigliere;

dott. Ettore GIANNANTONIO – Consigliere;

dott. Stefanomaria EVANGELISTA – Consigliere;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

LANZARA RAFFAELE, rappresentato dall’avv. Giovanni Falci giusta procura in calce al ricorso, con elezione di domicilio in Roma, via Valadier n. 6, presso l’avv. Claudio Giannelli

ricorrente

contro

CONSIGLIO ORDINE AVVOCATI DI NOCERA INFERIORE e PROCURATORE GENERALE CASSAZIONE

intimati

avverso

la decisione in data 16.10. – 28.11.1998 del Consiglio Nazionale Forense (r.g. n. 54/98).

Udita nella pubblica udienza del 3 giugno 1999 la relazione del consigliere dott. Francesco Sabatini.

È comparso per il ricorrente, per delega, l’avv. Guaglianone, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Sentito il P.M., in persona dell’avvocato generale Franco Morozzo della Rocca, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
L’avv. Raffaele Lanzara, iscritto nell’albo del Consiglio degli avvocati di Nocera Inferiore, fu incolpato: a) di aver violato i doveri di lealtà, diligenza e probità per avere – quale procuratore del sig. Costantino Pagano, creditore della somma di lire 120.000.000 nei confronti della società Simer – omesso di informare il suo patrocinato degli esiti del ricorso per la dichiarazione di fallimento della debitrice, nonché concluso con costei un accordo transattivo in conseguenza del quale aveva presentato atto di desistenza ed aveva incassato l’importo di lire 65.000.000 senza mai corrisponderlo al Pagano; b) di aver violato i doveri professionali di correttezza nei confronti del proprio Consiglio per non essere comparso, nonostante reiterati inviti e senza giustificati motivi, innanzi al consigliere relatore per esporre le sue ragioni.

In data 20 maggio 1997 il predetto Consiglio, ritenuti provati gli addebiti irrogò all’avv. Lanzara la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo professionale.

Tale decisione, impugnata dall’interessato, è stata confermata dal Consiglio Nazionale Forense con la pronuncia, ora gravata.

Per quanto ancora rileva il Consiglio ha osservato, in rito, che rituale e tempestiva era stata la notificazione della citazione dell’incolpato a comparire dinanzi al Consiglio dell’ordine: essa venne infatti effettuata nel luogo in cui egli aveva la residenza anagrafica ed a mani della collaboratrice familiare. Che lo stesso avesse avuto effettiva conoscenza dell’atto era inoltre confermato dall’istanza di rinvio presentata dal difensore, nonché dal tempestivo ricorso al Consiglio Nazionale Forense dopo la notifica, avvenuta negli stessi termini della citazione, della decisione del Consiglio dell’ordine.

Rettamente detto Consiglio aveva respinto l’istanza di rinvio – presentata dal difensore in considerazione dell’astensione proclamata dall’Unione camere penali e dall’Organismo unitario dell’Avvocatura -, dal momento che detta astensione riguardava la partecipazione alle udienze e non poteva pertanto estendersi all’attività, di natura amministrativa, svolta dal Consiglio dell’ordine.

Nel merito il Consiglio Nazionale ha ritenuto che l’avv. Lanzara sottoscrisse la transazione senza averne il potere, senza interpellare il proprio cliente – come avrebbe dovuto fare poiché essa comportava la rinuncia alla metà del credito -, senza comunicargli l’avvenuta presentazione dell’atto di desistenza e senza versargli l’importo incassato dalla debitrice.

Parimenti provato era l’addebito, di cui al capo b), stante il fatto che l’interessato non era comparso dinanzi al Consiglio dell’ordine, come, del resto, non era poi comparso dinanzi al Consiglio Nazionale.

Per la cassazione di tale decisione l’incolpato ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. Con il quinto, egli chiede inoltre la sospensione dell’esecuzione della decisione impugnata.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso il ricorrente deduce la violazione dell’art. 139 c.p.c. ed afferma che la notificazione del decreto di citazione a mani della signorina Dossantos è nulla non essendo costei abilitata al ritiro degli atti per conto di esso ricorrente, giacché ella, dipendente della signora Maria Fimiani, solo saltuariamente frequentava la casa dell’avv. Lanzara. Anche a voler considerare la Dossantos come una vicina di casa, la notificazione era parimenti nulla non essendo stata inviata la prescritta lettera raccomandata.

Illegittima è la presunzione di legale conoscenza dell’atto, il formulata dal Consiglio Nazionale, dal momento che anche la violazione dei termini comporta la nullità del decreto di citazione.

Il motivo è infondato

Il decreto di citazione in questione – che può essere direttamente esaminato dalla Corte essendo allegato un error in procedendo – risulta notificato all’odierno ricorrente “a mani di Dossantos Marley, collaboratrice domestica ivi addetta alla ricezione degli atti e alla casa, in sua assenza”.

Il motivo in esame pone in discussione non già che la notificazione sia stata validamente eseguita in uno dei luoghi, indicati nel primo comma dell’art. 139 c.p.c., sibbene la capacità della Dossantos a riceverla, non essendo ella, a dire del ricorrente, e diversamente da quanto invece disposto dal successivo secondo comma, né persona di famiglia né addetta alla casa o all’ufficio.

Premesso che, attribuendo la relata alla Dossantos la sola qualità di addetta alla ricezione degli atti e alla casa, la validità della notificazione deve essere riscontrata con esclusivo riferimento a tale qualità, deve rilevarsi che questa non presuppone, diversamente da quanto preteso dal ricorrente, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, tanto meno di natura esclusiva.

Come infatti questa C.S. ha affermato (da ultimo con sent. 5 ottobre 1998 n. 9875) la validità della notificazione non può essere contestata sulla base del solo difetto di tale rapporto, essendo invece sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto, come si desume dalla generica qualifica di addetto, richiesta dal legislatore (analogamente l’espressione persona di famiglia, impiegata dalla stessa norma, va intesa in senso relativamente ampio, sì da ricomprendervi anche i familiari la cui presenza in casa non abbia carattere del tutto occasionale: Cass. 19.1.1995 n. 615).

Nella specie dalla stesse argomentazioni, svolte dal ricorrente – il quale afferma che la Dossantos era alle esclusive dipendenze della Fimiani, moglie di esso ricorrente, come egli ebbe a precisare nel ricorso al Consiglio Nazionale Forense -, risulta che la predetta era addetta alla casa dello stesso: in tal senso ha dunque rettamente deciso il Consiglio Nazionale, donde la validità della notificazione e l’irrilevanza dell’omesso invio della raccomandata, prescritta dal quarto comma dello stesso art. 139 per la diversa ipotesi di cui al precedente terzo comma.

La riscontrata validità della avvenuta notificazione importa l’assorbimento della censura che investe l’ulteriore ratio decidendi – consistita nell’effettiva conoscenza della notificazione stessa da parte del destinatario, desunta dalla successiva istanza di rinvio della discussione -, censura con la quale il ricorrente afferma che l’osservanza del termine di comparizione avrebbe dovuto essere accertata con riferimento alla data dell’istanza stessa: censura – osserva la Corte – inoltre inammissibile perché nuova.

2. Con il secondo motivo il ricorrente allega “violazione di legge in relazione alla lesione del diritto di difesa per la mancata concessione del rinvio chiesto al difensore” al Consiglio dell’ordine di Nocera Inferiore a seguito della astensione dalle udienze, deliberata dall’Avvocatura: pur non ponendo in discussione la natura amministrativa del procedimento disciplinare, nella fase che si svolge dinanzi a detto Consiglio, il ricorrente censura la limitazione all’attività giurisdizionale di detta astensione, affermata dalla decisione ora gravata.

La censura è inammissibile sia perché investe un accertamento di fatto – i limiti dell’astensione in questione -, motivatamente effettuato da un organo, il Consiglio Nazionale forense, particolarmente qualificato e rappresentativo della categoria professionale interessata, sia perché l’inviolabilità del diritto di difesa, sancito dal secondo comma dell’art. 24 cost. – ammesso che ad esso il ricorrente abbia inteso riferirsi -, opera limitatamente ai procedimenti giurisdizionali, come si desume dall’interpretazione complessiva della norma costituzionale.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge per l’omessa contestazione degli articoli della legge professionale e per il mancato esame del relativo motivo di appello.

Osserva la Corte che quest’ultimo venne così testualmente formulato: “nullità dell’atto che dispone il giudizio disciplinare per omessa contestazione degli articoli della legge professionale”.

La genericità di tale censura esonerava conseguentemente il Consiglio Nazionale dal prenderla in esame, e, d’altra parte, il ricorrente neppure in questa sede indica le norme di legge che a suo dire imporrebbero, a pena di nullità, la contestazione non solo del fatto materiale oggetto di incolpazione ma altresì delle relative norme di legge.

L’indicazione di queste ultime non è invero richiesta dall’art. 48 del r.d. 22 gennaio 1934 n. 37 – il quale stabilisce i requisiti della citazione da notificare all’incolpato (ed al pubblico ministero) -, ed al riguardo deve ribadirsi che nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, essendo invece sufficiente che l’incolpato con la lettura dell’imputazione sia posto in grado – come nella specie è avvenuto – di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli (Cass. sez. un. 10.2.1998 n. 1342 e 18.10.1994 n. 8482).

Diversamente, l’art. 417 lett. b) del codice di procedura penale menziona, tra i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, “l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge”: specificazione, quest’ultima – osserva la Corte – inapplicabile al procedimento disciplinare in questione, non essendo essa richiesta dal citato art. 48.

La ragione giustificatrice di tale diverso modo di disporre risiede in ciò che il menzionato art. 417 è funzionale al principio di legalità, quale enunciato nell’art. 1 cod. pen., il quale non trova invece completa attuazione nel procedimento disciplinare, che viene esercitato nei casi di abusi o mancanze nell’esercizio della professione o comunque di fatti non conformi alla dignità ed al decoro professionale (art. 38 primo comma legge 22 gennaio 1934 n. 36 (NDR: R.D.L. 27.11.1933 n. 1578 art. 38) di conversione, con modificazioni, del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578).

D’altra parte nei procedimenti disciplinari contro avvocati si devono seguire, quanto alla procedura, le norme particolari che, per ogni singolo istituto, sono dettate dalla legge professionale, in mancanza delle quali si deve far ricorso alle norme del codice di procedura civile, mentre del codice di procedura penale sono applicabili solo quelle cui la legge professionale fa espresso rinvio, ovvero quelle relative ad istituti che trovano la loro regolamentazione soltanto nel codice anzidetto (da ultimo, in tal senso, Cass. sez. un. 24.2.1998 n. 1988).

4. Il quarto motivo del ricorso investe il merito della controversia e con esso il ricorrente sostiene che egli era in realtà dotato, diversamente da quanto affermato dalla decisione gravata, del potere di transigere la vertenza affidatagli dal proprio cliente, e conseguentemente adduce violazione di legge e travisamento del fatto.

Il motivo è inammissibile: detta decisione, pur dopo avere escluso che l’odierno ricorrente avesse il potere di transigere, gli ha poi addebitato di non avere informato il cliente della intervenuta transazione, di avere incassato l’assegno di lire 5.000.000 versatogli dal debitore a pagamento del compenso professionale, e di avere anche trattenuto la somma di lire 60.000.000, destinata al creditore, fatti, questi, che il Consiglio Nazionale ha qualificato come fonte di gravissima responsabilità.

E poiché tali apprezzamenti, di per sé idonei a sorreggere la decisione, non formano oggetto di censure di sorta, la doglianza, la quale è limitata ad un solo aspetto della questione, è, come detto, inammissibile.

5. Il ricorso deve, pertanto, essere respinto: decisione, questa, che importa l’assorbimento del quinto motivo, attinente alla richiesta cautelare di sospensione della esecuzione della decisione impugnata.

Non deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione, stante la soccombenza del ricorrente e la mancata costituzione degli intimati.

P.Q.M.
La Corte

rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 3 giugno 1999.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 NOV. 1999


Cass. civ. Sez. lavoro, 05-10-1998, n. 9875

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Alberto EULA Presidente

Dott. Vincenzo MILEO Rel. Consigliere

Dott. Giovanni MAZZARELLA Consigliere

Dott. Attilio CELENTANO Consigliere

Dott. Guido VIDIRI Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

DITTA ALPI DI VITTORIO RANDACCIO, in persona del titolare, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LUCREZIO CARO 12, presso lo studio dell’avvocato LORENZO NARDONE, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

Ricorrente

Contro

PREFETTURA DI TERNI, in persona del Prefetto pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 159/95 del Pretore di ORVIETO, depositata il 03/10/95 R.G.N. 194/95;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/02/95 dal Consigliere Dott. Vincenzo MILEO;

udito l’Avvocato BARBIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio BUONAIUTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
A seguito di opposizione proposta dalla Ditta Alpi di Randaccio Vittorio avverso l’ordinanza – ingiunzione emessa dal Prefetto di Terni a suo carico in data 15.11.94 e notificata il 16.2.1995, il Pretore di Orvieto, con sentenza del 3 ottobre 1995, dichiarava inammissibile detta opposizione perché tardiva, in quanto formulata oltre il termine di 30 giorni dalla notificazione, come previsto dalla legge, ritenendo valido tale atto siccome ritualmente effettuato ai sensi dell’art. 139, 2° comma, Cod. Proc. Civile.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la soccombente, ancorandolo ad un solo motivo.

Resiste la convenuta con controricorso.

Motivi della decisione
Con l’unico mezzo di impugnazione la ricorrente, denunciando falsa applicazione dell’art. 139, 2° comma, Cod. Proc. Civile, in relazione all’art. 360, n. 3, stesso codice di rito, censura la sentenza del Pretore, che considera errata per aver ritenuta valida la notifica dell’ingiunzione eseguita ai sensi dell’art. 139, cpv, C.P.C., e pertanto tardiva ed inammissibile la conseguente opposizione, perché effettuata oltre il trentesimo giorno fissato a pena di decadenza dall’art. 22 legge n. 689/1989 (NDR: così nel testo), a decorrere dalla data della stessa notificazione; laddove il soggetto qualificatosi dipendente della Ditta in realtà non aveva alcun rapporto con questa, pur trovandosi all’interno dei locali dell’Azienda, e non era neppure addetto alla ricezione della corrispondenza, in quanto dipendente, come provato, unicamente di altra Ditta con sede negli stessi locali.

Il motivo è infondato.

In tema di notificazione con consegna dell’atto a mani di persona qualificatasi dipendente del destinatario, o comunque addetta all’Azienda od allo studio del predetto, alla stregua delle dichiarazioni rese dalla medesima all’ufficiale notificatore e da quest’ultimo riportate nella realtà, l’intrinseca veridicità di tali dichiarazioni – e la conseguente validità della notificazione – non può essere contestata sulla base del difetto di un rapporto di dipendenza tra i predetti soggetti, essendo sufficiente che esista un rapporto tra consegnatario e destinatario, idoneo a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto. E, del pari, va rilevato che, quando dalla medesima relata risulti che la notifica dell’atto sia stata eseguita al destinatario – imprenditore o professionista – presso la sua sede, mediante consegna ad un soggetto in essa rinvenuto, deve presumersi che il medesimo sia incaricato alla ricezione degli atti diretti allo stesso destinatario.

Conseguentemente tali presunzioni non possono essere superate dalla circostanza, provata a posteriori, che la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava, sia pure nella predetta sede, alle esclusive dipendenze altrui; ma, per vincerle ai fini della pretesa nullità dell’atto, occorre provare che il consegnatario, oltre a non essere un dipendente del destinatario, non era neanche addetto nei medesimi locali ad alcun incarico per conto o nell’interesse del predetto, come sintomaticamente si evince dall’art. 139, 2° comma, che fa genericamente riferimento alla qualifica di “addetto” e non di “dipendente”- Sicché correttamente è stato osservato dal giudice di merito che non rileva in senso contrario il fatto che successivamente, da altro professionista od imprenditore titolare di uno studio o sede comune a quello del destinatario dell’atto, sia stata rilasciata una dichiarazione attestante che all’epoca della notificazione la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava alle sue esclusive dipendenze – Tanto più, poi, ove si consideri che nella specie tale presunzione risulta ampiamente avvalorata dalla circostanza, emergente per tabulas, che l’atto – notifica ha raggiunto il suo scopo, ai sensi e per gli effetti del disposto dell’ultimo comma dell’art. 156 C.P.C., stante l’avvenuta consegna di colui che lo ha ricevuto all’effettivo destinatario, come si evince inequivocabilmente dalla opposizione di costui all’ingiunzione. Né, in ultimo, ai fini della ammissibilità della opposizione non tempestivamente formulata, il destinatario può sostenere in questa sede che l’atto – notifica gli fu recapitato tardivamente, in quanto, a parte la contraddittorietà con la precedente linea difensiva, egli, per giovarsi di siffatta tesi, avrebbe dovuto provare adeguatamente non solo la assoluta estraneità del soggetto consegnatario nei confronti dell’Azienda, ma anche, e soprattutto, la tardività della consegna dell’atto ad esso destinatario, quale eccezione in senso tecnico ex art. 2697 cpv. Codice Civile; laddove su quest’ultimo punto il difetto probatorio è assoluto e pertanto, anche sotto questo profilo, si deve presumere che l’atto di notifica abbia raggiunto tempestivamente lo scopo cui era diretto.

In definitiva, attesa la corretta applicazione della norma di cui all’art. 139 cpv. Cod. Proc. Civile effettuata dal Pretore, la sentenza impugnata non appare inficiata da nessuno dei vizi prospettati in gravame.

Il ricorso va, conseguentemente, rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 Cod. Proc. Civile, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte;

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in L. 16.500, oltre all’onorario difensivo, liquidato il L. 2.500.000 (Duemilionicinquecentomila).

Così deciso in Roma il giorno 11 febbraio 1998.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 OTTOBRE 1998


Corte cost., (ud. 22-09-1998) 23-09-1998, n. 346

La Corte Costituzionale

ha pronunciato la seguente

Sentenza

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890, secondo, terzo e quarto comma (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), promossi con ordinanze emesse il 28 settembre 1996 dal Pretore di Lucca nel procedimento civile vertente tra Brucia Baldassarre ed il Comune di Lucca, iscritta al n. 609 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 1997, ed il 22 aprile 1997 dalla Corte d’Appello di Milano nel procedimento civile vertente tra la ICIT s.a.s. e la Officine di Seveso s.p.a. ed altra, iscritta al n. 761 del registro ordinanze 1997 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 1997.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;

udito nella Camera di Consiglio del 6 maggio 1998 il Giudice relatore Annibale Marini.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Data l’identità della materia, le questioni sollevate dalle ordinanze del Pretore di Lucca e della Corte di Appello di Milano vanno riunite per essere decise con unica sentenza.

2. – Il Pretore di Lucca denuncia l’illegittimità costituzionale dell’art. 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890, secondo, terzo e quarto comma, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui detta norma non prevede che il destinatario della notifica effettuata a mezzo posta, dopo l’avviso lasciato presso la sua abitazione, ufficio o azienda, riceva notizia delle attività compiute per raccomandata a.r., così come previsto dall’art. 140 del codice di procedura civile per il caso di notifica effettuata personalmente dall’ufficiale giudiziario.

3. – La Corte di Appello di Milano dubita, in riferimento all’art. 24, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale del medesimo art. 8 della legge n. 890 del 1982 citata, secondo e terzo comma, nella parte in cui prevede che il piego, notificato per compiuta giacenza dopo il decimo giorno dalla data di deposito presso l’ufficio postale, venga restituito al mittente senza che il destinatario sia messo in grado di conoscere tipo, natura, provenienza e contenuto dell’atto che gli è stato notificato.

4. – La prima questione è fondata, nei limiti di seguito precisati.

4.1. – Nel sistema delineato dalla legge 20 novembre 1982, n. 890, l’ufficiale giudiziario può utilizzare il servizio postale per la notificazione di tutti gli atti in materia civile, amministrativa e penale, salvo che l’autorità giudiziaria disponga, o la parte richieda, che la notificazione sia eseguita personalmente (art. 1, primo comma). In materia civile e amministrativa, inoltre, egli deve sempre avvalersi del servizio postale per le notificazioni da eseguirsi fuori del comune ove ha sede l’ufficio, eccetto che la parte chieda che la notificazione sia eseguita personalmente (art. 1, secondo comma). Salva la richiesta del notificante di eseguire la notificazione personalmente, l’ufficiale giudiziario ha dunque la facoltà – e talvolta l’obbligo – di utilizzare il servizio postale.

4.2. – In caso di assenza del destinatario di una notificazione a mezzo posta (e di rifiuto, mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere l’atto), l’art. 8 della legge n. 890 del 1982 prevede che l’agente postale depositi il piego nell’ufficio postale, rilasciando avviso al destinatario “mediante affissione alla porta d’ingresso oppure mediante immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda”, e che di tutte le formalità eseguite e del deposito nonché dei motivi che li hanno determinati sia fatta menzione sull’avviso di ricevimento che, datato e sottoscritto dall’agente postale, è unito al piego (secondo comma). Trascorsi dieci giorni dalla data del deposito senza che il piego sia stato ritirato dal destinatario, il piego stesso viene restituito al mittente, unitamente all’avviso di ricevimento, con l’indicazione “non ritirato” (terzo comma). La notificazione si ha per eseguita decorso il suddetto termine di dieci giorni dal deposito (quarto comma).

4.3. – Ora, se rientra nella discrezionalità del legislatore la conformazione degli istituti processuali e, quindi, la disciplina delle notificazioni, un limite inderogabile di tale discrezionalità è rappresentato dal diritto di difesa del notificatario. Deve pertanto escludersi che la diversità di disciplina tra le notificazioni a mezzo posta e quelle personalmente eseguite dall’ufficiale giudiziario possa comportare una menomazione delle garanzie del destinatario delle prime.

Per l’ipotesi di notificazione eseguita personalmente dall’ufficiale giudiziario, l’art. 140 del codice di procedura civile impone a quest’ultimo di dare comunicazione al destinatario, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, del compimento delle formalità indicate (deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio). E ciò allo scopo di garantire che il notificatario abbia una effettiva possibilità di conoscenza dell’avvenuto deposito dell’atto, ritenendosi evidentemente insufficiente l’affissione del relativo avviso alla porta d’ingresso o la sua immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’azienda o dell’ufficio ed individuandosi nella successiva comunicazione a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento lo strumento idoneo a realizzare compiutamente lo scopo perseguito. Una disposizione siffatta – pur se compatibile con la specificità propria del mezzo postale – manca invece nella disciplina censurata che, pertanto, risulta, al tempo stesso, priva di ragionevolezza e lesiva della possibilità di conoscenza dell’atto da parte del notificatario e, quindi, del diritto di difesa garantito dall’art. 24 della Costituzione.

E ciò senza considerare che le insufficienti garanzie di conoscibilità che presenta per il notificatario la notificazione a mezzo del servizio postale derivano, in ultima analisi, dalla scelta del modo di notificazione effettuata da soggetti, l’ufficiale giudiziario e il notificante, privi di qualsivoglia interesse alla conoscibilità dell’atto da parte del notificatario: il solo notificante, infatti, può richiedere all’ufficiale giudiziario di effettuare la notifica personalmente e, qualora ciò non faccia, l’ufficiale giudiziario può, a sua discrezione, scegliere l’uno o l’altro modo di notificazione.

4.4. – L’art. 8, secondo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890, va pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, in caso di assenza del destinatario (e di rifiuto, mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere l’atto), sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento del compimento delle formalità prescritte.

5. – Anche la questione sollevata dalla Corte di appello di Milano è fondata nei limiti di seguito precisati.

5.1.- La funzione propria della notificazione è quella di portare l’atto a conoscenza del destinatario, al fine di consentire l’instaurazione del contraddittorio e l’effettivo esercizio del diritto di difesa. Compete naturalmente al legislatore, nel bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, determinare i modi attraverso i quali tale scopo possa realizzarsi individuando altresì i rimedi per evitare che il diritto di agire in giudizio del notificante sia paralizzato da circostanze personali – come ad esempio l’assenza dalla abitazione o dall’ufficio – riguardanti il destinatario della notificazione. I termini di tale bilanciamento di interessi possono naturalmente essere i più vari come emerge dalle soluzioni adottate in alcuni degli ordinamenti processuali europei a noi più vicini per cultura e tradizione.

5.2. – Ciò premesso, non sembra in ogni caso potersi dubitare che la discrezionalità del legislatore incontri un limite nel fondamentale diritto del destinatario della notificazione ad essere posto in condizione di conoscere, con l’ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell’atto e l’oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti, non potendo ridursi il diritto di difesa del destinatario medesimo ad una garanzia di conoscibilità puramente teorica dell’atto notificatogli. È opportuno, altresì, sottolineare che la questione di cui si tratta non concerne in alcun modo l’individuazione del momento perfezionativo della notificazione (in relazione al quale dispone il quarto comma del citato art. 8) bensì la legittimità della norma che dispone la restituzione al mittente del piego non ritirato dal destinatario entro i dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale (art. 8, terzo comma).

Disposizione quest’ultima che, in un contesto sociale ben diverso da quello esistente all’epoca della sua emanazione, risulta gravemente pregiudizievole per il notificatario, il quale – nel caso (oggi non certo infrequente, specie nel periodo estivo) di assenza dall’abitazione, dall’azienda o dall’ufficio che si protragga per oltre dieci giorni e di mancanza delle persone indicate al secondo e terzo comma dell’art. 7 della legge n. 890 del 1982 citata – non è più posto in condizioni di ritirare il piego, diversamente da quanto si verifica per il destinatario di una notificazione effettuata ai sensi dell’art. 140 del codice di procedura civile, e si trova perciò in una situazione di impossibilità o comunque di notevole difficoltà di individuazione dell’atto notificatogli (talvolta provocata dal notificante, mediante la scelta dell’epoca della notifica e la mancata richiesta di notificazione personale da parte dell’ufficiale giudiziario) tale da potergli in concreto precludere ogni effettiva possibilità di difesa.

Anche in tal caso, non si tratta dunque di sostituirsi al legislatore nell’individuare uno dei possibili correttivi alla disciplina delle notificazioni a mezzo posta, bensì di rimuovere una previsione (quella di restituzione del piego al mittente dopo il decorso di un termine del tutto inidoneo, per la sua brevità, a garantire l’effettiva possibilità di conoscenza) lesiva del diritto di difesa del destinatario della notificazione, non presente nella parallela disciplina codicistica delle notificazioni a mezzo di ufficiale giudiziario e non connaturata, quanto meno nella sua dimensione temporale, alla specificità del mezzo postale.

Il legislatore, nella sua discrezionalità, sarà quindi libero di adeguare la disciplina delle notificazioni a mezzo posta (per il caso di assenza del destinatario) a quella dettata dall’art. 140 del codice di procedura civile (che non prevede affatto la restituzione dell’atto al mittente) ovvero di stabilire regole diverse: il limite della discrezionalità sarà rappresentato esclusivamente dal diritto di difesa del destinatario, in relazione al quale deve ritenersi illegittima qualsiasi disciplina che, prevedendo la restituzione del piego al mittente dopo un termine di deposito eccessivamente breve, pregiudichi la concreta possibilità di conoscenza del contenuto dell’atto da parte del destinatario medesimo.

5.3. – La mancata restituzione del piego al mittente dopo il decimo giorno di giacenza non solo non incide – come già si è visto – sull’individuazione del momento perfezionativo della notificazione, ma nemmeno pregiudica l’interesse del notificante alla tempestiva formazione della prova dell’avvenuta notifica che ben può essere fornita, indipendentemente dal piego, dall’avviso di ricevimento, da restituirsi al mittente in raccomandazione e mediante il quale questi potrà dimostrare la regolarità della notificazione.

5.4.- L’art. 8, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890, va pertanto dichiarato illegittimo nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

P.Q.M.
La Corte Costituzionale

riuniti i giudizi,

a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, secondo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento;

b) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, terzo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 (Notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari), nella parte in cui prevede che il piego sia restituito al mittente, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 settembre 1998.


Cass. civ. Sez. I, 12-05-1998, n. 4762

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Vincenzo FERRO Presidente

” Mario Rosario MORELLI Consigliere

” Massimo BONOMO Rel. “

” Salvatore DI PALMA “

” Luigi MACIOCE “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ROMOLO SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA F. CRISPI 89, presso l’avvocato LEONE PONTECORVO, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso;

Ricorrente

contro

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 1337/96 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 15/04/96;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/12/97 dal Consigliere Dott. Massimo BONOMO;

udito per il ricorrente, l’Avvocato Pontecorvo, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Stefano SCHIRÒ che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, assorbimento degli altri due motivi del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Ufficio Distrettuale delle II.DD di Roma, con avvisi di accertamento nn. 1414 e 1415, rideterminava, in rettifica, le dichiarazioni dei redditi della Romolo s.r.l. relative agli anni 1982 e 1983, a fini IRPEG e ILOR elevando il reddito imponibile ivi denunciato.

Gli atti di accertamento in questione venivano notificati, dopo un infruttuoso tentativo effettuato nella sede sociale, presso la residenza dell’amministratore della società, tale Bruno Brunori, a norma dell’art. 60 d.p.r. 600/73, in relazione all’art. 140 c.p.c..

Successivamente, non essendo stata proposta impugnazione avverso gli atti di accertamento in questione, i tributi, nella maggiore entità stabilita, venivano iscritti a ruolo, unitamente agli accessori di legge (sanzioni, interessi).

Con atto notificato in data 14 settembre 1989, la società Romolo proponeva ricorso avverso il ruolo dinanzi alla Commissione tributaria di I° grado, sostenendo di non aver mai avuto notizia degli atti di accertamento in questione. La detta Commissione, con pronuncia del 27 giugno – 19 settembre 1990, in accoglimento del ricorso, riteneva l’illegittimità dell’effettuata notificazione, rilevandone la nullità perché non erano state effettuate indagini svolte al fine di rinvenire la sede della società ovvero non se ne era dato compiutamente nella relazione di notifica: in particolare, avendo la società Romolo documentato di essere proprietaria dell’intero stabile di via E. Torelli Violler n. 109, che tutti gli abitanti dei singoli appartamenti erano suoi inquilini, che la portiera dello stabile era sua dipendente, ne derivava che il messo notificatore non aveva espletato con diligenza il suo compito, dato che, interpellando le persone abitanti nello stabile e, in particolare, la portiera, avrebbe potuto individuare la sede sociale o, per lo meno, avrebbe potuto ottenere utili notizie per la prosecuzione del procedimento notificatorio. Sarebbe, poi, stata inverosimile l’impossibilità di notificazione nella residenza del rappresentante legale per mancanza di qualsiasi consegnatario, compresi i vicini di casa. Il procedimento notificatorio, alla stregua di tale decisione, era stato pertanto, dirottato dalla sede della società alla residenza del suo rappresentante senza la precostituzione della prova della legittimità del dirottamento, mentre non sarebbe risultata provata, con le relazioni apposte sugli avvisi, la situazione presupposto che attribuisce la legittimazione a ricevere al consegnatario simbolico casa comunale. Le notifiche, in ogni caso, sarebbero ugualmente nulle, essendo risultato che al rappresentante legale della società era stata inviata una sola comunicazione raccomandata, relativa ad ambedue gli a avvisi di accertamento, senza che fosse specificato, in violazione dell’art. 48 disp. att. c.p.c., a quale dei due atti si riferisse il deposito. La rilevata nullità della notifica aveva, pertanto, comportato l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo delle imposte relative.

Avverso tale decisione, il Ministero proponeva appello dinanzi alla commissione tributaria di secondo grado.

Anche tale ricorso veniva, peraltro, respinto con decisione del 28.9/12.10.1992, avverso la quale il Ministero proponeva impugnazione dinanzi alla corte di appello, a norma dell’art. 40 d.p.r. 636/72.

Costituitasi in giudizio, la società Romolo chiedeva che l’impugnazione fosse dichiarata inammissibile, per essere stata proposta ancora in pendenza del termine per ricorrere alla commissione centrale, secondo la proroga dipendente dalla sospensione ex lege (art. 3, comma 2 d.l. 23.1.1993 n. 16) dei procedimenti tributari in corso, disposta al fine di usufruire dell’ampliamento dei termini per usufruire del c.d. “condono fiscale”. In ogni caso, chiedeva il rigetto del gravame, richiamando le ragioni poste a fondamento delle decisioni già emesse.

Con sentenza del 1° dicembre 1995 – 15 aprile 1996, la Corte di appello di Roma, in accoglimento del gravame proposto dal Ministero, dichiarava inammissibile il ricorso proposto contro l’iscrizione a ruolo.

Osservava la Corte:

a) che doveva respingersi l’eccezione concernente la sospensione dei processi tributari, la quale non si applica alle controversie che presentano carattere di definitività, per le quali era esclusa la possibilità di usufruire del condono, ai sensi dell’art. 32 della legge 30 dicembre 1991 n. 32;

b) che nella specie non v’era dubbio sulla definitività dei termini della lite, la cui conclusione non avrebbe potuto portare che a una conferma dei dati dichiarati dal contribuente, ovvero al pieno accoglimento delle indicazioni fornite dall’ufficio, non essendo, da un lato, rinnovabile l’accertamento per scadenza dei relativi termini e non essendo possibile, dall’altro, per lo stesso motivo, rimettere in discussione ragioni di merito relative all’entità dell’accertamento che, se legittimo, non potrebbe più essere modificato;

c) che il procedimento di notifica degli avvisi di accertamento – tentativo di notifica presso la sede della società e, quindi, notifica ex art. 140 c.p.c. presso la residenza anagrafica del rappresentante legale della stessa – era stato corretto, in quanto pienamente aderente alle prescrizioni dettate dall’art. 145 c.p.c. in tema di notifiche a società;

d) che le operazioni di notifica, essendo assistite da fede privilegiata, potevano essere contestate solo mediante proposizione di querela di falso;

e) che le circostanze della proprietà dell’intero immobile e l’inverosimiglianza del mancato rinvenimento del Brunori o di altri soggetti, tra i quali il portiere, non costituivano elementi idonei a dimostrare una condotta negligente da parte del messo;

f) che non determinava nullità della notifica l’avvenuto invio di una sola raccomandata relativa ad ambedue gli atti di accertamento, quale ultimo adempimento richiesto dall’art. 140 c.p.c..

Avverso la sentenza della Corte d’appello la società Romolo ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati con memoria.

Il Ministero delle Finanze ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo mezzo d’impugnazione il ricorrente lamenta violazione dell’art. 40 del D.P.R. 26.10.1972 n. 636, in relazione all’art. 3, comma 2, del D.L. 23.1.1993 n. 16 (convertito in legge 24.3.1993 n. 75) ed agli artt. 32 e seguenti della legge 30.12.1991 n. 413.

La Corte di appello aveva ritenuto non applicabile nella specie la sospensione dei termini di impugnazione fino al 20 giugno 1993, prevista dal citato art. 3 del d.l. n. 16 del 1993, modificato dalla legge di conversione, che aveva invece comportato l’improponibilità dell’impugnazione alla Corte di appello, poiché essa era stata introdotta, in violazione della prescrizione contenuta nell’art. 40 citato, quando non era ancora decorso il termine per la proposizione dell’impugnazione alla Commissione tributaria centrale. La Corte di merito, dopo aver esattamente rilevato che la sospensione riguardava soltanto i casi in cui era applicabile il condono, aveva erroneamente ritenuto che l’apparente definitività del rapporto tributario, derivante dalla mancata impugnazione degli accertamenti, determinasse comunque – in presenza di un ricorso contro il ruolo, con cui si era contestata la legittimità della notificazione degli accertamenti – una situazione di definitività, tale da precludere l’accesso al condono.

La stessa amministrazione aveva invece riconosciuto in alcune circolari, una delle quali specificamente riferita al condono del 1991 che la dichiarazione integrativa semplice, o con effetto automatico, era valida anche nel caso in cui si ricorreva contro il ruolo o l’avviso di mora eccependo la mancata notifica dell’avviso di accertamento, pur se tale validità dipendeva dall’esito del contenzioso.

Secondo il contribuente, la situazione di definitività del rapporto tributario, preclusiva del condono, si sarebbe creata solo in caso di rigetto del ricorso contro il ruolo, e non anche in caso di accoglimento, poiché un accertamento riconosciuto come mai notificato avrebbe consentito una domanda di condono “in assenza di accertamento”, integrativa semplice o “tombale”.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 148, c.p.c., in relazione agli artt. 145 e 140 c.p.c., all’art. 60, comma 1, del D P.R. 29.9.1973 n. 600 e all’art. 2700 cod. civ., nonché insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

Assolutamente carenti erano sia la relazione di notifica nei confronti della società – in cui non era stato precisato quali fossero state le ricerche in base alle quali i nominativi erano risultati sconosciuti e presso chi esse fossero state effettuate – sia la relazione di notifica nei confronti del legale rappresentante, nella quale, dopo la constatazione dell’assenza del dott. Brunori dalla sua residenza anagrafica, non si era data la benché minima nozione delle operazione compiute per accertare la pretesa irreperibilità del destinatario. In entrambe le notifiche si era fatto uso di timbretti.

La Corte di appello aveva affermato che la relata avrebbe succintamente descritto le operazioni eseguite in sede di notifica, mentre in realtà vi era un’assoluta assenza di indicazioni descrittive sul punto, ed aveva inoltre erroneamente richiamato la necessità di contestare le operazioni con querela di falso, non tenendo conto del fatto che la società Romolo aveva contestato non che il messo notificatore avesse effettivamente compiuto indagini, bensì che delle compiute indagini avesse dato specificamente atto nella relazione di notificazione, consentendo così la verifica della regolarità del procedimento, il che non aveva nulla a che vedere con la querela di falso.

La necessità di ricorrere a querela di falso non sussiste né nei confronti di circostanze non percepite direttamente dal notificatore, ma venute a conoscenza del medesimo attraverso dichiarazioni di terzi, né quando manchino gli elementi essenziali della relazione di notificazione, a norma dell’art. 148 c.p.c., verificandosi in tal caso la nullità della notificazione.

La lamentata mancata specificazione delle “ricerche” appariva tanto più grave, risultando difficilmente credibile che la società Romolo fosse sconosciuta presso uno stabile di cui era proprietaria da moltissimi anni, nel quale tutti gli abitanti erano suoi locatari e la portiera era alle sue dirette dipendenze.

Presso quelle sede erano stati invece regolarmente notificati sia la cartella esattoriale di pagamento che l’atto di citazione dinanzi alla Corte di appello.

3. Il terzo motivo esprime una doglianza di violazione dell’art. 140 c.p.c., nonché di insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

La Corte di appello aveva erroneamente statuito che la spedizione di un unico avviso per raccomandata ex art. 140 c.p.c., pur in presenza di due avvisi di accertamento, non viziasse il procedimento di notificazione.

Tutti gli adempimenti previsti dall’art. 140 c.p.c., compresa, quindi, la spedizione dell’avviso per raccomandata, sono essenziali e la Corte di Cassazione aveva ritenuto nulla la notificazione di più atti di accertamento conclusasi con la spedizione di un unico avviso raccomandato per quattro atti di accertamento (Cass. n. 10057 del 1994, in motivazione).

La stessa sentenza della Corte di Cassazione richiamata nella sentenza impugnata (Cass. n. 2136 del 1992) aveva subordinato la possibile deroga al principio della nullità della notifica in caso di unico avviso, alla circostanza della specificazione, nell’unico avviso raccomandato, degli atti cui era relativo, con le indicazioni ex art. 48 disp. att. c.p.c. in ordine alla natura e provenienza di ciascuno di essi. Tale temperamento sarebbe inapplicabile nella specie, secondo la ricorrente, non avendo l’Amministrazione finanziaria provato che l’unico avviso spedito contenesse le suddette specificazioni e indicazioni.

4. Il ricorso è fondato per quanto appresso precisato. Ritiene il Collegio che, mentre deve ritenersi validamente effettuato il tentativo di notifica degli avvisi di accertamento presso la sede della società, risulta invece nulla la notifica effettuata presso l’amministratore.

Secondo la sentenza impugnata, il messo notificatore ha dato atto, innanzi tutto, di essersi recato in via Eugenio Torelli Violler, 109, sede legale della società Romolo, anche in base alle risultanze anagrafiche, e di aver accertato, da “ricerche” effettuate in loco, che i “nominativi” (quindi sia quello della società che quello del suo amministratore) erano sconosciuti.

Avendo il messo attestato di aver compiuto ricerche in luogo senza esito, deve comunque ritenersi che sia stata effettuata un’attività di ricerca che non ha portato a risultati utili ai fini della notifica.

Al riguardo, osserva il Collegio che l’uso di un timbro, anziché della scrittura, è del tutto irrilevante, dovendo tenersi conto invece delle operazioni indicate dal pubblico ufficiale, indipendentemente dallo strumento usato per l’indicazione.

Le dedotte circostanze della proprietà dell’intero immobile da parte della società, della pretesa inverosimiglianza del mancato rinvenimento del portiere o di altri soggetti idonei a ricevere l’atto nonché dell’avvenuta notifica nel medesimo luogo di altri atti non assumono rilievo ai fini in questione, come esattamente rilevato dalla Corte di appello, dovendo aversi riguardo alla situazione esistente al momento dei tentativi di notifica di cui trattasi, quale risulta dalla relata di notifica, che ha fede privilegiata relativamente alle attività compiute dal messo e a quanto dal medesimo direttamente percepito.

In ordine al tentativo di notifica al legale rappresentante della società Romolo, dott. Bruno Brunori, in Piazza delle Coppelle 7, sua residenza anagrafica, la sentenza impugnata ha rilevato che il notificatore aveva dato atto, seppure mediante apposizione di un timbro, delle varie operazioni compiute, e cioé dell’assenza del Brunori, della mancanza di altre persone, compreso il portiere ed i vicini di casa, idonee a ricevere la copia, ed aveva quindi proceduto alla notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c..

Per quanto riguarda l’uso di un timbro valgono le considerazioni sopra svolte.

L’assenza del Brunori e la mancanza delle altre persone sopra indicate integravano le condizioni di legge per effettuare la notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c., di cui si tratta ora di verificare la validità.

Il Collegio condivide l’orientamento già manifestato da questa Corte (Cass. 25 febbraio 1992 n. 2316, nonché 14 gennaio 1992 n. 329), in base al quale, con riguardo alla notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., qualora gli atti da notificare siano più di uno, è richiesta – conseguendone, in difetto, nullità della notificazione medesima, relativamente a tutti gli atti – la spedizione, da parte dell’ufficiale giudiziario, di altrettanti avvisi raccomandati, indicativi dell’avvenuto compimento delle formalità prescritte dalla norma e diretti a porre nella sfera di conoscibilità dell’unico destinatario ciascuno degli atti suddetti, o quanto meno la specificazione nell’unico avviso raccomandato degli atti cui era relativo con le indicazioni ex art. 48 disp. att. c.p.c. in ordine alla natura e provenienza di ciascuno di essi.

Nella specie, la sentenza impugnata ha rilevato che non era dato individuare nella copia dell’avviso prodotta se vi fossero specificati uno o più atti.

Non ricorre quindi nemmeno l’ipotesi minima sopra prospettata, quella cioé dell’unico avviso raccomandato con la menzione degli estremi di tutti gli atti cui esso si riferisce, che corrispondevano ai due avvisi di accertamento in questione.

In tale situazione, deve ritenersi che la notifica sia nulla, indipendentemente dall’irrilevanza, ai fini della validità della notifica ex art. 140 c.p.c., della consegna della raccomandata al destinatario, punto sul quale si sofferma la motivazione della sentenza impugnata, atteso che il vizio riscontrato riguarda non la consegna, ma la spedizione della raccomandata, che costituisce un momento essenziale, da cui dipende il perfezionamento della notificazione ex art. 140 c.p.c..

Avendo la Corte di appello ritenuto invece che l’invio di una sola raccomandata non determinasse la nullità delle notifiche dei due avvisi di accertamento, la sentenza impugnata deve essere cassata.

Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito con la dichiarazione di nullità delle notifiche degli avvisi di accertamento e, conseguenzialmente, dell’illegittimità dell’iscrizione a ruolo di IRPEG, ILOR e addizionale ILOR per gli anni 1982 e 1983, di cui alla cartella n. 715740/00/Q dei ruoli di settembre 1989, indicata nel dispositivo della sentenza impugnata.

Ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti sia le spese del giudizio dinanzi alla Corte di appello sia quelle del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo di cui in motivazione. Compensa le spese del presente e del precedente grado del giudizio.

Così deciso in Roma il 15 dicembre 1997.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 MAGGIO 1998