Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 19-11-2019) 28-05-2020, n. 10131

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 10661/2012, proposto da N.M., rappresentata e difesa dall’Avvo. Nunzio Santi Di Paola ed elettivamente domiciliata presso il suo studio, in Catania, Corso Italia, n. 171;

– ricorrente –

CONTRO

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici, in Roma, in via dei Portoghesi, n. 12, è domiciliata;

-controricorrente-

e CONTRO

Serit Sicilia S.p.a., già Montepaschi Se.ri.t. S.p.a., Agente della riscossione per la Provincia di Catania, in persona del legale rappresentante p.t.

-parte intimata-

avverso la sentenza n. 211/17/11 della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, emessa il 17/2/2011, depositata il 7 luglio 2011 e non notificata.

Udita la relazione svolta nella Camera di Consiglio del 19 novembre 2019 dal Consigliere Andreina Giudicepietro.

Svolgimento del processo
CHE:

1. la Sig.ra N.M. ricorre con sei motivi per la cassazione della sentenza n. 211/17/11 della Commissione Tributaria Regionale della Sicilia (di seguito C.T.R.), depositata il 7 luglio 2011 e non notificata, che ha accolto l’appello dell’Ufficio e riformato la sentenza di primo grado della Commissione Tributaria Provinciale di Catania, in controversia relativa all’impugnazione della cartella di pagamento n. 293 2002 00619005 per IRPEF, ILOR, S.S.N., oltre accessori, per gli anni d’imposta 1995 e 1996, con cui la contribuente deduceva la decadenza dell’Ufficio dal potere impositivo per mancata notifica, seppur indicata in cartella, del prodromico avviso di accertamento entro i termini di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43;

2. la C.T.R., con la sentenza impugnata, rilevava, in primo luogo, che, in relazione alla tempestività dell’appello dell’Ufficio con riferimento al termine annuale, l’eccezione della contribuente andasse disattesa, poichè la raccomandata di spedizione del plico contenente l’appello era stata spedita un anno e quarantatrè giorni dopo il deposito della sentenza di primo grado; in secondo luogo, che fosse ammissibile la produzione, da parte dell’Ufficio, per la prima volta in grado d’appello, della documentazione relativa agli avvisi di accertamento richiamati nella cartella esattoriale impugnata, poichè la stessa Corte di Cassazione, con la sentenza n. 8489/2009, aveva affermato che nel processo tributario di appello fosse possibile produrre nuovi documenti sui quali si era dibattuto in primo grado; in terzo luogo che, per quanto riguardava l’esame dell’idoneità della documentazione, al fine di dimostrare la notificazione degli avvisi di accertamento, l’Ufficio avesse assolto all’onere probatorio concernente l’avvenuta notifica degli avvisi stessi, il cui contenuto era ininfluente ai fini della decisione, attesa la mancata impugnazione degli atti impositivi;

3. a seguito del ricorso, l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso;

4. il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 19 novembre 2019, ai sensi dell’ art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Motivi della decisione
CHE:

1.1. con il primo motivo di ricorso, la ricorrente censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 2712 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

secondo la contribuente la C.T.R. avrebbe dovuto rigettare l’appello proposto dall’Ufficio, in quanto l’Agenzia delle Entrate, al fine di provare la notifica degli avvisi di accertamento, aveva prodotto delle semplici copie fotostatiche, illeggibili e non conformi all’originale, che l’appellata N.M. aveva contestato nelle controdeduzioni in secondo grado;

la ricorrente deduce che, anche in tema di contenzioso tributario, la produzione di documenti in copia fotostatica costituisce un mezzo di prova idoneo, soltanto se la controparte non ne contesti la conformità all’originale, come previsto dall’art. 2712 c.c., stante che, in caso di contestazione, il giudice ha l’obbligo di disporre la produzione del documento originale;

con il sesto motivo, da trattare congiuntamente al primo, perchè connesso, la ricorrente censura la nullità della sentenza impugnata per insufficiente motivazione, in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5);

secondo la ricorrente, la sentenza presenterebbe un vizio di motivazione in relazione all’accoglimento dell’appello per (presunta) regolare notifica degli avvisi di accertamento, provata dall’Ufficio mediante la produzione di copie fotostatiche di una serie non meglio specificata di avvisi di ricevimento non conformi all’originale ed espressamente contestati;

1.2. i motivi sono infondati e devono essere rigettati;

1.3. invero, il disconoscimento della conformità della copia all’originale di scrittura non ha gli stessi effetti del disconoscimento della scrittura privata originale e non obbliga il giudice a procedere a verificazione e neppure alla acquisizione dell’originale;

in tal caso, infatti, il giudice deve procedere all’esame delle difformità dedotte, valutando se esse siano o meno probanti di una effettiva difformità tra fotocopia e originale, valutazione avvenuto nel caso in esame;

come è stato detto, “in tema di prova documentale, il disconoscimento, ai sensi dell’art. 2719 c.c., della conformità tra una scrittura privata e la copia fotostatica, prodotta in giudizio non ha gli stessi effetti di quello della scrittura privata, previsto dall’art. 215 c.p.c., comma 1, n. 2, in quanto, mentre quest’ultimo, in mancanza di verificazione, preclude l’utilizzabilità della scrittura, la contestazione di cui all’art. 2719 c.c., non impedisce al giudice di accertare la conformità della copia all’originale anche mediante altri mezzi di prova, comprese le presunzioni” (Sez. 5 -, Sentenza n. 14950 del 08/06/2018, Rv. 649366 – 01);

2.1. con il secondo motivo di ricorso, la contribuente censura la violazione e la falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, artt. 14 e 3, in materia di notificazione di atti a mezzo posta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo la ricorrente, nel caso di specie, la notifica degli avvisi di accertamento, in relazione alla documentazione prodotta dall’Ufficio, non può che essere nulla perché, non solo non è possibile verificare l’apposizione della relata di notifica sull’originale dell’atto, mai prodotto dall’Agenzia delle Entrate, nè in primo nè in secondo grado, ma risulta evidente dalla fotocopia come la relata sia nulla in quanto non vi è alcuna apposizione del timbro e della firma di colui che abbia consegnato il plico presso l’Ufficio postale ai fini della notifica;

con il terzo motivo di ricorso la contribuente censura la violazione e la falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8 in materia di notificazione di atti a mezzo posta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo la ricorrente tutti gli adempimenti che impone la norma violata, con particolare riferimento alla ricerca delle persone abilitate a ricevere l’atto, non sono stati rispettati da nessuno dei due avvisi di ricevimento riprodotti;

con il quarto motivo, la ricorrente censura la violazione e la falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 3, ultimo capoverso, in materia di notificazione di atti a mezzo posta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3);

secondo quanto sostenuto dalla contribuente, in nessun avviso di ricevimento sarebbe leggibile la data di deposito dell’atto notificato in assenza del destinatario presso l’ufficio postale, data fondamentale, poiché dalla stessa comincia a decorrere il termine per la restituzione del plico al mittente in caso di mancato ritiro da parte del destinatario;

2.2. i motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono infondati e vanno rigettati.

2.3. nel caso di specie, la stessa ricorrente afferma che la notifica è avvenuta direttamente a mezzo del servizio postale (vedi pag.9 del ricorso); costituisce ormai principio consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta dell’atto impositivo, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (ex multis, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 8293 del 04/04/2018);

pertanto, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l’avviso di liquidazione o di accertamento senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c.;

ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto, pervenuto all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 9111 del 06/06/2012, Rv. 622974);

nel caso di specie, il giudice di appello dà atto che l’Ufficio ha prodotto gli avvisi di ricevimento che, da un lato, riportano il numero delle raccomandate e, dall’altro, la data di spedizione e le annotazioni di immissione dell’avviso in cassetta e del deposito della raccomandata presso l’Ufficio postale;

la C.T.R. ha, quindi, concluso nel senso che fossero presenti tutte le annotazioni richieste ai fini della validità della notifica, che doveva ritenersi perfezionata per compiuta giacenza, decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza, nel caso di specie avvenuta mediante immissione dell’avviso in cassetta;

3.1. con il quinto motivo di ricorso, la contribuente contesta la violazione e la falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, in materia di notificazione di atti a mezzo posta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;

nel ricorso si rileva la nullità della sentenza per il mancato invio della seconda raccomandata informativa al contribuente, come previsto dalla legge a seguito della sentenza n. 346/1998 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del dettato normativo di cui sopra, nella parte in cui non prevedeva che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, venisse data notizia delle formalità compiute al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento;

3.2. il motivo è infondato e deve essere rigettato;

3.3. è opportuno premettere che, come si è detto, nel caso in esame, l’Ufficio si è avvalso della possibilità di provvedere direttamente alla notifica degli atti impositivi a mezzo del servizio postale, come ammesso dalla stessa ricorrente (vedi pag. 9 del ricorso);

la L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, modificando la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, ha aggiunto, per quanto qui interessa, la previsione che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente “può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982;

a decorrere, pertanto, dal 15 maggio 1998 (data di entrata in vigore della citata L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere “direttamente” alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale (Cass. n. 15284 del 2008);

ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata, alla quale, pertanto, non si applicano le disposizioni della L. n. 890 del 1982, concernenti le sole notificazioni effettuate a mezzo posta tramite gli ufficiali giudiziali (o, eventualmente, i messi comunali e i messi speciali autorizzati), bensì le norme concernenti il servizio postale “ordinario”;

tuttavia, in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto, il regolamento postale (nel caso di specie, la circolare n. 70/2001 oggetto: poste – condizioni generali del servizio postale – D.M. 9 aprile 2001, su g.u. n. 95 del 24.4.2001), contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limitava a prevedere, all’art. 32, che, per gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate), “in caso di assenza all’indirizzo indicato, il destinatario e le altre persone abilitate a ricevere l’invio” potevano “ritirarlo presso l’ufficio postale di distribuzione, entro i termini di giacenza previsti dall’art. 49”;

nessuna disposizione di detto regolamento conteneva, quindi, una regola analoga a quella dettata in materia di notifiche effettuate a mezzo posta dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, sul momento in cui si dovesse ritenere pervenuto al destinatario un atto, che l’agente postale avesse depositato in giacenza presso l’ufficio postale a causa della impossibilità di recapitarlo per l’assenza del medesimo destinatario o di altra persona abilitata;

pertanto, come chiarito da questa Corte, “in tema di notificazione dell’atto impositivo effettuata a mezzo posta direttamente dall’Ufficio finanziario, al fine di garantire il bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, deve farsi applicazione in via analogica della regola dettata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore, decorrendo da tale momento il termine per l’impugnazione dell’atto notificato”(Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 2047 del 02/02/2016);

quindi, nel caso di specie, per il perfezionamento della notifica con il meccanismo della cd. “compiuta giacenza”, deve farsi ricorso, in via analogica, alla regola dettata nella L. n. 890 del 2002, art. 8, comma 4, con la conseguenza che la notifica deve intendersi perfezionata decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza del deposito presso l’Ufficio Postale, in quanto il regolamento del servizio di recapito non prevedeva la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza;

secondo la ricorrente, la notifica degli avvisi di accertamento, richiamata nella cartella esattoriale impugnata, non si sarebbe perfezionata per il mancato invio della lettera raccomandata informativa, prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, a seguito della sentenza della Corte Costituzionale n. 346 del 1998;

invero, la Corte costituzionale, con sentenza 23 settembre 1998, n. 346, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento;

tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale riguarda la diversa modalità di notificazione a mezzo posta curata dall’Ufficiale Giudiziario, alla quale si applica la disciplina di cui alla L. n. 890 della 1982, compreso la norma in oggetto (vedi Cass. Sez. 5, Sentenza n. 17598 del 28/07/2010, che ha confermato la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva ritenuto valida la notifica dell’invito al contraddittorio endoprocedimentale ai fini dell’accertamento con adesione D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, effettuata con raccomandata, non ritirata presso l’ufficio postale, senza che ad essa fosse seguito l’invio della raccomandata informativa previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, così come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1998);

il differente iter notificatorio si spiega con la diversità delle fattispecie poste a confronto, comportando la notifica diretta a mezzo del servizio postale un procedimento più agile e semplificato, a tutela delle ragioni del fisco di preminente interesse pubblico;

come evidenziato di recente dalla Corte Costituzionale (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175, che ha ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, nonostante la mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica -CAN- e l’inapplicabilità della L. n. 890 del 1982, art. 7, come modificato con la L. n. 31 del 2008), il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque garantito dal fatto che colui, che assuma in concreto la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile, può chiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove comprovi, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, la sussistenza di detta situazione (nel caso di specie neanche dedotta dalla ricorrente);

in conclusione, deve affermarsi il seguente principio: “nella notifica degli atti tributari, effettuata L. n. 890 del 1982, ex art. 14, in caso di mancato recapito della raccomandata all’indirizzo del destinatario, la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza e di deposito presso l’Ufficio Postale (o dalla data di spedizione dell’avviso di giacenza, nel caso in cui l’agente postale vi abbia provveduto, sebbene non tenuto a tanto – cfr. Cass. sent. n.,2047/2016), in quanto, per il procedimento notificatorio suddetto, si applicano le norme del regolamento del servizio di recapito postale, che non prevedono la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza”;

per quanto fin qui detto, il ricorso va complessivamente rigettato;

la ricorrente è condannata al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, come liquidate in dispositivo;

nulla deve disporsi in ordine alle spese nei confronti del concessionario, che è rimasto intimato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 19 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2020


Cass. civ., Sez. I, Ord., (data ud. 27/02/2020) 29/05/2020, n. 10308

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACIERNO Maria – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –

Dott. DOLMETTA Aldo Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso n. 8679/2019 proposto da:

E.H., rappresentato e difeso dall’Avv. Lucia Paolinelli, come da procura speciale in calce al ricorso per cassazione, con la stessa elettivamente domiciliato in Roma presso lo studio dell’Avv. Enrica Inghilleri.

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro in carica, domiciliato ex lege in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso gli uffici dell’Avvocatura Generale dello Stato;

– intimato –

avverso la sentenza della Corte di appello di ANCONA n. 1762/2018, pubblicata in data 16 agosto 2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 27/02/2020 dal Consigliere Dott. Lunella Caradonna.

Svolgimento del processo
1. E.H., nato in (OMISSIS), ha impugnato l’ordinanza del Tribunale di Ancona del 2 maggio 2017, che, al pari della Commissione territoriale competente, aveva rigettato la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria ed umanitaria.

2. Il richiedente ha dichiarato che il padre era morto in seguito ad un attentato terroristico di (OMISSIS) alla stazione di (OMISSIS), e di avere lasciato la Nigeria per il rifiuto di aderire alla setta degli (OMISSIS).

3. La Corte di appello di Ancona ha ritenuto insussistenti i presupposti necessari per il riconoscimento di ciascuna delle forme di protezione invocate, sulla base delle dichiarazioni del richiedente giudicate non credibili; della mancanza di un effettivo rischio nell’ipotesi di rientro nel Paese d’origine e dell’assenza di lesioni di diritti umani.

4. E.H. ricorre in cassazione con due motivi.

5. L’Amministrazione intimata non ha svolto difese.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo E.H. deduce che la Corte di appello di Ancona sia incorsa nella violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 3, per avere escluso la protezione umanitaria, senza verificare e valorizzare la situazione di grave instabilità politica e sociale attualmente presente in Nigeria, poichè essendo la protezione umanitaria una misura atipica e residuale era necessaria l’indagine sull’esistenza di una situazione vulnerabile valutando le condizioni oggettive del Paese di provenienza.

1.1 Nella sostanza, la questione posta è se sia configurabile o meno tra le ragioni di vulnerabilità che giustificano l’adozione del permesso umanitario le situazioni di conflitto per grave instabilità politica e sociale, anche se non riconducibili nell’alveo normativo di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ipotesi quest’ultima che si configura quando gli scontri tra le forze governative di uno Stato o uno o più gruppi armati, o tra due o più gruppi armati, siano all’origine di una minaccia grave ed individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria (Cass., 2 ottobre 2019, n. 24647) e raggiungono un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia (Corte di Giustizia, causa C-285/12, Diakitè, sentenza 30 gennaio 2014 e causa C-465/07, Elgafaji, sentenza 17 febbraio 2009).

1.2 Ed ancora se sia sufficiente ad escludere il diritto al riconoscimento della protezione umanitaria, l’insussistenza delle condizioni richieste dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), per la protezione sussidiaria, sia avuto riguardo ai requisiti oggettivi della gravità ed intensità del conflitto interno o internazionale, sia avuto riguardo alla correlazione tra la situazione personale del richiedente e il contesto oggettivo del paese di provenienza.

1.3 Il D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non definisce i “gravi motivi” di carattere umanitario che possono impedire il rientro del richiedente nel suo paese di origine.

Gli stessi sono stati ricondotti ora a fattori soggettivi di vulnerabilità, quali particolari motivi di salute, ragioni di età, un significativo percorso di integrazione nel nostro paese; ora a fattori oggettivi di vulnerabilità, legati a guerre civili, catastrofi naturali, trattamenti degradanti ed altre gravi e reiterate violazioni dei diritti umani nel Paese di origine.

1.4 Come di recente affermato delle Sezioni Unite di questa Corte, “In tema di protezione umanitaria, l’orizzontalità dei diritti umani fondamentali comporta che, ai fini del riconoscimento della protezione, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta nel paese di accoglienza” (Cass., Sez. U., 213 novembre 2019, n. 29549).

In primo luogo, il giudice, ai fini dell’accertamento delle condizioni per il riconoscimento di un titolo di soggiorno fondato su ragioni umanitarie, deve procedere alla valutazione della situazione vissuta nel Paese di origine da parte del richiedente, ai fini di verificare se sussista una effettiva privazione dei diritti umani cui il richiedente si troverebbe esposto ove rimpatriato.

In secondo luogo, il giudice deve prendere in esame la situazione personale, relazionale e lavorativa nel Paese di accoglienza e la correlazione tra i due contesti deve essere attuata al fine di verificare se il peggioramento delle condizioni personali e sociali in caso di rientro sia tale da determinare un’incolmabile sproporzione nella titolarità e nell’esercizio dei diritti fondamentali al di sotto del parametro della dignità personale (Cass., 23 febbraio 2018, n. 4455).

1.5 La conclusione argomentativa è nel senso della stretta correlazione tra le situazioni di vulnerabilità e la condizione personale vissuta o subita dal richiedente nel Paese di provenienza, ovvero la protezione umanitaria è volta a tutelare situazioni di gravi violazioni dei diritti umani dalle quali il richiedente sia stato necessitato ad allontanarsi, che perdura nel Paese di origine, con la conseguenza che, in linea di principio, non rilevano situazioni di vulnerabilità che non derivino da una condizione personale vissuta o subita in quel contesto geografico, politico o sociale.

1.6 Diversamente potrebbe sostenersi con riguardo all’accertamento che il giudice deve compiere con riguardo alle situazioni di cosiddetto “conflitto a bassa intensità sociale”, ovvero in tutte quelle situazioni in cui l’accertamento che il giudice deve svolgere, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, riguarda il riscontro di un fattore oggettivo, ovvero di una condizione di privazione o forte limitazione dei diritti umani dovuta ad una situazione caratterizzata dal predominio di fazioni o milizie private tali da ingenerare violenza diffusa ancorchè non generalizzata oppure da una condizione di generale o quanto meno prevalente sopraffazione verso un particolare gruppo sociale.

In questi casi, infatti, in cui rilevano fattori oggettivi di vulnerabilità, il puntuale accertamento delle condizioni oggettive del Paese di rientro assume rilievo probatorio centrale, mentre perde di rilievo la condizione personale del richiedente rispetto alle ragioni umanitarie. La circostanza che la valutazione che il giudice deve operare è di natura oggettiva, comporta come conseguente corollario che, in queste situazioni, si può prescindere da una valutazione comparatistica, che prenda in esame la situazione personale, relazionale e lavorativa del richiedente e il suo percorso di integrazione nel Paese di accoglienza.

1.7 In proposito, le pronunce di questa Corte sono sostanzialmente concordi nel configurare i “gravi motivi”, come elementi derivanti dalla situazione sociale, politica, o ambientale del Paese d’origine del richiedente riconducibili sotto lo specifico profilo causale o eziologico alle condizioni personali del richiedente, pur non essendo richiesto un pericolo persecutorio o di danno grave (Cass. 24 giugno 2013, n. 15756/2013, 28 novembre 2017 n. 28336).

1.8 Poichè gli enunciati principi trovano applicazione anche nel caso in esame, si ritiene opportuno trattare il presente ricorso in pubblica udienza.

P.Q.M.
rimette la causa in pubblica udienza.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2020


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 09-01-2020) 26-05-2020, n. 9867

Sanzioni amministrative – Notificazione – Art. 201 codice della strada – Messo comunale – Qualificazione giuridica – Appalto a soggetti privati – Legittimità

Possono essere nominati messi per la notificazione anche i dipendenti di società private

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28405-2018 proposto da:

D.M.M., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI SERANTONI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FIRENZE in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE LEPORE, rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA SANSONI, GIANNA ROGAI;

– controricorrente –

nonché contro

EQUITALIA CENTRO SPA GIA’ EQUITALIA CERIT SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 557/2018 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 23/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/01/2020 dal Consigliere Dott. OLIVIERI STEFANO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale CARDINO ALBERTO, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
In totale riforma della decisione del Giudice di Pace di Firenze n. 1416/2013, che aveva accolto la opposizione proposta da D.M.M. avverso il “preavviso di fermo amministrativo” comunicato da Equitalia Cerit s.p.a., n. q. di Concessionario per la riscossione del Comune di Firenze, sul presupposto della inesistenza della notifica dei verbali di accertamento infrazione delle norme del Codice della strada e delle cartelle di pagamento, eseguita da incaricati dipendenti della società ATI TNT Post Italia s.p.a. anzichè da Poste Italiane, il Tribunale di Firenze in grado di appello, con sentenza in data 23.2.2018 n. 557 ha accolto la impugnazione principale del Comune e la impugnazione incidentale di Equitalia Centro s.p.a. (subentrata ad Equitalia Cerit s.p.a.), rilevando come alcuna norma di legge prevedesse la necessità di un rapporto di lavoro subordinato tra il “messo comunale” e l’ente locale, sicchè bene quest’ultimo poteva incaricare anche soggetti esterni all’Amministrazione pubblica del servizio di notificazione, e rilevando altresì che, quanto alla notifica dei VAV era nuova -e quindi inammissibile- la eccezione del D.M. relativa alla mancata prova offerta dal Comune della preesistente attribuzione della qualifica di “messo comunale” agli incaricati della TNT e che il Giudice di Pace era incorso in ultrapetizione laddove aveva ritenuto inesistenti le notifiche delle cartelle di pagamento anche in base alla mancanza di prova dell’incarico di notifica affidato dalla Concessionaria Equitalia al personale TNT sebbene tale eccezione non fosse stata svolta dal D.M. in primo grado. Quanto alla facoltà del Concessionario di delegare l’attività di notifica delle cartelle la stessa trovava titolo nel D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 e nel D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 45.

La sentenza di appello, non notificata, è stata impugnata per cassazione da D.M.M. con due motivi.

Resiste con controricorso illustrato da memoria ex art. 380 bis c.p.c., comma 1, il Comune di Firenze. Non ha svolto difese l’intimata Equitalia Centro s.p.a. cui il ricorso è stato notificato in data 24.9.2018.

Il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni scritte instando per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
Con il primo motivo ed il secondo motivo (con i quali si deduce: violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973 e succ. modifiche, dell’art. 137 c.p.c. e succ., dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) il ricorrente censura la statuizione della sentenza di appello che ha ritenuto conforme alla disciplina normativa prevista, rispettivamente, per la notifica delle cartelle di pagamento da parte del Concessionario, poi Agente del servizio di riscossione, e per la notifica dei verbali di contestazione di infrazione alle norme del Codice della strada, le notifiche dei predetti atti eseguite dal personale dipendente della società privata TNT Post Italia s.p.a..

I motivi sono infondati.

Preliminarmente occorre rilevare come il ricorrente venga a confondere i due distinti profili:

a) della inesistenza delle notifiche in quanto eseguite da personale dipendente di una società privata anzichè dagli agenti postali b) della omessa prova, da parte del Comune di Firenze e di Equitalia Centro s.p.a., dei provvedimenti attributivi al predetto personale della qualifica abilitativa di “messo comunale” e di “messo notificatore”.

Orbene per quanto concerne la questione sub lett. b), il Tribunale ha rilevato come si trattasse di questione nuova, sollevata dal D.M. per la prima volta nella comparsa di costituzione in grado di appello e dunque inammissibile ex art. 345 c.p.c.; ha rilevato altresì -accogliendo l’appello incidentale di Equitalia- che la medesima questione, limitatamente alla notifica delle cartelle di pagamento, era stata rilevata illegittimamente “ex officio” dal Giudice di Pace, incorso in ultrapetizione, ed aveva annullato la decisione di prime cure anche su tale punto.

Tali statuizioni non vengono specificamente censurate dal ricorrente che si limita ad insister che correttamente il Giudice di Pace aveva accertato la inesistenza delle notifiche in quanto eseguite da una società privata, fatto questo che lo stesso Comune ed Equitalia avevano espressamente riconosciuto (questione attinente al profilo indicato sub lett. a), aggiungendo inoltre che la mancanza di un preesistente atto di nomina del personale della società privata attributivo della qualifica necessaria all’esercizio delle competenze notificatorie era rilevabile fin dal primo grado avendo il Giudice di pace evidenziato che gli atti di nomina prodotti riguardavano soggetti diversi da quelli che avevano eseguito la notifica delle cartelle di pagamento (cfr. ricorso sub motivo 1), osservazione tuttavia che non vale a formulare una idonea critica alla statuizione di inammissibilità della eccezione nuova e di annullamento della sentenza di prime cure per ultrapetizione, altro essendo la valutazione delle risultanze probatorie relative ai documenti “hinc et inde” prodotti, ed altro invece la riferibilità e pertinenza di tale valutazione ai fini della dimostrazione dei fatti -e soltanto di quei fatti- che risultano controversi in quanto inerenti a questioni dedotte nell’oggetto del giudizio (e non anche quindi ad altre questioni che avrebbe dovuto essere veicolate attraverso l’attività allegatoria propria delle domande ed eccezioni da svolgersi nel rispetto delle preclusioni delle fasi processuali).

Ferma tale premessa, la censura prospettata dal ricorrente in ordine alla inesistenza delle notifiche dei verbali di accertamento delle violazioni delle norme stradale e delle cartelle di pagamento è infondata, non venendo dedotte dal ricorrente questioni in diritto diverse da quelle analoghe già esaminate e risolte dal precedente di questa Corte cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 22167 del 05/09/2019 le cui argomentazioni sono condivise dal Collegio e possono brevemente riassumersi nei seguenti passaggi motivazionali:

il servizio di notificazione dei verbali di accertamento infrazione e delle relative cartelle di pagamento, non è disciplinato in modo vincolato dalle norme di legge che non impongono una determinata forma di notifica, nè una predeterminazione soggettiva dell’agente notificatore: 1) quanto alle cartelle di pagamento, il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, dispone che alla notifica (in alternativa: a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, con modalità telematica posta elettronica certificata-, mediante consegna a mani proprie, nelle altre modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60) procede l’ufficiale delle riscossione od “altri soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge ovvero, previa eventuale convenzione tra comune e concessionario, dai messi comunali o dagli agenti della polizia municipale”, e il D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 45, dispone che “1. Il concessionario, per la notifica delle cartelle di pagamento e degli avvisi contenenti l’intimazione ad adempiere, può nominare uno o più messi notificatori.

2. Il messo notificatore esercita le sue funzioni nei comuni compresi nell’ambito del concessionario che lo ha nominato e non può farsi rappresentare nè sostituire.”; 2) quanto ai VAV, il D.Lgs. n. 285 del 1999, art. 201, Codice della strada prevede che “3. Alla notificazione si provvede a mezzo degli organi indicati nell’art. 12, dei messi comunali o di un funzionario dell’amministrazione che ha accertato la violazione, con le modalità previste dal codice di procedura civile, ovvero a mezzo della posta, secondo le norme sulle notificazioni a mezzo del servizio postale. Nelle medesime forme si effettua la notificazione dei provvedimenti di revisione, sospensione e revoca della patente di guida e di sospensione della carta di circolazione. Comunque, le notificazioni si intendono validamente eseguite quando siano fatte alla residenza, domicilio o sede del soggetto, risultante dalla carta di circolazione o dall’archivio nazionale dei veicoli istituito presso il Dipartimento per i trasporti terrestri o dal P.R.A. o dalla patente di guida del conducente”;

la legge, peraltro, non dà una definizione generale di “messo comunale” o di “messo notificatore, ciò che consente di affermare “che la qualifica di “messo comunale” prescinde dal rapporto giuridico che lega il messo al Comune. Potranno dunque aversi messi che siano dipendenti della p.a.; messi che siano funzionari non dipendenti; messi che siano mandatari dell’amministrazione; messi che siano appaltatori di servizi per l’amministrazione….” (si veda anche Corte cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza interlocutoria n. 18578 del 02/08/2013, in motivazione) – “in mancanza di norme di legge che impongano l’adozione dell’uno piuttosto che dell’altro tipo di rapporto, l’amministrazione comunale resta libera di scegliere la formula contrattuale più consona al pubblico interesse” essendo quindi permesso all’amministrazione comunale anche “appaltare a soggetti privati l’esecuzione dei compiti del messo comunale, ivi compresa la notificazione dei verbali di accertamento delle infrazioni al codice della strada” ad analoghe conclusioni può pervenirsi anche in relazione al rapporto che viene ad istituirsi, in funzione della notifica delle cartelle, tra Concessionario/Agente della riscossione ed “altro soggetto” da quello abilitato alla notifica, dovendo ulteriormente osservarsi che, nella specie, neppure può escludersi -in difetto di alcun chiarimento al proposito fornito dal ricorrente- se il personale TNT Post Italia s.p.a., utilizzato da Equitalia Centro s.p.a. per la notifica delle cartelle, fosse stato incaricato direttamente dalla Concessionaria o invece detenesse già la qualifica abilitativa di “messo comunale” in quanto posto a disposizione dal Comune in virtù di apposita convenzione stipulato con Equitalia;

La questione della incompatibilità della nomina di messi comunali e di messi notificatori conferita a personale dipendente di società di diritto privato, con la forma richiesta dalla legge di notifica a mezzo posta è del tutto generica, atteso che la problematica evidenziata implica la coesistenza della duplice condizione per cui la notifica debba ex lege essere eseguita “esclusivamente” mediante il servizio postale cd. universale e nella specie sia stata invece eseguita attraverso modalità diverse relative a servizio di recapito privato: ebbene, se da un lato, la censura si prospetta carente sul punto, non assolvendo al requisito della compiuta descrizione dei fatti ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, atteso che il ricorrente neppure indica quale forma di notifica dei VAV e delle cartelle sia stata seguita in concreto (forme della notifica a mani proprie del codice di procedura civile od invece a mezzo posta; e in quest’ultimo caso se la notifica sia stata eseguita mediante consegna del plico all’Ufficio postale ex L. n. 890 del 1982 o invece mediante servizio di posta privata: risultando evidente che alcuna inesistenza o vizio di nullità della notifica potrebbe ravvisarsi nella prima ipotesi, in cui l’incaricato della notifica si limita a consegnare materialmente l’atto notificando affinchè venga spedito a mezzo posta ordinaria -cfr. Corte cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 15347 del 21/07/2015-), dall’altro lato i precedenti giurisprudenziali invocati dal ricorrente si riferiscono a discipline normative in materia di atti tributari e giudiziari che prevedevano in modo vincolato che le notifiche venissero eseguite per motivi di ordine pubblico esclusivamente da Poste Italiane s.p.a. nelle forme tipizzate previste per la spedizione delle raccomandate (cfr. Corte cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 27021 del 19/12/2014; id. del 07/09/2018).

In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente condannata alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 9 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2020


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 12-12-2019) 14-02-2020, n. 3754

Nella sentenza n. 3754 del 14 febbraio 2020 la Corte di Cassazione afferma che la più recente giurisprudenza di legittimità, innovando rispetto ad un precedente orientamento, ritiene che la comunicazione di avvenuto deposito nella casa comunale di un avviso di accertamento, in caso di irreperibilità relativa del destinatario, dev’essere inviata a quest’ultimo con lettera raccomandata con avviso di ricevimento, adempimento indispensabile al fine di assicurare l’effettiva conoscibilità, da parte del destinatario, dell’avvenuto deposito dell’atto presso l’ufficio postale; la Corte aggiunge che, ai fini della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio, è necessario che la parte fornisca la prova dell’effettivo e regolare invio dell’avviso di ricevimento relativo alla raccomandata di inoltro della comunicazione di avvenuto deposito (c.d. “C.A.D.”) e detta verifica presuppone l’esibizione in giudizio del relativo avviso, fermo restando che le modalità d’invio e ricezione di detta seconda raccomandata dovranno essere verificate secondo le norme del regolamento postale applicabile.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

Dott. CAPOZZI Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19671-2018 proposto da:

Z.F., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso da se stesso;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI RAGUSA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 4854/12/2017 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di PALERMO SEZIONE DISTACCATA di CATANIA, depositata il 12/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 12/12/2019 dal Consigliere Relatore Dott. CAPOZZI RAFFAELE.

Svolgimento del processo
che il contribuente Z.F. propone ricorso per cassazione nei confronti di una sentenza della CTR della Sicilia, sezione staccata di Catania, di rigetto dell’appello da lui proposto avverso una sentenza della CTP di Ragusa, che aveva dichiarato inammissibile per tardività il suo ricorso avverso un avviso di accertamento IRPEF, IVA ed IRAP 2009.

Motivi della decisione
che il ricorso è affidato a due motivi;

che, con il primo motivo, il contribuente lamenta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, dell’art. 140 c.p.c. e della L. n. 890 del 1982, artt. 8, 4 e 14, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, non essendo condivisibile quanto sostenuto dalla CTR, secondo cui, per la ritualità della notifica, era richiesta solo la prova della spedizione della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito e non la prova del suo ricevimento da parte del destinatario;

che, con il secondo motivo, il contribuente lamenta violazione artt. 149 e 160 c.p.c.; art. 6 Statuto del contribuente ed artt. 3 e 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto l’amministrazione finanziaria era tenuta ad assicurare l’effettiva conoscenza da parte del contribuente degli atti a lui destinati; al riguardo, dal combinato disposto della L. n. 809 del 1982, art. 14 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 emergeva l’imprescindibilità del rinvio all’art. 140 c.p.c., alla stregua del quale, se non era possibile eseguire la consegna di un atto per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nel precedente art. 139, l’ufficiale doveva depositare la copia nella casa del Comune dove la notificazione doveva eseguirsi; affiggere avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione del destinatario e dare notizia a quest’ultimo per raccomandata con avviso di ricevimento, si che la notifica si perfezionava per il destinatario con il ricevimento della raccomandata informativa, che consentiva la verifica che l’atto fosse pervenuto nella sua sfera di conoscibilità; e la mancanza di tale avviso determinava la nullità dell’attività notificatoria eseguita;

che l’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso;

che i due motivi di ricorso proposti dal contribuente, da trattare congiuntamente, siccome strettamente correlati fra di loro, sono fondati;

che, invero, la più recente giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. n. 2683 del 2019; Cass. n. 5077 del 2019; Cass. n. 16601 del 2019), innovando rispetto ad un precedente orientamento (cfr., ex multis, Cass. n. 4043 del 2017), ritiene che la comunicazione di avvenuto deposito nella casa comunale di un avviso di accertamento, in caso di irreperibilità relativa del destinatario, dev’essere inviata a quest’ultimo, ai sensi della L. n. 890 del 1992, art. 8, comma 4, con lettera raccomandata con avviso di ricevimento; e detto adempimento è stato ritenuto indispensabile sia dalla Corte Costituzionale (cfr. sentenza n. 258 del 2012) che dal legislatore (art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, u.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e)), al fine di assicurare l’effettiva conoscibilità, da parte del destinatario, dell’avvenuto deposito dell’atto presso l’ufficio postale; era peraltro necessaria una lettura omogenea ed unitaria del sistema di notificazione a mezzo dell’ufficiale giudiziario diretta ovvero a mezzo del servizio postale, si che, ai fini della prova del perfezionamento del procedimento notificatorio, di cui alla citata L. n. 890 del 1992, art. 8, è necessario che la parte fornisca la prova dell’effettivo e regolare invio dell’avviso di ricevimento relativo alla raccomandata di inoltro della comunicazione di avvenuto deposito (c.d. “C.A.D.”); e detta verifica presuppone l’esibizione in giudizio del relativo avviso, fermo restando che le modalità d’invio e ricezione di detta seconda raccomandata dovranno essere verificate secondo le norme del regolamento postale applicabile;

che, nella specie, non è contestato che l’Agenzia delle entrate non ha prodotto copia dell’avviso di ricevimento, attestante l’avvenuto invio al contribuente della comunicazione di avvenuto deposito (c.d. C.A.D.), si che la notifica dell’avviso di accertamento impugnato è da ritenere non essersi mai perfezionata, con conseguente accoglimento del ricorso del contribuente e declaratoria di legittimità dell’impugnazione da lui proposta avverso l’avviso di accertamento IRPEF, IVA ed IRAP anno 2009;

che la sentenza impugnata va pertanto cassata e gli atti rimessi alla CTP di Ragusa, perché esamini il ricorso proposto dal contribuente avverso l’avviso di accertamento IRPEF, IVA ed IRAP anno 2009;

che, tenuto conto dell’evoluzione giurisprudenziale verificatasi in materia, appare equo compensare integralmente fra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso del contribuente; cassa la sentenza impugnata e rimette gli atti alla CTP di Ragusa, affinché esamini il ricorso proposto dal contribuente avverso l’avviso di accertamento IRPEF, IVA ed IRAP anno 2009, con compensazione integrale delle spese di giudizio.

Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2020


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 18-12-2019) 22-05-2020, n. 9429

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO M.G. – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22022/2014 R.G. proposto da:

A.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Roberto Bottacchiari, elettivamente domiciliato nel suo studio in Roma, via Oslavia n. 28, int. 3;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, in persona del Direttore p.t., con domicilio eletto presso gli uffici della predetta Avvocatura, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio depositata il 6 febbraio 2014, n. 700/39/14.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 18 dicembre 2019 dal Cons. Dott. Leuzzi Salvatore.

Svolgimento del processo
CHE:

– Il contribuente propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe, di rigetto del gravame di merito avverso la sentenza della CTP di Napoli, che aveva ne aveva respinto il ricorso avente ad oggetto due cartelle esattoriali tese, l’una a recuperare l’Irpef, l’altra l’Irap e l’IVA, con riferimento all’anno 2005;

– Il ricorso per cassazione della contribuente è affidato a sette motivi;

– L’Agenzia delle entrate si è costituita con controricorso.

Motivi della decisione
CHE:

Con il primo motivo si contesta la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, art. 137 c.p.c. e s.s. e art. 156 c.p.c., per avere la CTR trascurato di apprezzare la giuridica inesistenza delle notificazioni delle cartelle di pagamento, invero ambedue sprovviste di “relata di notifica”;

Con il secondo motivo si censura la nullità della sentenza d’appello o del procedimento per violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonchè art. 132 c.p.c., avendo la CTR tralasciato di considerare la mancanza assoluta delle relata di notificazione delle cartelle di pagamento, omettendo di pronunciarsi sul punto, di valutare le prove presenti agli atti, di offrire una motivazione;

Con il terzo motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, commi 1 e 3 e L. n. 212 del 2000, art. 7, per avere le CTR mancato di considerare che le cartella di pagamento non contengono alcuna motivazione circa le pretese erariali, che rimangono incomprensibili;

Con il quarto motivo si censura la nullità della sentenza d’appello o del procedimento per violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonchè art. 132 c.p.c., avendo la CTR tralasciato di considerare la mancanza assoluta di motivazione delle cartelle di pagamento, omettendo di valutare le prove presenti agli atti e di pronunciarsi sulle deduzioni svolte al riguardo dalla contribuente;

Con il quinto motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42 e D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, nonchè art. 137 c.p.c. e s.s., per avere la CTR trascurato di considerare l’inesistenza della notifica dell’avviso di accertamento costituente atto presupposto della cartella esattoriale;

Con il sesto motivo si censura la violazione o falsa applicazione dell’art. 2313 c.c., per avere la CTR trascurato di considerare che A.G. beneficia della limitazione di responsabilità ricavabile dalla norma in parola e non è tenuto a rispondere delle imposte riguardanti la società;

Con il settimo motivo si contesta la nullità della sentenza d’appello o del procedimento per violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonchè art. 132 c.p.c., avendo la CTR omesso di pronunciarsi sul punto della pretesa tributaria concernente l’inerenza alla sola società delle imposte oggetto della pretesa tributaria;

I primi due motivi di ricorso sono logicamente connessi, adombrando ambedue il profilo dell’inesistenza della notifica delle cartelle di pagamento e dell’irritualità del proc la nullità della sentenza d’appello o del procedimento per violazione degli artt. 112, 115 e 116 c.p.c., nonchè art. 132 c.p.c., avendo la CTR tralasciato esso notificatorio; essi si offrono ad una trattazione unitaria che ne rivela l’infondatezza;

Secondo il condiviso orientamento di questa Corte in tema di notifica a mezzo posta della cartella esattoriale emessa per la riscossione di imposte o sanzioni amministrative, trova, infatti, applicazione il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, per il quale la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore – come accaduto nel caso di specie – di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, nel qual caso si ha per avvenuta alla data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal ricevente o dal consegnatario, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica, come risulta confermato per implicito dal citato art. 26, pen. comma, secondo il quale l’esattore è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione (v. Cass. n. 16949 del 2014; Cass. n. 14327 del 2009; Cass. n. 14105 del 2000);

Questa Corte ha soggiunto che in tema di notifica della cartella esattoriale del D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26, comma 1, seconda parte, la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione e della relativa data è assolta mediante la produzione dell’avviso di ricevimento, non essendo necessario che l’agente della riscossione produca la copia della cartella di pagamento, la quale, una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, deve, anche in omaggio al principio di cd. vicinanza della prova, ritenersi ritualmente consegnata, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il contribuente dimostri di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass. n. 33563 del 2018; Cass. n. 15795 del 2016);

Il terzo e il quarto motivo di ricorso, logicamente connessi, sono suscettibili di trattazione unitaria; essi non hanno pregio e vanno disattesi;

Per il tramite della terza censura la contribuente agita la questione dell’assenza di motivazione della pretesa erariale, dacchè la cartella “limitandosi a riportare alcuni dati numerici” la renderebbe incomprensibile;

Mediante il quarto mezzo la contribuente insiste sul deficit di motivazione della cartella, essendosi la CTR “limitata ad affermare genericamente che “la cartella contiene tutti gli elementi perchè il contribuente potesse esercitare il diritto di difesa””, a ncorchè secondo la prospettazione della ricorrente – le cartelle non indicassero “i dati utilizzati dall’Ufficio per determinare gli importi iscritti a ruolo, le motivazioni poste alla base delle relative pretese creditorie e, in generale, le logiche seguite dal medesimo Ufficio”;

Il terzo motivo è palesemente inammissibile per difetto di autosufficienza perchè, in mancanza di trascrizione dell’impugnata cartella nel corpo del ricorso, non è concessa a questa Corte la possibilità di verificare la corrispondenza del contenuto dell’atto rispetto a quanto asserito dal contribuente; ciò comporta il radicale impedimento di ogni attività nomofilattica, la quale presuppone appunto la certa conoscenza del tenore della cartella in discorso (Cass. n. 16010 del 2015; Cass. n. 8569 del 2013; e Cass. n. 14784 del 2015);

Va data continuità al principio, recentemente espresso da questa Corte, secondo cui “in tema di processo tributario, ove si censuri la sentenza della Commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di una cartella di pagamento – la quale è atto amministrativo e non processuale – il ricorrente, a pena di inammissibilità, deve trascrivere testualmente il contenuto dell’atto impugnato che assume erroneamente interpretato o pretermesso dal giudice di merito al fine di consentire alla Corte di cassazione la verifica della doglianza esclusivamente mediante l’esame del ricorso” (v. Cass. n. 28570 del 2019);

Il quarto motivo di ricorso – contrassegnato d’inammissibilità per le medesime ragioni or ora esposte – contrasta per di più, nella parte in cui contesta la violazione dell’art. 112 c.p.c., con l’evidenza del corpo motivazionale della sentenza d’appello, che invero dà conto della menzione in cartella dei tributi dovuti, dell’anno di riferimento, dell’importo da pagare, dell’ente che ha iscritto a ruolo il tributo;

Il quarto mezzo, nella parte in cui lamenta il vizio scaturente dal mancato esame di prove fornite, si rivela una volta di più insufficiente trascurando di indicare, finendo per perorare – ancora una volta inammissibilmente – un differente ricostruzione dei fatti di causa;

Non miglior sorte, sul piano dell’ammissibilità, il quarto motivo rivela in rapporto alla contestata violazione dell’art. 132 c.p.c., posto che l’obbligo di motivazione è violato soltanto qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero essa risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (per essere afflitta da un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili oppure perchè perplessa ed obiettivamente incomprensibile) e, in tal caso, si concreta una nullità processuale deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass. n. 22598 del 2018; Cass. n. 23940 del 2017);

Infondato è anche il quinto ed ultimo motivo di ricorso, per il cui tramite si lamenta l’inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento su cui si incentra la cartella oggetto di controversia;

L’inesistenza è contraddetta dalla circostanza accertata dalla CTR in base alla quale il contribuente, ricevuto detto atto presupposto, ha formulato richiesta di adesione;

L’accertamento con adesione è strumento che postula la piena consapevolezza dell’oggetto della pretesa fiscale da parte contribuente, che non a caso è indotto a tentare un accordo con il fisco al fine di evitare una lite tributaria;

Vi è inoltre da ribadire che “In tema di notificazione degli avvisi di accertamento tributario, l’omessa riproduzione della relazione di notifica nella copia consegnata al destinatario non comporta nè l’inesistenza della notificazione, ove non sorgano contestazioni circa l’esecuzione della stessa come indicata nell’originale dell’atto, nè la nullità, prevista invece nella diversa ipotesi di difformità del contenuto delle due relate, bensì una mera irregolarità” (Cass. n. 11134 del 2017; Cass. n. 1532 del 2002);

Il sesto motivo di ricorso è fondato e va accolto nei limiti che seguono, con assorbimento del settimo;

Detto mezzo agita la questione relativa alla limitazione di responsabilità del ricorrente in rapporto alle obbligazioni fiscali dell’ente (Costruzioni A. di O.M. s.a.s.) correlate alla cartelle esattoriali oggetto di causa;

Per vero, la censura appare fondata limitatamente alla cartella esattoriale n. (OMISSIS), volta al recupero dell’IVA e dell’Irap non corrisposta dalla società di persone;

Giova, infatti, affermare il seguente principio di diritto: “In tema di società in accomandita semplice, la norma giuscivilistica contemplata dall’art. 2313 c.c., nel prevedere che i soci accomandanti rispondono per le obbligazioni sociali limitatamente alla quota conferita, vale anche per le obbligazioni di natura tributaria, e, segnatamente, per quelle relative all’IVA e all’Irap dovute dalla società medesima”;

Per converso, il principio anzidetto non può all’evidenza affasciare le obbligazioni personali del socio accomandante, nel cui novero si iscrive quella afferente l’Irpef dovuta con riferimento al reddito di partecipazione maturato nell’anno 2005 dal socio A.G., segnatamente acclusa nella cartella di pagamento n. (OMISSIS);

L’Agenzia controricorrente ha chiesto dichiararsi cessata la materia del contendere in ragione della, a suo dire, intervenuta rinuncia “nelle controdeduzioni dinanzi alla CTR” della “pretesa creditoria in ordine all’Imposta ICA ed Irap accertate in capo alla società”;

L’adottabilità di detta pronuncia è, tuttavia, esclusa nel caso di specie, in quanto la cartella di pagamento è ancora in essere e non ne consta nè l’annullamento nè la revoca;

Come chiarito da questa Corte “alla cessazione della materia del contendere non può ricorrersi allorchè l’interesse fatto valere in giudizio non risulti pienamente composto e tra le parti rimangano profili di contrasto” (v. Cass. n. 6002 del 2001), non rilevando che a perpetuarlo sia stata un’omessa pronuncia del giudice d’appello o la mancata rituale formalizzazione della rinuncia alla pretesa avanza, della revoca dell’atto esecutivo o del suo annullamento;

Il ricorso va, in ultima analisi, accolto soltanto con riferimento al sesto motivo, assorbito il settimo e rigettati gli altri; la sentenza d’appello va cassata limitatamente alla pretesa fiscale fatta valere con la cartella n. (OMISSIS), dovendo essere confermata per il resto;

Non occorrendo ulteriori accertamenti di merito va accolto, altresì, nei termini or ora riportati l’originario ricorso del contribuente avverso detta cartella n. (OMISSIS), che dev’essere conseguentemente annullata;

Le spese vanno compensate per soccombenza reciproca;

P.Q.M.
La Corte rigetta i primi cinque motivi, accoglie il sesto motivo di ricorso, assorbito il settimo; cassa la sentenza impugnata nei limiti di cui in motivazione e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso del contribuente avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS), disponendone l’annullamento. Spese compensate per soccombenza reciproca.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Suprema Corte di Cassazione, il 18 dicembre 2019.

Depositato in cancelleria il 22 maggio 2020


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 07-01-2020) 19-05-2020, n. 9137

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 1949/2016 proposto da:

Arena Npl One Srl, quale mandataria di doBank Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Guidobaldo Del Monte 61, presso lo studio dell’avvocato Amato Giuseppe Romano, rappresentata e difesa dall’avvocato Iannucci Egidio, giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

D.L.G., D.L.N., D.L. Cereali di G.D.L. & C. Snc, D.L. Cereali di G.D.L. & Company Snc, F.M.R.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 215/2015 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 30/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/01/2020 da Dott. FALABELLA MASSIMO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per l’accoglimento;

udito l’Avvocato Sansoni Antonio con delega scritta per la ricorrente, che si riporta agli atti.

Svolgimento del processo
1. – Il Tribunale di Larino revocava il decreto ingiuntivo emesso su ricorso di Banca di Roma s.p.a. e, in accoglimento della domanda riconvenzionale degli opponenti, D.L. Cereali di G.D.L. & C. s.n.c. (obbligata principale), D.L.G. e F.M.R. (fideiussori), condannava l’istituto di credito al pagamento, in favore della società ingiunta, della somma di Euro 20.262,05: importo, quest’ultimo, riferito a quanto indebitamente riscosso dalla banca a titolo di interessi anatocistici.

2. – Contro la pronuncia di primo grado proponeva appello Unicredit Credit Management Bank s.p.a., già Aspra Finance s.p.a., e per essa, quale mandataria, Unicredit Credit Management Bank s.p.a.. In particolare, nell’atto di gravame l’appellante deduceva che la Banca di Roma, dopo aver assunto la denominazione sociale di Capitalia, era stata oggetto di una fusione per incorporazione in Unicredit s.p.a. e che quest’ultima aveva concluso un’operazione di cessione di crediti in blocco in favore di Aspra Finance, a sua volta successivamente incorporata in Unicredit Credit Management Bank.

La Corte di appello di Campobasso, con sentenza del 30 settembre 2015, dichiarava inammissibile il gravame. Rilevava che l’appellante non aveva dato prova della propria legitimatio ad causam, osservando come nessuna rilevanza assumesse la mancata contestazione di controparte circa l’asserita fusione, trattandosi di questione rilevabile d’ufficio.

3. – Contro la pronuncia della Corte molisana ricorre per cassazione Arena NPL One s.r.l., e per essa, quale mandataria, do Bank s.r.l.. Il ricorso si fonda su quattro motivi. Gli intimati non hanno svolto difese. La ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. – Il primo motivo oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c.. Lamenta la ricorrente che il giudice distrettuale avrebbe deciso la causa senza che sul punto della legittimazione fosse stata proposta una eccezione e senza che ad essa istante fosse stata data la possibilità di dedurre sul punto. La ricorrente dubita, in particolare, che il giudice del gravame potesse rilevare d’ufficio la questione relativa alla legittimazione all’impugnazione della sentenza di primo grado, in assenza di deduzioni in merito da parte della controparte.

Col secondo mezzo è lamentata la violazione e falsa applicazione degli artt. 111 e 24 Cost.. La banca istante sottolinea l’importanza del principio per cui occorre assicurare la prevedibilità delle decisioni giudiziarie ed evidenzia come il canone del giusto processo vada inteso in modo tale da assicurare alla parte processuale la possibilità di difendersi e di svolgere le proprie argomentazioni sulle questioni atte a definire il giudizio: ciò che nella fattispecie non era avvenuto.

Il terzo mezzo censura la sentenza impugnata per violazione o falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c.. La ricorrente rimarca come l’eccezione relativa alla concreta titolarità del rapporto dedotto in giudizio, attenendo al merito, non sia rilevabile d’ufficio e debba essere tempestivamente sollevata dalla parte interessata. Deduce, inoltre, che l’attore non debba dar prova della titolarità del rapporto nel caso in cui il convenuto l’abbia esplicitamente riconosciuta o abbia impostato la sua difesa su argomenti logicamente incompatibili col suo disconoscimento.

Con il quarto motivo è opposta la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. Ricorda la banca istante che in allegato alla memoria di replica in appello erano stati prodotti gli atti pubblici che davano conto dei vari passaggi societari; la produzione era stata ritenuta tardiva dalla Corte di Campobasso, la quale, però, così operando, non aveva fatto retta applicazione del principio per cui, dovendo essere la legittimazione ad processum verificabile d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio, risulta essere irrilevante il momento del processo nel quale sia fornita la pertinente prova documentale.

2. – Occorre anzitutto avvertire che D.L.N. non è stato parte del giudizio di appello: onde il ricorso per cassazione proposto nei suoi confronti è inammissibile (Cass. 30 maggio 2017, n. 13584; Cass. 2 ottobre 2014, n. 20789).

3. – I quattro motivi, che possono esaminarsi congiuntamente per i profili di connessione che presentano, sono fondati nei termini che seguono.

3.1. – La Corte di merito ha dichiarato inammissibile l’impugnazione rilevando come la banca appellante non avesse provato le vicende societarie che avrebbero dovuto dar ragione della legittimazione della medesima e ha aggiunto, con riferimento alla “asserita fusione”, che la mancata contestazione di controparte non assumeva rilevo, dal momento che la questione era rilevabile d’ufficio.

Il giudice distrettuale, come sopra si è visto, ha indicato le diverse vicende che, secondo la banca appellante, avrebbero radicato, in capo ad essa, la legittimazione a impugnare la sentenza di primo grado. Sono indicate, a tal fine, una cessione di crediti in blocco e due fusioni per incorporazione.

La prima di queste si assume essere intervenuta nel corso del giudizio di primo grado: la sentenza è stata tuttavia pronunciata nei confronti dell’incorporata (posto che, tra l’altro, la fusione di società, in pendenza di una causa della quale sia parte la società fusa od incorporata, non determina l’interruzione del processo: Cass. Sez. U. 3 maggio 2010, n. 10653).

L’effetto determinato dalla fusione abilita comunque l’incorporante a disporre del diritto controverso. Nel caso in esame è stata posta in atto una cessione ex art. 58 t.u.b..

Va allora ricordato che nel caso di trasferimento di un’azienda bancaria (o di un ramo di azienda), il cessionario, nelle controversie aventi ad oggetto rapporti compresi in quell’azienda (o ramo d’azienda), assume la veste di successore a titolo particolare, con applicazione delle disposizioni dettate dall’art. 111 c.p.c. (Cass. 26 agosto 2014, n. 18258; Cass. 3 maggio 2010, n. 10653).

Quale successore a titolo particolare nel diritto controverso, il cessionario è naturalmente legittimato a impugnare la sentenza ex art. 111 c.p.c., comma 4. In presenza dell’indicato trasferimento, dunque, Aspra Finance ben avrebbe potuto appellare la pronuncia del Tribunale di Larino.

Se, poi, la società cessionaria dei crediti sia incorporata in altra, la legittimazione attiva e passiva all’impugnazione spetta alla società incorporante: infatti, in ipotesi di fusione per incorporazione ex art. 2504 bis c.c. (nel testo risultante dalle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 6 del 2003), intervenuta in corso di causa, la legittimazione attiva e passiva all’impugnazione spetta alla sola società incorporante cui sono stati trasferiti i diritti e gli obblighi della società incorporata e che prosegue in tutti i rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione facenti capo alla società incorporata, salva la possibilità della controparte di notificare l’atto di impugnazione anche nei confronti di quest’ultima, nel caso in cui, nonostante l’iscrizione nel registro delle imprese, non sia stata resa edotta della intervenuta fusione (Cass. 24 maggio 2019, n. 14177). Nella fattispecie è stato proprio prospettato che a impugnare la sentenza sia stata l’incorporante Unicredit Credit Management Bank.

Si spiega, allora, come, in tesi, la divisata fusione per incorporazione legittimasse la nominata Unicredit alla proposizione del gravame.

3.2. – Tanto premesso sull’astratta titolarità, in capo all’appellante, del diritto a impugnare la sentenza di primo grado, occorre osservare che ha errato la Corte di merito nel ritenere irrilevante la mancata contestazione della controparte sul punto. E’ infatti ben vero che il difetto di legittimazione dell’appellante è rilevabile d’ufficio; è tuttavia affermato da questa S.C. con riferimento al ricorso per cassazione – e il principio appare senz’altro spendibile anche per l’appello – che la società la quale impugna la pronuncia emessa nei confronti di un’altra società, della quale affermi di essere successore (a titolo universale o particolare), è tenuta a fornire la prova documentale della propria legittimazione, ma sempre che il resistente l’abbia contestata (Cass. Sez. U. 18 maggio 2006, n. 11650, richiamata da Cass. 2 marzo 2016, n. 4116, secondo cui, con riferimento alla legittimazione a proporre ricorso per cassazione “il dovere di dare prova documentale, nelle forme previste dall’art. 372 c.p.c., della dedotta legittimazione sussiste nel caso che tale qualità sia oggetto di contestazione da parte del resistente, il quale può – esplicitamente o implicitamente – riconoscerla”).

E’ stata la stessa Corte di appello a dare atto della circostanza per cui gli intimati D.L. Cereali s.n.c. e D.L.G. non avevano contestato, in sede di gravame, la complessa vicenda, esposta nella citazione di appello, che aveva portato alla successione dell’odierna ricorrente alla Banca di Roma; e tale rilievo trova conferma nell’esame della comparsa di risposta depositata dagli appellati in fase di gravame (cui questa Corte ha evidentemente accesso, stante la natura processuale del vizio denunciato).

La Corte di merito avrebbe dovuto quindi prendere atto che la qualità di successore dell’originaria convenuta e opposta in capo a Unicredit Credit Management Bank era incontroversa tra l’appellante e gli appellati costituiti in giudizio e tale, quindi, da non poter essere più negata nella pronuncia da rendersi in sede di gravame.

3.3. – Il tema in contestazione non è tuttavia esaurito, in quanto al giudizio di appello aveva partecipato, restando però contumace, anche F.M.R..

Ora, è senz’altro vero che l’odierna ricorrente non può pretendere di sostenere la propria legittimazione nei confronti dell’odierna intimata sulla base della documentazione prodotta nel giudizio di gravame: detta documentazione è infatti tardiva, siccome prodotta contestualmente al deposito della memoria di replica in appello. In base a una giurisprudenza formatasi prima ancora della disciplina di cui alla L. n. 353 del 1990, infatti, la prova della legittimazione processuale dell’appellante non può essere data oltre la precisazione delle conclusioni e la rimessione della causa al collegio, ossia dopo che la trattazione orale della causa è stata chiusa (Cass. 4 dicembre 2014, n. 25655); d’altro canto, con riferimento alla disciplina vigente, questa Corte esclude che la produzione dei nuovi documenti suscettibili di avere ingresso in appello ex art. 345 c.p.c., comma 3, possa attuarsi al momento del deposito degli scritti conclusionali (cfr. Cass. 10 maggio 2019, n. 12574).

E’ anche vero, però, che la Corte di merito, pur non potendo ovviamente ricavare dalla contumacia di F.M.R. la mancata contestazione, da parte di quest’ultima, della legittimazione dell’appellante Unicredit Credit Management Bank, avrebbe dovuto comunque apprezzare il significato che assumeva, anche nei confronti della detta appellata, la condotta di non contestazione riferibile a D.L. Cereali s.n.c. e D.L.G., costituiti in giudizio. Premesso che tra i diversi appellati sussisteva un litisconsorzio facoltativo (essendo i medesimi tenuti, in solido, all’adempimento del medesimo debito per cui era stato richiesto ed emesso il decreto ingiuntivo), la mancata contestazione della legittimazione, da parte della società D.L. Cereali e di D.L.G., andava difatti valutata come elemento atto a fondare ex art. 116 c.p.c., comma 1, il libero convincimento del giudice quanto alla sussistenza della legittimazione della banca appellante nei confronti di F.M.R., che era rimasta contumace.

La situazione processuale in esame presenta dei tratti che l’avvicinano a quella che si determina in presenza della confessione resa da uno dei litisconsorti in caso di litisconsorzio facoltativo: confessione che, pur conservando valore di prova legale in capo al confitente (diversamente da quanto accade nell’ipotesi di litisconsorzio necessario: art. 2733 c.c., comma 3) è, con riferimento agli altri, liberamente apprezzabile dal giudice (Cass. 4 maggio 2004, n. 8458). Si tratta, nell’ipotesi di non contestazione, di attribuire una portata più estesa, sul piano soggettivo – ma nei termini attenuati di una valutazione discrezionale rimessa al giudice – a una determinata condotta (non propriamente a una prova, come accede invece nell’ipotesi della confessione), che ha portata vincolante, nel giudizio, con riguardo al solo soggetto cui essa è riferibile; in tale prospettiva quel che rileva è non già la non contestazione del contumace (che, come è ovvio, è irrilevante giuridicamente), ma altra circostanza: e cioè la possibilità che la non contestazione del litisconsorte assurga, in concreto, a dato espressivo della oggettiva veridicità del fatto non contestato.

Sul punto mette conto di rilevare, del resto, come la possibilità di valorizzare la condotta di non contestazione tra litisconsorti sia stata già riconosciuta da questa Corte, se pure con riferimento a un’ipotesi di litisconsorzio necessario. E’ stato infatti affermato, in materia di responsabilità per sinistro stradale, che la mancata contestazione, ad opera della compagnia assicuratrice, della responsabilità del proprio assicurato, rimasto contumace, se pure non esonera l’attore dell’assolvimento dell’onere probatorio a suo carico, evenienza ipotizzabile solo quando il difetto di contestazione sia riferibile alle parti avversarie regolarmente costituite in giudizio, può nondimeno assumere rilievo come mera circostanza di fatto liberamente apprezzabile dal giudice (Cass. 19 ottobre 2016, n. 21096).

In conclusione, dunque, l’errore in cui è incorso il giudice di appello nel privare di rilievo della condotta di non contestazione posta in essere dalle parti costituite ha avuto ripercussioni sull’intero giudizio, coinvolgendo anche la posizione della appellata contumace: proprio la mancata contestazione da parte della società D.L. e di D.L.G. (che avevano l’interesse e la concreta possibilità di operare quella confutazione, che invece non ebbe luogo) dovevano indurre la Corte di merito a ritenere reale la vicenda successoria prospettata da Unicredit Credit Management anche nei confronti di F.M.R..

4. – La sentenza impugnata va dunque cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Campobasso, la quale statuirà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

dichiara inammissibile il ricorso con riferimento alla posizione di D.L.N.; con riguardo alle altre parti intimate accoglie, nei sensi di cui in motivazione, i primi tre motivi e dichiara assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte di appello di Campobasso, in diversa composizione, anche per le spese di giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 7 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2020


Cass. civ., Sez. VI – 3, Ord., (data ud. 21/11/2019) 18/05/2020, n. 9049

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 13598 del ruolo generale dell’anno 2018, proposto da:

R.S.E., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e difesa dall’avvocato Sebastiano Cesarò (C.F.: (OMISSIS));

– ricorrente –

nei confronti di:

CERVED CREDIT MANAGEMENT S.p.A., (P.I.: (OMISSIS)), in persona del rappresentante per procura V.T., in rappresentanza di ISLAND REFINANCING S.r.l. (P.I.: (OMISSIS)), rappresentata e difesa dall’avvocato Ivan Chiaramonte (C.F.: CHR VNT 68C14 C351C);

– controricorrente –

nonchè RISCOSSIONE SICILIA S.p.A., (P.I.: (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

per la cassazione della sentenza del Tribunale di Catania n. 4289/2017, pubblicata in data 16 ottobre 2017;

udita la relazione sulla causa svolta nella camera di consiglio in data 21 novembre 2019 dal consigliere Augusto Tatangelo.

Svolgimento del processo
Che:

R.S.E. ha proposto opposizione agli atti esecutivi, ai sensi dell’art. 617 c.p.c., nel corso di una procedura esecutiva immobiliare promossa nei suoi confronti da Cerved Credit Management S.p.A., in rappresentanza di Island Refinancing S.r.l., nella quale era intervenuta Riscossione Sicilia S.p.A..

L’opposizione è stata rigettata dal Tribunale di Catania.

Ricorre la R., sulla base di sei motivi.

Resiste con controricorso Cerved Credit Management S.p.A., in rappresentanza di Island Refinancing S.r.l..

Non ha svolto attività difensiva in questa sede l’altra società intimata.

E’ stata disposta la trattazione in camera di consiglio, in applicazione degli artt. 375, 376 e 380 bis c.p.c., in quanto il relatore ha ritenuto che il ricorso fosse destinato ad essere dichiarato manifestamente infondato.

E’ stata quindi fissata con decreto l’adunanza della Corte, e il decreto è stato notificato alle parti con l’indicazione della proposta.

La società controricorrente ha fatto pervenire memoria ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 2, a mezzo posta.

Il Collegio ha disposto che sia redatta motivazione in forma semplificata.

Motivi della decisione
Che:

1. Non può prendersi in considerazione la memoria inviata dalla società controricorrente a mezzo posta (cfr. in proposito Cass., Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 8835 del 10/04/2018, Rv. 648717 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 7704 del 19/04/2016, Rv. 639477 – 01; Sez. 2, Ordinanza n. 182 del 04/01/2011, Rv. 616374 – 01: “l’art. 134 disp. att. c.p.c., comma 5, a norma del quale il deposito del ricorso e del controricorso, nei casi in cui sono spediti a mezzo posta, si ha per avvenuto nel giorno della spedizione, non è applicabile per analogia al deposito della memoria, perchè il deposito di quest’ultima è esclusivamente diretto ad assicurare al giudice ed alle altre parti la possibilità di prendere cognizione dell’atto con il congruo anticipo – rispetto alla udienza di discussione – ritenuto necessario dal legislatore, e che l’applicazione del citato art. 134, finirebbe con il ridurre, se non con l’annullare, con lesione del diritto di difesa delle controparti”) e, di conseguenza, le argomentazioni in essa contenute.

2. Con il primo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 139 e 140 c.p.c., in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver il Tribunale accertato la residenza effettiva del destinatario in base ad una valutazione ex post e tenendo conto esclusivamente delle modalità con cui è avvenuta la notifica e ritenuto valida sia la notifica del precetto sia la notifica del pignoramento”.

Con il secondo motivo del ricorso si denunzia “Motivo in subordine in caso di rigetto del motivo sub 1 violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 4”.

Con il terzo motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 139 e 140 c.p.c., e degli artt. 2699 e 2700, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver il Tribunale ritenuto che la relata di notifica faccia fede fino a querela di falso in ordine alla corrispondenza tra il luogo di notifica e quello di residenza del destinatario”.

Con il quarto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697 e 2699 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver onerato il ricorrente di prove gravanti sulla controparte e per non aver valutato le prove indiziarie unitariamente e nella loro sintesi”.

I primi quattro motivi del ricorso esprimono una censura sostanzialmente unitaria, sono logicamente connessi e possono quindi essere esaminati congiuntamente.

Essi sono in parte inammissibili ed in parte manifestamente infondati.

La ricorrente deduce che le notificazioni dell’atto di precetto e dell’atto pignoramento sarebbero entrambe nulle, in quanto eseguite ai sensi dell’art. 140 c.p.c., presso un indirizzo in cui ella non aveva affatto la propria residenza. Sostiene, in particolare, che la nullità deriverebbe dalla circostanza (pacifica) che la propria residenza anagrafica si trovava altrove e di aver comunque dimostrato che nel luogo in cui erano state effettuate le notificazioni non aveva residenza, neanche di fatto.

Orbene, in primo luogo, si deve rilevare che la stessa ricorrente non richiama specificamente, nel ricorso, il contenuto rilevante delle relazioni di notificazione degli atti di precetto e pignoramento sui cui fonda le proprie censure e che pur indica tra gli atti allegati al ricorso (ivi inclusa la parte che riguarda l’attestazione delle vicende relative all’invio della comunicazione di giacenza dell’atto presso la casa comunale a mezzo lettera raccomandata, alle quali in sostanza non attribuisce concreto rilievo nelle proprie argomentazioni), il che comporta la sostanziale violazione del requisito di ammissibilità del ricorso previsto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6.

In fatto, il tribunale ha in realtà ritenuto, valutando le prove acquisite agli atti e tenendo conto dei fatti storici rilevanti, che la presunzione derivante dagli accertamenti compiuti dall’ufficiale giudiziario in ordine alla residenza effettiva (quindi non coincidente con quella anagrafica) della destinataria della notificazione (desumibile dalla circostanza che lo stesso aveva riferito di avere reperito la relativa porta di abitazione ed aveva quindi effettuato gli adempimenti prescritti dall’art. 140 c.p.c.), non fosse superata dalle prove contrarie offerte dall’opponente.

Si tratta di un accertamento di fatto sostenuto da adeguata motivazione, non apparente nè insanabilmente contraddittoria sul piano logico e, come tale, non censurabile nella presente sede.

Sotto il profilo in esame le censure contenute nel ricorso si risolvono pertanto, nella sostanza, in una contestazione del suddetto accertamento di fatto ed in una inammissibile richiesta di nuova e diversa valutazione delle prove.

In diritto, poi, la decisione impugnata è conforme ai principi affermati da questa Corte in ordine alla valenza da attribuire alle risultanze anagrafiche e agli accertamenti compiuti dall’ufficiale giudiziario sull’effettiva residenza del destinatario della notificazione, in base ai quali “nel caso in cui la notifica venga effettuata, nelle forme previste dall’art. 140 c.p.c., nel luogo indicato nell’atto da notificare e nella richiesta di notifica, costituisce mera presunzione, superabile con qualsiasi mezzo di prova (e senza necessità di impugnare con querela di falso la relazione dell’ufficiale giudiziario), che in quel luogo si trovi la residenza effettiva (o la dimora o il domicilio) del destinatario dell’atto, sicchè compete al giudice del merito, in caso di contestazione, compiere tale accertamento in base all’esame ed alla valutazione delle prove fornite dalle parti, ai fini della pronuncia sulla validità ed efficacia della notificazione” (Cass., Sez. 1, Sentenza n. 8011 del 26/08/1997, Rv. 507124 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 7604 del 17/07/1999, Rv. 528721 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5884 del 14/06/1999, Rv. 527451 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 6233 del 23/06/1998, Rv. 516699 – 01; Sez. 2, Sentenza n. 24416 del 16/11/2006, Rv. 593350 – 01; cfr. altresì: Sez. 2, Sentenza n. 14388 del 29/07/2004, Rv. 575067 – 01) mentre, d’altra parte, “ai fini della corretta determinazione del luogo di residenza o di dimora del destinatario assume rilevanza esclusiva il luogo ove questi dimori di fatto in via abituale, con la conseguenza che le risultanze anagrafiche rivestono un valore meramente presuntivo circa il luogo di residenza, e possono essere superate da una prova contraria, desumibile da qualsiasi fonte di convincimento, e quindi anche mediante presunzioni”, e in relazione a ciò “il relativo apprezzamento costituisce valutazione demandata al giudice di merito e sottratta al controllo di legittimità, ove adeguatamente motivata” (in tal senso, cfr.: Cass., Sez. 3, Sentenza n. 17040 del 12/11/2003, Rv. 568113 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 19416 del 28/09/2004, Rv. 578427 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 6101 del 20/03/2006, Rv. 588371 01; Sez. L, Sentenza n. 26985 del 22/12/2009, Rv. 611187 01; Sez. 3, Sentenza n. 11550 del 14/05/2013, Rv. 626244 01; Sez. 1, Sentenza n. 21896 del 25/09/2013, Rv. 627698 01; Sez. 3, Sentenza n. 17021 del 20/08/2015, Rv. 636300 01; Sez. 3, Ordinanza n. 19387 del 03/08/2017, Rv. 645385 01).

Non può ritenersi sussistere, dunque, alcuna violazione delle norme indicate dalla ricorrente.

3. Con il quinto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 139 e 140 c.p.c., dell’art. 156 c.p.c., per aver ritenuto priva di rilievo la questione della nullità della notifica del pignoramento per raggiungimento dello scopo”.

Il motivo è manifestamente infondato.

Accertata la regolarità della notificazione dell’atto di precetto, correttamente il giudice del merito ha ritenuto irrilevante accertare quella del successivo atto di pignoramento, in quanto – con riguardo a quest’ultima – la stessa proposizione dell’opposizione attesta la conoscenza dell’atto da parte dell’opponente e ne determina quindi la sanatoria per raggiungimento dello scopo; non risultano del resto ragioni di nullità degli atti successivi e conseguenti al pignoramento, in relazione alla data in cui tale conoscenza e la relativa sanatoria si sono verificate (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n. 26157 del 12/12/2014, Rv. 633693 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 19498 del 23/08/2013, Rv. 627585 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 24527 del 02/10/2008, Rv. 604734 – 01).

4. Con il sesto motivo del ricorso si denunzia “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 139 e 140 c.p.c., dell’art. 480, in riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3, per aver ritenuto irrilevante la nullità del precetto affermando che la ricorrente non aveva subito alcun danno dalla nullità della notifica del precetto”.

Il motivo è inammissibile.

Le censure con esso dedotte non possono assumere alcun rilievo ai fini della decisione, essendo stata esclusa la nullità della notificazione dell’atto di precetto.

5. Il ricorso è rigettato.

Per le spese del giudizio di cassazione si provvede, sulla base del principio della soccombenza, come in dispositivo.

Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
La Corte:

– rigetta il ricorso;

– condanna la ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità in favore della società controricorrente, liquidandole in complessivi Euro 6.500,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, spese generali ed accessori di legge.

Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali (rigetto, ovvero dichiarazione di inammissibilità o improcedibilità dell’impugnazione) di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso (se dovuto e nei limiti in cui lo stesso sia dovuto), a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

Motivazione semplificata.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 maggio 2020


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 16/04/2020) 22/04/2020, n. 2556

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 4029 del 2019, proposto da:

L.L., rappresentata e difesa dall’avvocato Isetta Barsanti Mauceri, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato Francesca Buccellato in Roma, via Cosseria, n. 2;

contro

UNIVERSITÀ DELLA TUSCIA, non costituita in giudizio;

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITÀ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici è domiciliato in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

nei confronti

E.D.B., rappresentata e difesa dall’avvocato Maurizio Zuccheretti, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza breve del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio n. 1949 del 2019;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca e di E.D.B.;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 16 aprile 2020 il Cons. Dario Simeoli;

L’udienza si svolge ai sensi dell’art. 84 comma 5, del D.L. n. 18 del 17 marzo 2020, attraverso videoconferenza con l’utilizzo di piattaforma “Microsoft Teams” come previsto dalla circolare n. 6305 del 13 marzo 2020 del Segretario Generale della Giustizia Amministrativa;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che il giudizio può essere definito con sentenza emessa ai sensi dell’art. 74 c.p.a.;

Rilevato in fatto che:

– con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e successivi motivi aggiunti, la dottoressa L.L. impugnava gli atti relativi alla procedura di valutazione comparativa indetta dall’Università della Tuscia per l’assunzione a tempo determinato di un ricercatore in regime di impegno a tempo definito nel Settore concorsuale 10/N, Settore Scientifico Disciplinare L-OR/12 (lingua e letteratura araba);

– il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, con sentenza n. 1949 del 2019, previa estromissione del Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, ha dichiarato l’impugnazione inammissibile, atteso che il ricorso, proposto nei confronti dell’Università della Tuscia, risulta erroneamente notificato presso l’Avvocatura Generale dello Stato che, tuttavia, non ne ha la rappresentanza legale;

– avverso la sentenza di primo grado, ha proposto appello la dottoressa L.L., sostenendo l’erroneità della predetta statuizione di inammissibilità e riproponendo, in conseguenza dell’effetto devolutivo dell’appello, i motivi di censura non esaminati dal giudice di prime cure;

– si sono costituiti la controinteressata E.D.B. e il Ministero dell’Istruzione dell’Università e della Ricerca, entrambi insistendo per il rigetto del gravame;

Ritenuto in diritto che:

– la sentenza di primo grado deve essere confermata;

– secondo un orientamento consolidato ? dal quale il Collegio non ritiene di doversi discostare ?, alle Università statali, dopo la riforma della L. 9 maggio 1989, n. 168 sull’autonomia universitaria, non compete più la qualità di organi dello Stato, bensì quella di enti pubblici autonomi; ne consegue che, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio degli artt. da 1 a 11 R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, bensì, in virtù dell’art. 56 R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, non abrogato dalla L. n. 168 del 1989, il patrocinio c.d. autorizzato (o facoltativo) degli art. 43 (come modificato dall’art. 11 della L. 3 aprile 1979, n. 103) e 45 R.D. n. 1611 del 1933, con i limitati effetti di una tale forma di assistenza legale, e segnatamente:

i) esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvo i casi di conflitto, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera;

ii) inapplicabilità del foro dello Stato (art. 25 cod. proc. civ.) e della domiciliazione presso l’Avvocatura dello Stato ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (art. 144 cod. proc. civ.), previsti per le sole amministrazioni dello Stato (ex plurimis: Consiglio di Stato sez. VI, 8 aprile 2015 che richiama Corte di Cassazione, sezioni unite, 10 maggio 2006, n. 10700);

– in ragione della stabilità del predetto indirizzo ermeneutico (quantomeno alla data di proposizione del gravame), non sussistono i presupposti per accordare il beneficio della rimessione in termini, come pure chiesto dall’appellante, in quanto l’art. 37 c.p.a., risolvendosi in una deroga al principio fondamentale di perentorietà dei termini processuali, va considerato norma di stretta interpretazione (cfr. Cons. Stato, Adunanza Plenaria, ordinanza 10 dicembre 2014, n. 33; sez. V, sentenza 10 febbraio 2015, n. 671; sez. IV, ordinanza 3 novembre 2016, n. 4603; sez. IV, ordinanza del 23 marzo 2017 n. 1402);

– anche ai sensi dell’art. 44 comma 4, c.p.a. il giudice può concedere un termine per la rinnovazione della notifica nulla, solo quando riconosce che la nullità della notifica dipenda da causa non imputabile al notificante;

– la mancata costituzione dell’Università intimata, in primo come in secondo grado, impedisce poi la sanatoria della nullità della notificazione del ricorso, di cui al comma 3 dello stesso art. 44;

– l’appello va dunque integralmente respinto;

– le spese di lite del secondo grado di giudizio possono essere compensate in considerazione delle ragioni della chiusura in rito della presente controversia;

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello n. 4029 del 2019, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa interamente tra le parti le spese di lite del secondo grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2020 con l’intervento dei magistrati:

Giancarlo Montedoro, Presidente

Diego Sabatino, Consigliere

Silvestro Maria Russo, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere

Dario Simeoli, Consigliere, Estensore


Tribunale Napoli Sez. spec. in materia di imprese, Sent., 01-04-2020

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Tribunale di Napoli

Sezione specializzata in materia di impresa

Il GIUDICE DESIGNATO

dott. ssa Maria Tuccillo

Udite le parti ed esaminati gli atti del

RICORSO EX ART. 671 C.P.C.

presentato da

– FALL. (…), in persona del curatore dott (…), rappresentato e difeso dall’avv.(…) giusta procura a margine del ricorso, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Napoli al Centro Direzionale isola e 73

RICORRENTE

nei confronti di

M.B., P.R e M.R., rappresentati e difesi, giusta procura agli atti, dall’avv.(…), presso il cui studio è elettivamente domiciliati in N. alla via F. n. 135/ B

RESISTENTI

e

-M. M. e M. S.

RESISTENTI NON COSTITUITI

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La curatela istante con ricorso depositato ai sensi dell’art. 671 c.p.c. deduceva quanto segue:

– Con atto per notar (…) in data (…) fu costituita la C. I. srl, con sede in F., via (…) e Amministratore della società fu nominato (…) e successivamente, dal 2013 sino all’intervenuto fallimento, B.M. prima amministratore e poi liquidatore della società ;.

– in data 13.07.2018 con sentenza pronunciata dal Tribunale di Napoli a seguito del ricorso presentato da Equitalia servizi di riscossione sp.a, veniva dichiarato il fallimento di tale societa’,( la cui denominazione nelle more era mutata in M. I. srl )

– alla data di dichiarazione di fallimento presso il Registro delle Imprese, la società fallita risultava cessata e depositato il bilancio finale di liquidazione;

– Compiute le operazioni di inventario, con l’assistenza del cancelliere in data 18/07/2018, il curatore riscontrava l’assenza di uffici presso la sede sociale e convocava B. M., per la consegna della documentazione sociale e l’interrogatorio di rito.

– a seguito delle indagini svolte dal curatore è emerso che, in base ai bilanci depositati presso il registro imprese, la società fallita conseguiva, negli anni 2015/2016, leggere perdite fiscali se raffrontate al volume di affari della società;

– L’importo del debito fiscale preteso dall’Agenzia delle Entrate ammonta a 350.000,00 Euro circa oltre sanzioni e spese di recupero per un totale di 500.000,00 Euro circa;

– Dall’esame dei dati sopra riportati e dalla documentazione consegnata dal liquidatore e/o acquisita dalla curatela, e’emerso con chiarezza che B. M., proprietario al 95% della società, in considerazione dei dati contabili su esposti ed in previsione del certo fallimento che sarebbe poi intervenuto , abbia deciso di dividere (distrarre) in varie società le attività patrimoniali della M.I. srl;

– il patrimonio della fallita, infatti, che consisteva in macchinari, attrezzature, immobili ed avviamento commerciale é stato di fatto diviso in tre nuove e differenti società possedute per intero dai familiari (i due figli e la moglie) del sig. B.M.

– parte del patrimonio riguardante la proprietà degli immobili é stata ceduta in data 07/03/2016, con atto per notar (…) del (…) alla società immobiliare “M.G. IMM…. SRL”, che risulta di proprietà dei familiari dell’ amministratore/liquidatore della fallita , rispettivamente, moglie e figli di B.M.: R.P., R.M., e M.M.;

– La parte di patrimonio aziendale riguardante l’avviamento commerciale, é stata ceduta alla società “M. s.r.l.”, società di proprietà degli stessi familiari di B. M.;

– La parte di patrimonio aziendale costituito dai macchinari ed attrezzature é stato ceduto alla società E.E.SRL, i cui soci erano sempre gli stessi familiari;

– dall’esame di tali documenti sono pure emersi numerosi giroconti di pagamento dal conto corrente bancario intestato alla società, senza alcuna apparente motivazione ed in particolare: Euro 50.000,00 in data 23/02/2017 sul c/c acceso dalla società presso la B.P.F., in favore del sig. B.M.; Euro 185 .00000 tra il 24/02/2017 ed il 24/03/2018 sul c/c acceso dalla società presso la U., in favore del sig. B.M.; Euro 280.954,00 tra il 02/01/2017 ed il 21/04/2017 sul c/c acceso dalla società presso la U. in favore della M. s.r.l.

Ciò posto, la curatela sotto il profilo del fumus deduceva l’esistenza di un credito risarcitorio, ex art. 146 Lf. che quantificava in Euro complessi 8.500.000,00 oltre interessi e rivalutazione nei confronti dei resistenti.

In particolare, il deficit patrimoniale alla data di dichiarazione di fallimento era pari ad Euro 2.218.925,70 e a tale voce vanno aggiunti secondo il ricorrente :

– II valore del compendio immobiliare ceduto alla M. srl, pari ad Euro 1.000.000,00 almeno;

– il valore dei macchinari ceduti alla “M. s.r.l.” ovvero aha E.E. srl, pari ad Euro 427.437,28 (pari all’importo della voce Impianti e macchinari indicati nel bilancio al 31/12/2016 della cui sorte l’amministratore non ha saputo dare contezza);

– il valore della voce “Altri beni materiali” indicati nel bilancio al 31/12/2016 per Euro 96.138,33 della cui sorte l’amministratore non ha saputo dare contezza;

– il valore della voce “Immobilizzazioni finanziarie” indicati nei bilancio al 31/12/2016 per Euro 437.457,13 della cui sorte l’amministratore non ha saputo dare contezza;

– il valore della voce “Crediti verso clienti” indicati nel bilancio al 31/12/2016 per Euro 455.337.25 della cui sorte l’amministratore non ha saputo dare contezza;

– il valore della voce “Rimanenze di esercizio” indicate nel bilancio al 31/12/2016 per Euro 752.245.25 della cui sorte l’amministratore non ha saputo dare contezza;

– il valore della voce “Credito verso erario” indicato nel bilancio al 31/12/2016 per Euro 2.309.766,28 della cui sorte l’amministratore non ha saputo dare contezza;

– il valore della voce “Disponibilità liquide indicate nel bilancio al 31/12/2016 per Euro 61.522,63 della cui sorte l’amministratore non ha saputo dare contezza;

– il valore dell’avviamento commerciale aziendale, ceduto alla societtà “M. s.r.l.”,

– La somma di Euro 235.000,00 pari agli indebiti e non giustificati prelievi effettuati dai conti societari in suo favore dal sig. B.M.;

– La somma di Euro 240.000,00 pari agli indebiti e non giustificati prelievi effettuati dai conti societari in favore della M. s.r.l.”, dal sig. B. M.

Quanto al periculum in mora la curatela deduceva che a parte le partecipazioni societarie la possidenza immobiliare dei convenuti é davvero minima, evidenziando altresì sotto il profilo soggettivo la propensione di B. M. (e dei suoi familiari) a sottrarre i beni aziendali e quelli propri ai creditori.

Tanto premesso, domandava l’accoglimento della domanda cautelare.

Il Tribunale non concedeva la misura richiesta inaudita altera parte e , a seguito della notifica del decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle partì e del ricorso, si costituivano i resistenti M.B., P.R. e M.R., i quali in via preliminare eccepivano l ‘improcedibilità del ricorso stante la non integrità del contraddittorio discendente dalla nullità della notifica del ricorso nei confronti dei resistenti M. M. e M.S., perché effettuate in un luogo diverso dalla residenza degli stessi, come risulta dai certificati di residenza depositati in giudizio.

Nel merito i resistenti contestavano la domanda, deducendo che:

– il patrimonio immobiliare della società fallità del valore di 700.000,00 era stato acquistato da M.G.Immm. mediante accollo di un mutuo il cui saldo residuo alla data di acquisto era di Euro 603,000 e per la restante parte di Euro 97.0000, da pagarsi mediante 54 rate mensili di Euro 1609.000, compensata mediante fatture emesse per canoni di affitto per circa un anno o poco più;

-Quanto al patrimonio aziendale ceduto alla E.E. srl risultano una serie di bonifici fatti a favore della società fallita;

– in merito ai giroconti di pagamento in favore di MBR trattasi di pagamenti di fatture per fornitura di merci.

Infine, i resistenti contestavano il quantum debeatur con riferimento al valore dei macchinari indicato nel ricorso che risulta di gran lunga superiore rispetto a quello indicato in bilancio ; al valore della della voce delle immobilizzazioni finanziarie indicato di Euro 437.457,13 che è superiore rispetto a quella indicato in bilancio di Euro 354.583,00; al valore dei crediti v/ clienti v/ erario di Euro 2.309.766,28 che è superiore alla voce totale dei crediti indicati in bilancio di Euro 948 038,00; al valore delle rimanenze di esercizio nel ricorso che è indicato in Euro 752.245,25 mentre nel bilancio è di Euro 16.000,00; al valore delle disponibilità liquide indicate nel ricorso che è di Euro 61522,63 mentre in bilancio e’ di Euro 15.543,00.

Tanto premesso, i resistenti costituiti domandavano in via preliminare dichiararsi improcedibile il ricorso per difetto di contraddittorio nei confronti di M.S. e M.M., ritenuta la presenza degli stessi necessaria al fine di accertare le eventuali responsabilità e in subordinre rigettarsi la domanda per assenza del periculum in mora.

All’ udienza del 30.0.2020, su istanza delle parti la causa era rinviata all’udienza dell’11.2.2020 in cui il Tribunale si riservava per la decisione.

Ciò posto, in merito all’eccezione di improcedibilità del ricorso formulata dai resistenti costituitosi in giudizio, va precisato quanto segue.

In primis, nella fattispecie in esame non si versa in un’ipotesi di litisconsorzio necessario, atteso che l’obbligazione in merito alla quale sono chiamati a rispondere i resistenti è un ‘obbligazione solidale (ex art. 1292 c.c.) . La solidarietà dal lato passivo non comporta, invero, sul piano processuale, l’inscindibilità delle cause e non da’ luogo a litisconsorzio necessario, in quanto il creditore ha titolo per rivalersi per l’intero nei confronti di ogni debitore, salvo il diritto di regresso di colui che ha adempiuto nei confronti degli altri. Nel caso di obbligazioni solidali, dunque, è sempre possibile la scissione del rapporto processuale e pertanto non è necessaria l’integrazione del contraddittorio, laddove il giudizio sia promosso nei confronti di uno dei coobbligati, essendo ciascuno di essi tenuto ad adempiere per intero ( v. ex multis Cass n. 17221/2014; Cass. n. 13607/2011)).

Inoltre, la notifica del ricorso e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza di comparizione effettuata nei confronti dei resistenti M.S. e M. M. è da ritenersi nulla, atteso che, seppur effettuata nelle mani di soggetti legittimati a riceverla ( rispettivamente madre e suocera convivente ), come risulta dalla relata di notifica, è da ritenersi invalida, perché eseguita in un luogo diverso da quello in cui i destinatari risiedono, come si evince dai validi certificati di residenza prodotti in giudizio dai resistenti ( v. copia certificato di residenza di M.S., all.to 4 del fascicolo di parte resistente ; copia certificato di residenza di M.M. all.to 11 del fascicolo di parte resistente ).

Ed invero, ” la notificazione mediante consegna a una delle persone enumerate nell’art. 139 c.p.c. deve essere necessariamente eseguita nei luoghi nella norma stessa indicati, giacché la certezza che la persona legata da rapporti di famiglia o di collaborazione con il destinatario provveda a trasmettergli l’atto ricevuto può ritenersi pienamente raggiunta soltanto se la consegna avvenga in un luogo comune al consegnatario e al destinatario e nel quale, quindi, si presuma che costoro abbiano degli incontri quotidiani. Ne consegue, quindi, la nullità della notificazione per mancanza di detta certezza, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario espressamente risulti che l’atto sia stato consegnato a una delle dette persone, ma in un luogo diverso da quelli previsti dalla norma; al contrario, la mancata precisazione nella relata del luogo della consegna stessa non determina la nullità della notificazione, dovendo presumersi, in assenza di annotazioni contenute nella relata, che la notificazione sia stata eseguita in uno dei luoghi prescritti, sicché la omessa annotazione si risolve in una mera irregolarità formale non influente sulla validità della notifica, né sulla efficacia (di atto pubblico) della relata con riguardo al luogo di consegna”( v. Cass. civ. Sez. II Ord., 08/10/2018, n. 24681 ).

Ciò posto, trattandosi nel caso in esame di un procedimento cautelare, la nullità della notifica , non sanata dalla costituzione dei resistenti, e lo spirare del termine perentorio per la notifica del ricorso e decreto di fissazione dell’udienza di comparizione delle parti, ex art. 669 sexies c.p.c., importa l’improcedibilità della domanda ma solo nei confronti di M.M. e S.M., stante la scindibilità delle domande.

Passando all’esame del merito della domanda cautelare, va precisato quanto segue.

Il sequestro conservativo è una misura cautelare di carattere patrimoniale finalizzata a tutelare la fruttuosità dell’eventuale espropriazione forzata, laddove vi sia il pericolo di dispersione da parte del debitore dei beni costituenti la garanzia del credito, ai sensi dell’art. 2740 c.c.

La concessione di tale misura è subordinata alla sussistenza, accertata sulla base di un’indagine meramente sommaria, del fumus boni iuris, vale a dire di una situazione che consenta di ritenere probabile la fondatezza della pretesa creditoria , e del periculum in mora, cioè del fondato timore di perdita della garanzia del credito vantato.

Quanto al primo dei suddetti requisiti, il credito in relazione al quale viene domandato il sequestro, anche se non liquido o esigibile deve ad ogni modo essere attuale, ossia non meramente ipotetico od eventuale.

Il requisito del periculum, inoltre, in sede di sequestro conservativo assume un significato ben diverso rispetto a quello richiesto per la concessione del provvedimento contemplato dall’art. 700 c.p.c., perché diversa è la funzione che la misura cautelare è chiamata ad assolvere.

In questa ipotesi, stante la natura del rimedio, il periculum è da intendersi come pericolo imminente che nelle more del giudizio di merito il diritto fatto valere possa subire un pregiudizio irreparabile.

Diversamente è da ritenersi nel sequestro conservativo.

Tale misura , invero , è prevista a tutela dei creditori, unici soggetti legittimati a richiederla, e mira a conservare la garanzia del credito costituita, ex art. 2740 c.c. dal patrimonio del debitore.

In tal caso, infatti, non è sufficiente, sotto il profilo del periculum, la sussistenza del pericolo di un “pregiudizio irreparibile” al diritto fatto valere , ma è necessario specificamente che il pericolo si sostanzi nel rischio di perdita e/o diminuzione del patrimonio del debitore costituente la garanzia del credito.

Tale requisito , va accertato, dunque, mediante un giudizio prognostico negativo in ordine alla conservazione della garanzia patrimoniale , da effettuarsi secondo una valutazione in concreto, che può fondarsi su elementi soggettivi e/o su elementi oggettivi che possono essere presi in considerazione anche alternativamente ( v. Cass. civ. sent. n. 5579/2005; conf .Cass, civ . sent. n. 2081/2002 e Cass. civ. sent. n 6048/1998 ).

Ed invero , il rischio di perdita e/o diminuzione della garanzia patrimoniale può fondarsi sull’accertamento di condotte processuali e/o extraprocessuali poste in essere dal debitore che rendano verosimile e concreto il rischio di depauperamento del patrimonio.

Ciò significa , che non rilevano , ai fini dell’accertamento del periculum , tutte le condotte detrattive o comunque espressione di una capacità a dissipare poste in essere dal debitore, ma sole quelle che, avuto riguardo al momento in cui sono state poste in essere rispetto al sorgere del credito e alla loro incidenza sul patrimonio della società e/o del debitore , facciano ritenere verosimile e soprattutto attuale il rischio che il sequestro mira ad evitare e cioè che il debitore possa liberarsi del suo patrimonio impedendo ai creditori di soddisfarsi.

Quanto al profilo oggettivo del periculum, questo non va individuato nella mera l’insufficienza del patrimonio del debitore rispetto al credito , ma nell’insufficienza del patrimonio del debitore che sia tale da fondare il rischio concreto di sottrazione o diminuzione della garanzia del credito.

L’incapacità patrimoniale del debitore, invero, , seppur rappresenta la misura per valutare la garanzia del credito ex art. 2740 c.c., acquista rilevanza in sede di sequestro solo allorquando faccia ritenere concreto e verosimile il pericolo di una perdita e diminuzione del patrimonio del debitore in pregiudizio dei creditori.

Diversamente opinando , si addiverrebbe alla errata conclusione secondo cui il debitore dotato di un’insufficiente capacità patrimoniale abbia una maggiore propensione alla dissipazione di quanto non ne abbia il debitore possidente ( v. Trib. Napoli ord. 20.11.2002).

Il periculum, sotto il profilo oggettivo va, dunque, valutato in un accezione “dinamica” e strettamente collegata alla perdita e/o diminuzione della garanzia patrimoniale, del cui rischio in concreto deve essere espressione.

Tanto premesso, nel procedimento de quo , alla luce della documentazione agli atti e sulla base di una cognizione sommaria, che è d’uopo in questa fase , non vi sono allo stato elementi per ritenere sussistente il fumus della pretesa cautelare nei confronti dei resistenti R.P. e R.M., per aver concorso in qualità di amministratori di fatto della società fallita nelle condotte di mala gestio su cui si fonda il credito risarcitorio.

Ed infatti, per poter qualificare un soggetto quale amministratore di fatto di una società, è necessario che le attività gestorie svolte concretamente dal predetto presentino carattere sistematico e non si esauriscano soltanto nel compimento di singoli atti di natura eterogenea ed occasionale (v. Cass. sent. n. 6719/2008; Cass. sent. n. 9795/1999; v Cass. n. 1925/1999,).

Nella fattispecie in esame, l’esistenza di un rapporto di parentela tra l’amministratore poi liquidatore della società fallita, B.M. e R.P. e R.M. (rispettivamente moglie e figlia di B.M.) e altresì la loro partecipazione ( in qualità di soci e talvolta amministratori) nelle società in cui è stato “dirottato” il patrimonio della fallita ed infine l’assenza di B.M. dalla società per alcuni mesi per ragioni di salute, non è sufficiente a dimostrare, in mancanza di altri elementi, come diversamente dedotto dalla difesa di parte ricorrente, un coinvolgimento degli stessi in via di fatto nell’amministrazione della società fallità e dunque nell’attività di mala gestio da cui sarebbe derivato un danno alla società e ai creditori sociali.

Unici soggetti, sulla base delle allegazioni di parte ricorrente, che potrebbero in astratto essere chiamati a rispondere per i danni derivanti dall’attività distrattiva compiuta sono le società e non di certo i soci e/o i soggetti in proprio che hanno ricoperto la carica di amministratore all’epoca delle cessioni.

A diverse conclusioni, è dato addivenire con riferimento alla posizione di M.B.

Ed invero, posto che questi dal 2013 ha ricoperto la carica di amministratore e successivamente quella di liquidatore della società fallita, deve ritenersi sussistente il fumus della cautela richiesta, tenuto conto delle contestazioni formulate dalla difesa di M.B., che attengono solo al quantum debeatur relativamente ad alcune voci del danno contestato.

In particolare, in merito alla cessione del compendio immobiliare alla M. srl ( all’epoca amministrata da M.R. figlia del resistente M.B.) avvenuta in data 7.03.2016 ( v. copia atto di cessione all.to1 del fascciolo di parte resistente ), alcuna prova è stata fornita dall’amministratore B.M. circa l’estinzione del debito relativo al residuo del prezzo da pagare, pari ad Euro 96.543,33 , attraverso la compensazione con ” fatture emesse per canoni di affitto degli immobili e delle aree pertinenziali da parte della fallita per circa un anno e mezzo o poco piu’” , atteso che non risulta provato il rapporto di locazione invocato ne’ prodotte le fatture compravanti l’avvenuto pagamento dei canoni.

Lo stesso dicasi per i macchinari ceduti alla M. SRL ovvero ALLA E.E. SRL pari ad Euro 424437,28 , per gli “altri beni materiali” per il valore di Euro 96.138,33; per le ” immobilizzazioni finanziarie” per Euro 437,457,13; per i “Crediti verso clienti” per Euro 455.337,25 ; per le “Rimanenze di esercizio” per Euro 752.245,25; per le “Disponibilità liquide” per Euro 61.522,63 , tutti importi indicati nel bilancio al 31.12.2016, della cui sorte l’amministratore non ha saputo dare contezza nè ha specificamente contestato se non solo in parte ed esclusivamente sotto il profilo del quantum debeatur.

Agli importi inanzi indicati quali voci di danno fondante il creditorio deve aggiungersi, altresì, la somma di Euro 235.000,00 costituente prelievo che, allo stato non sembra trovare alcuna giustificazione, effettuato dai conti societari da B.M. in suo favore.

Infine, non sembra potersi riconoscere il danno lamentato per limporto di Euro 240.000,00 corrispondente a prelievi effettuati dai conti societari in favore della M.. s.r.l.”, stante le fatture depositate dal resistente , non contestate dalla curatela, che sembrano comprovare il pagamento di forniture effettuate da M. srl. in favore della società fallita.

La domanda proposta nei confronti di B.M., infine, è da ritenersi provata anche sotto il profilo del periculum in mora.

Ed invero, la ridotta capacità patrimoniale del resistente, le condotte distrattive poste in essere dallo stesso durante l’amministrazione della società , sintomatiche di una propensione alla dissipazione del proprio patrimonio per sottrarlo ai creditori , come dimostrato anche dall’atto di donazione compiuto sempre in favore della moglie e dei figli ( rispettivamente P.R., M.M. e , M.R.) in data 18.marzo 2016 ( v.doc. alito n. 22 del fascicolo di parte ricorrente ) portano a ritenere sussitente il rischio di perdita e/o diminuzione della garanzia patrimoniale ex art. 2740 c.c.nelle more del giudizio di merito.

Per tutte le considerazioni innanzi formulate, il Tribunale , dunque, tenuto conto delle contestazioni formulate dal resistente in merito al quantum debeatur della pretesa risarcitoria, accoglie la domanda cautelare proposta nei confronti di B.M. e per l’effetto autorizza il sequestro conservativo nella misura di Euro 6.000.000,00.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo tenuto conto del valore del giudizi e dell’attività espletata nei rapporti tra il il ricorrente e i resistenti costituitisi in giudizio.

Nulla va invece liquidato per le spese nei rapporti tra il ricorrente e i resistenti M.M. e S.M., stante la mancata costituzione degli stessi.

P.Q.M.
Il Tribunale sul ricorso depositato nell’interesse di Fall. M.I.srl in liquidazione volto ad ottenere l’autorizzazione il sequestro conservativo in danno di B.M. , R.P.M.M., R.M., S. M. così decide:

– dichiara improcedibile il ricorso nei confronti di M.S. e M. M.;

– rigetta il ricorso nei confronti di P.R. e R.M.;

– accoglie la domanda nei confronti di B.M. e per l’effetto autorizza il sequestro conservativo su tutti i crediti, beni mobili e immobili del resistente fino a concorrenza di Euro 6.000.000,00;

– condanna il resistente B.M. al pagamento direttamente a favore dello Stato ai sensi dell’articolo 133 del D.P.R. n. 115 del 2002, delle spese del presente giudizio, che si liquidano (già ridotte della metà ai sensi dell’articolo 130 del D.P.R. n. 115 del 2002) in Euro 5.350,00 per compensi, oltre 15% spese forfettarie ed accessori di legge, oltre l’importo delle spese prenotate a debito.

– condanna il fallimento al pagamento delle spese di lite nei confronti di R.P. e R.M. che liquida in Euro10.700,00 per compensi oltre iva e cpa se dovuti e rimborso spese ex art. 2 D.M. n. 55 del 2014; ;

– nulla si liquida per le spese per i resistenti M.M. e S.M.

Così deciso in Napoli, il 1 aprile 2020.

Depositata in Cancelleria il 1 aprile 2020.


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 12-09-2019) 09-03-2020, n. 6562

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STALLA Giacomo Maria – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10574-2014 proposto da:

EQUITALIA CENTRO S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell’Avvocato SANTE RICCI, rappresentata e difesa dagli Avvocati MAURIZIO CIMETTI e GIUSEPPE PARENTE;

– ricorrente –

contro

L.C.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli Avvocati ALCEO CATAUDELLA e MARIA NICOLETTA PELLEGRINO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 119/9/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della TOSCANA, depositata il 17/10/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 9/01/2020 dal Consigliere Relatore Dott.ssa ANTONELLA DELL’ORFANO.

Svolgimento del processo
che:

Equitalia Centro S.p.A. propone ricorso, affidato ad unico motivo, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione Tributaria Regionale della Toscana aveva respinto l’appello avverso la sentenza n. 83/2/2011 della Commissione Tributaria Provinciale di Firenze in accoglimento del ricorso proposto da L.C.R. contro cartella di pagamento IRPEF IRAP IVA 2005-2006, fondando quest’ultimo le sue pretese sull’incompletezza della cartella allo stesso notificata, in quanto mancante di alcune pagine;

il contribuente resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Che:

1.1. con l’unico mezzo si censura la sentenza denunciando, in rubrica, “violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 156 c.p.c.” lamentando il Concessionario che la C.T.R. avrebbe dato rilievo alla circostanza che “la cartella notificata, mancando di talune pagine, che… Equitalia non ha integrato, è sicuramente nulla e priva di effetti”, pur avendo il Concessionario assolto all’onere probatorio, sullo stesso incombente, mediante produzione del referto di notifica della cartella, spettando invece al contribuente la dimostrazione della circostanza che la notifica della cartella fosse avvenuta in modo incompleto;

1.2. va premesso che in tema di riscossione delle imposte, ove il concessionario notifichi la cartella esattoriale nelle forme ordinarie o comunque con messo notificatore, anzichè con raccomandata con avviso di ricevimento, per la prova della notificazione, come nel caso di specie, è sufficiente la produzione della relata, della matrice o dell’estratto di ruolo, non sussistendo un onere di produzione della cartella (cfr. Cass. nn. 23039/2016, 6395/20140);

1.3. come è noto, inoltre, secondo il principio generale di c.d. vicinanza della prova, la sfera di conoscibilità del mittente incontra limiti oggettivi nella fase successiva alla consegna del plico per la spedizione, mentre la sfera di conoscibilità del destinatario si incentra proprio nella fase finale della ricezione, ben potendo egli dimostrare (ed essendone perciò onerato), in ipotesi anche avvalendosi di testimoni, che al momento dell’apertura il plico era in realtà privo di contenuto;

1.4. va richiamato quindi l’orientamento di questa Corte, che il Collegio condivide, secondo cui in tema di notifica della cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova (cfr. Cass. n. 16528/2018; conforme Cass. n. 18252/2013);

1.5. è opportuno inoltre considerare che, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 4, “il Concessionario deve conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o l’avviso di ricevimento ed ha l’obbligo di farne esibizione su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”;

1.6. nel caso di specie il Giudice di merito ha ritenuto che il contribuente abbia provato l’incompletezza della notificazione, essendo stata prodotta in giudizio copia della cartella di pagamento notificata, mancante di alcune pagine concernenti aspetti identificativi fondamentali della pretesa posta in riscossione, ed essendosi invece limitato il Concessionario a produrre la relata di notifica priva, tuttavia, dell’attestazione della conformità della copia notificata all’originale;

1.5. va richiamato, allora, l’indirizzo giurisprudenziale maggioritario secondo il quale le dichiarazioni dell’ufficiale giudiziario (o messo notificatore, come nella specie) non fanno fede fino a querela di falso della regolarità intrinseca e completezza dell’atto ricevuto per procedere alla notifica nè della corrispondenza della copia notificata all’originale, non essendo questa l’attività giudiziaria che egli compie e deve compiere, sì che la presunzione di conformità tra originale e copia dell’atto notificato viene meno se il destinatario produce quest’ultimo incompleto, nè perciò può ipotizzarsi un contrasto tra le due rispettive relate (atti pubblici), entrambe originali, dell’ufficiale giudiziario – una apposta sulla copia notificata, l’altra sull’originale dell’atto notificato – proprio perchè non spetta all’ufficiale giudiziario effettuare alcun controllo intrinseco, e quindi, se la copia dell’atto notificato non corrisponde all’originale, è sulla copia che il destinatario fa affidamento e su cui può difendersi (Cass. nn. 6017 del 2003, 21555/2006, 14686 del 2007, 18127/2008, 20993/2013, 23420/2014);

1.6. stante la nullità della cartella (atto unilaterale recettizio formato e notificato dalla controparte) in conseguenza della sua accertata incompletezza, posto che la cartella esattoriale che non segua uno specifico atto impositivo già notificato al contribuente (circostanza su cui nulla è stato dedotto o è comunque emerso nel giudizio), ma costituisca il primo ed unico atto con il quale l’ente impositore esercita la pretesa tributaria, deve essere motivata alla stregua di un atto propriamente impositivo, e contenere, quindi, gli elementi indispensabili per consentire al contribuente di effettuare il necessario controllo sulla correttezza dell’imposizione (cfr. Cass. nn. 21804/2017, 28276/2013), ed avendo in particolare lamentato il contribuente la mancata indicazione dei criteri in base ai quali era stato richiesto il pagamento della somma portata dalla cartella, delle modalità di determinazione degli interessi applicati e del responsabile del procedimento, il ricorso deve essere pertanto respinto;

2. la ricorrente, soccombente, va condannata in favore del controricorrente al pagamento delle spese processuali nella misura liquidata, sulla base del valore della controversia e dell’attività difensiva spiegata, come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore del controricorrente, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15% ed agli accessori di legge, se dovuti.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, il 9 gennaio 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2020


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 20-12-2019) 03-03-2020, n. 5798

Per la Corte di Cassazione è nulla la notifica del questionario preliminare all’accertamento eseguita alla vecchia residenza, anche se a mani di un familiare che vi abita

La Corte di Cassazione chiarisce che la notifica eseguita presso la vecchia residenza del contribuente è nulla anche se quest’ultimo non ha comunicato la variazione. Decorsi 60 giorni dalla variazione infatti, la legge prevede che il trasferimento è opponibile all’Erario. Non sana la notifica la consegna eseguita nelle mani di un parente che ancora abita nella vecchia residenza, perché non opera la presunzione di convivenza tra il contribuente e il familiare.

L’Agenzia delle Entrate emette un avviso relativo all’imposta Irpef 2004, che ha accertato un imponibile superiore a quello dichiarato dal tennista professionista, anche in conseguenza del disconoscimento di alcune spese dedotte ma non documentate e della mancata risposta a un questionario inviatogli dall’Ufficio. Il contribuente ricorre alla Commissione tributaria provinciale, che lo respinge. Ricorre quindi alla Commissione tributaria regionale che però rigetta anche l’appello.

A questo punto il contribuente ricorre in Cassazione sollevando ben 11 motivi di doglianza. Per l’argomento che interessa trattare in questa sede, il contribuente nel decimo motivo del ricorso ritiene errato che il giudice abbia considerato validamente notificato dall’Ufficio, in data 8 febbraio 2008 “il questionario preliminare all’accertamento controverso, presso il domicilio fiscale, risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi del contribuente, e non presso la residenza anagrafica di quest’ultimo, trasferita in Rimini dal 19 luglio 2007.”

Il ricorrente richiama l’art. 60 comma 3 del d.P.R n. 600/1973, da cui deduce che il trasferimento delle residenza anagrafica avvenuto il 19 luglio 2007, era efficace nei confronti dell’Amministrazione procedente a partire dal trentesimo giorno successivo e quindi già operante alla data della notifica dell’8 febbraio 2008 “benché non ancora comunicato all’Ufficio, che avrebbe quindi dovuto eseguire la notifica presso la nuova residenza anagrafica del contribuente, che costituiva anche il nuovo domicilio fiscale di quest’ultimo.”

La Cassazione con sentenza n. 5798/2020 cassa il provvedimento impugnato in relazione ai motivi accolti tra cui figura quello relativo alla notifica. Gli Ermellini accolgono infatti il decimo motivo del ricorso perché fondato. Ai sensi del comma 1 art. 60 d.P.R n. 600/1973 infatti “la notifica non eseguita a mani proprie del contribuente deve essere fatta nel domicilio fiscale di quest’ultimo, che, in forza del precedente art. 58, secondo comma, per le persone fisiche residenti nel territorio coincide con il Comune nella cui anagrafe sono iscritte.”

Pacifico che il ricorrente domiciliato ai fini fiscali nel Comune X, alla data del 24 settembre 2008 trasferiva la sua residenza in un altro Comune. Variazione che, ai sensi dell’art. 58 comma 3 d.P.R 600/1973 e non dell’art. 60 richiamato dal ricorrente, è opponibile all’Ufficio, senza obbligo di comunicarla, dal sessantesimo giorno successivo alla data in cui si è verificata.

Incontestato che la notifica del questionario sia avvenuta dopo i 60 giorni predetti. La Corte quindi afferma che deve ritenersi nulla la notifica del questionario al contribuente, senza che la stessa possa considerarsi sanata per effetto della consegna alla residenza anagrafica e al domicilio fiscale precedenti dello stesso, nelle mani di un familiare. Questo tipo di consegna infatti non fa presumere la convivenza non meramente occasionale, per cui la notifica è nulla.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 5964/2012 R.G. proposto da:

G.G., rappresentato e difeso, per procura speciale in atti, anche disgiuntamente, dall’Avv. Prof. Victor Ukmar, dall’Avv. Prof. Giuseppe Corasaniti e dall’Avv. Prof. Francesco d’Ayala Valva, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma, via Parioli, n. 43;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio eletto presso quest’ultima in Roma, via dei Portoghesi 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 132/28/11, depositata il 23 settembre 2011.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 dicembre 2019 dal Consigliere Dott. Michele Cataldi;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Paola Mastroberardino, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del quarto, del quinto e del sesto motivo di ricorso, ed il rigetto degli altri;

uditi l’Avv. Paolo de Capitani di Vimercate, delegato dall’Avv. Prof. Giuseppe Corasaniti, per il ricorrente.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate ha emesso, nei confronti di G.G., tennista professionista, avviso, relativo all’anno d’imposta 2003, in materia di Irpef, con il quale ha accertato un imponibile maggiore rispetto a quello dichiarato, in conseguenza dell’assunta percezione, da parte del contribuente, di premi per gare disputate in tornei nazionali ed esteri; di compensi erogati dalla Federazione Italiana Tennis (F.I.T.); e del disconoscimento di alcune spese dedotte, ritenute non documentate, anche in conseguenza dell’omessa risposta dal contribuente al questionario inviatogli dall’Ufficio.

2. Avverso l’avviso d’accertamento il contribuente ha proposto ricorso dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Milano, che lo ha respinto.

3. Il contribuente ha allora ha impugnato la sentenza di primo grado e l’adita Commissione tributaria regionale della Lombardia, con la sentenza n. 132/28/11, depositata il 23 settembre 2011, ha rigettato l’appello.

4. Il contribuente ha quindi proposto ricorso, affidato ad 11 motivi, per la cassazione della predetta sentenza d’appello.

5. L’Ufficio si è costituito al solo scopo di partecipare all’udienza di discussione.

6. Il ricorrente ha prodotto memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza d’appello sia per l’omessa indicazione delle richieste delle parti, in violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2, n. 3; sia per l’omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., sul motivo d’appello relativo alla nullità della sentenza di primo grado, per la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, a causa della sua motivazione carente od insufficiente.

2. Con i successivi cinque motivi (dal secondo al sesto compreso), il contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza d’appello per l’omessa pronuncia, in violazione dell’art. 112 c.p.c., su alcuni dei motivi d’appello, corrispondenti a quelli già oggetto del ricorso di primo grado, rispettivamente relativi (la numerazione dell’elenco che segue è quella corrispondente ai motivi del ricorso per la cassazione).

II) alla carenza dei presupposti dell’accertamento emesso ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 3; all’illegittima applicazione dell’art. 109 t.u.i.r. in materia di disconoscimento dei costi dedotti dalla contribuente; al mancato rispetto dell’art. 9 t.u.i.r. nella conversione di premi di fonte estera imputati al contribuente; alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67 e dell’art. 53 Cost., relativamente all’inclusione, nelle riprese a tassazione dell’Ufficio, anche di compensi già dichiarati dal contribuente nel Modello Unico 2004 per i redditi percepiti nell’anno 2003, oltre che dei versamenti d’imposta effettuati dallo stesso contribuente in acconto per l’anno 2003, con violazione dell’art. 19 (attuale 22) t.u.i.r.;

III) alla carenza dei presupposti dell’accertamento emesso ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 3, perchè i dati e le notizie che l’Ufficio ha dedotto a sostegno dell’atto impositivo non costituiscono una prova, neppure presuntiva, non essendo dotati dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza;

IV) all’illegittima applicazione dell’art. 109, comma 5, t.u.i.r. in materia di disconoscimento dei costi dedotti dal contribuente, avendo l’Ufficio menzionato, nell’accertamento, il comma 5 di tale disposizione, che, nella versione applicabile ratione temporis, disciplinava il reddito degli enti non commerciali ed era estraneo pertanto alla fattispecie controversa;

V) al mancato rispetto dell’art. 9, comma 2, t.u.i.r. nella quantificazione dei premi di fonte estera imputati al contribuente, avendo l’Amministrazione convertito in Euro gli importi, espressi in dollari statunitensi, al tasso medio di conversione dell’anno di riferimento, mentre la predetta norma dispone che: “Per la determinazione dei redditi e delle perdite i corrispettivi, i proventi, le spese e gli oneri in valuta estera sono valutati secondo il cambio del giorno in cui sono stati percepiti o sostenuti o del giorno antecedente pìù prossimo e, in mancanza, secondo il cambio del mese in cui sono stati percepiti o sostenuti; (…)”;

VI) alla violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67 e dell’art. 53 Cost., relativamente all’inclusione, nelle riprese dell’Ufficio, anche di compensi già dichiarati dal contribuente nel Modello Unico 2004 per i redditi percepiti nell’anno 2003, oltre che dei versamenti d’imposta effettuati dallo stesso contribuente in acconto per l’anno 2003, con violazione dell’art. 19 (attuale 22) t.u.i.r..

3. Per effetto della loro connessione, ed in parte coincidenza, i primi sei motivi di ricorso, tutti formulati ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, vanno trattati congiuntamente, sia pur con le differenziazioni, tra i vari motivi, che risultino via via opportune.

4.Deve, innanzitutto, escludersi che (a differenza di quanto pare dedurre il ricorrente nel primo motivo) sia configurabile una globale nullità della sentenza impugnata per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 1, n. 3, per l’asserita omessa menzione delle richieste delle parti, ovvero, in particolare, dei motivi d’appello e delle difese del contribuente nel giudizio di appello.

Infatti, in tema di contenuto della sentenza, la “concisa esposizione dello svolgimento del processo” (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 1, n. 2) e le “richieste delle parti” (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 1, n. 3), non costituiscono un elemento meramente formale, bensì un requisito da apprezzarsi esclusivamente in funzione dell’intelligibilità della decisione e della comprensione delle ragioni poste a suo fondamento, la cui assenza configura motivo di nullità della sentenza quando non sia possibile individuare gli elementi di fatto considerati o presupposti nella decisione (Cass., 20/01/2015, n. 920 del 20/01/2015).

Nel caso di specie, sebbene all’interno della parte motiva della sentenza, il giudice a quo, sia pur sinteticamente, ha riportato alcuni dei motivi d’appello del contribuente, in maniera quanto meno sufficiente ad individuare su quali di essi la CTR si sia pronunciata.

E’ vero, peraltro, che l’illustrazione dei motivi d’appello, e la loro conseguente decisione, contenute nella sentenza impugnata, sono oggettivamente parziali, nel senso che diversi dei motivi d’impugnazione proposti dall’appellante nel ricorso di secondo grado (e già introdotti nel ricorso al giudice di prime cure) non sono stati considerati e decisi dalla CTR. Tali carenze, tuttavia, costituiscono, relativamente ad ogni motivo pretermesso nella sentenza, singole omissioni di pronuncia (infatti denunciate, anche separatamente, dal ricorrente nei primi sei motivi del ricorso per cassazione), ciascuna potenzialmente rilevante per la violazione dell’art. 112 c.p.c., ma non determinanti necessariamente la radicale nullità dell’intera sentenza.

4.1. Quanto all’omessa pronuncia (pure denunciata nel primo motivo) in ordine al motivo d’appello relativo alla nullità della sentenza di primo grado, per la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, comma 2, n. 4, a causa della sua motivazione carente od insufficiente, deve rilevarsi che il ricorrente, anche attraverso la riproduzione della relativa parte del ricorso alla CTR, ha evidenziato l’incontestata proposizione della censura nel secondo grado di merito.

Tanto premesso, deve darsi atto che, pur mancando un’espressa motivazione sul punto, la sentenza impugnata ha implicitamente negato la carenza assoluta di motivazione della sentenza di primo grado, della quale ha confermato le statuizioni, all’esito, comunque, della valutazione, nel merito, di alcune delle critiche del contribuente all’atto impositivo, riproposte in appello. Valutazione che, peraltro, la CTR avrebbe comunque dovuto fare, anche in presenza della dedotta carenza assoluta di motivazione, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 59, comma 2. Altra questione, oggetto dei motivi di ricorso successivi al primo, è se tale valutazione sia stata solo parziale, ovvero abbia riguardato solo alcuni dei motivi d’appello, in violazione dell’art. 112 c.p.c.; o viziata in diritto; o non adeguatamente motivata. E’ quindi infondato il primo motivo di ricorso.

5. Il secondo motivo di ricorso è a sua volta infondato, almeno nella parte laddove pare voler sostenere che dalle plurime denunciate omissioni di pronuncia, in ordine a diversi dei motivi d’appello del contribuente, possa derivare una globale e complessiva nullità della sentenza d’appello, atteso che la mancata decisione su alcuni dei rilievi critici alla sentenza di primo grado ed all’accertamento non determina necessariamente l’invalidità della sentenza anche relativamente ai capi sui quali la CTR ha invece provveduto.

Sotto altro aspetto, il contenuto sostanziale del secondo motivo di ricorso raccoglie la denuncia “collettiva” delle omissioni di pronuncia, tutte ciascuna oggetto specifico dei quattro motivi successivi, dalla cui seguente decisione esso risulta sostanzialmente assorbito.

Il secondo motivo è quindi infondato.

6. E’ altresì infondato il terzo motivo, in quanto non sussiste la pretesa omessa pronuncia in ordine al motivo d’appello relativo all’assunta carenza, già oggetto del ricorso di primo grado, dei presupposti dell’accertamento emesso ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, comma 3, perchè i dati e le notizie che l’Ufficio ha dedotto a sostegno dell’atto impositivo non costituiscono una prova, neppure presuntiva, non essendo dotati dei necessari requisiti di gravità, precisione e concordanza. Infatti, per quanto sinteticamente, la sentenza ha tenuto conto della critica del contribuente, menzionandola nella parte motiva, e l’ha trattata (anche se in parallelo alle censure attinenti alla motivazione dell’accertamento) e respinta. Altra questione, non attinta dal terzo motivo, è se la decisione sia, in parte qua, viziata in diritto o adeguatamente motivata.

7. E’ invece fondato il quarto motivo, avente ad oggetto l’omessa pronuncia in ordine al motivo d’appello relativo al disconoscimento dei costi dedotti dal contribuente.

Infatti” pur essendo incontestato che, come evidenziato anche nel ricorso, il contribuente ha censurato (non solo relativamente alta normativa applicabile) tale rilievo sia nel ricorso introduttivo (generando la controdeduzione dell’Amministrazione anche sulla questione) che nell’appello, la sentenza della CTR ha omesso qualsiasi menzione del relativo motivo d’impugnazione, nè dalla motivazione si ricava in alcun modo che su di esso abbia deciso.

8.Infondato è il quinto motivo, relativo alla pretesa omessa pronuncia in ordine al motivo d’appello avente ad oggetto la violazione dell’art. 9, comma 2, t.u.i.r., nella quantificazione dei premi di fonte estera imputati al contribuente, avendo l’Amministrazione convertito arbitrariamente in Euro gli importi, espressi in dollari statunitensi, al tasso medio di conversione dell’anno di riferimento.

La censura, infatti, è stata presa in considerazione dalla sentenza impugnata, che menziona espressamente il relativo motivo d’appello nella parte motiva, sia pur interpretandolo come la denuncia di un mero errore di calcolo dell’Ufficio nella conversione. La specifica menzione del motivo d’impugnazione nella motivazione, unita al rigetto dell’appello di cui al dispositivo, conducono quindi a ritenere che il giudice a quo si sia pronunciato sul punto. Altra questione, non attinta dal quinto motivo, è se la decisione sia, in parte qua, viziata in diritto o adeguatamente motivata.

9. E’ fondato il sesto motivo, relativo all’omessa pronuncia in ordine al motivo d’appello avente ad oggetto la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 67 e dell’art. 53 Cost., relativamente all’inclusione, nelle riprese dell’Ufficio, anche di compensi già dichiarati dal contribuente nel Modello Unico 2004 per i redditi percepiti nell’anno 2003, oltre che dei versamenti d’imposta effettuati dallo stesso contribuente in acconto per l’anno 2003, con violazione dell’art. 19 (attuale 22) t.u.i.r.

Pur essendo incontestato che, come evidenziato anche nel ricorso, il contribuente ha censurato l’atto impositivo in parte qua sia nel ricorso introcluttivo (generando la controdeduzione dell’Amministrazione anche sulla questione) che nell’appello, la sentenza della CTR ha omesso qualsiasi menzione del relativo motivo d’impugnazione, nè dalla motivazione si ricava in alcun modo che su di esso abbia deciso.

10. Con il settimo motivo il contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42; della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7; e della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, norme tutte relative all’obbligo di chiarezza e motivazione dell’avviso d’accertamento, per avere il giudice a quo ritenuto che l’atto impositivo non fosse nullo, nonostante la mancata allegazione ad esso dei documenti che richiamava, costituiti dalla segnalazione della Direzione regionale della Lombardia, del questionario inviato dall’Ufficio al contribuente prima dell’emissione dell’atto impositivo, e delle informazioni fornite dall’Association of Tennis Professionals (A.T.P.) e dalla F.I.T. Giova preliminarmente rilevare che, come risulta dallo stesso ricorso qui in decisione (alle pagg. 11, 20, 42-43), il motivo di ricorso per cassazione è conforme a quello introdotto dal contribuente nel ricorso di primo grado nei limiti della descritta censura della motivazione per relationem, e riproposto in appello. Esulano, invece, dall’oggetto ammissibile del motivo in decisione le ulteriori censure alla motivazione dell’atto impositivo, che dallo stesso ricorso risultano proposte ex novo in appello.

Tanto premesso, il contribuente lamenta che il giudice a quo abbia ritenuto sufficiente, al fine di assolvere all’obbligo di motivazione dell’avviso, che “tutte le informazioni allegate alla segnalazione (idest alla segnalazione della Direzione regionale dell’Agenzia delle Entrate che ha costituito l’incipit della verifica sfociata poi nell’accertamento) e poi riportate nell’avviso d’accertamento, erano comunque costituite da dati perfettamente conosciuti dal contribuente o quanto meno conoscibili dallo stesso, dal momento che riguardano la posizione assunta dal G. nella graduatoria della classifica mondiale, con i relativi risultati ottenuti nei tornei ai quali ha partecipato.”.

La mera conoscibilità di dati esterni all’accertamento non sarebbe, secondo i contribuenti, equivalente alla conoscenza degli atti (nel caso di specie, documenti) esterni all’accertamento, che, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42, comma 3, può legittimamente esonerare l’amministrazione dall’allegazione di questi ultimi.

Il motivo è infondato.

Va innanzitutto premesso che è pacifico (come risulta dalle stesse difese del ricorrente e dalla sentenza impugnata) che l’accertamento contenga il riferimento ad atti esterni, le predette “informazioni”, ad esso non allegati.

Dispone la L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, ultimo periodo, a proposito degli atti dell’Amministrazione finanziaria, che: ” Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama.”.

In materia di accertamenti in rettifica ed accertamenti d’ufficio, prevede, a sua volta, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, ultimo periodo, come modificato dal D.Lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, art. 1, comma 1, lett. c), nella versione vigente ratione temporis, che,: ” Se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto nè ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non ne riproduca il contenuto essenziale.”.

Il successivo comma dispone infine che:” L’accertamento è nullo se l’avviso non reca la sottoscrizione, le indicazioni, la motivazione di cui al presente articolo e ad esso non è allegata la documentazione di cui al comma 2, ultimo periodo.”.

Nella giurisprudenza di questa Corte, molteplici sono le pronunce che, al fine di soddisfare il requisito della motivazione dell’accertamento, hanno ritenuto sufficiente che l’atto esterno, richiamato da quello impositivo, fosse, se non effettivamente conosciuto, quanto meno conoscibile dal contribuente destinatario dell’avviso.

Non si intende, in questo senso, far riferimento alle affermazioni giurisprudenziali relative alla conoscibilità di atti richiamati, già oggetto di precedente notificazione al contribuente (Cass. 25/07/2012, n. 13110), o sottoposti a pubblicità legale (Cass. 19/12/2014, n. 27055, in motivazione), trattandosi di ipotesi accomunabili dall’operatività di presunzioni legali (per quanto diversificate) di conoscenza, e quindi di equiparazione ex lege della conoscibilità alla conoscenza.

Piuttosto, ci si riferisce a quelle pronunce che hanno ritenuto legittima anche la motivazione per relationem che richiami, senza allegarli, atti che si possano presumere, solo iuris tantum, conosciuti dal destinatario dell’accertamento (Cass. 17/12/2014, n. 26527; Cass. 27/11/2015, n. 24254; Cass. 30/10/2018, n. 27628). E, soprattutto, ci si richiama a quell’orientamento che, finanche nel caso di doppia motivazione per relationem, ovvero quando il documento menzionato nella motivazione dell’atto tributario faccia a sua volta riferimento ad ulteriori documenti, ritiene sufficiente che questi ultimi siano, se non in possesso o comunque conosciuti dal contribuente, quanto meno agevolmente conoscibili da quest’ultimo (Cass. 12/12/2018, n. 32127; Cass. 24/11/2017, n. 28060; Cass. 04/06/2018, n. 14275, ex plurimis, in tema di avviso di accertamento dei redditi del socio che rinvii a quello riguardante i redditi della società, ancorchè solo a quest’ultima notificato; Cass. 17/05/2017, n. 12312, ex plurimis, relativa all’accertamento del maggior valore dell’immobile sulla base dei prezzi medi evincibili dal listino della Borsa immobiliare dell’Umbria, pubblicato dalla locale camera di Commercio ed agevolmente reperibile dalla contribuente).

Infatti, deve ritenersi che l’interpretazione giurisprudenziale della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, ultimo periodo e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 2, ultimo periodo e comma 3, nel senso che non sia nullo l’accertamento la cui motivazione fa riferimento ad un altro atto ad esso non allegato, ma conoscibile agevolmente dal contribuente, realizzi un adeguato bilanciamento tra le esigenze di economia dell’azione amministrativa (e quindi di buon andamento dell’amministrazione, ex art. 97 Cost.) – che giustificano l’ammissibilità, anche normativa, della motivazione per relationem (sul punto cfr. Cass. 29/01/2008, n. 1906, in motivazione) – ed il pieno esercizio del diritto di difesa del contribuente (rilevante ex artt. 24 e 111 Cost.) nel giudizio di impugnazione dell’atto impositivo, che sarebbe illegittimamente compresso se la conoscibilità dell’atto esterno richiamato dalla motivazione non fosse agevole, ma richiedesse un’attività di ricerca complessa.

Deve, pertanto, ritenersi infondato il settimo motivo di ricorso, che imputa al giudice a quo il preteso errore, in diritto, di avere ritenuto sufficiente, al fine di integrare la motivazione per relationem dell’atto emesso nei confronti della società, “quanto meno” la conoscibilità dei dati oggetto delle informazioni raccolte dall’Ufficio. Nè, peraltro, in questa sede è sindacabile il giudizio relativo all’effettiva “conoscibilità” dei dati in questione, trattandosi di valutazione in fatto.

Aggiunto che non è specificamente contestata la ratio decidendi ulteriormente esposta nella sentenza, relativamente alla mancata allegazione della predetta segnalazione (“essendo un documento interno non va notificato al contribuente”), e considerato che la questione attinente alla mancata allegazione del questionario è correlata ed assorbita da quella relativa alla notifica di quest’ultimo al contribuente ed alle conseguenze della mancata produzione della documentazione con esso richiesta dall’Amministrazione, il settimo motivo va respinto.

11. Con l’ottavo motivo il contribuente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., assumendo che, dal “complessivo iter motivazionale” adottato dalla CTR, si ricaverebbe che quest’ultima ha attribuito al contribuente l’onere di fornire la prova negativa circa l’inesistenza della percezione dei redditi, correlati alle prestazioni sportive professionali, di cui all’accertamento.

12. Con il nono motivo il contribuente, in subordine all’eventuale rigetto del motivo precedente, denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2727 c.c., assumendo che tali disposizioni sarebbero state violate, ove la motivazione della sentenza impugnata dovesse interpretarsi nel senso che l’Amministrazione, tramite il ricorso a presunzioni semplici, abbia fornito la prova che il contribuente ha percepito i maggiori redditi, derivanti dalle prestazioni sportive professionali, di cui all’accertamento.

Secondo la ricorrente, infatti, il relativo ragionamento inferenziale sarebbe contrario all’art. 2727 c.c., poichè muoverebbe da un fatto (l’effettiva partecipazione del contribuente a tornei di tennis in misura maggiore di quella corrispondente ai compensi dichiarati nell’anno d’imposta in questione) non noto, ma a sua volta presunto dalle informazioni ottenute da F.I.T. ed A.T.P., per presumere altresì la percezione dei premi, o comunque dei compensi, che contribuiscono a costituire il maggior imponibile accertato.

12.1. I due motivi, che per la loro connessione vanno trattati congiuntamente, sono infondati.

Infatti, le informazioni provenienti da terzi (e quindi anche da organismi sportivi) costituiscono elementi indiziari che possono costituire i dati e le notizie dai quali desumere, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 3, anche sulla base di presunzioni semplici, l’incompletezza, la falsità e l’inesattezza dei dati indicati nella dichiarazione (cfr., sulle dichiarazioni a carico del contribuente rilasciate da terzi all’Amministrazione, nella fase di accertamento, Cass. 07/04/2017, n. 9080 e Cass. 16/03/2018, n. 6616, ex plurimis). Nè, a differenza di quanto pare implicitamente assumere il ricorrente, una volta ricostruita in via indiziaria la più intensa attività sportiva professionale del contribuente, la conseguente determinazione indiziaria dei maggiori redditi contrasta con il divieto del ricorso alla c.d. doppia presunzione. Infatti, questa Corte ha già avuto modo di chiarire che nel sistema processuale non esiste il divieto delle c.d. presunzioni di secondo grado, in quanto lo stesso non è riconducibile nè agli artt. 2729 e 2697 c.c., nè a qualsiasi altra norma e ben potendo il fatto noto, accertato in via presuntiva, costituire la premessa di un’ulteriore presunzione idonea – in quanto a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto (Cass. 01/08/2019, n. 20748). Infatti, la sussistenza nell’ordinamento del cosiddetto “divieto di presunzioni di secondo grado o a catena”, è stata esclusa in quanto: ” a) il principio praesumptum de praesumpto non admittitur (o “divieto di doppie presunzioni” o “divieto di presunzioni di secondo grado o a catena”), spesso tralaticiamente menzionato in varie sentenze, è inesistente, perchè non è riconducibile nè agli evocati artt. 2729 e 2697 c.c. nè a qualsiasi altra norma dell’ordinamento: come è stato più volte e da tempo sottolineato da autorevole dottrina, il fatto noto accertato in base ad una o più presunzioni (anche non legali), purchè “gravi, precise e concordanti”, ai sensi dell’art. 2729 c.c., può legittimamente costituire la premessa di una ulteriore inferenza presuntiva idonea – in quanto, a sua volta adeguata – a fondare l’accertamento del fatto ignoto (Cass. n. 18915, n. 17166, n. 17165, n. 17164, n. 1289, n. 983 del 2015);” (Cass. 16/06/2017, n. 15003, in motivazione, al p. 3).

Non ha dunque errato, in diritto, la sentenza impugnata, laddove, senza alcuna inversione dell’onere probatorio, ha premesso che l’Ufficio ha ottemperato all’onere della prova di sua competenza, attraverso il meccanismo inferenziale fondato sui dati ricavati dall’anagrafe tributaria e dalle predette informazioni, escludendo poi che il contribuente avesse fornito prove contrarie.

13. Con il decimo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c); art. 58, comma 2 e art. 60, comma 3, per avere il giudice a quo ritenuto validamente notificato dall’Ufficio, l’8 febbraio 2008, il questionario preliminare all’accertamento controverso, presso il domicilio fiscale di Lissone, risultante dall’ultima dichiarazione dei redditi del contribuente, e non presso la residenza anagrafica di quest’ultimo, trasferita in Rimini dal 19 luglio 2007.

Assume infatti il ricorrente che, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 3, vigente ratione temporis, “Le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica o, per le persone giuridiche e le società ed enti privi di personalità giuridica, dal trentesimo giorno successivo a quello della ricezione da parte dell’ufficio della comunicazione prescritta nell’art. 36, comma 2. Se la comunicazione è stata omessa la notificazione è eseguita validamente nel comune di domicilio fiscale risultante dall’ultima dichiarazione annuale.”.

Deduce quindi il ricorrente che, nel caso di specie, in forza della disposizione appena citata, per il contribuente persona fisica, il trasferimento della residenza anagrafica, avvenuto il 19 luglio 2007, sarebbe stato efficace, nei confronti dell’Amministrazione, già dal trentesimo giorno successivo, e quindi sarebbe stato operante alla data, 8 febbraio 2008, della notifica de qua, benchè non ancora comunicato all’Ufficio, che avrebbe quindi dovuto eseguire la notifica presso la nuova residenza anagrafica del contribuente, che costituiva anche il nuovo domicilio fiscale di quest’ultimo.

Il motivo è fondato.

Infatti, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), vigente ratione temporis, la notifica non eseguita in mani proprie del contribuente deve essere fatta nel domicilio fiscale di quest’ultimo, che, in forza del precedente art. 58, comma 2, per le persone fisiche residenti nel territorio Stato coincide con il Comune nella cui anagrafe sono iscritte.

Nel caso di specie, è pacifico (per averlo affermato la stessa Amministrazione, come risulta dalla sentenza) che il ricorrente, già residente anagraficamente e domiciliato ai fini fiscali nel Comune di Lissone, alla data del 24 settembre 2008 aveva trasferito la sua residenza anagrafica nel Comune di Rimini. Tale variazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 3, vigente ratione temporis, (e non, come erroneamente sostenuto dal ricorrente, ex art. 60, comma 3, che riguarda invece il mutamento d’indirizzo all’interno dello stesso Comune di domicilio fiscale: Cass. 06/10/2017, n. 23334, in motivazione), a prescindere dalla sua comunicazione all’Ufficio, era opponibile a quest’ultimo dal sessantesimo (quindi non dal trentesimo) giorno successivo a quello in cui si è verificata.

Ed è incontestato (per averlo affermato la stessa Amministrazione, come risulta dalla sentenza) che la notifica del questionario, presso la residenza anagrafica precedente alla variazione, è avvenuta l’8 febbraio 2008, quindi dopo oltre 60 giorni dalla variazione della residenza anagrafica, opponibile quindi all’Amministrazione.

Pertanto, è nulla la notifica del questionario, avvenuta presso la precedente residenza anagrafica, nonchè domicilio fiscale, del contribuente, che non erano più tali a seguito della predetta variazione e del decorso del termine legale di opponibilità.

Nè, comunque, potrebbe ritenersi sanata la notifica per effetto del suo perfezionamento tramite la consegna, presso la residenza anagrafica e domicilio fiscale non più attuali del contribuente, ad un familiare di quest’ultimo, il padre. Infatti, “La notifica a mani di un familiare del destinatario, eseguita presso la residenza del primo, che sia diversa da quella del secondo, non determina l’operatività della presunzione di convivenza non meramente occasionale tra i due, con conseguente nullità della notificazione medesima, non sanata dalla conoscenza “aliuncle” che ne abbia il destinatario, ove non accompagnata dalla sua costituzione.” (Cass. 25/10/2017, n. 25391 del 25/10/2017; nello stesso senso Cass. 05/04/2011, n. 7750).

Tanto meno, poi, emergono dalla sentenza impugnata, e dalle difese delle parti, elementi dai quali desumere che – anche a prescindere dalle forme della notifica, non indispensabili ai fini di integrare l’”invio” di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, comma 1, – il questionario de quo sia stato comunque comunicato dall’Amministrazione al contribuente in modo che quest’ultimo ne sia venuto effettivamente a conoscenza.

Ha quindi errato il giudice a quo nel ritenere, implicitamente ma inequivocabilmente, valida la notifica del questionario, tanto da ritenere che la mancata risposta allo stesso avrebbe determinato le conseguenze dell’inutilizzabilità dei documenti e dei dati non forniti dal contribuente, nella fase preventiva all’emissione dell’accertamento, ai sensi della L. 18 febbraio 1999, n. 25, art. 25.

La mancata valida notifica del questionario de quo, e comunque la mancata conoscenza, da parte del contribuente, dello stesso atto, non allegato all’accertamento, non determina, di per sè sola, la nullità di quest’ultimo, atteso che: “in tema di motivazione degli avvisi di accertamento, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (L. n. 212 del 2000, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3. Ne consegue che all’avviso di accertamento vanno allegati i soli atti aventi contenuto integrativo della motivazione dell’avviso medesimo e che non siano stati già trascritti nella loro parte essenziale, ma non anche gli altri atti cui l’Amministrazione finanziaria faccia comunque riferimento, i quali, pur non facendo parte della motivazione, sono utilizzabili ai fini della prova della pretesa impositiva”.

Resta quindi ferma, per quanto già rilevato, la validità della motivazione per relationem dell’atto impositivo, fondata su dati e notizie acquisiti comunque aliunde dall’Ufficio. Tuttavia, ai fini della prova dei presupposti dell’imposizione erariale, ha errato il giudice a quo, laddove ha tratto dalla mancata risposta del contribuente al questionario, in realtà non notificatogli, valutazioni istruttorie e l’inutilizzabilità della documentazione e dei dati solo successivamente, in sede contenziosa, prodotti dal contribuente.

14. Va quindi accolto, nei termini di cui alla motivazione che precede, anche l’undicesimo motivo, con il quale il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 32, commi 4 e 5, applicabili ratione temporis, modificati dalla L. n. 28 del 1999, art. 25, per avere il giudice a quo ritenuto inutilizzabili i documenti ed i dati forniti dal contribuente in giudizio.

15. Deve quindi essere cassata, in relazione ai motivi accolti, la sentenza impugnata, con rinvio al giudice a quo.

P.Q.M.
Rigetta il primo, il secondo, il terzo, il quinto, il settimo, l’ottavo, il nono motivo di ricorso;

accoglie il quarto, il sesto, il decimo e, nei termini di cui in motivazione, l’undicesimo motivo;

cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 20 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 3 marzo 2020


Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., (data ud. 24/09/2019) 11/03/2020, n. 6960

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. LEONE Maria Margherita – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18955-2018 proposto da:

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale procuratore speciale della SOCIETA’ di CARTOLIZZAZIONE DEI CREDITI INPS (SCCI) SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, V. CESARE BECCARIA 29, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DEIL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli avvocati DE ROSE EMANUELE, D’ALOISIO CARLA, VITA SCIPLINO ESTER ADA, MARITATO LELIO, MATANO GIUSEPPE, SGROI ANTONINO;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SILVIO PELLICO 2, presso lo studio dell’avvocato BISOGNI ANNA MARIA, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1163/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/04/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 24/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. DE FELICE ALFONSINA.

Svolgimento del processo
Che:

la Corte d’appello di Roma, confermando la pronuncia del Tribunale stessa sede, ha rigettato il ricorso dell’Inps, rivolto a sentir dichiarare l’erroneità della sentenza impugnata nella parte in cui aveva accolto l’eccezione di decadenza dal diritto all’iscrizione a ruolo della cartella esattoriale, emessa nei confronti di C.A. – e dallo stesso opposta – per il recupero di Euro 5.529,27 a titolo di omesso versamento di contributi previdenziali relativi al rapporto di lavoro intercorso tra il 2002 e il 2003 fra lo stesso C. e V.C.;

la Corte territoriale ha fatto applicazione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 25, il quale prevede che i contributi o premi dovuti agli enti pubblici previdenziali in forza di accertamenti degli uffici, non sottoposti a gravame sono iscritti in ruoli resi esecutivi a pena di decadenza entro il 31 dicembre dell’anno successivo alta data di notifica del provvedimento (lett. b) e che, avendo l’Inps comunicato al C. l’avvenuto accertamento del credito nel 2010, aveva emesso l’avviso di pagamento soltanto il 9 marzo 2015, quando ormai era decaduto dal diritto di iscrivere a ruolo il credito contributivo contestato e di agire per il pagamento dello stesso;

nel merito, la Corte territoriale ha poi ritenuto che l’Inps non avesse dato prova che fra il C. e la Valligiano era intercorso un rapporto di lavoro subordinato e che l’unica fonte di prova offerta dall’appellante – ossia il verbale di conciliazione in sede amministrativa del 13 ottobre 2005 – non fosse idoneo allo scopo dichiarato, non manifestando, in modo inequivoco, la natura della collaborazione, le mansioni svolte, l’orario di lavoro e la retribuzione corrisposta, tutti elementi indispensabili a determinare l’entità della denunciata omissione contributiva;

ha accertato che sulle circostanze invocate a sostegno della propria pretesa l’Istituto – neppure in sede di gravame – aveva svolto ulteriori accertamenti;

la cassazione della sentenza è domandata dall’Inps, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. s.p.a. sulla base di tre motivi; C.A. ha opposto difese con tempestivo controricorso;

è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.

Motivi della decisione
Che:

col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, l’Inps deduce “Violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c.”; la nullità della sentenza deriverebbe dal non avere ritenuto la fondatezza del ricorso in appello dell’Inps nella parte in cui questi aveva contestato la formazione del giudicato sul capo della pronuncia di prime cure che aveva dichiarato la decadenza dal diritto all’iscrizione a ruolo; l’Istituto contesta che vi fosse la necessità di impugnare la predetta statuizione avendo lo stesso Tribunale affermato la necessità dell’accertamento della fondatezza della pretesa nel merito, a prescindere dall’illegittimità dell’iscrizione a ruolo della cartella opposta;

col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contesta “Violazione e falsa applicazione del D.L. 31 maggio 2010, n. 125, art. 30, comma 14, convertito, con modificazioni, nella L. 30 luglio 2010, n. 122 e del D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 3”; il motivo deduce che in base alle norme indicate in epigrafe, la Corte territoriale, che decide sull’opposizione in secondo grado, avrebbe dovuto statuire sul merito della pretesa a prescindere dalla legittimità dell’iscrizione a ruolo;

col terzo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, contesta “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1965, 1362 e 1363 c.c., e del D.P.R. 30 maggio 1955, n. 1124, artt. 27 e 28; contesta il convincimento della Corte d’appello in ordine alla mancata idoneità probatoria del verbale di conciliazione; prospetta che il giudice avrebbe dovuto verificare se lo stesso aveva o meno contenuto novativo e se il rapporto di lavoro costituiva la ragione centrale dell’attribuzione patrimoniale stabilita in sede conciliativa; ne riporta il testo al fine di dimostrare che le clausole in esso contenute proverebbero la natura subordinata e non occasionale dei rapporto di lavoro oggetto di contestazione;

il primo motivo è infondato;

esso non è in grado di intaccare la ratio decidendi della sentenza impugnata, che ha accertato la formazione del giudicato sulla statuizione di decadenza dall’iscrizione a ruolo contenuta nella pronuncia di prime cure; risulta in atti che è lo stesso Istituto ricorrente ad ammettere indirettamente la ricorrenza di tale circostanza, là dove afferma di non aver impugnato l’accoglimento della relativa eccezione da parte del Tribunale: “…l’Istituto ha preso atto di tale statuizione e con il gravame ha direttamente censurato il capo della sentenza con il quale il giudice di primo grado ha ritenuto insussistente nel merito l’obbligazione contributiva oggetto di causa” (p.5 del ricorso);

la censura, non contrasta la prima ratio decidendi, avente ad oggetto la statuizione di intervenuto giudicato in merito al punto contestato;

il secondo motivo, con cui l’Istituto afferma che la Corte territoriale non avrebbe potuto accogliere l’eccezione di decadenza senza pronunciarsi anche nel merito sulla fondatezza della pretesa creditoria è egualmente infondato, in quanto non è idoneo a scardinare la seconda ratio decidendi autonoma della sentenza gravata, con cui il giudice dell’appello, accogliendo per rinvio l’esito dell’accurata istruttoria svolta dal giudice di prime cure, aggiunge di aver accertato che neppure in sede di gravame l’Istituto appellante aveva fornito “elementi per supportare probatoriamente la propria istanza” (p. 6 sent.);

il terzo motivo è inammissibile;

le prospettazioni del ricorrente deducono solo apparentemente una violazione di legge, là dove mirano, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito;

va, pertanto, nel caso in esame, data attuazione al costante orientamento di questa Corte, che reputa “…inammissibile il ricorso per cassazione con cui si deduca, apparentemente, una violazione di norme di legge mirando, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito.” (Cass. n. 18721 del 2018; Cass. n. 8758 del 2017);

in definitiva, il ricorso va rigettato; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;

in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 2.500,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, all’Adunanza camerale, il 24 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 11 marzo 2020

 


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 22-10-2019) 10-01-2020, n. 300

Quella regionale della Campania ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, dichiarandola estromessa dal giudizio, e ha rigettato quello dell’Equitalia, in base alla considerazione che la notificazione di alcune cartelle prodromiche a sollecito e avviso era stata indirizzata, senza giustificazione, in un luogo diverso da quello, risultante dalla cartella indicata in sentenza, di residenza della contribuente.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente di sez. –

Dott. MANNA Antonio – Presidente di sez. –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. PERRINO Angelina Maria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21667-2013 proposto da:

EQUITALIA SUD S.P.A., (società con socio unico soggetta all’attività di direzione e coordinamento della Equitalia s.p.a.), subentrata ad Equitalia Polis s.p.a. con decorrenza 1 luglio 2011, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliatosi in ROMA, VIA PREMUDA 1/A, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO DIDDORO, rappresentata e difesa dall’avvocato VINCENZO POLISI;

– ricorrente –

contro

P.G., elettivamente domiciliatasi in ROMA, VIA F. SIACCI 4, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO VOGLINO, rappresentata e difesa dall’avvocato FABIO BENINCASA;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– resistente –

avverso la sentenza n. 20/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della Campania, depositata il 04/02/2013;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/10/2019 dal consigliere Dott. ANGELINA-MARIA PERRINO;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale Dott. SALZANO FRANCESCO, che ha concluso per affermarsi che: “la notifica eseguita da servizi postali gestiti da licenziatari privati è affetta da nullità assoluta ex art. 156 c.p.c., comma 3”;

udito l’Avvocato Fabio Benincasa.

Svolgimento del processo
Emerge dalla sentenza impugnata che la materia del contendere riguarda “…il sollecito di pagamento n. 14363/071 IVA + IRPEF 1998 ed avviso di attivazione procedura espropriativa di cui a sei cartelle di pagamento… “, che P.G. aveva impugnato, lamentando l’omessa notificazione delle cartelle, e ottenendone l’annullamento dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli.

Quella regionale della Campania ha accolto l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate, dichiarandola estromessa dal giudizio, e ha rigettato quello dell’Equitalia, in base alla considerazione che la notificazione di alcune cartelle prodromiche a sollecito e avviso era stata indirizzata, senza giustificazione, in un luogo diverso da quello, risultante dalla cartella indicata in sentenza, di residenza della contribuente.

Contro questa sentenza propone ricorso l’agente per la riscossione, che affida a tre motivi per ottenerne la cassazione, cui P.G. risponde con controricorso. L’Agenzia delle entrate, evocata in giudizio, non si è ritualmente costituita, depositando soltanto atto col quale ha manifestato la volontà di partecipare all’udienza di discussione.

La sezione tributaria di questa Corte ha ravvisato una questione di massima di particolare importanza in quella concernente il regime della notificazione del ricorso introduttivo, avvenuta a mezzo di posta privata e ha prospettato al Primo Presidente l’opportunità di devolverla alla cognizione di queste sezioni unite.

Ne è seguita la fissazione dell’udienza odierna.

Motivi della decisione
1.- Vanno preliminarmente respinte le eccezioni d’inammissibilità del ricorso proposte dalla controricorrente:

– va respinta la prima, con la quale si lamenta che il ricorso è stato notificato presso la residenza della contribuente, anzichè presso il domicilio da lei eletto in giudizio, perchè il vizio è stato sanato, ex art. 156 c.p.c., dal tempestivo deposito del controricorso (Cass., sez. un., 20 luglio 2016, nn. 14916 e 14917);

– va altresì respinta la seconda, con la quale si denuncia la violazione del principio di autosufficienza del ricorso, giacchè le carenze di specificità, di seguito illustrate, non investono l’intero ricorso.

2.- Col primo motivo di ricorso l’Equitalia lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 16, comma 3 e art. 22, commi 1 e 2, giacchè sostiene che la notificazione del ricorso introduttivo del giudizio, eseguita nel 2010 a mezzo posta con servizio di spedizione privato, sia affetta da nullità insanabile. Espone al riguardo che, nel processo tributario, in virtù della combinazione delle norme indicate, sono applicabili, oltre alle modalità di notificazione previste dall’art. 137 c.p.c., richiamate dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 2, in via di eccezione la modalità di notificazione c.d. postale, mediante l’utilizzo del servizio reso dalle Poste italiane, e la consegna a mani, soltanto nei confronti degli uffici finanziari e degli enti locali.

2.1.- Il motivo di ricorso, diversamente da quanto si sostiene in controricorso, è ammissibile, benchè l’Equitalia non abbia proposto la censura nel giudizio di merito. Ciò perchè la questione prospettata, di nullità insanabile della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, comporta la rilevabilità, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo (Cass. 20 ottobre 2016, n. 21219).

3.- Il tema posto col motivo in esame è oggetto dell’ordinanza interlocutoria, che appunto concerne la sorte della notificazione degli atti processuali eseguita a mezzo di posta privata nel regime antecedente all’emanazione del D.Lgs. 24 febbraio 2011, n. 58.

4.- La questione è importante, perchè presenta molteplici profili problematici.

4.1.- Il primo, di minor rilievo, è posto in controricorso, là dove si sostiene che “le notificazioni di atti giudiziari”, oggetto dell’affidamento in via esclusiva al fornitore del servizio universale, contemplato dal D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261, art. 4 come modificato dal D.Lgs. 31 marzo 2011, n. 58, non si riferiscano ai ricorsi tributari notificati a mezzo posta senza l’ausilio di un ufficiale notificatore: ciò perchè la norma, là dove richiama i “servizi inerenti le notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni”, riserverebbe in via esclusiva alle Poste italiane i soli servizi concernenti le notificazioni di atti giudiziari eseguiti a norma della L. n. 890 del 1982.

4.2.- L’obiezione si supera agevolmente.

Nel processo tributario le notificazioni sono eseguite, in primo luogo, secondo le norme degli artt. 137 c.p.c. e ss. (D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 16, comma 2), tra le quali v’è l’art. 149 c.p.c., che consente la notificazione a mezzo del servizio postale, in base alle regole dettate dalla L. 20 novembre 1982, n. 890; in secondo luogo, la notificazione può essere eseguita – oltre che mediante consegna diretta all’impiegato dell’amministrazione finanziaria o dell’ente locale – a mezzo del servizio postale raccomandato con avviso di ricevimento (art. 16, comma 3, nel testo applicabile ratione temporis). Qualora la notificazione sia eseguita a mezzo posta, “…il ricorso s’intende proposto al momento della spedizione nelle forme sopra indicate” (art. 20, comma 2), ossia in quelle richiamate dall’art. 16, commi 2 e 3.

4.3.- Quanto al tenore letterale della norma invocata, il testo del D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4 applicabile all’epoca dei fatti di causa riservava al fornitore del servizio universale, con ampia dizione, “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”.

4.4.- Sul piano logico la tesi proposta dalla contribuente comporterebbe, irragionevolmente, l’assoggettamento a disciplina più rigorosa proprio dell’attività più affidabile gestita da soggetto notificatore abilitato.

4.5.- A ogni modo, la corretta lettura della locuzione “notificazioni di atti a mezzo posta e di comunicazioni a mezzo posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, e successive modificazioni” implica la riserva di tutte le notificazioni concernenti atti giudiziari eseguite a mezzo posta, senza distinzione in base al richiedente (come emerge da Cass., sez. un., 26 marzo 2019, n. 8416, secondo cui la novella introdotta dal D.Lgs. n. 58 del 2011 ha determinato la limitazione della riserva a s.p.a. Poste italiane, per il profilo d’interesse, “alla notificazione a mezzo posta degli atti giudiziari”).

4.6.- In definitiva, hanno ulteriormente sottolineato queste sezioni unite, facendo leva sulla previsione della Legge Delega 30 dicembre 1991, n. 413, art. 30 di adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile, non v’è alcuna ragione logica e giuridica per distinguere il regime della notificazione diretta a mezzo di raccomandata postale dall’ordinaria notificazione tramite ufficiale giudiziario che si avvalga del servizio postale (Cass., sez. un., 29 maggio 2017, nn. 13452 e 13453, punto 3.8).

4.7.- Indubbio è, quindi, che le notificazioni dirette a mezzo raccomandata postale dei ricorsi in materia tributaria rientrano nell’ambito della riserva al fornitore del servizio universale contemplata dal D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4.

5.- La questione, peraltro, eccede i confini del processo tributario e anche quelli del diritto nazionale, in quanto coinvolge i temi unionali della libertà di concorrenza e della graduale eliminazione degli ostacoli frapposti al mercato unico, che hanno trovato un complesso articolato di principi nella direttiva n. 97/67/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 15 dicembre 1997, poi modificata dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 20 febbraio 2008, progressivamente attuate dal diritto interno.

Il che comporta la necessità di coordinare la giurisprudenza nazionale con quella unionale, di segno prevalente rispetto alla prima.

6.- Il profilo problematico di maggior rilievo concerne, difatti, l’influenza sul regime delle notificazioni dei principi posti dalle direttive in questione.

Non è valso osservare dinanzi alla Corte di giustizia, per escluderne la rilevanza, che la direttiva n. 97/67/CE, la quale non contempla la procedura civile tra le materie enumerate nel proprio campo di applicazione, fissato dall’art. 1, è stata adottata sul fondamento dell’art. 95 TCE (divenuto art. 114 del TFUE), che costituisce la base giuridica per il ravvicinamento delle legislazioni nazionali destinate ad assicurare il funzionamento del mercato interno, e non già in base all’art. 65 del TCE (divenuto art. 81 del TFUE), base giuridica per l’armonizzazione delle norme di procedura civile.

6.1.- Seguendo quest’impostazione, ha replicato la Corte di giustizia (con sentenza 27 marzo 2019, causa C-545/17, Pawlak, punto 30), non si riuscirebbe a scongiurare gli ostacoli posti dalla disciplina nazionale del processo civile al percorso di apertura alla concorrenza nel settore in esame.

7.- Il percorso in questione, va detto, non è stato di segno univoco e la vicenda in esame si colloca quando esso non era ancora completo: la notificazione della quale si discute, risalente al 2010, si situa prima dell’adozione del D.Lgs. n. 58 del 2011, ma dopo la pubblicazione della direttiva n. 2008/6/CE. 7.1.- La direttiva n. 97/67/CE, pur avviando la graduale liberalizzazione del mercato dei servizi postali, riconosceva agli Stati membri la possibilità di riservare al fornitore o ai fornitori del servizio universale “…la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione di invii di corrispondenza interna” (art. 7); consentiva, per ragioni di ordine pubblico e di pubblica sicurezza, di scegliere “…gli organismi responsabili per il servizio di corrispondenza registrata cui si ricorre nell’ambito di procedure giudiziarie o amministrative conformemente alla legislazione nazionale (…)” (considerando 20); prevedeva, e tuttora prevede, che “Le disposizioni dell’art. 7 lasciano impregiudicato il diritto degli Stati membri di provvedere… al servizio di invii raccomandati utilizzato nelle procedure amministrative e giudiziarie conformemente alla loro legislazione nazionale” (art. 8).

La riserva era funzionale al mantenimento del servizio universale (art. 7), del quale costituiva il principale canale di funzionamento in condizione di equilibrio finanziario (considerando 16).

7.2.- Con la direttiva n. 2008/6/CE v’è stata una virata (in parte anticipata dalla direttiva n. 2002/39/CE), poichè il legislatore dell’Unione, mutando prospettiva, ha ritenuto “opportuno porre fine al ricorso al settore riservato e ai diritti speciali come modo per garantire il finanziamento del servizio universale” (considerando 25).

Sicchè, con l’art. 7 della direttiva n. 97/67/CE, radicalmente novellato, il legislatore dell’Unione ha stabilito che “Gli Stati membri non concedono nè mantengono in vigore diritti esclusivi o speciali per l’instaurazione e la fornitura di servizi postali…”.

La concessione di questi diritti all’operatore designato è quindi scomparsa dal novero delle opzioni esplicitamente autorizzate per il finanziamento del settore universale (lo sottolinea Corte giust. 2 maggio 2019, causa C-259/18, Sociedad Estatal Correos y Telegrafos SA, punto 34).

8.- Il legislatore italiano ha dato attuazione con ritardo alla normativa unionale.

In esecuzione della direttiva n. 97/67/CE il D.Lgs. 22 luglio 1999, n. 261 ha riconosciuto come fornitore del servizio universale, nel testo applicabile all’epoca dei fatti di causa, “l’organismo che gestisce l’intero servizio postale universale su tutto il territorio nazionale” (art. 1, comma 2, lett. o); ha affidato il servizio universale alla società Poste italiane per un periodo comunque non superiore a quindici anni dalla data di entrata in vigore del decreto (art. 23, comma 2); ha ammesso la possibilità di riservare al fornitore del servizio universale “…la raccolta, il trasporto, lo smistamento e la distribuzione di invii di corrispondenza interna e transfrontaliera, anche tramite consegna espressa” (art. 4, comma 1), indicandone limiti di peso e prezzo e ha previsto che “Indipendentemente dai limiti di prezzo e di peso, sono compresi nella riserva di cui al comma 1 gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie…” (art. 4, comma 5).

La riserva è espressamente volta al “mantenimento” del fornitore del servizio universale, ossia a finanziarlo; tanto che il fondo di compensazione degli oneri del servizio universale istituito dall’art. 10 è “…alimentato nel caso e nella misura in cui i servizi riservati non procurano al fornitore del predetto servizio entrate sufficienti a garantire l’adempimento degli obblighi gravanti sul fornitore stesso”.

8.1.- In seguito, nel dettare i principi e i criteri generali per il recepimento della direttiva n. 2008/6/CE, il legislatore delegante ha stabilito che, nel contesto di piena apertura al mercato, “…a far data dal 31 dicembre 2010 non siano concessi nè mantenuti in vigore diritti esclusivi o speciali per l’esercizio e la fornitura di servizi postali” (art. 37, comma 2, lett. a), della Legge delega 4 giugno 2010, n. 96, pur facendo salvo l’art. 8 della direttiva n. 97/67).

8.2.- Ma il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4, comma 1, come novellato dal D.Lgs. n. 58 del 2011, ha stabilito che per esigenze di ordine pubblico fossero riservati in via esclusiva al fornitore del servizio universale, ossia a Poste italiane (alle quali il servizio è stato nuovamente affidato per quindici anni a decorrere dal 30 aprile 2011, giusta il D.Lgs. n. 58 del 2011, art. 1, comma 18), tra l’altro, i servizi concernenti le notificazioni a mezzo posta di atti giudiziari.

8.3.- Soltanto la L. 4 agosto 2017, n. 124, art. 1, comma 57, ha comportato, per i profili d’interesse, l’abrogazione del suddetto art. 4 a decorrere dal 10 settembre 2017, l’aggiunta in fine al successivo art. 5, al comma 2 del seguente periodo:

“Il rilascio della licenza individuale per i servizi riguardanti le notificazioni di atti a mezzo della posta e di comunicazioni a mezzo della posta connesse con la notificazione di atti giudiziari di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, nonchè per i servizi riguardanti le notificazioni a mezzo della posta previste dall’art. 201 C.d.S., di cui al D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, e successive modificazioni, deve essere subordinato a specifici obblighi del servizio universale con riguardo alla sicurezza, alla qualità, alla continuità, alla disponibilità e all’esecuzione dei servizi medesimi” e, finalmente, la soppressione del riferimento, contenuto nell’art. 10 a proposito del fondo di compensazione, ai servizi in esclusiva di cui all’art. 4.

9.- Nel contesto così delineato la giurisprudenza civile di questa Corte sottolinea che, nel regime precedente alla novella del 2017, l’operatore di posta privata non riveste, a differenza del fornitore del servizio postale universale, la qualità di pubblico ufficiale, sicchè gli atti da lui redatti non godono di alcuna presunzione di veridicità fino a querela di falso (Cass. 30 gennaio 2014, n. 2035).

La necessità di assicurare l’effettività della funzione probatoria dell’invio raccomandato, presidiata dal D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 1, comma 2, lett. i), rappresenterebbe l’esigenza di ordine pubblico che sostiene la scelta di riservare in via esclusiva al fornitore del servizio universale gli invii raccomandati concernenti le procedure giudiziarie – nonchè pure quelle amministrative, prima del D.Lgs. n. 58 del 2011 – (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26704).

Sicchè si è ritenuta inesistente e non sanabile la notificazione di atti processuali eseguita mediante servizio postale non gestito da Poste italiane, ma da un operatore di posta privata (tra varie, Cass. 31 gennaio 2013, n. 2262; 19 dicembre 2014, n. 29021; 30 settembre 2016, n. 19467; 10 maggio 2017, n. 11473; 5 luglio 2017, n. 16628).

9.1.- Nè alla L. n. 124 del 2017, art. 1 si può riconoscere efficacia retroattiva: non si tratta di norma interpretativa, in quanto l’operatività della disciplina da essa delineata presuppone il rilascio delle nuove licenze individuali relative allo svolgimento dei servizi già oggetto di riserva, sulla base delle regole da predisporsi da parte dell’autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Cass. 11 ottobre 2017, n. 23887; 3 aprile 2018, n. 8089; 31 maggio 2018, n. 13855; 7 settembre 2018, n. 21884).

Sull’irretroattività della novella convengono anche queste sezioni unite (con la sentenza n. 8416/19, cit.), che hanno riconosciuto, in relazione al regime normativo successivo al D.Lgs. n. 58 del 2011, la legittimità della notificazione a mezzo operatore di posta privata dei soli atti di natura amministrativa.

10.- Con l’ordinanza interlocutoria la sezione tributaria esprime perplessità sulla tenuta dell’orientamento concernente la qualificazione d’inesistenza della notificazione di atti giudiziari eseguita da un operatore di poste private in relazione al periodo precedente all’entrata in vigore della novella del 2017.

Anzitutto, rileva che la tesi dell’inesistenza della notificazione dell’atto processuale eseguita a mezzo posta dall’operatore in questione si potrebbe porre in contrasto con la possibilità di assimilare la notificazione in questione a quella eseguita mediante consegna diretta, contemplata dalla combinazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 3 e art. 20, comma 1: l’operatore di poste private ben potrebbe essere equiparato a un vettore che provvede alla consegna a mani dell’atto introduttivo della lite, con l’unica particolarità che in tal caso la notificazione si dovrebbe reputare eseguita nella data di ricezione e non già in quella di spedizione dell’atto.

10.1.- La sezione rimettente dubita, inoltre, della coerenza dell’indirizzo con la consolidata giurisprudenza di questa Corte, che ricostruisce la notificazione non come requisito di esistenza e di perfezionamento dell’atto che ne è oggetto, ma come condizione integrativa dell’efficacia di esso: ne conseguirebbe che anche l’inesistenza della notificazione non comporterebbe quella dell’atto che ne è oggetto, quando ne risulti inequivocabilmente la piena conoscenza da parte del contribuente entro il termine di decadenza concesso per l’esercizio del potere dell’amministrazione finanziaria, sulla quale grava il relativo onere probatorio (tra varie, Cass. 15 gennaio 2014, n. 654; 24 aprile 2015, n. 8374; 30 gennaio 2018, n. 2203; 24 agosto 2018, n. 21071).

10.2.- E, ancora, la sezione tributaria sospetta della compatibilità, in chiave di sistema, dell’indirizzo in questione col radicale ridimensionamento, dovuto all’elaborazione di queste sezioni unite (Cass., sez. un., 20 luglio 2016, nn. 14916 e 14917, seguite, tra varie, da Cass., sez. un., 13 febbraio 2017, n. 3702, da Cass. 7 giugno 2018, n. 14840 e da Cass. 8 marzo 2019, n. 6743), della categoria dell’inesistenza della notificazione, ridotta, in base al carattere strumentale delle forme degli atti processuali, ai soli casi in cui l’attività svolta sia priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto come notificazione; di modo che ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale ricade nella categoria della nullità.

11.- Qualche spiraglio per una soluzione diversa affiora dall’indirizzo che ammette la validità della notificazione eseguita dall’agenzia privata, alla quale però il plico sia stato affidato dalle Poste, nonchè, viceversa, di quella compiuta dalle Poste, alle quali l’atto sia stato veicolato dall’operatore di poste private: nel primo caso, si sostiene, l’attività di recapito rimane all’interno del rapporto tra le Poste e l’agenzia di recapito, e in capo alle Poste permane la piena responsabilità per l’espletamento del servizio (Cass. 6 giugno 2012, n. 9111); nel secondo, si specifica che una tale modalità operativa rispetta la riserva in via esclusiva prevista a favore del fornitore del servizio universale e, quindi, l’esigenza di garantire l’attestazione fidefaciente della puntualità e regolarità degli adempimenti (Cass. 21 luglio 2015, n. 15347; conf., Cass. 13 settembre 2017, n. 21251).

11.1.- Attestata su una soluzione diversa da quella prevalente si pone pure parte della giurisprudenza penale, anch’essa menzionata nell’ordinanza interlocutoria, secondo cui i servizi riservati in via esclusiva a Poste italiane dal D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4 non contemplano la mera spedizione di un atto d’impugnazione, che sarebbe concettualmente diversa dalla “notificazione a mezzo posta di atti giudiziari”, perchè volta a far pervenire l’atto che ne è oggetto non a una controparte, bensì a un ufficio giudiziario (Cass. pen., 28 novembre 2013/22 gennaio 2014, n. 2886; 6 novembre 2014/18 maggio 2015, n. 20380; 3 maggio/1 agosto 2017, n. 38206).

12.- La giurisprudenza nazionale non tiene adeguato conto della normativa e della giurisprudenza unionali.

Anzitutto l’opzione della giurisprudenza penale trova espressa smentita in quella della Corte di giustizia.

La direttiva modificata n. 97/67/CE definisce i “servizi postali” come i servizi che includono la raccolta, lo smistamento, il trasporto e la distribuzione degli invii postali (art. 2, punto 1, che non è sensibilmente diverso dal testo previgente, che li definiva come “servizi che includono la raccolta, lo smistamento, l’instradamento e la distribuzione degli invii postali”).

L’”invio postale” è, da parte sua, definito come l’invio, nella forma definitiva al momento in cui viene preso in consegna, dal fornitore di servizi postali (art. 2, punto 6, che, nella versione antecedente alla modifica disposta dalla direttiva n. 2008/6, si riferiva all’invio nella forma definitiva al momento in cui viene preso in consegna dal fornitore del servizio universale).

Sicchè l’invio per posta di atti processuali è un invio postale e il servizio relativo entra nel novero dei servizi postali (Corte giust. in causa C-545/17, cit., punto 40, che si riferisce, peraltro, giustappunto all’invio per posta agli organi giurisdizionali presi in considerazione dalle suddette pronunce penali di questa Corte; in termini anche Corte giust. 31 maggio 2018, cause C-259/16 e C-260/16, Confetra, punto 33).

12.1.- Non è quindi possibile distinguere, all’interno della nozione di “invio postale” rilevante ai fini del diritto unionale, il segmento della spedizione rispetto a quello del recapito.

13.- Ma ciò che qui preme soprattutto rilevare e valutare è il rapporto della giurisprudenza civile di questa Corte con il diritto dell’Unione.

A seguito della direttiva n. 2008/6/CE, pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione Europea del 27 febbraio 2008, il diritto unionale è di ostacolo al riconoscimento di diritti speciali o esclusivi a un operatore postale (in termini, Corte giust. in causa C-545/17, cit., punti 67-68); sicchè non può essere riconosciuta a un operatore una tutela particolare idonea a incidere sulla capacità delle altre imprese di esercitare l’attività economica consistente nell’instaurazione e nella fornitura di servizi postali nello stesso territorio, in circostanze sostanzialmente equivalenti.

Il principio ha portata generale: “il fatto che uno Stato membro riservi un servizio postale, che questo rientri o no nel servizio universale, a uno o a più fornitori incaricati del servizio universale costituisce un modo vietato per garantire il finanziamento del servizio universale” (Corte giust. in causa C-545/17, cit., punto 53).

13.1.- Ne consegue che l’art. 8 della direttiva, che non è stato novellato, va interpretato restrittivamente (con riferimento, peraltro, ai soli invii raccomandati e non già a quelli ordinari), perchè introduce una deroga al principio.

In questa logica non incide la circostanza che il diritto esclusivo o speciale per l’instaurazione e la fornitura di servizi postali sia concesso a un fornitore del servizio universale nel rispetto dei canoni di obiettività, di proporzionalità, di non discriminazione e di trasparenza. Si arriverebbe, altrimenti, a circoscrivere la portata del divieto posto dall’art. 7, paragrafo 1, prima frase, della direttiva modificata e, pertanto, a compromettere la realizzazione dell’obiettivo, ivi perseguito, di completare il mercato interno dei servizi postali.

13.2.- Ora, nel regime nazionale successivo alla direttiva n. 2008/6/CE e anteriore a quello introdotto dalla novella del 2011, applicabile all’epoca dei fatti di causa, così come nel regime successivo a tale novella e antecedente alla L. n. 124 del 2017, a s.p.a. Poste Italiane resta riservato in via esclusiva, per il profilo d’interesse, il servizio della notificazione a mezzo posta degli atti processuali; e ciò si correla all’esclusivo riconoscimento del diritto speciale in virtù del quale la veridicità dell’apposizione della data mediante proprio timbro è presidiata dal reato di falso ideologico in atto pubblico, giacchè la si riferisce all’attestazione di attività compiute da un pubblico agente nell’esercizio delle proprie funzioni (tra varie, Cass. 4 giugno 2018, n. 14163 e 19 luglio 2019, n. 19547).

14.- A sostegno di tale regime, e, in particolare, dei vantaggi in cui esso si esprime, non sono dimostrate le ragioni di ordine pubblico o di pubblica sicurezza idonee a derogare, a norma dell’art. 8 della direttiva n. 97/67/CE, alla norma generale prevista all’art. 7 della direttiva modificata, nell’accezione che ne fornisce il diritto unionale.

14.1.- Per ricorrere alla deroga occorre difatti che lo Stato membro dimostri “l’esistenza di un interesse pubblico” (Corte giust. in causa C-545/17, Pawlak, punto 73). Quest’interesse, ha ammonito la Corte di giustizia (con la medesima sentenza, punto 74), si deve esprimere in una giustificazione oggettiva della deroga.

15.- La giurisprudenza di questa Corte assume, invece, si è visto, che nel diritto interno l’interesse pubblico consista nella forza fidefaciente degli atti redatti dall’operatore postale di Poste italiane, che si riverbera sulla funzione probatoria ancorata all’invio raccomandato.

Questa nozione d’interesse pubblico si risolve in una petizione di principio, perchè identifica la conseguenza dello status di una categoria di operatori postali e, quindi, il vantaggio loro attribuito, con la giustificazione oggettiva dell’attribuzione.

15.1.- Nè maggiori lumi si ricavano dalla relazione che ha accompagnato il D.Lgs. n. 58 del 2011, in cui si legge che le ragioni di ordine pubblico sono relative “al contenuto degli invii”, ricorrendo, anche in tal caso, a una mera tautologia.

15.2.- Non è quindi chiarito quali fossero le esigenze di ordine pubblico richiamate dal D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 4; quel che è chiaro è che la riserva risponde ancora all’esigenza di finanziare il servizio postale universale. Di là da un mero maquillage, difatti, il D.Lgs. n. 261 del 1999, art. 10 continua a stabilire, anche dopo la novella del 2011, che il fondo di compensazione, che è volto a garantire l’espletamento del servizio postale universale, è alimentato nel caso in cui il fornitore del predetto servizio non ricava “dalla fornitura del servizio universale e dai servizi in esclusiva di cui all’art. 4 entrate sufficienti a garantire l’adempimento degli obblighi gravanti sul fornitore stesso”.

Sicchè è ragionevole ritenere che le ragioni poste a sostegno della riserva siano ancora quelle del finanziamento del rifornitore del serviizo universale, benchè vietate dalla direttiva n. 2008/6/CE. 15.3.- La Corte di giustizia, del resto, facendo leva sulla considerazione che gli altri operatori “…dispongano dei mezzi organizzativi e personali adeguati” a recapitare gli atti processuali, ha ritenuto che mancasse la giustificazione oggettiva inerente a ragioni di ordine pubblico o di sicurezza pubblica a fronte di una norma di diritto nazionale – in quel caso, polacco – che riconosceva come equivalente alla presentazione di un atto processuale dinanzi all’organo giurisdizionale interessato soltanto il deposito di un simile atto presso un ufficio postale dell’unico operatore designato per fornire il servizio postale universale (Corte giust. in causa C-545/17, cit., punto 77).

16.- Da quanto sopra discende che, al momento dell’esecuzione della notificazione della quale si discute, la vigente direttiva n. 2008/6/CE imponeva già al legislatore italiano l’abolizione di qualsiasi riconoscimento, salvo il ricorrere di determinate, restrittive e rigorose condizioni, di diritti speciali o esclusivi a taluni operatori del servizio postale.

L’obbligo di adeguamento al diritto unionale così imposto era già incluso, per conseguenza, tra i principi del diritto nazionale e, con esso, la generale potenziale idoneità dell’operatore di poste private a compiere l’attività di notificazione di atti processuali, indipendentemente dal fatto che ancora pendesse per lo Stato italiano il termine, fissato al 31 dicembre 2010 dall’art. 2 della direttiva n. 2008/6/CE, per mettere “…in vigore le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi…” alla direttiva.

La circostanza che il diritto interno non si è compiutamente adeguato, fino alla L. n. 124 del 2017, a tale impostazione e ha mantenuto in capo a s.p.a. Poste italiane i suddetti diritti esclusivi e speciali non può conferire loro la forza di “sistema”, nel senso di far considerare radicalmente estranea a esso l’attività di notificazione postale di atti giudiziari da parte dell’operatore postale privato.

16.1.- La prevista astratta possibilità di tale attività rende di per sè riconoscibile la fattispecie della notificazione in quella eseguita da quell’operatore, anche sotto il profilo soggettivo (in base alle precisazioni di Cass., sez. un., nn. 14916 e 14917/16, cit., che ha esaminato il regime della notificazione del ricorso per cassazione, ma che ha dettato principi di chiaro valore espansivo). Non v’è quindi quella completa esorbitanza dallo schema generale degli atti di notificazione che ne sostanzia l’inesistenza giuridica (Cass., sez. un., 4 luglio 2018, n. 17533, punto 9.1.5), perchè l’attività svolta appartiene al tipo contemplato dal complessivo sistema normativo.

17.- Resta, tuttavia, la difformità di tale attività dalla concreta regolazione interna vigente. E, sotto tale profilo, rileva in particolare la mancata adozione della disciplina inerente al necessario titolo abilitativo (di cui, quindi, il soggetto operante nel caso di specie era sicuramente sprovvisto).

Il titolo abilitativo comporta la soggezione a un regime giuridico particolare, fonte di conferimento di diritti, ma anche di assunzione di obblighi specifici. Sicchè è la soggezione a tale regime che determina l’acquisizione dello status che fonda la distinzione tra operatori postali.

17.1.- Il che assume, ha precisato ancora la Corte di giustizia, una particolare valenza proprio con riguardo alle attività di notificazione di atti giudiziari, mediante le quali l’operatore è investito di prerogative inerenti ai pubblici poteri al fine di poter rispettare gli obblighi che incombono su di lui; “tali servizi mirano non già a rispondere a particolari esigenze di operatori economici o di taluni altri utenti particolari, bensì a garantire una buona amministrazione della giustizia, nella misura in cui essi permettono la notifica formale di documenti nel quadro di procedimenti giurisdizionali o amministrativi” (Corte giust. 16 ottobre 2019, cause C-4/18 e C5/18, Winterhoff e altro, punto 58).

Conforme è la giurisprudenza costituzionale, che ha fatto leva sul particolare statuto di regole al quale è assoggettato l’agente per la riscossione al fine di giustificare in relazione a esso il regime differenziato rispettivamente previsto per la notificazione diretta delle cartelle di pagamento, degli atti impositivi e dei ruoli dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14 e della L. 27 dicembre 2006, n. 296, art. 1, comma 161, (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175 e 24 aprile 2019, n. 104).

17.2.- Tutto ciò peraltro si risolve in una violazione di specifici vincoli normativi, che configura una mera nullità dell’attività notificatoria in questione; laddove l’astratta compatibilità della medesima col complessivo sistema normativo esclude che si possa parlare di inesistenza.

18.- In quanto nulla, la notificazione è sanabile e nel caso in esame è stata sanata per effetto della costituzione in giudizio dell’Equitalia.

19.- Il motivo va quindi respinto.

20.- Inammissibile è il secondo motivo di ricorso col quale Equitalia lamenta, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 3 e 5, , la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1, l’omesso esame e il difetto parziale di giurisdizione “in ordine ai provvedimenti emessi sulla scorta di sanzioni amministrative e contributi previdenziali versati la cui giurisdizione era quella del giudice ordinario”.

20.1.- Mancano, difatti, a fronte della specificazione dell’oggetto del contendere contenuta nella sentenza impugnata e riportata in narrativa, la puntuale indicazione e la descrizione del contenuto delle cartelle concernenti i contributi previdenziali, delle quali la ricorrente si limita a indicare due soli numeri.

21.- Inammissibile è, infine, il terzo motivo di ricorso, col quale si deduce l’omesso esame circa il fatto decisivo consistente nelle modalità di notificazione di cinque cartelle, giacchè, si sostiene, Equitalia e Agenzia delle entrate “giammai hanno allegato relate contenenti raccomandate spedite all’indirizzo di (OMISSIS)”, ossia a un indirizzo diverso da quello di effettiva residenza della contribuente.

21.1.- Il motivo è carente di specificità, giacchè non si evince che le cartelle enumerate in ricorso in relazione alla censura in questione siano giustappunto quelle sulle quali ha fatto leva il giudice d’appello, soprattutto considerando che la stessa ricorrente ha riferito in narrativa di aver notificato ben quattordici cartelle di pagamento, e di averne allegato gli estratti di ruolo relativi e le relate di notificazione.

22.- In definitiva, il ricorso va respinto, con l’affermazione del seguente principio di diritto:

“In tema di notificazione di atti processuali, posto che nel quadro giuridico novellato dalla direttiva n. 2008/6/CE del Parlamento e del Consiglio del 20 febbraio 2008 è prevista la possibilità per tutti gli operatori postali di notificare atti giudiziari, a meno che lo Stato non evidenzi e dimostri la giustificazione oggettiva ostativa, è nulla e non inesistente la notificazione di atto giudiziario eseguita dall’operatore di posta privata senza relativo titolo abilitativo nel periodo intercorrente fra l’entrata in vigore della suddetta direttiva e il regime introdotto dalla L. n. 124 del 2017, e tale nullità è sanabile per raggiungimento dello scopo per effetto della costituzione della controparte”.

22.1.- Le spese vanno compensate, in ragione del mutamento della giurisprudenza.

P.Q.M.
la Corte, a sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa le spese.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto, nei confronti della ricorrente, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2020


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-11-2019) 17-01-2020, n. 946

P.L. impugnava un estratto di ruolo in relazione alla cartella esattoriale n. (OMISSIS), relativa ad Irpef, Irap ed Iva, oltre accessori, per complessivi Euro 57.114,65, in ordine a maggiori tributi per omessi versamenti attinenti l’anno 2005, oltre sanzioni. Il contribuente contestava di non aver mai ricevuto la notifica della cartella di pagamento ed affermava che, in conseguenza, l’Amministrazione finanziaria era decaduta dal potere di azionare la pretesa tributaria.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

P.L., rappresentato e difeso, giusta procura speciale stesa a margine del ricorso, dall’Avv.to Rosario Marino, che ha indicato recapito PEC, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore alla piazza Garibaldi n. 326 in Napoli;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– controricorrente –

e contro

Equitalia Sud Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta mandato steso in calce dell’atto di costituzione, dagli Avv.ti Francesco Amodio, che ha indicato recapito PEC, e Giovanni Beatrice, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del secondo, alla via Nomentana n. 91 in Roma;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 302, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale di Napoli il 25.10.2013 e pubblicata il 29.11.2013;

Ascoltata, in Camera di consiglio, la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio.

Svolgimento del processo
P.L. impugnava un estratto di ruolo in relazione alla cartella esattoriale n. (OMISSIS), relativa ad Irpef, Irap ed Iva, oltre accessori, per complessivi Euro 57.114,65, in ordine a maggiori tributi per omessi versamenti attinenti l’anno 2005, oltre sanzioni. Il contribuente contestava di non aver mai ricevuto la notifica della cartella di pagamento ed affermava che, in conseguenza, l’Amministrazione finanziaria era decaduta dal potere di azionare la pretesa tributaria.

La Commissione Tributaria Provinciale di Napoli accoglieva il ricorso, rilevando che l’Incaricato per la riscossione, Equitalia Sud Spa, aveva prodotto tardivamente la documentazione relativa all’intervenuta notifica della cartella esattoriale.

L’Incaricato per la riscossione proponeva impugnazione innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Campania ed allegava nuovamente la documentazione relativa alla contestata notifica della cartella esattoriale. Il contribuente replicava affermando che non è consentito produrre nuove prove in appello nel giudizio tributario, e comunque la notifica doveva ritenersi invalida, in quanto effettuata nelle mani del padre, persona incapace perchè affetta dal morbo di Alzheimer. La CTR osservava che è consentita la produzione di nuovi documenti in appello quando gli stessi risultino indispensabili ai fini della decisione da assumere. Affermava, inoltre, la validità della notifica effettuata nelle mani del padre del ricorrente, “che sarebbe incapace perchè affetto dal morbo di Alzheimer” (sent. CTR, p. ult.) perchè “ogni contestazione in ordine alla sua correttezza avrebbe richiesto una previa querela di falso” (ibidem). In conseguenza accoglieva il ricorso e rigettava l’originaria impugnazione proposta dal contribuente, affermando la legittimità della cartella esattoriale.

Avverso la decisione assunta dalla CTR della Campania ha proposto ricorso per cassazione P.L., affidandosi a quattro motivi di impugnazione e proponendo anche contestuale istanza cautelare di sospensione degli effetti dell’atto, nonchè domanda di trattazione del giudizio in pubblica udienza. Resistono mediante controricorso L’Incaricato per la riscossione, Equitalia Sud Spa, e l’Ente impositore, l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione
Preliminarmente occorre osservare che la disciplina propria del giudizio tributario, dettata al D.P.R. n. 546 del 1992, art. 47, non prevede che la Cassazione possa essere investita della domanda cautelare di sospensione dell’atto impositivo impugnato. La Corte di legittimità del resto non è mai competente a decidere, salvo discipline speciali, in materia di istanza cautelare di sospensione degli effetti degli atti impugnati, neppure secondo quanto previsto dalla disciplina generale del codice di rito, cfr. art. 373 c.p.c.. In conseguenza l’istanza di sospensione degli effetti dell’impositivo atto impugnato, proposta dal ricorrente innanzi alla Suprema Corte, deve essere ritenuta inammissibile.

Inoltre non ricorrono, nel caso di specie, le condizioni previste dalla legge all’art. 375 c.p.c., u.c., (“particolare rilevanza della questione di diritto”), perchè il giudizio sia trattato in pubblica udienza.

1.1. – Con il primo motivo di impugnazione, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il contribuente lamenta la violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, perchè la relata di notifica della cartella esattoriale era stata prodotta da controparte soltanto in copia, e comunque alla stessa non era stata allegata la cartella esattoriale.

1.2. – Mediante il secondo mezzo di ricorso, introdotto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il contribuente contesta la violazione o falsa applicazione del D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 237, lett. a), per avere la CTR ritenuto valida la notificazione della cartella di pagamento sebbene effettuata in favore di persona diversa dal destinatario, senza invio della raccomandata informativa al destinatario.

1.3. – Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente afferma la nullità e/o inesistenza della notificazione della cartella di pagamento perchè i giudici del merito non hanno “affrontato il problema della avvenuta notifica all’indirizzo diverso del destinatario” (ric., p. 5).

1.4. – Mediante il quarto mezzo di ricorso il contribuente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione degli artt. 221, 222 e 335 c.p.c., per avere la CTR ritenuto legittima la notifica della cartella esattoriale effettuata nella mani del padre, persona incapace perchè affetta dal morbo di Alzheimer, ritenendo che ogni contestazione in materia dovesse farsi valere mediante querela di falso, essendo comunque stato richiesto nell’atto di appello (p. 13) che se la CTR “avesse ritenuto rilevante la relata di falso che sarà prodotta”, fosse domandato a controparte se intendesse valersene in giudizio e, per il caso di risposta positiva, che il giudizio fosse sospeso e le parti rimesse davanti al Tribunale ordinario per il relativo procedimento.

2.1. – 2.2. – 2.3. – Con i suoi primi tre motivi di ricorso, che possono essere trattati congiuntamente stante la loro stretta connessione, il ricorrente contesta vizi di regolarità della notifica della cartella esattoriale per cui è causa.

In particolare ne afferma la invalidità, in primo luogo, perchè l’Incaricato per la riscossione non ha prodotto in giudizio la copia della cartella esattoriale che assume di avere notificato. Inoltre, afferma la invalidità della notifica in conseguenza della consegna a persona diversa dal destinatario, senza che quest’ultimo sia stato poi avvertito mediante raccomandata informativa. Ancora, l’invalidità della notifica dipende dall’essere stata effettuata nelle mani del padre, persona diversa dal destinatario, ed alla (OMISSIS), mentre il domicilio dell’odierno ricorrente è alla (OMISSIS)/C. I motivi di ricorso appaiono in larga parte inammissibili, e devono valutarsi per il resto infondati. Il contribuente non illustra, invero, in quali ulteriori atti dei giudizi di merito abbia proposto le sue censure e con quali formule, avendo pure cura di annotare mediante quali atti li abbia diligentemente coltivati, in modo da consentire a questa Corte di legittimità la valutazione che le compete circa la tempestività e congruità delle critiche proposte, prima ancora di procedere a verificarne la decisività.

Completezza suggerisce peraltro di aggiungere che la notificazione dell’atto conseguente ad una pretesa tributaria può essere effettuata dall’Incaricato per la riscossione mediante il servizio postale, servendosi della raccomandata con ricevuta di ritorno, come espressamente sancito anche dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26. La Cassazione, del resto, ha anche avuto occasione di precisare come sia sufficiente, per il relativo perfezionamento “che la consegna del plico sia avvenuta presso il domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale, se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente… l’atto è valido… anche se manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma” (Cass. sez. V, sent. 27.5.2011, n. 11708; conforme sul punto: Cass. sez. V, sent. 6.6.2012, n. 9111). Inoltre, “non sussiste alcun onere probatorio dell’Agente per la riscossione avente ad oggetto l’esibizione in giudizio della copia delle cartelle nel loro contenuto integrale, nemmeno ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 4, che peraltro ne prevede la conservazione in alternativa alla “matrice” (la quale è l’unico documento che resta nella disponibilità dell’Agente nel caso in cui opti per la notificazione della cartella di pagamento nelle forme ordinarie o comunque con messo notificatore anzichè con raccomandata con avviso di ricevimento)” Cass. sez. III, sent. n. 10326 del 2014 (in senso conforme Cass. sez. III, sent. 7.5.2015, n. 9246, Cass. sez. VI-V, ord. 11.10.2018, n. 25292). Nel caso di specie deve pure rilevarsi che il contribuente non ha neppure allegato in che cosa l’estratto di ruolo (“matrice”) avrebbe avuto a differenziarsi dall’originale.

Del resto, la Suprema Corte ha pure opportunamente chiarito che “l’estratto di ruolo” o matrice, “è la fedele riproduzione della parte del ruolo relativa alla o alle pretese creditorie azionate verso il debitore con la cartella esattoriale”. Pertanto, quando l’estratto correttamente riporta “tutti gli elementi essenziali per identificare la persona del debitore, la causa e l’ammontare della pretesa creditoria… esso costituisce prova idonea dell’entità e della natura del credito portato dalla cartella esattoriale”, Cass. sez. III, sent. 8.6.2016, n. 11794. Infine, appare ancora opportuno ricordare la condivisibile giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui “in tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, mediante invio diretto della raccomandata con avviso di ricevimento da parte del concessionario, non è necessario l’invio di una successiva raccomandata informativa in quanto trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario, peraltro con esclusione della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 883, in quanto privo di efficacia retroattiva, e non quelle della L. n. 890 del 1982”, Cass. sez. VI-V, ord. 10.4.2019, n. 10037.

In merito all’affermata divergenza dell’indirizzo del ricorrente rispetto a quello del padre, poi, occorre innanzitutto osservare che non ci troviamo in presenza di indirizzi totalmente diversi ma, al più, di un indirizzo di notifica parzialmente incompleto, perchè indicato in (OMISSIS), anzichè (OMISSIS). Invero il contribuente non illustra come abbia inteso dimostrare che ci troviamo in presenza di due diverse abitazioni e non, ad esempio, della mancata indicazione della scala in relazione al medesimo immobile. In realtà la CTR non incorre nel vizio di omesso esame lamentato dal ricorrente, perchè afferma testualmente che “la notifica” è stata effettuata “presso il domicilio dell’appellato nelle mani di suo padre” (sent. CTR, p. ult.). Il ricorrente non si confronta con l’affermazione del giudice impugnato, mentre sarebbe stato suo specifico onere processuale indicare come avesse dimostrato che l’indirizzo proprio e quello del padre differivano, in quanto relativi ad abitazioni diverse, servendosi ad esempio delle certificazioni anagrafiche, mentre nel ricorso per cassazione si è limitato ad affermare che “in uno dei certificati medici relativo al P.P. (padre del destinatario) ed esattamente quello riferito all’anno 2010 viene riportato come indirizzo quello di (OMISSIS)” (ric., p. 5 s.). L’allegazione risulta peraltro inammissibile per difetto di specificità, perchè il ricorrente neppure prospetta di avere allegato il certificato e, soprattutto, non indica in quale parte dei fascicoli dei giudizi di merito esso sia rinvenibile.

I primi tre motivi di ricorso devono essere pertanto respinti.

2.4. – Con il quarto motivo di impugnazione il ricorrente contesta che la CTR ha ritenuto legittima la notificazione della cartella esattoriale effettuata nelle mani del padre, persona però incapace, perchè affetta dal morbo di Alzheimer, e per non aver consentito la proposizione della querela di falso, sebbene abbia poi affermato che fosse questa l’unica modalità per contestare la validità della notifica.

In proposito occorre subito rilevare come dal ricorrente non sia neppure allegato che il padre, il quale ha ricevuto la notificazione, si trovasse, all’epoca in cui la stessa è stata recapitata, in condizione di incapacità dichiarata.

Il rigetto della contestazione proposta dal ricorrente da parte del giudice dell’appello, invero, appare fondato, anche se risulta opportuno correggere la motivazione. Infatti, questa Corte di legittimità, come segnalato anche dall’Incaricato per la riscossione nel suo controricorso, ha già avuto occasione di chiarire che “sulla validità della notificazione di un atto (nella specie ingiunzione fiscale), mediante consegna di copia a mani di familiare capace… non incide la circostanza che il destinatario dell’atto medesimo si trovi in situazione di incapacità naturale”, Cass. sez. I, sent. 18.1.1979, n. 352, e non ha poi mancato di precisare che “in materia di notificazioni, il limite di validità… va individuato nella palese incapacità dell’”accipiens” (legalmente equiparata all’immaturità di un minore di 14 anni), dovendosi escludere che l’ufficiale giudiziario sia tenuto a compiere indagini particolarmente approfondite sulla capacità di quest’ultimo, potendosi limitare ad un esame superficiale. Nè assume rilievo, quale causa di nullità della predetta notificazione, la prova della mera incapacità naturale, temporanea, del consegnatario. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto invalida la notificazione di un avviso di accertamento avvenuta a mani della moglie convivente del contribuente, la quale, affetta da una “grave forma di ipertensione”, non immediatamente percepita dall’ufficiale giudiziario, aveva poi dimenticato di consegnare l’atto al destinatario)”, Cass. sez. V, sent. 12.3.2014, n. 5669.

Anche il quarto motivo di ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

In definitiva, il ricorso deve essere respinto.

Le spese di lite seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo, in considerazione del valore della causa, delle ragioni della decisione e della peculiarità della controversia.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto da P.L., che condanna al pagamento delle spese di lite in favore delle costituite controricorrenti, e le liquida in complessivi Euro 6.000,00, oltre spese prenotate a debito, in favore dell’Agenzia delle Entrate, ed Euro 6.000,00, oltre spese generali nella misura del 15% ed esborsi per Euro 200,000, in favore di Equitalia Sud Spa.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 21 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2020


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-12-2019) 12-02-2020, n. 3394

Secondo il chiaro insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. 15/07/2016, n. 14594): “In caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa.”.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

Dott. DI PAOLA Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 1444/2015 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato.

– ricorrente –

contro

BANCA ADRIA – CREDITO COOPERATIVO DEL DELTA SOC. COOP., rappresentata e difesa dall’avv. Augusto Fantozzi, dall’avv. Roberto Tieghi, dall’avv. Roberto Altieri e dall’avv. Daniela Cutarelli, con domicilio eletto presso il loro studio in Roma, in via Sicilia, n. 66. – controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Veneto, sezione n. 31, n. 34/31/2013, pronunciata il 28/10/2013, depositata il 20/11/2013.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 4 dicembre 2019 dal Consigliere Dott. Guida Riccardo;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. De Matteis Stanislao che ha depositato requisitoria scritta in forma di memoria, senza rilievi delle parti costituite, e ha concluso per l’accoglimento del ricorso;

udito l’avv. Barbara Tidore per l’Avvocatura Generale dello Stato;

udito l’avv. Daniela Cutarelli per la controricorrente.

Svolgimento del processo
1. La Banca contribuente, con separate istanze, chiese il rimborso della maggiore IRAP, versata cautelativamente per le annualità 2003 e 2004, rispetto a quella dovuta in applicazione dell’aliquota del 4,25% del D.Lgs. n. 446 del 1997, ex art. 16, comma 1, in luogo di quella del 5,25%, introdotta con la L.R. Veneto n. 34 del 2002 e L.R. Veneto n. 38 del 2003.

Perfezionatosi il silenzio-rifiuto dell’Amministrazione finanziaria, la contribuente presentò due distinti ricorsi alla Commissione tributaria provinciale di Rovigo che, nel contraddittorio dell’ufficio, ne dispose la riunione e li accolse, con sentenza n. 75/2010.

2. L’Agenzia ha interposto appello ed ha chiesto, in via principale, la riforma della sentenza di primo grado, per effetto dell’applicazione dell’aliquota IRAP del 5,25%, e, in subordine, l’applicazione dell’aliquota del 4,75% prevista, per le banche e le società finanziarie, del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 45, comma 2.

3. La Commissione tributaria regionale del Veneto, con la sentenza in epigrafe, ha integralmente rigettato l’appello dell’Agenzia, confermando la pronuncia di primo grado che, dal canto suo, aveva fissato nella misura del 4,25% l’aliquota IRAP dovuta dall’istituto di credito per gli anni 2003, 2004.

Il giudice d’appello ha rilevato che: (a) la L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 3, comma 1, lett. a), aveva disposto la sospensione di ogni norma emanata dalle Regioni, in materia di aliquote IRAP, in data successiva ai 29 settembre 2002, quindi anche l’aumento dell’aliquota sancito con le leggi reg. Veneto nn. 34/2002, 38/2003, per le annualità in contestazione; (b) la sospensione degli aumenti delle maggiorazioni delle aliquote IRAP di cui alla citata L. n. 289 del 2002, art. 3, comma 1, lett. a), era stata confermata dalla L. n. 350 del 2003, art. 2, comma 21, la cui legittimità costituzionale era stata riconosciuta dalla Corte Cost. (sentenza n. 381/2004).

Perciò ha negato l’applicabilità dell’aliquota del 4,75% (della quale l’Agenzia aveva chiesto l’applicazione in via subordinata), rilevando che, per un verso, la citata L. n. 289 del 2002, art. 3, comma 1, lett. a), aveva disposto la sospensione degli aumenti di un punto (dal 4,25% al 5,25%), delle aliquote IRAP, per gli anni 2003 e 2004, “che non siano confermativi delle aliquote in vigore per l’anno 2002”, e che, per altro verso, le leggi reg. Veneto nn. 34/2002, 38/2003 non erano confermative della precedente aliquota del 4,75%, ma prevedevano la maggiorazione di un punto percentuale, sospesa dalla citata L. n. 289 del 2002.

4. L’Agenzia ha proposto ricorso per la cassazione, sulla base di un unico motivo, cui la Banca ha resistito con controricorso.

5. La causa è stata trattenuta in decisione al termine della pubblica udienza del 10/07/2019 e, successivamente alla camera di consiglio di questa Corte, svoltasi lo stesso giorno, la difesa della banca, in data 19/07/2019, ha depositato un’istanza di rimessione della causa sul ruolo al fine di consentire al Collegio di valutare, nel contraddittorio delle parti, la tempestività del ricorso per cassazione proposto dall’Agenzia delle entrate.

6. La causa è stata quindi rimessa sul ruolo, con fissazione di pubblica udienza, al fine di valutare, nel contraddittorio delle parti, l’istanza della contribuente.

Motivi della decisione
a. Preliminarmente, la Corte ritiene non fondata l’eccezione della Banca d’inammissibilità del ricorso, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, secondo cui il ricorso deve contenere l’esposizione sommaria dei fatti di causa. Disposizione – quest’ultima – che, nella prospettiva della contribuente, sarebbe stata disattesa in quanto l’ufficio, nella stesura del ricorso per cassazione, avrebbe adottato l’inammissibile tecnica del c.d. “ricorso farcito”, attraverso la riproduzione degli gli atti di causa, senza compiere la doverosa sintesi dei fatti rilevanti per la formulazione delle ragioni dell’impugnazione.

E’ ius receptum, al quale il Collegio aderisce, che: “(…) la tecnica di redazione dei cosiddetti ricorsi “assemblati” o “farciti” o “sandwich” implica una pluralità di documenti integralmente riprodotti all’interno del ricorso, senza alcuno sforzo di selezione o rielaborazione sintetica dei loro contenuti. Tale eccesso di documentazione integrata nel ricorso non soddisfa la richiesta alle parti di una concisa rielaborazione delle vicende processuali contenuta nel codice di rito per il giudizio di cassazione, viola il principio di sinteticità che deve informare l’intero processo (anche in ragione del principio costituzionale della ragionevole durata di questo), impedisce di cogliere le problematiche della vicenda e comporta non già la completezza dell’informazione, ma il sostanziale “mascheramento” dei dati effettivamente rilevanti per le argomentazioni svolte, tanto da risolversi, paradossalmente, in un difetto di autosufficienza del ricorso stesso. La Corte di cassazione, infatti, non ha l’onere di provvedere all’indagine e alla selezione di quanto è necessario per la discussione del ricorso. (…) (sull’inammissibilità dei cosiddetti ricorsi “farciti” o “sandwich” è sufficiente qui rinviare alle considerazioni espresse da questa Corte nelle pronunce n. 784 del 2014; n. 22792 e n. 10244 del 2013; n. 17447 del 2012; n. 5698 del 2012, sezioni unite; n. 1380 del 2011; e n. 15180 del 2010). Nella specie, tuttavia, può ritenersi che, nonostante la sua materiale integrazione nel ricorso, tale imponente coacervo di documenti riprodotti integralmente – in quanto facilmente individuabile e isolabile – possa agevolmente espungersi dal ricorso stesso, riconducibile perciò a dimensioni e contenuti rispettosi del canone di sinteticità configurato nel modello legislativo del giudizio per cassazione.” (Cass. 18/09/2015, n. 18363; in senso conforme: Cass. 3/02/2004, n. 1957).

Nel caso in esame, ritiene la Corte che, malgrado nel ricorso siano riprodotti, con la tecnica del “copia e incolla”, gli atti del giudizio di merito, ciò che ne appesantisce la lettura, tuttavia, superate queste interpolazioni, si intravede un certo, sufficiente sforzo di sintesi e di selezione dei fatti salienti della vicenda processuale.

1. La banca, come suaccennato, nella memoria del 18/07/2019, ha eccepito la tardività della notifica, del ricorso per cassazione dell’Agenzia.

1.1. L’eccezione è fondata.

Secondo il chiaro insegnamento delle sezioni unite di questa Corte (Cass. sez. un. 15/07/2016, n. 14594): “In caso di notifica di atti processuali non andata a buon fine per ragioni non imputabili al notificante, questi, appreso dell’esito negativo, per conservare gli effetti collegati alla richiesta originaria deve riattivare il processo notificatorio con immediatezza e svolgere con tempestività gli atti necessari al suo completamento, ossia senza superare il limite di tempo pari alla metà dei termini indicati dall’art. 325 c.p.c., salvo circostanze eccezionali di cui sia data prova rigorosa.”.

Nella fattispecie concreta i requisiti di immediatezza e tempestività, indicati dalle sezioni unite, mancano sicuramente in quanto: (a) la sentenza della CTR è stata depositata il 20/11/2013; (b) conseguentemente il c.d. termine lungo, ex art. 327 c.p.c., comma 1, pari ad un anno e quarantasei giorni, per proporre il ricorso per cassazione scadeva il 5/01/2015; (c) la notifica a mezzo posta, iniziata il 2/01/2015, non è andata a buon fine: in particolare, nell’avviso di ricevimento, l’addetto al recapito attesta, in data 8/01/2015, che il destinatario della notifica (Banca Adria) è “trasferito”; (d) l’Avvocatura dello Stato non ha indicato la data in cui ha appreso dell’esito negativo del primo tentativo di notifica; (e) il processo notificatorio (attuato tramite ufficiale giudiziario, che si è avvalso del servizio postale), è stato ripreso, tardivamente, soltanto il 2/04/2015 e la notifica è andata a buon fine l’8/04/2015.

2. Il ricorso di conseguenza è inammissibile per tardività della notifica, il che esime il Collegio dall’esame dell’unico motivo e comporta, altresì, la condanna dell’Agenzia al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

3. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 comma 1-quater, (Cass. 29/01/2016, n. 1778).

P.Q.M.
la Corte dichiara inammissibile il ricorso, condanna l’Agenzia delle entrate a corrispondere alla controricorrente le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.700,00, a titolo di compenso, oltre a Euro 200,00, per esborsi, al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15% del compenso, e agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 4 dicembre 2019.

Depositato in cancelleria il 12 febbraio 2020