Cass. civ. Sez. I, 13-07-2007, n. 15673

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

BANCA DELLE MARCHE S.P.A., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA MARIA CRISTINA 8, presso l’avvocato GOBBI GOFFREDO, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.N., R.M.R., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 132, presso l’avvocato CIGLIANO FRANCESCO, che li rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 194/03 della Corte d’Appello di ANCONA, depositata il 15/03/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2007 dal Consigliere Dott. Aldo CECCHERINI;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato GOFFREDO GOBBI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione (ed in particolare per l’accoglimento del 2^ motivo).

Svolgimento del processo

Con ricorso in data 2 maggio 1995, la Banca delle Marche s.p.a (in precedenza Cassa di risparmio delle Marche Ca.Ri.Ma. s.p.a., ed ancor prima Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata) chiese al Presidente del Tribunale di Macerata l’emissione di decreto ingiuntivo per la somma di L. 32.161.965, oltre agli accessori a carico dei signori A.N. e R.M.R., entrambi residenti in Roma.

Questi ultimi si opposero, sollevando in via pregiudiziale un’eccezione d’incompetenza territoriale del foro di Macerata. Per quel che qui interessa, essi dedussero che l’art. 20 della lettera – contratto del 26 giugno 1992 aveva bensì previsto una deroga alla competenza territoriale, specificamente approvata per iscritto, a favore “della giurisdizione nella quale trovasi la direzione generale della Cassa”, a quel tempo in Macerata; tuttavia, a seguito della fusione della Ca.Ri.Ma. s.p.a. con la Cassa di risparmio di Pesaro s.p.a. la direzione generale era stata fissata in Ancona.

La banca resistette all’opposizione, e il Tribunale di Macerata, con sentenza 19 febbraio 1999, respinta l’eccezione d’incompetenza territoriale, rigettò l’opposizione, osservando che, dopo la fusione delle due banche, erano state istituite in Pesaro e in Macerata sedi principali e direzioni compartimentali; e che nella specie trovava applicazione l’art. 19 c.p.c., relativo al foro delle persone giuridiche.

Contro la sentenza, notificata il 20 ottobre 1999, i soccombenti notificarono atto di appello a mezzo posta il 22 novembre 1999, avendolo consegnato all’ufficiale giudiziario il 19 novembre 1999.

La Corte d’appello di Ancona, con sentenza 15 marzo 2003, respinse l’eccezione di tardività dell’appello, sollevata dalla banca appellata. Sulla questione di competenza, la corte premise che essa doveva essere determinata in base allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, quando la sede della direzione generale della Banca delle Marche s.p.a. non era più in Macerata, ma in Ancona; e che il foro generale delle persone giuridiche è utilizzabile ai fini della determinazione della competenza territoriale quando le persone medesime sono convenute, e non quando sono attrici, come nel presente giudizio. Poiché nella fattispecie era documentato e pacifico che il contratto era stato stipulato in Roma, dove gli appellanti avevano la loro residenza; e che l’obbligazione dedotta in giudizio doveva essere adempiuta in Ancona, sede della direzione generale della banca, o in Roma, sede dello stabilimento, la corte dichiarò l’incompetenza del Tribunale di Macerata e la competenza territoriale alternativa dei tribunali di Roma e di Ancona, e revocò il decreto ingiuntivo, condannando l’appellata al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.

Per la cassazione della sentenza, notificata il 15 maggio 2003, ricorre la banca con atto notificato il 27 giugno 2003, con tre motivi d’impugnazione, illustrati anche con memoria.

Gli intimati resistono con controricorso notificato il 18 settembre 2003.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione della L. n. 890 del 1982, art. 4 e la falsa applicazione della L. n. 87 del 1953, art. 30. Si deduce che la notificazione dell’appello proposto dai signori A. e R., ancorché richiesta tempestivamente, era stata eseguita a mezzo posta, con la consegna al destinatario, il 22 novembre 1999, sebbene il 19 novembre 1999 fosse scaduto il termine utile per l’impugnazione, divenuta conseguentemente inammissibile. Contrariamente al giudizio della corte del merito, la dichiarazione d’incostituzionalità della L. n. 890 del 1982, art. 4 pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 novembre 2002 n. 477, sebbene applicabile con efficacia retroattiva alle situazioni anteriormente verificatesi, in questo caso non poteva valere ad impedire l’inammissibilità dell’appello, perché era intervenuta dopo che la decadenza si era già verificata. Nella memoria depositata per l’udienza, la ricorrente deduce che l’appello, se fosse stato deciso tempestivamente, e dunque prima della citata sentenza della Corte costituzionale, sarebbe stato dichiarato inammissibile, e che non può farsi dipendere l’esito della causa dalla durata del processo.

Il motivo è infondato. All’ultima osservazione riportata si deve opporre che il giudice del gravame, dovendo pronunciarsi (d’ufficio) sulla tempestività dell’appello, notificato a mezzo posta dopo la scadenza del termine di legge, nonostante la diligente e tempestiva consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, avrebbe dovuto sospendere il giudizio, e sottoporre alla corte costituzionale la questione di legittimità della norma applicabile, decidendo poi in conformità.

Sulla questione dell’applicabilità della sentenza della Corte costituzionale n. 447/2002, peraltro, questa corte si è già pronunciata, affermando che, in considerazione dell’effetto retroattivo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma processuale comporta che – fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da detta norma sono “sub iudice” – la conformità dell’atto al modello legale debba essere verificata tenendo conto della modificazione della disposizione legislativa conseguente alla pronuncia di illegittimità indipendentemente dal tempo in cui l’atto è stato compiuto, l’unico limite essendo costituito dalle situazioni consolidate per essersi il rapporto già esaurito; pertanto, a seguito della (successiva) sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 26 novembre 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 149 cod. proc. civ. e L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevedono che la notificazione si perfeziona per il notificante alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella antecedente di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, deve ritenersi tempestiva la notificazione del ricorso per Cassazione che sia stato consegnato all’ufficiale giudiziario in data anteriore al decorso del termine annuale previsto dall’art. 327 cod. proc. civ., essendo in proposito irrilevante che la ricezione da parte del destinatario sia avvenuta successivamente (Cass. 16 marzo 2006 n. 5853).

Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, insieme al difetto di motivazione, la falsa applicazione o la violazione dell’art. 5 c.p.c., e la violazione degli artt. 1362, 1346 e 1371 c.c.. La banca ricorrente sostiene che la questione da risolvere era quella dell’interpretazione della clausola contenuta nell’art. 20 del contratto, che attribuiva la competenza a giudicare della controversie tra le parti al foro del luogo nel quale si trovava la direzione generale della banca medesima. Secondo la ricorrente, l’applicazione delle norme sull’interpretazione dei contratti avrebbe porta-to alla conclusione che “le parti, con quella clausola, avevano fissato inderogabilmente che il foro derogabile avrebbe potuto esser solo quello di Macerata”.

Il motivo devolve alla corte una questione di osservanza del canone legale d’interpretazione dei contratti, per il quale nell’interpretazione della clausola contrattuale di deroga alla competenza territoriale deve indagarsi sulla comune intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale delle parole. Tuttavia, il problema della corretta interpretazione dell’art. 20 del contratto (quello contenente la deroga alla competenza territoriale a favore del foro nel quale “trovasi la direzione generale della Cassa”) – e, precisamente, la necessità di intenderlo, in conformità della supposta comune intenzione delle parti, come rinvio non già formale (alla sede della direzione generale della cassa, da verificarsi al momento dell’instaurazione del processo) bensì recettizio (dello statuto della banca al momento della stipulazione) e quindi equivalente alla puntuale indicazione del foro di Macerata – è questione sollevata per la prima volta nel presente giudizio di legittimità. La ricorrente, mentre censura inutilmente il richiamo della corte d’appello all’art. 5 c.p.c. (che ha il solo scopo di identificare – del resto esattamente – il momento di riferimento per la determinazione della competenza territoriale) non è in grado di indicare il passo della sentenza impugnata nel quale la denunciata violazione degli artt. 1362 e 1371 c.c., dovrebbe riscontrarsi: la questione era estranea al dibattito processuale, e la stessa banca, costituendosi nel giudizio di appello, aveva difeso la competenza di Macerata assumendo la permanenza di essa dopo la fusione (e lo spostamento della direzione generale della banca) soltanto in virtù dell’art. 2 dell’atto di fusione, che prevedeva l’istituzione “di sedi principali e divisioni compartimentali”. Il motivo è, pertanto, inammissibile.

Con il terzo motivo, vertente sulla questione di competenza, si denuncia la violazione dell’art. 30 c.p.c. e l’omessa pronuncia sul un punto decisivo. In primo grado la banca aveva anche dedotto che gli opponenti avevano eletto domicilio presso la segreteria del Comune di Macerata, ciò che consentiva di citarli davanti al tribunale di quella città, quale luogo del domicilio eletto. A nulla rileverebbe che l’eccezione non era stata riproposta in appello, perché non si trattava, di eccezione in senso tecnico, ma di un’argomentazione che il giudice doveva conoscere d’ufficio.

Premesso che per i vizi di natura processuale, qual è quello relativo alla statuizione sulla competenza, non può farsi questione di omessa pronuncia art. 112 c.p.c.: l’omessa pronuncia equivalendo in questi casi ad implicito rigetto), bensì soltanto di violazione di norme di diritto, nell’accertamento della quale la corte è giudice anche del fatto processuale, il motivo – pur ammissibile, perché la regola che impone di ritenere abbandonate le eccezioni non riproposte nel giudizio di gravame dall’appellato non si applica laddove, come nel caso di specie, la questione debba essere esaminata d’ufficio dal giudice – è da respingere nel merito.

Deve, infatti, ritenersi nulla, e conseguentemente inidonea anche a giustificare l’applicazione di uno specifico criterio di competenza territoriale a norma dell’art. 30 c.p.c., la clausola contrattuale con la quale i clienti della banca avevano eletto domicilio presso il Comune di Macerata. Vero è che l’elezione di domicilio speciale può essere validamente fatta, secondo la regola stabilita nell’art. 141 c.p.c., anche in mancanza di un rapporto tra il domiciliatario e l’autore dell’elezione concernente l’onere di far pervenire a quest’ultimo l’atto notificato (Cass. 19 maggio 1972 n. 1555); e che, essendo l’elezione di domicilio un atto giuridico unilaterale idoneo a produrre i suoi effetti indipendentemente dal consenso o dall’accettazione del domiciliatario (Cass. 28 gennaio 2003 n. 1259; 3 giugno 1995 n. 6280), l’altro contraente può legittimamente fare affidamento sull’elezione di domicilio dichiarata nel contratto, anche in assenza di quel rapporto. Ma tale regola non soccorre quando l’elezione di domicilio, per la notificazione di futuri atti giudiziari sia fatta presso una pubblica amministrazione che, in mancanza di una speciale norma di legge, né può ricevere atti per conto di privati cittadini, né può addossarsi la cura del loro recapito all’interessato. In quest’ultimo caso, al raggiungimento dello scopo dell’elezione di domicilio non si frappone un ostacolo di fatto, destinato a rimanere confinato nella sfera dei rapporti tra l’autore dell’elezione e il domiciliatario eletto, bensì un’impossibilità di diritto, da ritenere conosciuta da entrambe le parti del contratto (nel caso dell’elezione di domicilio presso la casa comunale, si deve considerare che le competenze di questi enti sono determinate dalla legge e dall’autonomia statutaria; quest’ultima, tuttavia, nei limiti stabiliti dalla legge stessa); e la clausola in questione viene conseguentemente a configurarsi come una dispensa anticipata dalla regolare instaurazione del contraddittorio nelle future cause nascenti da quel contratto. Questo esito è incompatibile con i principi generali dell’ordinamento, e in particolare con le norme costituzionali sul diritto di difesa e sul giusto processo, le quali subordinano la disponibilità del processo per le parti (e con ciò l’esercizio concreto del diritto di difesa) alla preventiva instaurazione del contraddittorio. Viola pertanto il principio indisponibile del contraddittorio la pattuizione che l’atto introduttivo del giudizio potrà essere notificato presso una pubblica amministrazione, dalle cui competenze esula la cura degli interessi privati della parte che elegge domicilio.

In conclusione il ricorso deve esser respinto. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte la corte rigetta il ricorso e condanna la Banca delle Marche s.p.a. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 1.300,00, di cui Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese processuali e agli accessori come per legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 29 maggio 2007. Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2007


Cass. civ. Sez. II, (ud. 23-02-2007) 31-05-2007, n. 12834

Contravvenzioni, circolazione stradale, avviso bonario, fonti, oblazione comunale

… con delibera 28/04, il Comune di Barletta aveva stabilito, che, in caso di omessa esposizione della ricevuta di pagamento, prima dell’applicazione della prescritta sanzione amministrativa, fosse consentito al trasgressore l’estinzione della violazione col pagamento di euro 6 entro 5 giorni dal rilascio del preavviso, nella specie apposto sul parabrezza, e ritenuto “di per sé sufficiente ad integrare la sua avvenuta conoscenza” della contestazione; …

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere

Dott. ATRIPALDI Umberto – rel. Consigliere

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA NIZZA N. 45, presso lo studio dell’avvocato BORROMEO CARLO, rappresentata e difesa dall’avvocato GRILLO FRANCESCO, (Avviso postale VIA ROMA N. 11 –

70051 BARLETTA -), giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BARLETTA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’Avvocato PANARITI BENITO, che lo rappresenta e difende giusta mandato in calce al ricorso notificato;

– resistente –

avverso la sentenza n. 524/05 del Giudice di pace di BARLETTA del 2/11/05, depositata il 12/11/05;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio il 23/02/07 dal Consigliere Dott. Umberto ATRIPALDI;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. CARLO DESTRO che ha concluso per il rinvio della trattazione del ricorso alla pubblica udienza.

Svolgimento del processo
D.M. ha impugnato, nei confronti del Comune di Barletta, con ricorso notificato il 17.1.06, la sentenza del Giudice di Pace, depositata il 12.11.05, che le aveva rigettato l’opposizione al verbale di contestazione della violazione dell’art. 157 C.d.S., comma 6 – 8 per “sosta del veicolo in zona di pagamento senza l’esposizione della ricevuta”.

Lamenta: 1) l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa “l’avvenuta conoscenza della contestazione da parte del proprietario dell’infrazione”, dato che, con Delib. n. 28 del 2004, il Comune di Barletta aveva stabilito, che, in caso di omessa esposizione della ricevuta di pagamento, prima dell’applicazione della prescritta sanzione amministrativa, fosse consentito al trasgressore l’estinzione della violazione col pagamento di Euro 6,00 entro 5 giorni dal rilascio del preavviso, nella specie apposto sul parabrezza, e ritenuto “di per sè sufficiente ad integrare la sua avvenuta conoscenza” della contestazione; 2) la violazione della Delib. comunale n. 28 del 2004, che prescrive “opportune modalità che permettano all’utente di sanare la propria situazione”, dato che l’apposizione di un avviso sul parabrezza non poteva considerarsi equipollente di una notificazione; nonchè la violazione dell’art. 3 Cost., attesa l’evidente discriminazione fra cittadino fortunato, cui viene fatta la contestazione immediata e sfortunato, non presente sul posto.

Il Comune non resiste.

Attivata la procedura ex art. 375 c.p.c., il P.G. ha chiesto la trattazione del ricorso in P.U..

Motivi della decisione
Il ricorso è manifestamente infondato per l’assorbente ragione che il potere sanzionatorio delle violazioni al C.d.S. e la sua regolazione anche nel momento applicativo, è disciplinato direttamente dalle norme del D.Lgs. n. 285 del 1992, aventi forza di legge;

e che, quindi, secondo il principio gerarchico delle fondi, non possono certo essere derogate da delibere comunali che, come nella verificatasi ipotesi”, stabiliscano una sorta di “oblazione”, in alcun modo prevista o autorizzata dal legislatore; esulando del tutto dalla previsione dell’art. 7 C.d.S., richiamato nella menzionata delibera, il profilo sanzionatorio delle violazioni; e dovendosi perciò escludere che sussista in forza dello stesso qualsiasi delega o autorizzazione in tal senso a favore dei Comuni.

Il ricorso va pertanto rigettato.

L’omessa costituzione dell’intimato, esonera dalla liquidazione delle spese.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2007


Cass. civ. Sez. I, (ud. 15-02-2007) 25-05-2007, n. 12311

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MUSIS Rosario – Presidente

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. GIULIANI Paolo – Consigliere

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.A.O., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Cavour n. 17, presso lo studio dell’Avv. TERRA Massimo, che lo rappresenta e difende, unitamente all’Avv. Fulvio Castrusini, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CARROZZERIA ZANON ANTONIMO, in persona del legale rappresentante, domiciliata in Roma, Lungotevere Arnaldo da Brescia n. 9, presso lo studio dell’Avv. LEONE Arturo, che la rappresenta e difende, unitamente all’Avv. Gabriella Terziari, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza del Tribunale di Bassano del Grappa depositata il 19 giugno 2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 15 febbraio 2007 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

udito per il ricorrente l’Avv. Massimo Terra, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avv. Andrea G. Ligi, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 15 maggio 2000, il Giudice di Pace di Bassano del Grappa respingeva l’opposizione proposta da G.A. O., ai sensi dell’art. 650 cod. proc. civ., avverso il Decreto Ingiuntivo emesso nei suoi confronti su istanza della Carrozzeria Zanon. Il G. impugnava tale sentenza deducendo in primo luogo l’erroneità della decisione con cui il Giudice di Pace aveva ritenuto regolare la notifica del ricorso per decreto ingiuntivo e del pedissequo decreto, e con-seguentemente la tardività dell’opposizione. Sosteneva, infatti l’opponente, che non sussistevano i presupposti per procedere alla notifica ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, occorrendo invece applicare la procedura ex art. 140 c.p.c.. L’opponente contestava anche l’an e il quantum della pretesa creditizia azionata in via monitoria.

Il Tribunale di Bassano del Grappa rigettava l’appello.

Quanto alla eccepita irregolarità della notificazione, il Giudice d’appello rilevava che essa era stata eseguita ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, e che nella relata si leggeva: “anzi non potuto notificare in quanto ivi recatomi all’indirizzo in atti indicato rinvengo il di lui padre Sig. G.; lo stesso mi dichiara che il figlio da tempo si è trasferito ma ignora dove reperirlo ad un nuovo indirizzo o recapito stante il non buon rapporto esistente tra i due”. Osservava quindi che, per poter procedere alla notifica ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., occorre in primo luogo che il destinatario dell’atto si sia trasferito dal luogo nel quale risulta risiedere in base ai registri anagrafici (il che comporta che l’ufficiale giudiziario debba recarsi presso tale luogo, e che lo stesso sia individuato). Nella specie, rilevava il Tribunale, risultava accertato che la residenza conosciuta dell’opponente era in strada (OMISSIS) e che presso tale indirizzo effettivamente l’ufficiale giudiziario si era recato, rinvenendovi una persona che, qualificatasi come il padre del G., gli aveva riferito del trasferimento di quest’ultimo in luogo sconosciuto.

Ciò posto, il Tribunale riteneva infondate le doglianze dell’appellante in ordine all’operato dell’ufficiale giudiziario, per avere questi omesso di verificare presso l’ufficio anagrafe del Comune di Bassano del Grappa se vi fossero state annotazioni relative ad una sua nuova residenza, in quanto le risultanze ufficiali disponibili evidenziavano che il G. risiedeva proprio in strada (OMISSIS). Non era quindi in discussione il fatto che il destinatario della notificazione risiedesse ufficialmente presso tale indirizzo e che le risultanze anagrafiche inducessero l’ufficiale giudiziario a tentare di ivi eseguire la notificazione. Le indagini esperite dall’ufficiale giudiziario, peraltro, dovevano ritenersi rispondenti al canone della dovuta diligenza, giacchè egli aveva rinvenuto In loco una persona qualificatasi come padre del destinatario in assenza di elementi tali da poter anche far soltanto presumere che la sua presenza fosse abusiva (non essendo neanche state dedotte istanze istruttorie in tal senso) e che tale potesse essere percepita dall’ufficiale giudiziario; legittimamente, pertanto, quest’ultimo aveva fatto affidamento sulle dichiarazioni in questione, con la conseguenza che la notificazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, doveva essere ritenuta corretta.

Quanto alle istanze istruttorie, il Tribunale dichiarava la inammissibilità della querela di falso proposta dall’appellante, sia perchè proposta tardivamente solo unitamente alla comparsa conclusionale, sia perché la discrasia censurata non risultava assoggettabile a querela di falso, ma alle normali regole probatorie.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso G.A. O. sulla base di sette motivi, illustrati da memoria; resiste, con controricorso, la Carrozzeria Zanon Antonio.

Motivi della decisione
Deve preliminarmente dichiararsi la irricevibilità dei documenti allegati alla memoria ex art. 378 cod. proc. civ., trattandosi di documenti diversi da quelli dei quali, ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., è consentita la produzione nel giudizio di legittimità.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 139, 140 e 143 cod. proc. civ.. Premesso di non essersi mai trasferito dalla propria residenza, in Via (OMISSIS) in (OMISSIS), ove era stata tentata la notifica, il ricorrente sostiene la insussistenza dei presupposti perchè l’ufficiale giudiziario potesse procedere ad una notificazione ex art. 143 cod. proc. civ., anzichè ex art. 140 c.p.c., peraltro senza assumere alcuna attendibile informazione, senza essere in possesso del certificato anagrafico del destinatario e senza avere ricevuto una richiesta in tal senso da parte del richiedente la notificazione. Infatti, non poteva ritenersi che la dichiarazione riferita al Sig. G. costituisse rifiuto della ricezione dell’atto nè impossibilità di reperire altrove il destinatario, che aveva comunque diritto a ricevere la comunicazione del deposito nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c., e non in quelle dell’art. 143 c.p.c.. Nel primo caso, l’ufficiale giudiziario avrebbe avuto l’onere di consegnare copia dell’ingiunzione al soggetto rinvenuto in loco dandone rituale notizia al destinatario mediante lettera raccomandata A.R.; nel secondo caso, invece, l’ufficiale giudiziario avrebbe dovuto accertare, anche tramite soggetti estranei, l’effettivo luogo di residenza del destinatario, usando la normale diligenza prevista dalla legge e il comune buon senso. Del resto, l’asserita non conoscenza, da parte del soggetto rinvenuto in loco, qualificato come padre del destinatario, non poteva costituire in alcun modo impossibilità assoluta di reperire il destinatario dell’atto.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 650 cod. proc. civ., in quanto sussistevano i presupposti per poter ritenere ammissibile l’opposizione tardiva, vertendosi in ipotesi di notifica nulla, inefficace e giuridicamente inesistente. Quand’anche poi si volesse ritenere regolare la notificazione, si verterebbe comunque nell’ipotesi di caso fortuito o forza maggiore, non essendo certamente imputabili ad esso ricorrente le mendaci dichiarazioni assertivamente raccolte o, più probabilmente, inventate di sana pianta dall’ufficiale giudiziario. Del resto, conclude il ricorrente, l’irregolarità della notifica di cui all’art. 650 cod. proc. civ., va intesa in senso ampio, come una violazione delle norme che regolano le notificazioni, anche se non produttiva della nullità della stessa.

Con il terzo motivo il G. deduce la nullità della sentenza ex artt. 50 quater, 158, 161 cod. proc. civ., per invalida costituzione del Giudice unico e omesso intervento del P.M., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4. Il Giudice monocratico non avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità o meno della querela di falso, trattandosi di causa devoluta alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale ex artt. 50 bis cod. proc. civ. e art. 48 c.p.c., comma 2, ordinamento giudiziario. Anche la inammissibilità della querela, quindi avrebbe dovuto essere pronunciata dal collegio, anche in applicazione dell’art. 281 nonies cod. proc. civ.. Il G.U. aveva l’obbligo di rimettere la causa al collegio provvedendo ai sensi degli artt. 187, 188 e 189. Inoltre, osserva il ricorrente, non è stata fatta alcuna comunicazione al P.M. onde consentirgli di conoscere la causa e di svolgere le proprie autonome determinazioni.

Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 221 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5. La censura si riferisce alla statuizione della sentenza impugnata in ordine alla tardività della querela di falso, proposta dopo che il Giudice aveva disatteso le istanze istruttorie volte a provare l’irregolarità della notificazione e la falsità delle attestazioni riguardanti le attività assertivamente compiute dall’ufficiale giudiziario. Il Giudice contraddittoriamente avrebbe, da un lato, evidenziato la correttezza della soluzione di ritenere possibile provare per testi le falsità relative alle circostanze apprese dall’ufficiale giudiziario, e, dall’altro, sostenuto che la discrasia censurata non sarebbe assoggettatile a querela di falso, ma alle normali regole probatorie. Errata sarebbe poi la statuizione di tardività, posto che la querela di falso può essere proposta in qualsiasi stato e grado del giudizio, finchè la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato.

Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia la violazione delle norme in materia di ammissibilità dei mezzi di prova, omesso esame delle risultanze documentali e contraddittoria e/o erronea valutazione delle prove, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5. In sostanza il ricorrente si duole della violazione del suo diritto alla prova.

Con il sesto motivo, il G. lamenta omessa e/o carente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 4 e 5. La sentenza impugnata troverebbe fondamento sull’erronea supposizione di fatti e circostanze la cui verità è incontrastabilmente esclusa dalle risultanze probatorie, e cioè sul fatto che esso ricorrente sarebbe stato irreperibile presso la propria residenza, perchè trasferito in luogo ignoto, e che sarebbe stato debitore delle somme vantate dalla parte intimante. Su tali circostanze difetterebbe la motivazione.

Con il settimo motivo, il G. deduce “falsità della relata, ovvero inutilizzabilità, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 4”. La sentenza è stata emessa sulla base di una notificazione giuridicamente inesistente, la cui nullità e falsità ideologica risulta dalle indagini svolte in sede penale.

Da ultimo, il G. propone, sottoscrivendo il ricorso per Cassazione, querela di falso in ordine alla relazione di notifica del decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti, in merito alle attività assertivamente compiute dall’ufficiale giudiziario presso l’abitazione di Via (OMISSIS) in (OMISSIS), e alle pretese dichiarazioni dallo stesso attribuite a tale sig. G., circa la irreperibilità e il non meglio precisato trasferimento di residenza da parte di esso ricorrente.

Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.

La questione centrale del presente giudizio, pur nella varietà delle prospettazioni svolte dal ricorrente nei numerosi motivi di ricorso, è quella della ritualità o meno della notificazione del decreto ingiuntivo, avverso il quale il ricorrente ha proposto opposizione tardiva.

La sentenza impugnata ha ritenuto detta notifica rituale, rilevando come l’Ufficiale giudiziario abbia, con la necessaria diligenza, proceduto ad accertare che, nel luogo ove il destinatario della notificazione risultava residente, lo stesso non era reperibile e ad escludere altresì che potesse essere conosciuto il luogo della nuova residenza. La ritualità di tale notificazione è stata desunta dal rilievo che l’ufficiale giudiziario rinvenne presso la residenza anagrafica del ricorrente una persona che, qualificandosi come padre di quest’ultimo, riferì che il ricorrente stesso si era da tempo trasferito e che egli ignorava ove reperirlo. Una simile circostanza è stata contrastata dal ricorrente, il quale non solo ha dedotto di essere sempre stato residente nel luogo ove era stata effettuata la notificazione, ma ha altresì escluso che la persona che ha reso all’ufficiale giudiziario la dichiarazione riportata nella relata di notifica fosse il proprio padre.

In relazione a tale situazione, occorre rilevare che correttamente il Tribunale di Bassano del Grappa ha escluso che fosse ammissibile la proposta querela di falso, e ciò, prima ancora che per la tardività della deduzione istruttoria, per la non esperibilità di detto rimedio con riferimento al contenuto delle dichiarazioni che il pubblico ufficiale riferisce essergli state fatte da terzi. Nella giurisprudenza di questa Corte è saldo il principio secondo cui l’efficacia probatoria che l’art. 2700 cod. civ., riconosce all’atto pubblico (che fa prova piena, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonchè delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che questi dichiari avvenuti in sua presenza), non si estende al contenuto sostanziale delle dichiarazioni rese dalle parti; e perciò detta fede privilegiata non si estende al contenuto sostanziale e, in tema di notifica di atti giudiziari, alla veridicità delle dichiarazioni rese dal consegnatario dell’atto circa le qualità o le condizioni personali del destinatario della notifica, quali appunto la situazione di convivenza, quando questa non è frutto di indagini o accertamenti compiuti dall’ufficiale giudiziario. In tale ipotesi è perciò ammessa la prova contraria da parte dell’interessato, senza necessità di ricorrere alla querela di falso al fine di dimostrare che la predetta situazione non ha corrispondenza con la realtà (Cass., S.U., n. 6635 del 1993). Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento a dichiarazioni, quali quelle riportate nella relata di notifica, ricevute dall’ufficiale giudiziario e tali da indurlo, proprio a causa del loro contenuto, a concludere la propria attività notificatoria con una relata negativa.

Correttamente, dunque, il Tribunale di Bassano del Grappa ha escluso l’ammissibilità della proposta querela di falso sulla base del rilievo che le circostanze riferite all’ufficiale giudiziario erano suscettibili di prova contraria. E tuttavia, il Giudice d’appello non ha ammesso le prove che il ricorrente aveva dedotto al fine di dimostrare la non veridicità delle dichiarazioni fatte da un terzo all’ufficiale giudiziario, da questi riferite nella relata di notifica e ritenute idonee a giustificare la notificazione nelle forme dell’art. 143 cod. proc. civ.. La valutazione di irrilevanza delle dedotte istanze istruttorie, peraltro, è stata dal Giudice del merito rapportata alla prova della inadeguatezza delle ricerche effettuate dall’Ufficiale giudiziario, laddove oggetto della prova era la situazione sostanziale riferibile all’essere o no il ricorrente reperibile all’indirizzo ove l’ufficiale giudiziario ha eseguito la notificazione e, in particolare, all’essere o no il soggetto rinvenuto sul posto dall’ufficiale giudiziario il padre del ricorrente. In relazione a tali circostanze, dunque, le istanze istruttorie formulate dal ricorrente si appalesano decisive, sicchè la sentenza impugnata è sul punto (censurato, in particolare, con il quinto motivo di ricorso) viziata e se ne impone la cassazione.

L’accertamento che dovrà essere effettuato dal Giudice di rinvio sul punto consente di ritenere assorbite le questioni ulteriori proposte dal ricorrente in riferimento alla regolarità della notificazione del decreto ingiuntivo oggetto dell’opposizione tardiva (primo e secondo motivo), mentre la già rilevata inammissibilità della querela di falso comporta la reiezione dei motivi con i quali il ricorrente si duole sia della mancata ammissione di detto mezzo in sede di appello (quarto motivo), sia in questa sede di legittimità, dovendosi comunque rilevare che la proposta querela non sarebbe comunque (ammissibile sui limiti all’ammissibilità della querela di falso nel giudizio di cassazione, v., ex plurimis, Cass., n. 21657 del 2006, secondo cui la querela di falso è “proponibile nel giudizio di Cassazione soltanto nei limiti degli atti del relativo procedimento (ricorso, controricorso o documenti producibili à sensi dell’art. 372 c.p.c.), ma non può riguardare documenti in forza dei quali il Giudice di merito abbia pronunciato la decisione impugnata”).

Privo di pregio risulta altresì il terzo motivo, concernente la nullità della sentenza impugnata perchè sulla proposta querela di falso avrebbe dovuto pronunciarsi il Tribunale in composizione collegiale, stante la obbligatoria partecipazione del Pubblico Ministero al giudizio di falso, è sufficiente rilevare che le regole procedurali delle quali il ricorrente denuncia la violazione attengono al giudizio sul merito della proposta querela e non anche alla preliminare delibazione da parte del Giudice del procedimento principale nel caso in cui la querela di falso venga proposta in via incidentale.

In conclusione, il ricorso va accolto nei limiti ora indicati e la sentenza impugnata deve essere conseguentemente cassata, con rinvio al Tribunale di Bassano del Grappa, in persona di diverso magistrato, il quale procederà a nuovo esame delle istanze istruttorie formulate dal ricorrente, di cui ai punti 1, 2 e 3 dell’atto di citazione e della memoria depositata in data 11 settembre 2001. Al Giudice del rinvio è demandato altresì il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Bassano del Grappa in persona di diverso magistrato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007


Cons. Stato, Sez. IV, Sent., (data ud. 17-04-2007) 11/05/2007, n. 2325

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE
(SEZIONE QUARTA)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso iscritto al NRG 3258\2005, proposto dal comune di Pianezze in persona del sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Giorgio Orsoni e Mario Sanino ed elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, viale Parioli n. 180;

contro

I.H. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Paolo Piva e Luigi Manzi, domiciliato presso quest’ultimo in Roma, via Confalonieri n. 5;

e nei confronti di

O.M., non costituita.

per l’annullamento

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Veneto, sezione II, n. 3762 del 25 ottobre 2004;

Visto il ricorso in appello;

visto l’atto di costituzione in giudizio e contestuale appello incidentale della I.H. s.r.l. (in prosieguo società I.);

viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

visti gli atti tutti della causa;

data per letta alla pubblica udienza del 17 aprile 2007 la relazione del consigliere Vito Poli, uditi gli avvocati come da verbale di udienza;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. La società I. ha presentato domanda di permesso di costruire al comune di Pianezze in data 15 gennaio 2004.

A seguito di una lunga istruttoria, nel corso della quale venivano acquisiti tutti gli avvisi favorevoli, il responsabile del servizio tecnico comunale, dopo aver espresso la determinazione di rilasciare il permesso, liquidava il contributo di costruzione (cfr. nota 27 ottobre 2004, priva di numero di protocollo, comunicata in pari data a mani del titolare della società, come risulta dalla dicitura apposta a mano alla sommità del documento, e sottoscritta, in calce, con firma autografa dal responsabile del servizio apposta sotto la dicitura a stampa IL RESPONSABILE DEL SERVIZIO Geometra A.M.).

1.1. In pari data veniva rilasciato permesso di costruire n. 2004/04 comunicato personalmente al titolare della società in data 6 maggio 2004 (tale comunicazione era attestata in calce al permesso di costruire, in un unico contesto documentale); il 5 maggio 2004 la società provvedeva al pagamento del contributo di costruzione.

1.2. Con delibera del Consiglio comunale – n. 16 del 28 aprile 2004 – veniva adottata la variante n. 23 al p.r.g., in forza della quale veniva drasticamente abbattuta la volumetria edificabile nella zona oggetto dell’intervento costruttivo assentito con il menzionato permesso.

Con determinazione del direttore generale del comune di Pianezze datata 4 giugno 2004, il permesso di costruire – identificato al n. 2004/04 del 6 maggio 2004 – veniva annullato nel presupposto esclusivo della sua posteriorità rispetto alla delibera di adozione della variante e dunque perché emesso in spregio della norma sancita dall’art. 12, comma 3, t.u. edilizia, che vieta il rilascio di titoli edilizi in contrasto con gli strumenti urbanistici in itinere (nel caso di specie il contrasto era con l’art. 32 delle n.t.a. della variante).

1.3. Avverso tale atto e la deliberazione consiliare recante l’adozione della variante insorgeva la società I., deducendo tre autonomi motivi, il primo dei quali imperniato sul travisamento dei fatti in cui era incorso il comune, che non si era avveduto che alla data del 28 aprile 2004 il permesso di costruire oggetto di annullamento in sede di autotutela, era stato già rilasciato.

2. L’impugnata sentenza – T.a.r. del Veneto, sezione II, n. 3762 del 25 ottobre 2004 -:

a) ha riconosciuto la fondatezza del primo motivo dopo aver dato atto che il permesso di costruire era stato rilasciato in data 27 aprile 2004;

b) ha annullato il solo atto di autotutela;

c) ha compensato integralmente fra le parti le spese di lite.

3. Con ricorso notificato il 14 aprile 2005, e depositato il successivo 21 aprile, il comune di Pianezze ha interposto appello avverso la su menzionata sentenza del T.A.R. deducendo:

a) violazione dell’art. 12 t.u. edilizia, degli artt. 29 e 30, l.r. n. 11 del 2004, erronea interpretazione dei fatti di causa, eccesso di potere, difetto di presupposto, contraddittorietà;

b) violazione dell’art. 42, r.d. n. 642 del 1907, il giudice di prime cure avrebbe dovuto sospendere il processo onde consentire la proposizione della querela di falso avverso la nota di determinazione dei contributi di costruzione;

c) tardività delle censure proposte avverso la variante urbanistica n. 23 comunicata personalmente alla società Ittierre con nota del 13 maggio 2004.

4. Si costituiva l’intimata società deducendo l’infondatezza del gravame in fatto e diritto e insistendo, mediante appello incidentale, per la condanna del comune al risarcimento di tutti i danni subiti quantificati in euro 500.000, nonché alla condanna per lite temeraria ex art. 96 c.p.c.

5. Con memoria conclusionale del 5 aprile 2007 la società I. ha ridotto la pretesa risarcitorie a 160.000 euro.

Con memoria conclusionale del 4 aprile 2007 il comune di Pianezze ha insistito, fra l’altro, per la sospensione del presente giudizio onde consentire la proposizione della querela di falso.

6. La causa è passata in decisione all’udienza pubblica del 17 aprile 2007.

7. L’appello principale è infondato e deve essere respinto.

7.1. Il primo motivo è incentrato, nella sostanza, sulla errata individuazione della data di adozione del permesso di costruire; rileva il comune, in particolare, che nella copia del permesso versata nel proprio fascicolo di parte, mancherebbe la sottoscrizione autografa, a fianco dell’indicazione a stampa del nominativo del funzionario, e che la data del 27 marzo 2004 apposta in calce al permesso (sempre a stampa) sarebbe frutto di un errore materiale.

Il mezzo è infondato sia in fatto che in diritto.

7.1.1. E’ emerso dalla ricostruzione degli aspetti salienti della vicenda per cui è causa, che lo stesso giorno (27 aprile 2004) il responsabile del servizio tecnico comunale ha prima individuato l’ammontare dei contributi concessori e poi rilasciato il permesso di costruire debitamente numerato secondo la serie progressiva.

Nella copia del permesso esibito dal comune, oltre alla stampigliatura (con mezzi chiaramente informatici), della data e dell’indicazione del nominativo del funzionario responsabile, sotto la dicitura “IL RESPONSABILE DEL SERVIZIO TECNICO”, è apposto anche un timbro a secco rotondo del comune di Pianezze.

Nella copia del permesso di costruire esibita dalla società I. (produzione n. 3 del fascicolo T.a.r.), sotto la indicazione a stampa del nominativo del funzionario responsabile è apposta anche la sottoscrizione autografa.

7.1.2. Ma la tesi sostenuta dal comune è errata anche in diritto.

Dopo l’entrata in vigore dell’art. 6 quater d.l. n. 6 del 1991, conv., con modif., nella l. 15 marzo 1991 n. 80 (con riguardo agli atti degli enti locali), e dell’art. 3 d.leg. 12 febbraio 1993 n. 39 (con riguardo agli atti di qualsiasi p.a.), l’autografia della sottoscrizione non è configurabile come requisito di esistenza o validità giuridica degli atti amministrativi, allorquando, come nel caso di specie, i dati esplicitati nel contesto documentativo dell’atto consentano di accertare la sicura attribuibilità dello stesso a chi deve esserne l’autore; in questi casi, infatti, secondo le su indicate norme, nel caso di emanazione di atti amministrativi attraverso sistemi informatici e telematici, la firma autografa è sostituita dall’indicazione a stampa, sul documento prodotto dal sistema automatizzato, del nominativo del soggetto responsabile (cfr. Cass. sez. I, 14 settembre 2005, n. 18218; 31 maggio 2005, n. 11499; Cons. Stato, sez. IV, 22 aprile 2004, n. 1856, ord.).

Quanto alle oggettive discrasie rilevabili per tabulas – nella specie la diversità dei caratteri di stampa dei permessi esibiti dalle parti, la presenza della sottoscrizione autografa nel solo permesso depositato dalla società, la presenza nel corpo del testo del permesso dell’attestazione dell’intervenuto pagamento dei contributi di costruzione in realtà avvenuto successivamente in data 5 maggio 2004 – alcune delle quali evidenziate dalla difesa comunale, il collegio osserva che trattasi di conseguenze di prassi amministrative invalse in molti enti pubblici, in forza delle quali del medesimo provvedimento vengono rilasciati più duplicati, sottoscritti solo nella versione consegnata al privato.

L’arbitrarietà di una siffatta prassi (e l’errore commesso nel corpo del permesso di costruire) può condurre a conseguenze diverse, sul piano giuridico, ma non consente di escludere, nel peculiare caso di specie, che la data di adozione del permesso di costruire sia identificabile nel 27 aprile 2004.

7.1.3. Nel sistema precedente il t.u., la misura di salvaguardia era riferita all’istanza di rilascio del permesso; pertanto, non poteva operare laddove il titolo fosse stato già rilasciato al momento dell’adozione dello strumento urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. V, n. 1993 del 1998) sia con provvedimento espresso che mediante la formazione del silenzio assenso; in ogni caso, una volta formatasi la determinazione positiva sull’istanza di concessione, il rilascio del documento formale era ritenuto atto dovuto da parte del comune (cfr. Cons. Stato sez. V, 21 maggio 1984, n. 376), né tantomeno il titolo edilizio avrebbe potuto considerarsi annullato per il solo fatto di essere in contrasto con la proposta di modificazione dello strumento urbanistico (cfr. Cons. Stato, sez. V, 12 luglio 1996, n. 847).

Attesa l’autonomia dei due procedimenti si era ritenuto che non solo la determinazione dell’onere potesse avvenire successivamente al rilascio del titolo ma, qualora tale determinazione fosse avvenuta al momento del rilascio, l’amministrazione avrebbe potuto effettuare i necessari conguagli dell’ammontare del contributo (cfr. Cons. Stato, sez. V, 15 aprile 1996, n. 426).

Alcune delle acquisizioni della giurisprudenza formatasi antecedentemente al nuovo t.u. possono essere utilmente richiamate anche nell’esegesi della nuova disciplina edilizia.

Nel sistema del t.u. deve ritenersi che sia sempre necessario un atto formale conclusivo del procedimento adottato dal dirigente (o funzionario responsabile del servizio).

Si badi che il procedimento di rilascio del permesso di costruire e quello di determinazione dei contributi continuano ad avere natura distinta ed autonoma anche nel t.u., fermo restando che il contenuto minimo essenziale del permesso richiede, a differenza che in passato, la determinazione del contributo di costruzione, oltre che, per quanto di interesse ai fini della presente controversia, la proposta finale motivata del responsabile del procedimento, il parere della commissione edilizia (se imposto dal regolamento edilizio), i termini di inizio e conclusione dei lavori; ciò che non è essenziale è che il pagamento dei contributi preceda il rilascio; tale pagamento, infatti, di norma deve avvenire al momento del rilascio ma può anche essere rateizzato e, limitatamente alla quota corrispondente al costo di costruzione, può intervenire in corso d’opera.

Nel caso di specie, il permesso rilasciato alla società I. in data 27 aprile 2004 era munito di tutti i requisiti essenziali non dovendosi ritenere tale l’antecedente pagamento del contributo di costruzione intervenuto nel periodo intercorrente fra il rilascio del titolo e la sua comunicazione (il 6 maggio 2004) da parte del responsabile del servizio tecnico nella qualità di messo comunale. Cadono così le ulteriori argomentazioni difensive sviluppate dalla difesa del Comune di Pianezze.

7.2. Miglior sorte non tocca al secondo motivo.

7.2.1 Ai sensi dell’art. 41, r.d. n. 642 del 1907 cit., la domanda di prefissione di un termine per la proposizione della querela di falso può trovare accoglimento solo allorché si riconosca che la pretesa falsità di documenti si presenta influente e rilevante ai fini del giudizio, non potendo la controversia essere decisa indipendentemente dai documenti in questione.

In ogni caso:

– l’istanza deve essere corredata da adeguati indizi e congruamente motivata ex art. 221 c.p.c. (cfr. Cons. Stato 3 maggio 2000, n. 2622);

– la sospensione del processo può essere concessa se non emergono elementi tali da far escludere con certezza che le circostanze addotte possano essere fondate (cfr. Cons. Stato, sez. V, 24 marzo 2001, n. 1707; 27 marzo 2000, n. 1751).

7.2.2. Nel caso di specie non ricorrono le condizioni dianzi evidenziate.

Il termine richiesto per la querela di falso al T.a.r. concerneva un atto irrilevante ai fini del presente giudizio (la determinazione del contributo di costruzione), giacché l’accoglimento dell’originario ricorso si fonda correttamente sulla presenza di un formale permesso di costruire antecedente all’adozione della variante.

In secondo luogo, è dirimente la circostanza che il responsabile del servizio tecnico, indagato per i reati di abuso d’ufficio e falsità ideologica per aver retrodatato il permesso di costruire in questione, sia stato prosciolto allo stato da ogni addebito su richiesta del P.M. (del 21 gennaio 1006), con decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Bassano del Grappa (del 1 marzo 2006), stante l’inidoneità degli elementi acquisiti nel corso dell’indagine a sostenere l’accusa in giudizio.

Infine, è appena il caso di notare che il comune potrà autonomamente proporre querela di falso in un separato giudizio.

Coerentemente con quanto fin qui esposto, deve essere respinta la richiesta di sospensione del presente giudizio formulata nelle conclusioni dell’atto di appello e ribadita in memoria conclusionale.

Cadono così le ulteriori argomentazioni difensive sviluppate dalla difesa del comune di Pianezze nell’atto di appello e nella memoria conclusionale.

7.3. Quanto al terzo motivo la sezione ne rileva la palese inammissibilità per carenza di interesse all’appello non essendosi verificata soccombenza relativamente alla domanda di annullamento dell’atto di adozione della variante.

Esattamente il primo giudice, infatti, si è limitato ad annullare il solo provvedimento di autotutela ritenendo tale statuizione integralmente satisfattiva del bene della vita cui aspirava il privato.

8. Può scendersi all’esame della domanda di risarcimento del danno contenuta nell’appello incidentale.

La domanda è sia inammissibile che infondata e và respinta nella sua globalità.

La domanda risarcitoria è inammissibile perché è stata effettivamente proposta per la prima volta solo in grado di appello in violazione del divieto sancito dall’art. 345, comma 1, c.p.c.

Dall’esame analitico del ricorso di primo grado emerge che la quantificazione dei danni operata in quella sede e pari ad euro 1.210.030 (pagine da 16 a 18) aveva come finalità esclusiva quella di sostenere la domanda cautelare.

Nelle sole richieste conclusive (pagina 18) la società instava per la condanna del comune al risarcimento del danno; ma questa formula deve intendersi come richiesta alternativa alla concessione della misura cautelare.

Esattamente il T.a.r., avendo definito l’incidente cautelare con sentenza in forma semplificata a meno di due mesi dalla notificazione del ricorso di primo grado, non ha preso in considerazione la domanda risarcitoria proposta in via alternativa dalla società Ittierre.

In ogni caso la domanda di risarcimento è infondata anche nel merito, mancando la prova della sussistenza dei lamentati danni.

In particolare:

a) come evidenziato in precedenza, fra la data di emanazione del provvedimento di autotutela oggetto del presente giudizio e quella di annullamento giurisdizionale sono trascorsi solo tre mesi;

b) l’interevento costruttivo è stato iniziato e concluso nel pieno rispetto dei termini indicati dal permesso di costruire;

c) la società lamenta la minaccia di risoluzione di alcuni contratti ma non fornisce la prova dell’avvenuta risoluzione;

d) difetta la prova che il mancato inizio dei lavori, nel periodo immediatamente successivo alla pubblicazione dell’impugnata sentenza, sia attribuibile a condizionamenti negativi discendenti dal provvedimento annullato anziché a scelte imprenditoriali; lo stesso è a dire per la stipula di un nuovo contratto di appalto a condizioni asseritamene deteriori rispetto a quello concluso antecedentemente (in data 11 maggio 2004), specie alla luce delle clausole contenute in quest’ultimo contratto (in particolare artt. 6 e 15) che sancivano il pagamento dell’acconto e dell’ulteriore corrispettivo solo dopo l’inizio dei lavori ed in base allo stato di avanzamento;

e) manca la prova del nesso causale fra la riduzione del fido concesso dalle banche e l’adozione del provvedimento di autotutela nonché fra quest’ultimo ed il ricorso all’autofinanziamento da parte dei soci.

8.1. Parimenti infondata è la domanda di risarcimento del danno per lite temeraria non ravvisando il collegio, nel contegno preprocessuale e processuale del comune, vagliato alla luce delle particolarità evidenziate in precedenza, gli estremi della malafede e della colpa grave, presupposti indispensabili della fattispecie illecita delineata dall’art. 96 c.p.c.

9. Sulla scorta delle rassegnate conclusioni devono essere rigettati sia l’appello principale che quello incidentale.

Nella reciproca soccombenza delle parti il collegio ravvisa giusti motivi per compensare integralmente fra le stesse le spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso meglio specificato in epigrafe:

– respinge l’appello principale proposto dal comune di Pianezze e quello incidentale proposto dalla I.H. s.r.l. e per l’effetto conferma la sentenza impugnata;

– dichiara integralmente compensate fra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 17 aprile 2007, con la partecipazione di:

Paolo Salvatore – Presidente

Luigi Maruotti – Consigliere

Pierluigi Lodi – Consigliere

Antonino Anastasi – Consigliere

Vito Poli Rel. Estensore – Consigliere


Commissione tributaria provinciale Lucca, sez. IV, 20-04-2007, n. 176

Sentenza Commissione tributaria provinciale Lucca, sez. IV, 20-04-2007, n. 176 – Pres. Di Bugno A. – Rel. Pizzi E.

[Notificazione al liquidatore di società]

Avviso di accertamento. Notificazione. Liquidatore della società successivamente cancellata dal registro delle imprese. Responsabilità nel contenzioso sorto successivamente all’estinzione della società. Esclusione.
Notifica dell’avviso di accertamento. Inefficacia.

Ai sensi dell’art. 2495, comma 2, c.c., nella nuova formulazione introdotta dal D.Lgs. n. 6/2003 (riforma del diritto societario), la cancellazione della società dal registro delle imprese segna la fine della società anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo, ovvero la cancellazione della società è condizione, non solo necessaria, ma anche
sufficiente per l’estinzione. Ne consegue che i creditori insoddisfatti, essendo definitivamente estinta la società, potranno agire solo nei confronti dei soci e/o del liquidatore, che risponderà dei mancati pagamenti ove ne risulta acclarata la responsabilità.

Nel caso, come quello deciso, in cui il liquidatore abbia proceduto agli adempimenti delegatigli dai soci in tempo anteriore al sorgere del contenzioso tributario, nessuna responsabilità può essergli addebitata e nessun avviso di accertamento notificatogli può avere effetto in quanto solo destinatario del provvedimento nella qualità di rappresentante della società.

Svolgimento del processo

L’Agenzia delle Entrate ha provveduto alla notifica degli avvisi di accertamento in epigrafe alla società P. a r.L nella persona del liquidatore. Questi ha proposto ricorso ed ha eccepito di essere venuto a conoscenza dell’acquisizione della documentazione fiscale della società solo con la notifica degli avvisi ricordati, di aver proceduto alla liquidazione ed alla cancellazione della società non sussistendo altre partite in sospeso e conseguentemente di aver operato legittimamente.

L’Ufficio nella memoria di costituzione, ha contestato i motivi del ricorso evidenziando la fondatezza degli accertamenti.

La Commissione, svoltasi la discussione in pubblica udienza, ha emesso la decisione.

Osserva

E’ necessario, preliminarmente, evidenziare che la società P. a r.L è stata posta in liquidazione l’11.12.2003 e successivamente cancellata dal registro delle imprese con la conseguente estinzione della stessa. Gli avvisi di accertamento sono stati notificati solo nel 2005 senza che il liquidatore avesse notizia della acquisizione di documenti da parte dell’Agenzia delle Entrate.

La riforma del diritto societario e la nuova formulazione dell’art. 2495, 2° co, cc (dlgs 6/2003) consente di esaminare la controversia sotto un profilo diverso. Infatti, come da recente giurisprudenza di merito, il perentorio incipit del citato comma 2 “Ferma restando l’estinzione della società” evidenzia che l’adempimento della formalità pubblicitaria (cancellazione) segna la fine della società anche in presenza di crediti insoddisfatti e di rapporti di altro tipo ovvero la cancellazione della società è condizione non solo necessaria, ma anche sufficiente per l’estinzione. Ne consegue che i creditori insoddisfatti – ex 2 comma cit. – potranno agire solo nei confronti dei soci e/o del liquidatore essendo definitivamente estinta la società. Il liquidatore risponderà dei mancati pagamenti ove ne risulti acclarata la responsabilità.

Nel caso di specie il liquidatore ha proceduto agli adempimenti delegatigli dai soci in tempo anteriore al sorgere del presente contenzioso senza che, all’epoca, sussistesse pendenza di alcun genere per cui alcuna responsabilità può essergli addebitata per non aver pagato quanto oggi richiesto (ove legittimamente fondato).

La società è estinta e alcuna azione può essere proposta nei confronti della stessa, mentre nei confronti del liquidatore, ancorché non ritenuto responsabile di alcuna violazione, l’accertamento così come notificato non può avere effetto in quanto solo destinatario del provvedimento nella qualità di rappresentante della società.

La Commissione, attesa la rilevanza della questione trattata, ritiene sussistano giusti motivi per compensare le spese del giudizio.

P.Q.M.

La Commissione accoglie il ricorso. Spese compensate.


Cass. civ. Sez. V, (ud. 14-02-2007) 20-04-2007, n. 9393

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIGGIO Ugo – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro p.t. e AGENZIA DELLE ENTRATE,in persona del Direttore p.t., rapp.ti e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale elett.te domiciliano in Roma alla Via dei Portoghesi, 12;

– ricorrente –

contro

PASTIFICIO DI MARINI GIULIO & C. S.n.c., in persona del suo legale rapp.te p.t.;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria della Toscana n. 64/25/00 pubblicata il 13/5/00;

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 14/2/07 dal Consigliere relatore Dott. Giuseppe Napoletano;

Udita l’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CALIENDO Giacomo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La società indicata in epigrafe impugnava dinanzi alla CTP di Pistoia la cartella di pagamento ILOR per l’anno 1988 per complessive L. 64.060.230, sostenendo che la notifica dell’avviso di accertamento effettuata il 30/12/96 ad essa società doveva considerarsi nulla perchè effettuata non al suo domicilio fiscale, in (OMISSIS) ma a quello, in (OMISSIS), della s.r.l. Pastificio Marini, soggetto diverso.

La CTP accoglieva il ricorso e la sentenza veniva confermata dalla CTR della Toscana sul rilevò fondante, per quello che in questa sede interessa, che dalla società appellata venne fatta comunicazione, il 27/1/89, all’Ufficio del nuovo domicilio fiscale in Via (OMISSIS) con conseguente irrilevanza del domicilio fiscale risultante dall’ultima dichiarazione.

Il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate proponevano ricorso per cassazione, sostenuto da un unico motivo con il quale, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, premesso che in base alle norme denunciate le società devono comunicare all’Ufficio la variazione dell’indirizzo della loro sede legale o amministrativa e la variazione ai fini delle notificazioni ha effetto dal trentesimo giorno successivo alla comunicazione, sempre che tale variazione non risulti dalla dichiarazione annuale, nel qual caso essa ha effetto immediato, assumevano che essendo pacifico che la società contribuente in data 27/1/89 comunicò la variazione della sede da Via (OMISSIS) e che nella dichiarazione presentata in data 31/5/89 venne dichiarata la sede in Via (OMISSIS) correttamente la notifica dell’accertamento venne effettuata presso quest’ultimo indirizzo anche in considerazione della circostanza che comunque la sede indicata in dichiarazione ben poteva costituire nuova comunicazione e l’eventuale errore addotto dalla società al riguardo, non essendo riconoscibile dall’Amministrazione, non era ad essa opponibile.

Parte intimata non svolgeva attività difensiva,

Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.

Invero a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., “Le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni,dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica o, per le persone giuridiche e le società ed enti privi di personalità giuridica, dal trentesimo giorno successivo a quello della ricezione da parte dell’ufficio della comunicazione prescritta nell’art. 36, comma 2. Se la comunicazione è stata omessa, la notificazione è eseguita validamente nel comune di domicilio fiscale risultante dall’ultima dichiarazione annuale”.

Dal che consegue, per un verso che la variazione dell’indirizzo può risultare anche dalla dichiarazione annuale, e dall’altro che la comunicazione della variazione di cui al comma 2 del precedente art. 36, il quale impone alla società di dare comunicazione all’ufficio delle imposte della variazione dell’indirizzo della loro sede legale o amministrativa, esplica la sua efficacia sino a quando non interviene una nuova variazione.

Nel caso di specie, invece, la CTR ha dato esclusivo rilievo alla comunicazione, effettuata il 27/1/89, di variazione dell’indirizzo senza valutare se questo, per effetto della successiva dichiarazione annuale, fosse nuovamente variato sì da coincidere con l’indirizzo presso il quale venne eseguita la notifica dell’avviso di accertamento.

Sulla base delle esposte considerazioni pertanto il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra CTR della Toscana,che procederà ad una nuova valutazione dei fatti alla stregua del principio sopra enunciato.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della CTR della Toscana.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2007


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 17/11/2006) 29/03/2007, n. 7737

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere

Dott. TALEVI Alberto – rel. Consigliere

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ISTITUTO AUTONOMO CASE POPOLARI DI TARANTO, in persona del Commissario Straordinario dott. V.C. elettivamente domiciliato in ROMA LUNGOTEVERE FLAMINIO N. 46 pal. IV sc. B, presso lo studio dell’avvocato Gian Marco Grez, difeso dall’avvocato Giuseppe Adeo Ostilio, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

IMPRESA EDILE “ing. P.N.” in concordato preventivo, in persona del suo Liquidatore avv. Carlo Schiavoni, elettivamente domiciliata a Roma viale Giulio Cesare n. 71 (studio dell’avv. Vito Nanna) presso l’avv. Vito Spinelli che la difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 59/03 della Corte d’Appello di Lecce Sezione distaccata di Taranto emessa il 17.03.03, depositata il 07.04.03; rg. 445/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/06 dal Consigliere Dott. Alberto Talevi;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

Con atto di citazione del 5 gennaio 1995 l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto riassumeva dinanzi al Tribunale di Taranto il giudizio di opposizione all’esecuzione intrapresa per l’importo di Lire trecento milioni dall’impresa P.N. in concordato preventivo con il pignoramento del proprio credito nei confronti della Banca del Salento; a sostegno dell’opposizione, spiegata inizialmente dinanzi al pretore di Taranto, l’istituto aveva dedotto la prescrizione del diritto fatto valere dall’impresa menzionata, costituito a suo parere dai lodi arbitrali depositati a composizione delle controversie insorte sul pagamento di somme relative all’esecuzione dei contratti di appalto conclusi con l’impresa stessa; negava altresì, l’istante, il diritto della ditta P. di esercitare l’azione esecutiva perché esso era mutuatario della Cassa Depositi e Prestiti, e dunque le azioni esecutive non potevano essere iniziate e proseguite senza il preventivo nulla-osta del Ministro dei lavori Pubblici. Nella specie il pignoramento presso terzi aveva impedito all’istituto di procedere a pagamenti indifferibili e di pagare gli stipendi dei dipendenti, che a loro volta avevano avviato procedure esecutive in proprio danno.

Dichiaratosi incompetente per valore il pretore adito, con l’atto di citazione in riassunzione l’Iacp chiedeva al tribunale di Tarante dichiarare inammissibile c/o improcedibile l’azione esecutiva avviata dalla ditta P., e perciò nullo il pignoramento.

Si costituivano all’udienza di prima comparizione delle parti del 23 marzo 1995 l’impresa P.N. in concordato preventivo e la Banca del Salento con il deposito delle comparse di risposta; la prima per domandare il rigetto dell’opposizione per le ragioni spiegate al pretore, la seconda per rimettersi alle decisioni del tribunale, ricordando di avere leso già la dichiarazione negativa.

Compiuta l’istruttoria, il Tribunale di Taranto I sezione stralcio in composizione monocratica con sentenza del 15 maggio-15 settembre 2000 rigettava l’opposizione dell’Iacp e lo condannava a pagare le spese del giudizio.

Con atto d’appello notificato il 26 ottobre 2001 l’ente soccombente ha chiesto la riforma di tale pronuncia, l’accoglimento delle domande proposte al primo giudice; ha resistito all’appello l’impresa P.N. in concordato preventivo che, costituitasi con comparsa di risposta depositata all’udienza di prima comparizione delle parti in data 15 gennaio 2002, ha insistito nella conferma della sentenza gravata. Compiuta la fase istruttoria, la causa è stata riservata in decisione sulle conclusioni trascritte in epigrafe all’udienza collegiale del 7 marzo 2003.” Con sentenza 17.3-7.4.2003 la Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto – decideva come segue: “…rigetta l’appello proposto dall’Istituto Autonomo case Popolari di Taranto con atto notificato il 26 ottobre 2001 in contraddittorio con l’Impresa edile Ing. P.N. in concordato preventivo avverso la sentenza del Tribunale di Taranto I sezione stralcio in composizione monocratica in data 15 maggio – 15 settembre 2000; condanna l’appellante, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese sostenute in questo grado di giudizio dall’appellata, che liquida in Euro 2.683,00, di cui Euro 113,00 per spese, Euro 685,00 per diritti ed Euro l885,00 per onorario di avvocato, oltre accessori di legge… Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto.

Ha resistito con controricorso l’”IMPRESA EDILE “ing. P.N.” in concordato preventivo (omologato dal Tribunale di Bari con sentenza 7/20.7.1986 n. 2516), in persona del suo Liquidatore avv. CARLO SCHIAVONI”.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Va anzitutto rilevato che non sussistono le ragioni di inammissibilità del ricorso e dei relativi motivi dedotte dalla parte controricorrente.

Osserva in particolare il collegio che la sentenza di primo grado non aveva per oggetto solo una opposizione all’esecuzione, ma anche altre domande (v. in particolare le domande dell’I.A.C.P. definite “riconvenzionali” nella decisione della Corte di merito); con la conseguenza che era applicabile la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale e che l’appello giustamente è stato (implicitamente) considerato tempestivo da detta Corte d’Appello. Inoltre i motivi di ricorso (salvo per quanto verrà esposto in seguito) sono specifici e rituali (pur se privi di pregio).

I due motivi di ricorso vanno esaminati insieme in quanto connessi.

Con il primo motivo l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto denuncia ex “Art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 474 c.p.c. e dei principi di natura sostanziale e procedurale in tema di sentenze dichiarative e della loro inidoneità ad essere azionate in executivis” esponendo doglianze che possono essere sintetizzate come segue. Nella sentenza n. 1000/92 passata in giudicato, il Tribunale di Taranto ha accolto la domanda dello IACP per quanto di ragione. Trascurando le altre statuizioni della sentenza che, in accoglimento delle domande proposte in via riconvenzionale dallo IACP, hanno condannato la Impresa Edile ing. P.N. al pagamento in suo favore delle somme ivi indicate, è indubbio che la sentenza, nella parte relativa all’accoglimento delle opposizioni ai precetti, sia pure per quanto di ragione, aveva ed ha tutt’ora natura dichiarativa con la conseguenza che essa, per quanto statuito ai punti sub 1 e 2, non ha valenza di titolo esecutivo dal momento che non condanna la parte IACP al pagamento di somme in favore della Impresa P., ma afferma solo che questa, in forza dei lodi pronunziati dai Collegi Arbitrali avrebbe dovuto intimare precetti soltanto in forza dei lodi relativi agli appalti denominati Canale A e Canale B e solo per gli importi dalla stessa sentenza indicati. La Corte di Appello di Lecce, avendo rilevato che sia il precetto e sia il pignoramento presso terzi erano stati posti in essere non in forza dei lodi arbitrali che rimanevano (se non prescritta l’actio judicati) gli unici titoli esecutivi regolanti rapporti tra le parti ivi definiti, avrebbe dovuto accogliere l’opposizione e dichiarare che l’esecuzione era nulla, al pari dei relativi atti, perché intrapresa senza titolo esecutivo. La Corte di merito invece ha ritenuto la sentenza n. 1000/92, pur nelle statuizioni dichiarative, titolo esecutivo, così affermando che essa, nonostante la sua natura dichiarativa sul punto, era stata correttamente posta a base della esecuzione intrapresa. Invece avrebbe dovuto accogliere il gravame negando che la Impresa ing. P.N. potesse azionare la sentenza n. 1000/92 come titolo esecutivo per un suo credito verso lo IACP di Taranto.

Con il secondo motivo la parte ricorrente denuncia “Art. 360 c.p.c., n. 3.

– Violazione e falsa applicazione della normativa in tema di prescrizione dell’actio judicati e di interruzione della prescrizione ed in ispecie del disposto di cui agli artt. 2946, 2943 e 2945 c.c.” esponendo doglianze che vanno riassunte come segue. E’ pacifico: – che la Impresa Ing. P.N., una volta intervenute le pronunzie dei due lodi arbitrali del 26/4/80, ne ha conseguito la relativa declaratoria di esecutorietà in data 29/4/1980 e che, intervenuta la pronunzia del lodo arbitrale del 26/9/1980, ne ha conseguito la esecutorietà il successivo 27/9/1980;

– che la Impresa Ing. P.N. in data 31/10/1983 ebbe a notificare allo IACP di Taranto i tre lodi arbitrali spediti in forma esecutiva e tre atti di precetto, ognuno dei quali in forza del lodo di riferimento;

– che avverso le dette intimazioni lo IACP propose il 10/11/1983 tre distinte opposizioni a precetto nelle quali negò di dovere gli interessi successivi alla pronunzia dei lodi e spiegò domanda riconvenzionale per l’accertamento di suoi crediti verso la intimante e, quindi, la condanna della Impresa Ing. P.N. a tali pagamenti in suo favore;

– che la Impresa Ing. P.N. lasciò perimere i precetti intimati, in quanto non diede poi corso ad esecuzione eseguendo pignoramento in forza degli stessi; – che nei dieci anni successivi alla intimazione dei precetti, avvenuta il 31/10/1983, la Impresa ing. P.N. non ne reiterò la notifica e né richiese in alcuna delle forme indicate nell’art. 2943 c.c. il pagamento del suo credito ancora insoddisfatto e portato dai tre lodi arbitrali. L’Impresa Ing. P.N. avrebbe dovuto interrompere il termine prescrizionale decennale della actio judicati entro il 31/10/1993 compiendo uno degli atti dei quali era onerato a tal fine e che l’art. 2943 c.c. tassativamente individua. Sostiene la Corte di Appello di Lecce che, poiché a seguito della opposizione a precetto si instaura un giudizio ordinario in cui l’intimante si costituisce e sostiene la fondatezza del proprio diritto e, dunque, la sua affermazione, il termine di prescrizione rimane interrotto sino alla definizione del giudizio con sentenza passata in giudicato; ma con tale affermazione la Corte di Appello di Lecce non ha dato corretta applicazione né al disposto di cui all’art. 2943 c.c. e art. 2945 c.c., comma 2 e né ancora al disposto dell’art. 2946 c.c. e per di più ha anche disatteso il costante insegnamento sul punto della Suprema Corte (Cass. 25/3/2002 n. 4203). Nel caso di specie il comportamento del creditore fu di semplice resistenza alla domanda della quale richiese il rigetto. Nella fattispecie, dunque, difettava e difetta da parte della Impresa Ing. P.N. il compimento di atto che, dando inizio al giudizio, abbia avuto effetti interruttivi permanenti della prescrizione propri della domanda giudiziale e dell’azione esecutiva e/o cautelare.

Il ricorso non può essere accolto.

Occorre premettere che la parte ricorrente sembra impostare il suo assunto difensivo essenzialmente sulla negazione del diritto della controparte di procedere all’esecuzione in quanto detto diritto era prescritto con riferimento agli originari titoli (i tre lodi suddetti) e non sussisteva con riferimento alla sentenza n. 1000/92 in quanto questa non costituiva titolo esecutivo.

Una volta assodato che questa è la tesi fondamentale contenuta nel ricorso per cassazione, va anzitutto osservato che basta la non accoglibilità delle doglianze concernenti tale prescrizione per togliere ogni valida base al ricorso medesimo, in quanto, stando anche alla tesi medesima il diritto della controparte di procedere all’esecuzione dovrebbe in tal caso ritenersi sussistente non essendo rimasto prescritto (se la parte ricorrente sostiene che il diritto di procedere all’esecuzione non può basarsi sui tre lodi a causa della prescrizione, e solo a causa di questa, implicitamente ammette che in assenza di prescrizione il diritto medesimo dovrebbe considerarsi sussistente; e ciò a prescindere da qualsivoglia considerazione circa la possibilità di considerare titolo esecutivo la sentenza n. 1000/92; è appena il caso di ricordare che ovviamente possono essere esaminate solo le doglianze esposte e nei limiti in cui sono state ritualmente enunciate).

Così delimitato l’ambito del presente giudizio, va anzitutto confermato il principio di diritto secondo cui “Il precetto, non costituendo atto diretto alla instaurazione di un giudizio né del processo esecutivo, interrompe la prescrizione senza effetti permanenti, ed il carattere solo istantaneo dell’efficacia interruttiva sussiste anche nel caso in cui, dopo la sua notificazione, l’intimato abbia proposto opposizione, atteso che l’opposizione ex art. 615 c.p.c. più che atto di impugnazione del precetto è atto con il quale il debitore, minacciato di esecuzione, chiede l’accertamento negativo del credito” (v. la recente sent. Cass. n. 15190 del 19/07/2005; oltre la sopra citata Cass. n. 4203 del 25/03/2002).

Va però rilevato che mentre la mera opposizione dell’intimato (e quindi l’attività processuale solo di detta parte) non può avere affetti ai fini della predetta interruzione, la questione si pone in termini nettamente diversi con riferimento all’eventuale attività processuale del creditore opposto in detto processo di opposizione.

Infatti se costui si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto di procedere all’esecuzione (ed in tale categoria va compresa certamente anche la mera richiesta di rigetto dell’opposizione) compie una attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dal secondo comma dell’art. 2943 c.c. “…E’ pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio…”.

Ad ulteriore suffragio di quanto ora esposto va in particolare rilevato che nelle fattispecie come quella in questione, in cui il diritto predetto deriva da un provvedimento giurisdizionale, il creditore convenuto nel giudizio di opposizione a precetto non ha altro modo per tutelare il diritto medesimo che chiedere il rigetto dell’opposizione; quindi non può negarsi a detta attività processuale il valore di atto espressivo della volontà di esercitare il diritto di credito con effetti non solo processuali ma anche concernenti l’interruzione della prescrizione.

Di conseguenza va enunciato il seguente principio di diritto: “La mera proposizione di opposizione ex art. 615 c.p.c. da parte dell’intimato dopo la notificazione del precetto non modifica il carattere solo istantaneo dell’efficacia interruttiva di detta notifica; ma se il creditore opposto si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto di procedere all’esecuzione (ed in tale categoria va compresa certamente anche la mera richiesta di rigetto dell’opposizione) compie una attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dal secondo comma dell’art. 2943 c.c.; e quindi, ai sensi dell’art. 2945 c.c., comma 2 la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”.

Sulla base di quanto ora esposto appare incontestabile l’infondatezza in diritto della tesi della parte ricorrente circa l’interruzione della prescrizione.

Tale infondatezza comporta a sua volta l’infondatezza di tutte le doglianze comunque concernenti detta interruzione (negata dall’IACP) in relazione al sopra citato giudizio di opposizione riassunto innanzi al Tribunale di Taranto.

Ma a questo punto appare altresì incontestabile l’irrilevanza delle doglianze svolte nel primo motivo, in quanto l’impugnata sentenza è comunque destinata a rimanere ferma in base alla ratio decidendi concernente l’affermato (dalla Corte) effetto interruttivo a carattere permanente.

E’ opportuno aggiungere che qualora la parte ricorrente avesse inteso porre concretamente a base del ricorso per cassazione anche la tesi che (pure a prescindere dalle problematiche predette circa la prescrizione; e quindi pure ipotizzando la sussistenza del diritto della controparte di procedere all’esecuzione sulla base dei lodi) comunque l’Impresa edile “Ing. P.N.” irritualmente ha notificato il precetto in questione sulla base della sentenza n. 1000/92 (in quanto erano in ogni caso i lodi arbitrali – se non prescritta l’actio judicati – gli unici titoli esecutivi da porre a base dell’esecuzione) si sarebbe di fronte ad una tesi difensiva inammissibile per le seguenti ragioni.

Affermare che dei titoli esecutivi esistono (nell’ipotesi di mancata prescrizione) e (implicitamente) che quindi sussiste il diritto di procedere all’esecuzione; ma che a base del precetto (e – eventualmente – degli atti successivi) è stato posto un titolo errato (invece di quelli giusti) significa (non negare la sussistenza del diritto di procedere all’esecuzione ma) denunciare semplicemente una irritualità formale del precetto (e/o degli atti successivi). Significa cioè proporre doglianze inquadrabili nell’ambito della fattispecie astratta prevista dall’art. 617 c.p.c. (opposizione agli atti esecutivi). Ma l’IACP sembra negare di aver mai inteso proporre un siffatto tipo di opposizione. Le eventuali doglianze in questione sarebbero dunque inammissibili in quanto nuove (persino stando a quanto emerge dalle argomentazioni di detta parte opponente); e comunque sarebbero inammissibili in quanto non corredate da adeguato e specifico (ex art. 617 c.p.c.) supporto argomentativo.

Infine (pure a prescindere da quanto ora osservato) va rilevato che dovrebbe in ogni caso essere dichiarata d’ufficio l’inammissibilità dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. per mancato rispetto (a quanto sembra emergere dagli atti disponibili) del termine previsto nella norma medesima.

Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso va respinto.

Data la peculiarità e parziale novità delle problematiche giuridiche in questione, debbono ritenersi sussistenti giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso a Roma, il 17 novembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2007


Cons. Stato Sez. VI, (ud. 30-01-2007) 20-03-2007, n. 1309

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale

(Sezione Sesta)

ha pronunciato la seguente

DECISIONE

sul ricorso in appello proposto da D.A., rappresentato e difeso dall’avv. Domenico Condemi, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Roma, via Costantino Morin, 45

contro

l’I.N.P.S. – Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall’avv. Valerio Mercanti e dall’avv. Patrizia Tadris, e con loro elettivamente domiciliato in Roma, via della Frezza, n. 17, presso l’Ufficio Legale dell’Istituto;

per l’annullamento

della sentenza n. 10729 del 2001 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. III, resa inter partes..

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visti gli atti tutti della causa;

Visto l’atto di costituzione dell’INPS;

Viste le memorie delle parti a sostegno delle rispettive difese;

Alla pubblica udienza del 30 gennaio 2007, relatore il Consigliere Giuseppe Romeo, uditi l’avv. Condemi e l’avv. Tadris;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- Il TAR Lazio, con la sentenza di cui si chiede la riforma, ha respinto il ricorso dell’istante avverso la deliberazione del Consiglio di Amministrazione dell’INPS di rigetto della sua domanda intesa ad ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle lesioni dallo stesso subite a seguito di incidente stradale, in cui era rimasto coinvolto con la propria autovettura, mentre si recava al luogo di lavoro.

Il TAR ha individuato la ragione dell’infondatezza del ricorso, nel fatto che l’incidente in questione è stato causato da un errore di guida inescusabile del ricorrente, che si è immesso in una importante via di comunicazione, senza fermarsi allo “stop”. Sotto questo profilo, è parso legittimo il deliberato del Consiglio di Amministrazione che ha denegato il riconoscimento richiesto, dal momento che la condotta del ricorrente integra gli estremi della colpa grave, per cui, ai sensi dell’art. 1 del regolamento Organico, deve essere escluso il nesso di causalità tra il servizio prestato e l’infortunio subito “in itinere”.

2.- Appella l’interessato, il quale contesta la sentenza impugnata, giacché questa non avrebbe tenuto conto della normativa in materia (D.P.R. n. 411/1976; D.P.R. n. 1092/1973; D.P.R. n. 1124/1965) e avrebbe avallato acriticamente “la descrizione della dinamica” dell’incidente, che i Carabinieri avrebbero fatto in modo lacunoso. In ogni caso, se volesse ravvisarsi nella specie la colpa grave del ricorrente, al fine di escludere il nesso di causalità ai sensi dell’art. 1 del Regolamento Organico, occorre evidenziare che tale disposizione regolamentare è illegittima, perché contrasta con la normativa avanti citata. La consulenza tecnica di parte, la cui perizia è stata depositata in giudizio, dimostrerebbe però che la responsabilità del sinistro “è attribuibile al conducente dell’altra autovettura”, e immotivatamente il Consiglio di Amministrazione avrebbe recepito “il verbale dei Carabinieri”.

3.- Resiste l’INPS, chiedendo la reiezione del ricorso, siccome infondato.

4.- Il ricorso è stato trattenuto in decisione all’udienza del 30 gennaio 2007.

Il Consiglio di Amministrazione dell’INPS, pronunciandosi sulla domanda dell’interessato volta ad ottenere il riconoscimento della dipendenza da causa di servizio delle lesioni dallo stesso subite a seguito di un incidente stradale nel quale è rimasto coinvolto, mentre si recava, con la sua autovettura, al lavoro, ha escluso nella specie il nesso di casualità tra servizio prestato e infortunio “in itinere” occorso. La ragione del contestato diniego (riconosciuta legittima dal TAR) è stata esplicitata nel provvedimento impugnato: il dipendente “ometteva di fermarsi allo “stop”, secondo quanto risulta dal verbale redatto dai Carabinieri di Cisterna intervenuti sul luogo dell’incidente”.

La motivazione è chiara, precisa e circostanziata, e il Collegio non può che condividerla, non essendo chiamato a ricostruire (come pretende l’appellante, il quale analizza in dettaglio “la dinamica dell’incidente” con l’ausilio di una consulenza tecnica di parte) le modalità dell’incidente.

Una adesione alla versione dell’incidente, tendente ad escludere la responsabilità dell’interessato per attribuirla all’altro conducente, che “procedeva ad alta velocità nonostante l’incrocio segnalato ed il pericolo di uscita di automezzi”, non era nella disponibilità del Consiglio di Amministrazione dell’INPS, a fronte di una attenta ricostruzione dell’incidente da parte dei Carabinieri, “intervenuti sul luogo dell’incidente”.

Per questo, non possono giovare all’istante i successivi sviluppi (relativi ai profili risarcitori) che la vicenda ha avuto nel giudizio promosso dall’altro conducente incidentato (accordo transattivo con accettazione del concorso di colpa al 50%). Neppure giova all’appellante la ulteriore considerazione che il Consiglio di Amministrazione non poteva “sottoporre a verifica” il giudizio del Collegio Medico, che, diversamente da quanto sostiene il ricorrente (pag. 3 del ricorso), non si è pronunciato sul nesso causale tra “le malattie denunciate” ed il servizio, ma ha dichiarato che “le infermità in diagnosi ad eccezione della patologia a carico del ginocchio sinistro sono in rapporto causale diretto tra l’infortunio occorso”.

Il Consiglio di Amministrazione non ha, quindi, “sottoposto a verifica” il parere del Collegio Medico, ma, nell’ambito della sua competenza, ha deliberato, in modo convincente e chiaro, sulla domanda del ricorrente, non riconoscendo la sussistenza di un nesso causale diretto tra le infermità subite dall’interessato e il servizio (non l’incidente).

L’appellante introduce un’altra problematica, relativa alla distinzione tra dolo e colpa grave, e richiama un orientamento giurisprudenziale del giudice ordinario, secondo il quale (con la sola eccezione di casi caratterizzati da “rischio elettivo) “la possibile colpa del lavoratore nella causazione dell’incidente non interrompe il nesso di causalità”.

In effetti, l’orientamento del giudice ordinario non conferma le conclusioni alle quali intende pervenire l’interessato, dal momento che è stato statuito in modo univoco che “la violazione di norme fondamentali del codice della strada può integrare (secondo una valutazione rimessa al giudice) un aggravamento del rischio tutelato talmente esorbitante dalle finalità di tutela da escludere la stessa in radice”(si veda, Cass. Sez. Lav. n. 11885 del 6.8.2003). E nella specie, il dubbio che il ricorrente abbia violato gravemente le norme del codice della strada, per non essersi fermato allo “stop”, non è stato per nulla fugato, sicché è irrilevante, ai fini che interessano, che, in ipotesi, vi sia stato un concorso di colpa dell’altro conducente.

L’appello va, pertanto respinto.

Sussistono motivi per disporre la compensazione delle spese.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Sesta, respinge l’appello in epigrafe. Compensa le spese.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma, il 30 gennaio 2007 dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) nella Camera di Consiglio con l’intervento dei Signori:

Claudio Varrone Presidente

Carmine Volpe Consigliere

Giuseppe Romeo Consigliere est.

Luciano Barra Caracciolo Consigliere

Lanfranco Balucani Consigliere


Cass. civ. Sez. V, (ud. 01-03-2007) 21-03-2007, n. 6750

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAOLINI Giovanni – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – rel. Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Signor T.M. domiciliato in Roma, presso la Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentato e difeso, giusta delega in atti, dall’avv. Patrizia Artioli del foro di Modena;

– ricorrente –

contro

Comune Di San Possidonio, in persona del Sindaco p.t.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria Regionale dell’Emilia Romagna n. 2/IV/05 depositata il 03.02.2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 1/3/2007 dal Relatore Cons. Dott. GENOVESE Francesco Antonio;

lette le conclusioni scritte del P.M.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
OSSERVA

Rilevato che il Comune di San Possidonio ha notificato al signor T.M. un avviso di accertamento per omessa denuncia ICI, per l’anno d’imposta 1999;

che il signor T. ha proposto ricorso alla C.T.P. di Modena, che l’ha parzialmente accolto;

che il contribuente ha proposto appello e la C.T.R. dell’Emilia Romagna ha dichiarato inammissibile l’impugnazione, perché proposto oltre il termine breve d’impugnazione, a seguito di notificazione della sentenza di prime cure;

che, secondo la C.T.R. il termine per appellare sarebbe scaduto il 3 aprile 2004, considerato che la sentenza di primo grado era stata notificata al contribuente il 3 febbraio 2004, mentre l’impugnazione era stata notificata, dal signor T., solo in data 15 aprile 2004;

che il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, contro cui non resiste il Comune;

che con l’unico motivo di ricorso (con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51, dell’art. 137 c.p.c., comma 2, e dell’art. 148 c.p.c.) il ricorrente afferma che la notifica della sentenza di primo grado sarebbe stata effettuata in maniera irrituale perché la relata, anziché essere apposta in calce all’atto, sarebbe stato annotato sul frontespizio e deduce, pertanto, che al ricorrente sarebbe stato – di conseguenza – al più, notificato il solo frontespizio e non anche la parte restante del documento;

che, richiesto del parere ai sensi dell’art. 375 c.p.c., il PM ha concluso per la manifesta fondatezza del ricorso.

Considerato che tale conclusione deve essere condivisa;

che, va premesso quanto stabilisce l’art. 148 c.p.c., e cioè che “L’ufficiale giudiziario certifica l’eseguita notificazione mediante relazione da lui datata e sottoscritta, apposta in calce all’originale e alla copia dell’atto” (primo comma);

che tale previsione è dettata a presidio dell’attività di notificazione degli atti, ossia della regolare consegna di copia integrale degli stessi, in osservanza del principio della loro consegna in conformità all’originale;

che, proprio la regolare osservanza delle prescrizioni formali, imposte dalla legge all’Ufficiale Giudiziario, in funzione del principio di recezione, è il fondamento degli effetti che dalla notificazione scaturiscono (decadenza dal diritto di impugnazione) che la regolare osservanza delle formalità compiute dall’Ufficiale Giudiziario sono consegnate in un atto pubblico, facente fede fino a querela di falso;

che la relazione, che la legge vuole sia apposta solo in calce alla copia dell’atto notificato, e non in qualsiasi altra sede “topografica” del documento, ha la funzione, garantistica, di richiamare l’attenzione dell’Ufficiale Giudiziario alla regolare esecuzione dell’operazione di consegna della copia conforme all’originale dell’atto;

che solo la regolare esecuzione di un tale adempimento conferisce fede privilegiata alla relazione redatta dal Pubblico Ufficiale;

che, infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sentenza n. 15199 del 2004), l’eccezione di inammissibilità di un atto d’impugnazione, proposta sotto il profilo dell’incompletezza della copia notificatagli, per mancanza di alcuno dei fogli o delle pagine, deve respingersi qualora l’originale dell’atto, depositato dall’impugnante rechi “in calce” la relazione di notificazione redatta dall’ufficiale giudiziario, contenente l’attestazione dell’eseguita consegna della copia del ricorso, ed essa non sia stata impugnata con la querela di falso, dovendosi ritenere, in difetto di tale querela, che detta attestazione, per effetto di tale locuzione, sia estesa alla conformità della copia consegnata all’originale completo, ciò ricavandosi dal combinato disposto dell’art. 137 c.p.c., comma 2, e dell’art. 148 c.p.c.;

che tale principio, però, non può essere esteso al caso – come quello in esame – della relata apposta, anziché “in calce”, sul frontespizio dell’originale della sentenza;

che, in tal caso, infatti, il mancato rispetto delle formalità non offre garanzia che la consegna dell’atto sia avvenuta nella sua integralità e, di conseguenza, non comporta il prodursi dell’effetto giuridico ad esso conseguente, onde deve dirsi nulla la notificazione così eseguita, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2, perché “l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”;

che, pertanto, il ricorso del contribuente deve essere accolto e la sentenza impugnata, siccome illegittima, per essere stata resa in contrasto con la menzionata regula iuris, deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della stessa C.T.R., la quale provvederà anche in ordine alla spese di questa fase.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, ad altra sezione C.T.R. dell’Emilia-Romagna.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della V sezione civile della Corte di cassazione, dai magistrati sopraindicati, il 1 Marzo 2007.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 11-01-2007) 05-03-2007, n. 4999

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIGGIO Ugo – Presidente

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere

Dott. SOTGIU Simonetta – Consigliere

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – rel. Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AMMINISTRAZIONE DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, e AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, elettivamente domiciliate in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che le rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

LEVANTE NORDITALIA ASSICURAZIONI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via del Corso n. 525, presso lo studio dall’avv. Cascino Giovanni, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Ruggero Barile, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, sez. 65^, n. 254 del 26 settembre 2000;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11.1.2007 dal consigliere relatore Dott. Aurelio Cappabianca;

udito per l’Amministrazione ricorrente l’avv. Gianni De Bellis;

udito per la società controricorrente l’avv. Giovanni Cascino;

udito il P.M., in persona del sostituto procuratore generale Dott. Leccisi Giampaolo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
In data 22.7.1982, l’Ufficio notificò alla s.a.s. L.T.C. di Sironi Alberto avviso di rettifica iva, che, non venne impugnato.

Poichè la rettifica tendeva al recupero di un indebito rimborso d’imposta di complessive L. 119.511,000, concesso alla società contribuente con procedura accelerata D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 38 bis e tale rimborso era garantito da polizza fideiussoria stipulata con Norditalia Assicurazioni s.p.a., il 16.6.1982, l’Ufficio richiese a detta compagnia assicuratrice il versamento dell’importo suddetto, oltre gli interessi.

Non avendo Norditalia provveduto al pagamento, l’Ufficio le notificò avviso di ingiunzione di pagamento “iva anno 1980”, contro il quale la compagnia assicuratrice propose ricorso.

La società ricorrente rilevò che – ai sensi delle condizioni di polizza (art. 3) – la garanzia aveva validità di due anni dalla data dell’ordinativo del pagamento a favore del contraente, e concerneva l’obbligo di restituzione delle somme rimborsate al contribuente, che fossero risultate indebitamente tali, “giusto avviso di rettifica o di accertamento ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, o art. 55, comma 2 e succ. mod. notificato al contribuente medesimo entro il periodo di validità della polizza”. Ciò posto, osservò che il credito era stato rimborsato con ordinativo di pagamento n. (OMISSIS) del 18.04.1981 e che, dopo averle comunicato che, con avviso di rettifica “in corso di notificazione”, era stato accertato a carico della società contribuente un indebito rimborso, l’Ufficio le aveva intimato il pagamento correlativo e dei relativi interessi in forza della garanzia assunta, con ingiunzione notificata il 26.10.1987, senza aver, tuttavia, mai più precisato ed attestato la data di effettiva notifica dell’atto di accertamento al contribuente.

Riscontrata la nullità della notifica dell’avviso di rettifica al contribuente (in quanto eseguita a mani di soggetto non legittimato alla ricezione), la Compagnia richiese, pertanto, che venisse accertata e dichiarata l’insussistenza, alla stregua delle condizioni generali di polizza, delle condizioni di operatività della garanzia prestata da essa assicuratrice e l’assoluzione dalla pretesa del l’Amministrazione. ti ricorso fu accolto dalla commissione tributaria di primo grado.

In esito all’appello dell’Ufficio, tale decisione fu confermata dalla commissione regionale, che affermato che l’Amministrazione non aveva fornito prova della data della notifica dell’avviso di rettifica al contribuente (come, peraltro, richiestole con specifica ordinanza istruttoria) concluse che non sussistevano le condizioni di operatività della prestata fideiussione.

Avverso tale decisione, l’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi.

Con il primo motivo di ricorso – deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116, 210 e 213 c.p.c., e D.P.R. n. 636 del 1972, art. 7 e dell’art. 2697 c.c., nonchè contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia l’Amministrazione finanziaria ha censurato la sentenza impugnata per aver ritenuto non assolto l’onere della prova in merito alla data dell’avvenuta notifica dell’avviso di rettifica al contribuente, benchè essa ricorrente avesse, in proposito, ottemperato alla richiesta istruttoria avanzata dalla giudice del merito.

Con il secondo motivo di ricorso – deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 2700 c.c. e degli art. 221 e segg. c.p.c. nonchè dell’art. 2909 c.c. e dei principi generali in materia di efficacia di giudicato e, altresì, contraddittoria ed insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia l’Amministrazione finanziaria ha, in primo luogo, sostenuto che non vi era possibilità di ritenere nulla la notifica dell’avviso di rettifica alla contribuente, poichè la mancanza della qualità di soggetto idoneo a ricevere l’atto nel consegnatario del plico notificato, asseverata dal notificante, non avrebbe potuto essere utilmente invocata altrimenti che mediante proposizione di querela di falso; ha, quindi, prospettato la ricorrenza di un giudicato tra le parti, con riguardo a pregressa decisione del Tribunale di Milano e, comunque, l’estraneità della controversia alla giurisdizione del giudice tributario.

La compagnia assicuratrice ha resistito con controricorso, deducendo, preliminarmente, l’inammissibilità del ricorso per difetto di sottoscrizione nella copia notificata e contestandone la fondatezza.

Motivi della decisione
L’eccezione d’inammissibilità del ricorso opposta, in via preliminare dalla società controricorrente è infondata.

Al riguardo, appare sufficiente rilevare che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, in tema di ricorso per cassazione, l’inammissibilità consegue soltanto alla mancanza di sottoscrizione del difensore sull’originale del ricorso (art. 365 c.p.c.), mentre non da luogo a nullità la mancata sottoscrizione della copia notificata, ove non risultino carenze nell’originale (v., tra le altre, Cass. 13.385/05, 11.632/03, 11.478/02), nella specie insussistenti e nemmeno dedotte. Ciò senza contare, in prospettiva di autosufficienza della deduzione, che all’intimata risultano notificate due copie del ricorso (una al domicilio eletto ed una presso la sua sede) e l’intimata medesima non ha specificato ove ha riscontrato la denunziata mancanza.

Ciò posto, va osservato che, attese le contrapposte deduzioni appare inequivoco e, peraltro, incontroverso tra le parti che, con la domanda introduttiva, la società assicuratrice richiese di essere assolta dalle pretese dell’Amministrazione, non ponendo in discussione il debito del contribuente, ma deducendo L’insussistenza di prova in merito alla ricorrenza delle condizioni di operatività della garanzia previste dall’art. 3 delle condizioni generale di polizza e, specificamente dell’avvenuta notifica dell’avviso di rettifica al contribuente entro il biennio di validità della polizza dalla data dell’ordinativo del pagamento a favore del contraente.

L’accertamento della data di notifica dell’avviso di rettifica era, dunque, funzionale, non alla delibazione del rapporto fiscale, ma alla valutazione dell’operatività della garanzia alla stregua delle relative clausole.

Sulla base di tale premessa, in accoglimento di profilo del secondo motivo del ricorso dell’Amministrazione finanziaria, va rilevato il difetto di giurisdizione del giudice a quo.

Invero, la giurisprudenza di questa corte, ha reiteratamente rilevato che la polizza fideiussoria prevista dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 38 bis al fine di consentire al contribuente il rimborso delle eccedenze iva risultanti dalla dichiarazione annuale in forma accelerata (ossìa senza preventivo riscontro della spettanza) e consistente nell’obbligo per la società di assicurazione di versare le somme richieste dall’ufficio iva, a meno che non vi abbia già provveduto il contribuente, configura un contratto autonomo di garanzia che, diversamente dal modello tipico della fideiussione, è connotato dalla non accessorietà dell’obbligazione di garanzia rispetto all’obbligazione garantita. E da tale premessa ha del tutto convincentemente desunto (v. Cass. 10.188/98, 7395/98) che, nell’ipotesi in cui la società di assicurazione agisca, come nel caso di specie, per ripetere quanto versato, deducendo in giudizio il rapporto nascente dalla polizza fideiussoria (diverso e autonomo rispetto a quello tributario), senza porre in discussione il debito del contribuente, ma negando la ricorrenza delle condizioni di operatività dell’obbligazione di garanzia contrattualmente assunta, la relativa controversia è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario (e non a quella delle commissioni tributarie). Ciò perchè detta controversia ha ad oggetto una situazione giuridica avente consistenza di diritto soggettivo (ripetizione di indebito), basata su un rapporto negoziale di natura giusprivatistica e non incidente in alcun modo sul rapporto tributario.

In forza dell’operato rilievo, che presenta carattere assorbente, la sentenza impugnata va cassata senza rinvio, ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3.

Per la natura della controversia e l’alternante andamento della lite, si ravvisano le condizioni per disporre la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
la corte, accoglie il ricorso; cassa, senza rinvio, la sentenza impugnata. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 gennaio 2007.

Depositato in Cancelleria il 5 marzo 2007


Consiglio di Stato, Sez. IV, Sentenza n. 850 del 19-02-2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

DECISIONE

A) Sul ricorso in appello n. 214 del 1999 proposto dal Ministero delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato ex lege presso i suoi uffici in Roma, Via dei Portoghesi n.12;

C O N T R O

Comune di Firenze, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Maria Athena Lorizio e Claudio Visciola ed elettivamente domiciliato presso la prima in Roma, Via Dora n.1;

B) Sul ricorso in appello n. 452 del 1999 proposto dal Comune di Firenze, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Maria Athena Lorizio e Claudio Visciola ed elettivamente domiciliato presso la prima in Roma, Via Dora n.1;

C O N T R O

Ministero delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliato ex lege presso i suoi uffici in Roma, Via dei Portoghesi n.12;

ENTRAMBI PER L’ANNULLAMENTO

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana, sez.I, n.527/1997 in data 14 novembre 1997;

Visti i ricorsi con i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Firenze (nel ricorso n.214/99) e del Ministero delle Finanze (nel ricorso n.452/99);

Vista la memoria difensiva del Comune di Firenze;

Visti gli atti tutti delle cause;

Alla pubblica udienza del 31 ottobre 2006, relatore il Consigliere Carlo Deodato, ed uditi, l’Avv. Lorizio e l’Avvocato dello Stato Varrone;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1.- Con la sentenza appellata veniva annullata la delibera della Giunta Municipale di Firenze n.2202/2243 del 5 luglio 1996 (impugnata dal Ministero delle Finanze), di disciplina dell’espletamento del servizio notifiche in favore di altre amministrazioni da parte dei messi comunali, nella sola parte in cui veniva subordinata l’esecuzione delle notificazioni alla compatibilità della relativa attività con le potenzialità dell’ufficio, essendo state, invece, ritenute legittime, con conseguente reiezione delle pertinenti censure, le altre disposizioni contestate dall’Amministrazione ricorrente (e, cioè, la previsione della debenza del contributo anche nei casi in cui la legge prevede la notifica gratuita da parte dei messi comunali, la prescrizione che la richiesta di notifica deve avvenire con congruo anticipo e la determinazione del compenso dovuto per gli atti dell’Amministrazione finanziaria).

Avverso quest’ultimo capo della decisione proponeva appello il Ministero delle finanze, criticando la correttezza degli argomenti addotti a sostegno della gravata pronuncia reiettiva, insistendo nel sostenere l’incompetenza del Comune nella regolamentazione dei compensi dovuti per l’attività di notificazione dei messi comunali e nella disciplina dei tempi e delle condizioni dell’espletamento di quest’ultima, ed invocando la riforma parziale della sentenza appellata ed il conseguente annullamento della delibera commissariale, anche nella parte contestata con l’appello.

Il capo di annullamento della delibera citata veniva, invece, impugnato, con autonomo ricorso, da parte del Comune di Firenze, che contestava il giudizio di illegittimità della parte della determinazione con cui si condizionava l’espletamento del servizio alla compatibilità delle richieste con la potenzialità dell’ufficio e che concludeva, pertanto, per la sua riforma.

Alla pubblica udienza del 31 ottobre 2006 i ricorsi venivano trattenuti in decisione.

2.- Occorre preliminarmente provvedere alla riunione degli appelli indicati in epigrafe, in quanto rivolti avverso la medesima decisione.

3.- Si deve, ancora, premettere che le questioni dedotte dalle parti, in entrambi i ricorsi, sono state già esaminate e definite dalla Sezione con una recente pronuncia (Cons. Stato, sez. IV, 14 febbraio 2006, n. 604), con la quale si è, in particolare, ritenuto che non spetti al Comune la competenza relativa alla determinazione dei compensi spettanti ai messi comunali, in quanto riservata al legislatore statale, e che la potestà di autoregolamentazione dell’attività in questione non possa estendersi fino a condizionare la stessa possibilità di utilizzo del servizio in questione da parte delle amministrazioni statali, con la previsione di modalità, di condizioni e di termini per l’accesso allo stesso del tutto incompatibili con le esigenze postulate dal rispetto della normativa primaria che regola, con forza inderogabile e vincolante, le notifiche degli atti giudiziari.

4.- In coerenza con i principi appena enunciati, dai quali la Sezione non ravvisa ragioni di diritto od elementi di fatto per discostarsi, si deve, quindi, giudicare fondato l’appello del Ministero delle finanze, siccome rivolto a contestare la stessa sussistenza della potestà del Comune di dettare disposizioni relative alla debenza ed alla misura del contributo per l’attività di notificazione da parte dei messi comunali ed alle modalità temprali di presentazione delle richieste di notifica.

E’ sufficiente, al riguardo, ribadire che “il convincimento della spettanza al Comune della competenza a determinare i compensi dei messi comunali non può fondarsi sul rilievo dell’avvenuta delegificazione della materia, ad opera dell’art.4 della legge 12 luglio 1991, n.151 che, avendo abrogato il precedente regime delle tariffe del predetto servizio, aveva automaticamente riservato ai Comuni, secondo la ricostruzione della fattispecie operata in prima istanza, la potestà di disciplinare, in via regolamentare, tale aspetto dell’attività di notificazione.

Sennonché, a ben vedere, l’avvenuta abrogazione dell’art.4 della legge 10 maggio 1976, n.249 (per effetto dell’art.4, comma 2, l. n.151/91) non implica l’immediata e conseguente devoluzione ai Comuni della competenza alla determinazione dei compensi dovuti ai messi comunali; e ciò per un duplice ordine di considerazioni.

Innanzitutto, perché l’abrogazione di una norma di rango primario, ancorché produttiva di una lacuna nell’ordinamento (da colmarsi con gli ordinari strumenti ermeneutici), non comporta l’automatico effetto dell’assegnazione della competenza – alla regolamentazione della fattispecie originariamente disciplinata dalla disposizione abrogata – ad una fonte normativa secondaria o, addirittura, amministrativa (come in questo caso), se non in presenza di una esplicita clausola di delegificazione (nella specie mancante).

In secondo luogo, in quanto la conclusione raggiunta dai primi giudici si fonda sull’impropria qualificazione dell’attività di notificazione svolta dai messi comunali come direttamente pertinente alle competenze dei Comuni (donde la potestà alla loro regolamentazione), mentre, di contro, la legge 24 febbraio 1971, n.114 (che contiene la determinazione originaria delle tariffe) qualifica espressamente i compensi contestualmente stabiliti come spettanti ai messi comunali, e non ai Comuni, con la conseguenza che la fonte del potere in questione non può essere in alcun modo rinvenuta nella titolarità, da parte dell’ente locale, del servizio in questione e, dunque, del diritto alla sua remunerazione, viceversa intestato direttamente e personalmente ai messi comunali” (Cons. Stato, sez. IV, n. 604/06 cit.).

Con la conseguenza che il Comune di Firenze era del tutto sprovvisto della competenza alla determinazione dei presupposti (della relativa obbligazione) e della misura dei compensi spettanti ai messi comunali, da ritenersi ancora riservata alla legge statale.

In ordine alla seconda questione sollevata dal Ministero appellante, relativa alla parte in cui la Giunta aveva disciplinato i termini per la consegna degli atti da notificare, si osserva che “pur ammettendo la (peraltro dubbia) competenza del Comune all’autoregolamentazione dell’attività di notificazione assegnata ai messi comunali (ovviamente per profili diversi da quelli relativi al compenso dovuto a questi ultimi), deve, in ogni caso, escludersi che tale potestà possa estendersi fino a condizionare la stessa possibilità di utilizzo del servizio in questione da parte delle amministrazioni statali, con la previsione di modalità e di termini per l’accesso allo stesso del tutto incompatibili con le esigenze postulate dal rispetto della normativa primaria che regola le notifiche degli atti giudiziari.

Ne consegue che la delibera commissariale scrutinata risulta viziata anche nella parte in cui si occupa di fissare termini rigidi per la presentazione delle richieste di notifica, del tutto incompatibili con l’osservanza della disciplina legislativa sulle notificazioni, rispetto alla quale la determinazione in esame si appalesa contrastante” (Cons. Stato, sez. IV, n.604/06 cit.).

5.- Per le medesime ragioni da ultimo esposte, va anche confermato il giudizio di illegittimità, già reso in prima istanza e gravato con l’appello del Comune, del capo della delibera di Giunta con cui veniva subordinato l’espletamento del servizio alla sua compatibilità con le potenzialità dell’ufficio, posto che, anche qui, il potere di autoregolamentazione dell’attività non può spingersi fino a condizionare la stessa prestazione del servizio a fattori, quali l’organizzazione amministrativa interna, diversi ed estranei, rispetto a quelli che, secondo la normativa primaria, esonerano i Comuni dal servizio in questione od escludono il suo carattere necessario ed indefettibile.

6.- Alle considerazioni che precedono conseguono, in definitiva, l’accoglimento dell’appello del Ministero delle finanze e la reiezione di quello del Comune di Firenze, con il conseguente annullamento della delibera impugnata in primo grado, in tutte le parti contestate con il ricorso originario.

7.- Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, riunisce i ricorsi indicati in epigrafe, respinge l’appello del Comune di Firenze (n. 452/99), accoglie quello del Ministero delle finanze (n.214/99) e, in parziale riforma della decisione appellata, annulla la delibera della Giunta Municipale di Firenze n.2202/2243 del 5 luglio 1996, relativamente a tutte le parti contestate con il ricorso di primo grado; condanna il Comune di Firenze a rifondere al Ministero delle finanze le spese di entrambi i gradi di giudizio, che liquida in complessivi Euro 3.000,00;

ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 31 ottobre 2006, con l’intervento dei signori:

CARLO SALTELLI – Presidente f.f.

CARLO DEODATO – Consigliere, Estensore

SALVATORE CACACE – Consigliere

SERGIO DE FELICE – Consigliere

EUGENIO MELE – Consigliere


Cass. civ. Sez. I, (ud. 11-01-2007) 15-02-2007, n. 3453

Violazioni al codice della strada: se il trasgressore ha cambiato residenza, senza comunicarlo al PRA, la notifica all’indirizzo sbagliato non è valida

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MUSIS Rosario – Presidente

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Consigliere

Dott. FIORETTI Francesco Maria – rel. Consigliere

Dott. GILARDI Gianfranco – Consigliere

Dott. PANZANI Luciano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.A., elettivamente domiciliato in ROMA VIA TRIONFALE 21, presso l’avvocato VITTORIO BALZANI, rappresentato e difeso dall’avvocato PIANESE FRANCESCO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

PREFETTURA DI LATINA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1319/01 del Giudice di pace di LATINA, depositata il 05/11/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/01/2007 dal Consigliere Dott. Francesco Maria FIORETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Rosario Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Giudice di Pace di Latina M.A. proponeva opposizione, della L. n. 689 del 1981, ex art. 23 avverso la iscrizioni nei ruoli esattoriali delle sanzioni amministrative dovute per violazione dell’art. 142, comma 8, del vigente codice della strada.

Deduceva il ricorrente che il diritto a riscuotere le somme dovute per la violazione di cui al verbale di contravvenzione n. (OMISSIS) doveva ritenersi prescritto in data 17.4.2001, atteso che la iscrizione nei ruoli esattoriali era stata notificata all’opponente il 15.5.2001 e, pertanto, oltre il termine di cinque anni dal giorno della commessa violazione ((OMISSIS)) … .

Detto verbale era del tutto sconosciuto all’opponente, non essendogli stato mai notificato.

Dalla lettura del verbale e dell’avviso di ricevimento della raccomandata con la quale il verbale avrebbe dovuto essere notificato a mezzo posta, forniti su richiesta dell’opponente dalla Polizia Stradale di Latina, risultava a fianco dell’indirizzo di (OMISSIS) – che costituiva la residenza dell’esponente fino alla data del trasferimento di residenza avvenuto il 27.3.1995 a (OMISSIS), ovvero oltre un anno prima dell’elevazione del verbale di contravvenzione in data (OMISSIS) – la annotazione del postino di turno “trasferito”.

Deduceva, altresì, che per la notifica analogo discorso valeva con riferimento al verbale di contravvenzione n. (OMISSIS), atteso che dal verbale e dall’avviso di ricevimento della raccomandata spedita per la notifica a mezzo posta, forniti sempre dalla Polstrada di Latina, a fianco del vecchio indirizzo risultava la annotazione del postino di turno “trasferito”.

Le suddette notifiche dovevano ritenersi mille a tutti gli effetti.

Costituitosi in giudizio il Prefetto di Latina chiedeva il rigetto della opposizione rilevando che il difetto di notifica, eccepito dall’opponente, nasceva dal mancato rispetto da parte dello stesso dell’art. 94 del vigente C.d.S..

Con sentenza del 29.10.2001, depositata in cancelleria il 5.11.2001 il Giudice di Pace adito respingeva l’opposizione, osservando che l’opposizione proposta trovava un insormontabile ostacolo nella mancata osservanza da parte del M. di quanto prescritto dall’art. 94 del vigente C.d.S., per non aver questo aggiornato tempestivamente la propria residenza si da rendersi reperibile.

Avverso tale sentenza M.A. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo. La Prefettura di Latina non ha spiegato difese.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3);

omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5), in relazione al D.Lgs. 30 aprile 1992, art. 201; artt. 137 e segg. c.p.c., nonchè della L. 20 novembre 1982, n. 890.

La notificazione del plico sia nel caso del verbale di contravvenzione che in quello della cartella esattoriale, tentata all’indirizzo risultante dal Pubblico Registro Automobilistico e compiuta a mezzo della posta, non sarebbe stata completata, perchè, non essendo stato rinvenuto il destinatario, l’ufficiale postale avrebbe reso il plico con la annotazione “trasferito”. Pertanto, si sarebbe dovuto procedere alla notifica nei modi indicati dall’art. 143 cod. proc. civ..

Nè poteva ritenersi, in base all’art. 94 del vigente C.d.S., come ritenuto dal giudice a quo, che l’organo notificatore non era tenuto alla ricerca dell’indirizzo del destinatario, perchè il trasgressore non aveva ottemperato all’obbligo di tenere aggiornata la sua residenza agli atti del P.R.A. e della Motorizzazione Civile.

Tale interpretazione non sarebbe consentita da una esegesi sistematica nella norma summenzionata.

Una corretta interpretazione della stessa non consentirebbe di prescindere dalle regole generali che disciplinano la notificazione degli atti giudiziali civili a destinatari irreperibili.

Non essendosi proceduto in tal senso le notifiche di entrambi gli atti in questione sarebbero nulle.

Il ricorso è fondato.

Il giudice a quo ha motivato il rigetto dell’opposizione del ricorrente, affermando testualmente: “L’opposizione, come proposta da M.A., trova un ostacolo insormontabile nella mancata osservanza di quanto prescritto nell’art. 94 del vigente C.d.S. a suo tempo concretizzata dall’interessato col non aver tempestivamente aggiornato la propria residenza così da rendersi reperibile.

La notifica, nel primo caso del verbale di contravvenzione e nel secondo della cartella esattoriale, risulta effettuata dall’ente notificatore proprio nella residenza iscritta nel P.R.A. all’indirizzo ivi indicato. E non poteva essere altrimenti non essendo tenuto l’organo notificatore alla ricerca dell’indirizzo preesistendo, in capo all’automobilista, l’obbligo di tenere aggiornata la sua residenza agli atti del P.R.A. e della Motorizzazione Civile”.

Tale tesi non appare condivisibile.

L’art. 94 del vigente C.d.S. non disciplina la notificazione delle violazioni, ma disciplina le formalità per il trasferimento di proprietà degli autoveicoli, motoveicoli e rimorchi e per il trasferimento di residenza del destinatario, prevedendo sanzioni amministrative pecuniarie per chi non ottempera agli obblighi imposti dalla stessa disposizione, tra i quali figura quello di chiedere la trascrizione del trasferimento di residenza.

Pertanto non può farsi riferimento a tale norma per stabilire se la notifica di una violazione sia valida o meno.

La norma che, invece, disciplina la notificazione delle violazioni è l’art. 201 del vigente C.d.S..

Il comma 3 di tale norma dispone che alla notificazione della violazione si provvede con le modalità previste dal codice di procedura civile ovvero a mezzo posta, secondo le norme sulle notificazioni a mezzo del servizio postale; che comunque le notificazioni si intendono validamente eseguite quando siano fatte alla residenza, domicilio o sede del soggetto, risultante dalla carta di circolazione o dall’archivio nazionale dei veicoli istituito presso la direzione generale della M.C.T.C. o dal P.R.A. o dalla patente di guida del conducente.

Tale disposizione non può essere interpretata nel senso che le notificazioni devono intendersi validamente eseguite quando effettuate alla residenza, domicilio o sede del soggetto risultante dall’archivio nazionale dei veicoli istituito presso la direzione generale della M.C.T.C. o dal P.R.A. anche se il destinatario non viene rinvenuto in tali luoghi per aver trasferito altrove la propria residenza.

Tale disposizione, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa corte, che il collegio condivide non ravvisando valide ragioni per dissentirne, deve esser interpretata nel senso che la validità della notificazione non è fondata sul semplice tentativo della stessa presso uno dei luoghi summenzionati, bensì sul necessario espletamento delle formalità previste per l’ipotesi d’irreperibilità del destinatario, sia per quanto riguarda la notificazione ordinaria, sia quella postale (cfr. Cass. n. 5789 del 1992; Cass. n. 7044 del 1999; n. 5907 del 2002).

Ne consegue che in ipotesi come quella di specie, nella quale l’agente postale si è limitato ad annotare sull’avviso di ricevimento della raccomandata la scritta “trasferito” senza svolgere alcuna altra attività, la notificazione non può ritenersi valida, richiedendo necessariamente per essere tale l’espletamento delle formalità previste dall’art. 140 c.p.c., per il caso di irreperibilità del destinatario.

Pertanto il ricorso deve essere accolto, la sentenza cassata e la causa rinviata, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, al Giudice di Pace di Latina, in persona di altro magistrato, che per la decisione si uniformerà al principio di diritto sopra enunciato.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa e rinvia, anche per le spese, al Giudice di Pace di Latina in persona di altro magistrato.

Così deciso in Roma, il 11 gennaio 2007.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2007


Cass. civ. Sez. lavoro, (ud. 23-01-2007) 23-01-2007, n. 1418

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERCURIO Ettore – Presidente

Dott. FIGURELLI Donato – Consigliere

Dott. CUOCO Pietro – Consigliere

Dott. MAIORANO Francesco Antonio – rel. Consigliere

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.G.L., elettivamente domiciliato in ROMA VIA R. GRAZIOLI LANTE 16, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO BONAIUTI, rappresentato e difeso dall’avvocato PETTINAU ANDREA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 230/03 della Sezione distaccata di Corte d’Appello di SASSARI, depositata il 08/09/03 – R.G.N. 85/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13/11/06 dal Consigliere Dott. MAIORANO Francesco Antonio;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso alla Corte d’Appello è i Cagliari, sezione di Sassari, C.G.L., dipendente del Ministero del Tesoro in qualità di direttore dell’Ufficio Provinciale di Sassari, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Sassari con la quale era stata rigettata la sua domanda per l’integrale rimborso (ai sensi del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, art. 18, convertito in L. 23 maggio 1997, n. 135) delle spese di difesa da lui sopportate in un giudizio intrapreso contro di lui per il reato di cui all’art. 323 c.p., (abuso d’ufficio) e dal quale era stato assolto con sentenza del 14/12/1999. Precisava che l’Amministrazione di appartenenza aveva autorizzato con nota del 18/6/2000 la rifusione della somma di L. 13.935.240, a fronte di un totale di L. 21.586.220 da lui erogate per sostenere la difesa, come da fatture emesse dai due avvocati, Marsali e Concas, che l’avevano difeso nel procedimento penale e dell’avv. Speranza che l’aveva assistito nel procedimento disciplinare, conclusosi con l’archiviazione dopo l’assoluzione in sede penale.

L’Amministrazione appellata contrastava il gravame e la Corte d’Appello lo rigettava sulla base delle seguenti considerazioni:

l’eccezione di incompetenza della Sezione staccata di Sassari per le cause in materia di lavoro in cui fosse parte una Amministrazione dello Stato, era infondata trattandosi non di una questione di competenza ma di una semplice ripartizione degli affari tra sezioni del medesimo ufficio giudiziario e ed essendo noto l’orientamento del presidente della Corte d’Appello di assegnare alla sezione di Sassari tutti i provvedimenti emessi dai Tribunali di Sassari, Nuoro e Tampio Pausania.

Nel merito, il gravame era infondato: il procedimento disciplinare non rientrava fra quelli per i quali al pubblico dipendente spettasse il rimborso delle spese legali e comunque non c’era la prova della relativa erogazione. Per le spese dei giudizio penale spettava il rimborso delle spese, in caso di assoluzione, previo parere di conformità dell’Avvocatura dello Stato che era immune da censure; il richiamo fatto dal ricorrente al parere di congruità espresso dal Consiglio dell’ordine su richiesta dell’avvocato non era calzante, sia perchè non era obbligatorio come nella specie (ma necessario per il professionista che intendesse ricorrere a forme coattive di recupero del suo credito), sia perchè la valutazione dell’Avvocatura riguardava non la conformità della parcella alle tariffe forensi ma il rapporto fra importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa e delle quali si chiedeva il rimborso.

Nella specie, non poteva essere censurata la decisione del Ministero perchè lo stesso si era attenuto al parere dell’Avvocatura dello Stato, nè il parere medesimo che non era errato o fuorviante: dagli atti prodotti emergeva infatti che il processo, per quanto delicato non era di tale importanza da giustificare la nomina di due difensori e quindi la spesa per la doppia difesa non era giustificata.

L’imputato era libero di nominare più difensori, ma non poteva pretendere il rimborso delle due parcelle; tale rimborso, infatti, non poteva avvenire a piè di lista, ma in base alla congruità delle stesse. La valutazione dell’Avvocatura poteva essere contestata in sede giudiziale, dimostrando la necessità della doppia difesa cosi da rendere incongrua ed ingiustificabile la valutazione dell’avvocatura erariale e non semplicemente richiamando il proprio diritto a nominare due difensori, come nella specie. La sentenza quindi doveva essere confermata.

E’ domandata ora la Cassazione di detta pronuncia con un solo motivo, col quale si lamenta contraddittorietà e insufficienza della motivazione, per non avere il Giudice considerato che egli è un dirigente a contratto, per cui un’eventuale condanna avrebbe comportato la cessazione del rapporto di lavoro; tale eventualità è stata scongiurata soltanto a seguito dell’assoluzione in sede penale, perchè questa ha comportato l’archiviazione del procedimento disciplinare. Il parere dell’Avvocatura è stato espresso dopo l’assoluzione, mentre la valutazione in ordine alla necessità di una adeguata difesa deve essere fetta in via preventiva. La previsione secondo cui il rimborso deve avvenire “nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato” si riferisce al controllo di congruità rispetto alla tariffe, analogamente a quanto fa il Consiglio dell’ordine nell’esprimere il suo parere.

L’intimato non si è costituito.

Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.

Nei giudizi intrapresi nei confronti dei dipendenti delle Amministrazioni statali per responsabilità civili, penali ed amministrative, in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza che escluda la loro responsabilità, è previsto il rimborso da parte della Amministrazione di appartenenza delle spese legali, che viene effettuato ai sensi del D.L. n. 67 del 1997, art. 18, conv. in L. n. 135 del 1997, nei “limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato”. Questa esegue una valutazione caratterizzata essenzialmente da aspetti di discrezionalità tecnica, in quanto riferita al parametro della tariffa penale, nonché alla natura e alla complessità della causa ed all’importanza delle questioni trattate, alla durata del processo, alla qualità dell’opera professionale prestata ed al vantaggio arrecato al cliente (cfr. TAR Veneto n. 01033 del 14/4/04). La previsione legislativa, infetti, è di così ampia portata da giustificare pienamente l’interpretazione del Giudice d’appello, secondo cui è fior di luogo il richiamo al parere di congruità espresso dal Consiglio dell’ordine su richiesta dell’avvocato che intenda agire nei confronti del cliente per il recupero della sue spettanze, sia perché quel parere non è obbligatorio, come nella specie, ma necessario, sia perché la valutazione dell’Avvocatura riguarda non solo la conformità della parcella alla tariffe forense (oltre la quale il rimborso sarebbe illegittimo), ma il rapporto fra l’importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa e delle quali si chiede il rimborso.

Osserva in proposito la Corte che tale interpretazione è confermata direttamente dalla ratio legis, che è quella di tenere indenne il funzionario per le spese legali, indispensabili ai fini della difesa da un’accusa ingiusta per fatti inerenti ai compiti e responsabilità dell’ufficio, e indirettamente anche dalla norma finale e di chiusura di cui al D.L. medesimo, art. 20, secondo cui “l’attuazione delle disposizioni di cui al presente decreto deve risultare coerente con gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica stabilito con la nota di aggiornamento al documento di programmazione economico – finanziaria per il triennio 1997 – 99”. In sostanza il dipendente, ingiustamente accusato di abuso d’ufficio, ha diritto al rimborso da parte della Amministrazione di appartenenza delle spese sopportate per la sua difesa, ma entro il limite di quanto strettamente necessario (trattandosi di erogazioni che gravano sulla finanza pubblica e devono quindi essere contenute al massimo) secondo il parere di un organo tecnico altamente qualificato per valutare sia le necessità difensive del funzionario, in relazione alle accuse che gli vengono mosse ed ai rischi del giudizio penale, e sia la conformità della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale. Emerge così nettamente la differenza fra questo parere dell’Avvocatura dello Stato, con quello emesso dal Consiglio dell’ordine in merito alla parcella dell’avvocato in vista del contenzioso col suo cliente privato e per il quale deve essere controllata soltanto la conformità alla tariffa professionale, essendo assolutamente irrilevante l’ammontare complessivo della spesa.

Questa Corte però ha ripetutamente affermato che la discrezionalità tecnica è variamente limitata, sia dal rispetto delle norme di comune prudenza e diligenza, poste a tutela del principio del “neminem iaedere” (Cass. n. 1501/97; SU n. 3567/97), sia dalle esigenze di tutela dei diritti soggettivi perfetti (Cass. SU n. 9477/97; 10737/98; 117/99); da qui deriva la conseguenza che il parere espresso dall’Avvocatura erariale è soggetto al vaglio del Giudice ordinario per il necessario controllo del rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti, riconosciuti dalla Costituzione, in modo da poter escludere che la discrezionalità tecnica si trasformi in arbitrio. Il parere dell’Avvocatura quindi è soggetto alla valutazione di congruità da parte del Giudice, come ogni questione che influisca sui diritti soggettivi.

In punto di fatto, tale valutazione è stata già espressa dal Giudice di merito che, attenendosi a questo principio di diritto, ha ritenuto che tale parere non è “logicamente errato o altrimenti fuorviante: il processo penale, per quanto delicato e non semplice, non era – né comunque ciò è stato dimostrato con la produzione dei relativi atti o altrimenti – di tale importanza da consigliare la nomina di due difensori”. Lo stesso Giudice specifica poi quale prova doveva essere data ai fini dell’accoglimento della domanda ed aggiunge che il parere in questione può essere contestato, non richiamando semplicemente il diritto dell’istante a nominare due difensori, ma dimostrando che “per la particolare natura dell’affare, per l’esigenza di apporto specialistico di un legale versato in una branca non comune, o per altre particolari circostanze, è opportuna (e non solo consentita) la difesa da parte di due professionisti, sì da rendere incongrua ed ingiustificabile la valutazione dell’Avvocatura erariale per la liquidazione della parcella ad un solo legale”. Questa valutazione non è stata minimamente contestata e quindi il ricorso va rigettato. Non vi è luogo a provvedere in ordine alle spese non essendosi costituita in giudizio l’Amministrazione intimata.

P.Q.M.
LA CORTE Rigetto il ricorso e dichiara non luogo a provvedere in ordine alle spese.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2007


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 14-12-2006) 19-01-2007, n. 1139

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Primo Presidente f.f.

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Consigliere

Dott. GRAZIADEI Giulio – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere

Dott. BONOMO Massimo – Consigliere

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.D.H.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 38, presso lo studio dell’avvocato L. NAPOLITANO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARONE GHERARDO, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, in persona del Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL VIMINALE 43, presso lo studio dell’avvocato LORENZONI FABIO, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la decisione n. 345/04 del Consiglio di Stato di ROMA, depositata il 03/02/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/06 dal Consigliere Dott. Bruno BALLETTI;

uditi gli avvocati Domenico IARIA per delega dell’avvocato Gherardo Marone, Pasquale MOSCA per delega dell’avvocato Fabio Lorenzoni;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PALMIERI Raffaele, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso dinanzi al T.A.R. del Lazio T.D.H.C. richiedeva la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore – Facoltà di Medicina e Chirurgia sulla istanza notificata in data 22 novembre 2002, e l’annullamento del Decreto 26 agosto 2002, con cui era stato bandito un concorso per l’assegnazione di dodici borse di studio, riservate agli iscritti al primo anno delle scuole di specializzazione medica, nonchè del provvedimento che la escludeva dalla assegnazione delle cennate borse di studio.

Con sentenza del 17 marzo 2003 il T.A.R. Lazio – ritenuta fondata l’eccezione di inammissibilità formulata dalla resistente Università Cattolica del Sacro Cuore – dichiarava inammissibile il ricorso della T.D.H. e – su impugnativa della soccombente e ricostituitosi il contraddittorio – il Consiglio di Stato, con decisione del 3 febbraio 2004, rigettava l’appello compensando le spese di giudizio.

Per la cassazione di tale sentenza T.D.H.C. propone ricorso affidato ad un unico complesso motivo concludendo per “la declaratoria del giudice amministrativo”.

L’intimata Università Cattolica del Sacro Cuore resiste con controricorso e deposita memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione
1 – Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente – denunciando “violazione dell’art. 111 Cost.” rileva che “nel caso di specie il Giudice amministrativo non poteva giudicare in quanto si trattava sicuramente di diritto soggettivo, (atteso che) l’attribuzione della borsa di studio è indipendente da qualsiasi valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione perchè si tratta della particolare procedura di affidamento della borsa di cui alla L. n. 398 del 1989; e in virtù di quella norma l’Amministrazione deve solo prendere atto della esistenza della graduatoria di ammissione alla scuola di specializzazione e attribuire, nell’ordine di inserimento in quella graduatoria, le borse di studio”. 2 – Il ricorso come dianzi proposto di appalesa infondato. Dalla normativa applicabile in materia di borse di studio postuniversitarie (spec. L. n. 398 del 1985, art. 6) si evince, infatti, che è proprio la “particolare procedura di affidamento della borsa ex L. n. 398 cit., pure richiamata dalla ricorrente, che impone il ricorso alla procedura concorsuale al fine di accertare il reddito personale e l’eventuale cumulo con altre borse di studio allo stesso titolo da parte dei candidati.

Nel caso di specie, con il bando rettorale n. (OMISSIS), l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha dato attuazione alla cennata normativa – che prevede, appunto l’assegnazione delle borse di studio in base alla graduatoria di merito salvo l’accertamento, a mezzo di apposito procedura, degli ulteriori requisiti di legge -:

per cui; trattandosi di procedura concorsuale, la posizione giuridica soggettiva che i concorrenti possono dedurre in giudizio riveste natura di interesse legittimo sulla quale ha giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo.

E’ , altresì, da rilevare che nella decisione impugnata il Consiglio di Stato, in relazione alla prospettazione difensiva della T. D.H. che l’Università non avrebbe dovuto bandire alcun concorso per l’assegnazione delle borse di studio in contestazione, ha prettamente osservato, che “l’Università non ha derogato al criterio di assegnare le borse di studio sulla base della graduatoria di merito, ma solo previsto, nell’ambito di una scelta logica e comprensibile, che gli studenti collocati in posizione utile possono presentare la domanda di assegnazione, onde evitare che la assegnazione delle borse di studio potesse avvenire a beneficio di studenti non più interessati ovvero privi dei requisiti richiesti dalla legge”; sicchè – vale ribadire – il giudizio de quo verteva sulla pretesa tutela di posizione di interesse legittimo e, sotto altro profilo, la ricorrente non poteva, comunque, vantare un diritto soggettivo all’assegnazione della borsa di studio da far valere dinanzi al giudice ordinario, non avendo presentato la domanda di partecipazione alla procedura concorsuale, finalizzata, all’accertamento dei requisiti previsti dalle disposizioni di cui alla L. n. 398 del 1989 cit., art. 6. Al riguardo, a conferma dell’infondatezza del ricorso, si rimarca che la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti sono manifestazione (Cass. Sez. Un. n. 10180/2004).

In particolare, il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato è circoscritto ai motivi inerenti alla giurisdizione, ossia ai vizi concernenti l’ambito della giurisdizione in generale o il mancato rispetto dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo (ipotesi, quest’ultima, che ricorre anche quando il Consiglio di Stato, in materia attribuita alla propria giurisdizione limitatamente al solo sindacato di legittimità degli atti amministrativi, abbia compiuto un sindacato di merito), con esclusione di ogni sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale, cui invece attengono gli errori “in indicando” e “in procedendo”, i quali esorbitano dai confini dell’astratta valutazione di sussistenza degli indici definitori della materia ed investono l’accertamento della fondatezza, o meno, della domanda (Cass. Sez. Un. n. 17553/2002). Con l’ulteriore precisazione che il ricorso in cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato, consentito per i soli motivi inerenti alla giurisdizione dall’art. 111 Cost., è ammissibile per il difetto assoluto di giurisdizione solo quando manchi nell’ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l’interesse dedotto in giudizio, sì che non possa individuarsi alcun giudice titolare del potere di decidere; non è, per contro, ammissibile – come nella fattispecie – il ricorso in cassazione che asserisca un’erronea interpretazione della norma di diritto, inidonea in concreto a tutelare l’interesse affermato dalla parte, poichè in tal caso la questione attiene al merito della controversia e non alla giurisdizione (così, testualmente, Cass. Sez. Un. n. 10734/2003).

3 – In definitiva – affermata la giurisdizione del giudice amministrativo – il ricorso proposto da T.D.H. deve essere rigettato e la ricorrente, per effetto della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2600,00, di cui Euro 2500,00, per onorario, oltre alle “spese generali ed agli accessori di legge”.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 23-10-2006) 27-11-2006, n. 25095

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SACCUCCI Bruno – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe V.A. – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. GENOVESE Francesco A. – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore;

e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;

– ricorrenti –

contro

M.A., elettivamente domiciliato in Roma, via Ovidio 32, presso l’Avv. Pellicciari Irene, rappresentato e difeso dall’Avv. Mastrangelo Cosimo giusta delega a margine del ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Centrale, Sez. 19, n. 5152/2002, del 8 marzo 2002, depositata il 15 giugno 2002, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23 ottobre 2006 dal Relatore Cons. Dott. BOTTA Raffaele;

udito l’Avv. Mastrangelo Cosimo per il controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La controversia concerne l’impugnativa dell’intimazione a pagare l’imposta I.N.V.I.M. relativa ad una donazione, in ordine alla quale l’Ufficio del Registro di Trieste, formatosi il giudicato sulla determinazione del valore finale dell’immobile oggetto di accertamento sotto tale profilo, aveva inutilmente notificato al contribuente, nel frattempo trasferitosi all’estero, il relativo avviso di liquidazione. A fondamento della propria impugnazione il contribuente deduceva la nullità della notifica dell’avviso di liquidazione e la conseguente decadenza dell’Ufficio.

Vistosi rigettato il ricorso tanto in primo, quanto in secondo grado, il contribuente, da un lato, produceva istanza di condono ai sensi della L. n. 413 del 1991, art. 53, comma 5, e, dall’altro, ricorreva alla Commissione Tributaria Centrale, la quale, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il ricorso originariamente proposto avverso l’intimazione di pagamento e, considerato conseguenzialmente non esaurito il rapporto e pendente la controversia, affermava la legittimità della suindicata istanza di definizione agevolata.

Avverso tale sentenza, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate propongono ricorso per cassazione con due motivi. Resiste il contribuente con controricorso, illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso, le parti ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e), dell’art. 140 c.p.c., del D.P.R. n. 634 del 1972, art. 74 e del D.P.R. n. 643 del 1972, art. 31, nonché motivazione apodittica, incerta e contraddittoria, ed omesso esame di un punto decisivo della controversia. La Commissione Tributaria Centrale avrebbe erroneamente, ad avviso delle parti ricorrenti, ritenuto applicabile nella fattispecie l’art. 140 c.p.c., mentre la disposizione cui doveva farsi riferimento era costituita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e).

La censura proposta è, sotto il profilo della violazione di legge, fondata. E’ infatti pacifico, lo ammette chiaramente lo stesso contribuente, che questi si era trasferito all’estero all’epoca della contestata notifica dell’avviso di liquidazione: siffatta situazione imponeva all’Ufficio di procedere alla predetta notifica non già ai sensi dell’art. 140 c.p.c., bensì ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e).

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, “le persone fisiche, che dopo la presentazione della dichiarazione dei redditi non sono più residenti nel territorio dello Stato per aver trasferito la propria residenza anagrafica all’estero, hanno, per espressa previsione di legge, il domicilio fiscale nel Comune in cui si è prodotto il reddito (o, se il reddito si è prodotto in più Comuni, nel Comune in cui si è prodotto il reddito più elevato) (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, commi 1 e 2). Pertanto, la notificazione dell’avviso di accertamento fiscale, ove non possa essere eseguita presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi per il trasferimento all’estero del contribuente, non deve essere eseguita nelle forme consolari, ostandovi la previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. f), ma, in mancanza di abitazione, ufficio o azienda nel Comune di domicilio fiscale, deve essere svolta, sul presupposto dell’esecuzione di adeguate ricerche nel detto Comune, non già per mezzo della spedizione della raccomandata, ma con l’affissione dell’avviso di deposito all’albo del Comune, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), senza che tale disciplina, tenuta ferma anche dallo Statuto del contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000 (art. 6, comma 1), possa dirsi lesiva del diritto di difesa del contribuente, il quale deve essere contemperato con l’interesse fiscale dello Stato” (Cass. n. 9922/2003; v. anche Cass. n. 7773/2006).

Anzi, la Corte ha stabilito che, contrariamente a quanto mostra di ritenere il controricorrente, sarebbe stata inesistente una notifica eseguita ai sensi dell’art. 142 c.p.c., la cui applicazione è esplicitamente esclusa dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. f). Infatti, ha affermato la Corte, “in tema di imposta di registro, la notifica dell’avviso di accertamento di maggior valore relativo alla compravendita di un immobile a persona non residente, né dimorante, né domiciliata nella Repubblica, effettuata all’estero tramite il Consolato d’Italia, è inesistente, dovendosi effettuare, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e), nel Comune di stipulazione o formazione dell’atto” (Cass. n. 8456/1996).

Nel caso di specie, quindi, correttamente l’Ufficio aveva proceduto a notificare l’avviso di liquidazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), notifica che si perfeziona con l’affissione del deposito dell’atto all’albo della Casa Comunale, ove deve rimanere esposto per 8 giorni consecutivi, senza che occorra la spedizione dell’avviso (dell’avvenuto deposito) mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Essendo state rispettate le formalità prescritte dalla surrichiamata disposizione (ed essendo inapplicabile la procedura di notifica prevista dall’art. 140 c.p.c.), non poteva essere dichiarato il mancato esaurimento del rapporto ed affermata la validità dell’istanza di definizione agevolata prodotta dal contribuente: invero, se la Commissione Tributaria Centrale avesse accertato, come avrebbe dovuto, il rispetto delle formalità di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), e, quindi, la validità della notifica dell’avviso di liquidazione, non impugnato dal contribuente, ne sarebbe conseguita la definitività dell’accertamento e della relativa liquidazione con l’impossibilità di ricorrere al condono ex L. n. 413 del 1991, art. 53 non essendo pendente alcuna controversia alla data del 30 settembre 1991 (l’avviso di liquidazione era stato notificato l’11 aprile 1989).

Deve essere accolto, quindi, il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessario alcun altro accertamento di fatto, la causa può essere decisa nel merito mediante il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 ottobre 2006.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2006