REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente
Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere
Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere
Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere
Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
BANCA DELLE MARCHE S.P.A., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA MARIA CRISTINA 8, presso l’avvocato GOBBI GOFFREDO, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
A.N., R.M.R., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 132, presso l’avvocato CIGLIANO FRANCESCO, che li rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 194/03 della Corte d’Appello di ANCONA, depositata il 15/03/03;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2007 dal Consigliere Dott. Aldo CECCHERINI;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato GOFFREDO GOBBI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione (ed in particolare per l’accoglimento del 2^ motivo).
Svolgimento del processo
Con ricorso in data 2 maggio 1995, la Banca delle Marche s.p.a (in precedenza Cassa di risparmio delle Marche Ca.Ri.Ma. s.p.a., ed ancor prima Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata) chiese al Presidente del Tribunale di Macerata l’emissione di decreto ingiuntivo per la somma di L. 32.161.965, oltre agli accessori a carico dei signori A.N. e R.M.R., entrambi residenti in Roma.
Questi ultimi si opposero, sollevando in via pregiudiziale un’eccezione d’incompetenza territoriale del foro di Macerata. Per quel che qui interessa, essi dedussero che l’art. 20 della lettera – contratto del 26 giugno 1992 aveva bensì previsto una deroga alla competenza territoriale, specificamente approvata per iscritto, a favore “della giurisdizione nella quale trovasi la direzione generale della Cassa”, a quel tempo in Macerata; tuttavia, a seguito della fusione della Ca.Ri.Ma. s.p.a. con la Cassa di risparmio di Pesaro s.p.a. la direzione generale era stata fissata in Ancona.
La banca resistette all’opposizione, e il Tribunale di Macerata, con sentenza 19 febbraio 1999, respinta l’eccezione d’incompetenza territoriale, rigettò l’opposizione, osservando che, dopo la fusione delle due banche, erano state istituite in Pesaro e in Macerata sedi principali e direzioni compartimentali; e che nella specie trovava applicazione l’art. 19 c.p.c., relativo al foro delle persone giuridiche.
Contro la sentenza, notificata il 20 ottobre 1999, i soccombenti notificarono atto di appello a mezzo posta il 22 novembre 1999, avendolo consegnato all’ufficiale giudiziario il 19 novembre 1999.
La Corte d’appello di Ancona, con sentenza 15 marzo 2003, respinse l’eccezione di tardività dell’appello, sollevata dalla banca appellata. Sulla questione di competenza, la corte premise che essa doveva essere determinata in base allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, quando la sede della direzione generale della Banca delle Marche s.p.a. non era più in Macerata, ma in Ancona; e che il foro generale delle persone giuridiche è utilizzabile ai fini della determinazione della competenza territoriale quando le persone medesime sono convenute, e non quando sono attrici, come nel presente giudizio. Poiché nella fattispecie era documentato e pacifico che il contratto era stato stipulato in Roma, dove gli appellanti avevano la loro residenza; e che l’obbligazione dedotta in giudizio doveva essere adempiuta in Ancona, sede della direzione generale della banca, o in Roma, sede dello stabilimento, la corte dichiarò l’incompetenza del Tribunale di Macerata e la competenza territoriale alternativa dei tribunali di Roma e di Ancona, e revocò il decreto ingiuntivo, condannando l’appellata al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.
Per la cassazione della sentenza, notificata il 15 maggio 2003, ricorre la banca con atto notificato il 27 giugno 2003, con tre motivi d’impugnazione, illustrati anche con memoria.
Gli intimati resistono con controricorso notificato il 18 settembre 2003.
Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione della L. n. 890 del 1982, art. 4 e la falsa applicazione della L. n. 87 del 1953, art. 30. Si deduce che la notificazione dell’appello proposto dai signori A. e R., ancorché richiesta tempestivamente, era stata eseguita a mezzo posta, con la consegna al destinatario, il 22 novembre 1999, sebbene il 19 novembre 1999 fosse scaduto il termine utile per l’impugnazione, divenuta conseguentemente inammissibile. Contrariamente al giudizio della corte del merito, la dichiarazione d’incostituzionalità della L. n. 890 del 1982, art. 4 pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 novembre 2002 n. 477, sebbene applicabile con efficacia retroattiva alle situazioni anteriormente verificatesi, in questo caso non poteva valere ad impedire l’inammissibilità dell’appello, perché era intervenuta dopo che la decadenza si era già verificata. Nella memoria depositata per l’udienza, la ricorrente deduce che l’appello, se fosse stato deciso tempestivamente, e dunque prima della citata sentenza della Corte costituzionale, sarebbe stato dichiarato inammissibile, e che non può farsi dipendere l’esito della causa dalla durata del processo.
Il motivo è infondato. All’ultima osservazione riportata si deve opporre che il giudice del gravame, dovendo pronunciarsi (d’ufficio) sulla tempestività dell’appello, notificato a mezzo posta dopo la scadenza del termine di legge, nonostante la diligente e tempestiva consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, avrebbe dovuto sospendere il giudizio, e sottoporre alla corte costituzionale la questione di legittimità della norma applicabile, decidendo poi in conformità.
Sulla questione dell’applicabilità della sentenza della Corte costituzionale n. 447/2002, peraltro, questa corte si è già pronunciata, affermando che, in considerazione dell’effetto retroattivo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma processuale comporta che – fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da detta norma sono “sub iudice” – la conformità dell’atto al modello legale debba essere verificata tenendo conto della modificazione della disposizione legislativa conseguente alla pronuncia di illegittimità indipendentemente dal tempo in cui l’atto è stato compiuto, l’unico limite essendo costituito dalle situazioni consolidate per essersi il rapporto già esaurito; pertanto, a seguito della (successiva) sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 26 novembre 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 149 cod. proc. civ. e L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevedono che la notificazione si perfeziona per il notificante alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella antecedente di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, deve ritenersi tempestiva la notificazione del ricorso per Cassazione che sia stato consegnato all’ufficiale giudiziario in data anteriore al decorso del termine annuale previsto dall’art. 327 cod. proc. civ., essendo in proposito irrilevante che la ricezione da parte del destinatario sia avvenuta successivamente (Cass. 16 marzo 2006 n. 5853).
Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, insieme al difetto di motivazione, la falsa applicazione o la violazione dell’art. 5 c.p.c., e la violazione degli artt. 1362, 1346 e 1371 c.c.. La banca ricorrente sostiene che la questione da risolvere era quella dell’interpretazione della clausola contenuta nell’art. 20 del contratto, che attribuiva la competenza a giudicare della controversie tra le parti al foro del luogo nel quale si trovava la direzione generale della banca medesima. Secondo la ricorrente, l’applicazione delle norme sull’interpretazione dei contratti avrebbe porta-to alla conclusione che “le parti, con quella clausola, avevano fissato inderogabilmente che il foro derogabile avrebbe potuto esser solo quello di Macerata”.
Il motivo devolve alla corte una questione di osservanza del canone legale d’interpretazione dei contratti, per il quale nell’interpretazione della clausola contrattuale di deroga alla competenza territoriale deve indagarsi sulla comune intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale delle parole. Tuttavia, il problema della corretta interpretazione dell’art. 20 del contratto (quello contenente la deroga alla competenza territoriale a favore del foro nel quale “trovasi la direzione generale della Cassa”) – e, precisamente, la necessità di intenderlo, in conformità della supposta comune intenzione delle parti, come rinvio non già formale (alla sede della direzione generale della cassa, da verificarsi al momento dell’instaurazione del processo) bensì recettizio (dello statuto della banca al momento della stipulazione) e quindi equivalente alla puntuale indicazione del foro di Macerata – è questione sollevata per la prima volta nel presente giudizio di legittimità. La ricorrente, mentre censura inutilmente il richiamo della corte d’appello all’art. 5 c.p.c. (che ha il solo scopo di identificare – del resto esattamente – il momento di riferimento per la determinazione della competenza territoriale) non è in grado di indicare il passo della sentenza impugnata nel quale la denunciata violazione degli artt. 1362 e 1371 c.c., dovrebbe riscontrarsi: la questione era estranea al dibattito processuale, e la stessa banca, costituendosi nel giudizio di appello, aveva difeso la competenza di Macerata assumendo la permanenza di essa dopo la fusione (e lo spostamento della direzione generale della banca) soltanto in virtù dell’art. 2 dell’atto di fusione, che prevedeva l’istituzione “di sedi principali e divisioni compartimentali”. Il motivo è, pertanto, inammissibile.
Con il terzo motivo, vertente sulla questione di competenza, si denuncia la violazione dell’art. 30 c.p.c. e l’omessa pronuncia sul un punto decisivo. In primo grado la banca aveva anche dedotto che gli opponenti avevano eletto domicilio presso la segreteria del Comune di Macerata, ciò che consentiva di citarli davanti al tribunale di quella città, quale luogo del domicilio eletto. A nulla rileverebbe che l’eccezione non era stata riproposta in appello, perché non si trattava, di eccezione in senso tecnico, ma di un’argomentazione che il giudice doveva conoscere d’ufficio.
Premesso che per i vizi di natura processuale, qual è quello relativo alla statuizione sulla competenza, non può farsi questione di omessa pronuncia art. 112 c.p.c.: l’omessa pronuncia equivalendo in questi casi ad implicito rigetto), bensì soltanto di violazione di norme di diritto, nell’accertamento della quale la corte è giudice anche del fatto processuale, il motivo – pur ammissibile, perché la regola che impone di ritenere abbandonate le eccezioni non riproposte nel giudizio di gravame dall’appellato non si applica laddove, come nel caso di specie, la questione debba essere esaminata d’ufficio dal giudice – è da respingere nel merito.
Deve, infatti, ritenersi nulla, e conseguentemente inidonea anche a giustificare l’applicazione di uno specifico criterio di competenza territoriale a norma dell’art. 30 c.p.c., la clausola contrattuale con la quale i clienti della banca avevano eletto domicilio presso il Comune di Macerata. Vero è che l’elezione di domicilio speciale può essere validamente fatta, secondo la regola stabilita nell’art. 141 c.p.c., anche in mancanza di un rapporto tra il domiciliatario e l’autore dell’elezione concernente l’onere di far pervenire a quest’ultimo l’atto notificato (Cass. 19 maggio 1972 n. 1555); e che, essendo l’elezione di domicilio un atto giuridico unilaterale idoneo a produrre i suoi effetti indipendentemente dal consenso o dall’accettazione del domiciliatario (Cass. 28 gennaio 2003 n. 1259; 3 giugno 1995 n. 6280), l’altro contraente può legittimamente fare affidamento sull’elezione di domicilio dichiarata nel contratto, anche in assenza di quel rapporto. Ma tale regola non soccorre quando l’elezione di domicilio, per la notificazione di futuri atti giudiziari sia fatta presso una pubblica amministrazione che, in mancanza di una speciale norma di legge, né può ricevere atti per conto di privati cittadini, né può addossarsi la cura del loro recapito all’interessato. In quest’ultimo caso, al raggiungimento dello scopo dell’elezione di domicilio non si frappone un ostacolo di fatto, destinato a rimanere confinato nella sfera dei rapporti tra l’autore dell’elezione e il domiciliatario eletto, bensì un’impossibilità di diritto, da ritenere conosciuta da entrambe le parti del contratto (nel caso dell’elezione di domicilio presso la casa comunale, si deve considerare che le competenze di questi enti sono determinate dalla legge e dall’autonomia statutaria; quest’ultima, tuttavia, nei limiti stabiliti dalla legge stessa); e la clausola in questione viene conseguentemente a configurarsi come una dispensa anticipata dalla regolare instaurazione del contraddittorio nelle future cause nascenti da quel contratto. Questo esito è incompatibile con i principi generali dell’ordinamento, e in particolare con le norme costituzionali sul diritto di difesa e sul giusto processo, le quali subordinano la disponibilità del processo per le parti (e con ciò l’esercizio concreto del diritto di difesa) alla preventiva instaurazione del contraddittorio. Viola pertanto il principio indisponibile del contraddittorio la pattuizione che l’atto introduttivo del giudizio potrà essere notificato presso una pubblica amministrazione, dalle cui competenze esula la cura degli interessi privati della parte che elegge domicilio.
In conclusione il ricorso deve esser respinto. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte la corte rigetta il ricorso e condanna la Banca delle Marche s.p.a. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 1.300,00, di cui Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese processuali e agli accessori come per legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 29 maggio 2007. Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2007