Cons. Stato, Sez. VI, Sent., (data ud. 13/10/2009) 10/12/2009, n. 7722

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Sesta)

ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 10911 del 2003, proposto da:

D.A., rappresentata e difesa dall’avv. Gaetano Sciannamea, con domicilio eletto presso Dario Piccioni in Roma, via Emilia, 81;

contro

Università degli Studi di Bari, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata per legge in Roma, via dei Portoghesi 12;

per la riforma

della sentenza del TAR PUGLIA – BARI:Sezione I n. 03931/2002, resa tra le parti, concernente INQUADRAMENTO NELLA QUALIFICA FUNZIONALE DI COLLABORATORE AMMINISTRATIVO.

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 ottobre 2009 il Consigliere di Stato Maurizio Meschino e uditi per le parti l’avv.to Piccioni per delega dell’avv.to Sciannamea e l’avv.to dello Stato Nicoli;

Svolgimento del processo
1. La legge 21 febbraio 1989, n. 63, ha previsto per il personale non docente delle Università, assunto o inquadrato dopo il 1° luglio 1979 e che non aveva quindi beneficiato della legge n. 312 del 1980, la possibilità di essere inquadrato sulla base delle mansioni effettivamente svolte, disponendo allo scopo la valutazione da parte dell’Amministrazione della “Congruenza tra il profilo per il quale è presentata la domanda e l’organizzazione del lavoro propria della struttura presso la quale gli aventi titoli prestano servizio” (art. 1, comma 3).

2. In applicazione di questa normativa la ricorrente in epigrafe, dipendente dell’Università degli studi di Bari, inquadrata nella IV qualifica funzionale, profilo professionale di agente amministrativo (area amministrativocontabile), con istanza presentata al Consiglio di amministrazione dell’Università, ha chiesto di essere inquadrata nella settima qualifica funzionale, profilo collaboratore amministrativo.

3. L’istanza è stata rigettata venendo comunicato alla ricorrente, con nota n. 22016 del 29 luglio 1992, che “il Consiglio di Amministrazione di questa Università, nella seduta del 28.2.1992 ha deliberato che il profilo chiesto di Collaboratore Amministrativo per il quale la S.V. ha prodotto istanza, il giorno 18.11.1991, di inquadramento, non è congruente con l’organizzazione del lavoro propria della struttura presso la quale Ella presta o ha prestato servizio. Lo stesso Consiglio, inoltre, nella medesima seduta ha ritenuto congruo il profilo professionale di Assistente amministrativo per il quale la S.V. ha prodotto istanza in via subordinata.”

4. Con ricorso n. 3397 del 1992, presentato al TAR per la Puglia, la ricorrente ha chiesto l’annullamento del provvedimento di diniego all’inquadramento adottato dal Consiglio di amministrazione dell’Università degli studi di Bari nella seduta del 28 febbraio 1992.

5. Il TAR, sentenza n. 3931 del 2002, ha respinto il ricorso nulla pronunciando sulle spese non essendosi costituita in giudizio l’Amministrazione resistente.

Nella sentenza, quanto alla considerazione delle mansioni svolte dalla ricorrente, richiamata l’attinenza al merito della valutazione di congruità dell’Amministrazione prevista dalla legge, e perciò la sua insindacabilità da parte del Giudice amministrativo se non per manifesti errori di fatto o per profili di eccesso di potere, si afferma che tali mansioni, come attestate dai superiori, non rivestono le caratteristiche di autonomia e di complessità proprie della VII qualifica funzionale e, quanto alla disparità di trattamento, asserita dalla ricorrente a causa dell’attribuzione della VII ed VIII qualifica funzionale a dipendenti appartenenti alla IV qualifica in servizio presso la medesima struttura e svolgenti le sue stesse mansioni, si afferma che il giudizio sfavorevole sulla richiesta della ricorrente non è stato adottato per il mancato riconoscimento all’interno della struttura di attribuzioni funzionali corrispondenti alla VII o VIII qualifica ma sulla base di valutazioni attinenti alle mansioni da ciascuno effettivamente svolte.

6. Con l’appello in epigrafe si censura la sentenza di primo grado, chiedendone l’annullamento, per non aver riconosciuto:

lo scorretto esercizio della discrezionalità da parte dell’Amministrazione a fronte delle mansioni effettivamente svolte dalla ricorrente, alla quale sono stati reiteratamente affidati incarichi richiedenti autonomia, qualificazione e complessità propri della VII qualifica funzionale, come ampiamente provato dalla documentazione prodotta in giudizio;

la intervenuta disparità di trattamento a causa dell’attribuzione della VII qualifica funzionale a colleghi della ricorrente, anche inizialmente appartenenti alla IV qualifica ed esercitanti mansioni del tutto identiche a quelle da lei svolte, come sarebbe definitivamente provato dalla documentazione al riguardo, incluse le “schede” redatte per ciascuno dall’Amministrazione sullo svolgimento delle mansioni superiori; documentazione richiesta in primo grado, non depositata dall’Amministrazione e di cui si reitera la richiesta con il ricorso in esame.

7. Il Collegio nell’udienza del 10 marzo 2009 ha ritenuto necessaria, ai fini del decidere, l’acquisizione di documentazione da parte dell’Università degli Studi di Bari e ha perciò disposto, con ordinanza istruttoria n. 2770 del 2009, il deposito da parte dell’Università presso la Segreteria della Sezione, nel termine di sessanta giorni decorrenti dalla comunicazione della decisione, o dalla sua notifica se anteriore, di copia conforme:

della scheda di rilevazione delle mansioni svolte dall’appellante redatta al fine dell’inquadramento nelle qualifiche funzionali in applicazione del procedimento di cui all’articolo 1 e seguenti della legge n. 63 del 1989;

delle schede di rilevazione delle mansioni svolte da altri dipendenti, inizialmente inquadrati nella IV qualifica funzionale al pari dell’appellante, ed inquadrati, ad esito del procedimento suddetto, nella VII qualifica funzionale (come sarebbe, si asserisce nell’appello, per i signori Iozzia e Pizzi) o in qualifica superiore;

di ogni ulteriore documentazione, verbale, atto e provvedimento afferenti allo svolgimento e conclusione dei procedimenti attuati per l’inquadramento dell’appellante e dei dipendenti suddetti ai sensi della normativa di legge citata.

Con la medesima ordinanza l’udienza per la trattazione è stata fissata al 13 ottobre 2009.

8. In data 10 luglio 2009 è pervenuta documentazione da parte dell’Università degli Studi di Bari, accompagnata dalla precisazione che l’art. 1 della legge n. 63 del 1989 “non prevedeva né la redazione né tantomeno la valutazione di alcuna scheda di “rilevamento mansioni” utilizzabile ai fini dell’inquadramento del personale tecnicoamministrativo delle Università nella qualifica superiore” e che i sig.ri Iozzia Giovanni e Pizzi Ada “a far tempo dal 1.1.90, entrambi sono transitati al Politecnico di Bari”.

In date 3 settembre e 1° ottobre 2009 la ricorrente ha depositato ulteriore documentazione (in particolare, copia dei decreti rettorali, adottati a partire dal 4.7.2001, con i quali è stata delegata a rappresentare l’Università con il potere di conciliare in controversie in materia di lavoro) e memoria difensiva.

9. All’udienza del 13 ottobre 2009 la causa è stata trattenuta per la decisione.

Motivi della decisione
1. Le censure dedotte in appello non sono fondate.

Infatti:

a) nel contesto della normativa di cui alla legge n. 63 del 1989 per il raffronto fra le mansioni svolte e le qualifiche richieste si fa riferimento alla declaratoria di tali qualifiche data con il D.P.C.M. 24 settembre 1981, nel quale le mansioni proprie nell’area amministrativocontabile della VI qualifica (profilo di Assistente amministrativo) e della VII qualifica (profilo di Collaboratore amministrativo) sono caratterizzate, le prime, dall’espletamento “con autonomia operativa” di “procedure attinenti il curriculum degli studenti, le carriere del personale, l’istruzione di atti amministrativi per le quali sono richieste conoscenze teoricopratiche necessarie per la corretta applicazione di norme, nell’ambito di istruzioni ed elaborazioni da parte di appartenenti a qualifiche superiori”, e, le seconde, dalla esecuzione diretta di “procedure complesse in particolare quelle che sono soggette a frequente variabilità”, nonché dalla “esperienza per l’espletamento completo del lavoro affidato all’unità operativa”, con responsabilità di fronte ai superiori “degli atti istruttori assegnati” a tale unità.

b) le mansioni della VII qualifica attingono perciò un grado di complessità superiore a quelle proprie della VI per il contenuto delle procedure da svolgere, in particolare a ragione della loro variabilità e della competenza e responsabilità richieste, poiché relative non soltanto alla propria prestazione ma anche all’esperienza del lavoro dell’unità operativa nel suo complesso e comportanti responsabilità diretta di fronte ai superiori;

c) a fronte di ciò le mansioni indicate dalla ricorrente in primo grado e richiamate nel ricorso in esame, consistono nella istruttoria delle pratiche per il recupero crediti e per l’ammortamento titoli, con l’attivazione dei relativi contatti con gli uffici interessati, nella redazione di certificati per docenti medici convenzionati, nell’aver curato con autonomia il servizio di spedalità, nell’assunzione di informazioni e certificati in processi civili e penali, nella predisposizione di atti di ammissione al passivo fallimentare, nella rappresentanza in giudizio dell’Università in un procedimento per adeguamento canoni;

d) la ricorrente cita altresì gli incarichi di rappresentanza dell’Università in giudizi per controversie di lavoro e davanti al Collegio di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro di Bari, nonché di redazione, con altri, della bozza di regolamento sulle modalità e criteri per i controlli a campione sulle autocertificazioni, che, sulla base della loro elencazione nel ricorso di primo grado e della documentazione in atti, risultano attribuiti dopo l’adozione del provvedimento impugnato;

e) di conseguenza è corretta l’affermazione della sentenza di primo grado per cui le mansioni sopra indicate, allegate dalla ricorrente ai fini del procedimento di cui all’art. 1 della legge n. 63 del 1989, non sono coerenti con la descrizione di quelle proprie della VII qualifica, riguardando compiti di certo comportanti l’autonomia operativa e le conoscenze teoricopratiche proprie delle attività della VI qualifica ma non caratterizzati dall’ulteriore grado di autonomia proprio delle mansioni della VII, non potendo i compiti suddetti definirsi di esecuzione di procedure complesse, né in linea generale, né quanto all’adattamento delle conoscenze ed esperienze a fattispecie variabili ovvero all’assunzione di responsabilità dirette di fronte ai superiori rispetto all’operato dell’unità operativa di appartenenza;

f) sulla questione dell’asserita disparità di trattamento, al cui approfondimento è stata volta la richiesta istruttoria fatta con ordinanza all’Amministrazione, si rileva che nella documentazione pervenuta figura l’attestazione delle mansioni svolte dalla signora Ada Pizzi resa, il 4 gennaio 1991, dal Direttore della divisione presso cui la signora era impiegata al Presidente della Commissione istruttoria insediata ai sensi dell’art. 1 della legge n. 63 del 1989; attestazione che il Collegio ritiene di poter esaminare a raffronto con quelle, depositate in giudizio, dei responsabili degli uffici presso cui ha operato la ricorrente (in particolare a firma dei dott.ri Marabello, Squeo, De Santis e Terlizzi, di data 25 e 26 gennaio 1990, 23 maggio e 10 luglio 1991), in quanto anch’esse sottoposte alla Commissione dalla ricorrente con l’istanza di inquadramento e recanti la descrizione di compiti richiamata nel precedente punto c);

g) le mansioni attestate per la signora Pizzi risultano ascrivibili alla VII qualifica poiché svolte attraverso la redazione di pareri giuridici per gli organi decisionali dell’Università e per i superiori, la gestione di controversie di lavoro con l’elaborazione di proposte di soluzione, la composizione di controversie con ditte fornitrici, l’esame di questioni relative all’edilizia e problematiche connesse, la completa istruttoria delle pratiche con assunzione di diretta responsabilità al riguardo nei confronti dei superiori gerarchici in assenza del capo ufficio: procedure, perciò, tutte complesse caratterizzate dalla necessità di ricerca dell’evoluzione legislativa e giurisprudenziale e da variabilità del contesto di riferimento, come anche attestato;

h) dovendosi concludere, sulla base delle considerazioni svolte, per la legittimità del provvedimento impugnato e per la correttezza dell’affermazione, fatta nella sentenza di primo grado, per cui il giudizio sfavorevole sulla richiesta della ricorrente non è stato adottato per il mancato riconoscimento all’interno della struttura di attribuzioni funzionali corrispondenti alla VII o VIII qualifica ma sulla base di valutazioni attinenti alle mansioni da ciascuno effettivamente svolte.

3. Alla luce di quanto sopra il ricorso risulta infondato e deve perciò essere respinto.

Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese del giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione sesta, respinge il ricorso in epigrafe.

Compensa tra le parti le spese del giudizio.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 ottobre 2009 con l’intervento dei Signori:

Claudio Varrone, Presidente

Luciano Barra Caracciolo, Consigliere

Domenico Cafini, Consigliere

Maurizio Meschino, Consigliere, Estensore

Bruno Rosario Polito, Consigliere


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 10/09/2020) 07/12/2020, n. 27976

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

Metaflor Srl in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale stesa a margine del ricorso, dall’Avv.to Paolo Vitiello, che ha indicato recapito PEC, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del difensore, alla via G. Bruno n. 1/3 in Lugo (RA), domicilio presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, Roma;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 254, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Basilicata il 27.6.2013 e pubblicata il 5.7.2013;

ascoltata, in camera di consiglio, la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio;

la Corte osserva.

Svolgimento del processo
l’Agenzia delle Entrate notificava alla Srl Metaflor la quale aveva dichiarato, in relazione all’anno 2006, perdite nell’ammontare di Euro 4.427,00, l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), con il quale rettificava il reddito ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, nell’ammontare di Euro 371.368,00, in particolare in considerazione del possesso di immobilizzazioni per un valore di 3.094.737,00 Euro. La società aveva invero domandato all’Ente impositore la disapplicazione dell’indicata normativa antielusiva relativa alle c.d. società di comodo, ma l’Agenzia delle Entrate aveva respinto la richiesta ritenendo insussistenti i presupposti per il suo accoglimento.

La Srl Metaflor impugnava l’avviso di accertamento notificatole innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Matera, evidenziando che la società non svolgeva attività produttiva da diversi anni, essendo stata aggredita dai creditori, che avevano anche conseguito il pignoramento di beni strumentali e terreni. In conseguenza era stata posta in liquidazione per atto di notaio nell’ottobre 2002, ed aveva ceduto in comodato i beni aziendali per evitarne il deterioramento.

La CTP accoglieva il ricorso della contribuente, ritenendo che “la società contribuente non era in grado di svolgere qualsiasi attività in pendenza di numerose procedure esecutive immobiliari” (sent. CTR, p. 2).

Avverso la decisione adottata dalla CTP proponeva appello l’Ente impositore innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Basilicata, sostenendo che dovesse trovare applicazione la normativa dettata per le società di comodo, perchè la contribuente era in condizione di produrre reddito ed aveva invece preferito, con scelta volontaria e discrezionale, cedere in comodato gratuito i suoi beni, ed in ogni caso non aveva fornito la prova, che su di essa incombeva, di non essere in condizione di produrre profitti. La CTR riteneva effettivamente non essere stata fornita dalla società la prova dell’impossibilità di conseguire profitti per ragioni obiettive nell’anno 2006 e, stimando correttamente applicati dall’Agenzia delle Entrate i criteri legali di quantificazione del reddito, accoglieva il ricorso proposto dall’Ente impositore ed affermava pertanto la validità ed efficacia dell’avviso di accertamento notificato alla società.

Avverso la decisione adottata dalla CTR della Basilicata ha proposto ricorso per cassazione la Srl Metaflor, affidandosi a due motivi di ricorso. Resiste mediante controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione
Preliminarmente occorre esaminare la contestazione di inammissibilità del ricorso per cassazione, proposta dalla controricorrente Agenzia delle Entrate per essere stato notificato “direttamente all’Ufficio periferico e non al direttore dell’Agenzia delle Entrate” (controric., p. 7). In proposito, integrando quanto già affermato dal Giudice di legittimità, può indicarsi il principio di diritto secondo cui “la notifica del ricorso per cassazione può essere effettuata dal contribuente, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l’interpretazione sia il carattere unitario della stessa Agenzia delle Entrate, sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato” (cfr. Cass. sez. V, 14.1.2015, n. 441, Cass. SU, 14.2.2006, nn. 3116 e 3118). Merita ancora di essere segnalato, peraltro, come questa Corte abbia già avuto occasione di affermare anche il principio secondo cui “nel processo tributario la nullità della notificazione del ricorso introduttivo (ovvero dell’atto di gravame) è sanata con efficacia retroattiva dalla costituzione della parte resistente od appellata, anche quando sia avvenuta al solo fine di eccepire la suddetta nullità”, Cass. sez. V, 4.4.2008, n. 8777.

1.1. – Mediante il suo primo motivo di ricorso la contribuente contesta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 734 del 1994, art. 30, commi 1, 4, e 4-bis, in cui è incorsa l’impugnata CTR, per aver ritenuto applicabile alla fattispecie la normativa in materia di società non operative, trascurando che in relazione alla Srl Metaflor sussistevano le condizioni per la disapplicazione della normativa, che era stata pure esplicitamente richiesta dalla contribuente.

1.2. – Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della impugnata sentenza pronunciata dalla CTR della Basilicata a causa della contraddittorietà della motivazione e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, critica il vizio di motivazione, in cui è incorsa la CTR in conseguenza della “omessa valutazione del materiale probatorio” (ric., p. 8).

2.1. – Con il suo primo motivo di impugnazione la società censura la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la CTR per aver erroneamente ritenuto applicabile nel caso di specie la normativa sulle c.d. società di comodo, che deve invece essere disapplicata, e procedendo in conseguenza ad un’erronea stima del reddito presuntivamente conseguito dalla società e posto a fondamento dell’avviso di accertamento. La Srl Metaflor, infatti, nell’anno 2006, non era in condizione di operare, essendo stata posta da anni in liquidazione perchè aggredita dalle azioni esecutive dei creditori, i quali avevano anche conseguito il pignoramento di una pluralità di beni aziendali. Il compito del liquidatore, osserva la contribuente, non è quello di provvedere all’esercizio dell’attività d’impresa, bensì di salvaguardare il valore del patrimonio aziendale, ed in conseguenza appare corretta la scelta di affidare i beni aziendali in comodato gratuito, al fine di evitarne il deterioramento, “non essendovi prova alcuna che la stessa nelle condizioni in cui si trovava avrebbe potuto trovare le risorse per gestire autonomamente l’azienda” (ric., p. 8). Secondo la ricorrente, poi, la società non avrebbe comunque potuto accedere all’esclusione dall’applicazione della normativa antielusiva prevista dalla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1-sexies, non potendo essere assoggettata ad alcuna procedura concorsuale essendo un imprenditore agricolo.

Le riassunte contestazioni introdotte dalla contribuente risultano mal proposte. La normativa antielusiva in questione non prevede che sia l’Ente impositore a dover dimostrare la capacità della supposta società di comodo di svolgere attività produttiva, bensì che la società debba fornire la prova di non essere in grado di svolgerla. In proposito la società si limita a richiamare l’esistenza di sequestri di beni facenti parte del patrimonio sociale, ma non ha cura di indicare specificamente quali fossero i beni sottoposti a procedura esecutiva, e neppure indica il loro valore rispettivamente al complessivo patrimonio dell’impresa, indicato come pari al rilevante importo di oltre tre milioni di Euro.

La società afferma, poi, che non avrebbe potuto accedere alla disapplicazione della normativa antielusiva ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1-sexies, non potendo essere ammessa ad alcuna procedura concorsuale perchè imprenditore agricolo. Anche in questo caso, però, la società non ha cura di indicare in quali atti processuali si rinvenga la prova che, pur essendo organizzata in forma di società a responsabilità limitata, non fosse assoggettabile a procedura concorsuale, dato peraltro contestato dall’Agenzia delle Entrate (controric., p. 9), senza che la contribuente abbia ritenuto neppure di replicare mediante memoria.

Il primo motivo di ricorso deve essere pertanto rigettato.

2.2. – Mediante il secondo motivo di ricorso la contribuente contesta la nullità della sentenza per essere incorsa in una motivazione contraddittoria, nonchè il vizio di motivazione, per avere la CTR travisato il rilievo del materiale probatorio acquisito in atti.

La censura non appare fondata.

La società sostiene che, nel corso della procedura liquidatoria la società non si trovava in un “periodo normale di operatività”, con la conseguenza che non poteva ritenersi applicabile la normativa antielusiva, ai sensi della circolare del Ministero delle finanze n. 48 del 1997. Ribadisce quindi che, in conseguenza di procedure esecutive mobiliari, aveva subito il pignoramento di propri beni mobili, ma neppure allega quali essi fossero, nè tantomeno chiarisce come abbia provato che, in conseguenza degli atti esecutivi, la sua attività produttiva fosse rimasta preclusa. La contribuente ripete, inoltre, che l’attività liquidatoria non è volta alla produzione, bensì alla conservazione del valore dei beni aziendali.

Occorre in proposito, ricordati e condivisi gli approdi già raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità in materia, cfr. Cass. sez. V, 20.4.2018, n. 9852, esprimere il principio secondo cui “la disapplicazione della normativa antie-lusiva consegue alla dimostrazione da parte dell’impresa dell’impossibilità oggettiva di esercitare l’attività produttiva e conseguire in tal modo proventi, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, e pertanto non trova applicazione nel caso in cui la mancata percezione di proventi dipenda da una scelta volontaria dell’imprenditore, quale è quella di cedere in comodato d’uso gratuito i beni aziendali”. Appare del resto non chiarito e non comprensibile perchè i beni aziendali, ritenuti improduttivi fin quando sono rimasti nella disponibilità della società, abbiano potuto essere ceduti in comodato a diverso soggetto proprio perchè li utilizzasse nello svolgimento dell’attività produttiva, conseguendo un reddito che, però, non era in grado di assicurare alcun provento alla società in liquidazione. La carenza nell’indicazione di elementi fattuali da parte della società non consente di valutare l’applicabilità della invocata normativa secondaria, neppure indicando la ricorrente da quando abbia avuto decorso l’attività liquidatoria, e dovendo anche tenersi conto che proprio la invocata Circolare del Ministero delle Finanze, n. 48 del 1997, prevede che debba essere “considerato periodo di normale svolgimento dell’attività anche quello in cui la società ha affittato o concesso in usufrutto l’unica azienda posseduta”.

Le valutazioni espresse dal giudice impugnato, il quale ha ritenuto che “la società contribuente nel periodo d’imposta 2006 era in condizione di svolgere l’attività, ma invece di rendere produttiva l’azienda agricola ha stipulato un “contratto di comodato” per la gestione della stessa, che, stante l’entità dei beni materiali del valore di Euro 3.094.737,00, consentiva al comodatario di percepire un sicuro reddito dallo sfruttamento dei fattori produttivi dell’azienda ceduta”, non avendo la contribuente fornito prove “riguardo all’impossibilità di trarne profitto” (sent. CTR, p. 3), ed avendone il giudice dell’appello desunto che non risultasse provata la sussistenza dei presupposti di legge perchè alla Srl Metaflor fosse consentito sottrarsi all’applicazione della normativa antielusiva, non risultano contraddittorie ed appaiono pure fondate in base alle risultanze di causa.

Anche il secondo motivo di ricorso introdotto dalla società dev’essere perciò respinto.

Il ricorso introdotto dalla Srl Metaflor in liquidazione deve essere pertanto rigettato. Le spese di lite seguono l’ordinario criterio della soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto dalla Metaflor Srl in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente Agenzia delle Entrate, delle spese di lite del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2020


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 17/09/2020) 01/12/2020, n. 27400

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34553-2018 proposto da:

COMUNE DI SANDRIGO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 318, presso lo studio dell’avvocato SCIUBBA LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato MOLLO RUGGERO;

– ricorrente –

contro

T.R., elettivamente domiciliato in ROMA, Piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato ZUCCOLLO MAURIZIO;

– controricorrenti –

avverso l’ordinanza n. 22865/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 26/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/09/2020 dal Consigliere Dott. STALLA GIACOMO MARIA;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. DE MATTEIS che ha chiesto rigettarsi il ricorso. Conseguenze di legge;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
p. 1.1 Il Comune di Sandrigo (VI) propone ricorso per revocazione, ex art. 391-bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4), dell’ordinanza della sesta sezione civile-tributaria n. 22865 del 26 settembre 2018, con la quale questa Corte di Cassazione ha ritenuto tardivo il ricorso per cassazione dal Comune proposto – nei confronti del contribuente T.R. per il recupero dell’Ici 2009 non versata – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale Veneto n. 1092/5/2016 del 12 ottobre 2016. Ciò perchè tale ricorso per cassazione era stato consegnato per la notifica il 10 aprile 2017 e, dunque, oltre la scadenza (12 febbraio 2017) del termine ‘brevè di impugnazione, la cui applicazione nella specie conseguiva alla notificazione della sentenza di appello – direttamente al Comune – in data 14 dicembre 2016 (come da ricevuta di consegna e timbro di protocollo dell’ufficio ricevente, in atti).

Contrariamente a tale assunto, la notificazione in questione non era idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione, dal momento che il Comune aveva partecipato al giudizio di appello, non in proprio, ma con il patrocinio di un professionista di fiducia, Dott. B.M., presso il cui studio in Bologna aveva eletto domicilio D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17.

La Corte di Cassazione, travisando la situazione di fatto, non si era dunque avveduta di quest’ultima elezione di domicilio, con conseguente inidoneità della notificazione della sentenza direttamente all’amministrazione comunale a fare nella specie decorrere il termine breve di impugnazione.

p. 1.2 Per l’ipotesi di accoglimento dell’istanza di revocazione e conseguente apertura della fase rescissoria del procedimento, il Comune ripropone in questa sede l’originario motivo di ricorso per cassazione, così esposto: – violazione e falsa applicazione – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – del D.L. n. 102 del 2013, art. 2, comma 5-ter conv. in L. n. 124 del 2013; D.L. n. 70 del 2011, art. 7, comma 2-bis, conv. in L. n. 106 del 2011; D.L. n. 201 del 2011, art. 13, comma 14 e 14-bis conv. in L. n. 214 del 2011; D.L. n. 216 del 2011, art. 29, comma 8, conv. in L. n. 14 del 2012; D.M. 26 luglio 2012, art. 5. Per avere la Commissione Tributaria Regionale erroneamente attribuito efficacia retroattiva quinquennale all’istanza del contribuente di assegnazione all’immobile in sua proprietà – fatto oggetto dell’avviso di recupero Ici 2009 opposto – della categoria catastale di ruralità A6 o D10, nonostante che tale efficacia fosse dalla legge riconosciuta unicamente alle istanze presentate all’agenzia delle entrate entro il 30 settembre 2012, mentre nel caso di specie tale domanda era stata presentata soltanto in data 21 febbraio 2014.

Resiste il contribuente con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

p. 2. L’istanza di revocazione è fondata.

Essa si basa sul rilievo secondo cui la Corte di Cassazione avrebbe nella specie applicato il termine breve ex artt. 325-326 c.p.c. facendolo decorrere dalla notificazione della sentenza di appello direttamente presso gli uffici comunali, nonostante che il Comune impositore avesse partecipato al giudizio di merito, ed ivi eletto domicilio, tramite un proprio difensore esterno. Sennonchè, in tanto sarebbe stato applicabile il termine breve di impugnazione, in quanto la notificazione della sentenza di appello fosse regolarmente avvenuta, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, presso il domicilio eletto, e non direttamente presso gli uffici comunali.

Si osserva nel ricorso per revocazione: “si è convinti che nel pronunciare l’ordinanza di cui si chiede la revocazione tale rilevante circostanza sia sfuggita: infatti se la Corte Suprema di Cassazione avesse preso atto della costituzione del Comune nel giudizio di appello a mezzo del Dott. M.B. e la relativa elezione di domicilio presso il suo studio, certamente non avrebbe ritenuto la consegna della sentenza direttamente all’ufficio tributi del Comune significativa ai fini della decorrenza del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c.”.

Ebbene, nella peculiarità della fattispecie, si ritiene che l’errore così prospettato dal ricorrente abbia in effetti natura revocatoria ex art. 395 c.p.c., n. 4).

Occorre partire dal dato normativo secondo cui “vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.

L’errore revocatorio deve dunque cadere – per regola generale, valevole anche nel caso di revocazione di sentenze di legittimità ex artt. 391-bis e 391-ter c.p.c., recettivi di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 17/1986 e 36/1991 – su un ‘fattò; esso si concreta in una falsa percezione della realtà, a sua volta indotta da una ‘svistà di natura percettiva e sensoriale.

Proprio per tale sua natura, questa falsa percezione della realtà – che nel procedimento di cassazione concerne necessariamente i soli atti interni al giudizio di legittimità, ossia quelli che la corte esamina direttamente nell’ambito del motivo di ricorso o delle questioni rilevabili d’ufficio: Cass. 4456/15, ord. – deve emergere in maniera oggettiva ed immediata dal solo raffronto tra la realtà fattuale e la realtà rappresentata in sentenza; e ciò con riguardo tanto a fatti materiali (o storici, o empirici) di natura sostanziale, quanto agli eventi del processo.

Nel caso in esame l’ordinanza della corte di cassazione ricostruisce (esattamente) le modalità dell’avvenuta notificazione della sentenza di appello presso un impiegato comunale (“corredata del timbro dell’ufficio accettante e del numero di protocollo dell’amministrazione comunale, nonchè della sigla dell’impiegato addetto alla ricezione”), senza tuttavia menzionare il dato di fatto (pacifico in atti) che il Comune avesse partecipato al giudizio di merito con il ministero di un difensore ‘esternò, presso il quale aveva eletto domicilio.

Che non si sia trattato dell’esito di una determinata valutazione giuridica (di certo irrilevante ai fini revocatori ex art. 395 c.p.c., n. 4, cit.) si desume dal fatto che l’affermazione di idoneità della notifica di specie a far decorrere il termine breve di impugnazione fa seguito, nell’ordinanza in questione, alla esclusiva considerazione delle sue modalità di esecuzione presso l’ente comunale (come sè questo fosse rimasto contumace nei gradi di merito, ovvero vi avesse partecipato con un difensore interno e domicilio presso l’ente stesso), non anche dell’essenziale elemento (prettamente fattuale) dell’avvenuta domiciliazione presso un difensore esterno.

Elemento fattuale, quest’ultimo, la cui omissione ha indotto una rappresentazione della realtà processuale frontalmente difforme dal vero.

Ulteriore conferma di ciò deriva dal fatto che la conclusione alla quale è giunta l’ordinanza in esame viene confortata (quanto ad idoneità della notificazione all’ente ad ingenerare in questo la conoscenza legale della sentenza di appello e, di conseguenza, a far decorrere il termine breve di impugnazione) dalla citazione del precedente di cui in Cass.ord.10851/18, che appunto concerneva proprio un caso, erroneamente assimilato al presente, di mancata costituzione del Comune nei gradi di merito.

Anche il richiamo a questo precedente di legittimità, in altri termini, induce a ritenere che la pronuncia di tardività del ricorso per cassazione sia logicamente derivata proprio dal mancato rilievo delle ‘verè modalità di costituzione in giudizio e domiciliazione del Comune nei gradi di merito (profilo, questo, rimasto del resto del tutto estraneo al contraddittorio delle parti).

Pacifica è l’incidenza decisoria di tale mancato rilievo, stante l’inidoneità della notifica in oggetto (non conforme alla disciplina degli artt. 285 e 170 c.p.c., nè integrante consegna a mani D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, in quanto non eseguita nei confronti di soggetto legale rappresentante dell’ente) a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c..

p. 3. Accedendo dunque alla fase rescissoria del giudizio, si ritiene che il ricorso per cassazione del Comune debba trovare accoglimento sotto il dedotto profilo della violazione normativa.

Non vi sono ragioni per discostarsi da quanto stabilito da Cass. SSUU n. 18565/09, secondo cui (in motiv.): “in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’immobile che sia stato iscritto nel catasto fabbricati come rurale, con l’attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10), in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dal D.L. n. 557 del 1993, art. 9, conv. con L. n. 133 del 1994, e successive modificazioni, non è soggetto all’imposta ai sensi del combinato disposto del D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1-bis, convertito con modificazioni dalla L. n. 14 del 2009, e del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 2, comma 1, lett. a). L’attribuzione all’immobile di una diversa categoria catastale deve essere impugnata specificamente dal contribuente che pretenda la non soggezione all’imposta per la ritenuta ruralità del fabbricato, restando altrimenti quest’ultimo assoggettato ad ICI: allo stesso modo il Comune dovrà impugnare l’attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10 al fine di potere legittimamente pretendere l’assoggettamento del fabbricato all’imposta”. A tale orientamento hanno fatto seguito innumerevoli pronunce di legittimità (tra cui, Cass. nn. 7102/10; 8845/10; 20001/11; 19872/12; 5167/14), successivamente confermate – nel senso della ininfluenza dello svolgimento o meno, nel fabbricato, di attività diretta alla manipolazione o alla trasformazione di prodotti agricoli, rilevando unicamente il suo classamento – tra le altre, da Cass. n. 16737/15 e da Cass. n. 7930/16.

Va altresì osservato come quanto stabilito dalle SSUU nella sentenza cit. si sia fatto carico anche dei profili di jus superveniens riconducibili all’emanazione sia del D.L. n. 557 del 1993, art. 9, comma 3-bis dell’art. 9 conv. in L. n. 133 del 1994, come introdotto dal D.L. n. 159 del 2007, art. 42-bis conv. in L. n. 222 del 2007; sia del D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1-bis conv. in L. n. 14 del 2009.

Con la conseguenza che nemmeno in base a questa normativa – salva l’ipotesi di mancato accatastamento – è dato al giudice tributario di accertare in concreto, incidentalmente, il carattere rurale del fabbricato di cui si sostenga l’esenzione da Ici.

La stessa conclusione va, infine, riaffermata (così Cass. 7930/16 cit. ed innumerevoli altre) pur alla luce dell’ulteriore jus superveniens (D.L. n. 70 frl 2011, conv. in L. n. 106 del 2011; D.L. n. 201 del 2011 conv. in L. n. 214 del 2011; D.L. n. 102 del 2013 conv. in L. n. 124 del 2013) che ha attribuito al contribuente la facoltà di presentazione di domanda di variazione catastale per l’attribuzione delle categorie di ruralità A/6 e D/10, con effetto per il quinquennio antecedente.

Si tratta infatti di disposizioni che rafforzano l’orientamento esegetico già adottato dalle SSUU nel 2009, in quanto disciplinano le modalità (di variazione-annotazione) attraverso le quali è possibile pervenire alla classificazione della ruralità dei fabbricati, anche retroattivamente, onde beneficiare dell’esenzione Ici; sulla base di una procedura ad hoc che non avrebbe avuto ragion d’essere qualora la natura esonerativa della ruralità fosse dipesa dal solo fatto di essere gli immobili concretamente strumentali all’attività agricola, a prescindere dalla loro classificazion catastale conforme.

Tutto ciò posto, l’efficacia retroattiva quinquennale dell’attribuzione di ruralità ai sensi della citata normativa sopravvenuta (2011/2006) concerne le istanze autocertificate a tal fine presentate, come disposto dal D.M. Finanze 26 luglio 2012, art. 2, comma 2 “entro e non oltre il 30 settembre 2012”; ferma restando la possibilità di ottenere anche successivamente la variazione catastale di ruralità con le ordinarie procedure classificatorie Docfa (D.M., comma 6, cit.), ma senza l’effetto retroattivo subordinato all’osservanza delle formalità di cui alla citata disciplina speciale.

La sentenza di appello va dunque cassata con rinvio alla CTR del Veneto che, in diversa composizione, applicherà tali principi alla fattispecie in oggetto.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del presente procedimento.

P.Q.M.
La Corte Revoca l’ordinanza della corte di cassazione n. 22865/18;

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto in diversa composizione, anche per le spese.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2020

 


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 30-06-2020) 21-10-2020, n. 22985

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10583-2017 proposto da:

L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. FILIBERTO 166, presso lo studio degli avvocati ANTONIO CORVASCE, SOFIA PASQUINO, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 4628/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/10/2016 R.G.N. 4202/2013.

Svolgimento del processo
CHE:

1. L.A., dipendente del Ministero della Giustizia addetta alla cancelleria Gip del Tribunale di Roma, ha prestato servizio dal 2001 al 2005, sulla base di un orario giornaliero dalle 8 alle 15,12, per cinque giorni la settimana, rinunciando, con il consenso dell’Amministrazione, alla pausa pranzo;

la L., non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto giornalieri, ha agito giudizialmente per ottenere il pagamento del controvalore pecuniario, oltre al risarcimento del danno, con domanda che è stata respinta dal Tribunale di Roma, la cui sentenza è stata poi confermata dalla Corte d’Appello della medesima città;

la Corte d’Appello affermava che l’art. 4 del CCNL di riferimento condizionava il riconoscimento del buono pasto all’effettuazione della pausa pranzo, cui invece la ricorrente aveva rinunciato;

d’altra parte, aggiungeva la Corte, la circolare ministeriale del 10.2.1998, nel riconoscere la possibilità del dipendente di rinunciare alla pausa, ma con mantenimento del diritto al buono pasto, si riferiva al caso di recupero in soli due giorni delle ore non effettuate nella sesta giornata settimanale, con orario di lavoro di nove ore e restava subordinato ad esigenze di servizio;

nel caso di specie nulla era risultato in ordine alla ricorrenza di ragioni organizzative di interesse dell’Amministrazione nell’accogliere la domanda della L. di rinuncia alla pausa pranzo e dunque, al di là del fatto che la circolare non poteva rivestire effetti normativi, comunque non ricorrevano neppure i presupposti da essa indicati;

2. la L. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, resistiti da controricorso del Ministero.

Motivi della decisione
CHE:

con il primo motivo la ricorrente afferma la violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, L. n. 724 del 1994, art. 22, D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8, L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11, L. n. 334 del 1997, art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 29 del 1996, art. 52 della Circolare 10 febbraio 1998 ed inoltre dell’Accordo Sindacale 30.4.1996, integrato dall’Accordo 12.12.1996, nonchè dell’art. 19, comma 4 CCNL (orario di lavoro) e dell’art. 7, comma 1 CCNL 12.1.1996;

1.1 il motivo è infondato;

come è noto, il diritto alla fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, finalizzata ad alleviare, in mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa (Cass. 28 novembre 2019, n. 31137; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290);

esso, data tale natura, dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentano il riconoscimento;

in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso ad una pausa, destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che quella pausa sia in concreto fruita;

le norme primarie (L. n. 334 del 1997, art. 3, comma 1, e L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11) si limitano del resto a rinviare, per le regole di attribuzione dei buoni pasto, ad appositi accordi collettivi;

nel caso di specie i presupposti del diritto sono fissati dall’art. 4, comma 2, dell’accordo collettivo sul riconoscimento dei buoni pasto, secondo cui “il buono pasto viene attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 19, comma 4, del CCNL, all’interno della quale va consumato il pasto”;

l’art. 19, comma 4, del CCNL del 1995, ivi richiamato, stabilisce a propria volta che “dopo massimo sei ore continuative di lavoro deve essere prevista una pausa che comunque non può essere inferiore ai 30 minuti”, previsione sostanzialmente analoga a quella dell’art. 7, comma 1, CCNL 1996 cui fa parimenti riferimento il motivo di ricorso;

questa Corte, interpretando norme di formulazione sostanzialmente identica a quelle appena evidenziate, seppure in relazione all’area dirigenziale, ha in effetti ritenuto che “in materia di trattamento economico del personale del comparto Ministeri, il cosiddetto buono pasto non è, salva diversa disposizione, elemento della retribuzione “normale”, ma agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale”, la quale quindi “spetta solo ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 4 dell’accordo di comparto del personale appartenente alle qualifiche dirigenziali del 30 aprile 1996, che ne prevede l’attribuzione ai dipendenti con orario settimanale articolato su cinque giorni o turnazioni di almeno otto ore, per le singole giornate lavorative in cui il lavoratore effettui un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la pausa all’interno della quale va consumato il pasto, dovendosi interpretare la regola collettiva nel senso che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione di riconoscimento del buono pasto” (Cass. 14290/2012 cit.);

nel caso di specie è pacifico che la pausa pranzo non sia stata fruita, per rinuncia ad essa della lavoratrice, evidentemente al fine di poter terminare anticipatamente, nel primo pomeriggio, la prestazione di lavoro;

pertanto, in mancanza di pause, non sono integrati gli estremi cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione;

1.2 il motivo, nella parte in cui denuncia la “violazione e/o falsa applicazione della Circolare 10 febbraio 1998” è invece inammissibile;

è noto infatti che le circolari non sono fonte del diritto ma semplici presupposti chiarificatori della posizione espressa dalla P.A. su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889), sicchè la loro ipotetica violazione non è denunciabile in cassazione sotto il profilo (art. 360 c.p.c., n. 3) della violazione o falsa applicazione di norme di diritto (Cass. 10 agosto 2015, n. 16644; Cass. 30 maggio 2005, n. 11449), nè la censura è stata fatta come violazione dei criteri ermeneutici (art. 1362 ss. c.c.) relativi ad atti unilaterali (amministrativi nella specie);

1.3 nè ha rilievo la veridicità o meno della rinuncia della L. ai buoni pasto, da essa negata, in quanto è sufficiente che vi sia stata rinuncia alle pause, quale elemento necessario al riconoscimento del diritto;

quanto poi all’argomento sviluppato dalla ricorrente secondo cui l’articolazione dell’orario, nel pubblico impiego, non potrebbe mai basarsi su esigenze personali del lavoratore, esso non muta le conclusioni da assumere;

è indubbio infatti che la P.A. possa negare il consenso alla rinuncia alla pausa pranzo, se ciò entri in contrasto con le proprie esigenze di servizio, ma ciò non significa che una tale articolazione oraria, se derivante da richiesta del lavoratore, non risalga ad un’autonoma decisione di quest’ultimo della quale, se l’effetto sia quello di far venire meno uno dei presupposti per la fruizione dei buono pasto, lo stesso non possa lamentarsi nei riguardi del proprio datore di lavoro;

non può poi affermarsi la coincidenza della rinuncia alla pausa concomitante con l’esigenza di un servizio ininterrotto, di cui alla Circolare, con il consenso ad una rinuncia alla pausa prospettata dal dipendente e cui la P.A. si limiti a consentire, in quanto in quest’ultimo caso non vi è la ineludibile esigenza amministrativa di un servizio ininterrotto, ma solo l’accettazione di esso come tale, per avallare la domanda del dipendente;

1.4 altra questione è se l’organizzazione oraria comunque definita risulti eventualmente in contrasto con la disciplina sui riposi e le pause, tra cui le norme, citate dalla ricorrente nel motivo, di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 22 e D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8;

ciò tuttavia potrebbe avere rilievo non sul diritto a percepire i buoni pasto, che dipende dal verificarsi dei corrispondenti e specifici presupposti, ma semmai rispetto ad eventuali danni, anche alla persona, che dovessero essere derivati dall’indebita modalità di organizzazione del lavoro, ma non è questo l’oggetto del contendere quale impostato in causa;

2. il secondo motivo afferma, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., sostenendo che alla ricorrente sarebbe spettato il risarcimento del danno per equivalente derivante da inadempimento della controparte;

l’inadempimento, anche in tale motivo, è identificato nel rifiuto di corrispondere i buoni pasto, ma è evidente l’insostenibilità dell’assunto, in quanto se i buoni pasto non erano dovuti, tale inadempimento non può esservi, mentre del tutto evanescente e non meglio specificato risulta, nei tratti concreti ulteriori rispetto ad un inadempimento che in sè non vi è stato, il richiamo, parimenti contenuto nel motivo, ai principi di buona fede e correttezza;

il terzo motivo è dedicato infine alla denuncia di violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2697 c.c. e 115 e 414 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) oltre che all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5);

nel corpo del motivo si censura in realtà esclusivamente il fatto che i giudici di appello non abbiano ammesso le prove pur articolate nel ricorso di primo grado e sulle quali la ricorrente aveva insistito anche con l’atto di appello;

il motivo è del tutto generico, non indicando neppure il contenuto di tali prove, sicchè ne è palese l’inammissibilità;

3. al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 13-07-2020) 19-10-2020, n. 22668

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19765/2017 proposto da:

D.B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, V. CARLO MIRABELLO 11, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE PIO TORCICOLLO, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO PARATO;

– ricorrente –

contro

FERROVIE DEL SUD-EST E SERVIZI AUTOMOBILISTICI S.R.L., SOCIETA’ CON SOCIO UNICO, SOGGETTA ALL’ATTIVITA’ DI DIREZIONE E COORDINAMENTO DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE S.P.A., SUCCEDUTA EX LEGE ALLA “GESTIONE COMMISSARIALE GOVERNATIVA PER LE FERROVIE DEL SUD EST”, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A STOPPANI 34, presso lo studio dell’avvocato CARLO MOLAIOLI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3001/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/02/2017 r.g.n. 2582/2013.

Svolgimento del processo
che, con sentenza del 7 febbraio 2017, la Corte d’Appello di Lecce confermava la decisione resa dal Tribunale di Lecce e rigettava le domande proposte da D.B.A. nei confronti di Ferrovie del Sud-Est e Servizi Automobilistici S.r.l., domande aventi ad oggetto la declaratoria dell’obbligo della Società datrice di adibire il D.B. esclusivamente alle mansioni di sua competenza quale “operatore di scambi cabina” e non, come la stessa Società aveva disposto, con apposito ordine di servizio, a quelle, inferiori e quindi dequalificanti, precedentemente svolte di “operatore di manutenzione” e di corrispondergli la retribuzione prevista contrattualmente per la qualifica di appartenenza ivi comprese le somme arretrate non corrisposte dalla data di maturazione del diritto, l’accertamento dell’illegittimità nonchè del carattere persecutorio e vessatorio del comportamento della Società concretatisi nel demansionamento e, a fronte del rifiuto opposto dal D.B. a tale impiego, nella reiterata irrogazione di sanzioni disciplinare, la sua conseguente configurabilità in termini di mobbing, incidente in senso pregiudizievole sullo stato di salute psico-fisico del D.B. e la condanna della Società al risarcimento del danno biologico, professionale, esistenziale e morale, da liquidarsi anche in via equitativa;

che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto legittimo l’impiego del D.B. in mansioni inferiori a quelle proprie della qualifica di appartenenza dovendo ammettersi, anche alla luce dei richiamati principi giurisprudenziali, una tale flessibilità, tenuto conto del ridotto periodo di tempo di adibizione ad esse, in assoluto e nell’arco della singola giornata lavorativa, irrilevante a tale stregua la questione dell’ammissibilità di tale flessibilità alla luce della disciplina collettiva, formalmente legittima l’irrogazione di sanzioni disciplinari, dovendosi ritenere le previsioni sul punto recate dal R.D. n. 148 del 1931, compatibili con la regolamentazione privatistica del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri e, perciò, estranee all’abrogazione del R.D. n. 148 del 1931, disposta dalla L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 9 e rinunziate e comunque infondate le domande risarcitorie connesse al presunto demansionamento ed alla violazione dell’art. 2087 c.c.;

che per la cassazione di tale decisione ricorre il V., affidando l’impugnazione ad un unico motivo, cui resiste, con controricorso, la Società;

che il ricorrente ha poi presentato memoria.

Motivi della decisione
che, con l’unico motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. e del CCNL 27.11.2000 per il Trasporto Pubblico Locale in una con il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, lamenta la non conformità a diritto della pronunzia della Corte territoriale per essere l’impiego promiscuo del ricorrente in compiti propri della qualifica inferiore in precedenza rivestita escluso sul piano legislativo e contrattuale e conseguentemente l’illegittimità del disconoscimento dell’idoneità lesiva dell’integrità psico-fisica del lavoratore della condotta della Società, viceversa qualificabile come mobbing e fonte di danno risarcibile, domanda questa a sua volta erroneamente considerata rinunziata e disattesa dalla Corte territoriale;

che il motivo esposto si rivela infondato, ritenendo questo Collegio di dover dare continuità all’orientamento accolto da questa Corte e puntualmente richiamato nella motivazione dell’impugnata sentenza per cui “il lavoratore può essere adibito, per motivate esigenze aziendali, anche a compiti inferiori, se marginali rispetto a quelli propri del suo livello” (cfr., da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord, 31 agosto 2018, n. 21515), in base al quale la flessibilità data dall’impiego del lavoratore in mansioni promiscue si rivela di per sè legittimo, mentre non trova ostacolo nella disciplina contrattuale di settore ai sensi dell’art. 2 del CCNL 27.11.2000, la cui interpretazione in termini di legittimazione della “flessibilità in uso” in quanto autorizzata da precedenti accordi collettivi pur dichiarati superati fatta propria dalla Corte territoriale non risulta adeguatamente confutata dal ricorrente, conseguendone, secondo quanto statuito dalla Corte territoriale l’inconfigurabilità nella specie di condotte illegittime della Società idonee a fondare pretese risarcitorie, di cui, comunque, inammissibilmente, per difetto di autosufficienza, stante la mancata trascrizione o allegazione di documentazione comprovante la circostanza, si contesta l’intervenuta rinunzia contestualmente affermata dalla Corte territoriale;

– che il ricorso va, dunque, rigettato;

– che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2020


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 16-09-2020) 14-10-2020, n. 22136

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17647-2019 proposto da:

ALIGRA’ DI B.S. & C. S.N.C., B.S. E C.R., rappresentati e difesi dall’Avvocato CHIERICATI ROSA ed elettivamente domiciliata presso la Cancelleria della Corte di cassazione, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A.;

– intimata –

avverso la SENTENZA n. 2936/2018 della CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, depositata il 27/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/9/2020 dal Consigliere DONGIACOMO GIUSEPPE.

Svolgimento del processo
La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello che la Aligrà di B.S.fano & C. s.n.c. nonchè B.S. e C.R. avevano proposto nei confronti della sentenza con la quale, il 10/10/2017, il tribunale aveva dichiarato l’inammissibilità dell’opposizione dagli stessi a suo tempo proposta avverso il decreto ingiuntivo pronunciato nei loro confronti su ricorso della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a..

La corte, in particolare, ha condiviso il giudizio del tribunale secondo il quale l’opposizione, in quanto proposta con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto ma oltre le ore 21, si era perfezionata, a norma degli del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 septies e art. 147 c.p.c., alle ore 7 del giorno successivo, vale a dire il quarantunesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo, ed era, quindi, tardiva e, come tale, inammissibile.

La Aligrà di B.S. & C. s.n.c. nonchè B.S. e C.R., con ricorso notificato il 27/5/2019, hanno chiesto, per un motivo, la cassazione della sentenza.

La Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. è rimasta intimata.

Motivi della decisione
1.Con l’unico motivo che hanno articolato, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 179 del 2012, art. 16-septies, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che l’opposizione proposta dagli ingiunti con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto ma oltre le ore 21, era tardiva, laddove, al contrario, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 75 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies lì dove prevedeva che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta, l’opposizione in esame, sebbene spedita oltre le ore 21 del quarantesimo giorno successivo alla notificazione del decreto ingiuntivo opposto, deve essere ritenuta tempestiva.

2. Il motivo è fondato.

3. Il D.L. n. 179 del 2012, art. 16-quater, comma 3, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, dispone, in effetti, che la notifica eseguita con modalità telematica a mezzo di posta elettronica certificata “si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 1, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 2”.

4. Il citato d.L. n. 179, art. 16-septies ha aggiunto che la notificazione eseguita con modalità telematica è assoggettata alla norma prevista dall’art. 147 c.p.c. (secondo il quale, nella vigente formulazione, le notificazioni non possono farsi prima delle ore 7 e dopo le ore 21) e che tale notifica, quando è eseguita dopo le ore 21, si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo.

5. Ora, la Corte costituzionale, con sentenza n. 75 del 2019, in merito alle notifiche eseguite con modalità telematiche, ha “dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. – il D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies (conv., con modif., in L. n. 221 del 2012), inserito dal D.L. n. 90 del 2014, art. 45-bis, comma 2, lett. b), (conv., con modif., in L. n. 114 del 2014), nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta”.

6. In effetti, la fictio iuris relativa al differimento al giorno seguente degli effetti della notifica eseguita dal mittente tra le ore 21 e le ore 24, è giustificata nei confronti del destinatario, poichè il divieto di notifica telematica dopo le ore 21, previsto dalla prima parte dell’art. 16 septies, tramite il rinvio all’art. 147 c.p.c., mira a tutelare il suo diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) nella quale egli sarebbe altrimenti costretto a continuare a controllare la casella di posta elettronica.

7. Nei confronti del mittente, al contrario, il medesimo differimento comporta un irragionevole vulnus al pieno esercizio del diritto di difesa (segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare), poichè gli impedisce di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa – che, nel caso di impugnazione, scade (ai sensi dell’art. 155 c.p.c.) allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno – senza che ciò sia funzionale alla tutela del diritto al riposo del destinatario e nonostante che il mezzo tecnologico lo consenta.

8. Inoltre, la restrizione delle potenzialità (accettazione e consegna sino alla mezzanotte) che caratterizzano e diversificano il sistema tecnologico telematico rispetto al sistema tradizionale di notificazione legato “all’apertura degli uffici” è intrinsecamente irrazionale, venendo a recidere l’affidamento che lo stesso legislatore ha ingenerato nel notificante immettendo il sistema telematico nel circuito del processo.

9. La reductio ad legitimitatem della disposizione si realizza con l’applicazione della regola generale di scissione soggettiva degli effetti della notificazione anche alla notifica effettuata con modalità telematiche con la conseguenza, in particolare, che, nei confronti del mittente, la notificazione richiesta ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 3, si perfeziona, ove la ricevuta di accettazione sia rilasciata entro le ore 24, il giorno stesso in cui è eseguita (Cass. n. 4712 del 2020; Cass. n. 12050 del 2020).

10. La corte d’appello, quindi, lì dove ha ritenuto che l’opposizione, in quanto proposta con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto ma oltre le ore 21, era tardiva perchè perfezionatasi anche nei confronti del mittente alle ore 7 del giorno successivo, non si è, evidentemente, attenuta alla conclusione sopra esposta.

11. La sentenza impugnata dev’essere, quindi, cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Bologna che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte così provvede: accoglie il ricorso e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Bologna che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile – 2, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2020


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 12/12/2019) 09/10/2020, n. 21797

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. NOCELLA Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6430/2015 R.G. proposto da:

B.G., C.F. (OMISSIS), res. in (OMISSIS), rapp.to e difeso, giusta procura a margine del ricorso, dall’avv. Gian Mario Fattacciu del Foro di Cagliari e dall’avv. Stefania Saraceni del Foro di Roma, presso il cui studio in Roma, Via Ugo Bartolomei n. 23 è elett. dom.to;

– ricorrente –

Contro

Agenzia delle Entrate, C.F. (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sardegna n. 246/04/14, depositata il 14 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 dicembre dal Cons. Luigi Nocella.

Svolgimento del processo
Con distinti ricorsi, B.G., titolare di impresa operante nel settore edilizio, impugnava innanzi alla CTP di Cagliari gli avvisi di accertamento NN. (OMISSIS) e (OMISSIS), con i quali l’Agenzia delle Entrate di Cagliari (OMISSIS), sulla scorta dell’elaborazione mediante studi di settore, aveva recuperato a tassazione IVA, IRPEF, addizionali ed IRAP, rispettivamente per gli anni 2003 e 2004, applicando le relative sanzioni, avendo accertato per il primo un maggior ricavo di Euro 20.573,00 e per il secondo un maggior reddito di Euro 55.950,00.

La CTP di Cagliari, riuniti i ricorsi, con sentenza N. 194/01/2011, respingeva il primo e dichiarava inammissibile il secondo, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 omettendo ogni valutazione delle censure di merito.

Su appello del contribuente, che deduceva la nullità della notifica dell’avviso di accertamento e la connessa tempestività del proprio ricorso per ottenere l’esame delle censure di merito contro l’avviso impugnato, la CTR, con la sentenza oggetto del presente giudizio, ha confermato integralmente la statuizione del primo Giudice, in relazione all’annualità 2004, mentre l’annualità 2003 era stata nelle more definita stragiudizialmente tra le parti. In particolare i Giudici d’appello così ricostruivano la vicenda notificatoria oggetto del gravame: “a) l’Ufficio delle Entrate di Cagliari (OMISSIS) aveva notificato al B. in data 7 maggio 2009…invito al contraddittorio con il quale lo informava che i compensi dichiarati per l’anno 2004 risultavano non compatibili con gli appositi studi di settore… omissis…. Si era svolto, quindi, il contraddittorio al termine del quale…le parti non erano addivenute ad un accordo.

b) L’Ufficio in data 21 novembre 2009 aveva notificato a mezzo del servizio postale l’avviso di accertamento n. (OMISSIS);

c) l’ufficio postale aveva certificato con apposita relata…la consegna dell’atto a mani della madre convivente…omissis…l’ufficiale postale notificatore attestava altresì…l’avvenuta trasmissione in data 23 novembre 2009 della raccomandata di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c.;

d) B.G. in data 10 febbraio 2010 propose ricorso alla CTP di Cagliari mentre il 20 gennaio 2010 aveva presentato una istanza di accertamento per adesione, dopo avere però già ricevuto regolare invito al contraddittorio.

Alla stregua di tale ricostruzione dei fatti, la CTR ha condiviso in toto la pronuncia appellata, poichè l’istanza di accertamento per adesione era inefficace, D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 6, comma 2 a sospendere i termini per l’impugnazione, essendo stata preceduta da invito al (e svolgimento del) contraddittorio in fase amministrativa, e quindi ha ritenuto il ricorso prima facie tardivo. Alla luce delle censure dell’appellante che proponevano la questione della validità della notifica dell’avviso per carenza della relata, ha affermato che, pur a voler ritenere l’esistenza di un vizio della notifica (comunque escluso per avere la CTR affermato che detta relata fosse “esattamente individuabile”), si tratterebbe comunque non già di inesistenza, bensì di nullità, essendo ben individuati luogo e persona che aveva ricevuto l’atto, comunque da escludere stante la particolare procedura di notifica a mezzo del servizio postale, per la quale, secondo orientamento costante di legittimità, la relata non è necessaria, essendo sostituita dalle attestazioni dell’ufficiale postale, aventi valore di fede privilegiata fino a querela di falso. Nella specie questi “ha annotato la trasmissione della raccomandata secondo le indicazioni di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 4 con le specificazioni ivi previste”; sicchè “nessuna altra relata di notifica all’infuori di quella costituita dall’avviso di ricevimento può (o deve) essere compilata essa contiene tutte le indicazioni necessarie ed indispensabili prescritte dalla normativa che consentono il collegamento con l’ufficio emittente, mentre il momento di perfezionamento della notificazione viene individuato, per il destinatario, nella data di ricevimento dell’atto attestata dall’avviso…”.

Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione sulla base di unico motivo.

L’Agenzia intimata si è costituita previa rituale notificazione di controricorso.

Nella camera di consiglio del 12 dicembre 2019 la Corte, udita la relazione del Cons. Nocella, ha deciso la causa.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il B. denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 137 segg. c.p.c., poichè la CTR non avrebbe considerato che, nel caso di notificazione a mezzo del servizio postale, la L. n. 890 del 1982, art. 14 pur consentendo la notifica diretta degli atti tributari direttamente da parte dell’Ufficio che li emette, fa rinvio al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 che escluderebbe tale forma di notifica per gli avvisi di accertamento, che necessiterebbe pur sempre dell’intermediazione di un soggetto abilitato alla notifica.

Il motivo è infondato.

Come affermato dal ricorrente, la L. n. 890 del 1982, art. 14 consente in via generale la notifica diretta degli atti dell’Amm.ne Finanziaria mediante ricorso diretto, cioè senza l’intervento di ufficiali giudiziari o messi notificatori, al servizio postale; diversamente invece da quanto sostenuto dal ricorrente, la stessa norma non deroga a tale principio per la notifica degli avvisi di accertamento (cfr. da ultimo Cass. sez.V ord. 19.12.2019 n. 34007), ma “fa salve” le disposizioni del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 nel senso che, ove ritengano opportuno, le medesime Amministrazioni possono avvalersi dell’intermediazione dei soggetti esterni ad esse ed abilitati alla notificazione degli atti giudiziari. Ne consegue che le disposizioni che prescrivono la compilazione della relata di notifica sull’originale e sulla copia dell’atto notificato (L. n. 890 del 1982, art. 3) si applicano esclusivamente nei casi di notifica a mezzo di soggetto notificatore terzo (come del resto esplicitato dalla formulazione letterale del precetto, che si riferisce direttamente agli adempimenti dell’ufficiale giudiziario), non già ai casi di notifica diretta ai sensi dell’art. 14, nei quali si applicano direttamente le norme relative alle modalità di trasmissione dei plichi raccomandati descritte dalle norme disciplinanti il servizio postale, che non prevedono la estensione della relata; ed in tal senso si è già pronunciata questa Corte (cfr. Cass. sez. V 4.07.2014 n. 15315; Cass. sez. V 15.07.2016 n. 14501; Cass. sez. V 14.11.2019 n. 29642).

Riscontrata quindi la legittimità, anche per gli atti impositivi, del ricorso alla notificazione diretta da parte dell’Ufficio Finanziario, ne consegue l’irrilevanza della mancata compilazione della relata, i cui requisiti sono sostituiti dalle attestazioni dell’agente postale sull’avviso di ricevimento circa le attività compiute, tra le quali, anche nel caso di specie, l’invio della comunicazione di avvenuta notifica; sicchè questa deve ritenersi avvenuta in data 21.11.2009, con la consegna alla madre convivente nel domicilio del contribuente, ed il ricorso da questi proposto contro l’avviso soltanto il 10 febbraio 2010 deve ritenersi ampiamente tardivo.

L’infondatezza dell’unico motivo comporta il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al rimborso in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del presente giudizio, nella misura liquidata in dispositivo.

Va dato atto altresì che sussistono le condizioni processuali per determinare, a carico della ricorrente soccombente, l’obbligo di versamento del contributo unificato in misura doppia rispetto a quella già versata con l’iscrizione a ruolo.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale dello stesso art. 13, ex comma 1 bis se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2020


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 09/06/2020) 05/10/2020, n. 21328

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – rel. Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12330-2019 proposto da:

S. COSTRUZIONI SNC DI S.V. & C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 106, presso lo studio dell’avvocato PAOLA VACCARO, rappresentata e difesa dall’avvocato MASSIMO GARZILLI;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, (OMISSIS);

– intimate –

avverso la sentenza n. 8784/24/2018 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA, depositata il 12/10/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/06/2020 dal Consigliere Relatore Dott. COSMO CROLLA.

Svolgimento del processo
CHE:

1. La soc. S. Costruzioni snc di S.V. & C. impugnava l’intimazione di pagamento emessa da Equitalia (oggi Agenzia delle Entrate Riscossioni) limitatamente alla cartella di pagamento n. (OMISSIS), asseritamente notificata in data 7.6.2015, concernente tributo Iva relativo all’anno di imposta 2011, assumendo l’inesistenza della notifica avvenuta a mezzo pec. 2. La Commissione Tributaria Provinciale di Napoli rigettava il ricorso rilevando la regolarità della notifica della cartella a mezzo pec. 3. Sull’impugnazione della contribuente la Commissione Tributaria Regionale della Campania rigettava l’appello rilevando che non vi era alcun obbligo attestazione di conformità della copia informatica all’originale della cartella atteso che il documento non aveva origine cartacea (o analogica) ma informatico.

4. Avverso la sentenza ha proposto ricorso la contribuente sulla base di due motivi. Gli intimati non si sono costituiti.

Motivi della decisione
CHE:

1. Con i due motivi di impugnazione, da esaminarsi congiuntamente stante la loro intima connessione, la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, artt. 23 e 24, (Codice Amministrazione Digitale) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, per non avere la CTR rilevato e dichiarato l’inesistenza della notificazione della cartella di pagamento mancante dell’attestazione di conformità dell’atto analogico a quello digitale notificato, trasmessa alla contribuente in formato pdf, priva di cosiddetta firma digitale.

2. I motivi sono infondati.

2.1 Nella fattispecie la CTR ha accertato che la cartella esattoriale è stata notificata a mezzo del servizio di posta elettronica certificata, modalità di partecipazione dell’atto, consentita ai sensi del combinato disposto di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 2, e del richiamato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 comma 7.

2.2 Sostiene la ricorrente l’inesistenza di tale forma di notifica: a) per essere stata compiuta in estensione pdf anzichè p7m, atteso che soltanto quest’ultima estensione garantisce l’integrità e l’immodificabilità del documento informatico e, quanto alla firma digitale, l’identificabilità del suo autore e, conseguentemente, la paternità dell’atto; b) per mancanza di firma digitale sul documento informatico notificato in pdf; c) per assenza della conformità dell’attestazione di conformità dell’atto analogico a quello digitale notificato.

2.3 Il D.P.R. n. 68 del 2005, art. 1, lett. f), definisce il messaggio di posta elettronica certificata, come “un documento informatico composto dal testo del messaggio, dai dati di certificazione e dagli eventuali documenti informatici allegati”. L’ art. 1 CAD, lett. i)-ter), – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c), poi, definisce “copia per immagine su supporto informatico di documento analogico” come “il documento informatico avente contenuto e forma identici a quelli del documento analogico”, mentre il medesimo art. 1 CAD, lett. i)-quinquies), – inserita dal D.Lgs. 30 dicembre 2010, n. 235, art. 1, comma 1, lett. c),- nel definire il “duplicato informatico” parla di “documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario”.

2.4 Ciò premesso questa Corte ha recentemente affermato che “la notifica della cartella di pagamento può avvenire, indifferentemente, sia allegando al messaggio PEC un documento informatico, che sia duplicato informatico dell’atto originario (il c.d. “atto nativo digitale”), sia mediante una copia per immagini su supporto informatico di documento in originale cartaceo (la c.d. copia informatica”), come è avvenuto pacificamente nel caso di specie, dove il concessionario della riscossione ha provveduto a inserire nel messaggio di posta elettronica certificata un documento informatico in formato PDF (portable document format) – cioè il noto formato di file usato per creare e trasmettere documenti, attraverso un software comunemente diffuso tra gli utenti telematici -, realizzato in precedenza mediante la copia per immagini di una cartella di pagamento composta in origine su carta. Va esclusa, allora, la denunciata illegittimità della notifica della cartella di pagamento eseguita a mezzo posta elettronica certificata, per la decisiva ragione che era nella sicura facoltà del notificante allegare, al messaggio trasmesso alla contribuente via PEC, un documento informatico realizzato in forma di copia per immagini di un documento in origine analogico”(cfr. Cass. 30948/2019 vedi anche Cass. 6417/2019) ed ha inoltre precisato che ” nessuna norma di legge impone che la copia su supporto informatico della cartella di pagamento in origine cartacea, notificata dall’agente della riscossione tramite PEC, venga poi sottoscritta con firma digitale”.

2.5 Del resto già le Sezioni Unite avevano affermato il principio che l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna dello stesso ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale (Cass. 28 settembre 2018 n. 23620).

2.6 Nè appare necessario l’attestazione di conformità atteso che, ai sensi dell’art. 22 CAD, comma 3, – come modificato dal D.Lgs. 13 dicembre 2017, n. 217, art. 66, comma 1, – “Le copie per immagine su supporto informatico di documenti originali formati in origine su supporto analogico nel rispetto delle Linee guida hanno la stessa efficacia probatoria degli originali da cui sono tratte se la loro conformità all’originale non è espressamente disconosciuta”. Pertanto nella vicenda che ci occupa, giammai, la ricorrente avrebbe potuto disconoscere la conformità della copia informatica della cartella di pagamento, allegata alla PEC ricevuta, all’originale in possesso dell’amministrazione in quanto come accertato dalla CTR la cartella di pagamento nasce come documento informatico (“nativo”) e come tale viene trasmessa via pec. 2.7 La correttezza del procedimento notificatorio dell’atto esattivo rende inammissibili le censure reiterate nel ricorso che afferiscono alla decadenza e alla asserita illegittimità della pretesa tributaria in quanto precluse dalla mancata impugnazione della prodromica cartella esattoriale.

3 Il ricorso va quindi rigettato.

4 In mancanza di costituzione degli intimati nulla è da statuire sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte:

– rigetta il ricorso.

– Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente principale dell’ulteriore importo pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1- bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 9 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 ottobre 2020


Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 04-02-2020) 24-09-2020, n. 20039

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13386/2015 proposto da:

Fallimento della (OMISSIS) S.r.l., in persona del curatore avv. P.A.M., elettivamente domiciliato in Roma, Via Foster n. 166, presso lo studio dell’avvocato Michele D’Agostino, rappresentato e difeso dall’avvocato Antonio Napolitano, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

D.P.A., A.M.A., elettivamente domiciliati in Roma, Via Savoia n. 33, presso lo studio dell’avvocato Giuseppe Vescuso, rappresentati e difesi dall’avvocato Ermanno di Nuzzo, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

contro

Pa.Ma.Ro.; R.L.; Tuareg S.r.l.

– intimati –

avverso la sentenza n. 4657/2014 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/11/2014;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04/02/2020 dal Cons. Dott. Paola Vella.

Svolgimento del processo
che:

1. Il Fallimento della (OMISSIS) s.r.l. ha impugnato, con ricorso per cassazione affidato a due motivi, la sentenza della Corte di Appello di Napoli del 25/11/2014 che, in accoglimento dell’appello proposto dai coniugi D.P.A. e A.A.M. contro la sentenza di primo grado, ed in parziale riforma della stessa, ha dichiarato non opponibile alla D.P. – acquirente da Tuareg s.r.l. di un’unità abitativa (successivamente costituita in fondo patrimoniale col marito) da questa costruita su terreno già di proprietà di (OMISSIS) – la simulazione assoluta dell’atto del 21/12/1994, con il quale la società poi fallita aveva ceduto alla costruttrice il terreno in questione.

2. D.P.A. e A.A.M. hanno resistito con controricorso, eccependo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso per tardività della relativa notificazione.

2.1. Le altre parti del giudizio, cui il ricorso è stato notificato ai fini della litis denuntiatio (siccome destinatarie di domande connesse, avanzate dal Fallimento con l’unico atto di citazione, in ordine alle quali la pronuncia di primo grado è passata in giudicato), non hanno svolto difese.

2.2. I controricorrenti hanno depositato memoria datata 21/01/2020, in cui si insiste per la declaratoria di inammissibilità del ricorso (e in subordine per il suo rigetto), con condanna dei ricorrenti alle spese e al risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c., comma 3, allegando anche uno stralcio del registro Inipec attestante l’indirizzo pec del legale del difensore costituito per il Fallimento.

2.3. Il Fallimento ricorrente ha a sua volta depositato memoria datata 23/01/2020 nella quale ha eccepito la “nullità della notificazione della sentenza”, con conseguente “insussistenza dell’eccepita inammissibilità del ricorso”, nonchè la “nullità della notifica del controricorso” (in uno ad ulteriori “eccezioni relative alla “fotocopia di passaggio in giudicato””), insistendo per l’accoglimento del ricorso e chiedendo comunque il rigetto della domanda di risarcimento danni per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c..

Motivi della decisione
che:

3. Preliminarmente all’esame dei due motivi – così rubricati: I.) “violazione e falsa applicazione di legge, in relazione al collegamento negoziale ed alla consolidata giurisprudenza di cassazione sul punto, ricorribile ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3”; II.) “violazione e falsa applicazione delle norme di diritto per aver violato in tema di procedimento e di diritto ai sensi del combinato disposto degli artt. 1343 c.c. e segg. e artt. 1418 e 1421 c.c., incorrendo così non solo in vizi omissivo ma anche di violazione di legge e in procedendo, ricorribile ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3-4, perchè pur riconoscendo l’illiceità della causa distrattiva del contratto non ne dichiara la nullità del contratto stesso che invece doveva rilevarsi d’uffici in ogni stato e grado” – va rilevata l’inammissibilità del ricorso in ragione della tardività della sua notifica, avvenuta in data 21/05/2015, stante la validità della notifica della sentenza d’appello eseguita in data 27/11/2014 a mezzo PEC, con conseguente superamento del termine breve di sessanta giorni ex art. 325 c.p.c..

4. A sostegno della corrispondente eccezione, i controricorrenti hanno allegato (v. doc. 3): copia analogica della sentenza d’appello n. 4657/14, corredata da attestazione di conformità (ex “D.L. n. 90 del 2014, art. 52 – L. n. 114 del 2014”) all’originale digitale “estratto dal fascicolo informatico n. 883/12 R.G. della Corte di appello di Napoli – I sezione civile”; relata di notifica “in via telematica, ai sensi del D.M. Giustizia3 aprile 2013, n. 48” della predetta sentenza, trasmessa a mezzo PEC all’indirizzo di posta elettronica del difensore costituito del Fallimento (OMISSIS) s.r.l., avv. Antonio Napolitano (antonio.napolitano56.avvocatiavellinopec.it); copia analogica delle ricevute di notifica, accettazione e consegna telematica del messaggio e relativi allegati (sentenza e relata telematica in formato pdf.p7m); attestazione di conformità “ai sensi e per gli effetti del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, comma 9, convertito nella L. n. 221 del 2012, come introdotto dal D.L. n. 90 del 2014, art. 52, convertito nella L. n. 114 del 2014, nonchè del D.L. n. 132 del 2014, convertito nella L. n. 162 del 2014” delle predette ricevute cartacee di accettazione e consegna – attestanti l’intervenuta notificazione della sentenza d’appello, in data 27/11/2014, all’indirizzo PEC dell’avv. Antonio Napolitano “ricavato dal pubblico registro INIPEC” – “ai files. eml emessi contestualmente dal sistema di posta elettronica certificata (c/o Aruba Sign) ed estratti direttamente dal dichiarante”.

4.1. L’intervenuta notificazione della sentenza d’appello trova riscontro nell’istanza del 18/12/2014 allegata allo stesso ricorso, recante come oggetto “parere sull’avvenuta notifica sentenza Corte Appello di Napoli n. 4657/14”, in cui il curatore del Fallimento (OMISSIS) s.r.l. fa riferimento “alla comunicazione dell’Avvocato Napolitano, costituito per la Curatela, ed alla notifica della sentenza di Appello che richiede una decisione sul prosieguo, urgente perchè consenta nel termine di 60 giorni dal 28 novembre 2014, una decisione circa la proposizione di un ricorso per Cassazione”.

5. Al riguardo il ricorrente, dopo aver perentoriamente affermato nel frontespizio del ricorso che la sentenza d’appello impugnata non era stata “mai notificata”, a fronte dell’eccezione sollevata dai controricorrenti ha aggiunto, nella memoria del 23 gennaio 2020, di aver “ricevuto la notificazione della sentenza n. 4657/2014, da parte della Cancelleria della Corte d’Appello, I sezione civile, inviata ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, che, ai sensi dell’art. 133 c.p.c., come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, però, non produce gli effetti ex art. 325 c.p.c.” ed ha altresì ammesso che la sentenza gli era stata notificata a mezzo PEC anche dagli odierni controricorrenti, sollevando però una serie di contestazioni sulla regolarità di detta notificazione, in parte estese anche alla regolarità della notifica del controricorso.

5.1. In particolare, dopo aver osservato che la relata di notifica è “presente solo nel messaggio PEC e non anche nel documento separato in formato pdf prescritto dalla L. n. 53 del 1994, art. 3-bis e dall’art. 19-bis del Provv. DGSIA 16/4/2014”, il ricorrente ha eccepito che nell’oggetto del messaggio pec datato 27 novembre 2014 manca la specifica dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” (essendovi indicato solo “notifica telematica”) e che la relata di notifica presenta i seguenti “gravi vizi e/o omissioni”: i) “manca l’attestazione di conformità in quanto non si comprende se sia stata notificata una copia informatica di documento informatico della sentenza, estratta perciò ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-bis, comma 9-bis, ovvero una copia informatica della copia analogica rilasciata dalla cancelleria, essendo stato omesso ogni riferimento al riguardo nella relata di notifica, che dovrebbe contenere le indicazioni previste dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-undecises, comma 3, nel primo caso, e l’attestazione L. n. 53 del 1994, ex art. 3-bis, comma 2, nel secondo caso. Il tutto conformemente al disposto di cui all’art. 19-ter Provv. DGSIA 16/4/2014 recante le regole tecniche relative alle modalità di attestazione di conformità su documento separato”, con la conseguenza che non vi è prova che sia stata notificata copia autentica della sentenza; ii) “manca l’indicazione dell’elenco pubblico, tra quelli previsti dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-ter, dal quale è stato estratto l’indirizzo PEC del destinatario”; iii) “non si ha contezza (…) che l’indirizzo PEC dell’avvocato notificante risultasse iscritto in uno dei pubblici elenchi previsti dal D.L. n. 179 del 2012, citato art. 16-ter, secondo la previsione della prima parte della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 12, secondo cui “La notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi””; iv) “viene riportato erroneamente il nome A.M.” (in luogo di A.M.A., come indicato nella sentenza di appello); v) “manca l’indicazione del codice fiscale delle parti che hanno conferito la procura alle liti, indicazione prescritta dalla L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 5, lett. c)”; vi) manca “l’indicazione della sezione della Corte d’Appello che pronunciò il provvedimento oggetto di notificazione”, in violazione dell’art. 3-bis cit., successivo comma 6; vii) “non vi è traccia” della procura alle liti al notificante; viii) non è stata “correttamente formata l’attestazione di conformità della copia analogica della notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1-bis, datata 25/06/2015 (dopo la notifica del ricorso per cassazione avvenuta in data 21/05/2015)”, poichè il riferimento fatto dal difensore dei controricorrenti “all’art. 16-bis comma 9 (bis, n.d.e.) D.L. n. 179 del 2012, lascerebbe intendere che il notificante abbia estratto le ricevute delle notificazioni dal fascicolo informatico di cancelleria, laddove la L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1 bis, prescrive, invece, che la prova analogica della notifica eseguita telematicamente dall’avvocato debba essere data attraverso l’estrazione di “copia su supporto analogico (a) del messaggio di posta elettronica certificata, (b) dei suoi allegati, (c) della ricevuta di accettazione e (d) di avvenuta consegna e (e) ne attesta la conformità ai documenti informatici da cui sono tratte ai sensi del D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 23, comma 1″ con estrazione di tali copie analogiche, quindi, dal proprio archivio informatico e non di certo dai registri informatici del Tribunale”; ix) “la copia analogica prodotta ex adverso, in violazione della norma richiamata, comprende solo la stampa del messaggio (nel cui corpo del testo è contenuta l’imperfetta relazione di notifica, che non è in PDF e non può pertanto esser stata firmata digitalmente) e le ricevute di accettazione e consegna, senza la stampa dell’atto oggetto di notifica e della relata in formato pdf (“e dei suoi allegati”), sicchè “la prova analogica della notificazione telematica non è stata, correttamente data ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1-bis”.

6. Le minuziose contestazioni sulla regolarità del procedimento di notifica telematica cd. “in proprio”, ai sensi della L. n. 53 del 1994 (e successive modifiche), non appaiono fondate, alla luce dell’orientamento assunto da questa Corte in subiecta materia, in base al fondamentale principio per cui “la L. n. 53 del 1994, art. 11, là dove commina la nullità della notificazione eseguita personalmente dall’avvocato “se non sono osservate le disposizioni di cui agli articoli precedenti”, non intende affatto sanzionare con l’inefficacia anche le più innocue irregolarità” – in relazione alle quali “non viene in rilievo la lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione finale, bensì, al più, una mera irregolarità sanabile in virtù del principio di raggiungimento dello scopo” – laddove “la consegna telematica ha comunque prodotto il risultato della conoscenza dell’atto e determinato così il raggiungimento dello scopo legale”, per avere la parte ricevuto la notifica e compreso il contenuto dell’atto (Cass. Sez. U., 23620/2018, 7665/2016; Cass. 14042/2018, 30927/2018, 20625/2017, 6079/2017, 19814/2016, 26831/2014).

6.1. In particolare, sulla scorta del richiamato principio di raggiungimento dello scopo, questa Corte ha più volte respinto l’eccezione di nullità della notifica telematica priva della indicazione, nell’oggetto del messaggio PEC, della dicitura “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” (Sez. U., 23620/2018; Cass. 30927/2018), rispetto alla quale la dicitura “notifica telematica”, presente nella notifica in esame, appare più che sufficiente.

6.2. Parimenti inconferente è la mera incompletezza del nome di una delle parti nel cui interesse è stata effettuata la notifica ( A.M., in luogo di A.M.A.), avendo questa Corte escluso la nullità della notifica addirittura in un caso di indicazione di un’amministrazione diversa da quella nei cui confronti si era svolto il giudizio, poichè dalla lettura complessiva dell’atto emergeva chiaramente la riferibilità alla parte interessata e lo stesso aveva comunque raggiunto il suo scopo, consentendo alla controparte di difendersi adeguatamente (Cass. 26489/2018).

Le stesse argomentazioni valgono per l’eccezione di “mancata indicazione del codice fiscale delle parti che hanno conferito la procura alle liti, prescritta dalla L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 5, lett. c)” (Cass. Sez. U, 23620/2018), trattandosi di dati chiaramente indicati nell’intestazione della sentenza oggetto di notifica, al pari della “esistenza di procura alle liti in capo al notificante (avv. Di Nuzzo)”.

Del resto, lo scopo essenziale della relazione di notificazione è rendere “percepibile dal destinatario la funzione cui l’invio dell’atto assolve, contenendo i dati che consentono di individuarne la collocazione processuale e la conformità all’originale, nonchè la legittimazione del mittente” (Cass. 11593/2017, che ha perciò reputato inidonea a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c., una notifica della sentenza che si presentava del tutto priva della relazione di notificazione, del codice fiscale dell’avvocato notificante, del nome, cognome, ragione sociale o codice fiscale della parte conferente il mandato, nonchè dell’attestazione di conformità all’atto cartaceo da cui l’atto notificato era stato tratto).

6.3. Analoga conclusione va tratta per la mancata indicazione, nella relata di notifica, della sezione della Corte d’Appello che ha pronunciato la sentenza impugnata – invece specificamente indicata nella “attestazione di conformità” della copia analogica all’originale digitale – avendo questa Corte affermato che, nell’ipotesi di notifica dell’atto in corso di procedimento, l’onere di indicazione della sezione (oltre che del numero e dell’anno di ruolo della causa) “assolve al fine di consentire l’univoca individuazione del processo al quale si riferisce la notificazione”, sicchè, “ove l’atto contenga elementi altrettanto univoci”, come “gli estremi della sentenza impugnata, la notificazione non potrà essere dichiarata nulla, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, avendo comunque raggiunto il suo scopo” (Cass. 17022/2018).

6.4. Sempre in forza del principio del raggiungimento dello scopo va esclusa l’efficacia invalidante della mancata indicazione, nella relata di notifica, dell’elenco pubblico – tra quelli previsti dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-ter – da cui è stato estratto l’indirizzo di posta elettronica del destinatario (Cass. Sez. U, 7665/2016; Cass. 6079/2017, 30927/2018), tanto più che nel caso di specie il notificante ha espressamente dichiarato, nell’attestazione di conformità relativa alle ricevute cartacee di accettazione e consegna, che l’indirizzo PEC del destinatario è stato “ricavato dal pubblico registro INIPEC”, come poi comprovato dal documento allegato alla memoria dei controricorrenti.

Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, valorizzando l’introduzione del cd. “domicilio digitale”, hanno ritenuto valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-bis, atteso che, proprio in virtù di tale disposizione, il difensore è obbligato a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è a sua volta obbligato ad inserirlo sia nei registri INI-PEC, sia nel ReGIndE, che sono, per l’appunto, pubblici elenchi (Cass. Sez. U., 23620/2018).

Numerose pronunce hanno poi ribadito la piena legittimità di notifiche eseguite presso l’indirizzo PEC risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC) istituito dal Ministero dello Sviluppo Economico, espressamente incluso fra i pubblici elenchi del D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-ter (ex multis Cass. 9893/2019), ribadendo espressamente “il principio, enunciato dalle S.U. n. 23620/2018 (ma, nello stesso senso, già Cass. n. 30139/2017), per cui “in materia di notificazioni al difensore, in seguito all’introduzione del “domicilio digitale”, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla L. n. 114 del 2014, è valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, atteso che il difensore è obbligato, ai sensi di quest’ultima disposizione, a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è obbligato ad inserirlo sia nei registri INI PEC, sia nel ReGindE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia”” (Cass. 29749/2019).

6.5. Le superiori considerazioni valgono anche con riguardo all’analoga contestazione riferita all’indirizzo PEC dell’avvocato notificante (avvermannodinuzzo.pec.ordineforense.salerno.it); del resto, la disposizione normativa invocata dal ricorrente (L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 12, prima parte) si limita a prescrivere che “la notificazione può essere eseguita esclusivamente utilizzando un indirizzo di posta elettronica certificata del notificante risultante da pubblici elenchi”, e tale requisito risulta pacificamente integrato.

6.6. Quanto alle perplessità sollevate sul rispetto delle regole tecniche dettate dall’art. 19-ter del Provv. DGSIA 16 aprile 2014 per l’attestazione di conformità della sentenza notificata (nel senso che difetterebbe la prova che si tratti di copia autentica della sentenza impugnata), si rileva che nell’attestazione di conformità datata 14/5/2015 è scritto espressamente che l’atto notificato “è copia analogica del corrispondente provvedimento in formato digitale estratto dal fascicolo informatico” (doc. 3 allegato al controricorso).

D’altronde, circa i requisiti dell’autentica questa Corte ha chiarito che l’attestazione di conformità del difensore è sufficiente se riferita al contenuto testuale del documento che ne è oggetto, e che la regolarità del documento attestato si presume sino a specifica contestazione della parte controinteressata, onerata di allegare l’esistenza di precisi vizi, tali da determinare la lesione del diritto di difesa o un pregiudizio per la decisione; di conseguenza, è stata ritenuta idonea a far decorrere il termine breve per l’impugnazione anche una notificazione telematica di copia della sentenza mancante dell’attestazione di conformità all’originale, gravando sul destinatario l’onere di dimostrare che tale irregolarità abbia arrecato un pregiudizio alla conoscenza dell’atto e al concreto esercizio del diritto di difesa (Cass. 20747/2018).

6.7. Analoga sorte spetta alle perplessità sollevate con riguardo all’attestazione di conformità della copia analogica delle ricevute di accettazione e consegna, datata 25/06/2015, poichè essa appare testualmente riferita a files informatici (formato.eml) estratti dall’archivio informatico del dichiarante (segnatamente dal “sistema di posta elettronica certificata c/o Aruba Sign”), al di là del riferimento al D.L. n. 179 del 2012, art. 16-bis (come introdotto dal D.L. n. 90 del 2014, art. 52).

6.8. Non è meritevole di accoglimento il rilievo per cui non sarebbe stata “correttamente” data la “prova analogica della notificazione telematica ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1-bis” – per essere stati stampati solo il messaggio contenente la relazione di notifica e le ricevute di accettazione e consegna, non anche l’atto oggetto di notifica e la relata in formato pdf – in quanto al messaggio risultano “allegati” la sentenza d’appello n. 4657/14 e la relata telematica, in formato pdf.p7m (cfr. Cass. 6417/2019).

Al riguardo questa Corte ha più volte evidenziato l’idoneità della copia analogica della ricevuta di avvenuta consegna (RAC), completa di attestazione di conformità, a certificare il recapito non solo del messaggio, ma anche degli eventuali allegati alla stessa, salva prova contraria – di cui è onerata la parte che eccepisca la nullità costituita da errori tecnici riferibili al sistema informatizzato (Cass. 9897/2019; cfr. Cass. 4789/2018, 29732/2018); ciò perchè, “nel momento in cui il sistema genera la ricevuta di accettazione della pec e di consegna della stessa nella casella del destinatario, si determina una presunzione di conoscenza della comunicazione da parte del destinatario analoga a quella prevista, in tema di dichiarazioni negoziali, dall’art. 1335 c.c.. Spetta quindi al destinatario, in un’ottica collaborativa, rendere edotto il mittente incolpevole (…) della difficoltà nella presa visione degli allegati trasmessi via pec, onde fornirgli la possibilità di rimediare a tale inconveniente” (Cass. 25819/2017, 21560/2019).

6.9. Del tutto irrilevante è infine la contestazione della mancanza di prova della notifica della sentenza alle altre parti del giudizio d’appello, che peraltro non sono litisconsorti necessari nella causa instaurata dal Fallimento contro i signori D.P. e A..

7. Per le medesime ragioni sopra illustrate, risultano infondate anche le analoghe eccezioni di nullità della notifica del controricorso, nella quale peraltro, contrariamene a quanto dedotto, l’oggetto del messaggio di notifica contiene regolarmente la dizione “notifica telematica ex L. n. 53 del 1994”; inoltre, risultano allegate sia la “attestazione di conformità”, sia la prova dell’avvenuta notificazione telematica mediante stampa degli atti.

7.1. In ogni caso, va richiamato l’orientamento di questa Corte per cui, “in tema di rito camerale di legittimità ex art. 380-bis.1 c.p.c., relativamente ai ricorsi già depositati alla data del 30 ottobre 2016 e per i quali venga successivamente fissata adunanza camerale, la parte intimata che non abbia provveduto a notificare e a depositare il controricorso nei termini di cui all’art. 370 c.p.c., ma che, in base alla pregressa normativa, avrebbe ancora la possibilità di partecipare alla discussione orale, per sopperire al venir meno di siffatta facoltà può presentare memoria, munita di procura speciale, nei medesimi termini entro i quali può farlo il controricorrente, trovando in tali casi applicazione l’art. 1 del Protocollo di intesa sulla trattazione dei ricorsi presso le Sezioni civili della Corte di cassazione, intervenuto in data 15 dicembre 2016 tra il Consiglio Nazionale Forense, l’Avvocatura generale dello Stato e la Corte di cassazione” (Cass. 12803/2019, 5508/2020).

8. Alla rilevata tardività del ricorso segue la condanna alle spese, liquidate in dispositivo. La farraginosità della normativa in materia di notifiche telematiche esclude la ricorrenza dei presupposti (dolo, colpa grave o errore grossolano) della condanna invocata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 3, ovvero per lite temeraria ai sensi dell’abrogato art. 385 c.p.c., comma 4, applicabile ratione temporis (Cass. 17814/2019; v. Cass. Sez. U, 22405/2018; Cass. 14035/2019, 29462/2018, 2040/2018, 3003/2014, 21805/2012).

9. Sussistono i presupposti processuali per il cd. raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater (cfr. Cass. Sez. U., n. 23535/2019 e n. 4315/2020).

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15 per cento, esborsi liquidati in Euro 200,00 ed accessori di legge. Rigetta la domanda di condanna ex art. 96 c.p.c., comma 3.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2020


Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 16-07-2020) 17-09-2020, n. 19328

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria C. – Presidente –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi – rel. Consigliere –

Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28107/2015 proposto da:

Inps, Istituto Nazionale della Previdenza Sociale in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Cesare Beccaria 29 presso gli avvocati Gaetano De Ruvo, Elisabetta Lanzetta, Paola Massafra che lo rappresentano e difendono in forza di procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M.P.L., elettivamente domiciliata in Roma Via Tacito 23 presso lo studio dell’avvocato Cristoforo Parisi e rappresentata e difesa dall’avvocato Alfredo Soldera, in forza di procura speciale allegata al controricorso;

– controricorrente –

e contro

Garante per la Protezione dei Dati Personali, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende ex lege;

– controricorrente incidentale –

e contro

M.P.L., elettivamente domiciliata in Roma Via Tacito 23 presso lo studio dell’avvocato Cristoforo Parisi e rappresentata e difesa dall’avvocato Alfredo Soldera, in forza della predetta procura speciale allegata al controricorso – controricorrente al ricorso incidentale –

avverso la sentenza n. 1792/2015 del TRIBUNALE di LATINA, depositata il 09/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 16/07/2020 dal Consigliere UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE SCOTTI.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 152 M.P.L. ha impugnato dinanzi al Tribunale di Latina il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali (di seguito: semplicemente Garante) n. 296 del 18/10/2012 con cui era stato respinto il reclamo da essa proposto per lamentare l’illecito trattamento di propri dati personali e sensibili commesso ai suoi danni dalla Dirigente della sede INPDAP, ora INPS, ex gestione INPDAP, di Latina nel maggio-giugno del 2011.

Secondo la ricorrente, la predetta Dirigente aveva trattato dati personali riservati in modo illecito, disponendo che la comunicazione degli addebiti professionali mossi nei suoi confronti e contenuti nelle note dirigenziali n. 132 del 23/5/2011 e n. 149 del 3/6/2011, preliminari alla revoca della sua posizione di “capo area pensioni”, avvenisse brevi manu e a vista, a mezzo di addetto alla segreteria non preposto al trattamento di dati personali, senza alcuna precauzione o cautela, come l’inserimento in un plico o in una busta, in violazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11 del punto 5.3. delle “Linee guida in materia di trattamento dei dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” del 14/6/2007 e delle norme INPDAP, Protocollo relazioni sindacali, punto B.3.

Inoltre la ricorrente aveva lamentato il fatto che la Dirigente, in occasione di un incontro sindacale del 31/5/2011 per la discussione della bozza di un ordine di servizio per la riorganizzazione della sede, aveva dichiarato a verbale che l’ordine di servizio era stato preparato consultando alcuni soggetti coinvolti nella stesura del provvedimento, che erano quindi venuti a conoscenza di suoi dati personali e sensibili e di pesanti addebiti relativi alla sua professionalità.

Tanto premesso, la ricorrente ha dedotto la nullità e l’ingiustizia del provvedimento del Garante, chiedendone l’annullamento, l’accertamento dell’illegittimità del trattamento dei propri dati personali e la condanna dell’INPS e dello stesso Garante per la protezione dei dati personali al risarcimento dei danni.

Si è costituito in giudizio l’INPS, eccependo preliminarmente la tardività del ricorso e l’incompetenza del giudice adito, dovendosi ritenere competente il Tribunale di Roma, in relazione alla sede legale dell’Istituto titolare del trattamento e chiedendo nel merito il rigetto del ricorso.

Si è costituito altresì il Garante per la protezione dei dati personali, eccependo il proprio difetto di legittimazione passiva e chiedendo la declaratoria di inammissibilità o il rigetto del ricorso nei propri confronti.

All’esito di istruttoria documentale e testimoniale, con sentenza del 9/9/2015, previa lettura del dispositivo all’udienza del 30/6/2015, il Tribunale di Latina ha annullato il provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali n. 296 del 18/10/2012, ha accolto parzialmente la domanda risarcitoria, condannando l’INPS a pagare a M.P.L. la somma di Euro 10.000,00, ha respinto la domanda risarcitoria nei confronti del Garante e ha condannato l’INPS a rifondere le spese di lite alla ricorrente, compensando le spese fra di essa e il Garante.

2. Avverso la predetta sentenza, notificata in data 24/9/2015, con atto notificato con affidamento al servizio postale il 20/11/2015 ha proposto ricorso per cassazione l’INPS, svolgendo quattro motivi.

Con atto notificato il 30/12/2015 ha proposto controricorso M.P.L., chiedendo la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto dell’avversaria impugnazione.

Con atto notificato il 30/12/2015 ha proposto controricorso anche il Garante per la protezione dei dati personali, proponendo altresì ricorso incidentale per la cassazione della sentenza impugnata sulla base di cinque motivi.

Con atto notificato il 4/2/2016 la controricorrente M.P.L. ha proposto controricorso anche nei confronti del ricorso incidentale del Garante per la protezione dei dati personali, chiedendone la dichiarazione di inammissibilità o il rigetto.

Il ricorrente INPS e la controricorrente M. hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 2, l’Istituto ricorrente denuncia violazione delle norme sulla competenza e in particolare del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152 e D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 10 nonchè dell’art. 46 c.c. e art. 19 c.p.c., dei principi di cui all’art. 111 Cost. e del suo comma 2, in tema di relazione fra giusto processo e regole sulla competenza, in lettura integrata con l’art. 6 CEDU. 1.1. Il Tribunale di Latina ha ritenuto la propria competenza quale giudice del luogo di sede decentrata provinciale, dotata di direttore munito di poteri rappresentativi ex art. 19 c.p.c., comma 2.

Secondo l’INPS, la competenza attribuita al Tribunale del luogo ove risiede il titolare del trattamento dei dati ha invece natura funzionale e inderogabile e non era possibile invocare il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 16, lett. f), privo di attitudine a modificare il criterio di determinazione dell’organo legittimato a rappresentare legalmente l’amministrazione.

Inoltre la ravvisata esigenza di avvicinare il giudice al luogo del trattamento dei dati si scontrava con il termine “residenza” contenuto nella norma, di carattere soggettivo e utilizzato in senso proprio.

1.2. La censura è infondata e il Tribunale di Latina ha ben giudicato ravvisando la propria competenza territoriale.

Infatti, secondo il D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 10, comma 2, richiamato dal D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152 per le controversie in materia di applicazione delle disposizioni in materia di protezione dei dati personali è competente il tribunale del luogo in cui ha la sua “residenza” il titolare del trattamento dei dati, come definito dal D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 4.

Il predetto, art. 4, alla lett. f), nel testo pro tempore applicabile prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, definisce “titolare” la persona fisica, la persona giuridica, la pubblica amministrazione e qualsiasi altro ente, associazione od organismo cui competono, anche unitamente ad altro titolare, le decisioni in ordine alle finalità, alle modalità del trattamento di dati personali e agli strumenti utilizzati, ivi compreso il profilo della sicurezza.

Inoltre il D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 28 precisa che quando il trattamento è effettuato da una persona giuridica, da una pubblica amministrazione o da un qualsiasi altro ente, associazione od organismo, titolare del trattamento è l’entità nel suo complesso o l’unità od organismo periferico che esercita un potere decisionale del tutto autonomo sulle finalità e sulle modalità del trattamento, ivi compreso il profilo della sicurezza.

1.3. Come correttamente osservato dal Tribunale latinense, il riferimento della legge al luogo di “residenza” del titolare del trattamento è evidentemente applicabile, in modo diretto e giuridicamente proprio, alla sola persona fisica.

Quando il titolare del trattamento è una persona giuridica o una pubblica amministrazione si rende quindi necessaria l’interpretazione correttiva e integrativa, peraltro agevole, adottata nella sentenza impugnata, avuto riguardo al foro generale delle persone giuridiche, pubbliche e private, previsto dall’art. 19 c.p.c., secondo il quale, salvo che la legge disponga altrimenti, qualora sia convenuta una persona giuridica, è competente il giudice del luogo dove essa ha sede, nonchè il giudice del luogo dove essa ha uno stabilimento e un rappresentante autorizzato a stare in giudizio per l’oggetto della domanda.

Inoltre, ai sensi dell’art. 46 c.c. quando la legge fa dipendere determinati effetti dalla residenza o dal domicilio, per le persone giuridiche si ha riguardo al luogo in cui è stabilita la loro sede e nei casi in cui la sede stabilita ai sensi dell’art. 16 c.c. o la sede risultante dal registro sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche questa ultima.

Per sede effettiva la giurisprudenza costante intende il luogo in cui hanno concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente ed ove operano i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti, ossia il luogo deputato o stabilmente utilizzato per l’accentramento dei rapporti interni e con i terzi in vista del compimento degli affari e della propulsione dell’attività dell’ente (Sez. L, n. 6021 del 12/03/2009).

1.4. Sulla base di queste complessive considerazioni e nella logica di individuare la regola di competenza in modo rispondente alle esigenze di tutela cui è finalizzato il Codice dei dati personali, deve quindi ritenersi che il luogo ove risiede il titolare del trattamento alluda a una nozione collegata ad una localizzazione “dinamica” e non “statica” del titolare, espressa quindi dal suo agire rilevante secondo il Codice.

Il luogo in cui risiede il titolare del trattamento si identifica pertanto in quello in cui il trattamento ha luogo in modo autonomo e quindi si manifesta in concreto.

Questa Corte, allorchè ha escluso come manifestamente infondato il dubbio di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 24 Cost., del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152, comma 2, ha ritenuto che la scelta di individuare il luogo di residenza del titolare del trattamento come foro territoriale esclusivo per le controversie in materia di protezione dei dati personali di cui al comma 1 rispondesse alla scelta di privilegiare l’esigenza di vicinanza del giudice al luogo di trattamento e diffusione dei dati, mediante non irragionevole esercizio della discrezionalità legislativa (Sez. 3, n. 12980 del 31/05/2006, Rv. 589931 – 01).

Inoltre, diversamente opinando, si perverrebbe al singolare risultato che una disciplina complessa come quella del D.Lgs. n. 196 del 2003, dettata in funzione dell’esigenza di tutela del soggetto come tale, sotto il profilo del luogo di svolgimento del processo e, quindi, della tutela giurisdizionale, avrebbe assunto come regola di radicazione della competenza un criterio diretto a tutelare precipuamente l’interesse del titolare del trattamento; infatti, è evidente che costringere il soggetto i cui dati sono trattati a litigare non già nel luogo in cui gli effetti del trattamento si evidenziano e, quindi rivelano la loro capacità lesiva, bensì nel luogo in cui risiede il titolare (magari lontanissimo dal luogo di emersione del trattamento) implicherebbe una grave ed irragionevole contraddizione con la ratio di protezione del soggetto leso.

1.5. Il Tribunale, con diversa e concorrente linea argomentativa, non ha mancato di precisare agli effetti di cui all’art. 19 c.p.c., comma 1, seconda parte, che secondo la giurisprudenza di legittimità l’estensione ad opera della L. 8 marzo 1985, n. 72 ai dirigenti degli uffici centrali e periferici degli enti pubblici economici della normativa di cui al D.P.R. 30 giugno 1972, n. 748 sullo stato giuridico dei dirigenti statali comporta l’applicazione ai primi della disposizione di cui al D.P.R. n. 748 del 1972, art. 2, comma 2 circa il potere di rappresentanza giuridica dell’amministrazione nei confronti dei terzi, con la conseguente legittimazione dei dirigenti provinciali degli enti previdenziali a promuovere e resistere alle liti, senza necessità di preventiva delega da parte del Presidente dell’Istituto (Sez. U, n. 11050 del 22/12/1994, Rv. 489357 – 01; Sez. L, n. 12262 del 20/08/2003, Rv. 566085 – 01; Sez. L, n. 12870 del 12/07/2004, Rv. 574471 – 01).

Conclusione questa non scalfita dal nuovo contesto normativo (in seguito all’abrogazione dell’art. 2 e alle disposizioni del Capo 1 del D.P.R. n. 748 cit., e al D.Lgs. n. 29 del 1993, artt. 3 e 16 da parte del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 43 e successive modificazioni), atteso che il D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 4, comma 2, ha ribadito che ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno e il successivo art. 16, lett. f), ha confermato il potere dei medesimi dirigenti di promuovere e resistere alle liti, conciliare e transigere (Sez. L, n. 955 del 24/01/2012, Rv. 621250 – 01).

Al riguardo l’Istituto ricorrente si limita a prospettare un diverso indirizzo giurisprudenziale (Sez. lav. 13/04/2012 n. 5885), che non appare pertinente poichè in quell’occasione era stata cassata la sentenza di merito che aveva escluso il potere di rappresentanza generale del rettore di una Università degli studi, attribuendo il potere di rappresentanza in giudizio al dirigente amministrativo dell’Ente.

1.6. E’ infine il caso di ricordare che questa Corte, nel ritenere che in caso di dati personali nella disponibilità di un ufficio giudiziario (nella specie, relativi ad un procedimento disciplinare disposto nei confronti di un dipendente dell’ufficio), giudice territorialmente competente per l’azione di risarcimento per la loro indebita diffusione sia il tribunale del luogo di residenza del capo dell’ufficio giudiziario, che riveste la qualità di titolare del trattamento dei dati, ha avuto cura di precisare che tale luogo deve essere inteso in senso funzionale ed oggettivo, quale luogo di stanzialità e di stabile ubicazione e cioè quale luogo della sede dell’ufficio (Sez. 6 – 3, n. 22526 del 23/10/2014, Rv. 634404 – 01).

Da ultimo e per completezza, anche del Regolamento UE 27/04/2016 n. 679, art. 79, il comma 2 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali (regolamento generale sulla protezione dei dati – GDPR) comunque inapplicabile ratione temporis, a differenza della previgente Direttiva 24/10/1995 n. 46 1995/46/CE, prevede espressamente che le azioni nei confronti del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento debbono essere promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento ha uno stabilimento. In alternativa, tali azioni possono essere promosse dinanzi alle autorità giurisdizionali dello Stato membro in cui l’interessato risiede abitualmente, salvo che il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento sia un’autorità pubblica di uno Stato membro nell’esercizio dei pubblici poteri. Il considerando 22 precisa che lo stabilimento implica l’effettivo e reale svolgimento di attività nel quadro di un’organizzazione stabile. A tale riguardo, non è determinante la forma giuridica assunta, sia essa una succursale o una filiale dotata di personalità giuridica.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, l’Istituto ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 11, 18, 28, 30, 35 e 112 nonchè dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7 in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge ex art. 6 CEDU. 2.1. L’INPS critica in tal modo la decisione impugnata anche con riferimento alla ritenuta violazione della disciplina del trattamento dei dati personali da parte dell’Ente pubblico datore di lavoro della Dott.ssa M., che sarebbe stata consumata per effetto, da un lato, delle modalità di comunicazione dell’ordine di servizio n. 2 del 2011, riguardante la revoca della sua posizione organizzativa di capo area pensioni, dall’altro, del coinvolgimento di soggetti chiamati alla gestione del documento.

Secondo il ricorrente, la gestione dei dati relativi alla sig.ra M. (con particolare riferimento al mancato raggiungimento degli obiettivi prefissati dall’Ente), era avvenuta nel rispetto del D.Lgs. n. 196 del 2003, artt. 11 e 18 per scopi determinati e nello svolgimento delle funzioni istituzionali.

L’affermazione che la materiale gestione dei documenti contenenti i dati personali sia stata affidata a soggetti non legittimati e privi di ruolo di responsabile e incaricato del trattamento è stata fondata su di un presupposto errato, ossia che presso la sede di Latina non fosse stata istituita la figura dell’incaricato e che tale carenza non fosse surrogabile dall’ordine di servizio n. 2/2009 che avrebbe semplicemente delineato i compiti amministrativi del personale di segreteria.

Come risultava invece da apposito elenco, trascritto nel ricorso “ai fini di completezza e autosufficienza”, al punto 64 figurava il nome di Stefanile Anna, ossia dell’addetta alla segreteria del dirigente che aveva provveduto materialmente alla consegna della nota come emergeva dalle dichiarazioni rese dal Direttore della Sede di Latina il 7/5/2012 in sede di ispezione della Guardia di Finanza. Inoltre dall’ordine di servizio n. 2 del 2009, depositato con il documento 13 dalla ricorrente, risultava che la predetta S.A. era preposta ad occuparsi della notifica e della conservazione di tutti gli atti della segreteria del personale e del dirigente ed era addetta all’archivio fascicoli del personale.

2.2. E’ opportuno premettere che il motivo, al pari di quelli successivi, dedotti per violazione di legge ex art. 360 c.p.c., n. 3, contiene una clausola finale, rivolta a lamentare anche violazione dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7 in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge ex art. 6 CEDU. Si tratta peraltro di una sorta di formulazione di stile volta a rafforzare le censure svolte, ma priva di un autonomo contenuto, del resto neppur sviluppato nel ricorso sotto il profilo argomentativo.

2.3. Il ricorrente fonda la propria censura su alcuni documenti ossia l’elenco degli incaricati al trattamento dei dati trasmesso con missiva di posta elettronica dalla Direzione di Latina alla Direzione Centrale Affari Generali e Legislativi, Ufficio 4 dell’INPS del 18/9/2008 (doc. 6 del fascicolo di primo grado INPS), il verbale delle dichiarazioni rese dal Direttore della Sede di Latina in data 7/5/2012 alla Guardia di Finanza (doc. 3 del fascicolo di primo grado prodotto dall’INPS con la memoria di costituzione) e infine l’ordine di servizio n. 2/2009 del 1/6/2009 relativo ai compiti assegnati al personale (allegato sub 13 al ricorso introduttivo).

Il ricorso quindi contiene, come prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, la specifica indicazione dei documenti sui quali si fondano le sue censure, documenti del resto depositati ex art. 372 c.p.c..

2.4. Il ricorso contiene non solo la sintesi dei passaggi rilevanti e l’integrale trascrizione dei documenti invocati, ma addirittura la loro incorporazione grafica nel testo: tecnica questa sovrabbondante e non raccomandabile, eppur priva di conseguenze sul piano dell’ammissibilità delle censure svolte.

Secondo questa Corte, qualora il ricorrente, in sede di legittimità, denunci l’omessa valutazione di prove documentali, per il principio di autosufficienza ha l’onere non solo di trascrivere il testo integrale, o la parte significativa del documento nel ricorso per cassazione, al fine di consentire il vaglio di decisività, ma anche di specificare gli argomenti, deduzioni o istanze che, in relazione alla pretesa fatta valere, siano state formulate nel giudizio di merito, pena l’irrilevanza giuridica della sola produzione, che non assicura il contraddittorio e non comporta, quindi, per il giudice alcun onere di esame, e ancora meno di considerazione dei documenti stessi ai fini della decisione (Sez. 5, n. 13625 del 21/05/2019, Rv. 653996 – 01).

Sono infatti inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora: (a) il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso; ovvero (b) li abbia riprodotti ma senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame; ovvero ancora (c) non ne abbia precisato la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità. (Sez. U, n. 34469 del 27/12/2019, Rv. 656488 – 01).

Pertanto in applicazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, qualora sia dedotta la omessa o viziata valutazione di documenti, deve procedersi ad un sintetico ma completo resoconto del loro contenuto, nonchè alla specifica indicazione del luogo in cui ne è avvenuta la produzione, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza sulla base del solo ricorso, senza necessità di fare rinvio od accesso a fonti esterne ad esso (Sez. 1, n. 5478 del 07/03/2018, Rv. 647747 – 01).

Non appare pertinente il tentativo della controricorrente di rinvenire una ragione di inammissibilità del ricorso dell’INPS nell’utilizzo della predetta tecnica con riferimento alla violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 3 in ordine all’esposizione dei fatti rilevanti di causa mediante tecnica di cosiddetto “assemblaggio” (Sez. U, n. 5698 del 11/04/2012, Rv. 621813 – 01), dal momento che nella fattispecie l’INPS ha impiegato tale metodo di incorporazione grafica solo per produrre i documenti non adeguatamente valutati, dando tuttavia conto delle ragioni per cui ne invocava l’esame e non già per assolvere all’obbligo di sintetica esposizione dei fatti di causa.

2.4. Il predetto secondo motivo del ricorrente INPS è stato dedotto ex art. 360, n. 3 per violazione e/o falsa applicazione di legge.

A rigore, almeno quanto all’elenco dei soggetti abilitati al trattamento dati e forse anche quanto alle mansioni attribuite alla collaboratrice, non si evidenzia un errore nell’applicazione della legge e nemmeno nella sussunzione nella norma della fattispecie concreta, perchè la critica (come si dirà, fondatamente) l’accertamento del fatto a cui sono state applicate le norme: e cioè, diversamente da quanto sostenuto dal Tribunale, quanto alla sussistenza di un elenco dei soggetti autorizzati al trattamento dati e al fatto che la collaboratrice amministrativa incaricata della consegna della missiva aveva compiti precisi che implicavano la possibilità di conoscenza della contenuto della lettera.

In realtà, a ben vedere, l’Istituto ricorrente lamenta, anche e soprattutto, un vizio di omesso esame di fatti decisivi, indica i documenti che li comprovavano, dice quando sono stati prodotti, ne trascrive integralmente il contenuto: quindi, almeno in parte, il motivo, pur non invocando l’art. 360, n. 5, deduce nella sostanza quel tipo di vizio.

In applicazione del principio jura novit curia secondo cui “narra mihi factum, dabo tibi jus” compete a questa Corte la riqualificazione della la censura con il corretto nomen juris, avuto riguardo al suo contenuto sostanziale, come ritenuto da consolidata giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale l’erronea intitolazione del motivo di ricorso per cassazione non osta alla sua sussunzione in altre fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, nè determina l’inammissibilità del ricorso, se dall’articolazione del motivo sia chiaramente individuabile il tipo di vizio denunciato (Sez. 6 – 5, n. 26310 del 07/11/2017, Rv. 64419 01; Sez. 6 – 5, n. 25557 del 27/10/2017, Rv. 646414 – 01; Sez. 6 – 3, n. 4036 del 20/02/2014, Rv. 630239 – 01; nonchè Sez. U, n. 17931 del 24/07/2013, Rv. 627268 – 01).

2.5. La censura appare fondata.

Il Tribunale ha dapprima, correttamente, qualificato le informazioni relative alla revoca della sig.ra M. dalla posizione di responsabile dell’Area Pensioni presso la sede di Latina dell’INPS – Gestione ex INPDAP, come “dati personali” D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 4 applicabile ratione temporis, prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101, recante disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale al regolamento (UE) 2016/679.

Quindi nel p. 3.2.3. (pag.17-18 della sentenza impugnata) il Tribunale ha ritenuto illegittima la trasmissione della missiva effettuata a mani da una persona addetta alla segreteria mediante consegna del documento privo di busta, in contrasto con quanto previsto dal punto 5.3. delle “Linee guida in materia di trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico” del 14/6/2007 che, in tema di modalità di comunicazione impone l’adozione di opportune cautele volte a prevenire l’ingiustificata conoscibilità di dati personali da parte di soggetti diversi dal destinatario.

Tanto premesso, secondo il Tribunale, la persona che aveva trasmesso l’atto alla sig.ra M. non rivestiva la posizione di incaricato al trattamento dei dati D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 30 visto che tale figura non era stata istituita presso la Sede INPS di Latina; nè tale carenza poteva essere surrogata dall’ordine di servizio 2/2009, che delineava solamente i compiti amministrativi demandati ai vari addetti alla segreteria e non abilitava gli addetti alla notifica dei provvedimenti del Dirigente anche al trattamento dei dati.

2.6. Tali affermazioni contengono vari errori, puntualmente stigmatizzati dall’Istituto ricorrente.

In primo luogo, dal documento n. 6 del fascicolo di primo grado INPS risulta l’esistenza – negata dal Tribunale – di un elenco di soggetti incaricati al trattamento dei dati, trasmesso con missiva di posta elettronica dalla Direzione di Latina alla Direzione Centrale Affari Generali e Legislativi, Ufficio 4 dell’INPS del 18/9/2008, in cui figura al n. 64 il nome di S.A., addetto di supporto Al.

Dal verbale delle dichiarazioni rese dal Direttore della Sede di Latina in data 7/5/2012 alla Guardia di Finanza (doc. 3 del fascicolo di primo grado prodotto dall’INPS con la memoria di costituzione) risulta che la persona che consegnò la missiva senza busta alla Dott.ssa M. era proprio la predetta S.A..

Infine, l’ordine di servizio n. 2/2009 del 1/6/2009 relativo ai compiti assegnati al personale (allegato sub 13 al ricorso introduttivo) attribuisce alla predetta S.A. non solo il compito di provvedere alla spedizione e curare la notifica della corrispondenza della segreteria del personale e del Dirigente, ma anche le mansioni di provvedere alla conservazione di atti e corrispondenza e di curare l’archivio dei fascicoli del personale, incarichi questi che implicano necessariamente l’accesso cognitivo al contenuto degli atti conservati e archiviati.

2.7. Per ravvisare l’illecito lamentato dalla ricorrente sig.ra M. il Tribunale avrebbe dovuto accertare che la lettera contenente i dati personali in questione fosse stata incautamente resa accessibile ad un soggetto diverso da quello abilitato al trattamento dei dati, alla sua notificazione, conservazione e archiviazione: accertamento doveroso, non compiuto dalla sentenza impugnata.

2.8. Non persuadono poi le obiezioni, invero molto generiche, svolte dalla controricorrente circa il mancato aggiornamento dell’elenco, risalente al 2008, tre anni prima dei fatti di causa, sia perchè la controricorrente non offre riscontro di tale contestazione nel giudizio di merito, sia perchè non risulta che tale elenco sia stato modificato, sia perchè, quand’anche alcuni dipendenti fossero stati trasferiti, non lo era la predetta sig.ra S.A. (unica circostanza rilevante).

Nè, infine, assume rilievo l’obiezione che l’elenco non riguarderebbe il trattamento di dati personali sensibili, non essendo stati ritenuti tali quelli oggetto di controversia, qualificati invece come meri dati personali.

2.9. Solo con la memoria ex art. 380 bis-1 c.p.c. del 30/6/2020 la controricorrente ha articolato ulteriori difese in ordine al contenuto dell’elenco del personale abilitato e dell’ordine di servizio 2/2009, volte a predicarne, sotto diversi profili, la genericità o la non conformità alle prescrizioni normative, che attengono tuttavia evidentemente al merito della valutazione che il Tribunale dovrà rinnovare in sede di rinvio, senza omettere l’esame delle circostanze di fatto oggetto dei documenti sopra citati.

3. Con il terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, l’Istituto ricorrente denuncia violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dei principi dell’art. 111 Cost. e in particolare del comma 2 e del nucleo di garanzie irrinunciabili e coessenziali a un processo giusto in riferimento ai quali vanno ricondotti gli errori in procedendo, in lettura integrata con l’art. 6 CEDU. 3.1. Secondo l’INPS, il Tribunale era incorso in palese violazione di regole processuali nella valutazione delle prove in ordine alla ravvisata indebita divulgazione di dati personali relativi alla rimozione di M.P.L. dalla sua posizione di capo area pensioni nel corso della riunione sindacale del 31/5/2011 in cui erano state discusse le modifiche organizzative apportate con l’ordine di servizio n. 2 del 2011.

Secondo l’Istituto, non era stata infatti esaminata la prova documentale rappresentata dal verbale della riunione, allegata al ricorso introduttivo (doc. 7 ricorrente), la cui lettura dimostrava in modo lampante che esso non conteneva alcun riferimento ai risultati conseguiti dalla sig.ra M. e alle ragioni della sua revoca dalla posizione organizzativa; di conseguenza, il contenuto della prova era stato travisato in modo incontrovertibile, cosa che smentiva in modo evidente l’assunto del Tribunale secondo cui, come confermato dal teste B. all’udienza del 10/4/2014 la diffusione dei dati personali era avvenuta nell’ambito della predetta riunione sindacale.

3.2. La controricorrente M. ritiene violato l’art. 372 c.p.c. perchè il documento in questione (che non era stato prodotto dall’INPS, ma da lei nel giudizio di merito) richiamato, allegato e riprodotto nel testo del ricorso ha un contenuto parzialmente diverso da quello effettivamente prodotto dalla sig.ra M., allora ricorrente: in particolare il documento in questione manca di due pagine rispetto a quello prodotto e contiene invece diciture relative alla sua trasmissione via fax da Latina a Milano nel 2012, assenti nel documento prodotto.

La Corte può agevolmente superare tali obiezioni, di cui per vero non è ben chiara la rilevanza perchè volte a dimostrare differenze formali nel contenuto dei documenti, prive però di indicazioni circa la loro rilevanza ai fini di causa, in omaggio al principio della “ragion più liquida” ispirato al principio di economia processuale.

3.3. Il motivo deve infatti ritenersi inammissibile in quanto privo di specificità e pertinenza rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata.

A pag. 17 il Tribunale ha infatti affermato che “In definitiva, la diffusione della notizia della rimozione di M.P.L. dalle funzioni cui era stata preposta, avvenuta, come confermato dal teste B. sentito all’udienza del 10/4/2014, sicuramente nell’ambito della riunione sindacale del 31/5/2011, integra una condotta contraria alle norme precauzionali…”.

In tal modo l’accertamento del fatto lesivo avvenuto nel corso dell’incontro sindacale, ossia la divulgazione indebita della notizia della rimozione della signora M. dal suo incarico nell’ambito di una riunione sindacale è stato fondato dal Giudice di prima cura non già sul verbale della riunione, che, redatto in forma sintetica, ben può non riportare l’integrale contenuto di tutte le comunicazioni verbali intercorse in quell’occasione fra i soggetti coinvolti, ma sulle dichiarazioni del teste B., e quindi sul risultato di una prova testimoniale.

Il motivo pertanto non coglie il segno, trascurando di dar conto e affrontare criticamente la principale ragione sulla base della quale il Tribunale di Latina ha ritenuto che fosse stata realmente effettuata in quella circostanza di tempo e di luogo l’indebita diffusione di dati personali della sig.ra M..

4. Con il quarto motivo di ricorso principale, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione al D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 e dell’art. 2050 c.c. nonchè dei principi dell’art. 111 Cost., con riferimento in particolare al comma 7 in tema di controllo delle parti sulla corretta applicazione della legge ex art. 6 CEDU. 4.1. L’INPS sostiene che per potersi apprezzare una lesione ingiustificabile in tema di dati personali, suscettibile di risarcimento del danno non patrimoniale D.Lgs. n. 196 del 2003, ex art. 15 non è sufficiente la mera violazione ma occorre una violazione sensibilmente offensiva, in difetto di dimostrazione di un pregiudizio significativo sofferto in conseguenza.

Nella fattispecie mancava in concreto la prova della gravità della lesione e della serietà del danno.

4.2. Il quarto motivo (erroneamente classificato quinto nel controricorso della sig.ra M.) riguarda la risarcibilità del danno non patrimoniale da illecito trattamento dei dati personali ai sensi del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15.

L’orientamento giurisprudenziale più recente, condiviso anche dal Tribunale di Latina e conforme agli indirizzi di questa Corte (da ultimo Sez. 1, n. 207 del 8/1/2019), riconduce l’illecito trattamento di dati personali ad un’ipotesi di responsabilità oggettiva, anche alla luce dell’esplicito rinvio compiuto dalla legge (D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 15 applicabile pro tempore) all’art. 2050 c.c..

Pertanto, il danneggiato che lamenti la lesione dell’interesse non patrimoniale può limitarsi a dimostrare l’esistenza del danno e del nesso di causalità rispetto al trattamento illecito, mentre spetta al danneggiante titolare del trattamento, eventualmente in solido col responsabile, dimostrare di aver adottato tutte le misure idonee per evitare il danno. Questo schema è parzialmente confermato anche nel nuovo GDPR (art. 82.3 GDPR) che, sulla base del principio di responsabilizzazione (accountability) addossa al titolare del trattamento dei dati – eventualmente in solido con il responsabile il rischio tipico di impresa (art. 2050 c.c.).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, in tema di onere della prova, in caso di illecito trattamento dei dati personali, il pregiudizio non patrimoniale non è in re ipsa, ma deve essere allegato e provato da parte dell’attore, a pena di uno snaturamento delle funzioni della responsabilità aquiliana. La posizione attorea è tuttavia agevolata dal regime più favorevole dell’onere della prova, descritto all’art. 2050 c.c., rispetto alla regola generale del danno aquiliano, nonchè dalla possibilità di dimostrare il danno anche solo tramite presunzioni semplici e dal risarcimento secondo equità (Sez. 1, 08/01/2019, n. 207; Sez. 1, 25/1/2017 n. 1931; Sez. 1, n. 10638 del 23/05/2016).

Per altro verso, il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 15 pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali tutelato dagli artt. 2 e 21 Cost. e dall’art. 8 della CEDU, non si sottrae alla verifica della gravità della lesione e della serietà del danno (quale perdita di natura personale effettivamente patita dall’interessato) alla stregua dei parametri generali scolpiti dalle sentenze gemelle delle Sezioni Unite n. 26972-26975 dell’11/11/2008; infatti anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui la regola di tolleranza della lesione minima costituisce intrinseco precipitato, sicchè determina una lesione ingiustificabile del diritto non la mera violazione delle prescrizioni poste dall’art. 11 del codice della privacy ma solo quella che ne offenda in modo sensibile la sua portata effettiva. Il relativo accertamento di fatto è tuttavia rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale (Sez. 3, n. 16133 del 15/07/2014, Rv. 632536 – 01; Sez. 3, n. 20615 del 13/10/2016, Rv. 642913 – 02; Sez.1, 8/1/2019 n. 227).

Il titolare del trattamento, per non incorrere in responsabilità deve dimostrare che l’evento dannoso non gli è in alcun modo imputabile e non può limitarsi alla prova negativa di non aver violato le norme (e quindi di essersi conformato ai precetti), ma occorre la prova positiva di aver valutato autonomamente il rischio di impresa, purchè tipico, cioè prevedibile, e attuato le misure organizzative e di sicurezza tali da eliminare o ridurre il rischio connesso alla sua attività. In ogni caso, come lo stesso Istituto ricorrente riconosce, l’accertamento del danno non patrimoniale è un accertamento di fatto, “rimesso al giudice di merito e resta ancorato alla concretezza della vicenda materiale portata alla cognizione giudiziale ed al suo essere maturata in un dato contesto temporale e sociale” (cfr. sent.16133/2014, citata).

4.3. La pronuncia impugnata non si è sottratta alla corretta applicazione dei principi illustrati, richiedendo l’allegazione e la prova da parte della parte danneggiata del danno-conseguenza, e ribadendo che il danno risarcibile non si identificava con la lesione dell’interesse tutelato dall’ordinamento ma con le sue conseguenze causali.

Ciò ha condotto il Tribunale ad escludere un danno biologico per lesione dell’integrità psico-fisica ma a ravvisare un danno non patrimoniale da sofferenza morale, pure dedotto da parte attrice e ritenuto dimostrato sulla base di un ragionamento presuntivo fondato su regole di esperienza.

Se è pur vero che il Tribunale sembra aver ritenuto operante una presunzione di sussistenza della sofferenza morale in caso di indebito trattamento dei dati personali, in apparente contraddizione con i principi generali in tema di riparto dell’onere probatorio dapprima richiamati, il Giudice latinense non si è comunque sottratto a una valutazione in concreto, allorchè, a pagina 34, ha fatto leva sulla massima di esperienza secondo cui dalla diffusione di valutazioni negative relative al proprio operato professionale normalmente scaturisce sofferenza morale dell’interessato, salvo poi circoscriverne l’entità in concreto sotto il profilo quantitativo considerando, da un lato, l’assenza di prova di elementi di personalizzazione specifici del pregiudizio e, dall’altro, il carattere limitato dell’ambito soggettivo di divulgazione ristretto all’ufficio ove la Dott.ssa M. prestava servizio.

Con la stessa valutazione, non sindacabile in sede di legittimità, il Tribunale ha escluso, implicitamente ma inequivocabilmente, con l’apprezzamento di un pregiudizio di media entità, che si fosse in presenza di una lesione minima e bagatellare dei diritti della personalità dell’interessata e di un pregiudizio irrisorio, e pertanto da ritenersi tollerabile alla luce del principio di solidarietà sociale.

4.4. Naturalmente anche l’entità del pregiudizio dovrà essere rivista alla luce dell’accoglimento del secondo motivo e del possibile ridimensionamento oggettivo dell’illecito in sede di giudizio di rinvio.

5. Anche il Garante per la protezione dei dati personali ha proposto ricorso incidentale contro la sentenza del Tribunale di Latina notificatagli in data 5/10/2015, con il controricorso recante ricorso incidentale, notificato il 30/12/2015, fondato su cinque motivi.

5.1. Con il primo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 2, il Garante lamenta violazione e falsa applicazione delle norme sulla competenza, e in particolare del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 152 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 1 e dell’art. 46 c.c. e art. 19 c.p.c..

5.2. Con il secondo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il Garante lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 30 e del punto 5.3. delle “Linee guida per il trattamento di dati personali di lavoratori per finalità di gestione del rapporto di lavoro in ambito pubblico del 14/6/2007”.

5.3. Con il terzo motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 3, il Garante lamenta violazione e falsa applicazione del del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 11.

5.4. Con il quarto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 4, il Garante lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

5.5. Con il quinto motivo, proposto ex art. 360 c.p.c., n. 5, il Garante lamenta travisamento di prova e omesso esame di fatto decisivo per il giudizio, con riferimento al contenuto del verbale di incontro sindacale del 31/5/2011.

5.6. L’impugnazione incidentale tardiva, da qualunque parte provenga, deve essere dichiarata inammissibile laddove l’interesse alla sua proposizione non possa ritenersi insorto per effetto dell’impugnazione principale (Sez. 3, n. 27616 del 29/10/2019, Rv. 655641 – 01; Sez. L, n. 6156 del 14/03/2018, Rv. 647499 – 01; Sez. 3, n. 19188 del 19/07/2018, Rv. 649738 – 01; Sez. 3, n. 15220 del 12/06/2018, Rv. 649306 – 01).

Nella specie, anche volendo ravvisare un interesse del Garante all’impugnazione della sentenza del Tribunale di Latina e la sua soccombenza, nonostante il rigetto della domanda risarcitoria nei suoi confronti e il mancato addebito delle spese processuali, in ragione dell’annullamento del provvedimento da lui emesso e comunque dell’accoglimento delle tesi della ricorrente circa l’illecito trattamento dei suoi dati personali, da lui avversata in sede amministrativa e giurisdizionale, appare assorbente il rilievo che tali circostanze preesistevano inequivocabilmente all’impugnazione dispiegata dall’INPS che in nessun modo poteva risultargli pregiudizievole.

La tardività del ricorso rispetto al termine di sessanta giorni imposto dalla notifica ricevuta il 5/10/2015 comporta l’inammissibilità del ricorso del Garante e la considerazione del suo contenuto come mera difesa adesiva a supporto del ricorso principale.

6. In accoglimento quindi del secondo motivo di ricorso principale, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, al Tribunale di Latina in diversa composizione.

7. La Corte ritiene necessario disporre che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo di ricorso principale, respinto il primo, inammissibile il terzo, respinto il quarto nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia al Tribunale di Latina, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.

Dispone che, in caso di utilizzazione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione scientifica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi delle parti riportati nella sentenza.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Prima Sezione civile, il 16 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2020


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 08-07-2020) 09-09-2020, n. 18675

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8434-2017 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

S.C.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 8588/32/2016 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della CAMPANIA, depositata il 04/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 08/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA ENZA LA TORRE.

Svolgimento del processo
che:

L’Agenzia delle entrate ricorre per l’annullamento della sentenza della CTR della Campania, n. 8588/32/2016 dep. 4 ottobre 2016, che in controversia su impugnazione di avviso di accertamento per Irpef Iva, Irap anno 2008, ha rigettato l’appello dell’Ufficio. La CTR ha ritenuto nulla la sottoscrizione dell’accertamento “rinvenendosi in atti un mero richiamo ad una asserita delega n. 30 del 2013 non prodotta in giudizio a seguito della contestazione del contribuente”.

Il contribuente non ha svolto difese in questa sede.

Questa Corte, con ordinanza interlocutoria del 28 ottobre 2019, n. 27570 del 2019, ha disposto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio per verificare le doglianze della ricorrente.

Motivi della decisione
che:

Col primo motivo si deduce omesso esame di un fatto decisivo, ex art. 360 c.p.c., n. 5, rappresentato dall’esistenza in atti, fin dal primo grado di giudizio, di copia del provvedimento di delega di firma n. 30/2013 e di provvedimento n. 17/2012.

Col secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42. La ricorrente Agenzia censura la sentenza impugnata per avere la CTR ritenuto che la delega conferita al sottoscrittore dell’atto non contenesse l’indicazione nominativa del delegato e la durata di validità della delega, trattandosi di delega di firma e non di funzioni, riservate al delegante.

I motivi, che per la loro stretta connessione meritano un esame congiunto, sono fondati.

Questa Corte (Cass. sez. 5 n. 8814 del 2019, seguito da Cass. sez. 6/5 n. 18383/2019) ha affermato che “La delega per la sottoscrizione dell’avviso di accertamento conferita dal dirigente ex al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, è una delega di firma e non di funzioni: ne deriva che il relativo provvedimento non richiede l’indicazione nè del nominativo del soggetto delegato, nè della durata della delega, che pertanto può avvenire mediante ordini di servizio che individuino l’impiegato legittimato alla firma mediante l’indicazione della qualifica rivestita, idonea a consentire, “ex post”, la verifica del potere in capo al soggetto che ha materialmente sottoscritto l’atto”.

La sentenza impugnata, negando validità alla delega priva del nominativo del soggetto delegato, non risulta conforme alla menzionata pronuncia di questa Corte. Ed infatti, dall’esame del fascicolo di merito è emerso che in esso è versata la delega n. 30 del 2013 – “proroga delle deleghe di firma” – che conferma le deleghe precedentemente conferite con la Disp. di servizio n. 17 del 2012, dal direttore provinciale B.M., al funzionario P.R.M., firmataria dell’avviso di accertamento de qua.

In conclusione, in accoglimento ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale Campania, in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie ricorso, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Campania, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 8 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 9 settembre 2020


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 10-07-2020) 02-09-2020, n. 18235

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16505-2019 proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati MASSIMO FASANO, GIORGIO PASCA;

– ricorrente –

e contro

PARROCCHIA NATIVITA’ DELLA BEATA VERGINE MARIA, R.C., R.L., R.M., R.F., PROURA GENERALE DELLA REPUBBLICA PRESSO LA CORTE D’APPELLO DI LECCE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 333/2019 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 01/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 10/07/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIUSEPPE TEDESCO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’appello di Lecce ha dichiarato inammissibile l’appello proposto da R.G. contro sentenza di primo grado del tribunale della stessa città resa nel contraddittorio con la Parrocchia Natività della Beata Vergine Maria, R.C., R.L., R.M., R.F., con la chiamata in causa del pubblico ministero.

In particolare, la Corte d’appello di Lecce ha ritenuto tardiva l’impugnazione perchè notificata a mezzo posta elettronica alle 23:37 dell’11 aprile 2016, ultimo giorno utile ed essendosi pertanto quella stessa notificazione perfezionata, D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16, alle ore 7:00 del giorno successivo, quando il termine per proporre appello era decorso. Nella sentenza si precisa che il termine aveva incominciato a decorrere l’11 marzo 2016 (data di notificazione della sentenza di primo grado), coincidendo quindi il trentesimo giorno con la domenica 10 aprile 2016, prorogato di diritto al successivo 11 aprile 2016.La notificazione, però, era stata eseguita a mezzo pec oltre le ore 23:00 di tale ultimo giorno, con la conseguenza sopra indicata.

R.G. propone ricorso per cassazione sulla base di un unico motivo, con il quale si denuncia “violazione e falsa applicazione di nome di diritto per sopravvenuta illegittimità costituzionale della norma applicata, id est D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16-septies convertito con modificazioni nella L. 17 dicembre 2012, n. 221”.

Il ricorso è stato fissato per la trattazione dinanzi alla sesta sezione civile della Suprema Corte su conforme proposta del relatore.

In primo luogo, si rileva che la sentenza impugnata è stata depositata il 1 aprile 2019; benchè nel ricorso si assuma che essa è stata notificata nella medesima data del 1 aprile 2019, è stata tuttavia prodotta la copia autentica di essa, senza la relazione di notificazione, come invece prescrive a pena di improcedibilità l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2. La omissione, però, non comporta la sanzione della improcedibilità del ricorso perchè, in disparte l’anomalia di una notificazione avvenuta nella stessa data della pubblicazione, il ricorso è stato notificato il 23 maggio 2019, entro i sessanta giorni dalla pubblicazione. E’ quindi applicabile il principio secondo cui pur in difetto della produzione di copia autentica della sentenza impugnata e della relata di notificazione della medesima, prescritta dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, il ricorso per cassazione deve egualmente ritenersi procedibile ove risulti, dallo stesso, che la sua notificazione si è perfezionata, dal lato del ricorrente, entro il sessantesimo giorno dalla pubblicazione della sentenza, poichè il collegamento tra la data di pubblicazione della sentenza indicata nel ricorso e quella della notificazione del ricorso, emergente dalla relata di notificazione dello stesso, assicura comunque lo scopo, cui tende la prescrizione normativa, di consentire al giudice dell’impugnazione, sin dal momento del deposito del ricorso, di accertarne la tempestività in relazione al termine di cui all’art. 325 c.p.c., comma 2″ (Cass. n. 11386/2019; n. 17066/2013).

Il ricorso è fondato.

Con sentenza n. 75/2019, depositata in data 9 aprile 2019, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies (conv. in L. n. 221 del 2012) “nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta”.

Consegue la tempestività dell’appello di R.G., in quanto notificato entro le ore 24:00 dell’ultimo giorno utile.

Per completezza di esame si richiama il principio secondo cui “l’efficacia retroattiva delle pronunce di accoglimento emesse dalla Corte costituzionale incontra un limite nelle situazioni consolidate per effetto di intervenute decadenze; tale limite, tuttavia, non opera quando la dichiarazione di illegittimità costituzionale investe proprio la norma che avrebbe dovuto rendere operante la decadenza” (Cass. n. 1644/2019; n. 5240/2000).

La sentenza, pertanto, deve essere cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione perchè decida sulla proposta impugnazione. La corte di rinvio liquiderà anche le spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
accoglie ricorso; cassa la sentenza; rinvia alla Corte d’appello di Lecce in diversa composizione anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6 – 2 Sezione civile della Corte suprema di cassazione, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 24-06-2020) 02-09-2020, n. 18245

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33460-2018 proposto da:

D.L.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA OVIDIO, 32, presso lo studio dell’avvocato RAFFAELLA STURDA’, rappresentato e difeso dall’avvocato ALESSANDRO DI DATO;

– ricorrente –

contro

FIAT CHRYSLER AUTOMOBILES ITALY S.P.A., (già F.M.A. S.R.L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, 19, presso lo studio degli avvocati RAFFAELE DE LUCA TAMAJO e GIORGIO FONTANA, che la rappresentano e difendono;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2442/2018 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 16/05/2019 r.g.n. 3659/2016.

Svolgimento del processo
CHE:

1. la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 16.5.2018, respingeva il gravame proposto da D.L.V. avverso la decisione del Tribunale di Avellino che aveva rigettato la domanda del predetto, intesa ad ottenere, previa declaratoria di illegittimità del licenziamento per giusta causa irrogatogli in data 20.11.2011 dalla FIAT Chrysler Automobiles Italy s.p.a., la reintegrazione nel posto di lavoro ed il risarcimento del danno;

2. la Corte partenopea riteneva che, con riguardo ai fatti risultati incontroversi, dell’assenza del D.L. dal lavoro nei giorni 24 novembre ed 1 e 2 dicembre 2011 per motivi di salute consistenti nella “dermatite acuta alle mani” e nello svolgimento, da parte del predetto, di altra attività presso il bar Ciotola nei giorni di assenza, non poteva ritenersi realizzata la dedotta violazione del principio della immutabilità dei fatti contestati, in quanto rispetto alla contestazione originaria non si era verificata alcuna lesione del diritto di difesa del lavoratore attraverso una sostanziale immutazione del fatto addebitato, ravvisabile solo quando il quadro di riferimento fosse totalmente diverso da quello posto a fondamento della sanzione;

3. nel caso considerato, il Tribunale, secondo il giudice del gravame, aveva correttamente applicato i principi indicati laddove aveva individuato l’oggetto della contestazione nella esecuzione, da parte del lavoratore, assente dal lavoro per malattia, di un’attività lavorativa presso il bar-pasticceria della moglie, con conseguente violazione dei doveri di correttezza e buona fede imposti in costanza di malattia, finalizzati a garantire il sollecito recupero delle energie da porre a disposizione del datore di lavoro;

4. tale accertamento, a dire della Corte, non travalicava il limiti posti dalla contestazione disciplinare, avendo la società posto l’accento sull’avere il dipendente espletato attività presso terzi proprio nei giorni in cui lo stesso era stato assente dal lavoro per malattia non tanto per contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza, quanto allo scopo di sanzionare la colpevole sottrazione del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in generale;

5. la Corte rimarcava la differenza tra la contestazione nel procedimento disciplinare ed in quello penale e rilevava che una circostanza in tanto poteva essere considerata nuova, in quanto esulasse dall’originario atto di incolpazione, ciò che non si verificava allorchè il fatto in relazione al quale il licenziamento era intimato potesse essere ricompreso nella contestazione, della quale costituiva specificazione;

6. osservava che l’istruttoria aveva pienamente confermato la sussistenza della giusta causa del licenziamento e che la patologia da cui il D.L. era risultato affetto nel periodo di assenza dal lavoro gli avrebbe imposto una condotta diversa da quella tenuta, quale emersa dalla deposizione dei testi, che avevano confermato anche che il lavoratore aveva provveduto, tra la altre incombenze, al lavaggio di stoviglie ed alla preparazione di caffè – esponendo le mani a fonte di calore – all’interno dell’esercizio commerciale gestito dalla moglie, condotta questa inidonea a garantire il recupero della propria integrità fisica nel periodo di assenza dal lavoro;

7. di tale decisione domanda la cassazione il D.L., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società.

Motivi della decisione
CHE:

1. con il primo motivo, il ricorrente denunzia violazione o falsa applicazione, sotto più profili, della L. n. 300 del 1970, nonchè dell’art. 2119 c.c., censurando la inadeguata interpretazione, da parte della Corte distrettuale, delle norme richiamate, in relazione al caso concreto, per avere la stessa ritenuto, in maniera errata, che il datore di lavoro potesse risolvere il rapporto con il proprio dipendente in conseguenza della ravvisata lesione, da parte del D.L., del vincolo di fiducia posto a fondamento del rapporto di lavoro;

1.1. il ricorrente contesta l’erronea applicazione del principio sancito dalla giurisprudenza di legittimità, alla cui stregua non sussiste per il lavoratore assente per malattia un divieto assoluto di prestare, durante l’assenza, attività lavorativa in favore di terzi, purchè questa non evidenzi una simulazione di infermità, ovvero importi violazione al divieto di concorrenza, ovvero, compromettendone la guarigione, implichi inosservanza del dovere di fedeltà imposto al prestatore di lavoro; in particolare, evidenzia, come nella specie gli unici addebiti contenuti nella contestazione erano riferiti alla simulazione della malattia ed alla inattendibilità della certificazione, la cui prova, a dire dello stesso, non era stata fornita, avendo peraltro la sentenza di primo grado asseritamente negato la sussistenza di tali addebiti, per avere trovato la patologia attestata conferma nelle dichiarazioni del medico che l’aveva certificata;

1.2. osserva che quest’ultimo, escusso come teste, aveva paventato la possibilità di peggioramento della patologia dovuto all’utilizzo di solventi ed acqua, senza riferimento al caso specifico, dovendo pertanto ritenersi assente ogni prova che la dedotta attività lavorativa ulteriore prestata dal D.L. durante la malattia avesse determinato il prolungarsi dei tempi di recupero della sua integrità fisica; assume di essersi limitato a prestare un aiuto alla moglie nel bar di proprietà della stessa e che si sia realizzata anche la violazione, la falsa ed erronea applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 2, dell’art. 2106 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 2 deducendo, altresì, insufficiente e/o contraddittoria motivazione, laddove la contestazione non era stata sufficientemente specifica; aggiunge che la pronunzia impugnata si è posta anche in violazione del principio di corrispondenza tra fatto contestato e fatto posto a fondamento del recesso, posto che il primo era ontologicamente diverso dal secondo;

1.3. in particolare, sostiene che il licenziamento dapprima era stato intimato paventandosi la simulazione della malattia attestata dai certificati medici inviati dal lavoratore, per poi essere trasformato, nel corso del processo di primo grado, in un licenziamento motivato dall’impossibilità di guarigione dalla malattia diagnosticata, la dermatite, per avere il D.L. svolto ulteriore attività presso il bar della moglie; nella sostanza chiarisce di addebitare alla decisione la violazione del principio di immodificabilità della contestazione, per avere il giudice del merito ritenuto possibile che al contestato svolgimento di altra attività lavorativa nel periodo di malattia, di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità a giustificazione dell’assenza e l’inattendibilità del certificato medico, potesse far seguito un successivo licenziamento motivato esclusivamente dalla simulazione di detta certificazione;

2. con il secondo motivo, il ricorrente si duole della violazione o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 112 c.p.c., assumendo che il datore di lavoro aveva omesso di fornire adeguata prova circa la incompatibilità tra l’attività extralavorativa svolta e la patologia denunziata, ivi compresa la prova della durata dell’attività extralavorativa, la gravosità dell’impegno fisico ivi profuso, la puntualità della ripresa del lavoro, l’incompatibilità dell’attività extra lavorativa svolta durante la malattia con il recupero delle normali energie psicofisiche ed anche la prova degli effettivi addebiti contestati (inattendibilità della certificazione medica) la cui sussistenza era stata anche esclusa dal giudice di primo grado; la violazione dell’art. 112 c.p.c. è riconnessa alla circostanza che la Corte d’appello si era uniformata alla decisione di primo grado affrontando la problematica relativa alla idoneità o meno del lavoro svolto a ritardare la ripresa del servizio, laddove l’argomento non era stato oggetto nè di domanda, nè di eccezione;

3. il primo motivo presenta profili di inammissibilità connessi al suo confezionamento come motivo composito, simultaneamente volto a denunciare violazione di legge e vizio di motivazione, avuto riguardo al principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi di impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (cfr. Cass. 23 giugno 2017, n. 15651; Cass. 28 settembre 2016, n. 19133; Cass. 23 settembre 2011, n. 19443 e, da ultimo Cass. 23.10.2018 n. 26874, nei termini riportati). Ciò a prescindere dalla non corretta deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 secondo il paradigma deduttivo e devolutivo prescritto dal nuovo testo di tale norma secondo le indicazioni fornite da Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439, e, prima ancora, dalla preclusione deduttiva discendente dalla sussistenza di un “doppia conforme”;

3.1. quanto alle deduzioni di violazione in diritto, vero è che la contestazione, quale riportata nel suo contenuto, è riferita principalmente all’essersi il lavoratore sottratto ai suoi obblighi contrattuali ponendo in essere una condotta illecita integrata dall’assenza dal lavoro per malattia, pur svolgendo altra attività lavorativa, e dall’essersi in tal modo sottratto all’obbligo della prestazione lavorativa, dimostrando al contempo la palese inattendibilità ed inidoneità del certificato medico inviato a giustificare le assenze indicate; tuttavia, l’addebito disciplinarmente rilevante era ritenuto nella sostanza diretto, come dal giudice del merito interpretata la contestazione – interpretazione non suscettibile di sindacato nella presente sede di legittimità ove il corrispondente vizio non sia dedotto nei modi appropriati -, non tanto a contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza, quanto a sanzionare la sottrazione consapevole del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in genere;

3.2. ciò è, d’altronde, conforme a quanto reiteratamente affermato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, configura la violazione degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, nonchè dei doveri generali di correttezza e buona fede, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sè, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio “ex ante” in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio (cfr., tra le altre, Cass. 19.10.2018 n. 26496, Cass. 27.4.2017 n. 1041);

3.3. questa Corte ha ulteriormente precisato che “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia è idonea a giustificare il recesso del datore di lavoro per violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà”… “ferma restando la necessità che, nella contestazione dell’addebito, emerga con chiarezza il profilo fattuale, così da consentire una adeguata difesa da parte del lavoratore” (Cass. 5.8.2014 n. 17625): il principio enunciato, cui si ricollega anche la censura riferita alla violazione del principio di immutabilità della contestazione, è quello posto a presidio del diritto di difesa, sul rispetto del quale la Corte distrettuale ha ampiamente motivato;

3.4. il giudice del gravame ha, invero, interpretato la lettera di contestazione nel senso che la società “ha sempre posto l’accento sul fatto che il dipendente abbia espletato attività presso i terzi proprio nei giorni in cui era assente dal lavoro per malattia non tanto al fine di contestare la mancanza di giustificazione dell’assenza (sulla quale la parte datoriale ha solo gettato velati dubbi), quanto allo scopo di sanzionare la consapevole sottrazione del lavoratore all’obbligo della prestazione lavorativa, oltre che agli obblighi contrattuali in generale”, e nessuna censura all’interpretazione fornita dalla Corte distrettuale è prospettata nel motivo di ricorso, in modo idoneo a scalfire la valutazione posta a sostegno del decisum, che, al contrario, si rivela coerente con una corretta applicazione dei principi di diritto su richiamati;

3.5. il principio di necessaria corrispondenza tra addebito contestato e addebito posto a fondamento della sanzione disciplinare, che vieta di infliggere un licenziamento sulla base di fatti diversi da quelli contestati, consente di ritenere realizzata la relativa violazione solo qualora il datore di lavoro alleghi, nel corso del giudizio, circostanze nuove che, in violazione del diritto di difesa, implichino una diversa valutazione dei fatti addebitati, salvo si tratti di circostanze confermative, in relazione alle quali il lavoratore possa agevolmente controdedurre, ovvero che non modifichino il quadro generale della contestazione (cfr. Cass. 25.3.2019 n. 8293, v. anche Cass. 10.11.2017 n. 26678);

3.6. su altro versante, deve ugualmente ritenersi esente dalle censure prospettate la decisione della Corte territoriale laddove, muovendo da un corretto principio di diritto, ha ritenuto che il lavoratore assente per malattia, che quindi legittimamente non effettua la prestazione lavorativa, non per ciò solo deve astenersi da ogni altra attività, essendo l’unico limite rappresentato dalla necessaria compatibilità di tale attività con lo stato di malattia e dalla sua conformità all’obbligo di correttezza e buona fede, gravante sul lavoratore, di adottare ogni cautela idonea perchè cessi lo stato di malattia con conseguente recupero dell’idoneità al lavoro; in proposito questa Corte ha affermato che l’espletamento di altra attività, lavorativa ed extralavorativa, da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idoneo a violare i doveri contrattuali di correttezza e buona fede nell’adempimento dell’obbligazione e a giustificare il recesso del datore di lavoro (solo) laddove si riscontri che l’attività espletata costituisca indice di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione (cfr. Cass. 5 agosto 2014 n. 17625, Cass. 21 aprile 2009, n. 9474);

3.7. l’accertamento peritale richiamato nella sentenza impugnata ha consentito alla Corte territoriale di verificare, attraverso una valutazione rimessa al suo insindacabile giudizio, che i tempi di recupero dalla malattia diagnosticata al dipendente erano stati pregiudicati dal comportamento del D.L., il quale aveva lavato le stoviglie e preparato caffè e ciò, differentemente da quanto assume il ricorrente, con riferimento al caso concreto e non ad un parere espresso in astratto;

4. con riguardo al secondo motivo di ricorso, indipendentemente dall’adesione al principio, affermato dal ricorrente, secondo cui, in materia di licenziamento per giusta causa, grava sul datore di lavoro l’onere della prova che lo svolgimento da parte del lavoratore di un’attività extralavorativa durante lo stato di malattia ha inciso in termini negativi sulla propria salute ed in termini di ritardata guarigione, contrastando con gli obblighi di buona fede e correttezza nell’esecuzione del rapporto di lavoro (v. Cass. 1173/2018 cit., e Cass. 21.3.2011 n. 6375), è sufficiente riportarsi all’insegnamento di questa Corte secondo cui il principio generale di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c. deve essere contemperato con il principio di acquisizione probatoria, che trova fondamento nella costituzionalizzazione del principio del giusto processo, con la conseguenza che anche il principio dispositivo delle prove… va inteso in modo differente, traducendosi nel dovere del giudice di pronunciare nel merito della causa sulla base del materiale probatorio ritualmente acquisito – da qualunque parte processuale provenga – con una valutazione non atomistica ma globale nel quadro di una indagine unitaria ed organica, suscettibile di sindacato, in sede di legittimità, per vizi di motivazione e, ove ne ricorrano gli estremi, per scorretta applicazione delle norme riguardanti l’acquisizione della prova (cfr. Cass. 14.7.2017 n. 17598, Cass. 25.9.2013 n. 21909);

4.1. nella specie, la sentenza ha accertato, sulla base dell’istruttoria espletata, che il D.L. si era dedicato durante l’assenza dal lavoro ad un’attività lavorativa assolutamente sconsigliata, idonea ad aggravare la patologia, senza adottare alcuna misura precauzionale, avuto riguardo al certificato medico rilasciato dal Dott. D.P., che, escusso come teste, ha affermato che sia l’utilizzo di acqua durante il lavaggio di stoviglie, sia l’esposizione a fonti di calore per la preparazione di bevande calde erano inopportune in presenza della dermatite alle mani e che ciò rappresentava, secondo la Corte distrettuale, una condotta inidonea a garantire il recupero, da parte del lavoratore, della propria integrità fisica;

4.2. sulla dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., è sufficiente il richiamo a Cass. 21.11.2013 n. 26290, secondo cui non può ritenersi estraneo al giudizio vertente sul corretto adempimento dei doveri di buona fede e correttezza gravanti sul lavoratore un comportamento che, inerente ad attività extralavorativa, denoti l’inosservanza di doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltre ad essere dimostrativa dell’inidoneità dello stato di malattia ad impedire comunque l’espletamento di un’attività ludica o lavorativa;

4.3. la censura va pertanto disattesa, dovendo, più in generale, osservarsi che il principio della corrispondenza fra il chiesto e il pronunciato deve ritenersi violato ogni qual volta il giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, alteri uno degli elementi obiettivi di identificazione dell’azione (“petitum” e “causa petendi”), attribuendo o negando ad uno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nell’ambito della domanda o delle richieste delle parti: ne deriva che non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tutte le volte che questa debba ritenersi tacitamente proposta, in quanto in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate (cfr., tra le altre, da ultimo, Cass. 3.7.2019 n. 17897);

5. alla stregua delle esposte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto;

6. le spese del presente giudizio seguono la soccombenza del ricorrente e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo;

7. sussistono le condizioni di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.
la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 13, comma 1 bis, citato D.P.R., ove dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 2 settembre 2020


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 27-02-2020) 19-08-2020, n. 17373

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. FICHERA Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. NOVIK Adet Toni – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 03493/2013 R.G. proposto da Equitalia Sud s.p.a. (C.F. 11210661002), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Ivana Carso, elettivamente domiciliata presso lo studio dell’avv. Antonella Fiorini, in Roma via Costabella 26. – ricorrente –

contro

C.S. (C.F. (OMISSIS)), in persona del direttore pro tempore, rappresentato e difeso da se stesso, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’avv. Paolo Panariti, in Roma via Celimontana 38. – controricorrente –

e contro

Agenzia delle Entrate (C.F. 80224030587), in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocatura generale dello Stato, elettivamente domiciliata presso i suoi uffici in Roma via dei Portoghesi 12. – resistente –

Avverso la sentenza n. 50/08/2012 della Commissione Tributaria Regionale della Puglia, depositata il giorno 15 giugno 2012.

Sentita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 27 febbraio 2020 dal Consigliere Giuseppe Fichera.

Svolgimento del processo
C.S. impugnò l’avviso di intimazione e la presupposta cartella di pagamento, notificato da Equitalia E.TR. s.p.a., per IRPEF, IRAP ed IVA, anno d’imposta 2001.

L’impugnazione venne respinta in primo grado; proposto appello da C.S., la Commissione Tributaria Regionale della Puglia, con sentenza resa il giorno 15 giugno 2012, lo accolse.

Avverso la detta sentenza, Equitalia Sud s.p.a., già Equitalia E.TR. s.p.a., ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque mezzi, cui ha risposto con controricorso C.S., mentre l’Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione in giudizio.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso Equitalia Sud s.p.a. eccepisce la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 24 e 57, poichè la commissione tributaria regionale erroneamente non ha dichiarato l’inammissibilità del motivo di appello avanzato dal C., in ordine ai vizi dell’avviso di ricevimento della notifica della cartella impugnata.

2. Con il secondo motivo lamenta la nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso che il giudice di appello, invece di dichiarare l’inammissibilità dei motivi di gravame, ha pronunciato sulle doglianze dell’appellante proposte tardivamente.

2.1. I due motivi, bisognosi di esame congiunto, sono entrambi infondati.

E’ noto che nel processo tributario, caratterizzato dall’introduzione della domanda nella forma dell’impugnazione dell’atto fiscale, l’indagine sul rapporto sostanziale è limitata ai motivi di contestazione dei presupposti di fatto e di diritto della pretesa dell’Amministrazione, che il contribuente deve specificamente dedurre nel ricorso introduttivo di primo grado (Cass. 13/04/2017, n. 9637; Cass. 02/07/2014, n. 15051; Cass. 15/10/2013, n. 23326).

Ne consegue che il giudice deve attenersi all’esame dei vizi di invalidità dedotti in ricorso, il cui ambito può essere modificato solo con la presentazione di motivi aggiunti, ammissibile, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 24, esclusivamente in caso di “deposito di documenti non conosciuti ad opera delle altre parti o per ordine della commissione”.

Ed è altrettanto pacifico che, nel giudizio tributario, il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, previsto al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 57, comma 2, concerne tutte le eccezioni in senso stretto, consistenti nei vizi d’invalidità dell’atto tributario o nei fatti modificativi, estintivi o impeditivi della pretesa fiscale (Cass. 29/12/2017, n. 31224).

2.2. Nella peculiare vicenda all’esame della Corte, tuttavia, dalla lettura degli atti processuali risulta che il concessionario della riscossione depositò la propria memoria di costituzione in giudizio, con i relativi documenti, compresa la relata di notifica della cartella impugnata, addirittura successivamente all’udienza di discussione D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 34, quando la causa era stata già posta in decisione dal collegio in camera di consiglio.

Dunque, è all’evidenza come il contribuente non venne posto in condizione di formulare motivi aggiunti avverso gli atti impugnati, per l’assorbente considerazione che il concessionario della riscossione depositò gli atti rilevanti, ben oltre i termini fissati per la sua costituzione in giudizio e financo per la produzione – entro venti giorni prima dell’udienza di discussione – di nuovi documenti D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 32, comma 1.

Ne discende che il primo atto difensivo con il quale il contribuente venne posto in condizione di proporre motivi aggiunti avverso l’atto impositivo impugnato, concernenti i vizi della notifica della cartella impugnata, deve individuarsi esattamente nel ricorso in appello innanzi alla commissione tributaria regionale, restando esclusa la lamentata inammissibilità dei motivi articolati nel detto atto.

3. Con il terzo motivo deduce violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 19 e 21, atteso che il giudice di merito non ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso introduttivo, poichè formulato oltre il termine di decadenza fissato dalla legge per l’impugnazione degli atti impositivi.

3.1. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che una volta accertato il vizio – sia esso di inesistenza o di nullità – della notifica della cartella impugnata, è all’evidenza come non possa decorrere alcun termine decadenziale, avendo il contribuente il diritto di impugnare, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992 cit., art. 19, comma 3, l’atto non notificato unitamente al successivo atto effettivamente notificato.

4. Con il quarto motivo si duole del vizio di motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), in cui è incorso il giudice d’appello, avendo omesso di motivare in ordine alle ragioni che inducevano a ritenere viziato l’avviso di ricevimento relativo alla notifica della cartella impugnata.

5. Con il quinto mezzo lamenta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, avendo la commissione tributaria regionale ritenuto inesistente la notifica della cartella impugnata, sol perchè nell’avviso di ricevimento non era stato identificata la persona che si era ricevuto l’atto e il medesimo atto risultava altresì privo della sottoscrizione dell’agente postale.

5.1. I due motivi, connessi per il comune oggetto, sono entrambi infondati.

In tema di notificazione per mezzo del servizio postale, questa Corte ha già affermato che l’avviso di ricevimento, prescritto dall’art. 149 c.p.c., è il solo documento idoneo a provare sia la consegna, sia la data di questa, sia l’identità della persona a mani della quale la consegna è stata eseguita. Consegue che la mancanza di sottoscrizione dell’agente postale sull’avviso di ricevimento del piego raccomandato rende inesistente e non soltanto nulla la notificazione, rappresentando la sottoscrizione l’unico elemento valido a riferire la paternità dell’atto all’agente postale (Cass. 08/11/2013, n. 25138; Cass. 21/05/1992, n. 6146).

In direzione contraria non vale richiamare l’orientamento delle Sezioni Unite di questa Corte, a tenore del quale l’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento, restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa (Cass. S.U. 20/07/2016, n. 14916).

Nella vicenda in discussione, infatti, avendo il giudice di merito accertato che l’avviso di ricevimento non risultava sottoscritto dall’agente postale, non resta consentito attribuire la paternità dell’atto ad un “soggetto qualificato” e, quindi, a ricondurre il vizio della cartella nell’alveo della mera nullità.

In ogni caso, pure a ritenere che la notifica in esame fosse nulla e non invece inesistente, come sostenuto dal giudice di merito, va evidenziato che siffatta invalidità non potrebbe giammai ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo, ex art. 156 c.p.c., essendo incontroverso che la cartella non venne impugnata dal contribuente nei termini di rito e, quindi, non potendosi comunque affermare che il plico pervenne effettivamente nella sfera di conoscenza del destinatario.

6. Le spese del giudizio seguono la soccombenza tra la ricorrente e il controricorrente, mentre nulla va statuito per l’Agenzia delle Entrate, la quale non ha depositato controricorso. Sussistono i presupposti per l’applicazione nei confronti della ricorrente del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, considerato che la notifica del ricorso si è perfezionata solo in data 31 gennaio 2013 (Cass. 10 luglio 2015, n. 14515).

P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese sostenute dal controricorrente, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese generali al 15% ed agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 agosto 2020


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 05-03-2020) 13-08-2020, n. 17061

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 163/2014 R.G. proposto da:

Equitalia Sud s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Ottaviano n. 42, presso lo studio dell’avv. Bruno Lo Giudice, rappresentato e difeso dall’avv. Michele Di Fiore giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

D.R.A., elettivamente domiciliato in Salerno, via M. Conforti n. 1, presso lo studio dell’avv. Marco Esposito, che lo rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

e nei confronti di:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 269/07/13, depositata il 20 maggio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 5 marzo 2020 dal Consigliere Giacomo Maria Nonno.

Svolgimento del processo
Che:

1. con la sentenza n. 269/07/13 del 20/05/2013, la Commissione tributaria regionale della Campania (di seguito CTR) dichiarava inammissibile l’appello proposto da Equitalia Sud s.p.a. avverso la sentenza n. 10/18/12 della Commissione tributaria provinciale di Napoli (di seguito CTP), che aveva accolto il ricorso di D.R.A. nei confronti di una iscrizione ipotecaria effettuata nei suoi confronti quale socio di Linea In s.r.l.;

1.1. la CTR motivava la declaratoria di inammissibilità dell’appello dell’Agente della riscossione osservando che, tenuto conto della mancata costituzione in giudizio dell’ente creditore e della mancata allegazione agli atti di causa della ricevuta di ritorno della notifica dell’appello da parte di Equitalia Sud s.p.a. all’Agenzia delle entrate, sussisteva “la violazione del contraddittorio”;

2. Equitalia Sud s.p.a. impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo;

3. D.R.A. resisteva con controricorso mentre l’Agenzia delle entrate non si costituiva in giudizio e restava, pertanto, intimata.

Motivi della decisione
Che:

1. con l’unico motivo di ricorso Equitalia Sud s.p.a. deduce la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 49 e art. 53, comma 2, nonchè dell’art. 331 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, evidenziando che la CTR, preso atto della mancanza di prova della notificazione dell’atto di appello all’Agenzia delle entrate, litisconsorte necessario, avrebbe erroneamente dichiarato l’inammissibilità dell’appello invece di assegnare un termine per l’integrazione del contraddittorio;

2. il motivo, oltre che ammissibile essendo stato formulato nel contesto di un ricorso che contiene la sufficiente indicazione delle ragioni di fatto e di diritto sul quale lo stesso si fonda, è altresì fondato;

2.1. è pacifico che Equitalia Sud s.p.a. abbia proposto impugnazione sia nei confronti di D.R.A. che nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in qualità di ente impositore, e che entrambi abbiano partecipato al giudizio di primo grado davanti alla CTP;

2.2. la CTR ha ritenuto l’inammissibilità dell’appello in quanto, pur essendosi perfezionata la notifica dell’appello nei confronti del contribuente, Equitalia Sud s.p.a. non ha depositato la ricevuta di ritorno attestante l’intervenuta notifica del ricorso nei confronti dell’Agenzia delle entrate;

2.3. peraltro, l’assenza di prova della notifica nei confronti di un litisconsorte necessario qual è l’ente impositore, quanto meno sotto il profilo processuale, è idonea a determinare la nullità della notificazione e, quindi, la mancata impugnazione della sentenza della CTP nei suoi confronti, ma non già l’inammissibilità dell’appello tempestivamente introdotto con la regolare notificazione nei confronti dell’altro litisconsorte;

2.4. la mancata impugnazione nei confronti di un litisconsorte necessario, infatti, non implica l’inammissibilità del gravame: per giurisprudenza assolutamente pacifica, la tempestiva impugnazione nei confronti dell’altro o degli altri litisconsorti conserva l’effetto di impedire il passaggio in giudicato della sentenza impugnata e impone al giudice di disporre l’integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso (Cass. n. 8065 del 21/03/2019; Cass. n. 27927 del 31/10/2018; Cass. n. 19910 del 27/07/2018; Cass. n. 18364 del 31/07/2013; Cass. n. 11552 del 14/05/2013; Cass. n. 3071 del 08/02/2011);

3. la sentenza di appello va, dunque, cassata e la causa va rimessa alla CTR della Campania, in diversa composizione, affinchè disponga l’integrazione del contraddittorio nei confronti del litisconsorte pretermesso e provveda anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Campania, in diversa composizione, affinchè disponga l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Agenzia delle entrate e provveda sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 5 marzo 2020.

Depositato in Cancelleria il 13 agosto 2020