Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 10/02/2021) 24/05/2021, n. 14199

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6037/2019 proposto da:

COMUNE DI PAGANI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PASUBIO n. 4, presso lo studio dell’avvocato LUCILLA FORTE, rappresentato e difeso dall’avvocato SILVIA MASTRANGELO;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

contro

N.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NOMENTANA n. 222, presso lo studio dell’avvocato VALERIO SANTURRO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIO ALFANO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

avverso la sentenza n. 707/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO R.G.N. 496/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato MARIO ALFANO.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Salerno ha respinto il reclamo proposto, L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, dal Comune di Pagani avverso la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva accolto il ricorso di N.M. e, revocata l’ordinanza emessa in fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dal Comune il 12 agosto 2016 e condannato l’ente locale a reintegrare il lavoratore nel posto in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso l’indennità risarcitoria quantificata in Euro 15.947,10.

2. La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che al N. era stato contestato l’illecito disciplinare tipizzato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), nonchè dalla disposizione di eguale contenuto dettata dall’art. 59, comma 9, n. 2 del CCNL per il personale del comparto funzioni locali, per avere “in modo reiterato attestato falsamente la propria presenza in servizio nei giorni e negli orari in cui si tratteneva all’esterno del luogo di lavoro pur risultando regolarmente in servizio”. Ha aggiunto che in quelle occasioni il N. era stato visto all’esterno del cimitero comunale, al quale era assegnato, con indosso dei cartelli di cartone, che recavano impresse scritte di protesta per le condizioni di lavoro, a detta del dipendente ingiuste e lesive della salute.

3. In diritto ha osservato che l’illecito disciplinare contestato richiede una condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro circa la presenza in servizio e, pertanto, nella fattispecie lo stesso non risultava integrato, perchè al contrario il N. aveva reso volutamente visibile la propria condotta di protesta, cercando di attirare l’attenzione dei passanti e della stessa amministrazione, la quale ne era la destinataria.

Ha aggiunto che anche in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito tipizzato, in ragione del divieto di automatismi espulsivi, il giudice è tenuto ad effettuare il giudizio di proporzionalità ed a tener conto della portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati. Nel caso di specie la condotta non poteva giustificare la sanzione del licenziamento perchè: il lavoratore non aveva inteso ingannare l’ente sulla sua presenza in servizio; le proteste avevano avuto una durata limitata ogni volta a pochi minuti; non era emerso che il dipendente si fosse sottratto a specifici ordini o avesse omesso di attendere alle incombenze demandategli; non si trattava di una reiterazione degli episodi contestati come recidiva, bensì di un comportamento critico assunto nei confronti dell’amministrazione da dipendente pacificamente attivo anche sul versante sindacale.

4. La Corte salernitana ha respinto anche il reclamo proposto in via incidentale dal N. per censurare la statuizione di compensazione delle spese del giudizio di primo grado e, richiamate le sentenze della Corte Costituzionale nn. 77 e 190 del 2018, ha ritenuto che la pronuncia fosse condivisibile alla luce “della peculiarità e della controvertibilità della questione trattata, interessata anche da pronunce chiarificatrici della Suprema Corte intervenute in corso di causa”. Per le medesime ragioni, oltre che per la soccombenza reciproca, ha compensato anche le spese del giudizio di reclamo.

5. Per la cassazione della sentenza il Comune di Pagani ha proposto ricorso sulla base di due motivi, ai quali ha replicato N.M., che ha notificato controricorso, con ricorso incidentale affidato ad un’unica censura.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 “omesso esame e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia; violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a); violazione dei principi di cui al codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni approvato con D.P.R. n. 60 del 2013” e sostiene, in sintesi, che integra giusta causa di licenziamento ogni ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio se compiuta con modalità fraudolente, a prescindere dalla durata temporale dell’assenza. Rileva che il N. aveva utilizzato il badge allontanandosi dal luogo di lavoro e, pertanto, non poteva la Corte territoriale ritenere illegittima la sanzione, tanto più che la condotta era stata pacificamente provata attraverso la produzione documentale. Richiama gli obblighi di correttezza e buona fede ed aggiunge che la Corte territoriale ha anche errato nell’escludere la contestata la recidiva. Infine addebita al giudice del reclamo di avere posto a fondamento della decisione argomenti non fondati sulle risultanze di causa.

2. La seconda censura denuncia “violazione dell’art. 112 c.p.c., e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia ” in relazione al rigetto della richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza del Tribunale, inserito solo nel dispositivo e non motivato.

3. Il ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo, addebita alla Corte territoriale di avere violato gli artt. 91 e 92 c.p.c., nel compensare erroneamente le spese di entrambi gradi del giudizio di merito in difetto delle “gravi ed eccezionali ragioni” richieste dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva n. 77/2018.

4. Il ricorso principale è inammissibile in tutte le sue articolazioni.

Da tempo questa Corte, nell’interpretare il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicchè anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367/2016 e Cass. n. 25750/2016).

La disposizione normativa è stata, inoltre, interpretata alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106 c.c., per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123/2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, prospettata dal Tribunale di Vibo Valentia).

Ai richiamati principi di diritto, condivisi dal Collegio e qui ribaditi, si è correttamente attenuta la Corte territoriale che, come evidenziato nello storico di lite, ha fondato la decisione su una duplice ratio decidendi perchè ha innanzitutto escluso che la condotta fosse sussumibile nell’illecito tipizzato dal legislatore, in quanto non idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, destinatario principale della protesta platealmente inscenata. Ha, poi, ritenuto i profili oggettivi (non si era verificato un reale allontanamento e le manifestazioni di protesta avevano avuto durata ogni volta di pochi minuti) e soggettivi della condotta, tali da non giustificare la sanzione espulsiva irrogata.

4.1. Il primo motivo del ricorso principale, che insiste sulla tassatività delle ipotesi di licenziamento previste dal richiamato art. 55 quater, non si confronta con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte, non coglie pienamente il decisum della sentenza impugnata ed inoltre, per dimostrare l’erroneità della pronuncia, fa leva su argomenti di fatto, non di diritto, che finiscono per sollecitare un giudizio di merito, non consentito al giudice di legittimità.

E’ ius receptum il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (cfr. fra le tante Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass. n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).

Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie perchè, come già detto, la Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), di giusta causa e di proporzionalità della sanzione e gli argomenti sviluppati nel ricorso principale finiscono tutti per prospettare una diversa lettura delle risultanze di causa.

Le censure mosse alla ricostruzione dei fatti esulano dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019 che rinvia a Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018) che assegna rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo, al quale non può essere ricondotta la mancata o l’errata valutazione di una risultanza istruttoria quando il fatto storico sia stato comunque apprezzato dal giudice del merito.

5. Parimenti inammissibile è il secondo motivo del ricorso principale perchè il vizio di omessa pronuncia è ravvisabile solo qualora il giudice ometta di statuire sulla domanda o su eccezioni di merito, mentre non può essere denunciato nel caso in cui la questione non esaminata rilevi unicamente sul piano processuale (Cass. n. 10422/2019; Cass. n. 25154/2018; Cass. n. 6174/2018).

Va aggiunto che il potere di sospensione dell’efficacia della sentenza reclamata, da esercitare in presenza di “gravi motivi”, è finalizzato ad impedire che la decisione gravata, che appare ingiusta ad una delibazione sommaria, produca effetti nelle more del giudizio di appello, esponendo ad un pregiudizio patrimoniale la parte soccombente (Cass. n. 4060/20005). Il provvedimento di sospensione è per definizione temporaneo ed è destinato ad esaurirsi con la sentenza definitiva del giudizio d’impugnazione sicchè il giudice d’appello, nei casi in cui all’udienza di discussione definisca la causa, non è tenuto a provvedere sulla richiesta di sospensione con un’autonoma statuizione della sentenza che definisce il giudizio di impugnazione, perchè quest’ultima, per il suo carattere sostitutivo, assorbe interamente l’efficacia di quella di primo grado (Cass. n. 19708/2015).

6. Merita, invece, accoglimento il ricorso incidentale.

Occorre premettere che la Corte Costituzionale con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”. Nella motivazione della pronuncia la Corte ha precisato che le ipotesi illegittimamente non considerate dal legislatore devono rivestire il carattere di gravità ed eccezionalità al pari di quelle tipizzate, ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, che “hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale” (punto 16 della pronuncia).

Questa Corte ha già affermato che, poichè gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo, la valutazione sulla fondatezza o meno del ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 92 c.p.c., deve tener conto della “situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi” (Cass. n. 4360/2019).

I medesimi principi valgono per il giudizio di appello, qualora nello stesso venga impugnato il regolamento delle spese disposto dalla sentenza gravata, e, quindi, nella fattispecie la Corte territoriale, nel decidere il reclamo incidentale, era tenuta ad applicare l’art. 92 c.p.c., nel testo risultante dalla pronuncia additiva resa dalla Corte Costituzionale, non rilevando la data di pubblicazione della sentenza del Tribunale (4 aprile 2018).

6.1. Ciò premesso, deve essere ribadito l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui le gravi ed eccezionali ragioni, al pari di ogni altra clausola generale, devono essere specificate dal giudice di merito in via interpretativa ed il giudizio, in quanto fondato su norme giuridiche, è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 9977/2019; Cass. n. 23059/2018) e la Corte di Cassazione ha il potere di rilevare l’erroneità o l’illogicità del parametro utilizzato.

Nel caso di specie la sentenza additiva della Corte Costituzionale ha sottolineato la funzione parametrica ed il carattere paradigmatico delle fattispecie tipizzate, esplicative della causa generale, alle quali, all’evidenza, non possono essere equiparate “la peculiarità e la controvertibilità della questione”. Va aggiunto che “le pronunce chiarificatrici” rese da questa Corte sull’interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), hanno richiamato principi già affermati, quanto al divieto di automatismi espulsivi, da Cass. n. 1351 del 26 gennaio 2016, la cui motivazione è riferibile a tutte le ipotesi previste dalla norma di legge, sicchè già al momento dell’instaurazione del giudizio di primo grado la questione era priva del carattere di assoluta novità che può giustificare la pronuncia di compensazione.

6.2. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata limitatamente al regolamento delle spese e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con la condanna del Comune di Pagani al pagamento, in favore di N.M., delle spese processuali di tutti i gradi e le fasi del giudizio, liquidate come da dispositivo, che vanno distratte in favore dell’Avv. Mario Alfano, dichiaratosi antistatario.

Al riguardo ritiene il Collegio che l’art. 384 c.p.c., debba essere interpretato alla luce del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone di non trasferire una causa dall’uno all’altro giudice, quando il giudice rinviante potrebbe da sè solo svolgere le attività richieste al giudice cui la causa è rinviata.

Va anche osservato che in tema di spese processuali l’art. 385 c.p.c., comma 2, accorda ampi poteri alla Corte e le consente di accertare e liquidare non solo le spese del giudizio di legittimità, ma anche quelle dei gradi di merito, quando la sentenza impugnata sia cassata senza rinvio, sicchè sarebbe del tutto illogico imporre il giudizio di rinvio, al solo fine di provvedere ad una liquidazione che, in quanto ancorata a parametri di legge, ben può essere direttamente compiuta dal giudice di legittimità (Cass. n. 1761/2014 e Cass. n. 211/2016).

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente principale.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale e dichiara inammissibile il ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso ed al motivo accolto e decidendo nel merito condanna il Comune di Pagani a rifondere a N.M. le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, con distrazione in favore del procuratore antistatario Avv. Mario Alfano, liquidate quanto al primo grado (fase sommaria e giudizio di opposizione) in complessivi Euro 200,00 per esborsi ed Euro 7.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge; quanto al reclamo in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Condanna il Comune di Pagani al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge, da distrarre in favore del procuratore antistatario Avv. Mario Alfano.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-01-2021) 04-05-2021, n. 11605

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

Dott. MARTORELLI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2340-2017 proposto da:

D.V.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di Cassazione rappresentata e difesa dall’avvocato ALFREDO LUPO;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA 91, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BEATRICE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO AMODIO;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5474/2016 della COMM. TRIB. REG. CAMPANIA, depositata il 13/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/01/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO.

Svolgimento del processo
1. D.V.M.R. impugnava la cartella di pagamento notificata dalla società Equitalia Servizi di riscossione s.p.a. per somme dovute a titolo di registro relativo al provvedimento su lodo arbitrale emesso dal tribunale di Napoli nell’anno 2001, eccependo la prescrizione della pretesa tributaria. La CTP di Napoli respingeva il ricorso.

Proposto appello dalla contribuente, la CTR della Campania lo respingeva sul rilievo che intervenuta che il termine prescrizionale decennale era stato interrotto dalla notifica dell’avviso di liquidazione del 15 ottobre 2003, nel termine triennale prescritto dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 76, con la conseguente reiezione dell’eccezione di decadenza pure sollevata dalla contribuente. In particolare, la CTR affermava che: – l’avviso di liquidazione non era stato impugnato rendendo così definitiva la pretesa tributaria; – che dalla data del 6 dicembre 2003, ovvero decorso il termine di sessanta giorni dalla notifica del predetto atto, iniziava a decorrere la prescrizione decennale citato D.P.R., ex art. 78; – che l’ufficio aveva effettuato l’iscrizione a ruolo in data 17 ottobre 2013 che aveva nuovamente interrotto il termine prescrizionale; – che divenuto definitivo l’avviso prodromico, la successiva cartella non costituisce nuovo atto impositivo per cui è sindacabile solo per vizi propri che, nella specie, non erano stati eccepiti, avendo la ricorrente opposto l’atto solo censurando l’esercizio della potestà accertativa.

D.V.M.R. chiede sulla base di tre motivi, illustrati nelle memorie difensive, la cassazione della sentenza n. 5474/2016/ depositata il 13 giugno 2016.

La società concessionaria e l’Agenzia delle Entrate resistono con controricorso.

Motivi della decisione
2. Con il primo motivo, la contribuente denuncia violazione e falsa applicazione del T.U. Registro D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 76 e 78, nonchè dell’art. 2953 c.c., per avere la CTR ritenuto applicabile alla fattispecie il termine decennale di prescrizione di cui al citato art. 78, in rubrica, ancorchè questa Corte a sezioni unite – con la sentenza n. 23397/2016 – abbia statuito che la mancata contestazione del titolo determina la decadenza dalla possibilità di proporre l’impugnazione, producendo l’effetto della irretrattabilità del credito senza determinare anche l’effetto della c. conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario.

Assume al riguardo che il disposto di cui al citato art. 78, stabilisce che il termine prescrizionale decennale riguarda solo le imposte definitivamente accertate, il che implica che il termine lungo si applica solo per effetto del conseguente accertamento in via definitiva dell’imposta, attraverso l’adozione di un provvedimento giurisdizionale che ne abbia accertato in via definitiva la legittimità dell’atto impositivo.

2. Con la seconda e terza censura, si deduce la violazione dell’art. 2943 c.c., in relazione al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 79, laddove la CTR della Campania ha ritenuto che l’iscrizione a ruolo della cartella produca l’effetto di interrompere i termini di prescrizione, individuando il dies a quo del primo termine prescrizionale in quello di scadenza del sessantesimo giorno per l’impugnazione dell’avviso di liquidazione e non in quello di notifica del primo atto ((OMISSIS)).

Sostenendo altresì che la CTR avrebbe dovuto considerare il giorno della notifica della cartella ((OMISSIS)) e non quello della sua iscrizione a ruolo, ai fini del calcolo del termine decennale, decorrente, ad avviso della contribuente, dalla data della notifica dell’avviso di liquidazione ((OMISSIS)) con la conseguenza che nemmeno l’iscrizione a ruolo della cartella avrebbe interrotto il termine prescrizionale ormai compiuto.

5. La prima censura è destituita di fondamento.

Come ribadito dalle S.U. n. 23397/2016 richiamate dalla medesima ricorrente, “la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”; è di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale principio, pertanto, si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonchè di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonchè delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo”.

Nel caso in esame, il termine prescrizionale previsto per l’imposta di registro è quello decennale di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78.

In tema IRPEF, IVA, IRAP ed imposta di registro, il credito erariale per la loro riscossione si prescrive nell’ordinario termine decennale assumendo rilievo, quanto all’imposta di registro, l’espresso disposto di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, e, quanto alle altre imposte dirette, l’assenza di un’espressa previsione, con conseguente applicabilità dell’art. 2946 c.c., non potendosi applicarsi il termine quinquennale previsto dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4 “per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, in quanto l’obbligazione tributaria, pur consistendo in una prestazione a cadenza annuale, ha carattere autonomo ed unitario ed il pagamento non è mai legato ai precedenti bensì risente di nuove ed autonome valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti impositivi (Cass. n. 12740/2020; Cass. n. 33266 del 2019; Cass. n. 32308 del 2019).

In particolare, poi, questa Corte ha ribadito che in tema di imposta di registro, una volta divenuto definitivo l’avviso di rettifica e liquidazione per mancata impugnazione, ai fini della riscossione del credito opera unicamente il termine decennale di prescrizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, non trovando applicazione nè il termine triennale di decadenza previsto dal detto decreto, art. 76, concernente l’esercizio del potere impositivo, nè il termine di decadenza contemplato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, in quanto l’imposta di registro non è ricompresa tra i tributi ai quali fa riferimento il D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 23 (che ha esteso le disposizioni di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, comma 1, quanto all’iscrizione a ruolo a titolo provvisorio, e art. 25, comma 1, quanto ai termini di decadenza, solo all’IVA; v. Cass. n. 27698/2020; Cass., 11 maggio 2018, n. 11555; Cass., 30 giugno 2016, n. 13418; Cass., 24 settembre 2014, n. 20153; Cass., 9 luglio 2014, n. 15619; Cass., 6 giugno 2014, n. 12748; Cass., 2 dicembre 2013, n. 27028) Accertata la definitività dell’avviso di liquidazione, alcuna rilevanza può assumere l’eventuale notifica del primo atto tributario oltre il termine triennale prescritto dal citato art. 76, doglianza che avrebbe dovuto essere proposta con l’impugnazione dell’atto medesimo.

6. Meritano accoglimento le ultime due censure.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte “In tema di imposta di registro, il decorso del termine prescrizionale decennale per la riscossione dell’imposta definitivamente accertata, previsto dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, non può ritenersi interrotto dalla sola formazione del ruolo da parte dell’Amministrazione finanziaria, atteso che, ai sensi dell’art. 2943 c.c., u.c., la prescrizione dei diritti è interrotta solo da un atto che valga a costituire in mora il debitore e, quindi, avente carattere recettizio, mentre l’iscrizione a ruolo di un tributo resta un atto interno dell’amministrazione(Cass. n. 14301/2009; sulla natura della iscrizione a ruolo v. Cass. n. 315/2014; Cass. n. 23261/2020).

Anche Cass. sez. V, n. 17248 del 2017, non ha mancato di specificare che, in materia di riscossione delle imposte, la prova della notificazione della cartella esattoriale è atto idoneo ad interrompere la prescrizione del credito tributario.

L’art. 2943 c.c., comma 2, prevede che la prescrizione è interrotta da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore: per effetto dell’interruzione, decorre un ulteriore periodo di prescrizione; dunque, la notifica della cartella di pagamento o dell’accertamento esecutivo o di altri atti emessi sia dall’ente creditore che dall’Agente della riscossione, ove si intima il pagamento degli importi, interrompono la prescrizione.

Pertanto, nella fattispecie, la prescrizione – già interrotta dalla notifica dell’avviso di liquidazione – decorre dalla data in cui l’avviso è stato notificato. Il nuovo atto interruttivo da considerare non è certamente l’iscrizione a ruolo, bensì la consegna della cartella all’ufficiale postale per la notifica, data che nè dal ricorso nè dalla sentenza impugnata è dato evincere All’accoglimento del secondo e del terzo motivo segue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio degli atti alla CTR della Campania, in diversa composizione, per il riesame della controversia (in particolare, per accertare l’eventuale estinzione del credito alla luce dell’eccepita prescrizione, considerando il dies a quo ed il dies a quem indicati in sentenza).

P.Q.M.
Accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, respinto il primo; cassa la sentenza impugnata e rimette gli atti alla CTR della Campania, in diversa composizione, per il riesame della controversia nonchè per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della quinta sezione civile Corte di Cassazione in ROMA, tenuta da remoto, il 21 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 18-11-2020) 23-04-2021, n. 10860

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2975-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente-

contro

A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 41, presso lo studio dell’avvocato PEZZALI PAOLA, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente-

avverso la sentenza n. 145/2012 della COMM. TRIB. REG. TOSCANA SEZ. DIST. di LIVORNO, depositata il 05/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/11/2020 dal Consigliere Dott. VENEGONI ANDREA;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. SALZANO FRANCESCO che ha chiesto in rigetto del ricorso, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
Che:

Il contribuente A.G. impugnava davanti alla CTP di Livorno l’avviso di accertamento relativo ad irpef, irap ed iva per l’anno 2004 deducendo che esso conteneva un vizio che ne minava la motivazione, in quanto nell’avviso relativo a tale anno vi erano alcune pagine che si riferivano, in realtà, all’anno 2002 e viceversa.

La CTP accoglieva il ricorso e la CTR rigettava l’appello dell’ufficio.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’ufficio sulla base di due motivi.

Si costituisce il contribuente con controricorso.

In vista dell’udienza odierna, il PG ha depositato conclusioni scritte.

Motivi della decisione
Che:

Con il primo motivo l’ufficio deduce insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La CTR non ha motivato sufficientemente sul motivo per cui ha escluso che l’atto avesse raggiunto il suo scopo, e quindi sulla sanatoria del vizio materiale dell’atto.

Il contribuente ha eccepito l’inammissibilità del motivo sotto tre profili.

Con il secondo motivo deduce in subordine violazione dell’art. 137 c.p.c., comma 2 e art. 148 c.p.c., nonché del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, e conseguente violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42 e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La CTR ha errato nel fare riferimento alla copia notificata al contribuente anziché all’originale esibito dall’ufficio in giudizio.

Anche in relazione a tale motivo, il contribuente in controricorso eccepisce l’inammissibilità.

Il ricorso, che può essere esaminato unitariamente attesa la stretta connessione tra i due motivi, è infondato, e ciò determina che le eccezioni di inammissibilità possano considerarsi superate.

Le questioni dedotte dall’ufficio in appello, infatti, devono essere considerate nel complesso della motivazione della sentenza impugnata.

Letta unitariamente, la motivazione significa in maniera chiara che il vizio da cui era pacificamente affetto l’avviso di accertamento in questione era talmente radicale da privare il contribuente della possibilità di predisporre un’adeguata difesa, e ciò ha integrato una situazione non sanabile dall’affermato raggiungimento dello scopo.

Ora, senza poter entrare in questa sede nei profili di merito e fattuali della vicenda, se il dedotto vizio della sentenza consiste – come in effetti consiste – nella motivazione su un aspetto molto specifico dell’argomentare, e cioè la negazione del fatto che l’atto abbia comunque raggiunto il suo scopo, non si può ritenere che tale motivazione sia mancata o sia stata insufficiente, pur tenendo conto del fatto che il vizio è valutabile nella formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 anteriore alla riforma del 2012 (la sentenza è stata depositata nel giugno 2012).

La CTR ha, infatti, ritenuto che il vizio, che non è contestato, per le sue caratteristiche fattuali fosse tale da escludere la possibile sanatoria per raggiungimento dello scopo. La motivazione sulla mancata sanatoria va, quindi, ricollegata a quella parte che descrive le caratteristiche del vizio stesso, ed in tal senso non può ritenersi insufficiente.

Né può addossarsi al contribuente l’onere di procedere egli stesso alla ricostruzione dell’atto, anche se le circostanze concrete lo permettessero, essendo onere dell’amministrazione predisporre e portare a conoscenza del contribuente un atto completo.

Tra l’altro, in tema di carente motivazione dell’atto impositivo, cioè di vizi di contenuto dello stesso, questa Corte (sez. V n. 21997 del 2014) ha avuto modo di affermare:

In tema di accertamento tributario, l’insufficienza motivazionale dell’atto impositivo, che ne giustifica l’annullamento, non esclude che il contribuente possa difendersi nel merito, deducendo, mediante l’impugnazione, anche vizi di merito, poiché tale difetto non può essere sanato, ex art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo in quanto l’atto ha la funzione di garantire una difesa certa anche con riferimento alla delimitazione del “thema decidendum”.

In senso analogo, di recente, anche sez. V, n. 4070 del 2020, secondo cui:

non è consentito all’amministrazione di sopperire con integrazioni in sede processuale alle lacune dell’avviso di liquidazione per difetto di motivazione (ex plurimis: Cass., Sez. 5, 31 gennaio 2018, n.. 2382; Cass., Sez. 6, 21 maggio 2018, n. 12400; Cass., Sez, 5, 12 ottobre 2018, n. 25450; Cass., Sez. 5, 24 maggio 2019, n. 14185). Dunque, la “sanatoria” giudiziale non solleva dal difetto di motivazione degli atti impugnati.

Ancora, sez. V n. 16772 del 2017 ha ritenuto che se l’avviso è incompleto perché manca la sola indicazione dell’aliquota, ma è noto l’imponibile e si discute di imposte ad aliquota proporzionale (ires), questa sola mancanza non rende l’avviso nullo perché si tratta di effettuare una mera operazione matematica, ma la conclusione è diversa se le mancanze sono plurime e più rilevanti, come nel caso di specie.

Da questo principio il collegio ritiene che tra le mancanze più rilevanti, che secondo anche quest’ultima sentenza, almeno implicitamente, possono dar luogo a nullità dell’atto, vi sia certamente la mancanza di alcune pagine, con dati essenziali dell’accertamento, specie in un’imposta progressiva, come l’irpef di cui si discute nel caso di specie.

Questo è affermato esplicitamente da sez. V, n. 9196 del 2011, da cui in particolare, si ricava che l’omessa indicazione dell’aliquota in un’imposta progressiva, anche se l’accertamento unitario riguarda pure imposte con aliquota proporzionale, è idonea a determinare il vizio dell’atto.

Il tutto, sul presupposto che la versione di riferimento dell’atto impositivo sia quella notificata al contribuente.

L’avviso di accertamento è, infatti, per sua natura, atto di natura sostanziale, con il quale l’amministrazione porta a conoscenza del contribuente la pretesa tributaria. In quanto tale, l’avviso di accertamento, allo stesso tempo, circoscrive anche la pretesa tributaria e determina, infine, il campo entro il quale il contribuente potrà e dovrà esercitare la propria difesa.

Sulla base di ciò, affermare che, nel contrasto tra copia notificata ed originale in possesso dell’ufficio, sia quest’ultimo a prevalere, significa adottare un’interpretazione che può tradursi in una lesione del diritto di difesa del contribuente stesso.

E’ vero che questa Corte a sezioni unite (Sez. un. 18121 del 2016) ha affermato, in tema di notifiche, la prevalenza dell’originale sulla copia, ma nella specie non si discute di un atto processuale, quanto del contenuto dell’atto sostanziale, il quale, come già ricordato dalla giurisprudenza sopra citata (sez. V, n. 21997 del 2014) ha anche la funzione di delimitare il thema decidendum della futura controversia.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza. Sono, pertanto, a carico del ricorrente ufficio e, considerato il valore della causa, si liquidano in Euro 3.500 oltre accessori di legge.

Si dà, poi, atto della non debenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, essendo soccombente l’amministrazione pubblica, la quale prenota a debito, anzichè versare, il contributo suddetto (come confermato da sez. V, n. 23878 del 2020).

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 3.500 oltre accessori.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2021


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 23-02-2021) 15-04-2021, n. 10012

La Suprema corte con sentenza sentenza n. 10012 del 15 aprile 2021 si è pronunciata in tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale, secondo le previsioni della Legge n. 890/1982, qualora l’atto notificato non venga consegnato al destinatario:

  • per rifiuto a riceverlo;
  • per temporanea assenza del destinatario stesso;
  • per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Primo Presidente f.f. –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –
Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –
Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6199/2014 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 4, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO BOTTI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SUD S.P.A., UFFICIO PROVINCIALE DI CASERTA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 334/46/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di NAPOLI, depositata il 08/10/2013.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23/02/2021 dal Consigliere Dott. ENRICO MANZON;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, il quale chiede alla Corte che venga rigettato il primo motivo del ricorso ed accolti il secondo ed il terzo.

Svolgimento del processo
1. F.A., destinataria della notifica di una cartella di pagamento per IRPEF 2006-2007, derivante da avvisi di accertamento, avversava l’atto esattivo con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di (OMISSIS), lamentando la mancata rituale notifica di detti atti impositivi prodromici e quindi l’inesistenza del titolo esecutivo (iscrizione a ruolo) legittimante la minacciata esecuzione esattoriale.

2. L’Agenzia delle entrate, ufficio locale, costituendosi eccepiva che la procedura notificatoria di detti avvisi di accertamento, in precaria assenza della contribuente dal proprio domicilio, doveva di contro considerarsi ritualmente perfezionata secondo le previsioni di legge. Si costituiva altresì l’agente della riscossione eccependo la propria carenza di legittimazione passiva.

3. La CTP rigettava il ricorso, rilevando che la F. non aveva assolto all’onere di impugnare anche nel merito gli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata.

4. Il gravame interposto dalla contribuente veniva rigettato dalla Commissione tributaria regionale della Campania. Il giudice tributario di appello fondava la propria decisione sia sull’affermazione della ritualità della procedura notificatoria degli avvisi di accertamento sia, come il primo giudice, sull’affermazione dell’onere di impugnazione degli stessi anche nei profili di merito.

5. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la F. deducendo tre motivi.

6. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

7. La Quinta Sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 21714 dell’8 ottobre 2020, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto sulla questione, posta con il secondo motivo, di quale sia il modo per assolvere l’onere di provare il perfezionamento di una procedura notificatoria di un atto impositivo mediante l’impiego diretto del servizio postale nel caso della temporanea assenza del notificatario (c.d. “irreperibilità relativa”) ed in particolare se possa considerarsi sufficiente la prova della spedizione della raccomandata informativa (CAD) ovvero se sia invece necessario il deposito dell’avviso di ricevimento di tale raccomandata.

Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Motivi della decisione
1. Il terzo motivo del ricorso va esaminato in via pregiudiziale.

Come del resto puntualmente rilevato nell’ordinanza interlocutoria, la sentenza impugnata esprime infatti due distinte ed autonome rationes decidendi, l’una, censurata per differenti profili con il primo ed il secondo motivo di ricorso, relativa alla ritualità della procedura notificatoria degli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata; l’altra, appunto censurata con il terzo motivo del ricorso, relativa all’onere di impugnare, contestualmente all’atto esattivo, tali atti impositivi -necessariamente – anche per ragioni attinenti il merito delle pretese creditorie fiscali in essi contenute.

Orbene, l’eventuale rigetto di quest’ultima censura implicherebbe l’inammissibilità delle prime due, secondo il consolidato principio di diritto che “Qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa” (Cass., n. 2108 del 14/02/2012, Rv. 621882 – 01; conforme, da ultimo, Cass., n. 11493 del 11/05/2018, Rv. 648023 – 01).

Appare quindi evidente la necessità di trattazione pregiudiziale del terzo motivo del ricorso.

Ciò posto, tale censura è fondata.

Va infatti ribadito che “In materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poichè tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa” (v. ex pluribus, da ultimo, Cass., 1144/2018, in consolidamento di Cass., Sez U., 5791/2008).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte è dunque senz’altro consentito al contribuente impugnare una cartella esattoriale al fine esclusivo di far valere la mancata/irrituale notificazione dell’atto impositivo prodromico alla medesima, senza contestualmente aggredire l’atto stesso sotto altri profili di invalidità formale ovvero per la sua infondatezza nel merito, non sussistendo dunque alcun onere processuale della parte ricorrente al riguardo.

Su tale punto decisionale, avendo affermato il contrario, la sentenza della CTR campana è da ritenersi pertanto illegittima e meritevole di cassazione.

Ne consegue che possono quindi essere affrontati i primi due motivi del ricorso che, come detto, riguardano le modalità di notificazione degli avvisi di accertamento costituenti il presupposto della cartella di pagamento impugnata.

2. Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente si duole della violazione degli artt. 99, 112, c.p.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè della violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, poichè la CTR ha ritenuto la legittimità della notifica a mezzo posta degli avvisi di accertamento in questione effettuata direttamente da parte dell’Agenzia delle entrate e quindi senza l’intervento dell’ufficiale giudiziario ovvero del messo speciale notificatore.

La censura è manifestamente infondata.

Sul punto de quo infatti la sentenza impugnata – pronunciandosi espressamente nei limiti dell’oggetto processuale delimitato dalle parti, con conseguente evidente inconsistenza dei dedotti profili processuali del mezzo – risulta aver fatto piana applicazione del chiaro ed inequivoco testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, il quale appunto prevede che “La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente deve avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari, nonchè, ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria, secondo le modalità previste dalla presente legge. Sono fatti salvi i disposti di cui del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 26, 45 e segg. e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, nonchè le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta. Qualora i messi comunali e i messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria si avvalgano del sistema di notifica a mezzo posta, il compenso loro spettante ai sensi della L. 10 maggio 1976, n. 249, art. 4, comma 1, è ridotto della metà”.

Dunque la “notifica diretta” a mezzo posta da parte delle agenzie fiscali è, univocamente ed espressamente, consentita dalla legge, il che del resto è riscontrato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (ex pluribus, Cass., 34007/2019, 1207/2014, 15284/2008), essendo peraltro evidente che trattasi di una disposizione legislativa speciale rispetto a quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e del c.p.c. da esso richiamate, sicchè prevale su quest’ultime in base al canone interpretativo lex specialis derogat generali.

3. Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 99, 112, c.p.c., nonchè la violazione della L. n. 890 del 1982, art. 8 e la violazione/falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., poichè la CTR ha sancito la ritualità della notifica degli atti impositivi prodromici alla cartella di pagamento impugnata.

In particolare, per un verso, si duole dell’omessa pronuncia sulla sua eccezione di invalidità della procedura notificatoria di detti atti fondata sulla mancata prova della spedizione della “raccomandata informativa” di avvenuto deposito degli atti notificandi (CAD) -la ricezione dei quali ab origine nega e che ha posto quale, esclusivo, motivo di impugnazione della cartella esattoriale- non avendo l’agenzia fiscale prodotto in giudizio l’avviso di ricevimento prescritto, quale forma necessaria della raccomandata stessa, dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, che quindi, per altro verso, assume violato, unitamente al principio generale codicistico sull’attribuzione processuale dell’onere probatorio.

Il profilo processuale della censura deve ritenersi infondato, posto che, pur vero che la CTR campana non si è espressamente pronunciata sull’eccezione, devoluta in appello, in oggetto, risulta tuttavia chiaro che di un rigetto implicito si tratti.

Può pertanto al riguardo limitarsi a dare seguito al principio di diritto che “Non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (v. in tal senso, tra le molte, Cass. n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 01).

La censura tuttavia può comunque essere esaminata sotto il dedotto profilo di violazione/falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, art. 2697 c.c., secondo il consolidato principio di diritto che “Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicchè il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione” (cfr. Cass., 24953/2020, 14486/2004).

Ciò posto, come detto, la ricorrente afferma di non avere mai ricevuto la notifica degli atti impositivi prodromici alla cartella esattoriale impugnata ed in particolare, trattandosi pacificamente di notifica “postale diretta” non perfezionatasi con la consegna del plico raccomandato a causa della sua temporanea assenza, di non aver mai ricevuto la “raccomandata informativa” dell’avvenuto deposito degli atti notificandi presso l’ufficio postale (CAD) così come prescritto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, seconda parte; afferma altresì che era onere processuale dell’agenzia fiscale provare il contrario (solo) mediante la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della (seconda) raccomandata contenente detto avviso, non essendo, pacificamente, ciò avvenuto, poichè l’Ente impositore si è limitato a produrre giudizialmente soltanto l’avviso di ricevimento della “prima raccomandata” (quella contenente l’avviso di accertamento notificando), con l’attestazione dell’agente postale della temporanea assenza della destinataria e dell’avvenuta spedizione della “seconda raccomandata” prescritta dalla specifica disposizione legislativa appena citata.

4. La Sezione Quinta civile con la citata ordinanza interlocutoria sottopone dunque alla valutazione delle Sezioni Unite la questione che afferma oggetto di contrasto giurisprudenziale interno alla giurisprudenza di legittimità – se sia sufficiente per il giudizio di rituale perfezionamento della procedura notificatoria in esame la prova offerta dall’Agenzia delle entrate (primo avviso di ricevimento con dette attestazioni) oppure necessario, anche ed essenzialmente, che il notificante depositi l’avviso di ricevimento della “raccomandata informativa” (CAD).

In effetti, come puntualmente evidenziato dalla Sezione rimettente, si registra un’ evoluzione, piuttosto evidente, della giurisprudenza di questa Corte in ordine a tale questione giuridica.

5. Con un primo orientamento, più risalentemente consolidato, si è infatti costantemente affermato che, al fine della prova del perfezionamento della notifica postale “diretta” in caso di assenza temporanea del destinatario, è sufficiente che l’Ente impositore notificante produca in giudizio l’avviso di ricevimento della raccomandata contenente l’atto notificando con l’attestazione di spedizione della CAD (in questo senso, Cass., 2638/2019, 13833/2018, 26945-6242-4043/2017).

Tale orientamento – essenzialmente – si fonda sul dato letterale della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4 (nella versione applicabile ratione temporis ossia dopo la modifica operata dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2, ma prima delle modificazioni successivamente operate con la L. n. 205 del 2017, art. 1 e con la L. n. 145 del 2018, art. 1), secondo il quale “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”, peraltro strettamente collegata/coordinata con la previsione di cui al comma 2, u.p., della disposizione legislativa stessa, secondo il quale, tra i contenuti dell’avviso di ricevimento della CAD, deve esserci obbligatoriamente “l’avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita trascorsi dieci giorni dalla data del deposito (dell’atto noticando presso l’ufficio postale, n.d.r).

In altri termini dalla (doppia) previsione in ordine all’”effetto perfezionativo” della procedura notificatoria de qua, tale giurisprudenza ha tratto il convincimento che a provarne il presupposto fattuale sia appunto sufficiente la, puntuale e specifica, attestazione di spedizione della CAD contenuta nel “primo” avviso di ricevimento riguardante non la CAD stessa, bensì l’atto notificando.

Così si è ritrovato il punto di equilibrio nel bilanciamento degli interessi del notificante e del notificatario, dunque, in ultima analisi, tra “conoscenza legale” (conoscibilità) e “conoscenza effettiva” dell’atto notificando.

6. Tuttavia, a partire dalla ordinanza della medesima Sezione. Quinta civile n. 5077 del 21 febbraio 2019, secondo un diverso orientamento, al verificarsi della fattispecie concreta in esame (notifica a mezzo posta/assenza temporanea del destinatario ovvero di persone idonee alla ricezione dell’atto notificando), per considerare perfezionata la procedura notificatoria è invece necessario verificare in concreto l’avvenuta ricezione della CAD ed a tal fine il notificante è processualmente onerato della produzione del relativo avviso di ricevimento (nello stesso senso, cfr. Cass., 16601/2019, 6363-21714-23921-25140-26078/2020; successive difformi, Cass., 3307033257/2019, che si richiamano all’altro indirizzo ermeneutico).

Tale divergente indirizzo, diffusamente argomentato nella citata pronuncia della Sezione tributaria che lo ha avviato, si confronta con la letteralità della disposizione legislativa applicabile, in particolare con la “previsione di effetto” di cui al comma 4, ma ne dà una diversa connotazione giuridica, qualificando tale effetto normativo come “provvisorio” e sospensivamente condizionato a detta verifica, da effettuare giudizialmente, sull’avviso di ricevimento della “seconda raccomandata”.

La necessarietà di tale verifica e dell’onere probatorio correlativo viene fondata sull’interpretazione costituzionalmente orientata e sistematica del dato normativo stesso, a sostegno della quale pone le pronuncie della Corte costituzionale n. 346 del 1998, proprio sulla L. n. 890 del 1982, art. 8 e L. n. 10 del 2010, sulla notificazione ex art. 140 c.p.c..

7. Ritiene il Collegio che debba darsi seguito a questo secondo – più recentemente consolidatosi – orientamento giurisprudenziale.

Non è infatti dubbio che nel sistema della notificazione postale, in caso di mancata consegna del plico contenente l’atto notificando, la comunicazione di avvenuto deposito abbia un ruolo essenziale al fine di garantire la conoscibilità, intesa come possibilità di conoscenza effettiva, dell’atto notificando stesso.

La mera prova della spedizione di tale comunicazione non può dunque considerarsi quale fattispecie giuridica conformativa del fondamento profondo del dictum imperativo del giudice delle leggi (la citata C. Cost. 346/1998), con il quale si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’originaria formulazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, nella parte in cui non prevedeva che, nella fattispecie concreta in esame ed in quelle assimilabili (rifiuto di ricezione di firma del registro di consegna; assenza di persone idonee al ritiro) non venisse appunto data la comunicazione stessa e che lo fosse con una “raccomandata con avviso di ricevimento”.

In particolare alla previsione di questa, particolare e rafforzata, forma di “postalizzazione” della notifica non può assegnarsi un significato pleonasticamente ridondante, ma piuttosto una pregnante direttiva anche ermeneutica – della Corte costituzionale, peraltro, pur a rilevante distanza di tempo, positivamente normativizzata con il D.L. n. 35 del 2005, citato art. 2.

D’altro canto, come giustamente sottolineato nella pronuncia “capofila” del nuovo indirizzo interpretativo, tale disciplina adeguatrice – su questo specifico segmento della procedura notificatoria – si differenzia nettamente da quella dell’art. 139 c.p.c., comma 4, ovvero della L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., disciplinanti i casi di consegna dell’atto notificando a persona diversa dal destinatario e che in tal caso prevedono che venga spedita a quest’ultimo una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto medesimo.

Tale, significativa, differenziazione normativa ha un senso evidente, posto che nei casi di consegna a “persona diversa” vi può essere una ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, trattandosi di persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) che hanno con lo stesso un rapporto che il legislatore riconosce come astrattamente idoneo a questo fine ed è per questo che ha prescelto una forma di comunicazione dell’avvenuta consegna garantita, ma semplificata.

Diversamente nel caso della L. n. 890 del 1982, art. 8 (e dell’art. 140 c.p.c.), non si realizza alcuna consegna, ma solo il deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (ovvero nella notifica codicistica presso la Casa comunale).

Ed è per tale, essenziale ragione, che la legge, con maggiore rigore, prevede che di tale adempimento venga data comunicazione dall’agente notificatore al destinatario, del tutto ignaro della notifica, secondo due distinte e concorrenti modalità: l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) ed appunto la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Peraltro, riprendendo il filo dell’interpretazione costituzionalmente orientata che si va illustrando, in detta sentenza della Corte costituzionale vi è tuttavia in nuce un ulteriore argomento che va valorizzato, consistente nella comparazione della procedura notificatoria in questione con quella, pur sempre basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), disciplinata all’art. 140 c.p.c., tra le modalità delle notifiche curate direttamente dall’ufficiale giudiziario. Ed in effetti il pendant logico-giuridico tra le due procedure notificatorie, a causa della loro evidente analogia, risulta piuttosto chiaro e porta senz’altro ad utilizzare la seconda (art. 140 c.p.c.) quale tertium comparationis, secondo una consolidata tecnica di valutazione delle questioni di costituzionalità, sotto il profilo della ragionevolezza.

Di conseguenza viene inevitabilmente in considerazione un’ altra successiva pronuncia di illegittimità costituzionale (C. Cost., sent. n. 3/2010) appunto dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede(va) il perfezionamento della notifica non effettuata a causa di “irreperibilità o rifiuto di ricevere” del destinatario (e delle persone addette alla casa) sul presupposto della sola spedizione della “raccomandata informativa” dell’avvenuto deposito dell’atto notificando (presso la Casa comunale), invece che con il ricevimento della stessa ovvero con il decorso di 10 giorni dalla sua spedizione.

Orbene, risulta consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, nel caso di notifica, anche di atti impositivi tributari, da parte dell’ufficiale giudiziario ai sensi di detta disposizione del codice di rito, che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio deve essere data, appunto, mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della “raccomandata informativa” (cfr. Cass., n. 25985 del 10/12/2014, Rv. 633554 – 01; n. 21132 del 02/10/2009, Rv. 609852 – 01; per la cartella di pagamento, anche a seguito di C. Cost. 258/2012, cfr. altresì Cass., n. 9782/2018; v. per argomenti nello stesso senso Cass., Sez. U., 627/2008).

Pur nella diversità delle due modalità notificatorie in parte qua ossia in relazione alla spedizione della CAD – quella codicistica attuata dall’ufficiale giudiziario con il concorso dell’agente postale, quella postale attuata esclusivamente da quest’ultimo – non può che ravvisarsi un’unica ratio legis che è quella – profondamente fondata sui principi costituzionali di azione e difesa (art. 24, Cost.) e di parità delle parti del processo (art. 111 Cost., comma 2) – di dare al notificatario una ragionevole possibilità di conoscenza della pendenza della notifica di un atto impositivo o comunque di quelli previsti dalla L. n. 890 del 1982, art. 1 (atti giudiziari civili, amministrativi e penali).

Solo in questi termini può dunque trovarsi quel punto di equilibrio tra le esigenze del notificante e quelle del notificatario, peraltro trattandosi di un onere probatorio processuale tutt’affatto vessatorio e problematico, consistendo nel deposito di un atto facilmente acquisibile da parte del soggetto attivo del sub-procedimento.

Va quindi affermato che solo dall’esame concreto di tale atto il giudice del merito e, qualora si tratti di atto processuale, (se del caso) anche il giudice di legittimità, può desumere la “sorte” della spedizione della “raccomandata informativa”, quindi, in ultima analisi, esprimere un ragionevole e fondato – giudizio sulla sua ricezione, effettiva o almeno “legale” (intesa come facoltà di conoscere l’avviso spedito e quindi tramite lo stesso l’atto non potuto notificare), della raccomandata medesima da parte del destinatario.

In termini generali bisogna dunque ritenere che la produzione dell’avviso di ricevimento della CAD costituisce l’indefettibile prova di un presupposto implicito dell’effetto di perfezionamento della procedura notificatoria secondo le citate previsioni della L. n. 890 del 1982, art. 8, commi 4 e 2, che, qualora ritenuta giudizialmente raggiunta, trasforma tale effetto da “provvisorio” a “definitivo”.

Il che corrisponde alla configurazione strutturale, perfettamente aderente al dettato normativo de quo, di una fattispecie sub-procedimentale a formazione progressiva, secondo un’interpretazione conforme a Costituzione nei richiamati principi.

8. In conclusione sul punto, va formulato il seguente principio di diritto:

“In tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per temporanea assenza del destinatario stesso ovvero per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento della procedura notificatoria può essere data dal notificante esclusivamente mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima”.

Essendo del tutto pacifico che nel caso in esame la notificante Agenzia delle entrate non ha assolto all’onere probatorio in questione in tali termini configurato, devono pertanto affermarsi fondate sia l’eccezione di invalidità della notificazione degli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata sia la correlata eccezione di invalidità consequenziale di tale atto della riscossione; quindi in ultima analisi deve sancirsi la fondatezza del profilo della censura in oggetto che le ripropone in forma di critica alla difforme pronuncia, ancorchè implicita, del giudice tributario di appello.

9. In conclusione, vanno accolti il secondo ed il terzo motivo del ricorso, va rigettato il primo, la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decidendo nel merito deve essere accolto il ricorso introduttivo della lite.

Tenuto conto della complessità delle questioni trattate in particolare in relazione al secondo motivo, le spese del processo possono essere compensate.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso, rigetta il primo motivo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della lite; compensa integralmente le spese tra le parti.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente per impedimento dell’estensore per le disposizioni restrittive della circolazione nel territorio nazionale per l’emergenza epidemiologica Covid-19.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2021


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 09-02-2021) 07-04-2021, n. 9292

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 37752-2019 proposto da:

A.P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GAETANO DE BONIS;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 220/1/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della BASILICATA, depositata il 30/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MICHELE CATALDI.

Svolgimento del processo
che:

1. A.P.A. ha proposto ricorso, dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Potenza, avverso l’avviso d’accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate nei suoi confronti, relativamente all’anno d’imposta 2008, in materia di Irpef, ed avverso la relativa iscrizione a ruolo, assumendo di essere venuto a conoscenza dell’atto impositivo solo a seguito dell’acquisizione di copia dell’estratto di ruolo ed eccependo l’inesistenza e la nullità della notifica dello stesso accertamento.

L’adita CTP ha rigettato il ricorso.

2. Il contribuente ha allora proposto appello dinnanzi la Commissione tributaria regionale della Basilicata, che lo ha respinto con la sentenza n. 220/01/2019, depositata il 30 aprile 2019, ritenendo che la notifica dell’avviso di accertamento al contribuente fosse ritualmente avvenuta il 20 ottobre 2012, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), tramite messo notificatore, il quale aveva provveduto al deposito dell’atto presso la casa comunale ed alla successiva affissione dell’avvenuto deposito all’albo comunale.

Il ricorso a tale procedura di notificazione dell’atto impositivo, secondo la CTR, era legittimo, in quanto sebbene dal certificato anagrafico acquisito agli atti il contribuente risultasse, al momento della notifica, residente nel medesimo indirizzo menzionato nella relata del messo, tuttavia il 21 luglio 2012 un precedente tentativo di notifica, a mezzo posta, allo stesso destinatario e presso la medesima residenza anagrafica, non si era perfezionato, in conseguenza dell’irreperibilità del destinatario, come risultava dalla compilazione del relativo avviso di ricevimento, nel quale era barrata la voce “per irreperibilità del destinatario”, nel riquadro “mancata consegna del plico a domicilio”.

Pertanto la CTR, ritenuta regolare la notifica dell’accertamento, ha considerato tardivo ed inammissibile il ricorso del contribuente nei confronti dell’accertamento presupposto ed ha rigettato l’appello.

3. Il contribuente ha quindi proposto ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza impugnata.

L’Agenzia delle Entrate è rimasta intimata.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Per motivi di ordine logico, appare opportuno trattare anticipatamente il secondo motivo, per la sua potenziale capacità assorbente.

Con il secondo motivo, infatti, il contribuente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denuncia l’omessa pronuncia in ordine al motivo d’appello “inteso a rilevare la violazione e la falsa applicazione della L. n. 265 del 1999, art. 10, nonché della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 158”.

Secondo il ricorrente, la CTR non si sarebbe pronunciata in ordine alla sua eccezione di inesistenza giuridica della notificazione in considerazione della carenza di legittimazione dell’agente notificatore il quale, rivestendo la qualifica di messo notificatore, ma non quella di messo comunale, avrebbe potuto legittimamente notificare esclusivamente atti di accertamento dei tributi locali e comunque atti provenienti dal Comune di appartenenza.

Il motivo è infondato.

Invero, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, l’affermazione della legittimazione legale dell’agente notificatore, rispetto allo specifico atto da notificare, costituisce un necessario antecedente logico e giuridico di ogni verifica e pronuncia in ordine alla validità della specie di notifica concretamente effettuata dallo stesso operatore. Infatti, come questa Corte ha avuto occasione già di chiarire, “L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016).

Pertanto, l’ipotetico accoglimento dell’eccezione che l’attività di notificazione non fosse stata svolta da un soggetto qualificato e dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, avrebbe avuto come necessaria conseguenza l’inesistenza della notifica sub iudice, a prescindere dalle forme nelle quali la fase di consegna si è realizzata, che sarebbe stato superfluo valutare. Dunque, valutando esistente e valida la notifica in relazione alle modalità con le quali si è compiuta la fase di consegna dell’atto, la CTR ha implicitamente, ma necessariamente, affermato la legittimazione dell’agente notificatore e, quindi, implicitamente rigettato il motivo dell’appello del contribuente che la negava, in coerenza con l’adottato dispositivo di totale rigetto dell’impugnazione.

In questo senso si è infatti espressa più volte questa Corte, affermando che non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20718 del 13/08/2018; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15255 del 04/06/2019); ovvero quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, non occorrendo una specifica argomentazione in proposito, per cui è sufficiente quella motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 7662 del 02/04/2020; Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 2153 del 30/01/2020).

2. Con il primo motivo il contribuente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia la violazione e la falsa applicazione “del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), (…) Violazione della fattispecie astratta di accesso alla procedura di notificazione per irreperibilità assoluta”.

Va premesso che il ricorrente riproduce nel corpo del ricorso – dopo averne indicato l’avvenuta produzione nel merito, del resto confermata dalla stessa sentenza d’appello – la copia della relata della notifica del 20 ottobre 2012, eseguita dal messo notificatore del Comune di Potenza, e la copia della parte anteriore dell’avviso di ricevimento di precedente notifica, a mezzo posta, allo stesso destinatario ed al medesimo indirizzo, datata 26 luglio 2012 e recante l’attestazione della mancata consegna del plico per irreperibilità del destinatario.

Tanto premesso, il contribuente censura la decisione della CTR per aver ritenuto la notifica, eseguita dal messo sul presupposto dell’irreperibilità assoluta del destinatario e con le forme previste per tale fattispecie, valida pur in assenza della menzione, nella relata, di qualsiasi attività di ricerca del consegnatario effettuata presso la residenza anagrafica di quest’ultimo (la cui corrispondenza con quella indicata nella relata trova conferma nel certificato riprodotto nello stesso ricorso e prodotto nel giudizio di merito, come risulta dalla sentenza impugnata).

Non era sufficiente, aggiunge il ricorrente, ad escludere la necessità delle predette ricerche, la circostanza che, nel precedente tentativo di notifica a mezzo posta, il destinatario fosse irreperibile presso il medesimo luogo di residenza, trattandosi di altra fattispecie di notificazione, disciplinata diversamente e mai perfezionatasi.

Il motivo è fondato.

Recita il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e): “La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 e ss. c.p.c., con le seguenti modifiche: (…) e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c., in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione;”.

Come questa Corte ha già chiarito, “La notificazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), è ritualmente eseguita solo nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente. Solo in questi casi la notificazione è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune.” (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 3378 del 12/02/2020).

Sempre riguardo alla necessità dell’accertamento dell’irreperibilità assoluta, presso la residenza anagrafica del contribuente destinatario, si è detto che “La notificazione di un avviso o altro atto impositivo viene svolta nelle forme di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), nel caso in cui il contribuente, che ne è destinatario, risulti trasferito in luogo sconosciuto. In tale ipotesi, il messo notificatore, svolte le ricerche nel Comune in cui si trova il domicilio fiscale del contribuente per verificare l’eventuale mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune e accertata la sua irreperibilità presso la residenza anagrafica, procede alla notifica, effettuando il deposito nella casa comunale e inviando la raccomandata informativa, con avviso di ricevimento, ex art. 140 c.p.c., la cui produzione in giudizio costituisce prova dell’avvenuto perfezionamento della notificazione.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 4657 del 21/02/2020).

Era stato del resto già ribadito che “In tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più nè l’abitazione né l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale.” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 2877 del 07/02/2018, ex plurimis). Pertanto, “Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto.” (Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 24107 del 28/11/2016).

Quanto poi alla specie delle ricerche che l’agente notificatore deve compiere, ed alla conseguente indicazione nella relata, è stato precisato che “In tema di notifica degli atti impositivi, la cd. irreperibilità assoluta del destinatario che ne consente il compimento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), presuppone che nel Comune, già sede del domicilio fiscale dello stesso, il contribuente non abbia più abitazione, ufficio o azienda e, quindi, manchino dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto: peraltro, il tipo di ricerche a tal fine demandato al notificatore non è indicato da alcuna norma, neppure quanto alle espressioni con le quali debba esserne documentato l’esito nella relata, purché dalla stessa se ne evinca con chiarezza l’effettivo compimento.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19958 del 27/07/2018). Tanto premesso, l’esame della relata della notifica del 20 ottobre 2012, eseguita dal messo notificatore, non contiene alcuna menzione di ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non avesse più nè l’abitazione nè l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale. In particolare, la relata non riferisce di alcuna ricerca relativa all’irreperibilità assoluta del destinatario presso la residenza anagrafica di quest’ultimo nel medesimo Comune, menzionata nello stesso atto e corrispondente a quella certificata. Non risulta, quindi, che il messo abbia constatato in loco ed in punto di fatto l’eventuale divergenza dai dati anagrafici che, attestavano formalmente la persistente residenza in loco del destinatario della notifica (cfr. (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19958 del 27/07/2018, cit., in motivazione).

Tale inerzia totale (per come rilevabile dalla relata) del notificatore, in ordine alle ricerche indispensabili ai fini della legittima configurazione dell’irreperibilità assoluta, presupposto della notifica D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e), determina la nullità di quest’ultima.

Non può, invero, ritenersi altrimenti che le ricerche propedeutiche alla constatazione dell’irreperibilità assoluta, ai fini della validità della notifica eseguita ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), nel caso di specie non fossero necessarie perché allo stesso destinatario, al medesimo indirizzo, non era stato possibile effettuare, diversi mesi prima, la notifica a mezzo posta per irreperibilità.

Infatti, questa Corte ha già avuto occasione di rilevare che “ai fini della legittimità del ricorso alle forme previste dall’art. 143 c.p.c., non è sufficiente il vano tentativo di eseguire la notifica all’indirizzo indicato (…)” (Cass. 12/12/2017, n. 29671).

E, del resto, l’irreperibilità annotata, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 9, sul predetto avviso di ricevimento, quale indicazione del motivo del mancato recapito e della restituzione dell’invio al mittente in raccomandazione, non risulta a sua volta preceduta da alcuna ricerca. Nè, comunque, potrebbe ritenersi diligente, da parte del mittente, la limitazione aprioristica delle ricerche alla mera presa d’atto del mancato buon fine di un tentativo di notifica di parecchi mesi antecedente a quello poi effettuato nelle forme dirette agli irreperibili in senso assoluto.

Va quindi accolto il primo motivo e va pertanto cassata la sentenza impugnata, con rinvio al giudice a quo per ogni necessario accertamento in fatto e per le questioni rimaste assorbite dalla decisione cassata.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Basilicata, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2021


Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 24-02-2021) 02-04-2021, n. 12780

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio – Presidente –

Dott. BONI Monica – rel. Consigliere –

Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere –

Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere –

Dott. CAIRO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

R.A., nato a (OMISSIS);

avverso l’ordinanza del 14/10/2020 del TRIB. SORVEGLIANZA di CATANIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MONICA BONI;

lette/sue le conclusioni del PG Dr. Cocomello Assunta, che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

Svolgimento del processo
1. Con ordinanza emessa in data 14 ottobre 2020 il Tribunale di sorveglianza di Catania rigettava la domanda, proposta da R.A., volta ad ottenere l’ammissione alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale.

A fondamento della decisione il Tribunale ha osservato che il provvedimento emesso in data 1 luglio 2020 non costituisce una duplicazione della precedente ordinanza dello stesso Tribunale di sorveglianza in quanto, pur riguardando lo stesso titolo, esecutivo, nell’ordine di carcerazione sospeso per errore la pena era stata fatta decorrere dal 30 dicembre 2014, anziché dal 30 dicembre 2015, per cui l’anno di differenza deve ancora essere espiato.

2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’interessato a mezzo del difensore avv.to Mario Luciano Brancato, il quale ha dedotto:

a) vizio di motivazione per avere il Tribunale di sorveglianza respinto l’opposizione avverso la precedente ordinanza dell’1 luglio 2020 di ammissione del ricorrente all’affidamento in prova per espiare il residuo pena di un anno, relativo alla condanna inflittagli con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Messina del 16 marzo 2016, non espiata in precedenza a seguito dell’ordine di esecuzione del 5 aprile 2016 della Procura della Repubblica di Messina per un errore di calcolo, sebbene la pena fosse stata dichiarata estinta con provvedimento del 6 giugno 2018 che non era stata impugnata dalla Procura procedente, divenendo definitiva. La motivazione è del tutto insufficiente rispetto alle doglianze già esposte con l’opposizione e non tiene conto che il divieto di bis in idem è riferibile anche alle decisioni assunte in fase esecutiva.

b) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 179 c.p.p., comma 1 in quanto l’udienza camerale era stata celebrata senza la presenza obbligatoria del difensore di fiducia, avv.to Alfio Grasso, che non aveva ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza stessa, sebbene giek, designato in precedenza e destinatario della notificazione dei provvedimento dell’1 luglio 2020.

3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale, Dott.ssa Assunta Cocomello, ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata per la fondatezza del secondo motivo di ricorso.

Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e va dunque accolto.

1. Il secondo motivo di ricorso assume valore dirimente ed assorbente rispetto alla ulteriore doglianze di cui al primo motivo. Risulta dalla documentazione agli atti, resa accessibile a questo giudice di legittimità per la natura processuale della questione dedotta, che l’avv.to Alfio Grasso del foro di Catania con studio professionale in (OMISSIS), designato difensore di fiducia del R., non aveva ricevuto la notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale del 14 ottobre 2020, in quanto l’atto era stato inoltrato a mezzo posta elettronica ad altro legale omonimo, avente però studio in (OMISSIS), con indirizzo pec (OMISSIS), diverso da quello del legale designato difensore di fiducia, che è “(OMISSIS)”. La notificazione dunque era stata compiuta nei confronti di un avvocato reperibile ad un diverso indirizzo, sia in senso fisico quale recapito professionale, sia in senso telematico ai fini dell’impiego della posta elettronica certificata senza che chi aveva ricevuto l’avviso avesse un qualsiasi collegamento professionale con il condannato che aveva rivolto la propria richiesta al Tribunale di sorveglianza. L’udienza si era poi celebrata alla presenza di un difensore d’ufficio prontamente reperito.

2. La trattazione del procedimento in assenza del difensore di fiducia ha pregiudicato l’effettività dell’esercizio del diritto di difesa da parte del legale prescelto dal condannato. Tanto è causa di nullità assoluta degli atti processuali e dell’ordinanza impugnata, secondo quanto già affermato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, per le quali “L’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 179 c.p.p., comma 1, quando di esso è obbligatoria la presenza, a nulla rilevando che la notifica sia stata effettuata al difensore d’ufficio e che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97 c.p.p., comma 4, (In motivazione, la Suprema Corte ha, in particolare, evidenziato che ove, in presenza di una rituale e tempestiva nomina fiduciaria effettuata dall’interessato, il giudice proceda irritualmente alla designazione di un difensore d’ufficio, viene ad essere leso il diritto dell’imputato “ad avere un difensore di sua scelta”, riconosciuto dall’art. 6, comma 3 lett. c), della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo)” (Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Maritan, Rv. 263598).

Ne discende l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Catania che dovrà pronunciarsi previa instaurazione rituale del contraddittorio con la difesa del condannato.

P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Catania.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 26-11-2020) 24-02-2021, n. 4987

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina M. – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian A. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10610-2017 proposto da:

RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. – AGENTE DELLA RISCOSSIONE PER LE PROVINCE SICILIANE, in persona del legale rappresentante p.t. (C.F. (OMISSIS)), rapp. e dif., in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’AVV. SABRINA LIPARI, unitamente alla quale è dom.ta ope legis presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

P.G., elett.te dom.to in SIRACUSA, alla Via MONS. S. GOZZO, n. 5/D, presso lo studio del Dott. ROBERTO ZAPPALA;

– intimato –

nonché:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore p.t., legale rappresentante, dom.to in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rapp. e dif.;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3520/16/16 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della REGIONE SICILIANA, sez. st. di SIRACUSA, depositata l’11/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2020 dal Consigliere Dott. GIAN ANDREA CHIESI.

Svolgimento del processo
che P.G. impugnò, innanzi alla C.T.P. di Siracusa, 42 cartelle di pagamento;

che l’adita Commissione, con sentenza 379/04/13, dichiarato in via preliminare il difetto di giurisdizione rispetto alle cartelle di pagamento relative a carichi contributivi I.N.P.S. ed a sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada, rigettò, con rifermento alle residue cartelle – recanti carichi tributari – il ricorso del contribuente;

che tale decisione fu appellata da P.G. innanzi alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. st. di Siracusa, la quale, con sentenza 3520/16/16, depositata l’11.10.2016, accolse il ricorso rilevando – per quanto in questa sede ancora interessa – come, relativamente alle cartelle di pagamento notificate a mani del portiere dello stabile di residenza del contribuente, l’Ufficio non avesse dato prova di avere provveduto all’invio, al P., dell’avviso di avvenuta consegna della notifica a mani del portiere a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, così violando l’art. 139 c.p.c., comma 4;

che avverso tale decisione la RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. ha quindi proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi; si è costituita, con controricorso di tenore adesivo, l’AGENZIA DELLE ENTRATE, mentre è rimasto intimato il P..

Motivi della decisione
che con il primo motivo parte ricorrente lamenta (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e dell’art. 139 c.p.c., per avere la C.T.R. ritenuto nulla la notifica delle cartelle di pagamento concernenti i carichi tributari, per difettare la prova dell’avvenuto inoltro, al contribuente, della comunicazione di cui al dell’art. 139 cit., comma 4, mediante raccomandata con avviso di ricevimento;

che il motivo è fondato;

che l’art. 139 c.p.c. prevede, ai suoi commi 3 e 4, che “in mancanza delle persone indicate nel comma precedente” e, cioè, del destinatario di persona, oppure di una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda (purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace) – “la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda…”: nel qual caso, “il portiere…deve sottoscrivere una ricevuta, e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”;

che la norma, dunque, non dissimilmente da quanto previsto dall’art. 660 c.p.c., u.c., prescrive – a pena di nullità della notifica (cfr., da ultimo, Cass., Sez. U, 31.7.2017, n. 18992, Rv. 645134-01) – la mera spedizione dell’avviso in questione, senza che sia necessaria, altresì, la prova della sua ricezione da parte del destinatario: tant’è che il tempo di perfezionamento della notifica stessa si identifica con quello della consegna dell’atto alla persona comunque inserita nella sfera di conoscibilità del destinatario (e non con quello della ricezione dell’avviso da parte del destinatario), sia pure stavolta latamente intesa, siccome identificata in base ora ai rapporti giuridici nascenti dal portierato in un fabbricato per civili abitazioni ed agli obblighi in capo al portiere in favore dei singoli occupanti, ora a quei rapporti non più giuridici, ma comunque di solidarietà sociale, che si presume si intrattengano, se non con i vicini, almeno e se non altro col vicino che liberamente e spontaneamente accetti di ricevere la copia dell’atto per curarne poi la materiale consegna (cfr., da ultimo, Cass., Sez. U, 31.7.2017, n. 18992, Rv. 645134-01, cit.);

che, nel ritenere al contrario necessario, ai fini della validità della notifica delle cartelle di pagamento in questione, l’avvenuto inoltro, al P., della comunicazione di cui all’art. 139 c.p.c., comma 4, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, la C.T.R. ha dunque disatteso tali principi;

che con il secondo motivo parte ricorrente si duole (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), della violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la C.T.R. esteso la propria cognizione alla validità (nella specie, negata) della notifica di sette cartelle di pagamento, diverse da quelle portanti carichi tributari, nonostante la questione fosse coperta dal giudicato interno formatosi sul difetto di giurisdizione dichiarato, rispetto ad esse, dalla C.T.P.;

che il motivo è inammissibile;

che dalla motivazione della sentenza impugnata non è dato comprendere a quali cartelle di pagamento faccia riferimento la C.T.R., allorchè afferma che “l’ufficio…non ha prodotto le (relative) recate di notifica”; nè, a ben vedere, parte ricorrente ha trascritto, ai fini della specificità del motivo di ricorso (cfr. l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), l’atto di appello del P., così precludendo al Collegio di valutare (a) se effettivamente sulla questione di giurisdizione si era formato il dedotto giudicato interno, nonchè (b) a quali cartelle era conseguentemente limitato l’effetto devolutivo dell’appello e, infine, (c) se quelle in questione erano cartelle rientranti o meno tra quelle ancora soggette alla giurisdizione della giudice tributario (arg. da Sez. 1, 2.2.2017, n. 2771, Rv. 643715-01); che l’accoglimento del primo motivo di ricorso determina la cassazione della impugnata decisione e rinvio alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. dist. di Siracusa, in diversa composizione, anche ai fini della liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, con conseguente assorbimento del terzo mezzo di gravame, con il quale parte ricorrente si è doluta della erronea ripartizione dell’onere delle spese di lite, in primo come in secondo grado, in quanto la relativa censura è diretta contro una statuizione che, per il suo carattere accessorio, è destinata ad essere travolta dall’annullamento che viene disposto della sentenza impugnata, a seguito del quale la liquidazione delle spese delle precorse fasi del giudizio va effettuata dal giudice di rinvio, tenendo conto dell’esito finale del giudizio (Cass., Sez. 6-2, 6.2.2017, n. 3069, Rv. 642575-01).

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo ed assorbito il terzo. Per l’effetto, cassa la gravata sentenza e rinvia alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. st. di Siracusa, in diversa composizione, affinché si attenga ai principi che precedono e liquidi, altresì, le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Civile Tributaria, il 26 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2021


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 10/11/2020) 23/02/2021, n. 4920

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25755/2018 proposto da:

Z.L., + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dall’avvocato FATIMA CILLO, ed elettivamente domiciliati presso lo studio della medesima in Cervinara via Sirio n. 10, pec: nicola.valente.avvecatiavellinopec.it;

– ricorrenti –

contro

VODAFONE ITALIA SPA, (già VODAFONE OMNITEL BV), in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLA LIMATOLA, e ALESSANDRO LIMATOLA, ed elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dei medesimi in VIA NOMENTANA 257, pec: notifiche.limatolaavvocati.it;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 259/2018 del TRIBUNALE di AVELLINO, depositata il 12/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/11/2020 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI.

Svolgimento del processo
che:

1. Il di Pace di Cervinara, con sentenza n. 338 del 2016, pronunciando su cause riunite proposte da vari soggetti titolari di utenze telefoniche Vodafone nei confronti del gestore per i disservizi verificatisi nel (OMISSIS) tra il (OMISSIS) in conseguenza di fortissime nevicate abbattutesi sulla zona, con sentenza n. 16 del 24/6/2016, accolse le domande ritenendo che le interruzioni ingiustificate e senza preavviso costituissero fonte di responsabilità, in assenza di prova, da parte dell’operatore telefonico, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, danno che, a fronte di un evento costituito da un disservizio dovuto a fatto atmosferico eccezionale, si era concretizzato nel non essersi il gestore attivato tempestivamente per ripristinare il servizio. Il giudice riconobbe agli attori delle somme che liquidò in via equitativa.

Vodafone propose appello rappresentando che il non esatto adempimento della prestazione era dipeso da impossibilità derivante da causa a sè non imputabile ed in particolare dalle reiterate e prolungate interruzioni dell’energia elettrica causate dalle eccezionali avverse condizioni atmosferiche dovute a nevicate abnormi.

2. Il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 259 del 12/2/2018, ha accolto la tesi dell’appellante ritenendo esistente una ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione, ai sensi dell’art. 1256 c.c., dovuta ad eventi di forza maggiore talmente gravi da trovare ampio risalto nelle testate giornalistiche e nei mezzi di informazione e da richiedere l’intervento della Protezione Civile. Tali eventi, connotati da imprevedibilità, eccezionalità e gravità, avevano interrotto il nesso eziologico tra l’evento ed il danno sofferto dalla clientela, anche alla luce della previsione contenuta nelle condizioni generali di contratto, di una clausola di esonero da responsabilità del gestore per i casi in cui il servizio non fosse erogabile per motivi di forza maggiore. Anche l’espressa accettazione da parte degli utenti di tale clausola corroborava la tesi dell’esonero del gestore da responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c..

3. Avverso la sentenza, che ha altresì posto a carico degli utenti le spese del doppio grado, Z.L. ed altri hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Ha resistito la Vodafone con controricorso.

4. La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Il Collegio ritiene necessario esaminare prioritariamente una questione preliminare afferente alla validità della comunicazione di cancelleria -relativa alla presente adunanza – al legale difensore dei ricorrenti. Il difensore domiciliatario avvocato Fatima Cillo ha indicato nel ricorso il proprio codice fiscale ai sensi dell’art. 125 c.p.c., sicchè si era domiciliata automaticamente nel proprio indirizzo di PEC figurante obbligatoriamente nel Reginde. Sicchè, come era necessario a norma del combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., u.c. e art. 136 c.p.c., comma 2, la Cancelleria ha proceduto all’individuazione della PEC dello stesso difensore nel Reginde (fatima.cilio.avvocatiavellinopec.it) ed ha eseguito presso la relativa casella la comunicazione dell’avviso di fissazione dell’adunanza. La comunicazione dell’avviso, tuttavia, è stata rifiutata dalla relativa casella di PEC dell’Avvocato Cillo (la Cancelleria ha attestato che la PEC è tornata sempre negativa) e la Cancelleria (peraltro dopo avere inutilmente tentato di telefonare allo studio dell’avvocato, con il risultato che il numero dava sempre occupato) ha proceduto ad eseguire la comunicazione a mezzo posta, ma essa è risultata tardiva, cioè si è perfezionata l’8 ottobre 2020 e, dunque, senza l’osservanza del termine a difesa rispetto all’odierna adunanza.

Ritiene il Collegio, peraltro, che detto ulteriore adempimento di cancelleria, di fronte al rifiuto della prima tempestiva comunicazione da parte della casella di PEC del detto difensore, non risultava necessario, in quanto la comunicazione inviata e non andata a buon fine nella PEC del Reginde dell’Avvocato Cillo si deve ritenere non perfezionata per fatto imputabile al legale, inerente allo stato di detta casella di PEC, e dunque equivalente ad un rifiuto della stessa.

A supporto di tale conclusione si pone la giurisprudenza di questa Corte relativa alla necessaria “non imputabilità” al difensore dell’esito negativo della comunicazione alla sua casella di PEC (si vedano: Cass., 6-3, n. 3164 dell’11/2/2020: “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di aver rinvenuto la casella Pec del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi”; Cass., 6-5, n. 3965 del 18/2/2020: “la mancata consegna all’avvocato della comunicazione o notificazione inviatagli a mezzo posta elettronica certificata produce effetti diversi a seconda che gli sia o meno imputabile: nel primo caso le notificazioni/comunicazioni saranno eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria; nel secondo attraverso l’utilizzo delle forme ordinarie previste dal codice di rito”).

La tardività della comunicazione a mezzo posta, dunque, non essendo dovuta tale ulteriore comunicazione è rimasta irrilevante.

Il Collegio rileva, inoltre, che nel ricorso l’Avvocato Pillo, che non aveva indicato la propria PEC, ma, come s’è detto, aveva indicato il proprio codice fiscale, così rendendola individuabile nel Reginde, si era domiciliata in (OMISSIS) ed aveva inoltre, senza però indicare di volervisi domiciliare, espressamente dichiarato “per le comunicazioni i seguenti recapiti”, facendo riferimento ad una PEC riferibile ad altro avvocato e ad un fax. Poichè detto avvocato, le cui generalità emergevano appunto solo dalla PEC, non risultava nè in procura nè come domiciliatario, il Collegio ritiene di doversi interrogare sul se l’unico difensore esercente in questa sede il ministero, cioè l’Avvocato Cillo, abbia inteso indicare come proprio domicilio la PEC di quell’altro difensore e, in caso di risposta positiva, sul se tale ipotetica domiciliazione si potesse ritenere idonea.

Il Collegio rileva che l’indicazione mancava e che, di fronte al chiaro tenore del già richiamato combinato disposto dell’art. 366, u.c. e soprattutto art. 136, comma 2, là dove si fa riferimento alla trasmissione del biglietto di cancelleria relativo alle comunicazione “a mezzo posta elettronica certificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”, se quell’indicazione vi fosse stata sarebbe stata inefficace.

Poichè l’ordinamento prevede che l’individuazione del difensore destinatario della comunicazione di cancelleria avvenga automaticamente, cioè al di là della indicazione espressa della PEC, attraverso la ricerca nell’apposito registro, si deve ritenere che una domiciliazione presso PEC di un difensore diverso da quello che esercita il ministero difensivo possa avvenire solo se a tale difensore si attribuisca la qualifica di domiciliatario, mentre si deve escludere che il difensore esercente il patrocinio possa indicare per le comunicazioni la PEC di altro soggetto, pur esercente la professione di avvocato, senza qualificarlo come domiciliatario. Se non sia indicato, come nel caso di specie, il conferimento della qualità di domiciliatario, sebbene agli effetti digitali, la mera indicazione di una PEC riferibile ad un avvocato diverso da quello esercente il patrocinio con la mera dichiarazione di voler ricevere ad essa le comunicazioni, si risolve in una sorta di legittimazione dell’unico difensore ad indicare una PEC diversa da quella a lui riferibile secondo gli appositi registri e ciò senza una chiara assunzione di responsabilità qual è quella sottesa ad una dichiarazione di domiciliazione.

Il Collegio ritiene, dunque, che nulla osti alla trattazione.

2. Parte resistente ha pregiudizialmente sollevato l’eccezione di inammissibilità del ricorso per inesistenza o nullità della procura speciale per difetto dello ius postulandi assumendo che, pur risultando la procura speciale spillata all’originale del ricorso, non vi sarebbe traccia della suddetta procura nella copia notificata del ricorso, non essendo sufficiente l’attestazione dell’ufficiale giudiziario della conformità della copia all’originale.

L’eccezione è infondata in quanto è da preferire l’orientamento più recente della giurisprudenza di questa Corte secondo il quale “La mancata trascrizione, sulla copia del ricorso per cassazione notificato, degli estremi della procura speciale conferita dal ricorrente al difensore, non determina l’inammissibilità del ricorso ove la procura sia stata rilasciata con dichiarazione a margine, o in calce al ricorso, in quanto in tal caso l’intimato, con il deposito del ricorso in cancelleria, è posto in grado di verificare l’anteriorità del rilascio della procura rispetto alla notificazione dell’atto di impugnazione (Cass., L, n. 16540 del 19/7/2006)”.

3. Parte resistente ha altresì sollevato un’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, assumendo la mescolanza di elementi di fatto e di diritto, l’assenza di indicazione degli atti processuali su cui il ricorso si fonda, etc. 3.1. L’eccezione è certamente fondata quanto meno con riguardo al primo motivo di ricorso con il quale si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 74 disp. att. c.p.c., u.c., art. 87 disp. att., artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 5. Si assume che il Tribunale abbia basato la sentenza su una serie di documenti che non erano stati regolarmente depositati e che non avrebbero dovuto essere presi in considerazione, avendo la Vodafone solo tardivamente ottenuto di ricostruire il proprio fascicolo in spregio alle normative vigenti.

Il motivo è inammissibile per difetto del requisito della indicazione specifica degli atti fondanti ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto non pone questa Corte in condizioni di esaminare la censura, essendosi omesso di indicare gli atti processuali nei quali i ricorrenti abbiano trattato la questione nei gradi di merito, nonchè di indicare i verbali dai quali poter desumere la tardività della richiesta e perfino il fatto storico – negato da parte resistente – dell’avvenuta ricostruzione del fascicolo di parte.

4. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1256, 2697 c.c., assumendo che la sentenza impugnata abbia illegittimamente ritenuto esistente la causa di forza maggiore anzichè argomentare nel senso, dai ricorrenti auspicato, dell’inconfigurabilità di una causa sopravvenuta di impossibilità della prestazione non potendo una nevicata in zona montana costituire, in pieno inverno, un evento atmosferico eccezionale. Nel caso di specie l’impossibilità assoluta della prestazione non sarebbe stata dimostrata dalla Vodafone e l’effetto estintivo dell’obbligazione avrebbe dovuto coincidere con un fatto totalmente estraneo alla sfera di controllo dell’operatore. Il Tribunale non avrebbe neppure ottemperato al principio di riparto dell’onere probatorio perchè avrebbe automaticamente desunto l’impossibilità sopravvenuta della prestazione dalla eccezionale nevicata verificatasi nella valle.

5. Con il terzo motivo di ricorso – omessa pronunzia e violazione degli artt. 1218, 1710, 1176 c.c. e art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – i ricorrenti censurano la sentenza per non aver motivato sulla diligenza o meno della condotta tenuta dall’operatore telefonico nel momento in cui venne a conoscenza dell’interruzione. Assumono che l’operatore, una volta venuto a conoscenza dell’evento interruttivo, avrebbe dovuto comunicare tempestivamente al cliente l’impossibilità di eseguire la prestazione adottando provvedimenti atti a contenere i danni.

6. I due motivi possono essere trattati congiuntamente per ragioni di connessione e sono entrambi inammissibili in quanto volti a sollecitare questa Corte ad un riesame dei fatti e delle prove e perchè non correlati alla ratio decidendi. L’impugnata sentenza ha, infatti, ragionato facendo riferimento all’impossibilità sopravvenuta della prestazione, alla diligenza tenuta dall’operatore e al factum principis che ha impedito il pieno ripristino di un servizio comunque erogato anche in situazione emergenziale, sia pur in modo non ottimale.

I ricorrenti, anzichè aggredire adeguatamente la ratio decidendi, si limitano a sostenere che il Tribunale abbia errato nel non presumere la colpa dell’operatore come argomentato da questa Corte con sentenza Cass., 3 n. 11914 del 10/6/2016, con la quale si è affermato che, in relazione ai rapporti contrattuali concernenti le utenze telefoniche, i doveri di diligenza e buona fede nell’esecuzione del contratto impongono all’impresa esercente servizi di telefonia di comunicare tempestivamente al proprio cliente l’impossibilità di eseguire la prestazione e di adottare gli opportuni provvedimenti al fine del contenimento dei danni.

La sentenza impugnata, come si è illustrato, ha dato atto della presenza di una causa di forza maggiore e dell’assenza di colpa in capo all’operatore telefonico che, pur sorpreso da un evento eccezionale, fece in modo di garantire nei limiti del possibile il funzionamento del servizio. Questa specifica ratio decidendi non è espressamente impugnata sicchè da ciò si trae conferma della inammissibilità del motivo.

6. Con il quarto motivo di ricorso – violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2059 c.c. e art. 112 c.p.c. – i ricorrenti censurano il capo di sentenza che ha ritenuto i danni neppure provati nell’an e nel quantum assumendo che la quantificazione avrebbe dovuto essere compiuta, come fatto dal giudice di prime cure, sulla base di presunzioni fondate su nozioni di comune esperienza.

5.1 Il motivo resta assorbito per la sorte dei precedenti e comunque sarebbe stato, se scrutinabile, infondato in quanto, sia per il danno patrimoniale sia per quello non patrimoniale, l’attore avrebbe dovuto fornire ed allegare la prova degli elementi costitutivi del medesimo e cioè sia del danno sia del nesso causale, non potendosi ovviare a tale onere nè nel caso di liquidazione equitativa (Cass., 26/2/2003 n. 2874) nè nel caso specifico del contratto di utenza telefonica rispetto al quale la giurisprudenza di questa Corte ha già richiesto in modo espresso la prova del danno, non potendo, dall’esistenza e dall’entità del disservizio, trarsi in via presuntiva la dimostrazione dell’effettivo verificarsi di un pregiudizio risarcibile (Cass., 3, n. 27609 del 29/10/2019).

6. Il Collegio rileva, inoltre, che il presente ricorso presenta la medesima struttura di altro ricorso proposto dallo stesso difensore e deciso con l’ordinanza n. 31921 del 2018, sostanzialmente con considerazioni non dissimili da quelle che qui si sono enunciate.

7. Conclusivamente il ricorso va rigettato ed i ricorrenti condannati a pagare le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, del cd. “raddoppio” del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 1800 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2021


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 09/11/2020) 10/02/2021, n. 3318

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9497-2018 proposto da:

FTS DI F.R. & C SNC, rappresentata e difesa da MASSIMO CECCANTI;

– ricorrenti –

e contro

PREFETTURA UTG ALESSANDRIA, AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (OMISSIS);

– intimati-

avverso la sentenza n. 831/2017 del TRIBUNALE di ALESSANDRIA, depositata il 13/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/11/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI.

Svolgimento del processo
che:

1. Con ricorso notificato il 12/3/2018, avverso la sentenza n. 831/2017 del Tribunale di Alessandria, pubblicata in data 13/9/2017 e non notificata, la “F.T.S. Di F.R. & C. s.n.c.” propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. La Prefettura – U.T.G. di Alessandria e l’Agenzia delle Entrate – Riscossione (già Equitalia Nord s.p.a.), intimate, non hanno svolto difese in questa sede.

2. La società qui ricorrente “F.T.S. Di F.R. & C. s.n.c.” deduce di avere ricevuto un verbale di accertamento della violazione del C.d.S. dalla Polizia Stradale di Alessandria, avverso il quale essa aveva proposto ricorso per via gerarchica interna al Prefetto di Alessandria ex art. 203 C.d.S., senza tuttavia ricevere regolare notificazione dell’ingiunzione che è seguita dal rigetto di quel procedimento. Equitalia Nord s.p.a., difatti, aveva notificato alla società una cartella esattoriale intimando il pagamento del credito sotteso al verbale di contravvenzione. Talchè, avverso la cartella, la società proponeva opposizione, cd. “recuperatoria”, ai sensi dell’art. 205 C.d.S., dinanzi al Giudice di Pace di Alessandria, deducendo di non aver mai ricevuto l’atto presupposto, vale a dire l’ordinanza ingiunzione prefettizia, posto che la cartella notificata faceva riferimento solo al rigetto del ricorso da parte del Prefetto; instava, dunque, per l’annullamento della cartella esattoriale per insussistenza del titolo per l’iscrizione a ruolo della sanzione, essendo mancata la notifica dell’ordinanza del Prefetto con cui avrebbe dovuto essere definito il ricorso gerarchico interno de quo. Il GdP rigettava l’opposizione.

3. Avverso la sentenza, l’opponente ha proposto gravame dinanzi al Tribunale di Alessandria che rigettava l’appello ritenendo che la Prefettura avesse provato la rituale notifica dell’ordinanza ingiunzione, in specie, producendo in primo grado copia dell’avviso di ricevimento della raccomandata ordinaria A.R. che, presumibilmente, conteneva il titolo in discussione assumendo che, pertanto, sarebbe stato onere dell’appellante fornire prova del suo reale contenuto, che in tesi era riferito alla nota, a firma del commissario capo, con la quale era stato reso noto il rigetto del ricorso gerarchico proposto avverso il verbale di accertamento.

Inoltre, il Tribunale ha rilevato che le considerazioni svolte dall’appellante in ordine alla correttezza formale del procedimento notificatorio attengono ad una eventuale nullità della notifica, comunque sanabile per raggiungimento dello scopo.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo si denuncia la “Nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 82 c.p.c., comma 3, art. 166 c.p.c., art. 171 c.p.c., comma 3, art. 182 c.p.c., comma 2 e art. 91 c.p.c., comma 1 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)”. La società ricorrente adduce che Equitalia Nord s.p.a. ha partecipato al giudizio dinanzi al Tribunale “con patrocinio della delegata L.P. e del Dott. Z.G.P.” che non esercitavano, nè esercitano, la professione di avvocato, in violazione dell’art. 82 c.p.c., comma 3, per cui “davanti al tribunale e alla corte d’appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente”. Pertanto, Equitalia sarebbe rimasta a tutti gli effetti contumace nel giudizio di secondo grado, non avendo provveduto il Tribunale a sanare tale vizio di costituzione, nè a dichiararne la contumacia ex art. 171 c.p.c., comma 3.

1.1. Il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza. Nel caso in questione la denunciata violazione riguarda la condanna alle spese ricevuta dal ricorrente ed è relativa a una difesa in tesi espletata in assenza di regolare mandato alle liti, tale da far ritenere contumace la parte così rappresentata, e non involge una denuncia riguardo all’erronea quantificazione delle spese di lite. Sul punto va osservato che Equitalia, nell’espletamento delle proprie difese, per regola generale, può avvalersi di propri dipendenti delegati, che possono stare in giudizio personalmente (D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, art. 1, comma 8; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 11, comma 2). Sul punto, anche da ultimo, si sono espresse le Sezioni Unite di questa Corte sancendo che per l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, pur potendo avvalersi in specifici casi dell’Avvocatura dello Stato nonchè degli avvocati del libero foro, resta impregiudicata la sua generale facoltà di avvalersi anche di propri dipendenti innanzi al tribunale e al giudice di pace (Cass., Sez. U, Sentenza n. 30008 del 19/11/2019).

2. Con il secondo motivo si deduce la “Violazione e/o falsa applicazione del D.M. giustizia n. 55 del 2014 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)” ove sono state liquidate le spese di lite, per ciascuna delle convenute (Prefettura e Agenzia delle Entrate), nella misura Euro 1.618,00, nonostante il valore della controversia fosse di Euro 583,00 e quindi in misura eccedente rispetto ai parametri massimi indicati nel D.M. giustizia n. 55 del 2014, applicabile ratione temporis, per una controversia rientrante nello scaglione di valore che va da Euro 0,01 a Euro 1.100,00.

2.1. Il motivo è fondato. Le spese di lite sono state liquidate con parametri eccessivi rispetto ai massimi tabellari. In assenza di una nota spese, anche applicando gli aumenti di cui al D.M. n. 55 del 2014, art. 4 la somma complessiva massima (per tutte le fasi) è pari a Euro 1.172,00 per le controversie di valore non superiore a Euro 1.100,00. Sul punto, poi, deve precisarsi che in ordine ai compensi professionali dell’avvocato riconosciuti a dipendenti della pubblica amministrazione privi di tale qualità, la Legge di stabilità 2012 e, in particolare, la L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 42, titolato “Liquidazione di spese processuali”, che ha introdotto l’art. 152-bis disp. att. c.p.c., prevede una riduzione del 20 per cento degli onorari di avvocati ivi previsti (…)”. La giurisprudenza di legittimità, di recente (Cass., Sez. L -, Ordinanza n. 19034 del 16/7/2019; Sez. L -, Sentenza n. 9878 del 9/4/2019), ha esteso l’applicabilità del citato art. 152-bis disp. att. c.p.c. anche ai giudizi per prestazioni assistenziali in cui l’Inps si avvalga della difesa diretta D.L. n. 203 del 2005, ex art. 10, comma 6, in quanto le due disposizioni sono accomunate dalla finalità di migliorare il coordinamento e la gestione del contenzioso da parte delle amministrazioni nei gradi di merito, affidando l’attività di difesa nei giudizi in modo sistematico a propri dipendenti. Alla luce della ratio sottesa a tale estensione, deve ritenersi che la disposizione di cui all’art. 152-bis cit. debba applicarsi anche ai dipendenti delegati dall’Agenzia dell’Entrate-Riscossione alla sua rappresentanza e difesa in giudizio, talchè – nel presente procedimento – gli onorari di difesa a favore dei dipendenti patrocinanti l’ente della riscossione avrebbero dovuto essere tutt’al più ridotti nella misura del 20% rispetto agli onorari di avvocato, e non certamente aumentati.

3. Con il terzo motivo si denuncia la “Nullità della sentenza per omessa motivazione (ovvero motivazione apparente), nonchè violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per aver ritenuto che, in virtù del fatto che sull’avviso di ricevimento della raccomandata ordinaria AR inviata alla società era indicato “(OMISSIS)” si dovesse presumere che il contenuto fosse riferito alla l’ordinanza ingiunzione identificata a mezzo del numero di protocollo, fino a prova contraria incombente Alla parte opponente. Si adduce di avere fornito prova contraria, producendo non solo la busta citata, ma anche il suo contenuto, ossia la nota del 7 aprile 2010, a firma del commissario capo, con la quale era stato reso noto il rigetto del ricorso gerarchico proposto avverso il verbale di accertamento presupposto. Pertanto, il giudice avrebbe violato l’art. 115 c.p.c. per non aver tenuto nella giusta considerazione tale documentazione, nonchè l’art. 116 c.p.c. che gli impone di valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. E, nel caso di specie, la legge descrive esattamente gli atti e i documenti che devono sorreggere la prova di un’avvenuta notificazione: l’art. 204 C.d.S., comma 2 e art. 201 C.d.S., comma 3, in combinato disposto con la L. n. 890 del 1982, art. 3 prevedono che l’ordinanza ingiunzione venga “notificata” e non meramente “comunicata”, nonchè le formalità specifiche da osservare ove tale notifica avvenga a mezzo del servizio postale. In aggiunta, si deduce che l’annotazione “(OMISSIS)” apposta sulla presunta “notificazione” dell’ordinanza ingiunzione (non solo non corrispondeva al numero di protocollo dell’ordinanza ingiunzione (che avrebbe dovuto essere “(OMISSIS)”), ma era stata inserita nella sezione dedicata all’indirizzo del mittente e, dunque, era indicativa di una aggiunta postuma.

4. Con il quarto motivo si censura la “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 156 c.p.c., nonchè falsa applicazione dell’art. 204 C.d.S., comma 2 e art. 201 C.d.S., comma 3, e della L. n. 890 del 1982, art. 3 ovvero nullità della sentenza in quanto sorretta da motivazione apparente (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)” in quanto la raccomandata ricevuta rappresenterebbe una “comunicazione” piuttosto che una rituale “notificazione” e, dunque, neppure potrebbe ritenersi che la sua nullità possa essere sanata ex art. 156 c.p.c. In ogni caso, non sarebbe comunque dimostrato che avesse raggiunto il suo scopo; difatti, con l’opposizione al GdP la società non avrebbe affatto impugnato l’ordinanza ingiunzione, bensì la cartella esattoriale emessa da Equitalia, in quanto unico atto del quale aveva avuto effettiva conoscenza.

5. Con il terzo e quarto motivo il ricorrente prospetta anche il vizio di motivazione apparente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 senza, tuttavia, confrontarsi con la giurisprudenza di questa Corte in tema di opposizione a cartella esattoriale, per quanto si dirà in seguito. Tanto dedotto, la ricorrente conclude che, in difetto di rituale notificazione dell’ordinanza ingiunzione, l’obbligazione pecuniaria si sarebbe estinta e, di conseguenza, la cartella esattoriale risulterebbe invalida.

5.1. Il terzo ed il quarto motivo sono trattati congiuntamente in quanto intimamente connessi: essi sono entrambi inammissibili per difetto di interesse del ricorrente a far valere detto vizio, ex art. 100 c.p.c..

5.2. Il giudice, senza nulla aggiungere in riferimento al caso concreto, si è attestato sulla giurisprudenza consolidata (Cass., Sez. U -, Sentenza n. 22080 del 22/9/2017; Sez. 3 -, Sentenza n. 16282 del 4/8/2016; Sez. 1, Sentenza n. 9180 del 20/4/2006), in base alla quale l’opposizione alla cartella esattoriale può avere funzione recuperatoria e, pertanto, consente all’interessato di recuperare il mezzo di tutela previsto dalla legge avverso l’atto presupposto solo allorchè la cartella sia stata effettivamente il primo atto attraverso cui l’interessato è venuto a conoscenza della pretesa sanzionatoria. Sotto questo profilo, la rituale notificazione a mezzo del servizio postale del verbale di accertamento della violazione amministrativa e della conseguente ordinanza – ingiunzione, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, artt. 14 e 18 attestata dai rispettivi avvisi di ricevimento, implica la conoscenza legale di tali atti in capo al destinatario, dovendosi, pertanto, escludere che spetti al mittente l’onere di fornire la prova anche del contenuto del plico notificato (Sez. 2, Sentenza n. 13259 del 26/07/2012).

5.3. Va tuttavia preliminarmente osservato che, proprio perchè l’azione ha valore recuperatorio, nella formulazione della censura si omette di indicare la ragione per cui l’atto di accertamento dell’infrazione al Codice della Strada, per quanto notificato con un contenuto diverso da quello indicato nel frontespizio dal mittente, sarebbe illegittimo e da contestare nel merito, nonostante il rigetto del ricorso amministrativo interno (fatto del tutto pacifico). Ed invero anche di recente, il giudice di legittimità ha avuto modo di precisare che “Il destinatario di una cartella di pagamento emessa in base ad un verbale di accertamento per violazioni al codice della strada, che si assume regolarmente notificato, ove proponga opposizione, invocando l’annullamento della cartella quale conseguenza della omissione, invalidità assoluta ovvero inesistenza della notificazione del verbale presupposto, non può che limitarsi a denunciare il vizio invalidante detta notifica, non potendo fare valere in tal sede anche vizi che attengono al merito della pretesa sanzionatoria, la cui allegazione è, al contrario, necessaria qualora sia proposta un’opposizione, riconducibile al cit. D.Lgs. n. 150, art. 6 a cartella di pagamento fondata su un’ordinanza ingiunzione che si assuma illegittimamente notificata, giacchè l’emissione di siffatta ordinanza implica che il verbale di accertamento presupposto sia stato legittimamente contestato o notificato al trasgressore il quale, perciò, ha avuto cognizione anche degli aspetti attinenti al merito dell’esercitata pretesa sanzionatoria (Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11789 del 6/5/2019).

5.4. Tale omessa deduzione non consente di ritenere ammissibile la proposta opposizione.

5.5. Alla stregua di quanto sopra, deve affermarsi il seguente principio: “in caso di opposizione alla cartella esattoriale per omessa regolare notifica dell’ordinanza ingiunzione, riguardante una sanzione amministrativa irrogata, proposta in via recuperatoria (nel senso indicato da SU 22080 del 22/9/2017), è onere del ricorrente che ha proposto ricorso gerarchico interno avverso l’accertamento dell’infrazione amministrativa notificata, dedurrei non solo l’omessa regolare notifica dell’atto costituente la premessa dell’emissione della cartella esattoriale (appunto, della ordinanza ingiunzione), ma anche il motivo di illegittimità dell’illecito contestato”.

6. Conclusivamente, il primo, il terzo e il quarto motivo di ricorso vanno dichiarati inammissibili. Il ricorso merita, invece, accoglimento in relazione al secondo motivo; per l’effetto, cassa la sentenza con rinvio al Tribunale di Alessandria, in persona di diverso magistrato, anche per le spese di questa fase processuale.

P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibili il primo, il terzo e il quarto motivo; in accoglimento del ricorso quanto al secondo motivo, cassa la sentenza, con rinvio al Tribunale di Alessandria, in persona di diverso magistrato, anche per le spese di questa fase processuale.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile, il 9 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2021


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 23-09-2020) 08-02-2021, n. 2972

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano P. – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23652-2016 proposto da:

AZIENDA MULTISERVIZI E IGIENE URBANA TARANTO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 10/B, presso lo studio dell’avvocato ANNAMARIA DE NICOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato MATTEO MALANDRINO;

– ricorrenti –

contro

L.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BASENTO 37, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PIZZUTI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 142/2016 della CORTE D’APPELLO DI LECCE SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, depositata il 30/05/2016 R.G.N. 819/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/09/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA MARCELLO, ha depositato conclusioni scritte.

Svolgimento del processo
CHE:

Il Tribunale di Taranto respingeva le domande proposte da L.E. nei confronti della AMIU s.p.a. volte a conseguire l’inquadramento nel livello Quadri, o in subordina nel livello VIII o ancora nel livello VII per aver espletato mansioni superiori rispetto a quelle di formale appartenenza, del livello VI. Detta pronunzia veniva parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto che accertava il diritto della lavoratrice all’inquadramento nel livello VIII del c.c.n.l. Servizi Ambientali del 30/6/2008 a far tempo dal gennaio 2011 e condannava la società al pagamento delle differenze retributive maturate con decorrenza dalla stessa data.

La Corte di merito perveniva a tali approdi all’esito dello scrutinio delle acquisizioni probatorie che avevano chiaramente mostrato lo svolgimento da parte ricorrente, di quella immediata collaborazione con la direzione aziendale richiesta dalla dec1aratoria professionale del superiore livello rivendicato.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la s.p.a. AMIU sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Sono state depositate memorie da entrambe le parti ex art. 380 bis c.p.c. Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
CHE:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 16 c.c.n.l. dei servizi ambientali 30/6/2008 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di effettuare ogni indagine in relazione allo svolgimento di un periodo superiore a tre mesi di effettivo servizio ai fini dell’accertamento della superiore qualifica rivendicata.

Si osserva che nel giudizio di merito la società aveva prodotto fogli presenza relativi all’anno (OMISSIS) dai quali si desumeva che la dipendente era stata assente per i mesi di (OMISSIS), essendo presente al lavoro per un numero di 67 giornate lavorative.

La totale omissione dell’esame circa la durata del periodo di svolgimento di asserite mansioni superiori, discusso fra le parti, integrava un evidente difetto di motivazione oltre che una violazione della disposizione contrattualcollettiva di cui all’art. 16, alla cui stregua l’assegnazione di un superiore livello di inquadramento diviene definitiva dopo un periodo di tre mesi di effettivo servizio.

2. Il motivo palesa plurimi, concorrenti profili di inammissibilità.

In violazione del principio di specificità che governa il ricorso per cassazione, consacrato dall’art. 366 c.p.c., nn. 3, 4 e 6 la società ricorrente ha omesso di indicare tempi e modi di formulazione della eccezione relativa alla mancanza dei requisiti previsti dalla contrattazione collettiva per l’accertamento del diritto alla qualifica superiore, in relazione al mancato svolgimento nell’anno (OMISSIS) di almeno tre mesi di lavoro, essendosi limitata a dedurre di aver prodotto la relativa documentazione.

Tuttavia, secondo insegnamento di questa Corte, i dati fattuali, interessanti sotto diverso profilo la domanda attrice, devono tutti essere esplicitati in modo esaustivo o in quanto fondativi del diritto fatto valere in giudizio o in quanto volti ad introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza istruttoria, non potendosi negare la necessaria circolarità, per quanto attiene al rito del lavoro, tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova; circolarità attestata dal combinato disposto dell’art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5 e dall’art. 416 c.p.c., comma 3, (cfr. al riguardo Cass. 17/4/2002 n. 5526 Cass. S.U. 17/6/2004 n. 11353, Cass. 4/10/2013 n. 22738).

E’ opportuno sul punto evidenziare, con riferimento ai fatti sui quali si fonda la domanda attrice, come la contestazione – per evitare ricadute pregiudizievoli per il convenuto – non possa essere generica, non possa cioè concretizzarsi in formule di stile, in espressioni apodittiche o in asserzioni meramente negative, ma debba essere invece puntuale, circostanziata, dettagliata ed onnicomprensiva di tutte le circostanze in relazione alle quali viene chiesta l’ammissione della prova.

Non è invero priva di significato l’espressione “in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione”, inclusa nell’incipit dell’art. 416 c.p.c., comma 3 (“Nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”).

Nello specifico, si impone l’evidenza della carenza di enunciazione di tempi e modi nei quali il fatto costitutivo del diritto vantato dalla attrice, esplicitato in modo esaustivo con riferimento allo svolgimento delle mansioni superiori in relazione al periodo prescritto dalla legge e dai contratti collettivi, sarebbe stato oggetto di specifica contestazione – da parte datoriale così come della rituale produzione del relativo corredo documentale, al quale si fa riferimento in sede di ricorso per cassazione (vedi per tutte Cass. 1/8/2008 n. 21032).

Nell’ottica descritta, in assenza di qualsivoglia riferimento contenuto nella pronuncia impugnata alle suesposte difese (memoria depositata in primo grado ed in sede di gravame), la censura deve ritenersi affetta da irredimibile inammissibilità.

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1362, 1363 c.c. e dell’art. 16 c.c.n.l. dei servizi ambientali 30/6/2008 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ci si duole che la Corte di merito abbia riconosciuto il livello di inquadramento VIII oggetto di rivendicazione, senza tener conto dei principi invalsi nella giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui nell’interpretazione di un contratto collettivo, in particolare aziendale, ai fini della classificazione del personale ha rilievo preminente la considerazione degli specifici profili professionali, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità.

I giudici del gravame si sarebbero limitati a richiamare la sola declaratoria del livello oggetto di riconoscimento, omettendo ogni doverosa considerazione circa i profili esemplificativi enunciati dalla disposizione di riferimento.

4. La censura è priva di pregio.

Occorre premettere, per un corretto iter motivazionale, che, momento ineludibile del giudizio volto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore subordinato, è il cd. percorso trifasico.

Detto procedimento logico-giuridico, secondo l’insegnamento di questa Corte, si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell’individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda, essendo sindacabile in sede di legittimità qualora la pronuncia abbia respinto la domanda senza dare esplicitamente conto delle predette fasi (cfr. ex aliis, Cass. 27/9/2010 n. 20272, Cass. 28/4/2015 n. 8589, Cass. 22/11/2019 n. 30580).

Sempre secondo i condivisi dicta di questa Corte (vedi Cass. 27/9/2016 n. 18943) l’osservanza del cd. criterio “trifasico”, da cui non si può prescindere nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore, non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni.

Nello specifico, deve rimarcarsi come la Corte di merito abbia addotto una serie di argomentazioni idonee a confermare la ricorrenza degli elementi dalla medesima ricorrente posti a fondamento del diritto azionato, che inducono a ritenere percorso il paradigma motivazionale enucleato dalla giurisprudenza di legittimità ai fini qui considerati.

La Corte distrettuale ha innanzitutto fatto richiamo al livello VI in godimento, riservato ai lavoratori che svolgono mansioni comportanti facoltà di decisione e autonomia operativa limitate agli obiettivi di appartenenza.

Ha inoltre rimarcato come dalle acquisizioni probatorie, anche di natura documentale, si fosse imposta l’evidenza che la ricorrente, quantomeno dal (OMISSIS), aveva adempiuto alle mansioni a lei ascritte in totale autonomia, selezionando gli aspetti da privilegiare in relazione alle questioni da risolvere. La Co4rte ha inoltre considerato la varietà delle materie in relazione alle quali era richiesta la consulenza della lavoratrice – (studio della normativa in tema di servizi di igiene urbana e di flussi finanziari, dei profili di responsabilità penale di enti e Società, predisposizione di bandi di gara, della materia disciplinare…) e la diretta interlocuzione della stessa con la direzione sulle descritte rilevanti tematiche.

Ha quindi, congruamente concluso come non aderente alle previsioni del c.c.n.l. di settore l’attribuzione all’appellante del livello VI, considerato che i contenuti di ricerca e di studio elaborati dalla dipendente erano di fatto, integralmente recepiti dalla direzione, così realizzandosi quel requisito coessenziale alla qualifica del VIII, del potere di incidere sulle scelte aziendali proprio della attività svolta.

La struttura logico-giuridica che innerva l’impugnata sentenza, risponde dunque, ai canoni che definiscono una corretta sussunzione della fattispecie nell’archetipo normativo di riferimento, non assumendo valenza decisiva la denunciata omissione di ogni riferimento da parte della Corte di merito, ai profili professionali corrispondenti alla declaratoria contrattuale relativa al livello rivendicato, considerata la natura esemplificativa degli stessi.

Va precisato al riguardo che la figura di “responsabile dell’ufficio contenzioso” corrispondente alla attività espletata dalla ricorrente, si poneva come in termini di atipicità rispetto al settore “raccolta rifiuti” entro il quale operava, sicchè gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito non possono ritenersi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità citata dalla ricorrente, secondo cui le parti collettive classificano il personale sulla base di specifiche figure professiofiali dei singoli settori produttivi, ordinandole su scala gerarchica, e successivamente elaborano le declaratorie astratte, allo scopo di consentire l’inquadramento di figure professionali atipiche o nuove (vedi Cass. 23/2/2016 n. 3547).

5. Non può, poi, sottacersi che comunque le critiche articolate dalla difesa della ricorrente non hanno il tono proprio di una censura di legittimità.

Esse; sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di norme legge e di disposizioni di contratto collettivo, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione (cfr. Cass., Sez. Un., 17/12/2019 n. 33373).

Con riferimento alle tipologie di controversie sovrapponibili a quella oggetto del presente vaglio, è consolidato l’insegnamento di questa Corte secondo cui l’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell’inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, una volta rispettato – così come nella specie – costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito ed è insindacabile, in sede di legittimità, se sorretto da congrua motivazione (vedi Cass. 30/10/2008 n. 26234, Cass. 31/12/2009 n. 28284, Cass. 28/4/2015 n. 8589).

Discende quindi, da quanto sinora detto, che sotto tutti i profili delineati, la sentenza impugnata si sottrae alle formulate censure.

Il ricorso va, pertanto, respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2021


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 03-11-2020) 05-02-2021, n. 2866

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente –
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente di sez. –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di sez. –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. ORICCHIO Antonio – rel. Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4450-2016 proposto da:
W.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 36-B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SCARDIGLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIERO PETROCCHI;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI FIRENZE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati DEBORA PACINI, ed ANDREA SANSONI;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 2587/2015 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 14/07/2015;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/11/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIO ORICCHIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI CARMELO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso incidentale e cassazione senza rinvio della decisione impugnata;
udito l’Avvocato Massimo Scardigli.
Svolgimento del processo
1.-1 cittadino tedesco W.C. proponeva, con ricorso innanzi al Giudice di Pace di Firenze, opposizione a verbale di contravvenzione al Codice della Strada, per transito senza autorizzazione in zona a traffico limitato, elevato dalla Polizia Municipale di quella Città.
Nella fattispecie l’infrazione era stata contestata al cittadino straniero ricorrente tramite invio di lettera raccomandata (da parte, più specificamente, della European Municipality Outsourcing, divisione della Nivi Credit S.r.l.).
Con la detta proposta opposizione venivano dedotti vari vizi di invalidità del verbale e fra essi, in particolare e per quanto oggi rileva, il vizio di nullità per inesistenza della notifica del verbale stesso.
All’esito del giudizio svolto in contraddittorio con l’evocato Comune di Firenze, che resisteva instando per il rigetto del ricorso, l’adito Giudice di prime cure rigettava l’opposizione.
Di seguito il Tribunale di Firenze, con sentenza del 14 luglio 2015, dichiarava inammissibile l’appello interposto dall’originario opponente. Più in particolare con tale ultima sentenza si affermava che, quand’anche fossero state violate – in occasione della notifica del verbale de quo le formalità di notifica imposte dalla Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977, poichè la notifica risultava effettuata a mezzo del servizio postale in conformità della legislazione nazionale, ciò avrebbe integrato un motivo di nullità e non di inesistenza della notificazione stessa con conseguente sanatoria della nullità per l’avvenuto raggiungimento dello scopo ovvero della conoscenza dell’atto e, quindi, della tardività ed inammissibilità dell’opposizione proposta solo il 21 aprile 2011 ben oltre il termine di legge decorrente dalla notifica, in data 22 luglio 2010, del verbale di contravvenzione.
La sentenza del Giudice di appello veniva, quindi, gravata dal cittadino tedesco con ricorso per cassazione fondato su quattro ordini di motivi e resistito da Comune di Firenze, che – oltre a chiedere il rigetto dell’avverso atto – proponeva ricorso incidentale affidato a due ordini di motivi.
2.- La Sezione Seconda civile di questa Corte, con ordinanza 30 settembre 2019, n. 24382, ha rimesso gli atti al primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite di questione ritenuta di rilevante portata nomofilattica.
E, tanto, sollevando perplessità in ordine al precedente arresto giurisprudenziale della stessa Seconda sezione (Sentenze n. ri 22000 e 22001 del 2018), in base al quale per la notifica a cittadino straniero tedesco del verbale di contestazione dell’infrazione stradale quale atto propedeutico all’emissione dell’ordinanza di irrogazione della sanzione amministrativa vera e propria, poteva trovare applicazione la possibilità di notifica a mezzo di servizio postale consentita dal Regolamento (CE) n. 1393/2007 per gli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale, nonchè ex art. 16 del Regolamento stesso per gli atti stragiudiziali.
La questione oggi posta con la ordinanza di rimessione concerne il significato da attribuirsi alla materia “amministrativa” in relazione alla notificazione di atti e, in ispecie, di verbale di contravvenzione a norma del Codice della strada.
Più in particolare e per quanto rileva viene rimessa a queste Sezioni Unite la questione intesa a chiarire se, in tema di notifica di verbale di accertamento di violazione amministrativa a persona residente in altro stato membro dell’Unione Europea e segnatamente nella Repubblica Federale di Germania, quale sia il significato da attribuirsi alla materia “amministrativa”. Tanto per il dirimente profilo che gli atti afferenti a tale materia risultano esclusi dall’ambito di applicazione del regolamento (CE) n. 1393/2007, che disciplina la notificazione dei soli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale, sancendo esclusivamente per tali ultimi la possibilità della notifica a mezzo del servizio postale.
Più specificamente, ancora, la questione sottoposta al vaglio di queste Sezioni Unite è direttamente rapportabile alla conseguente valutazione come nulla (e sanabile) ovvero come inesistente (ed insanabile) la notifica del verbale di accertamento di infrazione stradale a mezzo del servizio postale a cittadino tedesco.
Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo del ricorso principale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 142 c.p.c., comma 2 e dell’art. 10 Cost., comma 1 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
2.- Con il secondo motivo del ricorso medesimo si censura l’impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
3.- Con il terzo motivo del ricorso stesso si lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 6 e art. 11, comma 2 della Convenzione di Strasburgo del 24/11/1977, dell’art. 201 C.d.S., comma 1 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
4.- Con il quarto ed ultimo motivo del ricorso principale viene prospettata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
5.- Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c..
Viene, in particolare, svolta questione conseguente alla svolta eccezione di inammissibilità dell’appello per nullità e/o inesistenza della procura alle del difensore del cittadino tedesco.
6.- Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denuncia la violazione e falsa applicazione del R.D.L. 15 ottobre 1925, n. 1796, art. 1 nonchè degli artt. 83 e 122 c.p.c. e degli artt. 72 e 74 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
7.- Il Collegio ritiene di dover procedere all’immediato esame del ricorso incidentale e dei due suoi motivi, che – in quanto fra loro connessi- possono trattarsi congiuntamente.
Tanto in virtù del carattere dirimente di questione sollevata col detto mezzo.
Il ricorso incidentale, pur se proveniente da parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, deve ritenersi investire questione, come detto dirimente, in presenza di “attualità di interesse ovvero nell’ipotesi di fondatezza del ricorso principale” (e ciò alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale di queste stesse Sezioni: Cass. civ. S.U. n. ri 5456/2009, 23318/2009 e 7381/2013).
Con gli esposti motivi il ricorso incidentale tende – ai fini della corretta decisione della controversia- a riportare l’attenzione sulla questione della inammissibilità dell’appello oggetto di rituale svolta eccezione.
La inammissibilità viene prospettata con riguardo ad un duplice profilo: la inesistenza della procura conferita al difensore per il giudizio; la nullità della stessa in quanto utilizzata in violazione del R.D.L. 15 ottobre 1925, art. 1.
Le censure erano state sollevate con riguardo alla dedotta assoluta genericità della procura speciale rilasciata con atto per “Notaio H. del 18.2.2010”.
Le censure medesime (non esaminate dal Giudice di appello che riteneva, sotto altro aspetto, la inammissibilità del gravame innanzi ad esso interposto) sono entrambe fondate e comportano l’accoglimento del ricorso incidentale, il quale -come già innanzi accennato- investe così profilo preliminare e dirimente del presente giudizio in ragione, per converso, della necessità della pronuncia sulla questione di rilevante portata nomofilattica conseguente al ricorso principale.
La procura rilasciata al difensore del cittadino tedesco risulta conferita in totale assenza del riferimento alla procedura per la quale è stata rilasciata.
La mancata e pur dovuta indicazione del procedimento giudiziale per il quale veniva rilasciata la procura de qua non permette, quindi, di individuare la specifica finalità della stessa.
Tale procura si pone così in contrasto con la norma di cui all’art. 83 c.p.c. e con i conseguenti principi di diritto che impongono lo specifico collegamento tra l’atto stesso ed il soggetto destinatario e la capacità dell’atto di far individuare la finalità per la quale lo stesso è stato generato.
Tale aspetto è, peraltro, non di poco conto tanto più che risulta in atti dedotto come “la procura speciale “Notaio H.” del 12.8.2010″ di cui si discute, proprio in ragione della sua genericità, è stata ex adverso utilizzata in una pluralità di giudizi di merito” ovvero in cinque processi di appello innanzi al Tribunale di Firenze, specificamente indicati nel ricorso incidentale.
La medesima procura risulta, per di più, rilasciata in violazione dell’art. 1 R.D.L. cit. in quanto la pretesa autenticazione della firma del mandante risulta redatta non in lingua italiana e, pertanto, deve aversi per non avvenuta o nulla.
Al riguardo non può che richiamarsi il noto e condiviso principio, già enunciato da questa Corte, per cui “la procura speciale alle liti rilasciata all’estero, sia pur esente dall’onere di legalizzazione da parte dell’autorità consolare italiana, nonché dalla cd. “apostille”, in conformità alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, ovvero ad apposita convenzione bilaterale, è nulla, agli effetti della L. n. 218 del 1995, art. 12 ove non sia allegata la sua traduzione e quella relativa all’attività certificativa svolta dal notaio afferente all’attestazione che la firma è stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l’identità, applicandosi agli atti prodromici al processo il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto” (Cass. civ., Sez. Sesta-2, 4 aprile 2018, n. 8174, nonché -in precedenza e conformemente- Cass. n. 11165/2015).
Peraltro, a fronte delle sollevate eccezioni e contestazioni sulla validità della rilasciata procura, nulla ha tempestivamente e validamente controdedotto ed allegato la parte odierna ricorrente principale quanto all’eccepito difetto di rappresentanza.
In proposito non possono che rammentarsi i consolidati principi ripetutamente enunciati in occasione di plurimi precedenti, in punto, avutisi su analoghe fattispecie inerenti contravvenzioni al codice della strada contestate dal Comune di Firenze a cittadini stranieri tedeschi.
Giova, all’uopo, ribadire che in tema di difetto di rappresentanza processuale ed a differenza dell’ipotesi di art. 182 c.p.c. (quando è il giudice che rilevi d’ufficio tale difetto con obbligo di promuovere la sanatoria previa assegnazione alla parte un termine di carattere perentorio, senza il limite delle preclusioni derivanti) da decadenze di carattere processuale) “nel diverso caso – come quello in ipotesi – in cui detto vizio sia stato tempestivamente eccepito da una parte, l’opportuna documentazione -in eventuale sanatoria- va prodotta immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto o, comunque, assegnato dal giudice, giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire. (In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha ritenuto che la nullità della procura alle liti, fosse divenuta insanabile poichè, nonostante il convenuto avesse sollevato la relativa questione, l’attore non aveva spontaneamente depositato la necessaria documentazione nel prosieguo del processo di merito, essendosi egli limitato a discutere di altri diversi profili giuridici)” (ex plurimis: Cass. civ., Sez. Sesta-2, Ord. 4 ottobre 2018, n. 24212, nonché successivamente, Cass. n. 22892/2018, tutte conformemente sulla scia dell’insegnamento di Cass. civ. S.U. n. 4248/2016).
I motivi del ricorso incidentale sono, quindi, fondati e comportano conseguentemente la relativa inammissibilità dell’appello.
8.- Alla stregua di tutto quanto innanzi esposto, affermato e ritenuto il ricorso incidentale deve essere accolto con conseguente assorbimento del ricorso principale e cassazione, per effetto degli accolti motivi, dell’impugnata sentenza, che va cassata senza rinvio per improcedibilità dell’appello.
9.- Deve, poi, procedersi alla risoluzione della questione di rilevante portata nomofilattica sottoposta al vaglio di queste Sezioni che implica, per la rilevanza della stessa, pronuncia ai sensi dell’art. 384 c.p.c. sul rilevato profilo.
Questo attiene alla possibilità o meno del ricorso alla notificazione a mezzo posta del verbale di contravvenzione. Il tutto, a sua volta, in dipendenza della sussumibilità o meno della fattispecie (sanzione amministrava) nell’ambito della materia civile o commerciale. E tanto in quanto ove intesa, quella stessa fattispecie, rientrante nella “materia amministrativa” sarebbe stato necessario il ricorso all’attività di assistenza per la notificazione dell’Autorità centrale dello Stato di residenza del medesimo cittadino, attività viceversa non necessaria nell’ipotesi di atto in materia civile e commerciale.
Nei citati pregressi arresti giurisprudenziali del 2018 si era ritenuto che il Regolamento U.E. n. 1393/2007 del 13.11.2007, relativo alla notificazione degli atti giudiziari ed extra-giudiziari in materia civile e commerciale consentiva, in relazione a verbale di sanzione ammnistrativa a cittadino germanico, il ricorso al procedimento di notificazione a mezzo posta.
A tale considerazione la citata giurisprudenza era pervenuta anche in conseguenza della argomentazione, per cui – anche in base all’art. 16 del Regolamento stesso – una volta ampliata anche agli atti stragiudiziali la possibilità della notifica prevista per gli atti propriamente giudiziari doveva ritenersi il verbale di contestazione atto propedeutico all’ordinanza d’irrogazione della sanzione ammnistrativa e, quindi, stragiudiziale e notificabile a mezzo posta. Sotto altro aspetto veniva, inoltre, sottolineato (nella stessa citata Cass. n. 22000/2018) come era possibile “avvalersi direttamente del servizio postale…dovendosi osservare le sole disposizioni dello Stato membro di destinazione dettate in modo speciale per la concreta esecuzione di singoli atti previsti dalla sua legislazione”.
Senonché l’art. 1 del citato Regolamento U.E. del 2007 esclude espressamente dal suo ambito di applicazione la materia “fiscale, doganale ed amministrativa”.
Il verbale di accertamento di sanzione al Codice della Strada, in quanto atto rientrante nell’esercizio di pubblici poteri rientra, quindi, nell’ambito di materia amministrativa e, come tale, la notifica della sua impugnazione esula in maniera manifesta dal campo- di applicazione del Regolamento n. 1393/2007, poiché non rientrante nella materia civile o commerciale (e neppure potendosi configurare il carattere “stragiudiziale” della notifica del verbale stesso).
Ciò posto, in primis, deve poi rilevarsi che la Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977, ratificata nel nostro ordinamento con la L. 21 marzo 1983, n. 149, detta la disciplina per la notifica dei documenti in materia ammnistrativa e prevede, in via generale all’art. 11, anche la notificazione diretta a mezzo del servizio postale per tale tipo di documenti.
Tuttavia, tale generale previsione non può, nell’ipotesi per cui è giudizio, trovare applicazione giacché la Repubblica Federale di Germania – avvalendosi di apposita prevista riserva – ha escluso la possibilità di notifica per i detti documenti a mezzo del servizio postale nei confronti dei propri cittadini residenti.
Deve, quindi, affermarsi il principio per cui la notifica del verbale di sanzione ammnistrativa a cittadino tedesco non poteva essere notificato direttamente a mezzo del servizio postale.
La notificazione per tale tipo di atto effettuata nei confronti di quel cittadino a senza la prevista (art. 2 Convenzione di Strasburgo) assistenza della Autorità centrale dello Stato di residenza e destinazione comporta la nullità della notificazione.
Tale nullità deve, poi, essere valutata ai sensi della legge del paese dal quale la notificazione è svolta e, quindi, secondo la legge italiana. In tal senso la notifica di cui alla fattispecie in giudizio non può che essere ritenuta nulla e non inesistente con conseguente sua sanabilità in assenza di tempestiva apposita eccezione.
Inoltre, ed in senso ancor più decisivo la nullità, nella concreta fattispecie in esame, deve ritenersi sanata in dipendenza della tardività (come innanzi specificamente già rilevato) del ricorso rispetto alla effettiva conoscenza del verbale notificato e non tempestivamente impugnato con conseguente mancata tempestività della eccezione di nullità della notificazione e, quindi, sanatoria della stessa.
10.- Le spese devono essere compensate in virtù della oggettiva controvertibilità e della novità delle questioni sottoposte a giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie il ricorso incidentale, dichiara assorbito il ricorso principale, cassa senza rinvio la sentenza impugnata per improcedibilità dell’appello ed enuncia il principio di diritto di cui in motivazione. Spese compensate.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 3 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 22/10/2020) 26/01/2021, n. 1555

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 35857/2019 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elett.te domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

P.V., rapp.to e difeso dai Dott. Michele Morganti e Raffaele Marangoni, presso cui elett.te domicilia in Prato, alla via Baldinucci n. 41;

– intimato –

avverso la sentenza n. 712/10/19 della Commissione Tributaria -Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, depositata in data 24/4/2019, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22 ottobre 2020 dalla Dott.ssa Milena d’Orfano;

udito per la ricorrente l’avv. Chiappiniello Giovanni che ha chiesto l’accoglimento; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giacalone Giovanni che ha concluso per l’accoglimento.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 712/10/19, depositata il 24 aprile 2019, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 455/1/17 della CTP di Livorno, con compensazione delle spese di lite.

Il giudice di appello, a conferma della decisione di primo grado, concludeva per il rigetto del gravame rilevando:

a) che il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento, emesso il (OMISSIS) e notificato in data (OMISSIS), con cui, a seguito della definitività di altro avviso di accertamento per un maggior reddito di impresa per l’anno 2013 emesso a carico della società ICLOS s.r.l., premessa la ristretta base azionaria, si imputava a P.V., socio al 24,5%, un maggior reddito di capitale in proporzione della quota di partecipazione agli utili;

b) che la Commissione di primo grado aveva accolto il ricorso, articolato su vari motivi formali e di merito, ritenendo fondata l’eccezione preliminare relativa alla carenza di valida sottoscrizione dell’avviso impugnato che, ritenuta l’inapplicabilità delle formalità di cui al Codice dell’Amministrazione Digitale, come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, non recava firma autografa bensì digitale e risultava notificato in copia cartacea anzichè a mezzo PEC;

c) che tale decisione era condivisibile, con assorbimento degli ulteriori motivi, in quanto: la firma a stampa ai sensi della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, era ammissibile solo per gli accertamenti emessi a seguito di procedure automatizzate; l’apposizione di una firma digitale ad un avviso di accertamento notificato prima del 27-1-2018 era causa di nullità dell’atto per difetto di sottoscrizione; solo per gli atti notificati a decorrere dall’1-7-2017 la combinazione firma digitale/notifica a mezzo PEC consentiva il rispetto della procedura informatica della normativa vigente ratione temporis.

2. Avverso la sentenza di appello l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, notificato a mezzo PEC il 19 novembre 2019, affidato a due motivi, e depositato memoria ex art. 378 c.p.c; il contribuente rimaneva intimato.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo l’Agenzia censura la sentenza impugnata denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, degli artt. 2 e 23 CAD, della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che le norme del Codice dell’Amministrazione Digitale vanno ritenute applicabili anche alle funzioni istituzionali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, applicabilità esclusa, ai sensi dell’art. 2 suddetto codice, comma 6, come modificato, a decorrere dal 14 settembre 2016, dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), solo per le “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”, da intendersi per quelle attività di controllo fiscale svolte dall’Agenzia e dalla Guardia di Finanza rappresentata dagli accessi, ispezioni e verifiche sulla cui base vengono emessi gli avvisi di accertamento; interpretazione confermata dall’ulteriore modifica dell’art. 2, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, che, mediante l’aggiunta del comma 6 bis, rendeva esplicita tale applicazione. Si rilevava altresì che la copia cartacea notificata al contribuente presentava l’attestazione di conformità prevista dall’art. 23 CAD. 2. con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, dell’art. 23 CAD, dell’art. 137 c.p.c., commi 2 e 3, e dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che la possibilità di notificare a mezzo PEC anche gli atti impositivi era stata- introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017, con l’inserimento del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 7, sicchè prima di tale data l’Agenzia aveva correttamente proceduto all’invio della copia analogica munita di attestazione di conformità e che, in ogni caso, ogni eventuale nullità della notifica doveva ritenersi sanata per il raggiungimento dello scopo, allorchè il contribuente era comunque venuto a conoscenza dell’atto.

3. Il primo motivo è meritevole di accoglimento.

3.1 Questione controversa è la legittimità degli atti impositivi emessi dall’Agenzia delle Entrate in formato elettronico, e sottoscritti con firma digitale, nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6 (cd CAD – Codice dell’Amministrazione digitale), come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, sino alle ulteriori modifiche apportate allo stesso art. 2, comma 6, con l’aggiunta altresì del comma 6-bis, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. d) ed e), entrato in vigore dal 27 gennaio 2018.

Dalla ritenuta inapplicabilità del CAD, e quindi delle disposizioni in tema di firma digitale, la sentenza gravata ha fatto derivare la nullità dell’avviso di accertamento sottoscritto digitalmente per difetto di sottoscrizione.

3.2 Si pone, ai fini del decidere, la questione interpretativa dell’art. 2 CAD, comma 6, prima parte, nel testo vigente nel periodo dal 14 settembre 2016 al 26 gennaio 2018, secondo cui: “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, di ordine e sicurezza pubblica, difesa e sicurezza nazionale, polizia giudiziaria e polizia economico-finanziaria e consultazioni elettorali” L’Agenzia ricorrente ritiene che nella limitazione di cui alla suindicata disposizione non vadano inclusi gli avvisi di accertamento che pertanto, a decorrere dal 14 settembre 2016, sarebbero stati legittimamente emessi con la forma del documento informatico e sottoscritti con firma digitale.

Va premesso che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo e-IDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici.

Ai sensi dell’art. 40 CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. 13 novembre 2014.

Posto che la regola generale è divenuta il ricorso ai documenti informatici, e le limitazioni l’eccezione, l’interpretazione dell’art. 2 CAD, comma 6, ratione temporis vigente, proposta dall’Agenzia delle Entrate merita di essere condivisa sulla base di una serie di valutazioni ermeneutiche sia di tipo letterale che sistematico.

Rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.

La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.

In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonchè di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza.

Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni.

Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed agli artt. 54 e ss le rettifiche e gli accertamenti.

Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

3.3 Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbè non essere munito di firma digitale, sicchè l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

Non da ultimo va evidenziato che l’interpretazione contraria proposta dalla CTR si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi.

La modifica apportata al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6, con l’inserimento del comma 6 che ha introdotto la possibilità della notifica a mezzo PEC degli avvisi di accertamento, tende ad una implementazione dell’utilizzo dei documenti informatici.

L’art. 2 CAD, comma 6-bis, aggiunto dal D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. e), ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” e rimette ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.

Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.

4. Alla ritenuta applicabilità del CAD consegue l’accoglimento del secondo motivo, relativo alla legittimità della notifica di una copia analogica conforme ad un documento informatico.

4.1 Ai sensi dell’art. 23 CAD “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

Nella specie risulta incontestato, e comunque provato, che l’atto impositivo notificato in copia cartacea presentava l’attestazione di conformità all’originale e tanto è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017).

Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta.

Si ricorda che la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi è stata introdotta solo a decorrere dall’1 luglio 2017, a seguito dell’aggiunta al D.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 60, comma 6, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6; l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità.

4.2 Si aggiunga che risulta agli atti che l’atto sia comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario: trova pertanto applicazione il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo. (Vedi tra le tante Cass. SU n. 7665 del 2016; n. 27561 e n. 24568 del 2018) 5. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R. della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione, che procederà all’esame degli ulteriori motivi di ricorso, ed anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, rinvia per l’ulteriore esame, e anche per le spese, alla C.T.R della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 22/10/2020) 26/01/2021, n. 1557

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 9772/2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elett.te domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

C.M., rapp.to e difeso dal Dott. Michele Morganti presso cui elett.te domicilia in Prato, alla via Baldinucci n. 41;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1185/10/19 della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, depositata in data 29/7/2019, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22 ottobre 2020 dalla Dott.ssa Milena d’Oriano;

udito per la ricorrente l’avv. Chiappiniello Giovanni che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Giacalone che ha concluso per l’accoglimento.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 1185/10/19, depositata il 29 luglio 2019, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 454/1/17 della Commissione Tributaria Provinciale di Livorno, con compensazione delle spese di lite.

Il giudice di appello, a conferma della decisione di primo grado, concludeva per il rigetto del gravame rilevando:

a) che il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento, notificato in data 15-11-16, con cui, a seguito della definitività di altro avviso di accertamento per un maggior reddito di impresa per l’anno 2013 emesso a carico della società ICLOS s.r.l., premessa la ristretta base azionaria, si imputava a C.M., socio al 51%, un maggior reddito di capitale in proporzione della sua quota di partecipazione agli utili;

b) che la Commissione di primo grado aveva accolto il ricorso, articolato su vari motivi formali e di merito, ritenendo fondata l’eccezione preliminare relativa alla carenza di valida sottoscrizione dell’avviso impugnato che, ritenuta l’inapplicabilità delle formalità di cui al Codice dell’Amministrazione Digitale, come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, non recava firma autografa bensì digitale e risultava notificato in copia cartacea anzichè a mezzo PEC;

c) che tale decisione era condivisibile, con assorbimento degli ulteriori motivi, in quanto: la firma a stampa ai sensi della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, era ammissibile solo per gli accertamenti emessi a seguito di procedure automatizzate; l’apposizione di una firma digitale ad un avviso di accertamento notificato prima del 27-1-2018 era causa di nullità dell’atto per difetto di sottoscrizione; solo per gli atti notificati a decorrere dall’1-7-2017 la combinazione firma digitale/notifica a mezzo PEC consentiva il rispetto della procedura informatica della normativa vigente ratione temporis.

2. Avverso la sentenza di appello l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, notificato a mezzo PEC il (OMISSIS), affidato ad un unico motivo, e depositato memoria ex art. 378 c.p.c.; il contribuente rimaneva intimato.

Motivi della decisione
1. Con unico motivo l’Agenzia censura la sentenza impugnata denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, degli artt. 23 e 2 CAD, quest’ultimo come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), e con l’aggiunta ad opera dell’art. 2, lett. e), al D.Lgs. n. 217 del 2017, del comma 6-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che le norme del Codice dell’Amministrazione Digitale vanno ritenute applicabili anche alle funzioni istituzionali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, applicabilità esclusa, ai sensi dell’art. 2 suddetto codice, comma 6, come modificato, a decorrere dal 14 settembre 2016, dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), solo per le “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”, da intendersi per quelle attività di controllo fiscale svolte dall’Agenzia e dalla Guardia di Finanza rappresentata dagli accessi, ispezioni e verifiche sulla cui base vengono emessi gli avvisi di accertamento; che tale interpretazione è confermata dall’ulteriore modifica dell’art. 2 ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, che, mediante l’aggiunta del comma 6 bis, rendeva esplicita tale applicazione; che la copia cartacea notificata al contribuente presentava l’attestazione di conformità prevista dall’art. 23 CAD; che la possibilità di notificare a mezzo PEC anche gli atti impositivi era stata introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017 con l’inserimento del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 7, sicchè prima di tale data l’Agenzia aveva correttamente proceduto all’invio della copia analogica munita di attestazione di conformità.

2. L’unico motivo è meritevole di accoglimento.

2.1 Questione controversa è la legittimità degli atti impositivi emessi dall’Agenzia delle Entrate in formato elettronico, e sottoscritti con firma digitale, nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6 (cd CAD – Codice dell’Amministrazione digitale), come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, sino alle ulteriori modifiche apportate allo stesso art. 2, comma 6, con l’aggiunta altresì del comma 6-bis, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. d) ed e), entrato in vigore dal 27 gennaio 2018.

Dalla ritenuta inapplicabilità del CAD, e quindi delle disposizioni in tema di firma digitale, la sentenza gravata ha fatto derivare la nullità dell’avviso di accertamento sottoscritto digitalmente per difetto di sottoscrizione.

2.2 Si pone, ai fini del decidere, la questione interpretativa dell’art. 2 CAD, comma 6, prima parte, nel testo vigente nel periodo dal 14 settembre 2016 al 26 gennaio 2018, secondo cui: “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, di ordine e sicurezza pubblica, difesa e sicurezza nazionale, polizia giudiziaria e polizia economico-finanziaria e consultazioni elettorali”.

L’Agenzia ricorrente ritiene che nella limitazione di cui alla suindicata disposizione non vadano inclusi gli avvisi di accertamento che pertanto, a decorrere dal 14 settembre 2016, sarebbero stati legittimamente emessi con la forma del documento informatico e sottoscritti con firma digitale.

Va premesso che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo e-IDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici.

Ai sensi dell’art. 40 CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. del 13 novembre 2014.

Posto che la regola generale è divenuta il ricorso ai documenti informatici, e le limitazioni l’eccezione, l’interpretazione dell’art. 2 CAD, comma 6, ratione temporis vigente, proposta dall’Agenzia delle Entrate merita di essere condivisa sulla base di una serie di valutazioni ermeneutiche sia di tipo letterale che sistematico.

Rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.

La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.

In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonchè di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza.

Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni.

Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed all’art. 54 e ss le rettifiche e gli accertamenti.

Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

2.3 Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicchè l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

Non da ultimo va evidenziato che l’interpretazione contraria proposta dalla CTR si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi.

La modifica apportata al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6, con l’inserimento del comma 6 che ha introdotto la possibilità della notifica a mezzo PEC degli avvisi di accertamento, tende ad una implementazione dell’utilizzo dei documenti informatici.

Il comma 6-bis, aggiunto all’art. 2 CAD, dal D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. e), ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” e rimette ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.

Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.

3. Alla ritenuta applicabilità del CAD consegue la legittimità della notifica di una copia analogica conforme ad un documento informatico.

3.1 Ai sensi dell’art. 23 CAD “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

Nella specie risulta incontestato, e comunque provato, che l’atto impositivo notificato in copia cartacea presentava l’attestazione di conformità all’originale e tanto è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017).

Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta.

Si ricorda che la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi è stata introdotta solo a decorrere dall’1 luglio 2017, a seguito dell’aggiunta al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, del comma 6, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6; l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità.

3.2 Si aggiunga che risulta agli atti che l’atto sia comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario: trova pertanto applicazione il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo. (Vedi tra le tante Cass. SU n. 7665 del 2016; n. 27561 e n. 24568 del 2018).

4. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R. della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione, che procederà all’esame degli ulteriori motivi di ricorso, ed anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, rinvia per l’ulteriore esame, e anche per le spese, alla C.T.R della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 22/10/2020) 21/01/2021, n. 1150

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 35888/2019 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elett.te domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

C.S., rapp.to e difeso dai Dott. Michele Morganti e Raffaele Marangoni, presso cui elett.te domicilia in Prato, alla via Baldinucci n. 41;

– intimato –

avverso la sentenza n. 713/10/19 della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, depositata in data 24/4/2019, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22 ottobre 2020 dalla Dott.ssa Milena d’Oriano;

udito per la ricorrente l’avv. Chiappiniello Giovanni che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Giacalone che ha concluso per l’accoglimento.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 713/10/19, depositata il 24 aprile 2019, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 456/1/17 della CTP di Livorno, con compensazione delle spese di lite.

Il giudice di appello, a conferma della decisione di primo grado, concludeva per il rigetto del gravame rilevando:

a) che il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento, emesso il 3-11-16 e notificato in data 15-11-16, con cui, a seguito della definitività di altro avviso di accertamento per un maggior reddito di impresa per l’anno 2013 emesso a carico della società ICLOS s.r.l., premessa la ristretta base azionaria, si imputava a C.S., socio al 24,5%, un maggior reddito di capitale in proporzione della quota di partecipazione agli utili;

b) che la Commissione di primo grado aveva accolto il ricorso, articolato su vari motivi formali e di merito, ritenendo fondata l’eccezione preliminare relativa alla carenza di valida sottoscrizione dell’avviso impugnato che, ritenuta l’inapplicabilità delle formalità di cui al Codice dell’Amministrazione Digitale, come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, non recava firma autografa bensì digitale e risultava notificato in copia cartacea anzichè a mezzo PEC;

c) che tale decisione era condivisibile, con assorbimento degli ulteriori motivi, in quanto: la firma a stampa ai sensi della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, era ammissibile solo per gli accertamenti emessi a seguito di procedure automatizzate; l’apposizione di una firma digitale ad un avviso di accertamento notificato prima del 27-1-2018 era causa di nullità dell’atto per difetto di sottoscrizione; solo per gli atti notificati a decorrere dall’1-7-2017 la combinazione firma digitale/notifica a mezzo PEC consentiva il rispetto della procedura informatica della normativa vigente ratione temporis.

2. Avverso la sentenza di appello l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, notificato a mezzo PEC il 19 novembre 2019, affidato a due motivi, e depositato memoria ex art. 378 c.p.c.; il contribuente rimaneva intimato.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo l’Agenzia censura la sentenza impugnata denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, degli artt. 2 e 23 del CAD, della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che le norme del Codice dell’Amministrazione Digitale vanno ritenute applicabili anche alle funzioni istituzionali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, applicabilità esclusa, ai sensi del suddetto codice, art. 2, comma 6, come modificato, a decorrere dal 14 settembre 2016, dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), solo per le “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”, da intendersi per quelle attività di controllo fiscale svolte dall’Agenzia e dalla Guardia di Finanza rappresentata dagli accessi, ispezioni e verifiche sulla cui base vengono emessi gli avvisi di accertamento; interpretazione confermata dall’ulteriore modifica dell’art. 2, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, che, mediante l’aggiunta del comma 6 bis, rendeva esplicita tale applicazione. Si rilevava altresì che la copia cartacea notificata al contribuente presentava l’attestazione di conformità prevista dall’art. 23 del CAD. 2. con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, dell’art. 23 CAD, dell’art. 137 c.p.c., commi 2 e 3, e dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che la possibilità di notificare a mezzo PEC anche gli atti impositivi era stata introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017, con l’inserimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 7, sicchè prima di tale data l’Agenzia aveva correttamente proceduto all’invio della copia analogica munita di attestazione di conformità e che, in ogni caso, ogni eventuale nullità della notifica doveva ritenersi sanata per il raggiungimento dello scopo, allorchè il contribuente era” comunque venuto a conoscenza dell’atto.

3. Il primo motivo è meritevole di accoglimento.

3.1 Questione controversa è la legittimità degli atti impositivi emessi dall’Agenzia delle Entrate in formato elettronico, e sottoscritti con firma digitale, nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6, (cd CAD – Codice dell’Amministrazione digitale), come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, sino alle ulteriori modifiche apportate allo stesso art. 2, comma 6, con l’aggiunta altresì del comma 6-bis, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. d) ed e), entrato in vigore dal 27 gennaio 2018.

Dalla ritenuta inapplicabilità del CAD, e quindi delle disposizioni in tema di firma digitale, la sentenza gravata ha fatto derivare la nullità dell’avviso di accertamento sottoscritto digitalmente per difetto di sottoscrizione.

3.2 Si pone, ai fini del decidere, la questione interpretativa dell’art. 2 del CAD, comma 6, prima parte, nel testo vigente nel periodo dal 14 settembre 2016 al 26 gennaio 2018, secondo cui: “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, di ordine e sicurezza pubblica, difesa e sicurezza nazionale, polizia giudiziaria e polizia economico-finanziaria e consultazioni elettorali” L’Agenzia ricorrente ritiene che nella limitazione di cui alla suindicata disposizione non vadano inclusi gli avvisi di accertamento che pertanto, a decorrere dal 14 settembre 2016, sarebbero stati legittimamente emessi con la forma del documento informatico e sottoscritti con firma digitale.

Va premesso che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrativa, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo e-IDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici.

Ai sensi dell’art. 40 del CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. del 13-11-2014.

Posto che la regola generale è divenuta il ricorso ai documenti informatici, e le limitazioni l’eccezione, l’interpretazione dell’art. 2 del CAD, comma 6, ratione temporis vigente, proposta dall’Agenzia delle Entrate merita di essere condivisa sulla base di una serie di valutazioni ermeneutiche sia di tipo letterale che sistematico.

Rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.

La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.

In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 dello stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonchè di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza.

Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni.

Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed agli artt. 54 e ss. le rettifiche e gli accertamenti.

Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

3.3 Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicchè l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

Non da ultimo va evidenziato che l’interpretazione contraria proposta dalla CTR si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi.

La modifica apportata al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6, con l’inserimento del comma 6 che ha introdotto la possibilità della notifica a mezzo PEC degli avvisi di accertamento, tende ad una implementazione dell’utilizzo dei documenti informatici.

Il comma 6-bis, aggiunto all’art. 2 del CAD dal D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. e), ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” e rimette ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.

Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.

4. Alla ritenuta applicabilità del CAD consegue l’accoglimento del secondo motivo, relativo alla legittimità della notifica di una copia analogica conforme ad un documento informatico.

4.1 Ai sensi dell’art. 23 del CAD “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

Nella specie risulta incontestato, e comunque provato, che l’atto impositivo notificato in copia cartacea presentava l’attestazione di conformità all’originale e tanto è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017).

Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta.

Si ricorda che la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi è stata introdotta solo a decorrere dall’1 luglio 2017, a seguito del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, aggiunta del comma 6, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6; l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità.

4.2 Si aggiunga che risulta agli atti che l’atto sia comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario: trova pertanto applicazione il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo. (Vedi tra le tante Cass. SU n. 7665 del 2016; n. 27561 e n. 24568 del 2018) 5. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R. della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione, che procederà all’esame degli ulteriori motivi di ricorso, ed anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, rinvia per l’ulteriore esame, e anche per le spese, alla C.T.R della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2021


Comm. trib. prov. Lazio Roma, Sez. XX, Sent., 16/12/2020, n. 10571

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI ROMA

VENTESIMA SEZIONE

riunita con l’intervento dei Signori:

CAPOZZI RAFFAELE – Presidente

ANTONIANI GINA – Relatore

VELLETTI MONICA – Giudice

ha emesso la seguente

ORDINANZA

– sul ricorso n. 4910/2019

spedito il 05/04/2019

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n. (…) IVA-ALIQUOTE 2018

contro:

AG. ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE ROMA 2

– avverso CARTELLA DI PAGAMENTO n. (…) IVA-ALIQUOTE 2018

contro:

AG.ENTRATE – RISCOSSIONE – ROMA

VIA GIUSEPPE GREZAR 14

proposto dal ricorrente:

E. S.R.L.

R. in data

difeso da:

PARISELLA MASSIMO

PIAZZA STROZZI, 30 00195 ROMA RM

Svolgimento del processo
La società E. s.r.l., C.F. (…), rappresentata e difesa come in atti, proponeva ricorso avverso la cartella di pagamento n. (…), notificata a mezzo pec dal’A.E.R. S.p.A. R. in data 7.01.2019 riportante la richiesta di imposte tributarie con la quale era stato intimato il pagamento di complessivi Euro 611.081,86.

La ricorrente sollevava, in via preliminare, la questione della nullità della notifica a mezzo pec dell’atto impugnato per violazione della normativa in materia di notifica degli atti a mezzo posta certificata come ampiamente esposto e, in sede di memoria contestava la nullità della notifica effettuata da indirizzo pec non ufficiale. Eccepiva, inoltre, l’illegittimità delle sanzioni iscritte a ruolo e nel merito, l’illegittimità della pretesa impositiva da parte dell’Ente impositore.

Con memoria telematica del 10.06.2019, si costituiva l’Agente della Riscossione eccependo, preliminarmente, l’omessa chiamata in causa dell’Ente impositore. Eccepiva il proprio difetto di legittimazione passiva in ordine alle eccezioni riguardanti l’attività dell’Ente impositore; l’infondatezza dell’eccepita illegittimità della notifica della cartella di pagamento a mezzo pec perché eventuali irregolarità erano state sanate ex art. 156 E 160 c.p.c.; sosteneva la legittimità della notifica della cartella di pagamento avvenuta a mezzo pec perché eseguita nel rispetto della normativa speciale regolante la specifica materia della riscossione dei tributi, come da referto che produceva in atti unito con l’estratto di ruolo della cartella di riferimento.

Concludeva per il rigetto del ricorso e vittoria di spese a carico della parte soccombente.

In data 8.08.2019 si costituiva in giudizio con intervento volontario ex art. 14 del D.Lgs. n. 546 del 1992, l’Agenzia delle Entrate DP II di Roma la quale, nel merito, affermava la legittimità dell’iscrizione a ruolo dell’imposta dichiarata e non versata e che le ragioni addotte dalla ricorrente erano infondate perché il mancato pagamento del debito della società M.N.R., debitrice della ricorrente, non era causa di forza maggiore per il mancato versamento dell’Iva dichiarata e non versata, stante anche l’assenza di prova attestante azioni di recupero delle somme nei confronti della sopra citata società. Concludeva con la richiesta di rigetto del ricorso e vittoria di spese.

In data 2.03.2020, la ricorrente presentava memoria di replica chiedendo termine per la notifica del ricorso all’Ente impositore e nel merito precisava che oggetto della controversia era l’applicazione delle sanzioni le quali, a dire della ricorrente, avrebbero dovute essere contestate alla società M.N.. Insisteva nelle eccezioni sollevate e ne chiedeva l’accoglimento. In data 14.02.2020 parte ricorrente depositava nomina di nuovo difensore.

La cartella di cui trattasi era stata notificata da “AVI Lazio notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it (cfr. copia allegata dall’AdER).

In data 2.11.2020, la ricorrente depositava memoria stante il deposito d’intervento volontario art.14 D.Lgs. n. 546 del 1992 dell’Agenzia delle Entrate. Nella memoria la ricorrente ripercorreva il succedersi delle circostanze e degli accadimenti che avrebbero causato la non tempestività del versamento IVA di cui si discuteva. A supporto depositava CTP asseverata e insisteva nella illegittimità delle sanzioni. Concludeva per l’accoglimento del ricorso, e per l’effetto dichiarare nullo e/o annullare l’atto impugnato, con ogni conseguenza di legge, considerando che l’Iva dovuta era stata interamente versata, con vittoria di spese ed onorari, e distrazione degli stessi a favore del difensore, che qui si dichiarava antistatario, ex art. 93 c.p.c.

All’udienza del 30.09.2020 Il Collegio rinviava la discussione del ricorso al 2.12.2020 dando termine alle parti fino al 15.11.2020 per deposito di memorie difensive.

In data 8.10.2020 la DP II di Roma presentava memoria sostenendo che dopo la costituzione in giudizio, la ricorrente provvedeva a versare tramite delega di pagamento F24 a saldo zero, la sola imposta IVA a debito in data 24.09.2020, ovvero pochi giorni prima dell’udienza presso la Commissione adita, fissata per il 30.09.2020 e rinviata al 02.12.2020.

Alla luce di questa operazione, l’Ufficio faceva presente che detta delega di pagamento, che tra l’altro non includeva le sanzioni per il mancato versamento dell’IVA in dichiarazione, non poteva essere considerata utile ai fini di una soluzione della controversia in quanto, in presenza di una cartella di pagamento (oggetto del presente ricorso), la controparte avrebbe dovuto effettuare il versamento direttamente all’Agente della Riscossione secondo le loro modalità e non con il modello F24. D’Altro canto voleva rappresentare che, trattandosi, come detto, di un F24 a saldo zero, la ricorrente poteva tranquillamente richiedere all’Ufficio l’annullamento della delega di pagamento.

Alla luce di quanto esposto, l’Ufficio riteneva che la cartella di pagamento doveva essere ancora considerata valida, in quanto, alla data del deposito della memoria, ancora non estinta.

Concludeva per il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente alle spese di giudizio.

In data 2.11.2020 la ricorrente presentava memoria con allegata relazione tecnica asseverata al fine di dimostrare e documentare la causa di forza maggiore sopravvenuta nel periodo d’imposta in contestazione e le contrazioni subite al fine di versare, anche se tardivamente l’imposta dichiarata e non versata. A tal fine chiedeva la non applicazione delle sanzioni non sussistendo colpa e/o dolo che avrebbero potuto orientare l’Ufficio per l’applicazione.

La data della trattazione è stata tempestivamente notificata alle parti costituite nel domicilio eletto, ai sensi di quanto previsto dall’art. 31 del D.Lgs. n. 546 del 1992, come verificato preliminarmente dalla Commissione.

A seguito della trattazione del ricorso il Collegio ha deciso come da dispositivo.

Motivi della decisione
In via preliminare deve essere esaminata la validità della notifica della cartella di pagamento impugnata stante l’eccepita nullità da parte della società ricorrente la quale, oltre ai vizi propri eccepiti in sede di ricorso, con la memoria di replica, effettuata la verifica sulla documentazione prodotta dall’AdER, aveva eccepito anche la nullità della notifica a mezzo pec non istituzionale.

La Corte di Cassazione a Sezioni Unite, ha stabilito che anche per le notifiche a mezzo pec si applica il condiviso e consolidato orientamento giurisprudenza della stessa Corte, secondo cui “il principio, sancito in via generale dall’articolo 156 del codice di rito, secondo cui la nullità non può essere mai pronunciata se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato, vale anche per le notificazioni, anche in relazione alle quali – pertanto – la nullità non può essere dichiarata tutte le volte che l’atto, malgrado l’irritualità della notificazione, sia venuto a conoscenza del destinatario” (Cass., sez. lav. n. 13857 del 2014;). Il risultato dell’effettiva conoscenza dell’atto che consegue alla consegna telematica dello stesso nel luogo virtuale, ovverosia l’indirizzo di PEC espressamente a tale fine indicato dalla parte nell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, determina infatti il raggiungimento dello stesso scopo perseguito dalla previsione legale del ricorso alla PEC. La Corte ha, inoltre, precisato che : ” è inammissibile l’eccezione con la quale si lamenti un mero vizio procedimentale, senza prospettare anche le ragioni per le quali l’erronea applicazione della regola processuale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o possa comportare altro pregiudizio per la decisione finale della Corte”. Corte Cassazione SS. UU. n. 7665/2016.

Ammettendo la legittimità della notifica della cartella di pagamento a mezzo pec anche con estensione diversa da quella voluta dal legislatore, tale notifica deve essere, comunque, ritenuta illegittima nei confronti della ricorrente dacché, come si evince dall’allegata relata di notifica, era proveniente da notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it, indirizzo PEC non presente nei pubblici registri validi ex lege ai fini in esame.

In proposito, infatti, va qui ribadito, a seguito della produzione documentale di controparte, che è insanabilmente viziata e nulla tale notifica, in quanto l’Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non ha utilizzato la PEC attribuita all’Agenzia delle Entrate – Riscossione, di cui all’elenco ufficiale “IPA” (Indice delle Pubbliche Amministrazioni), ossia protocollo@pec.agenziariscossione.gov.it, bensì un ignoto indirizzo notifica.acc.lazio@pec.agenziariscossione.gov.it che la giurisprudenza di merito e di legittimità ha già ritenuto irrituale e illegittima.

In tema di notifica a mezzo PEC, d’altronde, l’art. 16-ter del D.L. n. 179 del 2012, convertito in L. n. 221 del 2012 recita: “a decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dagli articoli 4 e 16, comma 12, del presente decreto”, ovvero “IPA”, “Reginde”, “Inipec”.

Detta illegittimità – identica a quella del caso de quo – è stata rilevata proprio dalla Commissione Tributaria Provinciale Roma – Sez. 38 -Sentenza 601/2020 del 17.01.2020: “”in effetti l’ufficio ha depositato in atti copia della relata della pec del 15/2/2018 con cui ha notificato dall’indirizzo PEC notifica.acc.lazio@pec. agenziariscossione.gov.it” la cartella per cui è lite.

Peraltro detto indirizzo non è oggettivamente e con certezza riferibile all’A.E.R., non risultando nell’elenco del Reginde (Registro Generale degli Indirizzi Elettronici gestito dal Ministero della Giustizia) – né nella pagina ufficiale del sito internet di Agenzia Entrate Riscossione, né nella pagina della CCIAA.

La notifica della cartella esattoriale è insanabilmente nulla (nella forma giuridica della nullità), in quanto l’Ente della Riscossione, in qualità di soggetto notificante, non aveva utilizzato la PEC attribuita all’Agenzia delle Entrate – Riscossione.

In conclusione, dai documenti versati in atti è emerso il fatto storico inconfutabile che la cartella di pagamento è state trasmesse da un indirizzo PEC differente da quello contenuto nel pubblico registro (IPA) per la notifica dei provvedimenti esattivi di natura tributaria; tale scenario risulta in contrasto con la richiamata normativa, pertanto la contestata notifica deve ritenersi priva di effetti giuridici e di conseguenza gli atti impugnati sono nulli”.

La giurisprudenza di merito citata dalla ricorrente è stata ribadita dalla Suprema Corte in materia di notifica di atti civili, con la recente ordinanza n. 17346/19, dove ha osservato che la notifica effettuata con modalità telematiche è da considerarsi viziata, se il notificante utilizza il proprio “indirizzo di posta elettronica certificata” non risultante da pubblichi elenchi, a mente dell’art. 3-bis, L. n. 53 del 1994.

L’AdER n sede di memoria di costituzione in giudizio non ha documentato la legittimità della notifica dell’atto impugnato nei modi e nelle forme previste dal legislatore ma ha solo depositato la copia dell’avvenuta spedizione e consegna dell’atto nell’indirizzo pec del contribuente.

Ritiene il Collegio che è da disattendere l’invocata sanatoria da parte dell’AdER ex art. 156 c.p.c. della notifica dell’atto opposto perché la notifica a mezzo PEC da sito non ufficiale degli atti tributari sostanziali e processuali è inesistente e come tale non suscettibile di alcuna sanatoria.

Dalla documentazione da questa prodotta a sostegno della propria tesi, ovvero che l’atto sarebbe stato notificato all’indirizzo pec indicato dal contribuente, emerge chiaramente che l’eccezione non è quella a cui ha risposto bensì dimostra che il notificante non ha utilizzato il proprio sito ufficiale ovvero protocollo@pec.agenziaricossione.gov.it.

Da quanto sopra ne consegue che l’eccezione di nullità della notifica della cartella di pagamento sopra esaminata è pregiudiziale/preliminare ed assorbente di ogni altra questione sottoposta all’esame di questo Collegio. Il ricorso deve essere accolto. Le spese del giudizio, seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo

P.Q.M.
La Commissione accoglie il ricorso stante la nullità della notifica della cartella di pagamento.

Condanna l’AdER al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 1.600,00 oltre accessori, in favore della ricorrente.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2020.