Comm. trib. regionale Lazio Roma, Sent., 02.08.2022, n. 3514

CTR-Lazio-n.-3514-del-02-agosto-2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 25/05/2022) 27/07/2022, n. 23435

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Presidente –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. PENTA Andrea – Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 26210-2021 R.G. proposto da:

V.C., rappresentato e difeso, per procura speciale in calce al ricorso, dall’avv. Amedeo SCIARRONE, ed elettivamente domiciliato in Roma, alla via Conte Rosso, n. 5, presso lo studio legale dell’avv. Salvatore VITALE;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2630/08/2021 della Commissione tributaria regionale della SICILIA, depositata il 10/03/2021;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 25/05/2022 dal Consigliere Dott. Lucio LUCIOTTI.

Svolgimento del processo
che:

1. In controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento impoesattivo di maggiori redditi d’impresa, conseguiti da V.C., quale titolare dell’omonima ditta, per l’anno d’imposta (OMISSIS), con la sentenza impugnata la CTR rigettava l’appello proposto dal predetto contribuente avverso la sfavorevole sentenza di primo grado ritenendo, per quanto ancora qui di interesse, regolare la notifica diretta postale dell’atto impositivo.

2. Avverso tale statuizione il contribuente propone ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo, cui non replica l’intimata.

3. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio, all’esito del quale il ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

1. Con il motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 14 del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e artt. 137 c.p.c. e ss..

2. Il motivo, incentrato sull’inesistenza della notifica dell’avviso di accertamento “in quanto effettuata in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e degli artt. 137 c.p.c. e ss. perchè effettuata da un soggetto non autorizzato dall’ufficio”, ovvero tramite un agente postale e non da un messo notificatore speciale, è manifestamente infondato e va rigettato.

3. Invero, diversamente da quanto si sostiene nel ricorso, il D.L. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. n. 122 del 2010 e succ. modific., nulla ha innovato riguardo alla notifica dell’atto impositivo, limitandosi a prevedere, in considerazione della necessità di operare la “concentrazione della riscossione nell’accertamento”, come espressamente recita la rubrica della disposizione in esame, che l’avviso di accertamento rechi anche l’intimazione ad adempiere agli obblighi di pagamento contenuti nell’atto c.d. impoesattivo.

4. Nessuna modifica è stata apportata alla L. n. 890 del 1982, art. 14 che continua a prevedere “la notificazione degli avvisi (…) che per legge devono essere notificati al contribuente”, “a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, senza alcuna distinzione tra i vari tipi di atti, impositivi o impoesattivi, sicchè, in mancanza di espressa modifica legislativa e di ragioni sistematiche che giustifichino una diversa interpretazione, ed anche alla stregua di quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle sentenze n. 175 del 2018 e n. 104 del 2019 (rispettivamente in materia di notifica diretta della cartella di pagamento e dell’avviso di accertamento), secondo cui, “nella fattispecie della notificazione “diretta”, vi è un sufficiente livello di conoscibilità – ossia di possibilità che si raggiunga, per il notificatario, l’effettiva conoscenza dell’atto – “stante l’avvenuta consegna del plico (oltre che allo stesso destinatario, anche alternativamente) a chi sia legittimato a riceverlo, sicchè il “limite inderogabile” della discrezionalità del legislatore non è superato e non è compromesso il diritto di difesa del destinatario della notifica””, deve ritenersi possibile e legittima la notifica diretta a mezzo posta degli avvisi di accertamento impoesattivi, previsti dal citato D.L. n. 78 del 2010, art. 29 convertito. Nè a diversa conclusione può pervenirsi desumendo, come fa il ricorrente, dalla precisazione contenuta nell’art. 29 citato circa la facoltà di notificare “mediante raccomandata con avviso di ricevimento” gli atti “successivi” all’avviso di accertamento in tutti i casi in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base a questi ultimi, una implicita abrogazione della facoltà riconosciuta all’amministrazione finanziaria di procedere alla notifica diretta a mezzo posta degli avvisi di accertamento, prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 14. Invero, il citato art. 29, comma 1, lett. a), non si pone affatto su un piano di incompatibilità logica o di implicita contraddizione con la più generale previsione di cui al citato art. 14 (riferito agli “avvisi” e agli “altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente”) e nemmeno prevede che la notificazione a mezzo posta è consentita “solo” per gli atti successivi all’avviso di accertamento, come erroneamente afferma il ricorrente a pag. 2 della memoria, ma, al contrario, disponendo che la notificazione di tali atti può essere effettuata “anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento”, rende evidente l’intento del Legislatore di specificare che anche per queste nuove tipologie di atti, ovvero i c.d. “atti successivi” (non è più prevista infatti l’emissione della cartella di pagamento la cui modalità di notifica è prevista dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26) è attribuita all’amministrazione fiscale la facoltà di procedere alla loro notificazione mediante l’utilizzo della più snella modalità costituita dall’invio diretto a mezzo raccomandata postale con avviso di ricevimento.

5. Da quanto fin qui detto discende la regolarità della notifica al contribuente dell’avviso di accertamento impoesattivo con la conseguenza che il ricorso va rigettato senza necessità di provvedere sulle spese processuali in mancanza di costituzione in giudizio dell’intimata.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 25 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2022


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 24/05/2022) 11/07/2022, n. 21884

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Primo Presidente f.f. –

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 21096/2018 R.G. proposto da:

SPOT LIGHT OUTDOOR S.R.L. (cessionaria del compendio aziendale della ditta individuale Spot Light di C.A.), in persona del legale rappresentante C.A., nonchè C.A. in proprio, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEGLI AVIGNONESI N. 5, presso lo studio dell’avvocato ENRICO SOPRANO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALESSANDRO LIMATOLA;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI (OMISSIS), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI APPENNINI N. 46, presso lo studio dell’avvocato LUCA LEONE e rappresentato e difeso dagli avvocati MARIA ANNA AMORETTI e FABIO MARIA FERRARI;

ELPIS S.R.L., IN LIQUIDAZIONE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUCREZIO CARO N. 63, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO CASTIELLO e rappresentata e difesa dall’avvocato SANDRO MICELISOPO;

– controricorrenti –

avverso la SENTENZA della COMM.TRIB.REG. della CAMPANIA n. 191/2018 depositata il 10/01/2018;

Udita la relazione della causa svolta – tenutasi ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito, con modificazioni, nella L. n. 176 del 2020 (ed oggetto di successive proroghe) – nella camera di consiglio del 24/05/2022 dal Consigliere ENZO VINCENTI.

Svolgimento del processo
1. – Con ricorso affidato a quattro motivi, illustrati da memoria, C.A., in proprio e nella qualità di legale rappresentante della Spot Light Outdoor s.r.l., ha impugnato la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, resa pubblica il 10 gennaio 2018, che, in accoglimento dell’appello proposto dal COMUNE DI (OMISSIS) e in integrale riforma della sentenza di primo grado, riteneva legittimo il silenzio-diniego della resistente Amministrazione comunale rispetto all’istanza di rimborso del canone sostitutivo dell’imposta sulla pubblicità, versato D.Lgs. n. 446 del 1997, ex art. 62, per gli anni dal 2009 al 2013.

2. – La Commissione regionale, a fondamento della decisione, disattendeva, anzitutto, l’eccezione di inammissibilità dell’appello, notificato dal COMUNE DI (OMISSIS) in data 20 settembre 2016, rilevando che la notifica della sentenza di primo grado – effettuata dal contribuente in data 22 aprile 2016 presso il Servizio di Polizia Amministrativa, in via (OMISSIS), a mani proprie di un soggetto non individuato, invece che presso il domicilio eletto in primo grado (ossia, presso il Servizio Gestione IMU Secondaria e altri Tributi, in (OMISSIS), essendosi il Comune costituito in giudizio in persona del Dirigente di detto Servizio), era affetta da nullità per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 17, (di seguito anche solo: proc. trib.) e, quindi, inidonea a far decorrere il termine “breve”, ex art. 51 proc. trib., per l’impugnazione della decisione, con conseguente tempestività della proposizione del gravame, notificato entro la scadenza del termine “lungo” di impugnazione, previsto dall’art. 327 c.p.c..

3. – Nel merito, il giudice di secondo grado riteneva che, con la deliberazione n. 419/1999, il Comune non avesse istituito, in luogo dell’imposta comunale sulla pubblicità (ICP), il canone per l’installazione dei mezzi pubblicitari (CIMP) D.Lgs. n. 446 del 1997, ex art. 62, bensì, in aggiunta a detta imposta, il canone per la locazione dei luoghi pubblici necessari alla installazione degli impianti, in sostituzione della tassa per l’occupazione di spazi di aree pubbliche.

4. – Hanno resistito, con distinti controricorsi, sia il COMUNE DI (OMISSIS), che la società concessionaria Elpis s.r.l. in liquidazione.

5. – Il ricorso è stato assegnato a queste Sezioni Unite, ex art. 374 c.p.c., comma 2, a seguito dell’ordinanza interlocutoria n. 3984 dell’8 febbraio 2022 della Quinta Sezione civile, che, in riferimento alla disciplina del giudizio tributario sulla notificazione dell’atto processuale (e, segnatamente, della sentenza di primo grado) effettuata ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16 e 17, ha ravvisato l’esistenza di un contrasto di giurisprudenza o, comunque, di concorrenti questioni di massima di particolare importanza.

6. – Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, (convertito, con modificazioni, nella L. n. 176 del 2020) e D.L. n. 228 del 2021, art. 16, (convertito, con modificazioni, nella L. n. 15 del 2022), con le quali ha chiesto che venga accolto il primo motivo di ricorso, restando assorbito l’esame degli altri motivi.

7. – La parte ricorrente ha depositato ulteriore memoria.

Motivi della decisione
8. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione o falsa applicazione degli artt. 17 e 51 proc. trib., per avere la Commissione Tributaria Regionale della Campania erroneamente disatteso l’eccezione di inammissibilità dell’appello, proposto dal COMUNE DI (OMISSIS) il 20 settembre 2016, ben oltre il termine di sessanta giorni decorrente dalla rituale notifica della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli, avvenuta il 22 aprile 2016.

Il giudice di secondo grado, infatti, ha ritenuto che, in base a quanto disposto dal citato art. 17, la sentenza di primo grado andava notificata, anzitutto, presso il domicilio eletto dal COMUNE DI (OMISSIS) – dunque, presso il Servizio Gestione IMU Secondaria e altri Tributi, in (OMISSIS), essendosi il Comune costituito in giudizio in persona del Dirigente di detto Servizio – e, soltanto “in mancanza”, presso la residenza o la sede dichiarata dalla parte all’atto della costituzione in giudizio. Di qui, pertanto, la nullità – affermata dalla Commissione tributaria regionale della notifica della sentenza di primo grado “effettuata mediante consegna a mani proprie di un soggetto non individuato presso il Servizio di Polizia Amministrativa del COMUNE DI (OMISSIS) in via (OMISSIS) – dunque, a persona diversa dal destinatario, in luogo diverso dal domicilio eletto”.

La parte ricorrente sostiene che, contrariamente a quanto opinato dal giudice di appello, l’art. 17 proc. trib. consente, ai fini della notificazione dell’atto processuale, la “consegna a mani proprie, ovvero in luogo diverso da quello del domicilio eletto in giudizio”, sicchè tale modalità di notificazione, “secondo il chiaro tenore letterale della norma…, è sempre fatta salva, anche quando la parte abbia provveduto ad eleggere domicilio in un luogo diverso”.

Del resto, una siffatta lettura della disposizione in esame sarebbe in linea con il principio, affermato in giurisprudenza (si citano Cass. n. 5504/2007, Cass. n. 3746/2010 e Cass. n. 1528/2017), per cui “la salvezza della consegna in mani proprie della parte rappresenta la modalità di comunicazione e notificazione di atti e provvedimenti alla quale si può sempre ricorrere”.

Ne deriva, ad avviso della parte ricorrente, la validità della notifica della sentenza di primo grado effettuata, con “racc.ta ricevuta… in data 22.04.2016”, “al COMUNE DI (OMISSIS) presso il Servizio di Polizia Amministrativa”, dove era stata “indirizzata l’istanza di rimborso delle somme dovuto a titolo di CIMP”, nonchè il ricorso innanzi alla Commissione tributaria provinciale di Napoli, giacchè detto Servizio era il “soggetto espressamente preposto dall’ente alla gestione del procedimento relativo all’installazione di impianti pubblicitari sul suolo pubblico e, quindi, pienamente abilitato alla ricezione degli atti”.

9. – Con il secondo mezzo è dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, costituito dalla circostanza che gli avvisi di pagamento inviati dalla concessionaria Elpis S.r.l., in liquidazione, alla Spot Light avevano a oggetto richieste di riscossione del canone per l’installazione di mezzi pubblicitari e, dunque, proprio il canone di pubblicità di cui al D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 62.

10. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c., per avere la Commissione tributaria regionale escluso che il COMUNE DI (OMISSIS) avesse introdotto il CIMP, ancorchè lo stesso ente locale, nel costituirsi in giudizio in primo grado, avesse “ammesso di avere escluso, con la deliberazione consiliare n. 419/1999, l’imposta comunale sulla pubblicità, sostituendola con il CIMP”.

11. – Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, artt. 52 e 62, per avere il giudice di appello territoriale negato che il COMUNE DI (OMISSIS) avesse introdotto il CIMP di cui al citato art. 62, affermando che il pagamento era stato intimato per la locazione dei luoghi pubblici necessari all’installazione degli impianti pubblicitari che, ove dovuto, andava ad affiancarsi alla originaria imposta comunale sulla pubblicità istituita con il D.Lgs. n. 507 del 1993, rimasta invariata nel tempo e mai abrogata dall’ente locale.

12. – Il primo motivo è fondato, con conseguente assorbimento dell’esame degli ulteriori motivi di ricorso.

13. – Con esso viene proposta, al di là del tenore formale della rubrica (poichè è alla sostanza effettiva del motivo – se congruamente strutturato in forza delle indicazioni che la stessa parte ricorrente abbia fornito a sostegno della denuncia – che deve aversi riguardo: Cass., S.U., 24 luglio 2013, n. 17931), una censura di error in iudicando de modo procedendi, che è pur sempre denuncia di un error in procedendo, poichè l’attività di interpretazione delle disposizioni processuali implicate è comunque orientata da un “fatto” che si colloca all’interno del processo.

Lo scrutinio rimesso a questa Corte si avvale, quindi, anche dell’accesso diretto agli atti del giudizio di merito, proprio in forza di quei poteri di giudice del “fatto processuale” che la natura del vizio dedotto impone di esercitare.

14. – Parte ricorrente ha evidenziato in fatto (p. 7. del ricorso) di aver “provveduto a notificare la sentenza della CTP di Napoli, con racc.ta ricevuta dal COMUNE DI (OMISSIS) in 22.04.2016”; indicazione, questa, che trova riscontro, anzitutto, nella sentenza impugnata, ove (p. 2) si dà conto dell’eccezione di inammissibilità dell’appello proposta dalla Spot Light di C.A. in ragione della notifica della sentenza di primo grado “con raccomandata del 15 aprile 2016, ricevuta dal COMUNE DI (OMISSIS) in data 22 aprile 2016 e depositata presso la Commissione Tributaria Provinciale di Napoli il 28 aprile 2016”.

Nel fascicolo d’ufficio della Commissione Regionale si rinviene copia della raccomandata con cui il C. il 15 aprile 2016 ha inviato al “COMUNE DI (OMISSIS) – Direzione Centrale Sviluppo, Ricerca e Mercato del lavoro – Servizio di Polizia Amministrativa”, in “Via (OMISSIS) – 80133 Napoli” (oltre che alla Elpis s.r.l. in liquidazione”) la sentenza n. 3477 del 26 febbraio 2016 della Sezione n. 23 della Commissione Tributaria Provinciale di Napoli; sul relativo avviso di ricevimento (n. 14599002) è presente il timbro con la seguente dicitura (tutta in carattere maiuscolo): “COMUNE DI (OMISSIS) – Pervenuto il 22 apr. 2016 – Protocollo generale”.

La Direzione Centrale Sviluppo, Ricerca e Mercato del lavoro – Servizio di Polizia Amministrativa del COMUNE DI (OMISSIS), sita in Via (OMISSIS), è – come incontestatamente dedotto dalla parte ricorrente (p. 12 del ricorso) e come risulta dagli atti del giudizio di merito – l’ufficio dell’amministrazione comunale al quale il C., all’epoca titolare della ditta individuale Spot Light, aveva rivolto istanza di rimborso degli importi indebitamente versati a titolo di canone sostitutivo dell’imposta comunale sui mezzi pubblicitari per gli anni dal 2009 al 2013, nonchè l’ufficio nei cui confronti era stato indirizzato il ricorso di primo grado avverso il silenzio rifiuto formatosi sulla predetta istanza.

15. – Tali emergenze processuali e il “fatto processuale” al quale esse danno evidenza – sorretti dalle presupposte deduzioni e indicazioni di parte ricorrente (così da rendere priva di consistenza l’eccezione di inammissibilità del motivo per difetto di autosufficienza sollevata dalla Elpis s.r.l. in liquidazione) indirizzano la delibazione di queste Sezioni Unite verso la quaestio iuris che si palesa rilevante ai fini della decisione, perchè in stretta connessione logico-giuridica con la fattispecie concreta.

Lo scrutinio del motivo di ricorso è orientato, infatti, dall’avvenuta notifica, direttamente tramite il servizio postale, senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario, della sentenza di primo grado all’ente locale (amministrazione comunale) non presso la sede dell’ufficio tributi, in persona del cui dirigente l’ente medesimo si è costituito in giudizio, ma presso la sede, diversa, di altro ufficio comunale: ufficio già destinatario dell’istanza di rimborso avanzata dal contribuente e che non aveva emesso l’atto richiesto.

Resta, quindi, fermo il principio – armonico rispetto alle funzioni ordinamentali e alle attribuzioni processuali proprie di questa Corte di legittimità – per cui la funzione nomofilattica non vive di astrattismi, ma guarda necessariamente all’oggetto della lite, siccome volta a dare vita ad “un principio di diritto legato all’orizzonte di attesa della fattispecie concreta” (Cass., S.U., 22 maggio 2018, n. 12564).

Del resto, è carattere consustanziale all’esercizio della giurisdizione questa osmosi tra interpretazione della legge e il fatto – la vicenda della vita o, come nel caso in esame, la vicenda del processo – portato dinanzi al giudice, la quale alimenta e dà consistenza alla regola del caso concreto, ossia quella regola che, ove provenga dal giudice della nomofilachia, si pone, nell’ottica valoriale della certezza del diritto e della sicurezza giuridica, a presidio di un trattamento uniforme dei cittadini dinanzi al giudice (quale precipitato immediato del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost.) ed è tale da potersi accreditare come “precedente”, ossia come regola “forte” di decisione di casi a venire, elevandosi, dunque, “a criterio e misura della prevedibilità e calcolabilità riguardo alla decisione di controversie future” (Cass., S.U., 28 gennaio 2021, n. 2061).

16. – Dunque, è il “fatto processuale” innanzi circoscritto a delimitare l’area di indagine sul tema delle modalità e del luogo della notificazione della sentenza nell’ambito del giudizio di merito (ma – giova precisare – tanto vale anche in riferimento alla notificazione degli atti introduttivi del primo e secondo grado dinanzi alle Commissioni tributarie).

E l’indagine intercetta il quesito, prospettato dall’ordinanza interlocutoria n. 3984/2022 della Quinta Sezione, con cui viene sollevato il seguente interrogativo: se, in tema di notificazioni nel processo tributario, sia rituale, o meno, la consegna della sentenza di primo grado a un ufficio dell’ente locale che non sia ubicato anche nella sua sede principale indicata negli atti difensivi, ma sia comunque riconducibile all’ufficio che ha emanato l’atto impositivo impugnato o (come nella specie) non ha emanato l’atto richiesto.

Quesito che occorre, comunque, calibrare in ragione, essenzialmente, dell’accertato “fatto processuale” e, dunque, alla luce di una vicenda in cui la sentenza di primo grado è stata notificata dal contribuente direttamente tramite il servizio postale ordinario, a mezzo raccomandata ordinaria.

17. – A tal riguardo, la Sezione rimettente evidenzia che, nella giurisprudenza di legittimità, si registra un solo precedente – Cass., 8 ottobre 2010, n. 20851 – che, affrontando il tema della notificazione presso un ufficio periferico dell’ente comunale impositore, ha affermato “la validità della notifica indirizzata all’amministrazione, in sede diversa da quella legale”. Tuttavia, si precisa nell’ordinanza interlocutoria, il precedente citato “non risolve la questione della validità della consegna a mani anche se non disposta al legale rappresentante dell’ente locale”, ritenuta, invece, affetta da nullità, per violazione dell’art. 17 proc. trib., da altre pronunce di questa Corte (Cass., 2 marzo 2015, n. 4222; Cass., 28 febbraio 2018, n. 4616; Cass., 4 maggio 2018, n. 10776; Cass., 1 dicembre 2020, n. 27400).

18. – La quaestio iuris, sebbene così resecata, non può prescindere dall’esame del contesto normativo più generale in cui essa si colloca; contesto che ne illumina gli aspetti peculiari, condizionandone in parte anche la soluzione.

19. – Occorre, dunque muovere, anzitutto, dal principio enunciato, in particolare, dalle sentenze n. 8053 del 7 aprile 2014 e n. 14916 del 20 luglio 2016 di queste Sezioni Unite, ma che ha trovato poi ampio e consolidato consenso nella giurisprudenza successiva – secondo cui le disposizioni degli artt. 1 (“I giudici tributari applicano le norme del presente decreto e, per quanto da esse non disposto e con esse compatibili, le norme del codice di procedura civile”: comma 2) e 49 (“Alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo III, capo I, del libro II del codice di procedura civile, e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto”: comma 1) del D.Lgs. n. 546 del 1992, relative al processo e alle impugnazioni in generale, istituiscono “un’autentica specialità del rito tributario, sancendo la prevalenza della norma processuale tributaria, ove esistente, sulla norma processuale ordinaria, la quale ultima si applica, quindi, in via del tutto sussidiaria, oltre che nei limiti della compatibilità”.

Di qui, la contrapposizione con la disposizione di cui all’art. 62 (“Al ricorso per cassazione ed al relativo procedimento si applicano le norme dettate dal codice di procedura civile in quanto compatibili con quelle del presente decreto”: comma 2) del medesimo D.Lgs., la quale, per il giudizio di cassazione “(a)vverso la sentenza della commissione tributaria regionale (comma 1 dell’art. 62, che prevede la proponibilità del ricorso per cassazione “per i motivi di cui ai numeri da 1 a 5 dell’art. 360 c.p.c., comma 1”), “fa espressamente riferimento all’applicabilità delle norme del codice di procedura civile, così attribuendo, per questa sola ipotesi, la prevalenza alle norme processuali ordinarie ed escludendo l’esistenza di un “giudizio tributario di legittimità”, cioè di un giudizio di cassazione speciale in materia tributaria”.

20. – Tale regime diversificato tra processo tributario – ossia quello che si svolge dinanzi alle commissioni tributarie – e giudizio civile di legittimità, quanto alla disciplina processuale rispettivamente applicabile, si riverbera sulla individuazione delle norme alle quali occorre fare riferimento (anche) in materia di notificazioni.

21. – La disciplina propria del processo tributario che trova evidenza al riguardo è, anzitutto, quella dettata dall’art. 16 proc. trib., rubricato “Comunicazioni e notificazioni”, che, per quanto concerne specificamente le notificazioni, dispone, in primo luogo (comma 2), che queste “sono fatte secondo le norme dell’art. 137 c.p.c. e segg., salvo quanto disposto dall’art. 17”. Sicchè, tra le norme del codice di rito che trovano applicazione vi è anche l’art. 149, che consente la notificazione a mezzo del servizio postale, ma in base alle regole dettate dalla L. 20 novembre 1982, n. 890 e successive modificazioni.

22. – La deroga che l’art. 16, comma 2, proc. trib. ha disposto rispetto alle notificazioni da effettuarsi secondo le regole del codice di rito civile attiene – come fatto palese dalla rubrica del richiamato art. 17 – al “luogo” delle notificazioni, le quali “… sono fatte, salva la consegna in mani proprie, nel domicilio eletto o, in mancanza, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte all’atto della sua costituzione in giudizio….” (comma 1). Con l’ulteriore precisazione che “(D’indicazione della residenza o della sede e l’elezione del domicilio hanno effetto anche per i successivi gradi del processo” (comma 2).

Sicchè, alla luce del principio espresso dalle Sezioni Unite con la citata sentenza del 2016, dalla chiara formulazione dell’art. 17 proc. trib., in coerenza con l’assetto innanzi rammentato, si trae pianamente che, nel processo tributario, rispetto alla notificazione della sentenza di primo grado da eseguirsi nel domicilio eletto dalla parte (ovvero, in mancanza di elezione di domicilio, nella residenza o nella sede dichiarata dalla parte stessa), prevale, comunque, la facoltà, alternativa, di eseguire la notificazione con “consegna in mani proprie”, quale modalità che, pertanto, risulta idonea a far decorrere il termine c.d. “breve” per l’impugnazione di cui al citato art. 38.

23. – L’art. 16 proc. trib. prevede, poi, al comma 3, due ulteriori forme di notificazione con modalità definita “diretta” (“Le notificazioni possono essere fatte anche direttamente…”) e che, dunque, possono effettuarsi dalla parte senza il ministero dell’ufficiale giudiziario o di altro soggetto equiparato, quali il messo comunale e il messo autorizzato dall’amministrazione finanziaria e l’avvocato autorizzato dall’ordine forense.

Si tratta: a) della notificazione “a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento, sul quale non sono apposti segni o indicazioni dai quali possa desumersi il contenuto dell’atto”; b) “ovvero” della notificazione, consentita al solo contribuente, “all’ufficio del Ministero delle finanze ed all’ente locale mediante consegna dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia”.

24. – Va, peraltro, ricordato che, a decorrere dal 1 gennaio 2016, sono state introdotte anche nel processo tributario le notificazioni telematiche (art. 16-bis proc. trib., inserito dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. h, che disciplina anche le comunicazioni e i depositi telematici).

Tuttavia, la forma della notifica telematica mette in campo concetti e regole, proprie dell’habitat della tecnologia informatica, che si astraggono dalla materialità dell’atto processuale e dell’attività di sua trasmissione e consegna, che connota indefettibilmente le forme tradizionali di notificazione, sulle quali è esclusivamente calibrata la presente decisione.

25. – La ricordata disciplina delle notificazioni nel processo tributario non rimane confinata in ambito soltanto endoprocessuale di ciascun grado di merito, ma si estende sempre “con carattere di specialità e quindi di prevalenza” (Cass., S.U., n. 14916/2016, citata) – alla fase dell’impugnazione, come è confermato, anzitutto, dall’art. 38, comma 2, proc. trib., come modificato dal D.L. n. 40 del 2010, art. 3, convertito, con modificazioni, nella L. n. 73 del 2010, che reca la disciplina sulla decorrenza del termine c.d. breve d’impugnazione della sentenza.

L’originaria formulazione della disposizione addossava alle parti “l’onere di provvedere direttamente alla notificazione della sentenza alle altre parti a norma dell’art. 137 c.p.c. e segg.”; incombente che, nel presupporre la necessaria intermediazione dell’ufficiale giudiziario, si reputava volto alla “salvaguardia di esigenze di certezza e sicurezza messe a presidio della formazione del giudicato formale sulla sentenza” (Cass., 28 giugno 2018, n. 16554).

Il legislatore della novella del 2010 ha inteso, invece, operare un espresso richiamo all’art. 16 proc. trib. quanto all’onere delle parti “di provvedere direttamente alla notificazione della sentenza alle altre parti” e tanto, quindi, non solo avvalendosi delle forme previste dal codice di procedura civile, ma anche facendo ricorso alle fattispecie di notificazione c.d. “diretta consentite dal comma 3 dello stesso art. 16.

Dalla notificazione effettuata a norma dell’art. 38, comma 2, proc. trib. nella vigente formulazione, decorre, quindi, ex art. 51, comma 1, proc. trib., il termine di sessanta giorni per l’appello, là dove, invece, in mancanza, trova applicazione il termine, c.d. “lungo”, dell’art. 327 c.p.c., secondo quanto stabilito dall’art. 38, comma 3, proc. trib..

26. – La specialità del regime di notificazione degli atti (di parte o del giudice) nel processo tributario si coglie, quindi, già nell’art. 16 proc. trib., non solo là dove (comma 2) è richiamata la disciplina dell’art. 17 proc. trib. quale eccezione a quella dettata in via ordinaria dagli artt. 137 e seguenti del codice di rito civile, ma anche nelle previsioni (comma 3) di una notificazione diretta ad opera della parte tramite il servizio postale con raccomandata ordinaria (dunque, senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario e non in base alle regole dettate dalla L. n. 890 del 1982) e della “consegna dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia” per quanto riguarda le sole notificazioni del contribuente nei confronti dell’ente impositore.

27. – Le forme di notificazione c.d. dirette previste dall’art. 16, comma 3, proc. trib. sono, quindi, diverse ed alternative tra loro (Cass., S.U., 29 maggio 2017, n. 13452 e n. 13453; Cass., S.U., 10 gennaio 2020, n. 299), come, del resto, è reso palese dalle specifiche modalità che la norma prescrive, rispettivamente, per ciascuna di esse: nella prima, l’atto in plico è spedito per posta e la prova della ricezione è fornita dall’avviso di ricevimento; nella seconda, l’atto è consegnato all’impiegato addetto e la prova della consegna è fornita dalla “ricevuta sulla copia” dell’atto stesso rilasciata dell’addetto.

Ed è evidente la differenza che intercorre tra la “ricevuta sulla copia” dell’atto rilasciata dall’impiegato addetto e l’avviso di ricevimento postale, ossia “la ricevuta che, compilata dal mittente all’atto della spedizione e firmata dal destinatario all’atto della consegna, viene recapitata al mittente (con posta prioritaria) ai fini della conferma dell’avvenuta consegna” (art. 5 Allegato A alla delibera n. 385/13/CONS Condizioni generali di servizio per l’espletamento del servizio universale postale di Poste Italiane, in G.U. n. 165 del 2013; ma, analogamente, quanto alla restituzione dell’avviso di ricevimento alla parte richiedente la notificazione, la L. n. 890 del 1982, della).

E tale distinzione tra le due forme di notificazione diretta spedizione postale ordinaria e consegna all’addetto – è, altresì, ribadita da altre norme del processo tributario (si veda ad es. l’art. 22, comma 1, sulla costituzione in giudizio del ricorrente) e, segnatamente, dal già citato comma 2 dell’art. 38, che, nel regolamentare l’onere di deposito della sentenza notificata nella segreteria della commissione tributaria (“che ne rilascia ricevuta e l’inserisce nel fascicolo d’ufficio”), prevede incombenti differenziati per ciascuna forma di notificazione: il deposito delr’originale o copia autentica dell’originale notificato”, in riferimento alla notificazione in base alle norme del codice di procedura civile; “ovvero “copia autentica della sentenza consegnata o spedita per posta”, in riferimento, rispettivamente, alla consegna all’impiegato addetto e alla spedizione per posta ordinaria, richiedendo nel primo caso anche il deposito della “fotocopia della ricevuta di deposito” e nel secondo la “fotocopia della ricevuta… della spedizione per raccomandata a mezzo del servizio postale unitamente all’avviso di ricevimento”.

28. – Quanto, poi, alle forme di notificazione che sono effettuate tramite il servizio postale universale, come detto rispettivamente contemplate nei commi 2 (art. 149 c.p.c.) e 3 (notifica diretta con plico raccomandato) dell’art. 16 proc. trib., queste Sezioni Unite (cfr. le citate sentenze n. 13452/2017, n. 13453/2017 e n. 299/2020) hanno evidenziato – alla luce dell’art. 30 della legge delega 30 dicembre 1991, n. 413, di adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile che “non v’è alcuna ragione logica e giuridica per distinguer(n)e il regime”.

In particolare, come ancora puntualizzato dalle coeve sentenze del 2017 innanzi richiamate, la notificazione diretta a mezzo del servizio postale universale, ai sensi del citato comma 3 dell’art. 16 – “cioè senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ma pur sempre con quella dell’ufficiale postale)” – è caratterizzata da “modalità semplificate… che, data anche la spiccata specificità del processo tributario (cfr. Corte Cost., sent. n. 18 del 2000), non violano gli artt. 3 e 24 Cost.”.

In siffatta forma di notificazione diretta “l’avviso di ricevimento del plico costituisce di norma atto pubblico ai sensi dell’art. 2699 c.c.; pertanto le attestazioni in esso contenute godono della stessa fede privilegiata di quelle relative alla procedura di notificazione a mezzo posta eseguita per il tramite dell’ufficiale giudiziario”.

29. – Alla luce della illustrata ricognizione del contesto di riferimento può ora esaminarsi la questione di diritto posta dal primo motivo di ricorso, in fattispecie – come più volte ricordato di notificazione diretta della sentenza tramite servizio postale, ai sensi del comma 3 dell’art. 16 proc. trib., non presso l’ufficio dell’amministrazione comunale in persona del cui dirigente l’ente medesimo si era costituito in giudizio, ma presso altro e diversamente ubicato ufficio comunale, già destinatario dell’istanza di rimborso avanzata dal contribuente e che non aveva emesso l’atto richiesto.

30. – La ritualità della notificazione dell’atto processuale presso un ufficio periferico dell’ente e non presso la sua sede principale è affermazione che si rinviene – come evidenziato dalla stessa ordinanza di rimessione – in un unico precedente giurisprudenziale (Cass. n. 20851/2010, citata).

Con esso si è ritenuta validamente effettuata la notificazione di ricorsi “proposti nei confronti dell’ente in persona del suo legale rappresentante, ancorchè indirizzati alla sede, diversa da quella legale del Comune, dell’ufficio competente ratione materiae”.

A tal fine, la sentenza n. 20851/2010 ha argomentato in forza del richiamo a fattispecie, reputata similare, di atto processuale notificato per errore dal contribuente al “Centro di servizio” e non già “all’Ufficio delle entrate, unica parte processuale legittimata”, ponendo in rilievo (secondo quanto affermato da altro precedente: Cass., 10 febbraio 2010, n. 2937) che il Centro di servizio, “in ossequio al principio generale di tutela dell’affidamento del contribuente ed al conseguente dovere di collaborazione (L. n. 212 del 2000, art. 10), è tenuto, facendo parte della medesima Amministrazione finanziaria, a trasmettere il ricorso al competente Ufficio delle Entrate, conseguendone, in difetto, che la mancata tempestiva costituzione dell’Ufficio in appello non è imputabile al contribuente, bensì all’Amministrazione medesima”.

31. – Non dissimile è stata la soluzione che la giurisprudenza della Sezione Quinta ha fornito in fattispecie di notificazione di atto processuale presso un ufficio dell’Agenzia delle entrate non territorialmente competente, poichè diverso da quello che aveva emesso l’atto impositivo (tra le altre, Cass., 15 dicembre 2004, n. 23349; Cass., 26 gennaio 2008, n. 1925; Cass., 17 dicembre 2008, n. 29465; Cass., 3 luglio 2009, n. 15718; Cass., 30 dicembre 2011, n. 30753; Cass., 21 gennaio 2015, n. 1113; Cass., 11 marzo 2015, n. 4862; Cass., 24 settembre 2015, n. 18936; Cass., 23 ottobre 2015, n. 21593).

32. – Alla conclusione della validità di una siffatta notificazione si è giunti valorizzando, anzitutto, il carattere unitario della stessa Agenzia delle entrate, le cui articolazione del medesimo organo sono prive di autonoma e distinta soggettività giuridica, trovando ragione e configurazione in funzione di un sistema di organizzazione finalizzato ad una più adeguata e razionale distribuzione interna del lavoro. In tal senso, la struttura soggettiva del rapporto col contribuente resta inalterata, instaurandosi e permanendo esclusivamente fra il medesimo e l’Agenzia considerata.

Al tempo stesso, si è dato risalto ai principi di collaborazione e buona fede, in forza dei quali, alla luce del principio di buon andamento (art. 97 Cost.), deve essere improntata l’azione dell’amministrazione pubblica, per cui l’atto del privato che venga indirizzato all’organo esattamente individuato, benchè privo di competenza per esigenze organizzative specifiche ad esso, produce gli effetti che la legge gli riconnette, essendo onere dell’ufficio curarne la trasmissione a quello competente.

A tal fine viene in soccorso, altresì, il principio della tutela del legittimo affidamento del cittadino nella sicurezza giuridica, espressione del principio di eguaglianza dinanzi alla legge (art. 3 Cost.) ed elemento essenziale dello Stato di diritto immanente in tutti i rapporti di diritto pubblico, là dove nella materia tributaria ha avuto modo di essere esplicitato specificamente dalla L. n. 212 del 2000, art. 10, (tra le altre, Cass., 10 dicembre 2002, n. 17576).

33. – Inoltre, il menzionato indirizzo giurisprudenziale ha fatto leva sul principio, vivificato dalle fonti sovranazionali, di effettività della tutela giurisdizionale, che richiede di ridurre al massimo le ipotesi di inammissibilità dei rimedi giurisdizionali, nonchè, infine, sul carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato.

34. – Dunque, l’orientamento in cui si colloca il citato precedente specifico (Cass. n. 20851/2010) chiama a raccolta una serie di principi, tra loro cospiranti, i quali consentono di giungere ad analoga soluzione anche nella concreta fattispecie in esame, non interferendo con le argomentazioni giuridiche che sostanziano la ratio decidendi di quella soluzione il diverso piano giustificativo delle pronunce che l’ordinanza di rimessione indica come contrastanti. Talune, infatti, riguardano la diversa fattispecie del procedimento di notifica mediante consegna diretta a mani dell’impiegato addetto (Cass., 2 marzo 2015, n. 4222; Cass., 28 febbraio 2018, n. 4616; Cass., 1 dicembre 2020, n. 27400); altre (Cass., 4 maggio 2018, n. 10776, n. 10777 e n. 10778) concernono fattispecie non sovrapponibile a quella in esame.

Per contro, quei principi danno evidenza, in particolare, ad una peculiare saldatura tra il principio di affidamento del cittadino nel buon andamento della funzione pubblica, il carattere impugnatorio del processo tributario, la specialità del rito in tema di notificazioni degli atti del processo tributario (e, segnatamente, della sentenza emessa nel giudizio di merito) e il principio, fondamentale, che costituisce lo scopo ultimo al quale il processo è di per sè orientato, ossia l’effettività della tutela giurisdizionale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito (tra le altre, Cass., S.U., 28 maggio 2017, n. 13453).

Quest’ultimo, scolpito nel contesto di una dimensione complessiva di garanzie (artt. 24 e 111 Cost.), che costituiscono patrimonio comune di tradizioni giuridiche condivise a livello sovranazionale (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione Europea, art. 6 CEDU), è guida orientativa per l’interprete che impone di evitare eccessi di formalismo e, quindi, restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale che non siano frutto di criteri ragionevoli e proporzionali.

35. – Nondimeno, le evidenziate ragioni giustificative di fondo hanno avuto modo di consolidarsi trovando linfa anche nelle coeve sentenze n. 3116 e n. 3118 del 14 febbraio 2006 di queste Sezioni Unite (successivamente, tra le molte, v. Cass., 29 gennaio 2020, n. 1954 e Cass., 7 dicembre 2020, n. 27976), con le quali si è ritenuto che, nei confronti delle Agenzie fiscali che non si siano avvalse del patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, la regola generale della effettuazione della notificazione del ricorso introduttivo del giudizio tributario e della sentenza di esso conclusiva al direttore presso la sede centrale (artt. 163, 144 e 145 c.p.c.) debba essere “opportunamente integrata con la disciplina speciale” contenuta negli artt. 10 e 11 proc. trib., in base alle quali disposizioni gli uffici periferici di dette Agenzie hanno assunto, “in modo concorrente e alternativo, secondo un modello simile alla preposizione institoria disciplinata dagli artt. 2203 e 2204 c.c.”, la stessa capacità di stare in giudizio già originariamente attribuita agli uffici finanziari che avevano emesso l’atto impugnato.

Pertanto, “anche gli uffici periferici dell’Agenzia, subentrati a quelli dei Dipartimenti delle Entrate, devono essere considerati – una volta che l’atto ha come destinatario l’ente – come organi dello stesso che, al pari del direttore, ne hanno la rappresentanza in giudizio, ai sensi dell’art. 163 c.p.c., comma 2, n. 2, e artt. 144 e 145 c.p.c.”.

Da ciò ne consegue, altresì, che “la notifica della decisione, ai fini della decorrenza del termine breve per la proposizione del ricorso, può essere indifferentemente effettuata all’Agenzia presso la sua sede centrale ovvero presso il suo ufficio periferico”.

36. – Viene, dunque, delineato un contesto in cui, con specifico riferimento alla posizione dell’ente locale impositore, all’interprete è consentito valorizzare anche un ulteriore argomento, tratto dall’art. 11, comma 3, proc. trib., come novellato dal D.L. 31 marzo 2005, n. 44, art. 3 bis, comma 1, (convertito, con modificazioni, nella L. 31 maggio 2005, n. 88) e che è corroborato dal principio di “legittimazione diffusa” dell’amministrazione finanziaria valorizzato dalle citate sentenze delle Sezioni Unite del 2006.

La norma dettata dalla citata disposizione ha previsto, in luogo della originaria legittimazione processuale passiva dell’ente locale individuata nell’organo di rappresentanza previsto dal proprio ordinamento”, che tale ente abbia facoltà “di stare anche mediante il dirigente dell’ufficio tributi, ovvero, per gli enti locali privi di figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa in cui è collocato detto ufficio”.

Pertanto, anche nel caso dell’ente locale la legge sul processo tributario viene a configurare una legittimazione passiva concorrente, sia in capo al legale rappresentante dell’ente stesso (per cui, nel caso del comune, essa farà capo, di norma, al sindaco, salvo diverse previsioni statutarie), sia in capo al dirigente ufficio tributi.

37. – Tale previsione normativa si spiega in un’ottica di semplificazione dei rapporti tra il polo pubblico e il contribuente, ma anche in termini di efficienza dell’organizzazione amministrativa, in quanto l’ente territoriale, siccome esponenziale della collettività di riferimento, si manifesta, a prescindere dai suoi caratteri dimensionali e organizzativi concreti, come ente a fini generali.

Sicchè, a fronte di una competenza generale dell’ente territoriale, risponde ragionevolmente ai canoni della semplificazione e dell’efficienza – e, dunque, della buona amministrazione, ex art. 97 Cost. – la previsione di una legittimazione processuale ricadente, anche, sull’ufficio al quale, di norma, sono affidati i complessivi compiti di gestione delle entrate tributarie dell’ente e, dunque, di gestione per esso delle funzioni impositive.

38. – Ciò che, tuttavia, non esclude che non vi siano altre articolazioni dell’organizzazione amministrativa dell’ente territoriale, in esso immedesimantesi, alle quali possano affidarsi compiti relativi a funzioni impositive.

Nel caso di specie, non è in contestazione, infatti, che la “Direzione Centrale Sviluppo, Ricerca e Mercato del lavoro Servizio di Polizia Amministrativa” del COMUNE DI (OMISSIS) avesse competenza sulle istanze di rimborsi del canone sostitutivo dell’imposta sulla pubblicità e che sia stato l’ufficio a non emettere l’atto richiesto dall’attuale ricorrente.

39. – Tali articolazioni, pur diverse da quella dell’ufficio tributi e prive, diversamente da quell’ufficio, della legittimazione passiva concorrente innanzi richiamata, si caratterizzano per essere comunque organicamente immedesimate nell’ente impositore e in relazione funzionale diretta con atti concernenti il contenzioso tributario al medesimo ente imputabili.

Sicchè, un tale assetto organizzativo – in cui trova peculiare risalto il profilo funzionale del contatto tra contribuente ed ente impositore in termini di più agevole e semplificata accessibilità alla funzione pubblica – consente l’applicazione dei principi, sopra illustrati, valorizzati dalla richiamata giurisprudenza della Sezione Tributaria in base ad un orientamento affatto coeso, così da potersi affermare anche nella fattispecie in esame la validità della notifica diretta a mezzo del servizio postale, ex art. 16, comma 3, proc. trib., effettuata dal contribuente all’articolazione interna dell’ente locale.

38. – Va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto:

“La notifica, effettuata dal contribuente direttamente tramite il servizio postale, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, della sentenza di primo grado all’ente locale non presso la sede principale indicata negli atti difensivi, ma presso altro ufficio comunale diversamente ubicato, che abbia emesso (o non abbia adottato) l’atto oggetto del contenzioso, è valida e, quindi, idonea, ai sensi del combinato disposto del medesimo D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 2, e art. 51, comma 2, a far decorrere il termine di sessanta giorni per impugnare”.

39. – E’, dunque, fondato il primo motivo di ricorso, posto che la notificazione della sentenza di primo grado è stata validamente effettuata dall’attuale ricorrente con ricezione da parte del destinatario COMUNE DI (OMISSIS) il 22 aprile 2016, mentre l’appello proposto dall’ente locale è stato notificato in data 20 settembre 2016, risultando, quindi, inammissibile perchè proposto ben oltre il termine breve stabilito per l’appello.

Ne consegue l’assorbimento degli ulteriori motivi di ricorso e la cassazione senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., della sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, non potendosi riconoscere al gravame inammissibilmente spiegato alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione (tra le altre, Cass., 7 luglio 2017, n. 16863; Cass., 19 ottobre 2018, n. 26525).

40. – Le spese dell’intero giudizio vanno interamente compensate tra tutte le parti in ragione delle questioni giuridiche trattate in relazione alla singolarità della fattispecie processuale oggetto di cognizione.

P.Q.M.
accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbiti i restanti motivi;

cassa senza rinvio la sentenza impugnata e compensa interamente tra le parti le spese processuali dell’intero giudizio.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili, il 24 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 11 luglio 2022


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 05/05/2022) 15/06/2022, n. 19333

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere –

Dott. CRIVELLI Alberto – Consigliere –

Dott. ANGARANO Rosanna – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1623/2017 R.G. proposto da:

P.F., elettivamente domiciliato in Roma, Viale del Vignola, 5, presso l’Avv. Livia Ranuzzi, e rappresentato e difeso dall’Avv. Luigi Quercia.

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende.

– controricorrente –

Avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. PUGLIA, n. 1585/2016, depositata il 15/06/2016.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 5 maggio 2022 dal consigliere Rosanna Angarano.

Svolgimento del processo
che:

1. P.F. ricorre, con quattro motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe con la quale la C.t.r. della Puglia ha rigettato l’appello dal medesimo proposto avverso la sentenza della C.t.p. di Bari che, previa riunione, aveva dichiarato inammissibili, il ricorso proposto avverso l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), relativo all’imposta Irpef per l’anno 2007, ed il ricorso proposto avverso il rigetto dell’istanza di concordato con adesione.

2. La C.t.p. dichiarava inammissibili i ricorsi riuniti per intempestività, statuendo, altresì, sulla legittimità dell’accertamento.

3. La C.t.r. rigettava l’appello, confermando la sentenza di primo grado, ritenendo validamente notificato l’avviso di accertamento e, conseguentemente, inammissibili i ricorsi e, comunque, infondati nel merito.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per aver ritenuto legittimo il procedimento notificatorio dell’avviso di accertamento senza pronunciarsi sui vizi denunciati.

In particolare il ricorrente assume che la sentenza impugnata si è limitata a riportare “un mero elenco dei passaggi del procedimento di notificazione” omettendo di rispondere puntualmente alle censure mosse in ordine alla corretta applicazione delle norme relative alla notifica.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, degli artt. 139, 140, 148 c.p.c..

In particolare, il ricorrente censura la sentenza impugnata per aver ritenuto validamente notificato l’atto impositivo sebbene l’avviso di ricevimento relativo alla notifica dell’atto accertativo non contenesse le indicazioni prescritte dal combinato disposto di cui alle norme richiamate e, in particolare, dei motivi che giustificavano il ricorso alle forme previste dall’art. 140 c.p.c., e sebbene l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa (c.d. CAD), non prodotta in giudizio, non contenesse le indicazioni previste ex lege e contenesse indicazioni non congruenti.

3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36, comma 2.

In particolare il ricorrente deduce la nullità della sentenza per omessa motivazione non essendo state illustrate le ragioni poste a fondamento della ritenuta legittimità dell’atto accertativo.

4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 6, comma 2, non essendo stato rappresentato il percorso motivazionale che aveva portato a ritenere imprecisi e poco attendibili gli elementi probatori addotti a sostegno dell’infondatezza del recupero a tassazione operato dall’Ufficio.

5. Il primo motivo è infondato.

La sentenza impugnata, confermando sul punto l’accertamento compiuto nella sentenza di primo grado, ha ripercorso l’iter del procedimento notificatorio dell’avviso di accertamento riportando puntualmente i passaggi ritenuti essenziali ai fini della sua validità.

Per giurisprudenza consolidata di questa Corte il giudice non è tenuto ad occuparsi espressamente e singolarmente di ogni allegazione, prospettazione ed argomentazione delle parti, risultando necessario e sufficiente, in base all’art. 132 c.p.c., n. 4, che esponga, in maniera concisa, gli elementi in fatto ed in diritto posti a fondamento della sua decisione; per l’effetto devono ritenersi per implicito disattesi tutti gli argomenti, le tesi e i rilievi che, seppure non espressamente esaminati, siano incompatibili con la soluzione adottata e con il percorso argomentativo seguito. (Cass. 25/06/2020 n. 12652).

6. Il secondo motivo è infondato.

6.1. Non è controverso in fatto che la notifica dell’avviso di accertamento è avvenuta a mezzo del servizio postale con spedizione eseguita in data (OMISSIS). Il ricorrente sul punto ha espressamente dedotto in ricorso che “la CTR ha ritenuto “accertato” “che l’avviso di accertamento è stato spedito regolarmente il (OMISSIS) dall’Ufficio Postale di poste Italiane”. E fin qui nulla quaestio”. Vi è stata, pertanto, notifica postale diretta ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14.

6.2. Il ricorrente deduce, tuttavia, che nelle fasi successive alla spedizione vi sarebbe stata violazione degli artt. 139 e 140 c.p.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, non essendo stati indicati i motivi che legittimavano la scelta di procedere alla notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c., sia i tentativi fatti per evitarla. Deduce, altresì che vi sarebbe stata violazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui prevede l’obbligo di spedire al destinatario dell’atto una lettera raccomandata (c.d. CAD) e di menzionare sull’avviso di ricevimento quanto ivi previsto, in quanto detta raccomandata non sarebbe stata prodotta; il relativo avviso di ricevimento non era idoneo a provarne il contenuto; il medesimo mancava anche delle indicazioni previste ex lege.

6.3. Quanto alla prima censura, la L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, modificando la L. n. 890 del 1982, art. 14, ha previsto, per quanto qui interessa, che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente può eseguirsi a mezzo posta direttamente dagli uffici finanziari. A decorrere, pertanto, dal 15/05/1998 (data di entrata in vigore della L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere direttamente alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982. (tra le più recenti Cass. 27/01/2022 n. 2365) Ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata, alla quale, quindi, non si applicano le disposizioni della L. n. 890 del 1982, concernenti le sole notificazioni effettuate a mezzo posta tramite gli ufficiali giudiziali (o, eventualmente, i messi comunali e i messi speciali autorizzati), bensì le norme concernenti il servizio postale ordinario. (Cass. n. 2365 del 2022).

Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto, pervenuto all’indirizzo del destinatario, il quale deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass. 28/05/2020 n. 10131, Cass. 04/04/2018 n. 8293).

6.3. Come riferito dallo steso ricorrente, l’addetto al recapito della raccomandata ha sbarrato le caselle dell’avviso di ricevimento in cui si dava atto della “temporanea assenza del destinatario” per “mancanza” e dell’”immesso avviso cassetta corrisp. dello stabile in indirizzo” ed ha annotato di aver spedito la comunicazione di avvenuto deposito, così detta CAD. La notifica risulta, pertanto, conforme al disposto del D.P.R. n. 890 del 1982, art. 14, non occorrendo alcuna delle indicazioni previste dagli artt. 139 e 140 c.p.c..

6.4. Quanto alle censura relativa alla così detta CAD, le sezioni unite di questa Corte, conformemente al più recente orientamento consolidatosi, hanno affermato che anche nella notifica “postale diretta” di cui al D.P.R. n. 890 del 1982, art. 14, in caso di temporanea assenza del destinatario, per considerare perfezionata la procedura notificatoria è necessario verificare in concreto l’avvenuta ricezione della CAD ed a tal fine il notificante è processualmente onerato della produzione del relativo avviso di ricevimento. (Cass., Sez. U., 15/04/2021, n. 10012).

La prova della notifica, pertanto, è raggiunta attraverso la produzione in giudizio del relativo avviso di ricevimento – il cui versamento in atti ad opera dalla Agenzia delle Entrate è confermato nello stesso ricorso – non occorrendo, come invece ritenuto dal ricorrente, la produzione della stessa comunicazione a riprova del suo contenuto.

6.5. Infine, quanto all’avviso di ricevimento della CAD questa Corte ha chiarito che il controllo su tale avviso deve riguardare, in caso di ulteriore assenza del destinatario in occasione del recapito della relativa raccomandata, non seguita dal ritiro del piego entro il termine di giacenza, l’attestazione dell’agente postale in ordine all’avvenuta immissione dell’avviso di deposito nella cassetta postale od alla sua affissione alla porta dell’abitazione, formalità le quali, ove attuate entro il predetto termine di giacenza, consentono il perfezionarsi della notifica allo spirare del decimo giorno dalla spedizione della raccomandata stessa, spettando al destinatario contestare, adducendo le relative ragioni di fatto e proponendo quando necessario querela di falso, che, nonostante quanto risultante dalla CAD, in concreto non si siano realizzati i presupposti di conoscibilità richiesti dalla legge oppure egli si sia trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prendere cognizione del piego.

La CAD, pertanto, non segue il percorso comunicativo proprio dell’originaria raccomandata di notifica del piego, in quanto per esso, al fine evidentemente di regolare una vicenda che altrimenti potrebbe portare al reiterarsi indefinito di successivi avvisi e depositi, la norma prevede soltanto che in caso di assenza del destinatario, deve essere affisso alla porta d’ingresso oppure immesso nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda” e pertanto l’agente postale, nel recapitare la raccomandata di avviso, ove non trovi il destinatario, non può far altro che procedere ad uno di tali incombenti, dandone atto nell’avviso di ricevimento della CAD; (Cass. 29/10/2020 n. 23921).

Come precisato rispetto all’omologo avviso di deposito della notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., attraverso l’avviso di ricevimento della CAD occorre avere prova (non già della consegna ma) del fatto che la raccomandata di avviso sia effettivamente giunta al recapito del destinatario e tale prova è raggiunta a mezzo della produzione dell’avviso di ricevimento, sia esso sottoscritto dal destinatario o da persone abilitate, sia esso annotato dall’agente postale in ordine all’assenza di persone atte a ricevere l’avviso medesimo (Cass. 30/01/2019, n. 2683).

6.6. Nel caso in esame, l’avviso di ricevimento della CAD individuata con l’esatto numero indicato nella prima raccomandata – è stato depositato in atti; esso, firmato dall’agente postale, attesta la persistente assenza del destinatario – o di chi per esso – che pertanto non ha sottoscritto l’avviso, e l’avvenuta immissione in cassetta della raccomandata di avviso del deposito. Anche sotto tale profilo, pertanto, non è ravvisabile alcun vizio del procedimento notificatorio.

7. Per quanto fin qui detto, il ricorso va rigettato restando assorbiti gli ulteriori motivi attinenti al merito dell’avviso di accertamento impugnato. Rispetto a questi ultimi – stante l’accertata inammissibilità del ricorso per intempestività – la motivazione resa dalla C.t.r. deve considerarsi svolta ad abundatiam (Cass. 19/12/2017 n. 30393).

8. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del solo ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 5 maggio 2022.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2022


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 08/03/2022) 21/04/2022, n. 12706

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – Consigliere –

Dott. FANTICINI Giovanni – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 22833/2019 R.G. proposto da:

STUDIO LEGALE M. ASSOCIAZIONE PROFESSIONALE, rappresentata e difesa dall’avvocato Pompilio Massafra, elettivamente domiciliata in Roma, via Baldo degli Ubaldi 272;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, RISCOSSIONE ROMA CAPITALE (GIA’ COMUNE DI ROMA);

– intimati –

avverso la sentenza n. 450/2019 della CORTE D’APPELLO DI ROMA, depositata il 23/1/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio dell’8/3/2022 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI.

Svolgimento del processo
che:

– la Studio Legale M. Associazione Professionale conveniva in giudizio l’agente della riscossione Gerit S.p.A. e il Comune di Roma domandando la declaratoria di invalidità del fermo amministrativo dell’autoveicolo tg. (OMISSIS) e delle cartelle di pagamento (asseritamente non notificate) poste a fondamento del medesimo, nonchè il riconoscimento dell’estinzione del credito vantato dal Comune per intervenuta decadenza e prescrizione;

– il Giudice di Pace dichiarava la propria incompetenza e rimetteva le parti innanzi al Tribunale di Roma, sezione distaccata di Ostia;

– il giudice di primo grado, con la sentenza n. 20931/2011, confermava la propria competenza; in esito alla discussione orale del 24/7/2013, accoglieva la domanda dell’Associazione Professionale, qualificata come opposizione all’esecuzione, e dichiarava l’invalidità del fermo amministrativo e l’estinzione dell’obbligazione di pagamento derivante dalle cartelle esattoriali per intervenuta prescrizione del diritto di credito;

– Equitalia Sud S.p.A., subentrata a Gerit S.p.A. nella riscossione, impugnava la decisione;

– la Corte d’appello di Roma, con la sentenza n. 450 del 23/1/2019, accoglieva l’appello e, in totale riforma della pronuncia di primo grado, respingeva l’opposizione proposta;

– avverso la suddetta sentenza la Studio Legale M. Associazione Professionale proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi;

– Agenzia delle Entrate – Riscossione (succeduta alle società del gruppo Equitalia) depositava memoria per la partecipazione alla discussione; l’intimata Roma Capitale (già Comune di Roma) non svolgeva difese nel giudizio di legittimità.

Motivi della decisione
che:

– col primo motivo la ricorrente deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c., L. n. 890 del 1982, art. 6 e D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, per avere la Corte di merito ritenuto valida la notifica di alcune delle cartelle di pagamento sebbene le stesse fossero state consegnate al portiere e difettassero sia l’attestazione riguardante il mancato rinvenimento di persone preferibilmente abilitate alla ricezione, sia la raccomandata informativa circa l’avvenuta notificazione a soggetto diverso dal destinatario;

– indipendentemente dalle lacune del ricorso – che, in violazione dell’art. 366 c.p.c., trascura di riportare il testo degli atti relativi alla notificazione delle cartelle, oggetto della censura per violazione delle menzionate disposizioni – la censura è comunque infondata;

– infatti, come già statuito da questa Corte, “In tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982. (In applicazione dell’anzidetto principio, la S.C. ha cassato la sentenza con cui il giudice di merito ha ritenuto invalida la notifica della cartella sull’erroneo presupposto che, essendo stata ricevuta dal portiere, occorresse, a norma dell’art. 139 c.p.c., l’invio di una seconda raccomandata)” (Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 12083 del 13/06/2016, Rv. 640025-01; nello stesso senso, Cass., Sez. 6-5, Ordinanza n. 28872 del 12/11/2018, Rv. 651834-01);

– il riferimento del ricorso al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), è inappropriato, sia perchè la disposizione non riguarda la notificazione della cartella di pagamento (per la quale si applica, appunto, il D.P.R. n. 602 del 1973, citato art. 26; v. Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 5278 del 22/2/2019), sia perchè non si verte dell’ipotesi in cui “nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente”;

– col secondo motivo si deduce (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) la violazione e falsa applicazione dell’art. 346 c.p.c., per avere il giudice di merito affermato che l’appellata (totalmente vittoriosa in primo grado) non aveva reiterato le precedenti difese ed eccezioni e che, dunque, le stesse non potevano essere esaminate; al contrario, afferma la ricorrente che era stata esplicitamente rinnovata, nella comparsa di risposta, l’eccezione di prescrizione (quinquennale) del diritto di riscuotere la sanzione amministrativa;

– analogamente, ma sotto il profilo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, con la terza censura si propone doglianza per “errata, omessa ed insufficiente motivazione… circa la mancata riproposizione in grado di appello dell’eccezione di intervenuta prescrizione delle pretese dell’Agenzia delle Entrate – Riscossione, fatto decisivo per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti”;

– i suesposti motivi vanno esaminati congiuntamente, in quanto deducono sotto diversi aspetti la medesima violazione da parte del giudice d’appello: essi sono fondati, dovendosi ricondurre le censure – emendata quella del terzo motivo dall’incongruo riferimento al vizio motivazionale di cui al testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, abrogato da quasi dieci anni – all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, – nella comparsa di risposta in appello – trascritta nel ricorso parzialmente, ma in maniera sufficiente all’illustrazione della censura e alla sua comprensibilità da parte della Corte – l’Associazione Professionale aveva riproposto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 346 c.p.c. (v. Cass., Sez. U., Sentenza n. 7700 del 19/04/2016 e Cass., Sez. U., Sentenza n. 11799 del 12/05/2017), la doglianza relativa alla prescrizione del diritto di credito dell’ente impositore;

– l’odierna ricorrente, risultata totalmente vittoriosa in primo grado, non aveva l’onere di proporre impugnazione incidentale della decisione di prime cure e la Corte d’appello avrebbe dovuto esaminare i profili che, rimasti assorbiti dalla pronuncia dal Tribunale, erano stati riproposti nel secondo grado;

– per quanto esposto, la sentenza impugnata, che a tanto non ha proceduto, va cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, affinchè esamini anche l’eccezione suddetta;

– si rimette al giudice del rinvio la regolazione delle spese, anche del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
la Corte:

dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso;

accoglie il secondo e il terzo motivo;

cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 8 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 13/01/2022) 08/04/2022, n. 11461

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 27032-2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso cui è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

ART. DESIGN s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 426/10/2020 della Commissione tributaria regionale del LAZIO, depositata in data 23/01/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 13/01/2022 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.

Svolgimento del processo
che:

1. L’Agenzia delle entrate ricorre con un unico motivo, cui non replica l’intimata Art. Design s.r.l., per la cassazione della sentenza della CTR del Lazio, in epigrafe indicata, pronunciata In controversia avente ad oggetto l’impugnazione di tre cartelle di pagamento n. (OMISSIS), n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS), relative agli anni d’imposta 2010 e 2011, che la predetta società contribuente sosteneva non essergli mai state notificate e di cui era venuta a conoscenza in data 30/07/2015 a seguito di rilascio di estratti di ruolo da parte del concessionario alla riscossione. Con la sentenza in epigrafe indicata la CTR rigettava l’appello dell’Agenzia delle entrate avverso la sfavorevole sentenza di primo grado sostenendo che “dalla documentazione prodotta dall’appellate non emerge chiaramente la ritualità della notifica” delle cartelle, in quanto “eseguita nello stabile, composto da più piani abitativi, ubicato al (OMISSIS) ma a soggetti non chiaramente riconducibili alla soc. Art. Design (tale sig.ra A. non riconducibile all’Art. Design e studio D.R., di cui in atti non vi sono elementi da cui dedurre il collegamento con la soc. contribuente).

2. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380-bis c.p.c., risulta regolarmente costituito il contraddittorio.

Motivi della decisione
che:

1. Con il motivo di ricorso, con cui viene dedotta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, dell’art. 2700 c.c., e della L. n. 890 del 1982, art. 7, la ricorrente censura la sentenza d’appello per avere ritenuto nulla la notificazione delle cartelle di pagamento n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS), benchè effettuate presso la sede legale della società contribuente con consegna del plico a persona qualificatasi come impiegata.

3. Pare opportuno premettere che il ricorso ha ad oggetto soltanto le due cartelle sopra indicate, giacchè, per come desumibile dall’esposizione dei fatti di causa (ricorso, pag. 2), con riferimento alla terza, n. (OMISSIS), l’Agenzia delle entrate neppure aveva proposto appello avverso la sentenza di primo grado che aveva annullato la cartella per non essere stata fornita dall’amministrazione finanziaria alcuna prova della sua notificazione alla società contribuente, sicchè in relazione a tale ultima cartella si è formato il giudicato interno.

4. Ciò precisato, ritiene il Collegio che il ricorso sia fondato e vada accolto.

5. Al riguardo va ricordato che “Ai fini del perfezionamento della notifica diretta effettuata, a mezzo posta, dall’incaricato della riscossione è sufficiente la consegna del plico al domicilio del destinatario, senza nessun altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la propria firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltrechè sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente, essendo la notifica valida anche se manchi l’indicazione delle generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, trattandosi di adempimento non previsto da alcuna norma” (Cass. n. 946 del 2020); “ne consegue che se, come nella specie, manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma, e la relativa sottoscrizione sia addotta come inintelligibile, l’atto è pur tuttavia valido, poichè la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c., ed eventualmente solo in tal modo impugnabile, stante la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata” (Cass. n. 11708 del 2011). Si è quindi precisato (cfr. Cass. n. 28895 del 2011) che “In ipotesi di consegna dell’atto da notificare presso lo studio del legale domiciliatario a mani di soggetto in esso rinvenuto”, ma è lo stesso a dirsi in caso di notifica presso la sede legale di una società, “la qualità di persona addetta alla ricezione si presume per la sua presenza nel locale in questione, restando, quindi, onere del destinatario della notifica dare dimostrazione dell’inidoneità del soggetto medesimo alla ricezione degli atti, allegando e provando la casualità della sua presenza, l’esistenza di un rapporto di lavoro non legato all’attività professionale o la mancanza di delega al riguardo”.

6. Orbene, a tali arresti giurisprudenziali non si è attenuta la CTR che ha ritenuto nulla la notificazione delle cartelle di pagamento n. (OMISSIS) e n. (OMISSIS), benchè effettuate all’indirizzo della società contribuente con consegna del plico a persona qualificatasi come impiegata, con la conseguenza che, in accoglimento del ricorso, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata alla Commissione tributaria regionale del Lazio per esame delle questioni rimaste assorbite.

7. La CTR, quale giudice del rinvio, valuterà anche l’incidenza nel presente giudizio – in cui la contribuente assume di non aver ricevuto la rituale notifica delle cartelle di pagamento, di cui era venuta a conoscenza solo occasionalmente, attraverso il rilascio da parte dell’agente della riscossione dell’estratto di ruolo – dello ius superveniens di cui al D.L. 21 ottobre 2021, n. 146, art. 3-bis, convertito in L. 17 dicembre 2021, n. 215, dettato in materia di “non impugnabilità dell’estratto di ruolo e limiti all’impugnabilità del ruolo”, alla stregua dell’emananda pronuncia delle Sezioni unite di questa Corte sulla questione – di cui è stata investita con ordinanza interlocutoria n. 4526 del 2022 della Sezione Quinta proprio a seguito dell’entrata in vigore della citata disposizione -, relativa alla portata applicativa della stessa, ed in particolare se tale norma abbia natura sostanziale (con efficacia ex nunc), attenendo al presupposto impositivo, o processuale, e se, ed entro quali limiti, possa ritenersi ancora valido il principio affermato da S.U. n. 19704 del 2015, secondo cui il contribuente – che assuma di non aver ricevuto la rituale notifica di provvedimenti impositivi e che scopra “occasionalmente” la sussistenza di iscrizioni a ruolo – può impugnare “in via diretta” tali atti tributari, con tutela “anticipata”, quindi prima della loro rituale notificazione nei suoi confronti mediante l’impugnazione degli estratti di ruolo.

8. La CTR provvederà, altresì, alla regolamentazione delle spese processuali del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2022


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 03/03/2022) 08/04/2022, n. 11469

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 12831/2016 R.G. proposto da:

E.F., rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco Di Mauro, con domicilio eletto in Roma, via Padre Semeria n. 33, presso lo studio, giusta procura in calce al ricorso.

– ricorrente –

contro

Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora, già Comunità Montana Colline del Fiora.

– intimata –

e Equitalia Sud s.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 5994/1715 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 16/11/2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 marzo 2022 dal Consigliere Dott. De Masi Oronzo.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. De Matteis Stanislao, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
E.F., dichiaratamente proprietario di un immobile sito in (OMISSIS), impugnava, davanti alla Commissione tributaria Provinciale di Roma, la cartella di pagamento di contributi di bonifica, per l’anno 2011??’, dovuti alla Comunità Montana Colline del Fiora ed il giudice adito, con sentenza n. 26647/39/14, dichiarava la propria incompetenza per territorio in favore della Commissione tributaria Provinciale di Grosseto.

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con la sentenza indicata in epigrafe, accoglieva l’appello proposto dal contribuente, nei confronti dell’Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora e di Equitalia Sud s.p.a., e decidendo nel merito rilevava che l’Ente impositore aveva dimostrato, mediante il deposito “relazione e cartografie, con indicate le proprietà del ricorrente”, le opere idrauliche e manutentive che avevano determinato “in capo agli immobili del ricorrente, un reale e concreto beneficio”, cioè “un concreto vantaggio di natura fondiaria al bene stesso, aumentandone il valore”, essendo le opere in grado di preservare il bene dalle acque, rendendolo più sicuro “sotto il profilo idrogeologico”. Aggiungeva il giudice di appello la ininfluenza della mancata trascrizione del perimetro di contribuenza, essendo il “piano generale di bonifica (…) atto della Regione e non dell’ente delegato” e consentendo la Legge Regionale n. 34 del 1994 Imposizione contributiva “con l’emanazione, appunto, di un perimetro di contribuenza provvisorio”.

Il contribuente propone cinque motivi di ricorso, illustrati con memoria, per la cassazione della sentenza, mentre l’Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora ed Equitalia Sud s.p.a. sono rimaste intimate. Fissato all’udienza pubblica odierna, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina (successivamente prorogata) dettata dal sopravvenuto del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento in presenza fisica del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Con il primo motivo di ricorso il contribuente lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 148, 149, c.p.c., artt. 168, 171, c.p.p., della L. n. 890 del 1982, art. 3, in tema di notifica degli atti a mezzo posta, nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, in quanto la CTR ha omesso di pronunciare sulla eccezione, articolata nel ricorso introduttivo e riproposta nelle controdeduzioni in appello, concernente l’inesistenza della notifica della cartella. Deduce, in particolare, la mancata osservanza da parte dell’Agente della riscossione delle modalità prescritte dalla legge, avendo spedito l’atto a mezzo raccomandata A/R senza curarsi della redazione della relata di notifica, come richiesto in generale dagli artt. 148 e 149 c.p.c., rendendo impossibile verificare se la consegna all’ufficio postale sia stata eseguita da uno dei soggetti abilitati.

Con il secondo motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 125 c.p.c., per non avere la CTR rilevato la dedotta nullità della cartella di pagamento per difetto di sottoscrizione del responsabile del procedimento.

Con il terzo motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 860 c.c. e della L.R. Toscana n. 34 del 1994, artt. 3 e 4, per non avere la CTR considerato non rilevante il beneficio generale derivante dalle opere di bonifica laddove invece occorre un beneficio diretto e specifico, cioè un incremento di valore dell’immobile soggetto a contributo, in rapporto causale con le opere di bonifica e con la loro manutenzione.

Con il quarto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., del R.D. n. 215 del 1933, art. 10, comma 2 e L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, per non avere la CTR considerato che l’onere di provare il predetto beneficio specifico ricade sull’Ente impositore e che la Delibera del Consiglio Regionale che ha delimitato la superficie di ha 42.668 del comprensorio nel quale opera la Comunità Montana Colline del Fiora non risulta trascritta presso la Conservatoria dei RR.II..

Con il quinto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Statuto del Contribuente, per non avere la CTR rilevato la dedotta carenza motivazionale della cartella di pagamento impugnata, non essendo possibile evincere per quali opere di bonifica il contributo consortile è stato richiesto e quale sia il vantaggio fondiario che lo giustifica.

Con il sesto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, comma 2, per non avere la CTR disposto consulenza tecnica d’ufficio al fine di acquisire i dati fattuali necessari per decidere nel merito la causa, non essendo all’uopo sufficienti gli atti (cartografie ed elencazioni di opere) predisposte dall’Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora.

Le censure sono infondate.

Quanto alla prima censura, concernente la notifica a mezzo del servizio postale della cartella di pagamento, che la CTR ha fatto rientrare tra le questioni “assorbite e superate, perchè irrilevanti alla luce dell’esito del giudizio”, l’odierno ricorrente prescinde dall’orientamento della Corte (Cass. n. 28995/2018) secondo cui “la figura dell’assorbimento esclude il vizio di omessa pronuncia, in quanto il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto (l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, Cass. n. 21257 del 2014) e va escluso ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita o di un suo assorbimento in altre statuizioni”.

Il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto censurare la correttezza della valutazione espressa dalla Corte di assorbimento dei motivi ulteriori, lamentando un vizio di motivazione del tutto omessa, e non sollevare un vizio di omessa pronuncia.

In ogni caso, in merito alla fondatezza della doglianza è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo cui, “in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”.(Cass. n. 6395/2014, n. 4567/2015, n. 20918/2016).

Con seconda censura il ricorrente deduce la nullità della cartella di pagamento per difetto di sottoscrizione del responsabile del procedimento, essendo ad avviso dell’impugnante insufficiente il “fatto che sia indicato un responsabile del procedimento”.

Premesso quanto innanzi osservato in ordine all’ammissibilità della doglianza per come formulata e per quanto è dato comprendere, la stessa si incentra sulla mancanza di autografia della sottoscrizione e la Corte ha precisato, in tema di tributi regionali e locali, che “qualora l’atto di liquidazione o di accertamento sia prodotto mediante sistemi informativi automatizzati, la sottoscrizione di esso può essere legittimamente sostituita, ai sensi della L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 87, dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, individuato da apposita determina dirigenziale”. (Cass. n. 2062872017).

La censura, del resto, neppure pone specificamente in dubbio che il nominativo apposto sulla cartella rispondesse in effetti a funzionario dell’Agente della riscossione regolarmente investito del relativo potere di emissione e sottoscrizione.

La Corte, invero, ha statuito che ” è tuttavia sufficiente, al fine di non incorrere nella detta nullità (D.L. n. 248 del 2007, ex art. 36, comma 4-ter), l’indicazione di persona responsabile del procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta indicazione appare peraltro sufficiente ad assicurare gli interessi sottostanti alla detta indicazione, e cioè la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa” (Cass. n. 3533/2016).

La terza e la quarta censura, scrutinabili congiuntamente in perchè strettamente connesse, concernono la mancanza di utilità fondiaria specifica e la distribuzione del relativo onere della prova, vanno disattesa alla stregua della normativa regionale applicabile ratione temporis (cfr., in particolare, la L.R. Toscana 13 maggio 1994, n. 34).

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, mentre in assenza di “perimetro di contribuenza” o -si aggiunge -in assenza del piano di classifica e, ancora, in caso di mancata valutazione dell’immobile del contribuente nel “piano di classifica”, grava sul Consorzio l’onere di provare sia la qualità, in capo al contribuente, di proprietario di immobile sito nel comprensorio sia il conseguimento, da parte del fondo del contribuente, di concreti benefici derivanti dalle opere eseguite, qualora vi siano un “perimetro di contribuenza” e un “piano di classifica” inclusivi dell’immobile del contribuente, come deve ritenersi nel caso in esame, spetta al contribuente che impugni la cartella esattoriale, affermando l’insussistenza del dovere contributivo, l’onere di provare l’inadempimento delle indicazioni contenute nel piano di classifica, e segnatamente l’inesecuzione o il non funzionamento delle opere da questo previste, che sono cosa ben diversa dalla mera negazione del beneficio fondiario, poichè il vantaggio diretto ed immediato per l’immobile, che costituisce il presupposto dell’obbligo di contribuzione, ai sensi dellart. 860 c.c. e R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, art. 10, deve ritenersi presunto in ragione dell’avvenuta approvazione del medesimo piano di classifica e della comprensione dell’immobile nel perimetro di intervento consortile. (Cass. n. 23320/2014, n. 13167/2014, n. 4761/2012, n. 17066/2010, 26009/2008).

Emerge dalla sentenza impugnata, che riferisce pure dell’esistenza di un perimetro di contribuenza provvisorio delimitante l’area interessata dalle “opere pubbliche idrauliche e di bonifica” ed includente anche l’immobile per cui è causa, e a fortiori dal piano di classifica, che l’Ente impositore ha provato la realizzazione delle opere idrauliche e le attività di manutenzione, e con ciò ha provato anche “un reale e concreto benefico” di natura fondiaria per l’immobile del contribuente “legato al rischio idraulico evitato”.

A tal fine, la CTR ha inteso valorizzare, con valutazione del materiale probatorio riservata esclusivamente al giudice di merito, la conferma della sussistenza del beneficio fondiario – “legato al rischio idraulico” – “risulta dalla relazione prodotta in primo grado, nella quale, anche con l’ausilio di cartografie, con indicate le proprietà del ricorrente e le opere fatte presso di esse” essendo “possibile riscontrare anche visivamente tutte le attività dell’ente e apprezzare la contiguità con gli immobili del contribuente”.

Sulla scorta di quanto precede, quindi, il giudice di appello si è convinto che l’onere della prova contraria gravante sul contribuente medesimo non fosse stato adeguatamente assolto e che le relative deduzioni difensive si risolvessero in generiche contestazioni circa l’asserita insanabile assenza di un concreto vantaggio fondiario.

Quanto al dedotto profilo di illegittimità consequenziale al carattere provvisorio del perimetro di contribuenza ed alla mancata trascrizione del medesimo, va osservato come l’adozione di un perimetro di contribuenza provvisorio rientrasse tra le previsioni della L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, comma 4.

Non merita, pertanto, censura la sentenza della CTR la cui ratio decidendi si incentra proprio sull’affermazione, conforme alla richiamata giurisprudenza di legittimità, della accertata sussistenza del presupposto dell’obbligo contributivo costituito dalla inclusione dell’immobile nel perimetro consortile e dalla conseguente la presunzione di vantaggio fondiario.

Quanto al profilo di illegittimità concernente la mancata trascrizione del perimetro di contribuenza, adempimento previsto dalla L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, comma 2, ai sensi del R.D. n. 215 del 1933, al fine di darne “notizia al pubblico”, è appena il caso di osservare che, nel caso di specie, il rapporto impositivo si svolge nei soli confronti del diretto consorziato, il quale aveva modo di verificare l’effettiva ricomprensione del proprio immobile all’interno di esso mediante semplice consultazione del piano di classifica con il quale era stato adottato, dato accessibile, pur in difetto di trascrizione, in quanto portato da una delibera di approvazione regolarmente pubblicata e depositata.

La Corte, in proposito, ha avuto modo di chiarie che “in tema di pianificazione territoriale degli interventi in materia di bonifica, la trascrizione del provvedimento di “perimetrazione della contribuenza” prevista dal R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, art. 10, comma 2, derivando l’effetto dell’opponibilità degli atti ai terzi direttamente dalla legge, che prevede la costituzione dell’onere reale e la connessa prestazione patrimoniale vincolata all’utilità fondiaria, assolve esclusivamente alla funzione di mera pubblicità-notizia, in quanto adempimento di natura meramente dichiarativa, diretto a soddisfare l’esigenza della localizzazione degli interventi di bonifica ed a rendere pubblico il perimetro di contribuenza, e non integra “principio fondamentale” ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 3,. Ne consegue che la previsione, con norma regionale, della pubblicazione sul BURL del provvedimento amministrativo della Giunta regionale del piano di classifica e riparto, volto alla delimitazione territoriale dei fondi assoggettati a contributo, costituisce forma legittima di pubblicità legale diversa, idonea al raggiungimento dello scopo”. (Cass. n. 13167/2014, n. 7364/2012, n. 2838/2012).

La quinta censura, concernente la dedotta violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, per carenza motivazionale della cartella di pagamento impugnata, si appalesa inammissibile alla luce della giurisprudenza della Corte secondo cui, “in tema di processo tributario, ove si censuri la sentenza della Commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di una cartella di pagamento – la quale è atto amministrativo e non processuale – il ricorrente, a pena di inammissibilità, deve trascrivere testualmente il contenuto dell’atto impugnato che assume erroneamente interpretato o pretermesso dal giudice di merito al fine di consentire alla Corte di cassazione la verifica della doglianza esclusivamente mediante l’esame del ricorso”. (Cass. n. 28570/2019 e n. 16147/2017).

In ogni caso, il ricorrente a torto si duole della non esaustività della motivazione della cartella impugnata – profilo implicitamente disatteso dal giudice di appello che nella sentenza dà conto del relativo motivo d’appello – considerato che, come anche evidenziato dal Pubblico Ministero, nonostante la stessa constasse di “ben dodici pagine” (ricorso per cassazione, pag. 34) e deduce la mancata indicazione dei lavori per i quali il contributo era stato richiesto, della inerenza degli stessi all’immobile di proprietà, del beneficio apportato, dell’esattezza dei relativi calcoli, senza considerare che pur volendo considerare la cartella attraverso la quale il consorzio procede, ai sensi del R.D. n. 215 del 1933, art. 21, alla riscossione dei contributi, come atto sostanzialmente impositivo, tale motivazione ben può essere adottata per relationem, ad altri atti fondanti l’imposizione, conosciuti o conoscibili dal contribuente in quanto soggetti a pubblicità (Cass. SS.UU. n. 11722/2010 che richiama SS.UU. n. 26009/2008).

La doglianza oggetto d’esame appare incentrata sul fatto che la CTR ha ritenuto provato il beneficio fondiario anche se esso “(n)on è indicato nella cartella, non lo spiega la Comunità interpellata sul punto, non lo si comprende dagli atti prodotti nel giudizio, ove si evocano piani di classifica, indici numerici, formule discorsi di principio, regole programmatiche, definizioni (…)”.

Così argomentando, però, si finisce per confondere il profilo della legittimità formale dell’atto impugnato con quello della fondatezza della pretesa impositiva, la quale afferisce alla distribuzione dell’onere della prova della sussistenza del beneficio apportato al fondo, non già all’esclusione dell’obbligazione del consorziato che, nel caso di specie, propone una nozione di beneficio fondiario non in linea con la giurisprudenza della Corte.

E’, infatti, il piano di classifica che individua i benefici derivanti dalle opere di bonifica, stabilisce i parametri per la quantificazione dei medesimi e i conseguenti indici per la determinazione dei contributi, così come è il piano di riparto delle spese consortili che determina, sulla base della spesa prevista nei bilanci, la ripartizione dei contributi a carico di ciascuna proprietà interessata all’adempimento dei fini istituzionali del consorzio di bonifica sicchè l’obbligazione di motivazione della cartella ben può essere assolta rimandando a detti documenti, non necessariamente da allegare o trascrivere Inoltre, in tema di contributi consortili, vale il principio per cui “allorquando la cartella esattoriale emessa per la riscossione dei contributi medesimi sia motivata con riferimento ad un “piano di classifica” approvato dalla competente autorità regionale, è onere del contribuente che voglia disconoscere il debito contestare specificamente la legittimità del provvedimento ovvero il suo contenuto, nessun ulteriore onere probatorio gravando sul consorzio, in difetto di specifica contestazione”. (Cass. SS.UU. n. 26009/2008).

Quanto, infine, alla sesta censura, concernente i mezzi istruttori delle commissioni tributarie, va osservato che, con un ragionamento motivazionale il cui risultato sfugge ad un controllo da parte della Corte, che non ha il potere di riesaminare nel merito la causa, il giudice di appello mostra di aver apprezzato sul piano probatorio la documentazione offerta dall’Ente impositore, ritenendola idonea e sufficiente per sostenere la pretesa tributaria, per cui appare improprio il richiamo al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7, che prevede la possibile acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, in via eccezionale, considerato che la disposizione “preclude al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori in un processo a connotato tendenzialmente dispositivo”. (Cass. n. 18976/2007).

Sulla scorta di quanto sin qui illustrato il ricorso va integralmente respinto.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese di giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso, Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 3 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2022


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 03/03/2022) 08/04/2022, n. 11431

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – rel. Consigliere –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. MELE Maria Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 28163/2022 R.G. proposto da:

E.F., rappresentato e difeso dall’Avv. Francesco Di Mauro, con domicilio eletto in Roma, via Padre Semeria n. 33, presso lo studio, giusta procura speciale in calce al ricorso.

– ricorrente –

contro

Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora, già Comunità Montana Colline del Fiora.

– intimata –

nonchè Equitalia Sud s.p.a.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 2416/38/15 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 23/4/2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 3 marzo 2022 dal Consigliere Dott. Oronzo De Masi.

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. Stanislao De Matteis, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
E.F., dichiaratamente nudo proprietario dal 2003 di un immobile sito in (OMISSIS), impugnava, davanti alla Commissione tributaria Provinciale di Roma, la cartella di pagamento di contributi di bonifica, per l’anno 2012, dovuti alla Comunità Montana Colline del Fiora ed il giudice adito, con sentenza n. 299/23/13, in accoglimento del ricorso, annullava l’atto impugnato.

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con la sentenza indicata in epigrafe, accoglieva l’appello dell’Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora, succeduto alla Comunità Montana Colline del Fiora per effetto della L.R. n. 34 del 1994, rilevando invece che il perimetro di contribuenza, nel caso di specie, ” è stato delimitato con Delib. di assemblea dell’Ente, del 17/3/05, n. 3 ed i proprietari di immobili che ricadono nel comprensorio di bonifica così delimitato, sono tenuti all’obbligo contributivo, ai sensi dell’art. 860 c.c., indipendentemente dalla prova, da parte del Consorzio, sull’effettività del vantaggio specifico per il contribuente” e che la pretesa avanzata dal Consorzio di bonifica è fondata “poichè il presupposto della stessa è costituito dalla sola inclusione del fondo di proprietà del contribuente nel perimetro consortile, dovendosi ragionevolmente presumere l’utilità che da questo fatto, comunque, deriva indipendentemente dall’effettivo, diretto, specifico beneficio derivante all’immobile dalle opere eseguite dal Consorzio”.

Il contribuente propone cinque motivi di ricorso per la cassazione della sentenza, illustrati con memoria, mentre Unione dei Comuni Montani Colline del Fiora ed Equitalia Sud s.p.a. sono rimaste intimate. Fissato all’udienza pubblica odierna, il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina (successivamente prorogata) dettata dal D.L. n. 137 del 2020, sopravvenuto art. 23, comma 8-bis, inserito dalla L. di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento in presenza fisica del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.

Con il primo motivo di ricorso il contribuente lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4 – violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 148, 149 c.p.c., degli artt. 168 e 171 c.p.p., della L. n. 890 del 1982, art. 3, in tema di notifica degli atti a mezzo posta, nonchè del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, in quanto la CTR ha omesso di pronunciare sulla eccezione, articolata nel ricorso introduttivo e riproposta nelle controdeduzioni in appello, concernente l’inesistenza della notifica della cartella. Deduce, in particolare, la mancata osservanza da parte dell’Agente della riscossione delle modalità prescritte dalla legge, avendo spedito l’atto a mezzo raccomandata A/R senza curarsi della redazione della relata di notifica, come richiesto in generale dagli artt. 148 e 149 c.p.c., rendendo impossibile verificare se la consegna all’ufficio postale sia stata eseguita da uno dei soggetti abilitati.

Con il secondo motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 860 c.c. e L.R. Toscana n. 34 del 1994, artt. 3 e 4, per non avere la CTR considerato non rilevante il beneficio generale derivante dalle opere di bonifica laddove invece occorre un beneficio diretto e specifico, cioè un incremento di valore dell’immobile soggetto a contributo, in rapporto causale con le opere di bonifica e con la loro manutenzione.

Con il terzo motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., del R.D. n. 215 del 1933, art. 10, comma 2, e della L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, per non avere la CTR considerato che l’onere di provare il predetto beneficio specifico ricade sull’Ente impositore e che la Delib. del Consiglio Regionale che ha delimitato la superficie di ha 42.668 del comprensorio nel quale opera la Comunità Montana Colline del Fiora non risulta trascritta presso la Conservatoria dei RR.II..

Con il quarto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione dell’art. 7 Statuto del Contribuente, per non avere la CTR rilevato la dedotta carenza motivazionale della cartella di pagamento impugnata, non essendo possibile evincere per quali opere di bonifica il contributo consortile sia stato richiesto e quale sia il vantaggio fondiario che lo giustifica.

Con il quinto motivo lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 125 c.p.c., per non avere la CTR rilevato la dedotta nullità della cartella di pagamento per difetto di sottoscrizione del responsabile del procedimento.

Le censure sono infondate.

Quanto alla prima, concernente la notifica a mezzo del servizio postale della cartella di pagamento, che la CTR ha fatto rientrare tra le questioni “assorbite e superate, perchè irrilevanti alla luce dell’esito del giudizio”, l’odierno ricorrente prescinde dall’orientamento della Corte (Cass. n. 28995/2018) secondo cui “la figura dell’assorbimento esclude il vizio di omessa pronuncia, in quanto il vizio di omessa pronuncia è configurabile solo con riguardo alla mancanza di una decisione da parte del giudice in ordine ad una domanda che richieda una pronuncia di accoglimento o di rigetto (l’omessa pronunzia continua a sostanziarsi nella totale carenza di considerazione della domanda e dell’eccezione sottoposta all’esame del giudicante, il quale manchi completamente perfino di adottare un qualsiasi provvedimento, quand’anche solo implicito, di accoglimento o di rigetto, invece indispensabile alla soluzione del caso concreto, Cass. n. 21257 del 2014) e va escluso ove ricorrano gli estremi di una reiezione implicita o di un suo assorbimento in altre statuizioni”.

Il ricorrente, dunque, avrebbe dovuto censurare la correttezza della valutazione espressa dalla Corte di assorbimento dei motivi ulteriori, lamentando un vizio di motivazione del tutto omessa, e non sollevare un vizio di omessa pronuncia.

In ogni caso, in merito alla fondatezza della doglianza, è sufficiente richiamare la giurisprudenza della Corte secondo cui, “in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, seconda parte, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal cit. art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione”.(Cass. n. 6395/2014, n. 4567/2015, n. 20918/2016).

La seconda e la terza censura, scrutinabili congiuntamente in perchè strettamente connesse, concernono la mancanza di utilità fondiaria specifica e la distribuzione del relativo onere della prova, vanno disattese alla stregua della normativa regionale applicabile ratione temporis (cfr., in particolare, la L.R. Toscana 13 maggio 1994, n. 34).

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, mentre in assenza di “perimetro di contribuenza” o -si aggiunge -in assenza del piano di classifica e, ancora, in caso di mancata valutazione dell’immobile del contribuente nel “piano di classifica”, grava sul Consorzio l’onere di provare sia la qualità, in capo al contribuente, di proprietario di immobile sito nel comprensorio sia il conseguimento, da parte del fondo del contribuente, di concreti benefici derivanti dalle opere eseguite, qualora vi siano un “perimetro di contribuenza” e un “piano di classifica” inclusivi dell’immobile del contribuente, come deve ritenersi nel caso in esame, spetta al contribuente che impugni la cartella esattoriale, affermando l’insussistenza del dovere contributivo, l’onere di provare l’inadempimento delle indicazioni contenute nel piano di classifica, e segnatamente l’inesecuzione o il non funzionamento delle opere da questo previste, che sono cosa ben diversa dalla mera negazione del beneficio fondiario, poichè il vantaggio diretto ed immediato per l’immobile, che costituisce il presupposto dell’obbligo di contribuzione, ai sensi dell’art. 860 c.c. e del R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, art. 10, deve ritenersi presunto in ragione dell’avvenuta approvazione del medesimo piano di classifica e della comprensione dell’immobile nel perimetro di intervento consortile. (Cass. n. 23320/2014, n. 13167/2014, n. 4761/2012, n. 17066/2010, 26009/2008).

Emerge dal ricorso per cassazione – e niente di diverso risulta dalla sentenza impugnata che riferisce dell’esistenza di un perimetro di contribuenza provvisorio delimitante l’area interessata dalle “opere idrauliche e manutentive” e includente anche l’immobile per cui è causa – che la cartella di pagamento faceva menzione al piano di classifica (pag. 9 del ricorso) ed il contribuente non ha neppure allegato l’inadempimento delle indicazioni contenute nel piano di classifica, essendosi limitato a contestare il difetto di motivazione della cartella e, nel merito della pretesa, ad asserire in modo generico che vi sarebbe stata assenza insanabile di beneficio fondiario, avuto riguardo al dedotto necessario nesso di causalità con opere determinate.

A fronte del dato pacifico di causa costituito dall’inserimento dell’immobile del contribuente nel perimetro consortile (sia pure provvisorio), nonchè della mancata contestazione, da parte di quest’ultimo, del piano di classifica e di ripartizione approvato dall’autorità regionale, gravava sul contribuente medesimo l’onere di superare la presunzione relativa di vantaggiosità specifica, mediante prova contraria (Cass. n. 23542/2019, n. 18387/2019).

Non merita, pertanto, alcuna censura la sentenza della CTR la cui ratio decidendi si incentra proprio sull’affermazione, conforme alla richiamata giurisprudenza di legittimità, della accertata sussistenza del presupposto dell’obbligo contributivo costituito dalla inclusione dell’immobile nel perimetro consortile e dalla conseguente la presunzione di vantaggio fondiario.

Quanto al profilo di illegittimità per mancata trascrizione del perimetro di contribuenza, adempimento previsto dalla L.R. Toscana n. 34 del 1994, art. 15, comma 2, ai sensi del R.D. n. 215 del 1933, al fine di darne “notizia al pubblico”, è appena il caso di osservare che, nel caso di specie, il rapporto impositivo si svolge nei soli confronti del diretto consorziato, il quale aveva modo di verificare l’effettiva ricomprensione del proprio immobile all’interno di esso mediante semplice consultazione del piano di classifica con il quale era stato adottato, dato accessibile, pur in difetto di trascrizione, in quanto portato da una delibera di approvazione regolarmente pubblicata e depositata.

La Corte, in proposito, ha avuto modo di chiarie che “in tema di pianificazione territoriale degli interventi in materia di bonifica, la trascrizione del provvedimento di “perimetrazione della contribuenza” prevista dal R.D. 13 febbraio 1933, n. 215, art. 10, comma 2, derivando l’effetto dell’opponibilità degli atti ai terzi direttamente dalla legge, che prevede la costituzione dell’onere reale e la connessa prestazione patrimoniale vincolata all’utilità fondiaria, assolve esclusivamente alla funzione di mera pubblicità-notizia, in quanto adempimento di natura meramente dichiarativa, diretto a soddisfare l’esigenza della localizzazione degli interventi di bonifica ed a rendere pubblico il perimetro di contribuenza, e non integra “principio fondamentale” ai sensi dell’art. 117 Cost., comma 3. Ne consegue che la previsione, con norma regionale, della pubblicazione sul BURL del provvedimento amministrativo della Giunta regionale del piano di classifica e riparto, volto alla delimitazione territoriale dei fondi assoggettati a contributo, costituisce forma legittima di pubblicità legale diversa, idonea al raggiungimento dello scopo”. (Cass. n. 13167/2014, n. 7364/2012, n. 2838/2012).

La quarta censura, concernente la dedotta violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7, per carenza motivazionale della cartella di pagamento impugnata, si appalesa inammissibile in quanto, “in tema di processo tributario, ove si censuri la sentenza della Commissione tributaria sotto il profilo del giudizio espresso in ordine alla motivazione di una cartella di pagamento – la quale è atto amministrativo e non processuale – il ricorrente, a pena di inammissibilità, deve trascrivere testualmente il contenuto dell’atto impugnato che assume erroneamente interpretato o pretermesso dal giudice di merito al fine di consentire alla Corte di cassazione la verifica della doglianza esclusivamente mediante l’esame del ricorso”. (Cass. n. 28570/2019 e n. 16147/2017).

La parte ricorrente si duole a torto della non esaustività della motivazione della cartella impugnata – profilo implicitamente disatteso dal giudice di appello – nonostante la stessa constasse di “ben dodici pagine” e deduce la mancata indicazione dei lavori per i quali il contributo era stato richiesto, della inerenza degli stessi all’immobile di proprietà, del beneficio apportato, dell’esattezza dei relativi calcoli, senza considerare che pur volendo considerare la cartella attraverso la quale il consorzio procede, ai sensi dell’art. 21, R.D. n. 215 del 1933, alla riscossione dei contributi, come atto sostanzialmente impositivo, tale motivazione ben può essere adottata per relationem, ad altri atti fondanti l’imposizione, conosciuti o conoscibili dal contribuente in quanto soggetti a pubblicità (Cass. SS.UU. n. 11722/2010 che richiama SS.UU. n. 26009/2008).

Nella specie, è il piano di classifica che individua i benefici derivanti dalle opere di bonifica, stabilisce i parametri per la quantificazione dei medesimi e i conseguenti indici per la determinazione dei contributi, così come è il piano di riparto delle spese consortili che determina, sulla base della spesa prevista nei bilanci, la ripartizione dei contributi a carico di ciascuna proprietà interessata all’adempimento dei fini istituzionali del consorzio di bonifica.

Inoltre, in tema di contributi consortili, vale il principio per cui “allorquando la cartella esattoriale emessa per la riscossione dei contributi medesimi sia motivata con riferimento ad un “piano di classifica” approvato dalla competente autorità regionale, è onere del contribuente che voglia disconoscere il debito contestare specificamente la legittimità del provvedimento ovvero il suo contenuto, nessun ulteriore onere probatorio gravando sul consorzio, in difetto di specifica contestazione”. (Cass. SS.UU. n. 26009/2008).

Con l’ultima censura il ricorrente deduce la nullità della cartella di pagamento per difetto di sottoscrizione del responsabile del procedimento, essendo ad avviso dell’impugnante insufficiente il “fatto che sia indicato un responsabile del procedimento”.

La doglianza, per quanto è dato comprendere, si incentra sulla mancanza di autografia della sottoscrizione e la Corte ha precisato, in tema di tributi regionali e locali, che “qualora l’atto di liquidazione o di accertamento sia prodotto mediante sistemi informativi automatizzati, la sottoscrizione di esso può essere legittimamente sostituita, ai sensi della L. n. 549 del 1995, art. 1, comma 87, dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile, individuato da apposita determina dirigenziale”. (Cass. n. 20628/2017).

La censura, del resto, neppure pone specificamente in dubbio che il nominativo apposto sulla cartella rispondesse in effetti a funzionario dell’Agente della riscossione regolarmente investito del relativo potere di emissione e sottoscrizione.

La Corte, invero, ha statuito che ” è tuttavia sufficiente, al fine di non incorrere nella detta nullità (D.L. n. 248 del 2007, ex art. 36, comma 4-ter), l’indicazione di persona responsabile del procedimento, a prescindere quindi dalla funzione (apicale o meno) della stessa effettivamente esercitata; siffatta indicazione appare peraltro sufficiente ad assicurare gli interessi sottostanti alla detta indicazione, e cioè la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino (anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile) e la garanzia del diritto di difesa” (Cass. n. 3533/2016).

Sulla scorta di quanto sin qui illustrato il ricorso va integralmente respinto.

Non v’è luogo a provvedere sulle spese di giudizio non avendo le parti intimate svolto attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 3 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 aprile 2022


Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 24/02/2022) 04/04/2022, n. 2442

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 5399 del 2021, proposto da Università degli Studi di Brescia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12;

contro

D. Società Cooperativa Sociale Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Domenico Bezzi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

nei confronti

C. Società Cooperativa Sociale Onlus, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Chiara Clementi, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia (Sezione Prima), n. 00417/2021, resa tra le parti;

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di C. Società Cooperativa Sociale Onlus e di D. Società Cooperativa Sociale Onlus;

Visti tutti gli atti della causa;

Viste le conclusioni delle parti come da verbale;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 24 febbraio 2022 il Cons. Francesco De Luca e udito per la parte appellante l’avv. dello Stato Maria Teresa Lubrano Lobianco;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Ricorrendo dinnanzi a questo Consiglio, l’Università degli Studi di Brescia appella la sentenza n. 417 del 2021, con cui il Tar Lombardia, sezione staccata di Brescia, ha accolto il ricorso di prime cure, proposto dalla D. Società Cooperativa Sociale Onlus (per brevità anche D.O.) e diretto ad ottenere l’annullamento degli atti relativi alla procedura di gara per l’affidamento del servizio di portierato e custodia indetta dal medesimo Ateneo appellante.

In particolare, secondo quanto dedotto in appello:

– l’Università degli Studi di Brescia ha indetto in data 23 maggio 2019 una procedura aperta per l’affidamento del servizio di portierato e custodia dei propri uffici e dei relativi servizi ausiliari di supporto con finalità di promozione e tutela dell’inserimento lavorativo di persone svantaggiate, per il periodo 1 maggio 2020 – 30 aprile 2026, con importo a base d’asta di € 2.047.500,00;

– alla procedura di gara hanno preso parte la C. Società Cooperativa Sociale Onlus (per brevità, anche C.O.) e la D.O.: all’esito della valutazione delle offerte, la C.O. si è classificata alla prima posizione con 94,51 punti (di cui 64,51 per l’offerta tecnica e 30 per l’offerta economica), mentre la D.O., gestore uscente del servizio, si è classificata alla seconda posizione con il punteggio di 84,57 (di cui 59,78 punti per l’offerta tecnica e 24,79 punti per l’offerta economica);

– la D.O. ha impugnato, con un primo ricorso proposto dinnanzi al Tar Lombardia, sezione staccata di Brescia, il provvedimento di aggiudicazione della procedura, deducendo l’inattendibilità dell’offerta presentata dall’aggiudicataria, incentrata sulla valorizzazione di un prezzo asseritamente inidoneo a garantire la copertura dei costi dei servizi aggiuntivi promessi nell’offerta tecnica;

– il Tar adito ha accolto il ricorso, ritenendo inattendibile il giudizio di congruità dell’offerta prima classificata formulato dalla stazione appaltante, annullando per l’effetto l’aggiudicazione dell’appalto, dichiarando l’inefficacia del contratto stipulato e ordinando all’Amministrazione di riattivare la procedura valutativa dal punto in cui era intervenuto l’annullamento;

– l’Università ha rinnovato il sub-procedimento di verifica dell’anomalia, provvedendo ad aggiudicare nuovamente la gara in favore della C.O.;

– la D.O. ha impugnato anche tale secondo provvedimento di aggiudicazione, ritenendo che pure la nuova valutazione di congruità dell’offerta fosse inficiata da vizi di legittimità; il ricorso è stato notificato presso la sede dell’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Brescia, anziché presso la sede dell’Ateneo;

– l’Ateneo, in ragione della supposta nullità della notificazione del ricorso, non si è costituito in giudizio; il Tar ha rimesso in termini la ricorrente, ritenendo scusabile l’errore in cui la stessa era incorsa nella notificazione del ricorso e, per l’effetto, ha assegnato un termine per la rinnovazione della notifica presso la sede dell’Ateno;

– l’Ateneo, ricevuta la notificazione del ricorso, si è costituito in giudizio, eccependo, in via pregiudiziale, l’illegittimità della rimessione in termini per l’insussistenza dell’errore scusabile ravvisato dal Tar;

– il Tar, rigettando l’eccezione pregiudiziale dell’Ateneo, ha accolto il ricorso, escludendo la congruità dell’offerta della prima classificata; per l’effetto, il primo giudice ha annullato l’aggiudicazione e ha dichiarato inefficace il contratto stipulato dall’Università.

2. L’Ateneo, soccombente in primo grado, ha appellato la sentenza pronunciata dal Tar, deducendone l’erroneità con due complessivi motivi di impugnazione.

3. Le società cooperative C. e D. si sono costituite in giudizio, la prima aderendo alle conclusioni svolte dall’Ateneo, la seconda resistendo all’appello.

4. La Sezione, con ordinanza n. 5205 del 24 settembre 2021, in accoglimento dell’istanza cautelare articolata nel ricorso in appello, ha sospeso l’efficacia dell’esecutività della sentenza appellata.

5. Le parti private, in vista dell’udienza pubblica di discussione dell’appello, hanno depositato memoria difensiva, insistendo nelle rispettive conclusionali. La Cooperativa D.O. ha pure depositato repliche alle avverse deduzioni.

6. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 24 febbraio 2022.

7. Il ricorso in appello è articolato in due motivi di impugnazione: il primo, diretto a censurare il capo decisorio con cui il Tar ha rigettato l’eccezione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso di primo grado per nullità della sua notificazione; il secondo, rivolto contro le statuizioni riferite al merito della vertenza e, dunque, alla ravvisata illegittimità delle operazioni valutative, svolte dall’Amministrazione, in ordine alla congruità dell’offerta selezionata.

8. In particolare, con il primo motivo di appello viene dedotta la “Violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 11 e 43 del R.D. n. 1611 del 1933, degli artt. 144 e 145 c.p.c., nonché dell’art. 37 c.p.a. – Inammissibilità e/o irricevibilità del ricorso introduttivo – Nullità della sentenza impugnata”.

8.1 Secondo la prospettazione attorea, il Tar avrebbe errato nel ritenere scusabile l’errore commesso dalla ricorrente nell’esecuzione della prima notificazione del ricorso principale di primo grado, avvenuta nullamente in data 7.12.2020 presso l’Avvocatura Distrettuale di Brescia, in violazione degli artt. 1, 11 e 43 R.D. n. 1611 del 1933, nonché degli artt. 144 e 145 c.p.c.

In particolare, il Tar ha ritenuto che l’errore fosse giustificato dalla qualificazione erronea, recata nel Regolamento di Ateneo, del patrocinio erariale come patrocinio obbligatorio, quando, invece, dalle difese svolte dalla ricorrente in primo grado si desumerebbe che l’errore sarebbe stato provocato, più che dall’utilizzo, nell’ambito del regolamento di ateneo, della locuzione “obbligatorio” riferita al patrocinio erariale, dalla qualificazione, sempre ad opera del Regolamento di ateneo, del relativo patrocinio come “ex lege”.

Tale ultima qualificazione del patrocinio erariale delle Università come legale dovrebbe, tuttavia, ritenersi corretta ai sensi della L. n. 68 del 1989 e dell’art. 43 R.D. n. 1611 del 1933, facendosi questione, anche per le amministrazioni diverse da quelle statali, comunque di un patrocinio ex lege, nonché “organico e esclusivo”, originando il rapporto tra Avvocatura ed ente assistito direttamente dalla legge.

La distinzione tra Amministrazioni statali e amministrazioni pubbliche autonome, ai fini della sottoposizione al patrocinio erariale, dunque, non rileverebbe per la natura del relativo rapporto, discorrendosi sempre di patrocinio legale, ma per la disciplina processuale applicabile, in quanto per le Amministrazioni autonome, quale dovrebbe ritenersi l’Ateneo, non opererebbe la regola di cui all’art. 11 R.D. n. 1611 del 1933, che prescrive la notificazione degli atti processuali presso l’Avvocatura dello Stato.

Si tratterebbe di un regime delineato direttamente dalla legge, dal contenuto precettivo chiaro, che non avrebbe potuto generare alcun errore scusabile in ordine alla sua portata applicativa; né avrebbe potuto argomentarsi diversamente sulla base di quanto previsto dal Regolamento di Ateneo che, pur impiegando la locuzione “obbligatorio” (per qualificare il patrocinio dell’Avvocatura nei confronti dell’Università), non potrebbe far dubitare della natura giuridica del soggetto patrocinato e della conseguente disciplina processuale applicabile.

L’errore de quo, dunque, non potrebbe ritenersi scusabile, in quanto frutto di una non corretta interpretazione degli artt. 1, 11 e 43 del R.D. n. 1611 del 1933, nonché 144 e 145 c.p.c., come tale da ascrivere al soggetto notificante.

Per l’effetto, facendosi questione di errore non scusabile, il Tar avrebbe dovuto dichiarare l’inammissibilità e/o l’irricevibilità del ricorso di primo grado: né avrebbe potuto sostenersi che la costituzione in giudizio dell’Ateneo avesse sanato l’originario vizio processuale, in quanto l’Amministrazione si era costituita soltanto dopo la rimessione in termini disposta dal Tar e al fine di eccepire l’inammissibilità del ricorso.

8.2 Il motivo di appello è infondato.

8.3 Preliminarmente, si evidenzia la necessità di procedere alla correzione della motivazionale alla base della sentenza di primo grado, in quanto il rigetto dell’eccezione di inammissibilità/irricevibilità del ricorso introduttivo del giudizio, come si osserverà infra, non può essere giustificato in ragione della scusabilità dell’errore in cui è incorso il notificante (secondo quanto ritenuto dal Tar), ma per la necessità di provvedere, comunque, alla rinnovazione della notificazione nelle ipotesi di sua nullità, a prescindere dalla imputabilità o dalla scusabilità dell’errore commesso dal notificante.

La correzione della motivazione non può, tuttavia, condurre all’accoglimento del motivo di appello, non permettendo di giungere ad un diverso esito del giudizio di primo grado.

Difatti, in ragione dell’effetto devolutivo proprio dell’appello, la contraddittorietà o l’erroneità della motivazione giudiziale non determinano l’annullamento con rinvio della sentenza gravata (non ricorrendo alcuna delle fattispecie di rimessione al primo giudice ex art. 105 c.p.a.), né comportano la riforma della pronuncia di prime cure, ammissibile soltanto ove si giunga ad un diverso esito della controversia.

Pure di fronte ad una motivazione contraddittoria o erronea, occorre verificare in sede di appello se il contenuto dispositivo della decisione assunta dal Tar – nella specie di rigetto dell’eccezione di inammissibilità/irricevibilità opposta dall’Ateneo – sia comunque corretto.

8.4 Al riguardo, si osserva che l’appellante argomenta le proprie deduzioni sul presupposto per cui la nullità della notificazione del ricorso di primo grado, derivante da una causa imputabile al ricorrente (come tale inidonea ad integrare gli estremi dell’errore scusabile), non seguita da una spontanea costituzione della parte intimata, sia motivo di inammissibilità e/o irricevibilità del ricorso.

Tale presupposto, all’esito della dichiarazione di parziale incostituzionalità dell’art. 44, comma 4, c.p.a., per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 148 del 9 luglio 2021, non può tuttavia essere condiviso.

Con tale sentenza, in particolare, la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 44, comma 4, dell’Allegato 1 (codice del processo amministrativo) al D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 (Attuazione dell’articolo 44 della L. 18 giugno 2009, n. 69, recante delega al governo per il riordino del processo amministrativo), limitatamente alle parole “, se ritiene che l’esito negativo della notificazione dipenda da causa non imputabile al notificante,”.

A fronte di una notificazione del ricorso nulla, all’esito dell’intervento della sentenza n. 148 del 9 luglio 2021 cit., deve, dunque, sempre ordinarsi la sua rinnovazione, a prescindere dall’imputabilità o scusabilità dell’errore del notificante (Consiglio di Stato, sez. II, 20 dicembre 2021, n. 8436), con la conseguente necessità di assegnare alla parte ricorrente un nuovo termine che, ove rispettato, consente la sanatoria in via retroattiva del relativo vizio processuale.

Tale precetto, desumibile dall’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a., risultante dalla predetta dichiarazione di parziale incostituzionalità, deve trovare applicazione anche nel caso di specie, facendosi questione di un rapporto processuale ancora non esaurito.

Come precisato da questo Consiglio, infatti, “non v’è dubbio che l’efficacia ex tunc della sentenza di accoglimento della Corte costituzionale, alla stregua dell’articolo 30, comma 3, della L. 11 marzo 1953, n. 87, non trova in questo caso limite in “rapporti esauriti”, essendo tuttora pendenti i presenti giudizi senza che sia intervenuto alcun giudicato” (Consiglio di Stato, sez. IV, 13 dicembre 2021, n. 8303).

Nella presente sede, pertanto, la questione afferente alle conseguenze discendenti dalla nullità della notificazione del ricorso, non essendo preclusa dalla formazione di un giudicato interno (in quanto oggetto di apposito motivo di impugnazione), deve essere esaminata alla stregua dell’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a.

Di conseguenza, non subordinando tale disposizione la rinnovazione della notificazione nulla alla scusabilità dell’errore in cui sia incorso il ricorrente, l’Ateneo non può fondatamente contestare l’inammissibilità del ricorso di primo grado, in quanto nullamente notificato presso l’Avvocatura Distrettuale anziché presso la propria sede istituzionale.

Tale vizio non potrebbe, infatti, configurare una causa di inammissibilità o irricevibilità del ricorso di primo grado, imponendo soltanto la rinnovazione della notificazione ai fini della regolare costituzione del contraddittorio processuale; il che è puntualmente avvenuto nella specie, attraverso l’ordine di rinnovazione impartito dal Tar, la cui esecuzione ha permesso di sanare il relativo vizio di notificazione; ciò a prescindere dal riferimento (non più rilevante all’esito dell’attuale formulazione dell’art. 44, comma 4, c.p.a.) operato dal primo giudice alla supposta scusabilità dell’errore del ricorrente.

In conclusione, tendendo l’Ateneo a valorizzare una circostanza (inescusabilità dell’errore del notificante) non più rilevante ai fini del trattamento processuale della nullità della notificazione del ricorso, sempre da rinnovare in caso di mancata costituzione della parte intimata, non può accogliersi il primo motivo di appello, in quanto inidoneo a condurre alla riforma della decisione al riguardo assunta dal primo giudice.

9. Con il secondo motivo di appello vengono censurate le statuizioni riferite al merito della vertenza, con cui il Tar ha ritenuto anomala ed incongrua l’offerta presentata dalla prima classificata.

9.1 L’Ateneo, prendendo specifica posizione sulle singole voci di costo reputate incongrue dal primo giudice – alla base del giudizio di inaffidabilità dell’offerta recato nella sentenza gravata – deduce la correttezza dell’operato del RUP e della Commissione di gara, ritenendo che sia stata verificata con ogni legittimo strumento (ivi compresa una ricerca di mercato) l’attendibilità dei costi proposti dall’aggiudicataria

In particolare:

– con riferimento alle divise in dotazione al personale, la stima dei costi effettuata dalla società aggiudicataria sarebbe risultata in linea con il prezzo di analoghi prodotti reperibili sul mercato, come confermato da apposita verifica in rete legittimamente svolta dalla stazione appaltante; il Tar, peraltro, avrebbe errato nel ritenere necessaria una sostituzione integrale con cadenza annuale delle divise in dotazione, non risultando un tale impegno dall’offerta tecnica dell’aggiudicataria, stante l’emersione di una spesa da non rinnovare necessariamente ogni anno e per ogni unità di personale, come confermato dai giustificativi dell’aggiudicataria; del resto, l’usura di un capo di abbigliamento sarebbe soggetta a variabili in ragione della tipologia del capo, che comunque potrebbe avere una durata ben superiore a quella annuale;

– con riferimento alle bacheche elettroniche, si sarebbe in presenza di “migliorie a costo zero” relative a “B.E.G.C.: Sistema Automatizzato di gestione chiavi”, descritte al punto 1.1.c come “cassetta portachiavi” e oggetto di rappresentazione fotografica; in assenza di ulteriori specifiche, dunque, la descrizione proposta dall’aggiudicataria e la fotografia allegata sarebbero compatibili con quanto dichiarato nelle giustificazioni; l’Amministrazione avrebbe pure valutato la compatibilità dei costi di mercato con l’offerta complessiva, non potendosi ritenere corretto il giudizio di prime cure – secondo cui il preventivo impiegato dalla stazione appaltante per valutare la congruità dell’offerta sarebbe riferito ad un prodotto diverso da quello oggetto di offerta – tenuto conto, altresì, che pure l’armadio con serratura intelligente di cui all’allegato 16 delle produzioni di primo grado consisterebbe in uno strumento di custodia delle chiavi suscettibile di essere utilizzato tramite “automazione”, attraverso l’impiego di comandi da remoto o di smartphone;

– con riferimento al responsabile sociale del progetto, parimenti, le statuizioni di prime cure non potrebbero ritenersi corrette, in quanto l’Amministrazione, sulla base di un parere di un consulente del lavoro (all’uopo acquisito) neppure esaminato dal Tar, avrebbe correttamente confermato l’inquadramento lavorativo del responsabile designato alla luce delle indicazioni fornite dal Tar Brescia con la precedente sentenza n. 598/2020, con conseguente mancata emersione di costi aggiuntivi a carico dell’aggiudicataria;

– con riferimento ai beni strumentali a magazzino, sarebbe provata la loro presenza a magazzino e, comunque, il costo indicato dall’aggiudicataria (€ 800-900) risulterebbe in ogni caso compatibile con l’utile dichiarato;

– con riferimento all’utile di impresa, alla stregua delle doglianze svolte dall’Ateneo, emergerebbe la correttezza della valutazione operata in sede amministrativa, con la valorizzazione di un utile, pari a quello dichiarato in offerta, suscettibile di sostenere l’offerta, tenuto conto pure delle dimensioni societarie della C. e della sua natura giuridica di Onlus, non avente fine di lucro e per la quale, dunque, dovrebbe ammettersi pure la presentazione di un’offerta senza utile.

9.2 Le censure impugnatorie sono infondate; il che esime il Collegio dallo statuire sull’eccezione di inammissibilità delle relative censure – per violazione dell’art. 101 c.p.a. – opposta dalla D.O. con memoria del 20.9.2021.

9.3 Preliminarmente, giova richiamare il consolidato indirizzo giurisprudenziale (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. V, 10 gennaio 2022, n. 167), secondo cui la verifica dell’anomalia dell’offerta è finalizzata ad accertare la complessiva attendibilità e serietà della stessa, sulla base di una valutazione che ha natura globale e sintetica e che costituisce, in quanto tale, espressione di un tipico potere tecnico-discrezionale riservato all’Amministrazione, in via di principio insindacabile in sede giurisdizionale, salvo che per ragioni legate alla eventuale (e dimostrata) manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza dell’operato dell’Amministrazione, tale da rendere palese l’inattendibilità complessiva dell’offerta.

Trattandosi, quindi, di valutare l’offerta nel suo complesso, il giudizio di anomalia non ha a oggetto la ricerca di specifiche e singole inesattezze, mirando piuttosto ad accertare se essa in concreto sia attendibile e affidabile in relazione alla corretta esecuzione dell’appalto; pertanto, la valutazione di congruità, globale e sintetica, non deve concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo; con la conseguenza che, se anche singole voci di prezzo o singoli costi non abbiano trovato immediata e diretta giustificazione, non per questo l’offerta va ritenuta inattendibile, dovendosi, invece, tener conto della loro incidenza sul costo complessivo del servizio per poter arrivare ad affermare che tali carenze siano in grado di rendere dubbia la corrispettività proposta dall’offerente e validata dalla stazione appaltante.

Salvo il caso in cui il margine positivo risulti pari a zero, peraltro, non è dato stabilire una soglia di utile al di sotto della quale l’offerta va considerata anomala, potendo anche un utile modesto comportare un vantaggio significativo.

Alla luce di tali coordinate ermeneutiche, deve verificarsi, dapprima, se la valutazione amministrativa in ordine alla congruità delle singole voci di costo in contestazione possa ritenersi frutto di manifesta e macroscopica erroneità o irragionevolezza; all’esito, se gli eventuali manifesti errori così riscontrati siano idonei a determinare una complessiva inattendibilità e inaffidabilità dell’offerta selezionata.

Nello svolgere tali verifiche si deve anche tenere conto di una peculiarità dell’odierno giudizio, rappresentata dalla preesistenza di una sentenza di annullamento (n. 598 del 2020), passata in giudicato, intervenuta tra le stesse parti e in relazione alla medesima procedura, con cui il Tar Lombardia, Brescia, ha già annullato le operazioni valutative svolte dall’Amministrazione in relazione alla congruità dell’offerta selezionata.

Il pregresso giudicato di annullamento risulta, infatti, idoneo a produrre sia un effetto preclusivo, impedendo all’Amministrazione, nella fase di riedizione del potere, di ripetere le illegittimità già riscontrate in giudizio, sia un effetto conformativo, imponendo all’Amministrazione di assumere le determinazioni di competenza (relative alla stessa vicenda amministrativa in cui è stato adottato il provvedimento annullato in giudizio) nel rispetto dei criteri direttivi discendenti dalla relativa pronuncia giurisdizionale.

9.4 Sulla base di tali premesse è possibile soffermarsi sulle singole censure impugnatorie svolte dall’Ateneo, seguendo l’ordine espositivo alla base del ricorso in appello.

10. In primo luogo, deve essere esaminata la censura riguardante il costo delle divise in dotazione al personale.

Tale censura, sopra sintetizzata, è infondata.

10.1 L’incongruità del costo delle divise in parola era stata già rilevata dal Tar Lombardia, Brescia, nella sentenza n. 598 del 2020 cit., con cui erano state accolte le doglianze attoree ivi articolate, anche in relazione “alle divise complete per i 19 addetti impiegati nell’esecuzione del servizio (due per ciascun addetto), il cui costo indicato dalla controinteressata (€uro 25,00 l’una), palesemente fuori mercato, non emerge né da preventivi del fornitore, né dal documento di trasporto versato in atti. Sicché, l’affermazione di essere un grande operatore del settore e di godere pertanto di forti sconti rimane una mera allegazione, priva di valore nella sua genericità”.

Tale capo decisorio, in quanto recato in una sentenza rimasta inoppugnata, deve ritenersi espressivo di un accertamento ormai irretrattabile, idoneo a conformare il concreto rapporto amministrativo attuato inter partes, rientrando nel perimetro oggettivo del relativo giudicato di annullamento.

Al fine di delimitare la portata del giudicato, occorre infatti procedere ad una lettura congiunta di dispositivo e motivazione, da correlarsi con la causa petendi introdotta dal ricorrente, intesa come titolo dell’azione proposta, e del bene della vita che ne forma l’oggetto (“petitum” mediato): il giudicato, in particolare, si forma su tutto ciò che ha costituito oggetto della decisione, comprese le questioni e gli accertamenti che rappresentano le premesse necessarie e il fondamento logico-giuridico ineludibile della pronuncia – che ne costituiscono il giudicato implicito – e che si ricollegano, quindi, in modo indissolubile alla decisione – che costituisce il giudicato esplicito – formandone l’indispensabile presupposto (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 28 gennaio 2021, n. 832; Id., Sez. II, 16 marzo 2021, n. 2248).

La sentenza di annullamento cit. pronunciata dal Tar Lombardia risultava incentrata, altresì:

– sulla genericità delle deduzioni della controinteressata, riferite alla possibilità di godere di forti sconti risultando un grande operatore del settore;

– su un preciso presupposto, dato dall’offerta, a cura dell’aggiudicatario, di divise complete per 19 addetti, due per ciascun addetto, con un costo indicato dalla controinteressata pari a € 25,00 l’una.

Ne deriva che:

– le dimensioni e la presenza nel mercato della C., di per sé, non possono costituire elementi utilmente valorizzabili per giustificare i costi esposti dal concorrente, occorrendo al riguardo una circostanziata prova da fornire a cura della controinteressata;

– l’offerta di due divise per ogni addetto costituisce una premessa alla base della sentenza n. 598/20 cit., integrando una circostanza fattuale compresa nel perimetro del pregresso giudicato di annullamento, come tale, non revocabile in dubbio in sede amministrativa o nella presente sede giurisdizionale.

10.2 Tale ultimo presupposto, peraltro, è coerente con l’offerta presentata dall’aggiudicataria e con i giustificativi dalla stessa prodotti in sede procedimentale.

In particolare, avuto riguardo all’offerta tecnica (pag. 3 – doc. 5 ricorso di primo grado), emerge che l’abbigliamento previsto per lo svolgimento del servizio constava:

– per le operatrici, di una divisa per la stagione fredda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica lunga”, “pantalone o gonna”, “cintura” e “foulard o cravatta”; nonché di una divisa per la stagione calda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica corta”, “pantalone o gonna”, “cintura” e “foulard o cravatta”;

– per gli operatori uomini, di una divisa per la stagione fredda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica lunga”, “pantalone”, “cintura” e “cravatta”, nonché di una divisa per la stagione calda, composta da “giacca manica lunga”, “camicia manica corta”, “pantalone”, “cintura” e “cravatta”.

Con i giustificativi del 28.11.2019 (all. 6 ricorso di primo grado) la C.O. ha rappresentato che il costo annuale accantonato per ogni operatore in relazione ai costi aziendali in materia di sicurezza sarebbe stato pari ad € 150,00, di cui € 35,00 per visita, € 25,00 per divisa, € 25,00 per dpi, € 25 per corso sicurezza, € 20 per corso pulizie ed € 20,00 per varie; con la precisazione che si trattava di costo approssimato prudenzialmente per eccesso, tenuto conto pure che la fornitura di alcuni dispositivi di protezione individuale non sarebbe avvenuta in ogni singolo anno di un appalto e gli attestati in materia di sicurezza avrebbero dovuto essere già in possesso del personale attualmente svolgente il servizio, essendo comunque inclusi nel costo orario minimo tabellare.

L’aggiudicataria, nell’ambito dei giustificativi del 21.9.2020 (all. 3 ricorso di primo grado), ha preso posizione sui rilievi formulati dal Tar Lombardia nella sentenza n. 598/2020, secondo cui il costo di € 25,00 per ogni divisa sarebbe risultato fuori mercato, ritenendo “la perfetta congruità del relativo costo per come a suo tempo indicato nell’offerta tecnica”, come emergente dalla fattura emessa da un fornitore trasmessa dalla stessa aggiudicataria alla stazione appaltante, che avrebbe comprovato “la operatività di quelle economie di scala che connotano per vari settori i rapporti commerciali del presente operatore economico con i propri fornitori”.

Dalla documentazione in atti emerge, dunque, che:

– l’offerta tecnica presentata dall’aggiudicatario prevedeva due divise per ciascun addetto, utilizzabili rispettivamente nella stagione fredda e nella stagione calda di ciascun anno;

– il costo annuale per divisa è stato quantificato nei primi giustificativi del 2019 in € 25,00 annui (tali giustificativi, peraltro, riguardavano soltanto una divisa, in contrasto con quanto previsto nell’offerta, incentrata su due divise per addetto, per la stagione fredda e calda);

– nei giustificativi del 2020 si è inteso prendere posizione sui rilievi svolti dal Tar Lombardia, Brescia, secondo cui sarebbe stato ingiustificato il costo di € 25,00 per ogni divisa, ritenendo tale costo congruo, come confermato da apposita fattura all’uopo prodotta.

10.3 Ne deriva che, diversamente da quanto ritenuto dall’Amministrazione (secondo cui “il costo indicato dall’aggiudicataria in merito alle divise deve ritenersi come spesa da non rinnovare necessariamente ogni anno e per ogni unità di personale”), i documenti in parola confermano che l’impegno contrattuale assunto dalla C.O. prevedeva l’impiego di due divise per ciascun addetto (per la stagione fredda e per la stagione calda), con costo annuale, per ciascuna divisa, quantificato in € 25,00; il che è coerente con quanto già accertato con effetti di giudicato tra le parti dal Tar Lombardia (sentenza n. 598/2020) in merito alla previsione di due divise “per ciascun addetto”, il cui costo indicato dalla controinteressata risultava pari a “€uro 25,00 l’una”.

Non potrebbe valorizzarsi, per giungere ad una diversa conclusione, la precisazione, recata nei giustificativi del 28.11.2019, in cui si chiariva che il costo annuale in materia di sicurezza per ogni operatore risultava approssimato prudenzialmente per eccesso, tenuto conto che “la fornitura di alcuni Dispositivi di protezione individuale non avviene in ogni singolo anno di un appalto”: tali precisazioni supportavano, comunque, una giustificazione del costo annuale di una divisa per € 25,00, nonché riguardavano “alcuni Dispositivi di protezione individuale”, con un’espressione letterale che, da un lato, non richiamava specificatamente il costo per divisa, dall’altro, risultava maggiormente riferibile alla diversa componente (valorizzata separatamente) dei “dpi”, aventi un autonomo costo annuale per € 25,00.

Per l’effetto, se le divise dovevano essere due per addetto, da impiegare nella stagione fredda e calda di ciascun anno, nonché se il costo per divisa risultava esposto dalla controinteressata nella misura di € 25,00 annui, doveva ritenersi che il costo per entrambe le divise fosse quantificabile in € 50,00 annui per addetto (€ 25,00 per la divisa in dotazione nella stagione fredda ed € 25,00 per la divisa in dotazione nella stagione calda): la commisurazione del costo su base annuale presupponeva, inoltre, una sostituzione delle divise in ciascuno degli anni in cui sarebbe stata articolata la commessa, non essendo, infatti, ragionevole la previsione dell’impiego della stessa divisa stagionale per sei anni, senza assicurare una sua sostituzione periodica, anche in ragione della fisiologica usura del capo di abbigliamento o di altri eventi, anche accidentali, incidenti sulla possibilità di un suo persistente utilizzo, suscettibili di verificarsi nel corso del periodo contrattuale.

Tali rilievi già evidenziano come nei giustificativi del 28.11.2019 cit. fosse stato preso in considerazione il costo annuo di una sola divisa, quando, invece, l’offerta tecnica prevedeva l’impiego annuale di due divise (una per la stagione fredda e una per quella calda); pertanto, avendo computato la controinteressata il costo annuo di una sola divisa, a fronte delle due previste nell’offerta tecnica, già tale circostanza avrebbe fatto emergere un maggiore costo di € 25,00 annui (pari al costo della divisa non contemplata nei giustificativi del 2019), da moltiplicare per il numero di addetti (19, come accertato dal Tar nella sentenza n. 598/20 e come emergente dai giustificativi dell’11.11.2019 – deposito C. 25.1.2021) e per il numero di anni di prestazione contrattuale (avente una durata prevista per il periodo 01/05/2020 – 30/04/2026); con conseguente maggiore costo, non considerato nei giustificativi del 2019, di € 2.850,00, prossimo all’utile di € 3.000,00 dichiarato dalla controinteressata.

10.4 Nel caso di specie, tuttavia, oltre ad emergere la mancata considerazione del costo annuale della divisa aggiuntiva, difettano adeguate giustificazioni in ordine allo stesso costo annuale di € 25,00 per divisa dichiarato dal concorrente, non comprovato dal preventivo allegato ai giustificativi del 2020, né risultante dalle autonome (e, secondo quanto si osserverà infra, illegittime) ricerche di mercato svolte dalla stazione appaltante.

10.5 Sotto il primo profilo, si osserva che, diversamente da quanto ritenuto in sede procedimentale dall’Amministrazione (cfr. verbale del 6.10.2020 in cui si attesta che “la Commissione ha potuto verificare che il preventivo della ditta … presentato dalla società C. giustifica il prezzo indicato in offerta pari a € 25 a divisa”), il preventivo allegato ai giustificativi del 2020 cit. non è idoneo a comprovare la congruità del costo della divisa in dotazione al personale impegnato nella commessa, riguardando il prezzo di capi di abbigliamento che non esauriscono le componenti delle divise previste in sede di offerta tecnica.

In particolare, tale preventivo fa riferimento a giacche (maryland e springfield), polo manica corta (piquet), nonché camicie uomo e donna, con la valorizzazione per ciascun capo di un distinto prezzo.

Il preventivo, dunque, da un lato, valorizza il prezzo di capi non compresi nell’offerta tecnica (polo), dall’altro, non contempla taluni capi invece previsti dall’offerta tecnica (pantalone o gonna per le operatrici e pantalone per gli operatori, cintura per le operatrici e per gli operatori, nonché foulard o cravatta per le operatrici e cravatta per gli operatori).

Tale preventivo non poteva, dunque, ritenersi idoneo a giustificare il costo delle divise in dotazione al personale da impiegare nella commessa, non contemplando alcuni dei capi di abbigliamento occorrenti per formare la divisa prevista nell’offerta tecnica.

Il preventivo poteva, piuttosto, giustificare (soltanto) il prezzo della giacca e della camicia, rispettivamente pari ad € 14,4 e € 7.3, con conseguente valorizzazione di un costo parziale di € 21,7 – relativo a soli due dei capi di abbigliamento componenti la divisa prevista nell’offerta presentata in gara – già prossimo a quello complessivo di € 25 per divisa indicato dalla controinteressata nei giustificativi del 2019 e del 2020.

Per ritenere congruo il costo complessivo di € 25,00, sarebbe stato, dunque, necessario dimostrare che il costo dei capi ulteriori componenti la divisa (pantalone o gonna, cintura, nonché cravatta o foulard) fosse complessivamente contenuto entro l’importo di € 3,3, corrispondente alla differenza tra costo dichiarato per divisa e costo giustificato per giacca e camicia; una tale prova, tuttavia, non risulta essere stata fornita dalla società aggiudicataria.

Per l’effetto, la valutazione della Commissione, secondo cui il preventivo de quo risultava idoneo a giustificare il prezzo indicato in offerta pari a € 25 a divisa risulta inficiata da una macroscopica erroneità, in quanto incentrata su un documento non riferibile a tutti i capi componenti la divisa in esame e, dunque, tale da non potere giustificare il costo complessivo del prodotto in dotazione al personale impegnato nell’esecuzione della commessa.

10.6 Sotto il secondo profilo di indagine, si osserva che, alla stregua di quanto risultante dal medesimo verbale del 6.10.2020 cit., “La commissione ha anche verificato che il preventivo risulta essere in linea con i prezzi di mercato facilmente reperibili on line come, ad esempio, quelli esposti nel market place … dove è esposto un costo tra i 10 e 20 USD per acquisti superiori alle 100 unità…”.

Anche tale seconda ratio decidendi alla base del giudizio di congruità del costo in parola risulta illegittima, in quanto, da un lato, la stazione appaltante non avrebbe potuto sopperire ad un difetto di giustificazioni mediante un’autonoma ricerca di mercato, dall’altro, gli elementi istruttori (illegittimamente) acquisiti non potrebbero comunque rilevare per giustificare il costo delle divise in contestazione.

10.6.1 Ai sensi dell’art. 97, comma 5, D.Lgs. n. 50 del 2016, “La stazione appaltante richiede per iscritto, assegnando al concorrente un termine non inferiore a quindici giorni, la presentazione, per iscritto, delle spiegazioni. Essa esclude l’offerta solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa in quanto: a) non rispetta gli obblighi di cui all’articolo 30, comma 3; b) non rispetta gli obblighi di cui all’articolo 105; c) sono incongrui gli oneri aziendali della sicurezza di cui all’articolo 95, comma 10, rispetto all’entità e alle caratteristiche dei lavori, dei servizi e delle forniture; d) il costo del personale è inferiore ai minimi salariali retributivi indicati nelle apposite tabelle di cui all’articolo 23, comma 16”.

Come precisato da questo Consiglio, “l’art. 97, comma 5, prevede l’esclusione dell’offerta “solo se la prova fornita non giustifica sufficientemente il basso livello di prezzi o di costi proposti, tenendo conto degli elementi di cui al comma 4 o se ha accertato, con le modalità di cui al primo periodo, che l’offerta è anormalmente bassa” per i motivi di seguito elencati. La disposizione lascia quindi aperta l’opzione – ulteriore rispetto a quelle, previste, della insufficienza delle giustificazioni fornite e dell’accertamento dell’anomalia dell’offerta, conducenti per legge all’esclusione dell’offerta sospetta di anomalia – che la commissione di gara, ritenendo non integrate le due predette fattispecie, possa ritenere necessitata la produzione di altri elementi e provvedere di conseguenza” (Consiglio di Stato, sez. III, 11 ottobre 2021, n. 6818).

Ne deriva che, a fronte di giustificazioni incomplete, fornite dall’operatore economico proponente un’offerta sospetta di anomalia, la stazione appaltante potrebbe chiedere chiarimenti all’impresa, attivando un’ulteriore fase di contraddittorio e provvedendo, all’esito, alla valutazione dell’attendibilità dell’offerta alla stregua degli elementi integrativi eventualmente acquisiti (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 1 febbraio 2021, n. 911, secondo cui “ben può accadere in concreto che, ricevuti i primi giustificativi, l’amministrazione non sia in condizione di risolvere tutti i dubbi in ordine all’attendibilità dell’offerta soggetta a verifica di anomalia e decida per questo di avanzare ulteriori richieste all’operatore economico ovvero di fissare un incontro per ricevere spiegazioni e chiarimenti”), ma non potrebbe sopperire, di propria iniziativa, all’assenza parziale di spiegazioni con un’autonoma ricerca di mercato volta a dimostrare la congruità di un costo, riferito ad alcuni dei prodotti offerti dall’operatore economico, non giustificato dall’impresa.

Avuto riguardo al caso di specie, dunque, a fronte di giustificazioni insufficienti, la stazione appaltante avrebbe potuto evitare l’esclusione dell’offerta per la sua complessiva inaffidabilità, attraverso una richiesta di chiarimenti rivolta alla società cooperativa, ma non avrebbe potuto sopperire all’incompletezza degli elementi giustificativi e probatori forniti dalla C.O. (in specie, una fattura commerciale riguardante solo alcuni dei capi componenti la divisa in dotazione descritta nell’offerta tecnica) attraverso una propria iniziativa istruttoria ufficiosa, tradottasi nella specie nello svolgimento di una ricerca di mercato on line presso un noto market place; ciò, tenuto conto pure del contesto amministrativo di riferimento, caratterizzato dalla presenza di un pregresso giudicato di annullamento, che aveva evidenziato come il costo in contestazione (riguardante le divise in dotazione al personale impiegato nell’ambito della pubblica commessa) risultasse “palesemente fuori mercato” e non documentato, con conseguente necessità, per l’operatore economico, di fornire una specifica e completa prova del costo stimato per singola divisa.

10.7 L’Amministrazione, in ogni caso, pure decidendo (illegittimamente, per quanto osservato) di sostituirsi all’impresa nel comprovare la congruità del costo di un prodotto rimasto ingiustificato (emergendo alcuni componenti non contemplati nel preventivo prodotto dall’operatore economico), ha posto alla base della propria decisione risultanze istruttorie incoerenti con la tipologia del prodotto in contestazione.

In particolare, il prezzo reperito on line dall’Amministrazione e documentato sub doc. 13 della produzione di primo grado dell’Ateneo (10,00USD-20,00USD), oltre a riferirsi ad acquisti cumulativi (con ordine minimo di 100 “parti”), non reca una descrizione puntuale delle componenti della divisa, emergendo soltanto un disegno della divisa di receptionist di hotel (con la valorizzazione, peraltro, di una figura professionale diversa da quella rilevante nella specie), che non permette di individuare con certezza i capi di abbigliamento componenti la divisa presa in esame dalla Commissione: pure avendo riguardo alla rappresentazione grafica presente nella pagina del sito internet consultato dall’Amministrazione, sembrerebbe che si tratti di divise prive della giacca e della cintura (oltre che della cravatta per l’operatore), nonostante tali capi costituissero una componente della divisa prevista nell’offerta tecnica dell’aggiudicatario.

Si è, dunque, in presenza di risultanze istruttorie inconferenti in quanto, da un lato, riguardanti un prodotto non puntualmente descritto e, comunque (avendo riguardo alla rappresentazione grafica), difforme da quello previsto dall’aggiudicatario; dall’altro, presupponenti acquisti cumulativi con ordine minimo di 100 unità, sebbene il preventivo valorizzato dall’aggiudicatario fosse riferito ad acquisti per quantità estremamente inferiori (13 giacche e 17 camicie, in relazione ai capi di interesse), con conseguente emersione di una condotta di acquisto dell’aggiudicatario difforme da quella presupposta dall’Amministrazione (incentrata su acquisti cumulativi di ben maggiore consistenza).

Il doc. 13 cit., pertanto, non potrebbe essere utilmente invocato per dimostrare la congruità del costo esposto dall’operatore economico.

Non potrebbe, invece, valorizzarsi nella presente sede il doc. 14 prodotto dall’Amministrazione in primo grado, riferito ad un prezzo per divisa compreso tra 6,00 USD e 18,00USD, in quanto non coerente con le valutazioni sulla cui base è stato assunto il provvedimento impugnato in primo grado, incentrate su un costo per divise compreso tra 10,00 e 20,00 USD ed acquisti superiori alle 100 unità. Per l’effetto, la mancata valorizzazione di tale preventivo in sede procedimentale implica un giudizio di sua irrilevanza ai fini della decisione amministrativa.

In ogni caso, anche tale documento non reca una descrizione delle componenti della divisa (comparendo un mero riferimento ad un’uniforme di receptionist di hotel) e, comunque, pure avendo riguardo alla rappresentazione grafica, sembra non comprendere tutti i capi di abbigliamento previsti nell’offerta tecnica (cfr. la mancata rappresentazione grafica della cintura).

10.8 Alla stregua delle considerazioni svolte, la valutazione di congruità del costo delle divise, svolta dall’Amministrazione, non risulta legittima, emergendo non soltanto la mancata considerazione del costo annuo di una divisa aggiuntiva per addetto, ma anche il difetto di giustificazioni del costo di € 25,00 annui per divisa esposto dalla controinteressata.

11. Anche la seconda censura, riferita alle bacheche elettroniche, non può essere accolta.

11.1 Al riguardo, si osserva che la C.O., nell’ambito della propria offerta tecnica ha proposto, tra “le migliorie offerte senza nessun onere per la Committenza”, delle “B.E.G.C.”, caratterizzate da un “Sistema Automatizzato di gestione chiavi”; l’offerta era relativa a “tutti i plessi” (pag. 16).

Il Tar Lombardia, Brescia, con la sentenza n. 598 del 2020 ha ritenuto che “le bacheche e il restante materiale (sedie ergonomiche, pc e doblò: doc. 7 fascicolo della ricorrente), anche se già a magazzino, secondo quanto dichiarato dall’aggiudicataria, va interamente spesato, perché l’impresa ha sostenuto un costo per acquistarlo e questo costo va imputato all’appalto in cui il materiale viene impiegato. E se si tratta di beni già ammortizzati, allora o richiedono una maggiore manutenzione in quanto vetusti, o sono inutilizzabili, coincidendo di regola l’ammortamento con la vita utile del bene strumentale”.

L’effetto conformativo discendente da tale pronuncia imponeva, dunque, all’Amministrazione di valutare il costo per le bacheche e per il restante materiale, pure ove già a magazzino.

I giustificativi forniti dall’aggiudicataria in data 21.9.2020, relativamente alle attrezzature valorizzate dal giudicato di annullamento, si soffermano sul costo del D. e sul costo delle altre attrezzature: in particolare, l’aggiudicatario ha ribadito che “le attrezzature citate in sentenza …. sono tutte presenti presso i magazzini della scrivente Cooperativa e … quindi le stesse hanno un costo finale per questa Cooperativa pari a zero”, nonché, comunque, che “per le sedie e per i pc il costo imputabile al cantiere ammonta in via presuntiva a solamente circa € 800,00 – 900,00”, come emergente dal libro cespiti.

La Commissione di gara ha ritenuto attendibili i giustificativi forniti dal concorrente, precisando che l’importo dichiarato dall’operatore economico “è stato verificato sia dal libro cespiti che dalle schede forniti dalla ditta C.” (verbale 6.10.2020 cit.).

11.2 Tale motivazione manifesta l’erroneità della valutazione amministrativa.

Premesso che le bacheche de quibus costituivano una miglioria senza oneri aggiuntivi per l’Amministrazione, configurando, di contro, un prodotto offerto dal concorrente, per il quale risultava foriero di costo, come accertato con effetti di giudicato con la sentenza n. 598/20 cit., si osserva che la Commissione di gara non ha tenuto conto che i giustificativi forniti dal concorrente non valorizzavano espressamente il costo delle bacheche elettroniche, bensì soltanto quello delle sedie e dei pc; con conseguente assenza, in parte qua, di spiegazioni in ordine al costo di un prodotto comunque offerto dall’aggiudicatario.

In assenza di giustificazioni, come rilevato sopra, l’Amministrazione, anziché reputare immediatamente non specificato e (a fortiori) non dimostrato il costo del relativo prodotto, avrebbe potuto attivare un’ulteriore fase di confronto con l’impresa, chiedendo precisazioni al riguardo; l’Amministrazione non avrebbe, invece, potuto ritenere giustificato il relativo prezzo, in assenza di elementi probatori forniti dalla società e sulla base di ricerche di mercato autonomamente condotte.

La decisione di ritenere congruo un prezzo non giustificato risulta, dunque, illegittima per violazione dell’art. 97, comma 5, D.Lgs. n. 50 del 2016.

11.3 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure rilevando che il riferimento ai beni in magazzino, recato nei giustificativi forniti dal concorrente, comprendesse anche le bacheche de quibus, ovvero che l’importo di tali beni fosse comunque tale da non erodere l’utile di commessa dichiarato dal concorrente.

11.3.1 Sotto il primo profilo, si osserva che, come rilevato dal Tar, la stessa controinteressata ha riconosciuto di non aver ancora acquistato i beni in esame (cfr. p. 6 note di udienza del 25 gennaio 2021, in cui si ammette che “Quanto, da ultimo, alle più volte citate bacheche, si osserva, da un lato, che la C. non è oggi in possesso di una fattura inerente le stesse semplicemente perché, come lecito e coerentemente con le previsioni della propria offerta tecnica oltre che con gli accordi intercorsi con la stazione appaltante, non le ha ad oggi ancora acquistate”); il che evidenzia come le bacheche non potessero ritenersi comprese tra i beni in magazzino.

In ogni caso, nel rispetto di quanto imposto dal giudicato di annullamento, formatosi sulla sentenza n. 598/20 cit., anche i beni in magazzino avrebbero dovuto essere specificatamente valorizzati con l’esposizione e la giustificazione del relativo costo; il che non risulta avvenuto nella specie.

11.3.2 Sotto il secondo profilo, l’Amministrazione richiama un preventivo autonomamente ricavato da una ricerca di mercato (doc. 16 produzione di primo grado), che attesterebbe un costo di circa 41 USD per l’acquisto della bacheca de qua.

Un tale modus procedendi, per le stesse ragioni sopra esposte – in relazione alla ricerca di mercato svolta per le divise – non può ritenersi legittimo, non potendo l’Amministrazione sostituirsi all’impresa nel ricercare gli elementi probatori idonei a comprovare la congruità dei prezzi o dei costi dei prodotti offerti dall’operatore economico e da questi non giustificati.

In ogni caso, il preventivo valorizzato dall’Ateneo non risulta conferente, riguardando un armadio con serratura intelligente, costituente un prodotto diverso da quello offerto dal concorrente.

L.C.O., infatti, non aveva offerto un prodotto caratterizzato da una serratura automatica, ma un prodotto connotato da un sistema automatizzato di gestione chiavi.

L’automatizzazione non afferiva, dunque, all’apertura della bacheca, ma alla gestione delle chiavi in essa contenute.

Per l’effetto, a prescindere da una supposta compatibilità tra la rappresentazione grafica del prodotto recata nell’offerta tecnica e quella relativa al prodotto presente nel sito internet consultato dall’Amministrazione (circostanza di per sé non significativa, occorrendo verificare la descrizione delle modalità di funzionamento del prodotto, per come riportate nell’offerta tecnica, e non la relativa immagine, meramente indicativa), l’Amministrazione ha valorizzato (peraltro, illegittimamente) un preventivo inconferente, perché non riguardante una bacheca con gestione automatizzata delle chiavi; il che conferma, per un’ulteriore e autonoma ragione, la mancata giustificazione del costo di un prodotto componente l’offerta selezionata.

12. Deve essere rigettata anche la censura riferita al responsabile sociale del progetto.

12.1 In particolare, secondo quanto statuito dal Tar Lombardia, Brescia con la sentenza n. 598/2020, “non convince l’inquadramento (E2), non coerente – a norma del CCNL delle Cooperative sociali – al titolo di studio conseguito (laurea in psicologia) e all’anzianità maturata (oltre i cinque anni), del responsabile sociale del progetto (il dott. G.M.): il corretto inquadramento al livello F1 determina da solo uno scostamento del costo del lavoro di €uro 7.525,79. A nulla vale, infatti, che, secondo le difese della controinteressata, il responsabile abbia accettato un inquadramento inferiore, perché si tratta di materia sottratta alla disponibilità delle parti, posto che diversamente si accorderebbe all’impresa che viola il CCNL un indebito vantaggio competitivo. Deve, invece, esserci coerenza tra le mansioni svolte, idoneità a svolgerle e livello retributivo accordato al dipendente”.

Il Tar, pertanto, ha accertato che:

– l’inquadramento E2 del responsabile sociale del progetto non risultava coerente, a norma del CCNL delle Cooperative sociali, al titolo di studio conseguito (laurea in psicologia) e all’anzianità maturata (oltre i cinque anni), con la figura professionale prevista dal concorrente;

– il corretto inquadramento doveva avvenire a livello F1, foriero di uno scostamento del costo del lavoro per € 7.525,79.

12.2 A fronte di tali statuizioni, l’aggiudicatario, nell’ambito dei propri giustificativi del 21.9.2020, quanto al “lamentato non corretto inquadramento contrattuale della figura del responsabile sociale, Dott. G.M.”, ha ritenuto che “erri la controparte (inducendo in errore anche il Tar) nel far conseguire automaticamente alla di lui iscrizione ventennale nell’albo degli psicologi il livello F1 del CCNL Cooperative Sociali”; per l’effetto, l’operatore economico ha indicato le ragioni per le quali la figura professionale incaricata non potesse essere inquadrata al livello F1, risultando corretto e congruo rispetto alle mansioni svolte un inquadramento al livello E2.

12.3 Dalla documentazione in atti emerge che l’Amministrazione:

– dapprima, alla stregua di quanto emergente dal verbale del 6.10.2020, ha ritenuto “utile un parere di un consulente del lavoro”;

– all’esito, una volta acquisito tale parere, come attestato dal verbale del 16.10.2020 (riprodotto nel verbale del 4.11.2020), ha ritenuto corretto il livello contrattuale E2 proposto dalla cooperativa C., chiedendo comunque all’operatore economico di fornire ulteriori precisazioni in ordine alla quantificazione del tempo dedicato al cantiere dell’università da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali, per la cui attività risultava incaricato il dott. M., con la precisazione che “il tempo dovrà essere espresso come percentuale rispetto al contratto in essere con il dottor G.M.”;

– infine, ricevuti i chiarimenti richiesti dal concorrente, ha rilevato che il tempo dedicato al cantiere dell’Ateneo da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali risultava pari a 2,63% rispetto al monte ore settimanale previsto dal contratto in essere tra lo stesso e l’operatore economico; ragion per cui il costo da imputare al cantiere de quo avrebbe dovuto essere valorizzato in base a detta percentuale e non per l’intero valore annuale; tale calcolo avrebbe evidenziato ampi margini anche nel caso in cui il livello contrattuale fosse stato superiore a quello attribuito; considerando il costo lordo annuo per un lavoratore inquadrato con il livello F1, quantificato in € 45.321,78 nella tabella del costo orario allegata al contratto di categoria di riferimento, ed applicando la percentuale di 2,63%, sarebbe infatti emerso un costo da imputare al cantiere dell’Ateneo di € 1.191,96 (verbale del 22.10.2020, riprodotto nel verbale del 4.11.2020).

12.4 L’operato amministrativo risulta manifestamente erroneo, in quanto, da un lato, incentrato sulla valorizzazione di un inquadramento della figura professionale del Dott. M. incompatibile con l’accertamento giurisdizionale recato nella sentenza n. 598/2020 cit.; dall’altro, basato su elementi fattuali incompatibili con gli stessi giustificativi originariamente forniti dal concorrente.

12.4.1 Sotto il primo profilo, si osserva che a pag. 24 dell’offerta tecnica, la società C. ha precisato che: “In considerazione dell’elevato numero di personale svantaggiato coinvolto nella erogazione dei servizi di portierato per l’Università di Brescia, il ruolo di Responsabile Sociale sarà attribuito, per questo appalto, al Dott. G.M., in quanto professionista con 20 anni di esperienza specifica”; il ruolo del dott. M. quale responsabile sociale è stato anche accertato con effetti di giudicato (in quanto presupposto della decisione) dal Tar Lombardia nella sentenza n. 598/2020 cit. in cui si discorre del “responsabile sociale del progetto (il dott. G.M.)”, nonché è riconosciuto dall’aggiudicatario nei giustificativi del 21.9.2020, in cui si tratta dell’inquadramento contrattuale “della figura del responsabile sociale, Dott. G.M.”. Parimenti, l’Ateneo, nel ricorso in appello, alla pag. 16, discorre di “responsabile sociale del progetto, dott. M.”.

Nel prendere in esame l’inquadramento contrattuale del responsabile sociale, il Tar Lombardia, nella sentenza n. 598/2020, non soltanto aveva manifestato (in negativo) dubbi sull’inquadramento proposto dal concorrente, ma aveva accertato (in positivo) “il corretto inquadramento al livello F1”; con conseguente emersione di un effetto conformativo del giudicato, che imponeva all’Amministrazione, nella fase di riedizione del potere, di considerare corretto l’inquadramento al livello F1.

Se l’Amministrazione avesse ritenuto tale statuizione erronea, avrebbe dovuto appellare la sentenza di primo grado, non potendo, invece, dubitare della correttezza di tale pronuncia nella fase di riedizione del potere, al fine di pervenire ad un accertamento incompatibile con quello presupposto dal giudicato.

La circostanza per cui l’Ateneo abbia disatteso il vincolo conformativo discendente dalla sentenza di annullamento emerge manifestamente dai giustificativi dell’aggiudicatario, che discorre espressamente di una pronuncia erronea da parte del Tar (censurando la condotta della seconda classificata, che avrebbe indotto “in errore anche il Tar”): tale errore non avrebbe potuto essere corretto con i giustificativi del 2020 e con una nuova decisione amministrativa, ma avrebbe dovuto essere contestato con uno specifico motivo di impugnazione, altrimenti formandosi la cosa giudicata, espressione dell’irretrattabilità del comando giudiziale.

Pertanto, l’Ateneo, ritenendo scorretto l’inquadramento F1 e assumendo una decisione incentrata su un inquadramento (E2) diverso da quello accertato nella pregressa sentenza, ha agito in maniera illegittima, ponendo in essere un atto violativo del giudicato.

Né potrebbe diversamente argomentarsi valorizzando il parere di un consulente del lavoro acquisito in sede procedimentale: nella specie, l’attività amministrativa è illegittima in radice, in quanto tesa ad accertare fatti incompatibili con quelli emergenti dal giudicato. Il parere de quo mirava, infatti, ad asseverare un inquadramento difforme rispetto a quello ritenuto corretto dalla sentenza n. 598/20 (ormai irretrattabile, perché passata in giudicato), il che non risultava ammesso nella fase di riedizione del potere.

12.4.2 L’operato amministrativo risulta illegittimo, altresì, perché incentrato su una valorizzazione di un costo per la figura professionale in esame incompatibile con gli elementi fattuali forniti dal concorrente con i giustificativi del 2019, da cui emergeva che il responsabile sociale sarebbe stato impiegato ad un costo orario di € 23,19, per n. 310,47 ore lavorative, con la valorizzazione di un importo lordo mensile di € 100,00 ed uno lordo complessivo di € 7.200,00 (giustificativi dell’11.11.2019 e del 28.11.2019).

A fronte di tali dati, non mutati nei giustificativi del 21.9.2020, riferiti soltanto all’inquadramento del responsabile sociale, l’Ateneo ha avvertito l’esigenza di chiedere al concorrente una precisazione ulteriore in ordine al tempo dedicato al cantiere dell’università da parte del Coordinatore dei Responsabili Sociali, da esprimere come percentuale rispetto al contratto in essere con il dott. M..

Acquisito tale dato percentuale (corrispondente al 2,63%), l’Ateneo ha ritenuto che, pure l’applicazione dell’inquadramento F1, avrebbe generato un costo lordo annuo di € 1.191,96.

Tale quantificazione risulta incompatibile con quella operata dal concorrente che, partendo da un inferiore livello contrattuale (E2), aveva quantificato per il responsabile sociale (individuato nel dott. M.) un importo lordo mensile di € 100,00, con la conseguente valorizzazione di un importo lordo annuo di € 1.200,00.

In altri termini, l’Amministrazione, sebbene avesse a disposizione il dato relativo al numero di ore lavorative riferite al responsabile sociale (indicato nei precedenti giustificativi), ha inteso chiedere ulteriori elementi, non spontaneamente forniti dal concorrente, per addivenire alla quantificazione di un costo lordo mensile che, sebbene calcolato sulla base di un inquadramento (F1) superiore a quello computato dal concorrente (E2), ha condotto ad un importo (€ 1.191,96 annui) inferiore a quello valorizzato dallo stesso aggiudicatario (€ 1.200,00 annui); il che risultava possibile soltanto calcolando un numero di ore dedicate alla commessa inferiore rispetto al numero di ore specificate negli originari giustificativi in relazione alla figura del responsabile sociale (come correttamente dedotto dalla D.O., che ha censurato anche la riduzione delle ore lavorate in relazione alla posizione del responsabile sociale del progetto).

La giurisprudenza di questo Consiglio (tra gli altri, sez. III, 19 ottobre 2021, n. 7036), pure non escludendo in radice la possibilità di una modifica dei giustificativi, ha subordinato una tale eventualità al ricorrere di talune specifiche condizioni, precisando che:

– in termini generali, è ammissibile una modifica delle giustificazioni delle singole voci di costo, non solo in correlazione a sopravvenienze di fatto o di diritto, ma anche al fine di porre rimedio ad originari e comprovati errori di calcolo, sempre che resti ferma l’entità originaria dell’offerta economica, nel rispetto del principio dell’immodificabilità, che presiede la logica della par condicio tra i competitori;

– tale ammissibilità incontra (di là dalla rigidità delle voci di costo inerenti gli oneri di sicurezza aziendale) il solo limite del divieto di una radicale modificazione della composizione dell’offerta che ne alteri l’equilibrio economico, allocando diversamente voci di costo nella sola fase delle giustificazioni;

– la riallocazione delle voci deve avere un fondamento economico serio allorché incida sulla composizione dell’offerta, atteso che, diversamente, si perverrebbe all’inaccettabile conseguenza di consentire un’elusiva modificazione a posteriori della stessa, snaturando la funzione propria del subprocedimento di verifica dell’anomalia, che è, per l’appunto, di apprezzamento globale dell’attendibilità dell’offerta;

– ragionevoli, giustificate e proporzionate modificazioni e rimodulazioni possono interessare anche la struttura dei costi per il personale.

La modifica dei giustificativi deve, dunque, avere un fondamento oggettivo, ancorato a sopravvenienze non considerate al momento della loro originaria redazione ovvero all’esigenza di porre rimedio a taluni errori in cui sia incorso l’operatore economico nella formulazione delle precedenti spiegazioni.

Deve, dunque, essere l’operatore economico a rappresentare all’Amministrazione la ragione alla base della modifica di quanto già giustificato.

Nel caso di specie, invece, a fronte di una condotta assunta dall’aggiudicatario volta a ribadire la correttezza di un dato inquadramento professionale (E2), è stata l’Amministrazione a sollecitare l’acquisizione di un elemento informativo riferito alla percentuale dell’impegno lavorativo del dott. M. rispetto al contratto in essere, sulla cui base l’Ateneo ha provveduto al calcolo del costo complessivo lordo della relativa manodopera, implicante, tuttavia, un numero di ore impiegate nell’appalto minore rispetto a quanto originariamente giustificato dal concorrente (essendo stato valorizzato, come osservato, un costo inferiore a quello indicato nei giustificativi del 2019, sebbene calcolato sulla base di un superiore inquadramento contrattuale, il che è compatibile solo con la riduzione della base di calcolo, data dal numero di ore lavorate, come correttamente censurato dalla D.O.).

Tale modifica del giustificativo, alla luce delle precedenti coordinate ermeneutiche, non può ritenersi ammissibile, perché non originata da sopravvenienze o errori rappresentati dal concorrente, ma da un’attività della stessa stazione appaltante, riferita ad un profilo fattuale (impegno percentuale della manodopera) neppure valorizzato dal concorrente.

13. Le censure dell’Ateneo, riguardanti i beni strumentali a magazzino, non possono parimenti essere accolte nella parte in cui tendono ad escludere la necessità di computare il costo dei beni presenti in magazzino, in quanto (anche sotto tale profilo) risultano manifestamente incompatibili con il giudicato di annullamento formatosi sulla sentenza n. 598/2020 cit., che aveva chiaramente imposto di valorizzare anche il costo dei beni in magazzino: “il restante materiale (sedie ergonomiche, pc e doblò: doc. 7 fascicolo della ricorrente), anche se già a magazzino, secondo quanto dichiarato dall’aggiudicataria, va interamente spesato, perché l’impresa ha sostenuto un costo per acquistarlo e questo costo va imputato all’appalto in cui il materiale viene impiegato. E se si tratta di beni già ammortizzati, allora o richiedono una maggiore manutenzione in quanto vetusti, o sono inutilizzabili, coincidendo di regola l’ammortamento con la vita utile del bene strumentale”.

Se tale precetto, idoneo a conformare la riedizione del potere, non fosse stato condiviso, l’Ateneo avrebbe dovuto proporre appello avverso la sentenza n. 598/20, non potendo violare il relativo comando conformativo nella fase di riedizione del potere attraverso la rinnovata considerazione di attrezzature a costo zero perché già presenti in magazzino.

Le deduzioni dell’Ateneo, svolte nell’odierno ricorso in appello, nella parte in cui valorizzano in € 800-900 il maggiore costo dichiarato dall’aggiudicataria per materiali presenti in magazzino, invece, confermano un’ulteriore componente di costo non considerato dall’impresa negli originari giustificativi che, se sommato a quelli discendenti dal rigetto delle precedenti censure, rileva complessivamente per azzerare l’utile di impresa.

14. Alla stregua delle considerazioni svolte, il secondo motivo di appello deve essere rigettato.

14.1 Come osservato sopra – nella disamina dei principi giurisprudenziali espressi in materia di giudizio di anomalia – sebbene la valutazione di congruità (globale e sintetica) non debba concentrarsi esclusivamente e in modo parcellizzato sulle singole voci di prezzo, occorre comunque tenere conto dell’incidenza che le singole voci hanno sul costo complessivo del servizio, al fine di verificare se le carenze all’uopo rilevate siano in grado di rendere dubbia la corrispettività proposta dall’offerente e validata dalla stazione appaltante.

Come precisato da questo Consiglio, “gli appalti pubblici devono pur sempre essere affidati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, giacché le acquisizioni in perdita porterebbero inevitabilmente gli affidatari ad una negligente esecuzione, oltre che ad un probabile contenzioso: laddove i costi non considerati o non giustificati siano tali da non poter essere coperti neanche tramite il valore economico dell’utile stimato, è evidente che l’offerta diventa non remunerativa e, pertanto, non sostenibile” (tra gli altri, Consiglio di Stato, sez. III, 10 luglio 2020, n. 4451).

L’infondatezza delle doglianze articolate dall’Amministrazione conduce alla valorizzazione di maggiori costi non computati o non giustificati dall’aggiudicatario, per un importo superiore all’utile di impresa, il che manifesta l’illegittimità del giudizio di complessiva affidabilità dell’offerta formulato con gli atti censurati in primo grado.

14.2 Basti considerare che, a fronte di un utile di commessa di € 3.000,00, già soltanto il maggiore costo per la divisa addizionale, non computata nei giustificativi del 2019 risulta idoneo ad erodere gran parte dell’utile atteso, facendosi questione di un importo annuo di € 475,00 – pari ad € 25 annui (comunque non giustificati, per quanto sopra osservato) per la divisa aggiuntiva, moltiplicato per il numero di addetti alla commessa (n. 19) – corrispondente, per i sei anni dell’appalto, ad un maggiore costo di € 2.850,00: tale importo, sommato ad € 800-900 per attrezzature in magazzino non considerate nei giustificativi del 2019 – da computare in conformità a quanto imposto dal pregresso giudicato di annullamento – dà luogo a maggiori costi non considerati dalla controinteressata per un valore economico superiore all’utile di impresa.

L’inaffidabilità complessiva dell’offerta discende ulteriormente, da un lato, dalla mancata giustificazione del costo di € 25 per divisa e dei costi delle bacheche elettroniche, dall’altro, dalla mancata considerazione dei maggiori costi derivanti dal superiore inquadramento del dott. M. (a parità di ore lavorative originariamente assunte alla base delle spiegazioni fornite dall’aggiudicatario), con conseguente valorizzazione di ulteriori costi non considerati o non giustificati insuscettibili di essere coperti tramite il valore economico dell’utile stimato.

14.3 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure valorizzando la natura non lucrativa dello scopo sociale perseguito dall’aggiudicataria.

Difatti, con riguardo alle cooperative sociali, sebbene possa prescindersi dalla necessità di un adeguato margine di guadagno, previsto tipicamente per le società commerciali – tenuto conto che, per gli organismi non animati da uno scopo di lucro, un utile anche modesto può comportare un vantaggio significativo per l’impiego dell’attività lavorativa dei soci (oltre che per la qualificazione, la pubblicità, il curriculum derivanti per l’impresa dall’essere aggiudicataria e aver portato a termine un appalto pubblico) – non potrebbe, comunque, ammettersi un’offerta in perdita: “ciò che è importante ed essenziale è che non vi siano “perdite”” (Consiglio di Stato, sez. III, 11 ottobre 2021, n. 6818).

Nella specie, invece, i maggiori costi non giustificati o non considerati dalla controinteressata risultano idonei a sopravanzare l’utile di commessa, con conseguente emersione di una perdita di commessa, tale da rendere illegittimo il giudizio di affidabilità svolto dalla stazione appaltante.

14.4 Infine, non potrebbero neppure valorizzarsi a sostegno dell’appello le dimensioni societarie della controinteressata, tenuto conto che il primo giudice, con capo decisorio peraltro neppure specificatamente censurato nella presente sede, ha correttamente rilevato che “le economie di scala di cui l’operatore può godere, perché parte di un più ampio consorzio di imprese, vanno dimostrati e non semplicemente allegati”; il che costituisce un principio già affermato nella sentenza n. 598/20, in cui era stato precisato in maniera ormai irretrattabile che l’affermazione di essere un grande operatore del settore e di godere pertanto di forti sconti rimaneva una mera allegazione, priva di valore nella sua genericità.

Per le ragioni svolte, nel caso in esame tale prova, riferita ai benefici derivanti dalle asserite economie di scala, non risulta tuttavia fornita, con conseguente irrilevanza delle dimensioni della cooperativa ai fini dell’odierna decisione.

15. Alla stregua di tali osservazioni, l’appello deve essere rigettato.

Le spese di giudizio del grado di appello, nei rapporti tra l’Amministrazione e la D.O., sono regolate in applicazione del criterio della soccombenza, venendo liquidate come da dispositivo a carico dell’appellante e in favore della ricorrente in primo grado; le spese di giudizio possono, invece, essere interamente compensate nei rapporti tra l’Amministrazione e la controinteressata in primo grado, attesa l’omogeneità della posizione assunta dalle due parti.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta e, per l’effetto, conferma la sentenza impugnata anche se, parzialmente, con diversa motivazione.

Condanna l’Università degli Studi di Brescia a pagare, a titolo di spese di giudizio del grado di appello, in favore della D. Società Cooperativa Sociale Onlus, l’importo complessivo di € 6.000,00 (seimila/00), oltre accessori di legge ove dovuti. Compensa le spese di giudizio nei rapporti tra l’Università degli Studi di Brescia e la C. Società Cooperativa Sociale Onlus.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 febbraio 2022 con l’intervento dei magistrati:

Carmine Volpe, Presidente

Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere

Alessandro Maggio, Consigliere

Giordano Lamberti, Consigliere

Francesco De Luca, Consigliere, Estensore


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 09/03/2022) 28/03/2022, n. 9989

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – rel. Consigliere –

Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 10528/2014 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in Roma Via Pierluigi Da Palestrina n. 63 presso lo studio dell’avvocato Gianluca Contaldi; rappresentato e difeso dall’avvocato Gianluca Contaldi e dall’avvocato Elena Sorgente;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

EQUITALIA NORD SPA, elettivamente domiciliata in Roma Via delle Quattro Fontane n. 161 presso l’avvocato Sante Ricci, rappresentata e difesa dall’avvocato Maurizio Cimetti e dall’avvocato Giuseppe Parente;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della COMM. TRIB. REG. PIEMONTE, n. 93/24/13, depositata il 23/10/2013.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del 9 marzo 2022 dal consigliere Dott. Guida Riccardo.

Svolgimento del processo
che:

1. la Commissione tributaria regionale (“C.T.R.”) del Piemonte ha rigettato l’appello di M.M. avverso la sentenza (n. 105/2/10) con la quale la Commissione tributaria provinciale di Asti, per quanto adesso rileva, aveva rigettato il ricorso del contribuente contro la cartella di pagamento dell’importo di Euro 51.575,17, a titolo di Irpef e Irap, per le annualità 2003 e 2004;

2. il contribuente ricorre con otto motivi per la cassazione della sentenza di appello e l’Agenzia delle entrate ed Equitalia Nord Spa resistono ciascuna con controricorso.

Motivi della decisione
che:

1. con il primo motivo di ricorso (“Violazione e falsa applicazione di norme di diritto D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 10, 12 e 25, D.P.R. n. 546 del 1992, art. 19, L. n. 241 del 1990, artt. 3 e 21 septies, L. n. 212 del 2000, art. 7, art. 2697 c.c., artt. 3, 24 e 111 Cost. (art. 360 c.p.c., n. 3). Nullità della sentenza e del procedimento, difetto di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, motivazione omessa, violazione artt. 112 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente censura, in rapporto ai diversi parametri normativi dell’art. 360 c.p.c., sopra riprodotti, l’asserzione della sentenza impugnata secondo cui (cfr. pag. 3) “Il difetto di sottoscrizione della cartella e del ruolo sono motivi di lamentela che non hanno fondamento in quanto non previsti da alcuna norma”;

2. con il secondo motivo (“Violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 10 e 12, e degli artt. 112 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3). Nullità della sentenza e del procedimento, difetto di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, motivazione omessa, violazione artt. 112 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente censura la sentenza impugnata che ha omesso di pronunciare sull’eccezione dell’appellante secondo cui la mancanza di sottoscrizione dei ruoli impugnati e, conseguentemente, la mancanza di esecutorietà degli stessi, era circostanza non contestata ex adverso che, pertanto, ai sensi dell’art. 115 c.p.c., doveva considerarsi incontrovertibile;

3. con il terzo motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 12 e 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), artt. 24 e 111 Cost.; nonchè art. 2697 c.c., artt. 112, 113, 115 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, difetto di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, motivazione omessa, violazione artt. 112 e 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi dell’art. 360 c.p.c., sopra riprodotti, che la sentenza ha disatteso il motivo di appello attinente al difetto di motivazione della cartella con statuizione (cfr. pag. 16 del ricorso per cassazione) “apodittica e priva di motivazione”;

4. con il quarto motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 20 e 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, artt. 24 e 111 Cost.; nonchè artt. 112, 113 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi dell’art. 360 c.p.c., sopra riprodotti, il passo della sentenza secondo cui “La cartella è stata predisposta, in forma vincolata, secondo il modello approvato con decreto del Ministero delle Finanze e conteneva tutti gli elementi obbligatori, con l’indicazione del responsabile del procedimento M.R., Direttore pro tempore.”;

5. con il quinto motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 20 e 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. art. 7 (Statuto del contribuente), del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, artt. 24, 97 e 111 Cost.; nonchè artt. 112, 113 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi, sopra riprodotti, il dictum della sentenza impugnata secondo cui la cartella recava l’indicazione del responsabile del procedimento ” M.R., direttore pro tempore”, senza considerare che lo stesso atto, in realtà, era privo dell’indicazione puntuale della qualifica di tale soggetto e che, comunque, da tale punto di vista, la cartella non era affatto chiara;

6. con il sesto motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 20 e 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, artt. 24, 97 e 111 Cost.; nonchè artt. 112, 113 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi, sopra riprodotti, che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare sulla questione, sollevata dall’appellante dinanzi alla C.T.R., che la cartella recava l’intimazione di pagamento di poste (in particolare, i compensi di riscossione e gli interessi successivi) in relazione alle quali, nella stessa cartella, non era indicato alcun soggetto responsabile, e ciò (tra l’altro) in violazione dell’obbligo di trasparenza dell’attività amministrativa, del principio di piena informazione del cittadino e di garanzia del diritto di difesa, sanciti dalla Corte costituzionale, con sentenza n. 377 del 2007;

7. con il settimo motivo (“Violazione e falsa applicazione sotto diversi profili del D.Lgs. n. 112 del 1999, art. 17 e del D.M. 4 agosto 2000, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, L. n. 241 del 1990, art. 21 septies e L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., art. 107 T.F.E.U.; nonchè artt. 112, 113 e 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi, sopra riprodotti, che la sentenza impugnata ha omesso di pronunciare sul motivo d’appello secondo cui le somme precettate in cartella a titolo di “compensi di riscossione”, in misura percentuale (c.d. aggio) su tutte le somme oggetto dell’intimazione, erano immotivate, incontrollabili, sproporzionate e vessatorie rispetto al costo effettivo di esazione;

8. con l’ottavo motivo (“Violazione e falsa applicazione di norma di diritto D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, artt. 137, 148, 149, 156 e 160 c.p.c., L. n. 890 del 1982, art. 14, artt. 24 e 111 Cost., art. 2697 c.c., L. n. 212 del 2000, art. 6 (art. 360 c.p.c., n. 3). Nullità della sentenza e del procedimento, omessa pronuncia, motivazione omessa, violazione (art.) 132 c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 (art. 360 c.p.c., n. 4). Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., n. 5) e comunque motivazione insufficiente contraddittoria o illogica circa un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5)”), il ricorrente denuncia, in rapporto ai diversi parametri normativi, sopra riprodotti, che la sentenza impugnata ha contra legem negato l’inesistenza della notifica per mancanza della “relata”, trascurando che, in realtà, l’attività notificatoria era inesistente proprio a causa della mancanza della relata di notifica e in assenza dell’intervento, nel procedimento notificatorio, di un soggetto titolato a compiere l’attività di notifica;

9. così riassunte le articolate critiche alla sentenza d’appello, occorre premettere che esse sono tutte quante inammissibili quando lamentano l’omesso esame di un motivo di appello, sussunto nel prisma normativo dei nn. 3 e 5 (novellato, mentre la precedente formulazione della carenza della motivazione non è applicabile ratione temporis) dell’art. 360 c.p.c.. E ciò in quanto un simile vizio esula sia dal parametro della violazione di legge (art. 360 c.p.c., n. 3) sia da quello dell’omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 c.p.c., n. 5), contra legem invocati dal ricorrente, e va invece rapportato al diverso parametro della nullità della sentenza per error in procedendo (art. 360 c.p.c., n. 4). Infatti, è indirizzo pacifico della Corte che “L’omessa pronuncia su un motivo di appello integra la violazione dell’art. 112 c.p.c. e non già l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti, in quanto il motivo di gravame non costituisce un fatto principale o secondario, bensì la specifica domanda sottesa alla proposizione dell’appello, sicchè, ove il vizio sia dedotto come violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, conv., con modif., dalla L. n. 134 del 2012, il motivo deve essere dichiarato inammissibile.” (Cass. 16/03/2017, n. 6835);

10. il primo e il secondo motivo, suscettibili di esame congiunto per connessione, non sono fondati;

la decisione di appello si muove nel solco della giurisprudenza di questa Corte (ex multis Cass. 04/12/2019, n. 31605, cui dà continuità tra le altre Cass. 19/07/2021, n. 20636), secondo cui “In tema di riscossione delle imposte sul reddito, l’omessa sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, la cui esistenza non dipende tanto dall’apposizione del sigillo o del timbro o di una sottoscrizione leggibile, quanto dal fatto che tale elemento sia inequivocabilmente riferibile all’organo amministrativo titolare del potere di emetterlo, tanto più che, a norma del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, la cartella, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, deve essere predisposta secondo l’apposito modello approvato con D.M., che non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice.”;

11. il terzo, il quarto, il quinto e il sesto motivo, suscettibili di esame congiunto per connessione, non sono fondati;

la C.T.R., con un accertamento di fatto ad essa riservato, ha stabilito che la cartella impugnata, quale documento per la riscossione degli importi contenuti nei ruoli, oltre ad indicare il responsabile del procedimento (nella persona di M.R.), era stata predisposta secondo l’apposito modello approvato con D.M., che (come accennato al p. 10) non prevede la sottoscrizione dell’esattore, ma solo la sua intestazione e l’indicazione della causale, tramite apposito numero di codice (cfr. in termini Cass. 4/12/2019, n. 31605). Dalle risultanze processuali si evince che la cartella qui impugnata scaturisce da due distinti avvisi di accertamento (per il 2003 e il 2004), sicchè va anche rimarcato che, come condivisibilmente già rilevato dalla Corte, la cartella esattoriale deve essere specificamente motivata in modo congruo, sufficiente ed intellegibile quando – diversamente dalla fattispecie in esame – la sua emissione non sia stata preceduta da un avviso di accertamento (Cass. 19/04/2017, n. 9799, menzionata da Cass. 26/11/2021, n. 36896);

12. il settimo motivo non è fondato;

è utile rammentare che, per giurisprudenza costante, non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo (Cass. 6/12/2017, n. 29191 – conf. ex multis: 08/03/2007, n. 5351; 13/10/2017, n. 24155; 04/06/2019, n. 15255; 30/01/2020 n. 2153; 02/04/2020, n. 7662; 13/01/2022, n. 864, 01/03/2022, n. 6786 – ha affermato che “Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia.”). Nella fattispecie concreta, è ovvio che la C.T.R. (e prima di essa la C.T.P.), quando riconosce la legittimità della cartella, esclude implicitamente la fondatezza degli argomenti esposti dal contribuente a sostegno dell’asserita non debenza dell’aggio. Del resto, la statuizione (implicita) del giudice d’appello è in linea con la giurisprudenza della Corte costituzionale (cfr., da ultimo, sent. n. 120 del 2021) che ha ritenuto conforme alla Cost. l’imposizione a carico del debitore di un aggio in percentuale fissa (nella specie, la cartella trascritta nei motivi di ricorso per cassazione reca un aggio del 9%), integrale o ridotta, anzichè riferito all’effettivo costo del servizio, ed ha demandato al legislatore il compito di riformare la materia, al fine sia di superare il concreto rischio di una sproporzionata misura dell’aggio, sia di rendere efficiente il sistema della riscossione. E, in effetti, la L. n. 234 del 2021, art. 1, comma 15 e ss., (Legge di Bilancio 2022) – quale norma non retroattiva – ha previsto che il costo di remunerazione del servizio, per i carichi affidati al gestore della riscossione nazionale, a decorrere dal 1 gennaio 2022, gravi prevalentemente sul bilancio dello Stato;

13. l’ottavo motivo non è fondato;

al contrario di quanto afferma il ricorrente, la notifica a mezzo posta della cartella di pagamento non è inesistente, ma è del tutto valida, donde la correzione del passaggio argomentativo della pronuncia impugnata nella parte in cui si asserisce che l’assenza della relata di notifica sarebbe causa (non certo d’inesistenza, ma) della mera irregolarità del procedimento notificatorio. Va dato seguito alla consolidata giurisprudenza sezionale (si veda Cass. 29/11/2021, n. 37347) che ha chiarito che “con riferimento alla notifica della cartella esattoriale direttamente eseguita dall’agente della riscossione a mezzo del servizio postale, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, la Corte ha avuto modo di (ripetutamente) rilevare che viene, così, in considerazione una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati; in tal caso, difatti, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione (v. Cass., 3 dicembre 2020, n. 27697; Cass., 14 novembre 2019, n. 29642; Cass., 4 luglio 2014, n. 15315; Cass., 28 luglio 2010, n. 17598; v., altresì, Cass., 17 ottobre 2016, n. 20918; Cass., 6 marzo 2015, n. 4567; Cass., 19 marzo 2014, n. 6395; Cass., 19 settembre 2012, n. 15746; Cass., 27 maggio 2011, n. 11708; Cass., 6 luglio 2010, n. 15948; Cass., 19 giugno 2009, n. 14327); (…) in particolare, si è, poi, precisato che nel caso di notifica della cartella di pagamento eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non anche le disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982 (v., ex plurimis, Cass., 4 febbraio 2020, n. 2489; Cass., 3 aprile 2019, n. 9240; Cass., 12 novembre 2018, n. 28872; Cass., 13 giugno 2016, n. 12083) nè, a maggior ragione, le disposizioni (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60) che presuppongono l’intervento di un agente della notificazione; (…) conclusioni, queste, cui è pervenuto (anche) il Giudice delle leggi che (ripetutamente) ha disatteso le questioni di costituzionalità sollevate con riferimento alla disposizione in esame, rimarcando che la notificazione diretta, a mezzo del servizio postale, eseguita ai sensi dell’art. 26, cit., ha connotati di specialità, e di semplificazione, rispetto a quella dettata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, e dalla L. n. 890 del 1982, e che una siffatta disciplina, – che assicura un sufficiente livello di conoscibilità dell’atto, stante l’avvenuta consegna del plico (oltre che al destinatario, anche alternativamente) a chi sia legittimato a riceverlo, – non supera il limite inderogabile della discrezionalità del legislatore nè compromette il diritto di difesa del destinatario della notifica, correlandosi alla natura sostanzialmente pubblicistica della posizione e dell’attività dell’agente della riscossione e trovando fondamento nel regime differenziato della riscossione coattiva delle imposte che, a sua volta, risponde all’esigenza, di rilievo costituzionale, di assicurare con regolarità le risorse necessarie alla finanza pubblica (v. Corte Cost., 23 luglio 2018, n. 175 cui adde Corte Cost., 3 gennaio 2020, n. 2; Corte Cost., 24 aprile 2019, n. 104)”;

14. le spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a corrispondere le spese del giudizio di legittimità all’Agenzia delle entrate, liquidandole in Euro 3.200,00, a titolo di compenso, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito, e all’Agente della riscossione, liquidandole in Euro 3.200,00, a titolo di compenso, Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% sul compenso, a titolo di rimborso forfetario delle spese generali, e agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 9 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2022


Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 22/02/2022) 21/03/2022, n. 9054

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6351/2017 proposto da:

BRAVO COMMUNICATIONS SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PANARITI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANLUCA NEGRI, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

BIBO ITALIA SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BENACO 5, presso lo studio dell’avvocato MARIA CHIARA MORABITO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO LUIGI RUBAT ORS, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1379/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 04/08/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/02/2022 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie delle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Torino con la sentenza n. 4212/2014, i accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla Huhtamaki S.p.A., oggi Bibo Italia S.p.A., nei confronti della Bravo Communications S.r.l., annullava ex art. 1394 c.c., i due contratti di consulenza ed agenzia pubblicitaria, posti a fondamento della richiesta monitoria, rigettando le altre domande avanzate dalle parti.

La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1379 del 4 agosto 2016 ha rigettato l’appello principale proposto dal Bravo Communications e quello incidentale avanzato dalla controparte, condannando la prima al rimborso in favore della seconda dei due terzi delle spese del grado.

Rilevava la Corte d’Appello che i contratti erano stati annullati per effetto del conflitto di interessi esistente tra colui che all’epoca fatti era alla guida della società opponente e la società contraente, che vedeva nella sua compagine societaria, e con una partecipazione rilevante, proprio lo stesso soggetto che aveva concluso i contratti in nome e per conto della Bibo Italia.

I giudici di appello, nell’esaminare l’appello principale della Bravo, osservavano che le censure erano prive di fondamento.

Quanto alla deduzione secondo cui vi sarebbe stata una extrapetizione da parte del Tribunale per avere esteso l’effetto dell’annullamento dei due contratti anche alle cc.dd. “lavorazioni extracontratto”, che pur costituivano oggetto della pretesa monitoria, trattandosi, a detta dell’appellante, di prestazioni frutto di autonomi rapporti contrattuali, sorti per effetto di singoli ordinativi della committente, la sentenza di seconde cure rilevava che dette prestazioni erano sì escluse da quelle dovute in base al rapporto di agenzia, ma trovavano comunque la loro genesi nel contratto denominato di agenzia pubblicitaria, con la conseguenza che l’annullamento di tale contratto era destinato a riverberarsi anche sulle prestazioni in esame.

In relazione alla diversa critica che invece assumeva la mancata verifica di un pregiudizio subito dalla Bibo Italia per effetto della conclusione dei contratti, la sentenza ricordava quali erano i presupposti per ravvisare il conflitto di interessi, secondo la stessa giurisprudenza di legittimità.

Nella specie i contratti furono conclusi dal soggetto apicale della società appellata, che all’epoca cumulava anche la mansione di direttore generale, nel dicembre del 2009 e nel gennaio del 2010, in epoca di poco anteriore alla dismissione di fatto di tali cariche. Infatti, sebbene l’incarico fosse stato formalmente conservato sino ad ottobre del 2010, ed essendo stata conservata la carica di dirigente sino al successivo mese di dicembre, tuttavia a partire da aprile del 2010 aveva fruito di un congedo parentale.

Nello stesso periodo però era titolare di una quota di un quarto del capitale della Bravo, di cui nel 2001 era stato uno dei soci fondatori e della quale era stato amministratore sino al 2002.

Emergeva poi che di fatto aveva continuato ad ingerirsi nell’amministrazione e gestione della Bravo.

Accanto a tale situazione, emergeva poi che la durata dei contratti, fissata in tre anni, accompagnata dalla previsione di un corrispettivo notevolmente superiore a quello di norma praticato da società per analoghi servizi, aveva assicurato alla Bravo un significativo vantaggio economico, e ciò tramite contratti posti in essere allorchè era ragionevole ritenere che il direttore generale della opponente avesse già preordinato la sua fuoriuscita dalla società committente per avere già ricominciato ad occuparsi della gestione della Bravo.

Era altresì disatteso il motivo di appello a mente del quale i contratti in oggetto sarebbero stati convalidati dalla committente in maniera tacita, e precisamente continuando ad avvalersi delle prestazioni della Bravo, sebbene fosse già venuta a conoscenza della situazione di conflitto di interessi in cui versava il suo ex amministratore.

Secondo i giudici di appello, tuttavia, non poteva farsi richiamo alla figura della convalida tacita. In primo luogo, la convalida avrebbe potuto essere compiuta solo da parte di colui che aveva il potere di rappresentanza della società, e nella specie emergeva che colui che era anche socio della Bravo si era formalmente dimesso, perdendo il relativo potere di rappresentanza, solo nel mese di ottobre del 2010, laddove la quasi totalità delle condotte che dovrebbero valere come convalida tacita risultavano poste in essere in epoca quasi coeva a quella delle dimissioni. Non era causale che già nel mese di novembre la società opponente si fosse lamentata della eccessività del prezzi praticati dalla controparte.

Inoltre, la fruizione delle prestazioni tra (OMISSIS) si giustificava, lungi che per la volontà di convalidare il contratto, per la necessità di dover fruire di prestazioni necessarie per lo svolgimento dell’attività societaria, e senza che vi fosse la possibilità di provvedere ad un’immediata sostituzione.

Una volta quindi confermata la pronuncia di annullamento dei contratti, l’effetto retroattivo della pronuncia imponeva di esaminare le reciproche domande restitutorie.

Secondo l’appellante principale la somma che le era stata riconosciuta quale compenso per le attività già svolte era esigua, mentre la controparte riteneva fosse necessario disporre la restituzione di tutto quanto già versato.

I giudici di appello, ribadita la differenza tra azione di arricchimento senza causa e di ripetizione dell’indebito, qui applicabile, escludevano che l’equivalente pecuniario spettante alla parte che avesse già eseguito delle prestazioni sulla base di un contratto venuto meno, nella specie perchè annullato, potesse farsi coincidere con il compenso dovuto in base al contratto, competendo solo il rimborso dei costi effettivamente sostenuti per rendere le prestazioni.

Nella specie la somma era stata determinata in via equitativa dal giudice e l’appellante non aveva dimostrato l’erroneità della quantificazione operata dal Tribunale, così che l’appello andava disatteso. Analogamente era da rigettare l’appello incidentale in quanto la Bibo non aveva dimostrato che i costi fossero stati inferiori rispetto alla somma accordata alla controparte.

Era infine disatteso il motivo di appello incidentale con il quale si sosteneva che spettasse anche il diritto al risarcimento del danno. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Bravo Communications S.r.l. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.

La Bibo Italia S.p.A. ha resistito con controricorso a sua volta illustrato da memorie 2. Il primo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle norme codicistiche in materia di annullamento dei contratti per conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato.

Si lamenta che i giudici di merito abbiano incentrato la loro decisione sull’applicazione dell’art. 1394 c.c. e si sostiene che invece occorreva far riferimento alla disciplina di cui agli artt. 2381 e 2391 c.c., che concernono i poteri dell’amministratore delegato, quale era nella fattispecie il Dott. M.L., anche socio della società ricorrente all’epoca dei fatti.

Nella specie non vi era alcun conflitto tra il detto M. e la Bibo, il che esclude che possa farsi applicazione dell’art. 1394 c.c.. L’art. 2391 c.c., invece impone, per evidenti ragioni di trasparenza, che l’amministratore debba segnalare alla società il proprio conflitto di interessi.

Nella specie si verteva in una fattispecie di amministratore delegato, che giustificava quindi la necessità che questi, oltre che dare notizia del potenziale conflitto, dovesse astenersi dal porre in essere l’operazione, investendo il competente organo collegiale.

Solo nel caso di amministratore unico, non essendovi separazione tra potere deliberativo e potere rappresentativo, possono venire in gioco le previsioni di cui agli artt. 1394 e 1395 c.c..

Poichè il Dott. M. era amministratore delegato di una società dotata di consiglio di amministrazione e di collegio sindacale, non poteva nella specie dubitarsi che questi ultimi fossero a conoscenza dell’operato del proprio amministratore, atteso l’obbligo incombente sull’amministratore di periodicamente riferire al CDA. Ne consegue che si palesa del tutto tardiva la deduzione circa l’esistenza di un conflitto di interessi, la cui conoscenza doveva reputarsi ben nota alla società.

Il motivo è manifestamente infondato.

La giurisprudenza di questa Corte, con il conforto della assolutamente prevalente dottrina, ha reiteratamente affermato che nella fattispecie prevista dall’art. 1394 c.c., il conflitto di interessi si manifesta al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, mentre nel caso previsto dagli artt. 2373 e 2391 c.c., il conflitto di interessi (rispettivamente, in sede di assemblea e di consiglio di amministrazione) si manifesta al momento dell’esercizio del potere deliberativo, di modo che, in assenza di una previa deliberazione, la disciplina del conflitto deve essere ricondotta a quella dettata dall’art. 1394 c.c., anzichè alle norme degli artt. 2373 e 2391 c.c. (Cass. n. 23089/2013).

Ne consegue che, ove sia mancato del tutto, come nella specie, il riferimento al momento deliberativo nell’ambito delle determinazioni di un organo collegiale, la riconduzione del conflitto di interessi alla disciplina dettata dall’art. 1394 c.c., è l’unica possibile.

Si veda altresì Cass. n. 3501/2013, che ha ribadito che in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c. (conf., in tema di negozio concluso in conflitto di interessi dall’amministratore unico di società a responsabilità limitata, Cass. n. 27783/2008, non senza rilevare che per le società a responsabilità limitata, in relazione alla modifica del diritto societario operata nel 2003 ed operante a far data dal 1 gennaio 2004, la prevalenza dell’art. 1394 c.c., trova la sua testuale conferma nella novellata previsione di cui all’art. 2475 ter c.c.).

Nè può incidere sulla soluzione del problema, la circostanza che nella fattispecie si verte in un’ipotesi di amministratore delegato, anzichè di amministratore unico, avendo questa Corte affermato il principio per cui, in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c.. Al riguardo, costituendo il divieto di agire in conflitto di interessi con la società rappresentata un limite derivante da una norma di legge, la sua rilevanza esterna non è subordinata ai presupposti stabiliti dell’art. 2384 c.c., comma 2, il cui ambito di applicazione è riferito alle limitazioni del potere di rappresentanza derivanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, che abbiano, cioè, la propria fonte (non nella legge, ma) nell’autonomia privata (Cass. n. 1525/2006; Cass. n. 1089/1992; conf. Cass. n. 18792/2005, che ritiene irrilevante, in assenza di una deliberazione del consiglio di amministrazione con la determinazione del contenuto del contratto, che il contratto se sia stato concluso dall’amministratore unico o dall’amministratore munito di potere di rappresentanza, delegato o meno che sia, e ciò in quanto l’art. 2391 c.c., presuppone una preventiva deliberazione, in presenza della quale, l’annullamento del contratto è possibile solo se sia prima annullata la deliberazione che ne ha deciso la conclusione, previa dimostrazione della malafede del terzo).

Risulta quindi del tutto priva di fondamento la tesi posta a sostegno del motivo in esame, avendo la Corte d’Appello correttamente tratto la disciplina della fattispecie dalle norme codicistiche in tema di conflitto di interessi del rappresentante con il rappresentato, essendo peraltro frutto di una mera illazione, senza alcuna prova offerta da parte della ricorrente, che della situazione di potenziale conflitto di interesse la società committente fosse già stata resa edotta, sol perchè la legge prevede che l’amministratore delegato debba periodicamente riferire al CDA sui fatti relativi alla propria gestione.

3. Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle disposizioni in tema di presunzioni semplici, dalle quali far discendere la declaratoria di annullamento dei contratti per conflitto di interesse tra rappresentato e rappresentante.

Si assume che per pervenire all’annullamento del contratto è necessario che il confitto di interessi sia in concreto idoneo a determinare un pregiudizio per il rappresentato, occorrendo anche salvaguardare gli eventuali diritti dei terzi di buona fede.

Nella vicenda il Dott. M. era solo socio della società ricorrente alle data di conclusione dei contratti, ma la sentenza impugnata non ha chiarito quale sia stato il vantaggio economico personalmente ritratto dall’ex amministratore della Bibo.

La sentenza gravata ha posto a fondamento della propria decisione degli elementi presuntivi privi dei caratteri imposti dalla legge per assurgere al livello di prova dei fatti ignoti.

Il motivo deve del pari essere disatteso.

I giudici di appello hanno correttamente identificato la nozione di conflitto di interesse rilevante ai fini dell’art. 1394 c.c., sottolineando come la norma abbia riguardo alla potenzialità del pregiudizio per la parte rappresentata, non essendo altresì necessario provare che l’atto sia poi effettivamente vantaggioso o svantaggiosi per la parte.

In tal senso è stato affermato che il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato costituisce causa di annullabilità del contratto concluso dal rappresentante quando quest’ultimo, anzichè tendere alla tutela degli interessi del rappresentato, persegua interessi propri, suoi personali, o anche di terzi, inconciliabili con quelli del rappresentato, di modo che all’utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante, per sè medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno del rappresentato (Cass. n. 3836 del 25/06/1985; Cass. n. 15981/2007; Cass. n. 18792/2005; Cass. n. 4505/2000).

In particolare i vincoli di solidarietà e la comunanza d’interessi fra rappresentante e terzo sono indizi che consentono al giudice del merito di ritenere, secondo l’”id quod plerumque accidit” ed in concorso con altri elementi (come l’inesistenza di qualsiasi interesse al contratto ovvero la sussistenza di un pregiudizio non correlato al alcun vantaggio), sia il proposito del rappresentante di favorire il terzo, sia la conoscenza effettiva o quanto meno la conoscibilità di tale situazione da parte del terzo, occorrendo altresì ribadire che l’accertamento dell’esistenza del conflitto che coinvolge un’indagine di fatto riservata al giudice di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità per vizi di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – deve essere, peraltro, condotto sulla base del contenuto e delle modalità dell’operazione, prescindendo da una contestazione di formale contrapposizione di posizioni, che può valere come semplice elemento presuntivo di conflitto (conf. Cass. n. 1214/1972; Cass. n. 3/1962.

E’ stato poi ritenuto che il giudice di merito può argomentare l’esistenza di un tale conflitto e la sua conoscenza o conoscibilità da parte del terzo da elementi indiziari, quali il divario fra il valore di mercato del bene venduto dal rappresentante e il prezzo pagato dall’acquirente e la comunanza di interessi fra rappresentante e terzo (Cass. n. 7698/1996).

Nella specie deve ritenersi che l’accertamento del conflitto di interessi esistente tra la società opponente ed il proprio amministratore sia incensurabile, in quanto logicamente argomentato e tale da evidenziare l’esistenza di un rapporto d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro (cfr. Cass. n. 2529/2017). Nè coglie nel segno la critica volta a contestare il concreto utilizzo delle presunzioni nella fattispecie occorre ricordare che l’art. 2729 c.c., nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’art. 116 c.p.c., a proposito della valutazione delle prove dirette), impone al giudice di compiere l’inferenza logica dal fatto secondario (fatto noto) al fatto principale (fatto ignoto) sulla base di una regola d’esperienza che egli deve ricavare dal sensus communis, dalla conoscenza dell’uomo medio, dal sapere collettivo della comunità sociale in quel dato momento storico. Grazie alla regola d’esperienza adottata, è possibile per il giudice concludere che l’esistenza del fatto secondario (indizio) deponga, con un grado di probabilità più o meno alto, per l’esistenza del fatto principale. Lo stesso art. 2729 c.c. si cura di precisare come debba manifestarsi la “prudenza” del giudice, stabilendo che il decidente deve ammettere solo presunzioni che siano “gravi, precise e concordanti”; laddove il requisito della “precisione” va riferito al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica; il requisito della “gravità” va riferito al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere dal fatto noto; mentre il requisito della “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr. Cass. n. 11906/2003), anche se il requisito della “concordanza” deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Cass. n. 17574/2009).

Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, presentino cioè una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass. n. 19894/2005). In questo secondo momento valutativo, perciò, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. n. 3703/2012).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto – in forza di una regola d’esperienza come conseguenza meramente probabile, secondo un criterio di normalità (Cass. n. 22656/2011); in altre parole, è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù di una inferenza di natura probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre è da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Cass. n. 2632/2014).

Essendo la presunzione semplice affidata alla “prudente” valutazione del decidente (art. 2729 c.c.), spetta al giudice di merito valutare la possibilità di fare ricorso a tale tipo di prova, scegliere i fatti noti da porre a base della presunzione e le regole d’esperienza – tra quelle realmente esistenti nel sapere collettivo della società – tramite le quali dedurre il fatto ignoto, valutare la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge; trattandosi di apprezzamento affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, esso è sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 8023/2009, n. 15737/2003, n. 11906/2003; da ultimo, Cass. n. 101/2015).

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi precisato che (Cass. S.U. n. 1785/2018) la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare sotto i seguenti aspetti:

aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;

bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.

Con riferimento a tale secondo profilo, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B; la precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti; la concordanza esprime un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta. Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.

In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

Di contro, la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali). In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite, (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito abbia omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria.

A tali principi ha poi dato seguito la successiva giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 18611/2021), essendosi appunto affermato che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 22366/2021).

Nella specie, l’illustrazione dei motivi non è idonea a prospettare a ben vedere la falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, nei termini su indicati, ma si risolve, come detto, solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione agli oggetti delle varie circostanze emerse, così che non presentano le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1.

La sentenza gravata ha evidenziato come i due contratti annullati fossero stati conclusi tra la società, all’epoca rappresentata dal M., e la diversa società di cui lo stesso M. era socio fondatore, avendo conservato una partecipazione rilevante ed a fronte di una compagine societaria numericamente esigua.

E’ stato altresì sottolineato come i contratti furono conclusi poco prima che intervenissero le dimissioni del M., dovendosi sottolineare come, sebbene le stesse fossero formalmente intervenute nel mese di ottobre del 2010, già da aprile dello stesso anno questi si era allontanato dalla società, ponendosi in congedo parentale.

Con accertamento in fatto, supportato dalle prove raccolte, è stato altresì sottolineato come, anche durante il periodo in cui era amministratore della controricorrente, aveva continuato di fatto ad occuparsi della gestione della società ricorrente. Inoltre, sono state evidenziate sia la durata del contratto di agenzia pubblicitaria sia l’entità del compenso, ritenuto, anche qui con accertamento in fatto, superiore a quello di norma richiesto da altri operatori del settore per prestazioni di analogo contenuto.

Alla luce di tali elementi, con ragionamento di tipo presuntivo ma tenendo conto di elementi che indubbiamente hanno le caratteristiche imposte dall’art. 2729 c.c., la sentenza ha tratto il convincimento che il conflitto di interessi fosse alla data di conclusione dei contratti, non solo potenziale, ma addirittura attuale, e ciò alla luce del fatto che era imminente (e ragionevolmente prevista se non anche preordinata), la decisione di allontanarsi dalla gestione della società committente, onde assicurare un vantaggio alla Bravo, che avrebbe fruito di una sorta di rendita correlata alla conclusione di contratti di durata triennale e per un corrispettivo sicuramente maggiore di quello che si sarebbe potuto ricavare secondo le regole della concorrenza tra gli operatori del settore.

La sentenza, inoltre, ed in risposta ad una specifica critica reiterata nel motivo di ricorso, ha tratto dalla consistenza della compagine societaria della ricorrente, anche la presunzione che quest’ultima fosse a conoscenza del conflitto di interessi (o che comunque fosse percepibile), e ciò in quanto i suoi vertici dell’epoca non potevano non ignorare che il M. fosse al contempo sia loro consocio che amministratore della società committente, palesandosi quindi del tutto priva di fondamento la pretesa secondo cui sarebbe stato necessario dimostrare la mala fede della ricorrente ai fini dell’annullamento.

4. Il terzo motivo di ricorso deduce la violazione o falsa applicazione delle norme in materia di convalida del negozio giuridico annullabile.

Si deduce che il CDA di Bibo non poteva non essere a conoscenza dell’operato del M. e quindi avrebbe potuto immediatamente agire a tutela del proprio interesse, dovendosi quindi accreditare la condotta esecutiva del contratto come idonea a porre in essere la convalida del contratto.

Il motivo va rigettato.

La premessa erronea da cui muove la deduzione della ricorrente è che, in contrasto con quanto già evidenziato in occasione della disamina del primo motivo, alla fattispecie trovi applicazione il disposto di cui all’art. 2391 c.c..

Inoltre, si ribadisce, e senza che sul punto sia stata offerta prova alcuna, che solo perchè l’amministratore ha un obbligo legale di riferire al CDA della propria gestione, quest’ultimo fosse stato effettivamente informato anche della conclusione dei contratti oggetto di causa.

L’evidente insussistenza delle premesse in fatto ed in diritto da cui muove la critica della ricorrente, conferma la correttezza della decisione di appello che ha escluso che potesse ravvisarsi una convalida da parte della società.

Infatti, oltre a doversi ricordare che in tema di società di capitali, anche l’approvazione del bilancio non costituisce ratifica tacita dell’operato dell’amministratore in conflitto d’interessi, in quanto sia la disciplina del bilancio che quella dell’assemblea hanno natura imperativa e rispondono all’interesse pubblico ad un regolare svolgimento dell’attività economica (Cass. n. 6220/2013), essendo in ogni caso necessario che, sempre ai fini della convalida degli atti posti in essere in conflitto di interessi da parte dell’amministratore della società, deve risultare accertata univocamente, al di là della mera approvazione degli atti gestori, la volontà specifica di far proprio l’atto posto in essere dal rappresentante (Cass. n. 21517/2016), nella vicenda la sentenza ha sottolineato come in realtà le condotte che a detta della ricorrente deporrebbero per la convalida tacita, siano state poste in essere in epoca anteriore o coeva alla formalizzazione delle dimissioni del M., ed allorchè questi ancora rivestiva la qualità di amministratore delegato, persistendo quindi in capo al soggetto formalmente abilitato a porre in essere una convalida tacita quella situazione di conflitto di interessi che in via genetica ha inficiato la validità dei contratti, argomento questo che non risulta in alcun modo attinto dal mezzo di gravame in esame.

D’altronde la stessa ipoteticità della conoscenza della causa di invalidità del contratto (cfr. pag. 23, ove tra parentesi la ricorrente evidenza come la Bibo “poteva essere” a conoscenza del conflitto di interessi) esclude l’applicazione dell’art. 1444 c.c., che presuppone invece l’effettiva conoscenza della causa di annullamento (cfr. al riguardo Cass. n. 13296/2012 secondo cui solo un obbligo di conoscenza potrebbe essere equiparato alla effettiva conoscenza del vizio).

L’infondatezza della deduzione in punto di ammissibilità della convalida tacita implica poi che debbano essere disattese anche le censure, mosse espressamente in via conseguenziale all’accoglimento della denuncia della violazione dell’art. 1444 c.c., in merito alle pretese di pagamento delle maggiori somme richieste in via monitoria, non senza osservare che anche la critica al ragionamento svolto dai giudici di appello per individuare la somma effettivamente spettante alla ricorrente, per effetto dell’annullamento dei contratti, risulta del tutto generica e come tale inammissibile.

5. Il ricorso è pertanto rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.

6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 7.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2022


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 20/01/2022) 15/03/2022, n. 8362

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 27819/2016 R.G., proposto da:

R.M.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Giacomo Mezzena, con studio in Milano, elettivamente domiciliato presso l’Avv. Francesco Cristiani, con studio in Roma, giusta procura in calce al ricorso introduttivo del presente procedimento;

– ricorrente –

contro

il Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, autorizzato a resistere nel presente procedimento con Delib. adottata dalla Giunta Municipale il 10 febbraio 2017, n. 152, rappresentato e difeso dall’Avv. Antonello Mandarano, dall’Avv. Ruggero Meroni e dall’Avv. Anna Tavano, tutti con studio in Milano, nonchè dall’Avv. Giuseppe Lepore, ove elettivamente domiciliato, giusta procura in calce al controricorso di costituzione nel presente procedimento;

– controricorrente –

e la “EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE S.p.A.”, con sede in (OMISSIS), in persona del procuratore speciale pro tempore, nella qualità di incorporante la “EQUITALIA NORD S.p.A.”, con sede in Milano, giusta procura speciale a mezzo di rogito redatto dal Notaio D.L.M. da Roma (OMISSIS), rep. n. (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avv. Andrea Romano, con studio in (OMISSIS), e dall’Avv. Lidia Ciabattini, con studio in (OMISSIS), ove elettivamente domiciliata, giusta procura in calce al controricorso di costituzione nel presente procedimento;

– controricorrente –

Avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano il 26 aprile 2016 n. 2478/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20 gennaio 2022 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo;

udito, per il Comune di Milano, l’Avv. Maria Romana Ciliutti, per delega dell’Avv. Giuseppe Lepore, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. De Matteis Stanislao, che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo
R.M.G. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano il 26 aprile 2016 n. 2478/11/2016, la quale, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione di cinque cartelle di pagamento per l’ICI relativa a plurime annualità, ha rigettato l’appello proposto dal medesimo nei confronti del Comune di Milano e della “EQUITALIA NORD S.p.A.” avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano l’11 marzo 2015 n. 2413/47/2015, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali. La Commissione Tributaria Regionale ha confermato la decisione di prime cure in ragione dell’infondatezza delle eccezioni preliminari di decadenza e prescrizione della pretesa impositiva, della rituale notificazione delle cartelle di pagamento e della tempestiva formazione del ruolo esattoriale. Il ricorso è affidato a cinque motivi. Il Comune di Milano e la “EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE S.p.A.” (medio tempore incorporante la “EQUITALIA NORD S.p.A.”) si sono costituiti con controricorso. Con conclusioni scritte, il P.M. ha chiesto il rigetto del ricorso. Il Comune di Milano ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare, la necessità della notificazione all’estero sulla base della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1998 sulla mutua assistenza amministrativa in materia fiscale, l’inesistenza della notificazione, nonchè la violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 1, 6 e 10 in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto che le notificazioni delle cartelle di pagamento fossero state regolari.

2. Con il secondo motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver esaminato l’eccezione del contribuente in ordine al difetto di legittimazione dell’agente della riscossione alla notificazione delle cartelle di pagamento.

3. Con il terzo motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver rilevato la decadenza della pretesa impositiva per inosservanza del termine di iscrizione a ruolo da parte dell’agente della riscossione.

4. Con il quarto motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver rilevato la prescrizione della pretesa impositiva.

5. Con il quinto motivo, si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., nonchè delle tariffe (recte: dei parametri) professionali, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver condannato il contribuente alla rifusione delle spese giudiziali senza alcuna motivazione in ordine alle ragioni di tale statuizione e in ordine ai parametri tabellari per la determinazione dei compensi professionali.

6. Il primo motivo è inammissibile.

6.1 A ben vedere, il mezzo è carente di autosufficienza.

Invero, il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (tra le altre: Cass., Sez. 5, 15 luglio 2015, n. 14784; Cass., Sez. 6-1, 27 luglio 2017, n. 18679; Cass., Sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34593; Cass., Sez. 6-5, 15 dicembre 2020, n. 28537; Cass., Sez. 5, 21 luglio 2021, n. 20974; Cass., Sez. 5, 28 settembre 2021, n. 26220).

6.2 Peraltro, in tema di ricorso per cassazione, ove sia denunciato il vizio di una relata di notifica, con riguardo sia ad atti processuali che ad atti procedimentali, il principio di autosufficienza del ricorso esige la trascrizione integrale di quest’ultima, che, se omessa, determina l’inammissibilità del motivo (Cass., Sez. 5, 28 febbraio 2017, n. 5185; Cass., Sez. 5, 30 novembre 2018, n. 31038; Cass., Sez. 5, 16 marzo 2021, n. 7173; Cass., Sez. 6-5, 12 maggio 2021, n. 12518; Cass., Sez. 5, 15 luglio 2021, n. 20152; Cass., Sez. 6-5, 22 ottobre 2021, n. 29568; Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2021, n. 30971).

Per accertare la sussistenza o meno della dedotta violazione, quindi, non basta un generico richiamo ai documenti relativi alla notifica, ma per il principio dell’autosufficienza è necessaria la sua integrale trascrizione, onde consentire al giudice il preventivo esame della rilevanza del vizio denunziato (Cass., Sez. 6-5, 22 ottobre 2021, n. 29568).

6.3 Nella specie, il ricorrente non ha riprodotto, nè allegato, nè richiamato le relate di notifica delle cartelle di pagamento, per cui ne è preclusa al collegio la verifica della relativa regolarità.

7. Il secondo motivo è inammissibile e, comunque, infondato.

7.1 Invero, il mezzo lamenta l’omesso scrutinio di una questione (segnatamente, la legittimazione dell’agente della riscossione alla notifica delle cartelle di pagamento a mezzo del servizio postale), che non risulta essere stata dedotta dal contribuente in sede di impugnazione delle cartelle di pagamento nè essere stata proposta tra i motivi di appello della decisione di prime cure.

7.2 Per giurisprudenza pacifica di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa. I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito nè rilevabili d’ufficio (tra le tante: Cass., Sez. 2, 9 agosto 2018, n. 20694; Cass., Sez. 2, 18 settembre 2020, n. 19560; Cass., Sez. 5, 9 dicembre 2020, n. 28036; Cass., Sez. 6-5, 23 marzo 2021, n. 8125; Cass., Sez. 5, 5 maggio 2021, n. 11708; Cass., Sez. 6A-5, 18 ottobre 2021, n. 28714; Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2021, n. 30863; Cass., Sez. 5, 24 novembre 2021, n. 36393; Cass., Sez. 2, 21 dicembre 2021, n. 40984).

7.3 In disparte la novità della questione, ad ogni modo, la censura deve essere disattesa.

Difatti, è pacifico che, in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, seconda parte, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati (tra le tante: Cass., Sez. 6-5, 11 febbraio 2016, n. 2790; Cass. Sez. 5, 23 novembre 2017, n. 28000; Cass., Sez. 5, 25 maggio 2018, n. 13124; Cass., Sez. 6-2, 17 gennaio 2019, n. 1243; Cass., Sez. 5, 21 febbraio 2020, n. 4671; Cass., Sez. 6-5, 30 settembre 2020, n. 20700).

8. Parimenti, il terzo motivo ed il quarto motivo – la cui stretta ed intima connessione suggeriscono l’esame congiunto per la comune attinenza a questioni preliminari sull’an debeatur sono inammissibili.

8.1 Le doglianze attengono all’omesso rilievo della decadenza e della prescrizione della pretesa impositiva per inesistenza della notifica degli avvisi di accertamento e per inosservanza del termine di iscrizione a ruolo da parte dell’agente della riscossione.

8.2 Tuttavia, secondo l’accertamento fattone dal giudice di appello, a conferma della decisione di prime cure, l’ente impositore aveva “dato prova in relazione a tutte le annualità in contestazione della correttezza del procedimento notificatorio adottato per gli avvisi di accertamento e della formazione del ruolo entro il biennio successivo a ciascuna notifica”, con la conclusione che “ciò vale a confutare sia l’eccezione di prescrizione che (l’eccezione) di decadenza della pretesa tributaria”.

Per cui, il mezzo finisce col risolversi – anche per le considerazioni sulla presunta irritualità della documentazione prodotta dall’ente impositore – nella pretesa di un inammissibile riesame dei fatti accertati dalla sentenza impugnata (tra le tante: Cass., Sez. 6A-5, 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass., Sez. 5, 31 maggio 2018, n. 13885; Cass., Sez. 6-5, 13 dicembre 2019, n. 32835; Cass., Sez. 6-5, 13 novembre 2020, n. 25707, 25708 e 25713; Cass., Sez. 5, 11 novembre 2021, n. 33300; Cass., Sez. 5, 21 dicembre 2021, n. 40932).

9. Da ultimo, il quinto motivo è infondato.

9.1 Il parametro normativo di riferimento deve essere più propriamente individuato nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15 che detta una specifica disciplina (ancorchè sulla falsariga dell’art. 91 c.p.c.) per la regolamentazione delle spese nel processo tributario.

9.2 Ciò posto, in tema di disciplina delle spese processuali, la soccombenza costituisce un’applicazione del principio di causalità, in virtù del quale non è esente da onere delle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (in quanto trasgressivo di norme di diritto sostanziale) abbia provocato la necessità del processo; essa prescinde, pertanto, dalle ragioni – di merito o processuali – che l’abbiano determinata e dal fatto che il rigetto della domanda della parte dichiarata soccombente sia dipeso dall’avere il giudice esercitato i suoi poteri officiosi (da ultima: Cass., Sez. 1, 29 luglio 2021, n. 21823).

9.3 Nella specie, pertanto, il giudice di appello si è uniformato alle prescrizioni del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15, comma 1, (nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. f, n. 1, con decorrenza dall’I gennaio 2016), il quale collegava in modo automatico la condanna alla rifusione delle spese giudiziali alla soccombenza di una parte rispetto all’altra parte e consentiva la compensazione (totale o parziale) delle spese giudiziali soltanto nei casi previsti dall’art. 92 c.p.c., comma 2, (quivi non ricorrenti).

10. Alla stregua delle suesposte argomentazioni, valutandosi, rispettivamente, l’inammissibilità e/o l’infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso deve essere rigettato.

11. Le spese giudiziali seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.

12. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore dei controricorrenti, liquidandole, rispettivamente, per l’ente impositore, nella misura di Euro 200,00 per esborsi e di Euro 5.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi e ad altri accessori di legge, e, per l’agente della riscossione, nella misura di Euro 200,00 per esborsi e di Euro 4.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi e ad altri accessori di legge; dà atto dell’obbligo, a carico del ricorrente, di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2022


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 03/03/2022) 09/03/2022, n. 7746

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 15023 del ruolo generale dell’anno 2015, proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

La Bussola s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine del controricorso, dall’Avv.to Alessandra Stasi e dall’Avv.to Luigi Marsico, elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo difensore, in Roma, Viale Regina Margherita n. 262;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Foggia, n. 2579/26/2014, depositata il 15 dicembre 2014;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26 novembre 2021 dal Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati Viscido di Nocera.

Svolgimento del processo
che:

– con sentenza n. 2579/26/2014, depositata il 15 dicembre 2014, la Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Foggia, accoglieva l’appello principale proposto (limitatamente alla disposta compensazione delle spese di lite) dalla società La Bussola s.r.l. nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore (con assorbimento di quello incidentale dell’Ufficio) avverso la sentenza n. 317/05/2014 della Commissione tributaria provinciale di Foggia che aveva accolto il ricorso proposto dalla società avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS) recante l’iscrizione a ruolo per la somma di Euro 90.841,73;

– in punto di diritto, per quanto di interesse, la CTR ha osservato che: 1) andava confermata la legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate nel giudizio di impugnazione della cartella per denunciata omessa/nullità notificazione della stessa trattandosi di un “vizio procedurale” che ridondava sulla stessa sussistenza della pretesa tributaria; 2) l’impugnazione era stata correttamente proposta avverso la cartella di pagamento, atto impugnabile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e non già avverso un atto denominato “estratto di ruolo”, senza che vi fosse alcun obbligo di deposito della cartella unitamente al ricorso (prevedendo il medesimo decreto, art. 22, soltanto la “facoltà” per il ricorrente di depositare l’atto impugnato nel caso in cui lo stesso risulti notificato); 3) premesso che era onere dell’Agenzia che aveva eccepito la tardività del ricorso provare il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale (il 15 febbraio 2010, quale data di asserita notifica della cartella), la medesima aveva depositato con l’atto di appello la fotocopia di una relata di notifica inutilizzabile ai fini probatori, avendo la contribuente eccepito la mancata conformità della stessa all’originale e non essendo stato depositato in giudizio l’originale; 4) essendo, comunque, risultato dall’esame della relata la notificazione a mani di un soggetto qualificato dall’agente postale come “dipendente” di altra società proprietaria dei locali dove la contribuente aveva semplicemente la sua sede legale, era mancata la spedizione della “raccomandata informativa” necessaria ai fini del perfezionamento della notifica a mani di soggetto diverso dal destinatario ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 lett. b-bis;

– avverso la sentenza della CTR, l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a sette motivi, cui resiste la società contribuente, con controricorso;

– la società contribuente ha depositato istanza di sospensione del processo, avendo aderito alla definizione agevolata delle liti pendenti di cui al D.L. n. 119 del 2018, art. 6, convertito dalla L. n. 136 del 2018, nonchè relativa documentazione (copia della domanda di definizione agevolata e modello F24 del versamento della prima rata);

– l’Agenzia delle entrate ha depositato il 14.12.2020 istanza di fissazione di udienza a seguito di diniego di condono (D.L. n. 50 del 2017, ex art. 11: rectius del D.L. n. 119 del 2018, art. 6), con atto prot. (OMISSIS) asseritamente notificato al contribuente il 28/4/2020 per la definizione della lite presentata del D.L. n. 119 del 2018, ex art. 6;

– la contribuente ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c., chiedendo l’estinzione del processo ai sensi del D.L. n. 119 del 2018, art. 6, comma 13, avendo presentato regolare istanza per la definizione della controversia, provvedendo a pagare la prima rata di quanto dovuto, e non avendo l’Agenzia delle entrate mai notificato alla società alcun diniego della definizione entro il 31 luglio 2020 nè successivamente nè avendo alcuna delle parti presentato entro il 31 dicembre 2020 istanza di trattazione della sospesa controversia;

– il ricorso è stato fissato in Camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Motivi della decisione
che:

– va preliminarmente va disattesa l’istanza di estinzione del giudizio formulata dalla contribuente nella memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., in quanto il diniego di condono D.L. n. 119 del 2018, ex art. 6, (prot. (OMISSIS)) è stato notificato – come da documentazione prodotta in giudizio – il 28/4/2020 alla società all’indirizzo di posta elettronica “(OMISSIS)”, nel termine del 31 dicembre 2020 e nel rispetto delle modalità previste per la notificazione degli atti processuali di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16, 16-bis e 17, (sul punto, v. anche Circolare dell’Agenzia delle entrate del 1 aprile 2019 n. 6/E) e non è stato da quest’ultima impugnato. Invero, ai sensi dell’art. 6 cit., del comma 12, “L’eventuale diniego della definizione va notificato entro il 31 luglio 2020 con le modalità previste per la notificazione degli atti processuali. Il diniego è impugnabile entro sessanta giorni dinanzi all’organo giurisdizionale presso il quale pende la controversia”. Non essendo stato il diniego di condono – tempestivamente notificato alla contribuente – impugnato da quest’ultima, sussistendo l’interesse dell’Agenzia, occorre procedere, pertanto, al vaglio dei motivi di censura formulati nel presente procedimento;

– con il primo motivo, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, e art. 21, per avere la CTR avere ritenuto il ricorso introduttivo legittimamente proposto avverso la cartella di pagamento asseritamente non notificata, ancorchè, nella specie, il ricorso fosse stato sostanzialmente proposto avverso l’estratto di ruolo non notificato, quale atto non autonomamente impugnabile e, comunque, anche a volerlo considerare proposto avverso la cartella di pagamento che si assumeva non notificata (della quale la contribuente sarebbe venuta a conoscenza a seguito di “ispezione presso l’agente della riscossione”), l’impugnazione dell’atto asseritamente non notificato fosse consentita esclusivamente – nei termini di cui all’art. 21 cit., – attraverso l’impugnazione dell’atto immediatamente successivo (nella specie, l’atto di intimazione di pagamento), qualificato come atto impugnabile e notificato alla contribuente;

– con il secondo motivo, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, per avere la CTR ritenuto l’Agenzia delle entrate (ente impositore) legittimata passiva nel giudizio di impugnazione della cartella per omessa notifica della stessa, ancorchè si trattasse di vizi, attinenti alla formazione della cartella, ascrivibili ad altro soggetto (Agente della riscossione);

– con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, per avere la CTR ritenuto irrilevante ai fini dell’ammissibilità del ricorso la mancata allegazione al fascicolo processuale della copia dell’atto impositivo ancorchè tale adempimento fosse funzionale alla verifica giudiziale non solo della natura e portata della pretesa erariale ma anche della tempestività del ricorso medesimo;

– con il quarto motivo, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 26, e artt. 2712, 2714 c.c., per avere la CTR ritenuto che l’Ufficio non avesse dimostrato l’avvenuta notifica della cartella in data 15 febbraio 2010 – con conseguente tempestività del ricorso – in quanto la prodotta copia fotostatica della relata era inutilizzabile ancorchè incombesse sulla controparte l’onere di contestarne specificamente la conformità all’originale, con obbligo, in tal caso, del giudice di disporre la produzione in giudizio del documento;

– con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, per avere la CTR ritenuto non perfezionatasi la notifica della cartella essendo stata fatta ad un soggetto diverso dal legale rappresentante della società contribuente senza trasmissione della successiva raccomandata, ancorchè, nella specie, la notifica della cartella risultasse avvenuta presso la sede di quest’ultima a mani di persona qualificatasi “addetta al ritiro” e, pertanto, salvo prova contraria – nella specie non assolta – presumibilmente addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica;

– con il sesto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, per avere la CTR ritenuto applicabile l’art. 60 cit., ancorchè il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, richiamasse tale disposizione, ai fini del corretto svolgimento delle attività di notifica, soltanto nei casi previsti dall’art. 140 c.p.c., (irreperibilità relativa), mentre, nella specie, la notifica era stata effettuata ai sensi dell’art. 145 c.p.c., (trattandosi di persona giuridica) senza necessità di indicazione della persona fisica-legale rappresentante dell’ente;

– con il settimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 546 del 1992, art. 21, per avere la CTR ritenuto tempestivo il ricorso (proposto in data 6.4.11) ancorchè fosse decorso il termine per l’impugnativa stante la rituale notifica della cartella in data 15 febbraio 2010 presso la sede legale della società contribuente;

– assume carattere pregiudiziale l’esame del secondo motivo investendo la contestata legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate in giudizio – che è infondato;

– è oramai consolidato l’orientamento, inaugurato dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 16412 del 25/07/2007, secondo il quale il contribuente che impugni una cartella esattoriale emessa dal concessionario della riscossione per motivi che attengono alla mancata notificazione, ovvero anche alla invalidità degli atti impositivi presupposti, può agire indifferentemente nei confronti tanto dell’ente impositore quanto del concessionario, senza che sia tra i due soggetti configurabile alcun litisconsorzio necessario. In entrambi i casi, la legittimazione passiva spetta all’ente titolare del credito tributario e non già al concessionario, il quale, in presenza di contestazioni involgenti il merito della pretesa impositiva, ha l’onere di chiamare in giudizio il predetto ente, D.Lgs. n. 112 del 1999, ex art. 39, se non vuole rispondere dell’esito della lite, non essendo il giudice tenuto a disporre d’ufficio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non è configurabile un litisconsorzio necessario (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 9762 del 07/05/2014, Rv. 63063301; Sez. 5, Sentenza n. 8370 del 24/04/2015, Rv. 635173- 01; Sez. 5, Ordinanza n. 10528 del 28/04/2017, Rv. 644101-01; Sez. 5, Sentenza n. 8295 del 04/05/2018). Il concessionario, dunque, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, è parte quando oggetto della controversia è l’impugnazione di atti viziati da errori ad esso direttamente imputabili, nel caso – cioè – di vizi propri della cartella di pagamento e dell’avviso di mora. In tale ipotesi l’atto va impugnato chiamando in causa esclusivamente il concessionario, al quale è direttamente ascrivibile il vizio dell’atto, non essendo configurabile un litisconsorzio necessario con l’ente impositore (cfr. sez. 5, n. 5832 del 2011 richiamata anche da Sez. 5, Sentenza n. 22729 del 09/11/2016);

– è stato soggiunto che la tardività della notificazione della cartella non costituisce vizio proprio di questa, tale da legittimare in via esclusiva il concessionario a contraddire nel relativo giudizio, sicchè la legittimazione passiva spetta all’ente titolare del credito tributario; nell’ipotesi in cui il concessionario fosse stato fatto destinatario dell’impugnazione, sarebbe stato onere di quest’ultimo chiamare in giudizio l’ente titolare del credito, laddove non volesse rispondere all’esito della lite, non essendo il giudice tenuto a disporre d’ufficio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non è configurabile nella specie un litisconsorzio necessario (ex plurimis, da sez. 5, Ord. n. 2480 del 2020; Sez. 5, Sentenza n. 22939 del 30/10/2007; Sez. 5, Sentenza n. 14032 del 27/06/2011);

– nella sentenza impugnata, la CTR ha ritenuto, in ossequio ai suddetti principi, legittimamente proposto dalla contribuente il ricorso nei confronti della Agenzia delle entrate, non configurandosi nell’ipotesi di impugnativa di una cartella esattoriale per motivi che attengono alla mancata notificazione alcun litisconsorzio necessario con l’Agente della riscossione;

– il primo motivo è infondato;

– in materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poichè tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 1144 del 18/01/2018; Cass. S.U. n. 5791/2008, ripresa da ultimo, da Cass. SU n. 10012/21);

– l’estratto di ruolo è atto interno all’Amministrazione da impugnare unitamente all’atto impositivo, notificato di regola con la cartella di pagamento, perchè solo da quel momento sorge l’interesse ad instaurare la lite ex art. 100 c.p.c., salvo il caso in cui il ruolo e la cartella non siano stati notificati: ipotesi in cui, non potendo essere compresso o ritardato l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale, è invece ammissibile, nel rispetto del termine generale previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, l’autonoma impugnativa dell’estratto, non ostandovi il disposto del D.Lgs. n. 546 cit., art. 19, comma 3, che, secondo una lettura costituzionalmente orientata, impone di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisce l’unica possibilità di far valere la mancanza di una valida notifica dell’atto precedente del quale il contribuente sia comunque venuto a conoscenza (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 22507 del 09/09/2019). Ovviamente l’impugnazione dell’estratto di ruolo è soggetta al rispetto del termine generale previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, essendo ininfluente la facoltatività dell’impugnazione dell’estratto, per la permanenza, in capo al contribuente, del diritto di impugnare anche il primo atto impositivo tipico successivamente notificatogli (cfr., in motivazione, Cass., Sez. 5, Sentenza n. 27799 del 31/10/2018);

– peraltro, si è anche aggiunto che, in tema di contenzioso tributario, solo la piena conoscenza dell’atto da parte del contribuente consente il consapevole esercizio del diritto di impugnativa, e la ratio della previsione secondo cui al contribuente non va – di regola – notificato l’estratto di ruolo, bensì la cartella di pagamento nella quale il ruolo viene trasfuso, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 25 e 26, risiede proprio nell’esigenza di rendere ostensibili al medesimo le ragioni ed i presupposti che hanno dato origine alla pretesa fiscale azionata dall’amministrazione finanziaria (Cass., Sez. 5, 17 aprile 2015, n. 7874) con la conseguenza che l’acquisizione da parte del contribuente di una copia dell’estratto di ruolo riportante l’indicazione di avvenuta iscrizione a ruolo di quanto poi trasfuso nella relativa cartella di pagamento, avente il valore di una mera informazione di un fatto verificatosi, non può assurgere a prova della piena conoscenza dell’atto impositivo impugnabile, ai fini della decorrenza del termine di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, potendo legittimare al più l’impugnazione, peraltro facoltativa, del solo estratto di ruolo (Cass., Sez. 6, 9 settembre 2019, n. 909; Cass., sez. 5, n. 26093 del 2020);

– in relazione al caso di specie, va, dunque, ribadito e confermato che, per quanto l’estratto di ruolo non sia autonomamente impugnabile, in quanto atto interno all’amministrazione ed improduttivo di effetti nella sfera del destinatario, il quale ha l’onere di impugnare la cartella cui esso di riferisce, con le forme e nei termini di legge, tale principio non si pone in contrasto con quello secondo cui il contribuente può far valere immediatamente le sue ragioni avverso la cartella esattoriale non notificata o invalidamente notificata, della cui esistenza sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta, trattandosi – in quest’ultimo caso – di tutela anticipatoria giustificata dall’esigenza di recuperare gli strumenti di impugnazione avverso la cartella esattoriale non utilmente attivabili in precedenza a causa della assenza o invalidità della notifica (Cass., Sez. Un., 2 ottobre 2015, n. 19704; Cass., Sez. 5, 19 gennaio 2018, n. 1302; Cass., Sez. 6, 25 febbraio 2019, n. 5443; Cass., Sez. 6, 9 settembre 2019, n. 22507; Cass., Sez. Lav., 12 novembre 2019, n. 29294; Cass., sez. 6-Lav. 25 febbraio 2019 n. 5443, Cass. n. 26093 del 2020); in particolare, si è affermato che “è ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione” (Cass. SU n. 19704 del 2015);

– nella specie, in cui viene in rilievo la questione della ammissibilità della impugnazione della cartella invalidamente notificata (e conosciuta attraverso l’estratto di ruolo), la CTR si è attenuta ai suddetti principi avendo ritenuto ammissibile il ricorso proposto (non unitamente alla impugnazione dell’atto successivo notificato) “esclusivamente contro la cartella di pagamento” per vizio di omessa/nullità della relativa notifica, essendone venuta la contribuente a conoscenza a “seguito di un controllo routinario presso l’Agente della riscossione”;

– il terzo motivo è altresì infondato;

– in tema di processo tributario, anche con riferimento agli atti notificati dopo l’entrata in vigore della L. 27 luglio 2000, n. 212, va confermato il principio secondo cui dal mancato deposito del processo verbale non deriva l’inammissibilità del ricorso, che è prevista dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, comma 1, per i soli atti ivi indicati, tra cui non compaiono l’originale o la fotocopia dell’atto impugnato (comprensivi anche del p.v.c. richiamato nell’avviso di accertamento), ai quali si riferisce, invece, l’art. 22 citato, comma 4, e che possono, quindi, essere prodotti anche in un momento successivo, ovvero su impulso del giudice tributario (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21509 del 20/10/2010); nel processo tributario, nonostante non sia prevista alcuna sanzione, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 4, quale conseguenza dell’omesso deposito dell’atto impugnato, con la relativa notificazione, il contribuente è pur sempre tenuto a provvedervi allorquando sia eccepita la tardività del ricorso, essendo dalla notifica dell’atto ricavabile la prova della tempestiva introduzione del giudizio, il cui onere grava sul predetto (Cass. Sez. 5, Ord. n. 25107 del 10/11/2020);

– nella sentenza impugnata, la CTR si è attenuta al suddetto principio avendo ritenuto che il mancato deposito della cartella unitamente all’atto introduttivo non fosse sanzionato con la inammissibilità del ricorso; peraltro, il deposito della cartella non poteva, nella specie, rilevare ai fini della prova della tempestività della proposizione del ricorso, avendo la contribuente contestato proprio la mancanza/nullità della notifica dell’atto impositivo;

– il quarto motivo – con il quale si aggredisce la prima delle due rationes decidendi sottesa al rigetto della eccezione di tardività del ricorso originario sollevata dall’Agenzia (per decorso del termine decadenziale dalla assunta notifica della cartella in data 15.2.2010) – è fondato per le ragioni di seguito indicate;

– in tema di notifica della cartella esattoriale, laddove l’agente della riscossione produca in giudizio copia fotostatica della relata di notifica o dell’avviso di ricevimento (recanti il numero identificativo della cartella) e l’obbligato contesti la conformità delle copie prodotte agli originali, ai sensi dell’art. 2719 c.c., il giudice che escluda l’esistenza di una rituale certificazione di conformità agli originali, non può limitarsi a negare ogni efficacia probatoria alle copie prodotte, ma deve valutare le specifiche difformità contestate alla luce degli elementi istruttori disponibili, compresi quelli di natura presuntiva, attribuendo il giusto rilievo anche all’eventuale attestazione, da parte dell’agente della riscossione, della conformità delle copie prodotte alle riproduzioni informatiche degli originali in suo possesso (Cass., Sez. 5, Ord. n. 23426 del 26/10/2020; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 23902 del 11/10/2017);

-questa Corte ha, altresì, precisato come la questione relativa alle modalità con cui si contesti la conformità delle copie prodotte agli originali, ai sensi dell’art. 2719 c.c., va risolta valutando se e come siano state contestate le specifiche difformità ed esige la trascrizione delle eccezioni di disconoscimento dedotte dal contribuente, al fine di consentire al giudice di legittimità di verificare la sussistenza della violazione di legge dedotta e, dunque, la correttezza delle argomentazioni del decidente (Cass. sent. n. 16557 del 20/06/2019; Cass. n. 23426 del 2020); l’art. 2719 c.c., esige, difatti, l’espresso disconoscimento della conformità con l’originale delle copie fotografiche o fotostatiche: conseguentemente, la copia fotostatica non autenticata si ha per riconosciuta, tanto nella sua conformità all’originale quanto nella scrittura e sottoscrizione, se la parte comparsa non la disconosce, in modo specifico ed inequivoco (Cass. n. 882/2018; n. 4053/2018);

– nella specie, la CTR non si è attenuta ai suddetti principi, limitandosi ad affermare apoditticamente di non potere utilizzare ai fini probatori – in assenza di produzione dell’originale – la fotocopia della “relata di notifica” oggetto di contestazione da parte della contribuente all’atto del suo deposito in appello in quanto ritenuta non conforme all’originale; è quindi chiaro che, nella fattispecie, la contribuente non ha operato alcun disconoscimento della conformità della copia all’originale, lamentandosi sostanzialmente di non poter esercitare i diritti di cui all’art. 2719 c.c., in assenza della produzione degli originali; peraltro, pur a voler ammettere implicitamente formulato dal contribuente il disconoscimento della conformità delle copie degli atti agli originali, non va trascurato che è privo di efficacia il generico disconoscimento della conformità tra l’originale e la copia fotostatica prodotta in giudizio. Perchè possa aversi, infatti, disconoscimento idoneo è necessario che la parte, nei modi e termini di legge, renda una dichiarazione che – pur nel silenzio della norma predetta, che non richiede forme particolari – evidenzi in modo chiaro ed inequivoco gli elementi differenziali del documento prodotto rispetto all’originale di cui si assume sia copia, senza che possano considerarsi sufficienti, ai fini del ridimensionamento dell’efficacia probatoria, contestazioni generiche o onnicomprensive (cfr. in tal senso Cass. n. 28096 del 30/12/2009 in tema di applicazione dell’art. 2719 c.c.). Il disconoscimento deve quindi ad es. contenere l’indicazione delle parti in cui la copia sia materialmente contraffatta rispetto all’originale; oppure le parti mancanti e il loro contenuto; oppure, in alternativa, le parti aggiunte; a seconda dei casi, poi, la parte che disconosce deve anche offrire elementi, almeno indiziari, sul diverso contenuto che il documento presenta nella versione originale; pertanto, nella specie, essendosi il contribuente limitato ad eccepire, ex artt. 2712-2719 c.c., “la mancanza di conformità all’originale della relata di notifica della cartella depositata dall’Agenzia”(v. pag. 27 del controricorso), è evidente che la CTR ha erroneamente escluso la utilizzabilità, ai fini probatori, della copia fotostatica della “relata di notifica” essendo, in ogni caso, privo di efficacia il generico disconoscimento della conformità tra l’originale e la copia fotostatica prodotta in giudizio;

– i motivi dal quinto al settimo – che aggrediscono la seconda ratio decidendi sottesa al rigetto dell’eccezione di tardività del ricorso originario concretantesi nell’asserito mancato perfezionamento della notifica della cartella – sono fondati;

– in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, comma penultimo, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione” (cfr., tra le molte, Cass. sez. 5, 19 marzo 2014, n. 6395; Cass. sez. 6-5, ord. 24 luglio 2014, n. 16949; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4567 del 06/03/2015; Cass. sez. 6-5, ord. 13 giugno 2016, n. 12083; Cass. sez. 5, 18 novembre 2016, n. 23511; v. Cass. n. 8086 del 2018, con riguardo alla notifica di preavviso di fermo amministrativo); in particolare, “Qualora la notifica della cartella di pagamento nei confronti di una società sia eseguita direttamente dal concessionario mediante raccomandata con avviso di ricevimento, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26, comma 1, seconda parte, per il relativo perfezionamento è sufficiente che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale, se non di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la propria firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente, dovendosi escludere, stante l’alternatività di tale disciplina speciale rispetto a quella dettata dalla L. n. 890 del 1982, e dal codice di rito, l’applicabilità delle disposizioni in tema di notifica degli atti giudiziari e, in specie, dell’art. 145 c.p.c.,” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 23511 del 18/11/2016); inoltre, in tema di notifica della cartella esattoriale D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26, comma 1, seconda parte, la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione e della relativa data è assolta mediante la produzione dell’avviso di ricevimento, non essendo necessario che l’agente della riscossione produca la copia della cartella di pagamento, la quale, una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnata a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo provi di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass. n. 15795/2016; 12083/2016; n. 23213/2014; n. 16949/2014; 4895/2014; n. 9111/2012; n. 270/2012); si è osservato anche che se manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma, e la relativa sottoscrizione sia addotta come inintelligibile, l’atto è pur sempre valido, poichè la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c., ed eventualmente solo in tal modo impugnabile, stante la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata (Cass. n. 22488/2014; n. 2008/2008); al riguardo, questa Corte ha precisato che “qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982, potendosi far valere solo a mezzo querela di falso le questioni circa la riferibilità della firma al destinatario della notifica” (Cass. n. 29022 del 2017);

– l’orientamento di questa Corte è nel senso di ritenere (Cass. Sez. 6 5, Ordinanza n. 10037 del 10/04/2019) che in tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, mediante invio diretto della raccomandata con avviso di ricevimento da parte del concessionario, non è necessario l’invio di una successiva raccomandata informativa in quanto trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario, peraltro con esclusione della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 883, in quanto privo di efficacia retroattiva, e non quelle della L. n. 890 del 1982;

– in tema di notifica della cartella di pagamento, (soltanto) nei casi di “irreperibilità cd. relativa” del destinatario, all’esito della sentenza della Corte Cost. n. 258 del 22 novembre 2012 relativa al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, (ora comma 4), va applicato l’art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto del citato art. 26, u.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, alinea, sicchè è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l’inoltro al destinatario e l’effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25079 del 26/11/2014; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9782 del 19/04/2018);

– nella sentenza impugnata, la CTR non si attenuta ai suddetti principi, in quanto, a fronte della notifica della cartella eseguita dal concessionario a mezzo servizio postale “a mani di soggetto… qualificato dall’Agente postale dipendente (fatto non contestato dall’Agenzia) di altra società proprietaria dei locali dove la Bussola s.r.l. ha semplicemente la sua sede legale”, ha ritenuto la stessa non perfezionata in mancanza, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. b-bis, di una successiva “raccomandata informativa” trattandosi, a suo avviso, di notifica nelle mani di soggetto diverso dal destinatario; con ciò facendo erroneamente applicazione dell’art. 60 cit., che è richiamato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 4, soltanto nei casi previsti dall’art. 140 c.p.c.; invero, nella specie, non trattandosi di c.d. irreperibilità relativa – e costituendo l’asserita omissione dell’adempimento della spedizione della raccomandata informativa l’unica ragione del ritenuto mancato perfezionamento della notifica della cartella – stante l’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c., in mancanza di querela di falso, dell’accertamento preliminare dell’agente postale circa la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato, la notifica della cartella deve ritenersi perfezionata alla data del 15.2.2010 con conseguente intempestività del ricorso originario (la cui tardività non risulta contestata in sè dalla società, v. pag. 28 del controricorso “la impugnazione tardiva è dovuta esclusivamente alla circostanza che la cartella non è stata consegnata”);

– in conclusione, vanno accolti i motivi dal quarto al settimo, respinti i restanti; con cassazione della sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, con declaratoria di inammissibilità per tardività dell’originario ricorso del contribuente avverso la cartella di pagamento;

– sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei gradi merito mentre quelle del giudizio di legittimità seguono il principio della soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte accoglie i motivi dal quarto al settimo, respinti i restanti; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito dichiara inammissibile il ricorso originario del contribuente avverso la cartella di pagamento; compensa le spese dei gradi di merito; condanna la controricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Conclusione
Così deciso in Roma, a seguito di riconvocazione, il 3 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 26/01/2022) 02/03/2022, n. 6820

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31907-2020 proposto da:

ADER AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente-

Contro

T.P.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3151/8/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA CALABRIA, depositata il 16/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 26/01/2022 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO MONDINI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
che:

1. L’Agenzia delle Entrate Riscossione ricorre, denunciando violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, per la cassazione della sentenza in epigrafe con la quale la CTR della Calabria ha dichiarato illegittima l’intimazione di pagamento emessa da essa ricorrente nei confronti di T.P. in forza di cartella esattiva, sull’assunto difetto di notifica di quest’ultima non avendo la ricorrente provveduto ad avvisare il destinatario del fatto che la raccomandata postale di invio diretto della suddetta cartella era stata consegnata ad un soggetto addetto alla sua casa. La CTR ha poi dichiarato le altre questioni assorbite.

2. T.P. non si è costituito;

3. il ricorso è fondato.

Al contrario di quanto assunto dalla CTR, questa Corte ha più volte affermato che “In tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, mediante invio diretto della raccomandata con avviso di ricevimento da parte del concessionario, non è necessario l’invio di una successiva raccomandata informativa in quanto trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario, peraltro con esclusione della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 883, in quanto privo di efficacia retroattiva, e non quelle della L. n. 890 del 1982” (così, tra le altre, Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 10037 del 10/04/2019 in tema di consegna al portiere dello stabile senza invio della raccomandata informativa al destinatario).

Merita ricordare che la forma semplificata di notificazione, come affermato dalla Consulta nella sentenza n. 175 del 2018, non pone problemi di legittimità costituzionale in quanto, la raccomandata informativa vale sì “indubbiamente a rafforzare il diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost., commi 1 e 2) del destinatario dell’atto”, ma “non costituisce, nella disciplina della notificazione, una condizione indefettibile della tutela costituzionalmente necessaria di tale, pur fondamentale, diritto”, talchè può essere esclusa “in relazione alla funzione pubblicistica svolta dall’agente per la riscossione volta ad assicurare la pronta realizzazione del credito fiscale a garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato” (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 28872 del 12/11/2018);

4. il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata;

5. la causa va rinviata alla CTR della Calabria, in diversa composizione per esame delle questioni rimaste assorbite nonchè per la liquidazione delle spese del processo.

P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla CTR della Calabria in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, con modalità da remoto, il 26 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 09/02/2022) 02/03/2022, n. 6836

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30859-2020 proposto da:

L.D., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato QUINTO FRANCHINA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2111/16/2020 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA SICILIA SEZIONE DISTACCATA di MESSINA, depositata il 23/04/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 09/02/2022 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO MONDINE.

Svolgimento del processo
che:

1. L.D. ricorre per la cassazione della sentenza in epigrafe lamentando che la CTR della Sicilia abbia violato gli artt. 139 e 140 c.p.c., e il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), con il ritenere rituale la notifica dell’atto impositivo posto a base della cartella impugnata malgrado che la stessa fosse stata effettuata non ex artt. 139 e 140 c.p.c., bensì ex art. 60, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973, avendo il messo notificatore solo attestato di aver proceduto ai sensi di quest’ultimo articolo “per irreperibilità della destinataria, di addetti alla casa, di portiere e di vicini di casa in quanto al sopra indicato indirizzo non vi è alcuna porta di abitazione” e senza dare conto delle ricerche compiute per verificare l’irreperibilità assoluta di essa ricorrente;

2. l’Agenzia delle Entrate ha depositato controricorso;

3. la ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

1. il ricorso è fondato.

La contribuente lamenta che prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore avrebbe dovuto svolgere e dar conto di aver svolto ricerche finalizzate a verificarne l’irreperibilità assoluta. Precisa di aver, fino dal 1999, sempre avuto la residenza in “(OMISSIS)” come da certificato rilasciato dal Comune di Messina e allegato al ricorso introduttivo.

E’ stato da questa Corte affermato che “La notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e), quando il notificatore non reperisca il contribuente perchè trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale” (Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 6799 del 15/03/2017).

E’ stato altresì precisato che “In tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più nè l’abitazione nè l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale (Sez. 6-5, Ordinanza n. 2877 del 07/02/2018).

E’ stato altresì detto che “In tema di notifica degli atti impositivi, la cd. irreperibilità assoluta del destinatario che ne consente il compimento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), presuppone che nel Comune, già sede del domicilio fiscale dello stesso, il contribuente non abbia più abitazione, ufficio o azienda e, quindi, manchino dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto: peraltro, il tipo di ricerche a tal fine demandato al notificatore non è indicato da alcuna norma, neppure quanto alle espressioni con le quali debba esserne documentato l’esito nella relata, purchè dalla stessa se ne evinca con chiarezza l’effettivo compimento (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19958 del 27/07/2018).

Nel caso di specie, l’attestazione del messo notificatore secondo cui in loco “non vi era alcuna porta di abitazione” non è sufficiente a far comprendere se sia stato giustificato il ricorso alla procedura di notifica in concreto adottata;

3. il ricorso deve essere accolto, la sentenza deve essere cassata;

4. la causa deve essere rinviata alla CTR della Sicilia per la verifica, alla luce dei principi sopra enunciati, della ritualità della notifica in contestazione;

5. il giudice del rinvio dovrà anche liquidare le spese dell’intero processo.

P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla CTR della Sicilia, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, svolta con modalità da remoto, il 9 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022