Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 09-06-2021) 20-07-2021, n. 20650

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176;

sul ricorso iscritto al n. 25933/2012 R.G. proposto da:

G.F., rappresentata e difesa dall’Avv. Cristiana Toscano e dall’Avv. Salvatore Coletta, con domicilio eletto in Roma, viale Mazzini, n. 114/B, presso lo studio di quest’ultimo;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, con sede in (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione staccata di Latina, n. 130/39/12 depositata il 2 aprile 2012;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 9 giugno 2021 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate notificò a G.F., titolare di un’impresa individuale di “abbigliamento fascia fine/lusso”, un avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2004, con il quale, sulla base dell’applicazione degli studi di settore di cui al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, accertò maggiori ricavi per Euro 69.409,00, con i conseguenti maggior reddito, ai fini dell’IRES, maggior valore della produzione netta, ai fini dell’IRAP, e maggior volume d’affari, ai fini dell’IVA, oltre agli interessi e alle correlative sanzioni.

2. L’avviso di accertamento fu impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Latina (hinc anche: “CTP”), che rigettò il ricorso della società contribuente.

3. Avverso tale pronuncia, G.F. propose appello alla Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione staccata di Latina (hinc anche: “CTR”), deducendo, tra l’altro, che “la notifica dell’invito (a comparire) avrebbe dovuto essere eseguita non presso la sua residenza (per altro errata, via (OMISSIS) snc, invece che via (OMISSIS)) ma in via (OMISSIS) sede dell’impresa” (così la sentenza impugnata).

Nelle controdeduzioni, l’Agenzia delle entrate, “quanto alla notifica dell’invito, ne affermava la regolarità avendo provveduto all’invio dello stesso con raccomandata del 3.4.09 (al domicilio fiscale della ricorrente in base al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58), che l’addetto alla consegna, vista la temporanea assenza della contribuente, aveva provveduto ad inserire nella cassetta della posta e ad inviare comunicazione di avvenuto deposito con raccomandata (allegata) del 10.4.09 consegnata dal portalettere nella stessa data” (così la sentenza impugnata).

4. La CTR rigettò l’appello della contribuente con la motivazione che “(I)l collegio condivide la tesi giurisprudenziale e anche dottrinaria che attribuisce agli studi di settore natura di elementi atti a fondare presunzioni semplici, con la conseguenza che il mero scostamento del reddito dichiarato da quello risultante dagli studi di settore non ne consente l’automatica applicazione; del resto, sulla questione all’esame anche le SS. UU. della Corte di Cassazione (Sentenza n. 26635 del 18. 12.2009) hanno ritenuto che la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore e dei parametri è basata su “presunzioni semplici”, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata “ex lege” in relazione ai soli risultati di tali strumenti. Tuttavia, evidenziato ciò, nella fattispecie non sono riscontrabili illegittimità di sorta; l’accertamento è infatti basato su elementi di notevole rilevanza, e pertanto non può che condividersi la sentenza impugnata e quindi la tesi esposta dai primi giudici sia in relazione alla eccepita carenza di motivazione ritenuta infondata che alla notifica dell’invito al contraddittorio in effetti eseguita correttamente al domicilio fiscale della ricorrente (via (OMISSIS) snc) come del resto indicato nella dichiarazione dei redditi, nonché, nel merito, alle varie incongruenze riscontrate e sopra specificate”.

4. Avverso tale sentenza della CTR – depositata il 2 aprile 2012 ricorre per cassazione G.F., che affida il proprio ricorso, notificato l’8/9-12 novembre 2012, a tre motivi.

5. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, notificato il 20/21 dicembre 2012.

6. Con ordinanza adottata nell’adunanza camerale del 28 marzo 2019, vista la richiesta di sospensione del giudizio avanzata, ai sensi del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6, comma 10, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136, da G.F., questa Corte sospese il giudizio fino al 10 giugno 2019, rinviando la causa a nuovo ruolo.

G.F. non risulta essersi poi avvalsa della definizione agevolata della controversia ai sensi del citato del D.L. n. 119 del 2018, art. 6.

7. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni motivate, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione della L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 3-bis, e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, comma 3, e art. 60, comma 1, “in relazione” alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, per avere la CTR ritenuto la validità della notificazione dell’invito a comparire, previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, nonostante fosse stata effettuata: a) nel domicilio fiscale della persona fisica G.F. anziché nel domicilio fiscale dell’impresa di cui essa era titolare; b) all’indirizzo del domicilio fiscale della persona fisica G.F. “in suo possesso (Via (OMISSIS))” anziché “all’indirizzo corretto (contrada (OMISSIS))”.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione dell’art. 149 cit. codice, e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, “in relazione” alla L. n. 212 del 2000, art. 6, per avere la CTR ritenuto la validità della notificazione dell’invito a comparire, previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, nonostante: a) “sulla busta presumibilmente contenente l’invito si legge solo un indirizzo incompleto (Via (OMISSIS)) ed un timbro “Atto non ritirato entro 6 mesi, che dovrebbe configurare una attestazione di compiuta giacenza, senza però menzione del compimento di tutte le prescrizioni di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, per la validità della compiuta giacenza”; b) “anche l’avviso di spedizione (CAD), compilato in modo assai criptico e senza l’osservanza delle formalità di legge porta lo stesso incompleto indirizzo e la menzione (casella barrata con crocetta) di una “immissione in cassetta dello stabile”, laddove in sito sussistono una pluralità di stabili non identificati da civici. Peraltro, non è dato di comprendere se sia stata svolta una effettiva ricerca del destinatario di altro soggetto abilitato a ricevere la notifica”.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “omessa e insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia”, segnatamente, sul “se il contraddittorio non si sia svolto a causa dei vizi di notifica dell’invito o per fatto e colpa del contribuente”, in quanto “i Giudici di appello hanno optato per la seconda ipotesi (…) senza procedere alla disamina approfondita dei lamentati vizi di notifica, senza esaminare attentamente i documenti postali prodotti e senza controllare il rispetto delle norme di legge che presiedono alla attività notificatoria in caso di notifiche a mezzo posta”.

4. Il primo motivo non è fondato sotto entrambi i profili in cui si articola.

4.1. Quanto al primo di essi (riassunto sopra sub a), questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che all’impresa individuale non può essere riconosciuta alcuna soggettività, o autonoma imputabilità, diversa da quella del suo imprenditore, in quanto essa si identifica con il suo titolare sia sotto l’aspetto sostanziale sia sotto l’aspetto processuale (Cass., 30/05/2007, n. 12757; nello stesso senso, Cass., 15/01/1981, n. 344).

Quindi, nel caso di impresa individuale, l’obbligazione tributaria fa capo alla persona fisica dell’imprenditore, che è il destinatario della pretesa fiscale (Cass., 17/04/2013, n. 9256, la quale ha anche precisato che l’obbligazione tributaria non fa capo neppure alla ditta, che è solo un elemento distintivo dell’impresa).

Da tanto discende immediatamente che – posto che, salvo il caso di consegna in mani proprie, la notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente “deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c) – nel caso di impresa individuale, poiché il destinatario della pretesa tributaria e, quindi, degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente (tra i quali l’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis), è la persona fisica dell’imprenditore, la notificazione di tutti i predetti atti deve essere fatta nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditore.

Nessun error in iudicando ha pertanto commesso la CTR nell’escludere l’invalidità della notificazione dell’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, in quanto effettuata nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditrice individuale G.F..

4.2. Quanto al secondo profilo del motivo (riassunto sopra sub b), dalla sentenza impugnata risulta che l’invito a comparire fu notificato nel domicilio fiscale della contribuente “via (OMISSIS) s.n.c. (…) come (…) indicato nella dichiarazione dei redditi”.

Tanto rilevato, nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio che, in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio, non corrisponde l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto, sicché, in caso di originaria difformità, non importa se per errore o per malizia, tra residenza anagrafica e domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, la notificazione dell’avviso di accertamento perfezionata presso quest’ultimo indirizzo (anche mediante compiuta giacenza) si deve ritenere valida (Cass., 20/05/2021, n. 13843; in senso analogo, Cass., 14/12/2016, n. 25680).

Pertanto, nessun error in iudicando ha commesso la CTR nell’escludere l’invalidità della notificazione dell’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, in quanto effettuata dall’amministrazione finanziaria presso l’indirizzo indicato dalla contribuente nella dichiarazione dei redditi.

5. Il secondo motivo è inammissibile nel primo profilo e non fondato nel secondo profilo in cui è articolato.

5.1. Il primo profilo (riassunto sopra sub a) è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Questa Corte ha affermato il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, ove sia contestata la rituale notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, “per il rispetto del principio di autosufficienza, è necessaria la trascrizione integrale delle retate e degli atti relativi al procedimento notificatorio, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza in base alla sola lettura del ricorso, senza necessità di accedere a fonti esterne allo stesso” (Cass., 30/11/2018, n. 31038; in senso analogo, tra le tante, Cass., 28/02/2017, n. 5185, 05/11/2019, n. 28483, 13/11/2019, n. 29404).

Nel caso di specie, premesso che, nella notificazione a mezzo posta, l’attestazione della sussistenza delle condizioni di legge per la notificazione “per compiuta giacenza” – in particolare: temporanea assenza del destinatario e mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere il piego – è fatta dall’ufficiale postale non sulla busta contenente l’atto da notificare ma sull’avviso di ricevimento del piego raccomandato (L. n. 890 del 1982, art. 8, nel testo applicabile ratione temporis), la ricorrente non ha adempiuto l’onere nè di trascrivere tale avviso di ricevimento nè di allegarlo al ricorso (ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

5.2. Quanto al secondo profilo del motivo (riassunto sopra sub b), l’infondatezza di esso discende dal fatto che, sull’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cosiddetta CAD) – depositato dalla ricorrente insieme con il ricorso vi è l’attestazione dell’ufficiale postale sia della temporanea assenza del destinatario, sia della mancanza di altre persone abilitate a ricevere il piego sia, infine, dell’immissione della comunicazione nella cassetta della corrispondenza dello stabile di “via (OMISSIS)”.

Tenuto conto che, da un lato, come specificato nella sentenza impugnata, la contribuente, nella dichiarazione dei redditi, aveva indicato quale proprio indirizzo di domicilio fiscale “via (OMISSIS) s.n.c.” – e, quindi, un indirizzo privo di numero civico – e, dall’altro lato, che l’ufficiale postale, avendo attestato la temporanea assenza della destinataria, aveva necessariamente individuato la sua abitazione (ancorché priva del numero civico), ne discende che il procedimento di notificazione dell’invito a comparire si deve ritenere regolarmente perfezionato con la prova del ricevimento della CAD. 6. Il terzo motivo è inammissibile.

Premesso che al presente ricorso si applica l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo di tale articolo sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, questa Corte ha chiarito che il “fatto”, controverso e decisivo per il giudizio, ivi menzionato deve essere inteso come “un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico” e non è assimilabile, in alcun modo, a una “questione” o una “argomentazione” (Cass., 08/10/2014, n. 21152, 03/10/2018, n. 24035).

Nel caso di specie, la ricorrente ha dedotto l’asserita omissione o insufficienza della motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla valutazione, compiuta dalla CTR, circa la validità o no della notificazione dell’invito a comparire, cioè circa un elemento che, palesemente, non concreta un “fatto” nel senso storico-naturalistico precisato dal ricordato principio di diritto, bensì una questione giuridica (già proposta, sotto il profilo della violazione di legge, con i due precedenti motivi).

7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

8. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e sono liquidate come indicato in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 30-04-2021) 20-07-2021, n. 20736

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3815/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

M.G., rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Russo ed elettivamente domiciliato in Roma, via Aureliana n. 25, presso l’avv. Arianna Scione e l’avv. Antonia Scione;

– controricorrente –

Per la cassazione della sentenza della C.T.R. per la Campania, n. 6132/28/14, depositata in data il 17/6/2014 e non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30 aprile 2021 dal relatore Dott.ssa Valeria Pirari.

Svolgimento del processo
che:

1. In seguito ad accertamento nei confronti di M.G. relativo all’anno di imposta 2005, divenuto definitivo per mancata impugnazione, fu emessa nei confronti del predetto una cartella di pagamento, notificatagli il 8/6/2011, con la quale gli fu chiesto il pagamento della somma iscritta a ruolo.

Impugnato il predetto atto dal contribuente, che deduceva di non avere mai ricevuto la notifica dell’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2005 in essa indicato ed eccepiva la prescrizione dell’azione di accertamento per essere stata detta notifica effettuata il 8/6/2011, oltre il termine di decadenza del 31/12/2010, la C.T.P. di Caserta, avendo reputato la regolarità della notifica dell’atto presupposto, rigettò il ricorso con sentenza n. 286/09/2012, depositata il 3/5/2012, che fu riformata dalla C.T.R. per la Campania, adita dallo stesso contribuente, con sentenza n. 6132/28/14, depositata il 17/6/2014.

2. Contro quest’ultima decisione, l’Agenzia delle Entrate propone dunque ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi. Il contribuente si è difeso con controricorso, illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione delle norme sulla notificazione a mezzo posta e degli artt. 2700 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto non completa la procedura di notificazione dell’avviso di accertamento per mancato deposito dell’originale della ricevuta di ritorno, senza considerare che il duplicato tiene luogo dell’originale e che l’avviso di ricevimento, parte integrante del procedimento notificatorio, è munito di fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c., in quanto avente natura di atto pubblico, sicchè la contestazione dell’attendibilità del duplicato deve avvenire mediante querela di falso.

2. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 6, introdotto dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, commi 2-quater e 2-quinques, convertito dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 139 c.p.c., comma 4, e art. 149 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere la C.T.R. fondato la nullità dell’avviso di accertamento sulla carente allegazione della ricevuta di ricezione dell’avviso spedito dall’ufficiale giudiziario, senza considerare che la comunicazione di avvenuta notifica (C.A.N.), richiesta all’agente postale che consegni il piego a persona diversa dal destinatario, è una raccomandata senza ricevuta di ritorno e che la notificazione si perfeziona con la consegna dell’atto e non con la consegna della C.A.N., essendo richiesta come formalità l’indicazione nell’avviso di ricevimento dell’atto consegnato il numero della raccomandata della comunicazione di avvenuta notifica e la data dell’invio.

3.1 I due motivi, da trattare congiuntamente in ragione della stretta connessione, sono fondati.

La C.T.R. ha infatti fondato l’accoglimento dell’appello del contribuente sulla reputata irregolarità del procedimento notificatorio dell’avviso di accertamento, costituente atto presupposto della cartella impugnata, rilevando la mancata produzione dell’originale dell’avviso di ricevimento, il carente contenuto del suo duplicato, siccome privo della sottoscrizione del ricevente e della specificazione del suo nominativo, e l’omessa allegazione dell’avvenuta ricezione dell’avviso spedito dall’Ufficiale giudiziario.

Tali argomentazioni non si confrontano però con i principi espressi da questa Corte in ordine alla prova del perfezionamento della notifica eseguita a mezzo posta, come di seguito riportati.

Va innanzitutto detto che, in tema di notifiche a mezzo posta, nell’ipotesi di smarrimento o distruzione dell’avviso di ricevimento, l’unico atto idoneo a provare l’avvenuta notificazione è, ai sensi del D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, art. 8, (non abrogato nè modificato, neanche implicitamente, a seguito dell’emenda della L. n. 890 del 1982, art. 6, introdotta dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. e, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461), il duplicato rilasciato dall’Ufficio postale, che, peraltro, non deve essere sottoscritto dalla persona alla quale il piego era stato consegnato, assumendo rilevanza il registro di consegna attestante l’avvenuta ricezione dell’avviso originario, del quale il duplicato deve essere una riproduzione fedele in quanto contenente tutte le indicazioni proprie dello stesso, compresa quella afferente al soggetto che ha ricevuto l’atto (Cass., Sez. 5, 06/06/2018, n. 14574; Cass., Sez. 3, 30/1/2019, n. 2551; Cass., Sez. 5, 15/10/2020, n. 22348), nè il nominativo del soggetto che ha ricevuto l’atto notificando, purchè il giudice, attraverso le indicazioni in esso contenute, sia posto nelle condizioni di verificare in quali esatti termini e, nel caso, a mani di quale soggetto, il recapito dell’atto si sia perfezionato (in tal senso, Cass., 30/1/2019, n. 2551), atteso che la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto, si presume iuris tantum dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica e che incombe sul destinatario, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria e, in particolare, l’inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità suindicate (Cass., Sez. 5, 30/10/2018, n. 27587).

Peraltro, tale duplicato, alla medesima stregua dell’originale ha natura di atto pubblico e, pertanto, fa piena prova ex art. 2700 c.c., in ordine alle dichiarazioni delle parti ed agli altri fatti che l’agente postale, mediante la sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento, attesta essere avvenuti in sua presenza, sicchè il destinatario che intenda contestare l’avvenuta notificazione è tenuto a proporre querela di falso nei confronti di detto atto (Cass., Sez. 5, 06/06/2018, n. 14574; Cass., Sez. 5, 15/10/2020, n. 22348).

Pertanto, alla luce di tali principi deve ritenersi erroneo il ragionamento seguito dai giudici di merito, i quali non hanno considerato nè la valenza probatoria del duplicato prodotto, nè l’irrilevanza della mancata sottoscrizione dello stesso, nè la idoneità dello sbarramento della casella dicente “incaricato” al fine di porre il giudice nelle condizioni di verificare a mani di quale soggetto la consegna del plico fosse avvenuta.

3.2 Quanto alla raccomandata c.d. “informativa”, va innanzitutto premesso come il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, sulle imposte sui redditi, a sua volta menzionato dalla normativa in materia di imposte indirette e di riscossione (così come del resto nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, in tema di processo tributario, salva la disposizione di cui all’art. 17), nel rinviare alle norme processualcivilistiche attraverso il richiamo all’art. 137 c.p.c. e ss., ad eccezione degli artt. 142, 143, 146, 150 e 151, non applicabili in ragione della specificità della materia, e salve le regole e gli adattamenti in esso previsti, consenta di ritenere operante anche per gli atti sostanziali l’art. 149 c.p.c., in tema di notificazioni mezzo del servizio postale, integrato dalle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, il cui art. 14, regola la notifica degli atti tributari sostanziali e della riscossione.

Tale rinvio fa salve, come si è detto, alcune deroghe, tra le quali spiccano sia quella sancita dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, comma 1, come modificato dalla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, secondo cui la notifica deve essere eseguita, in via preferenziale, direttamente dagli Uffici a mezzo del servizio postale e soltanto in via residuale, quando la prima risulti impossibile attraverso i canoni ordinari della notificazione, attraverso l’intermediazione dell’agente notificatore, come da regola generale, sia quella che, accanto alla tradizionale figura dell’ufficiale giudiziario, annovera, tra i soggetti che fungono da intermediari nell’attività informativa degli atti recettizi dell’Amministrazione finanziaria, i messi comunali e i messi speciali autorizzati dall’ufficio finanziario di appartenenza, i quali soli, alla stregua della lettura combinata delle norme processualcivilistiche e di quelle speciali, possono avvalersi del procedimento notificatorio tributario, essendo invece l’ufficiale giudiziario tenuto al rispetto dei principi del codice di procedura civile.

Ciò detto, va evidenziato come, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., l’Ufficiale giudiziario che non abbia potuto eseguire la consegna per irreperibilità o incapacità o rifiuto delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c., a ricevere l’atto, sia tenuto a depositarne copia nella casa del Comune in cui la notificazione deve essere eseguita, affiggendo avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e a dargliene notizia con raccomandata con avviso di ricevimento.

Quest’ultimo incombente è stato introdotto anche con riguardo alla notifica a mezzo posta dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 4, lett. c), n. 1), convertito, con modificazioni, dalla L. 14 marzo 2005, n. 80, che ha sostituito integralmente L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, i commi 2, 3 e 4, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione, pronunciata dalla Corte Cost. con la sentenza n. 346 del 1998, che aveva reputato contrastare con i principi di uguaglianza e di diritto di difesa la precedente previsione, nella parte in cui, in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario oppure per inidoneità o assenza o rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, come indicate alla medesima L., art. 7, commi 2 e 3, imponeva all’agente postale di depositare l’atto presso l’ufficio e di rilasciarne avviso mediante affissione alla porta d’ingresso o immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, senza prevedere che gli si desse anche comunicazione del tentativo di notifica mediante raccomandata con avviso di ricevimento, oltre a stabilire che, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, il piego fosse restituito al mittente dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

Questa disposizione era stata infatti considerata dalla Corte costituzionale gravemente pregiudizievole per il notificatario in quanto contrastante con i diritti di uguaglianza e di diritto di difesa, posto che egli, a causa della sua assenza dall’abitazione, azienda o ufficio, protrattasi per oltre dieci giorni o di mancanza delle persone indicate dall’art. 7, non si sarebbe più trovato nelle condizioni di ritirare il piego o comunque avrebbe versato in una situazione di notevole difficoltà nell’individuare l’atto notificatogli, diversamente da quanto previsto in caso di notificazione eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c..

Da ciò deriva, dunque, l’introduzione, nelle notifiche postali, dell’obbligo di avviso, al destinatario, del deposito dell’atto e delle formalità seguite, con l’indicazione secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2, ovvero dalla data di ritiro del piego se anteriore. Successivamente, con sentenza n. 3 del 2010, è stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale anche dell’art. 140 c.p.c., laddove, per come interpretato dal diritto vivente, prescriveva che la notifica si intendeva perfezionata con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione, essendo stato ritenuto che tale disposizione, facendo decorrere i termini per la tutela in giudizio del destinatario da un momento anteriore alla concreta conoscibilità dell’atto notificato, attuava un “non ragionevole bilanciamento tra gli interessi del notificante, su cui ormai non gravano più i rischi connessi ai tempi del procedimento notifica torio, e quelli del destinatario, in una materia nella quale le garanzie di difesa e di tutela del contraddittorio devono essere improntate a canoni di effettività e di parità, dando luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla fattispecie, normativamente assimilabile, della notificazione di atti giudiziari a mezzo posta, disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8”.

Tale intervento della Corte costituzionale ha sostanzialmente determinato un nuovo scostamento tra le due discipline, quella di cui all’art. 140 c.p.c., e quella di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, come affermato anche da questa Corte, atteso che, “mentre le notificazioni a mezzo del servizio postale si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego contenente l’atto da notificare, ove anteriore”, viceversa, l’art. 140 c.p.c., all’esito della sentenza n. 3 del 2010 della Corte cost., “fa esplicitamente coincidere tale momento con il ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare, non l’effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell’atto presso la casa comunale e a porre il destinatario in condizione di ottenere la consegna e di predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini eventualmente pendenti per la reazione giudiziale”, senza che tale difformità si esponga a dubbi di legittimità costituzionale, posto che “non è predicabile un dovere costituzionale del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili sul piano degli effetti e degli interessi della disciplina, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali (inclusa la disciplina delle notificazioni) a condizione che non siano lesi i diritti di difesa” (in questi termini Cass., Sez. 2, 4/3/2020, n. 6089).

Diversa fattispecie è quella prevista, invece, dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, abrogato dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. f), come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461, a decorrere dal 1 gennaio 2018 e, pertanto, applicabile alla fattispecie ratione temporis, secondo cui “se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata”, che si riferisce all’ipotesi in cui la consegna avvenga a mani del familiare convivente, di persona addetta alla casa o al servizio del destinatario o di portiere dello stabile e che, in assenza di una prescrizione normativa di utilizzo della raccomandata con avviso di ricevimento, può essere legittimamente effettuata con raccomandata semplice (Cass., Sez. 3, 22/5/2015, n. 10554).

A questo proposito, questa Corte ha affermato che “anche alla comunicazione di avvenuta notifica di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7 – e ad onta del minor livello di garantismo che caratterizza la disciplina della sua trasmissione postale (raccomandata semplice), rispetto a quello che caratterizza la disciplina della trasmissione postale della comunicazione di avvenuto deposito di cui all’art. 140 c.p.c. (raccomandata a.r.), debba applicarsi il principio.., secondo cui l’attestazione di avvenuto invio di una raccomandata, con l’indicazione del solo numero (ossia senza che si precisi a chi, ed in quale indirizzo, essa sia stata spedita), copre con fede privilegiata soltanto la dichiarazione di avvenuto invio di una raccomandata con quel numero; con la conseguenza che, in tal caso, la prova del fatto che la stessa sia stata spedita al destinatario della notifica, presso il suo indirizzo, va fornita, da chi è interessato a dimostrare la ritualità della notifica, producendo la relativa ricevuta di spedizione o deducendo altro idoneo mezzo di prova” (Cass., Sez. 2, 12/7/2018, n. 18472).

Con specifico riguardo alla notifica di atto impositivo (o processuale) tramite servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, questa Corte, a sezioni unite, ha da ultimo affermato la necessità di distinguere tra l’ipotesi regolata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, e art. 140 c.p.c., connotata dal fatto che l’atto notificando non sia stato consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, e sia soltanto depositato presso l’ufficio postale (ovvero, nella notifica codicistica, presso la casa comunale), e quella eseguita ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 4, e dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., in cui la consegna dell’atto notificando sia avvenuta a persona diversa, stabilendo che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio debba essere fornita dal notificante attraverso la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD), soltanto nel primo caso, stante l’insufficienza dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima (Cass., Sez. U, 15/4/2021, n. 10012), e non anche nel secondo.

La scelta di maggior rigore dettata dal legislatore in proposito, allorchè impone l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) e la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento (C.A.D.), trova giustificazione, ad avviso della Corte, nella comparazione di tale procedura notificatoria con quella prevista, tra le modalità di notifica curate dall’Ufficiale giudiziario, dall’art. 140 c.p.c., e basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), mentre la procedura semplificata stabilita per i casi di consegna a soggetto diverso dal destinatario dell’atto, consistente nell’invio al destinatario di una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto notificando (C.A.N.), è dovuta alla ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) aventi con esso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a questo fine (Cass., Sez. U, 15/4/2021, n. 10012, in motivazione).

Sul punto, è stata peraltro ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 7, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non richiede, per il perfezionamento della notifica a mezzo posta effettuata mediante consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario, la “ricezione” della raccomandata cd. informativa, come invece previsto nel caso di notifica a persone irreperibili ex art. 140 c.p.c., ed L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, atteso che la mancata estensione alla notifica, eseguita ai sensi del citato art. 7, degli interventi additivi richiesti dalla Corte costituzionale (sentenza del 14/1/2010 n. 3), al fine di equiparare i procedimenti notificatori di cui all’art. 140 c.p.c., ed L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, trova ragione nella evidente diversità fenomenica contemplata dalle norme in comparazione – nell’un caso essendo stata eseguita la consegna dell’atto a persona abilitata e riceverlo, nell’altro difettando del tutto la materiale consegna dell’atto notificando – cui consegue la diversità degli adempimenti necessari al perfezionamento delle rispettive fattispecie notificatorie, nella prima ipotesi costituiti dalla sola “spedizione” della raccomandata, nell’altra occorrendo un quid pluris inteso a compensare il maggior deficit di conoscibilità, costituito dalla effettiva ricezione della raccomandata, ovvero, in assenza di ricezione, dal decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento (Cass., Sez. 3, 7/6/2018, n. 14722).

Ciò comporta che, essendo stata, nella specie, la consegna del plico eseguita a mani di un incaricato, come risulta dallo sbarramento di tale voce, nessun obbligo aveva il notificante di inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno a titolo informativo, essendo a tal fine sufficiente l’invio di una raccomandata “semplice”, come nei fatti accaduto.

Deriva da quanto detto la fondatezza di entrambi i motivi.

4. In conclusione, accolti i motivi proposti e cassata la sentenza impugnata, la causa deve essere rinviata alla C.T.R. per la Campania anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie le censure proposte, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.T.R. per la Campania anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 14-05-2021) 14-07-2021, n. 20017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sui ricorso iscritto al n. 14042/15 R.G. proposto da:

P.S., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’avv. Giuseppe Martino, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Domenico Martino, in Roma, alla via Vittorio Veneto, n. 7;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

e nei confronti di:

EQUITALIA CENTRO S.P.A., in persona del legale rappresentante;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria dell’Abruzzo n. 1342/07/14 depositata in data 4 dicembre 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 maggio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. P.S. propose appello avverso la sentenza n. 209/4/14, pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti che aveva rigettato il ricorso proposto dalla stessa contribuente avverso la comunicazione di Equitalia Centro s.p.a. n. (OMISSIS) del (OMISSIS) di avvio dell’attività di riscossione delle somme relative all’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate ai fini del recupero di maggiore IRPEF in relazione all’anno d’imposta 2007.

A sostegno dell’impugnazione la contribuente eccepì il vizio di motivazione della sentenza di primo grado con riguardo alla statuizione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e la erroneità della pronuncia nella parte in cui aveva ritenuto rituale la notifica dell’avviso di accertamento.

2. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo respinse il gravame.

Precisato, preliminarmente, che l’impugnazione aveva ad oggetto sia la comunicazione di Equitalia Centro s.p.a. sia l’avviso di accertamento, ritenne infondato il motivo di appello con cui la contribuente aveva dedotto l’irritualità della notifica dell’avviso di accertamento, effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 dell’anno 2011 alla contrada (OMISSIS) di (OMISSIS), per presunta violazione delle formalità prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. d).

In particolare, i giudici di appello osservarono che tale ultima disposizione, a seguito della modifica operata dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. a), n. 2, convertito dalla L. n. 122 del 2010, disponendo che doveva farsi con “apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate” l’elezione di domicilio “presso una persona o un ufficio nel Comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano”, costituiva ipotesi del tutto diversa dal caso in esame che concerneva l’elezione di domicilio fatta dalla contribuente in un Comune ((OMISSIS)) diverso da quello di residenza ((OMISSIS)). Al caso in esame, secondo i giudici di merito, doveva applicarsi al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, sicchè per gli uffici finanziari la dichiarazione contenuta nel Mod. 730 era vincolante ai fini dell’individuazione del domicilio fiscale del contribuente cui fare riferimento per la notifica degli atti impositivi, in conformità al principio enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 1484 del 1998.

Disatteso, infine, il terzo motivo di appello, con il quale era stata denunciata la violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, confermarono la sentenza di primo grado laddove aveva ritenuto che la notifica dell’avviso di accertamento fosse stata validamente effettuata presso il domicilio fiscale indicato dalla contribuente nella dichiarazione Mod. 730 dell’anno 2011, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione per tardività della stessa che si ripercuoteva anche sulla impugnazione della comunicazione di Equitalia Centro s.p.a..

3. Contro la suddetta decisione d’appello P.S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

La contribuente in prossimità dell’adunanza camerale ha depositato memoria ex art. 380-bis 1. c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo – rubricato: Violazione e/o erronea applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 60 e 58, dell’art. 24 Cost., nonchè dell’art. 47 c.c., anche in relazione alla L. n. 212 del 2000, art. 6, nonchè di ogni altra norma e principio in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli atti impositivi tributari la ricorrente sostiene che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, accorda al contribuente la facoltà di eleggere un domicilio speciale limitatamente ad “atti, contratti, denunzie e dichiarazioni”, come reso palese dallo specifico riferimento alle “parti”, ossia a coloro che nella stipula di atti e contratti intendono, per quel determinato affare, analogamente alla previsione di cui all’art. 47 c.c., comma 1, che le comunicazioni e le notifiche vengano loro effettuate in quel luogo; tale facoltà, secondo la ricorrente, è prevista in deroga al domicilio generale, fiscale, coincidente con la residenza anagrafica, citato art. 58, ex comma 2.

Aggiunge che tale conclusione è suffragata dallo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, che non richiama l’art. 58, e che detta una disciplina, del tutto autonoma, applicabile alle notificazioni degli avvisi di accertamento e degli atti tributari impositivi, riconoscendo, alla lett. d), al contribuente la facoltà di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel Comune del proprio domicilio fiscale e stabilendo, nel secondo periodo della medesima lett. d), la modalità di esercizio dell’anzidetta facoltà.

Secondo la prospettazione difensiva di parte ricorrente, ulteriori elementi esegetici che corroborano tale interpretazione si rinvengono nell’intervento legislativo operato con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. a), convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, con il quale, stralciando ogni riferimento alla dichiarazione annuale dei redditi, si è inteso sancire la prevalenza del criterio dell’effettiva residenza e privare di effetti – ai fini della notificazione degli avvisi di accertamento e degli atti tributari impositivi – il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi; il termine “dichiarazioni” contenuto nel citato art. 58, comma 4, non può essere inteso nel senso di “dichiarazioni dei redditi”, ma piuttosto nel senso di dichiarazioni che rendono le parti in seno a determinati atti pubblici o privati – ovvero con specifici atti separati.

La norma cui occorre fare riferimento ai fini della notificazione degli avvisi di accertamento, aggiunge la ricorrente, è costituita dal citato art. 60, che deve essere coordinato con la L. n. 212 del 2000, art. 6, secondo cui occorre sempre assicurare l’effettività della conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui notificati.

Contesta, quindi, alla C.T.R. di avere erroneamente ritenuto applicabile il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, senza tenere conto delle allegazioni fattuali svolte dalle quali emergeva che alla data di notifica dell’avviso di accertamento, avvenuta in data (OMISSIS) a mezzo posta per compiuta giacenza con immissione dell’avviso in cassetta in data (OMISSIS), risultava iscritta all’anagrafe del Comune di (OMISSIS) ed era effettivamente residente in tale città, il che aveva comportato che l’atto impositivo non era entrato nella sua sfera di conoscibilità.

2. Con il secondo motivo si deduce violazione e/o erronea applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 6, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Richiamata la sentenza n. 216 del 6 luglio 2004 della Corte Costituzionale, che ha affermato che la L. n. 212 del 2000, art. 6, rappresenta una chiave di lettura della legislazione tributaria, la contribuente afferma che uno dei principi espressi da tale disposizione normativa è quello dell’effettività della conoscenza legale, da parte del contribuente, degli atti tributari destinati ad essere notificati, principio che porta a ritenere che la notifica eseguita a mezzo posta perfezionatasi con la compiuta giacenza nel domicilio indicato nella dichiarazione reddituale non possa considerarsi entrata nella sfera di conoscibilità del contribuente.

3. Con il terzo motivo, censurando la decisione impugnata per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), lamenta che i giudici di appello hanno del tutto trascurato che la presunta notificazione dell’avviso di accertamento è avvenuta con modalità tali che il medesimo atto, oltre a non essere pervenuto a conoscenza della contribuente, neppure è entrato nella sua sfera di conoscibilità, trattandosi di notificazione effettuata a mezzo posta per compiuta giacenza ed in luogo diverso da quello di residenza o di domicilio. Assume che se i giudici di appello avessero tenuto conto di tali fatti rilevanti e decisivi, l’esito del giudizio sarebbe stato diverso.

4. I primi tre motivi, strettamente connessi perchè vertenti sulla medesima questione, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

4.1. Occorre premettere che la notificazione, le cui modalità sono stabilite normativamente, ha la funzione di portare a conoscenza del destinatario il contenuto di un determinato atto, effetto questo che riveste particolare rilievo in ambito tributario laddove la notificazione concerne un atto che contiene una pretesa impositiva.

La procedura di notifica, che è regolata da diverse disposizioni normative con riguardo a tutte le categorie di atti tributari, va necessariamente coordinata con il principio generale dettato dalla L. n. 212 del 2000, art. 6 (cd. Statuto del contribuente), a tenore del quale l’amministrazione finanziaria deve, in linea generale, assicurare l’effettiva conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui destinati, e ciò nel rispetto dei canoni di collaborazione, cooperazione e buona fede a cui devono essere improntati i rapporti tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente.

Questa Corte, al riguardo, ha già affermato che, prima che il contribuente abbia conoscenza degli atti che incidono sulla sua posizione debitoria o creditoria nei confronti del Fisco, gli atti stessi non possono produrre effetti (Cass., sez. 5, 30/03/2001, n. 4760; Cass., sez. U, 5/10/2004, n. 19854, con riguardo alla sanatoria dei possibili vizi della notificazione e dei suoi effetti). Si è, in particolare spiegato (Cass., sez. 5, 16/03/2011, n. 6113), che “è vero che, con la locuzione “effettiva conoscenza”, il legislatore non ha inteso garantire al contribuente l’assoluta certezza della conoscenza, avendo la disciplina della notificazione da sempre legato ad essa la conoscibilità legale, così come palesato, nello specifico, dalla previsione di chiusura del citato art. 6, comma 1, secondo cui “restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”. E tuttavia resta inteso – come osservato in dottrina – che non coglierebbe il significato della previsione concludere che essa, facendo salve le disposizioni sulla notificazione, si riferisce esclusivamente agli atti per i quali il legislatore non prevede il procedimento notificatorio sebbene una mera comunicazione. In sostanza, la corretta esegesi dell’art. 6, comma 1, resta nel senso che esso intende assicurare l’effettiva conoscenza di tutti gli atti destinati al contribuente, ancorchè restino ferme le disposizioni in materia di notifica. Tale voluta solennità equivale a dire che lo statuto ha inteso affermare che a tutti gli atti dell’amministrazione destinati al contribuente (finanche, quindi, a quelli notificati) deve essere garantito un grado di conoscibilità il più elevato possibile”.

In questo senso, d’altro canto, si è mossa anche la Corte costituzionale la quale, con la sentenza n. 360 del 2003, ha dichiarato illegittimo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., nella parte in cui prevedeva che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, avessero effetto ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, con la precisazione che “un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato e, quindi, l’esercizio del suo diritto di difesa”.

4.2. Fatta questa premessa, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), stabilisce che, “salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” e lo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 1, a sua volta, dopo avere stabilito che agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato, prevede, al comma 2, che le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato “hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte”, mentre quelle non residenti “hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato”.

Anche se, in linea generale, ai fini della notificazione si deve avere riguardo alle risultanze anagrafiche che riguardano il contribuente destinatario dell’atto, non può sottacersi che lo stesso art. 60, comma 3, alla cui stregua “le variazioni e le modificazioni di indirizzo risultanti dai registri anagrafici “hanno effetto” ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica”, non può condurre a ritenere che l’Ufficio finanziario sia onerato, prima di notificare un atto al contribuente, del controllo, mediante una verifica sui registri anagrafici, dell’attualità dell’indicazione della residenza contenuta nella dichiarazione dei redditi, nè che detta indicazione sia priva di effetti ai fini della notifica degli atti tributari.

Tale conclusione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 14/12/2016, n. 25680), renderebbe del tutto priva di scopo l’indicazione della residenza nella dichiarazione dei redditi, prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4 (che recita: “negli atti, contratti, denunzie e dichiarazioni che vengono presentate agli uffici finanziari deve essere indicato il comune di domicilio fiscale delle parti, con la precisazione dell’indirizzo solo ove espressamente richiesto”) e, soprattutto, non si porrebbe in linea con l’univoco indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della propria residenza, o, comunque, di un domicilio diverso da quello di residenza, deve essere effettuata in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve conformare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (Cass., sez. 5, 10/05/2013, n. 11170; Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 29/11/2013, n. 26715, nella quale ultima si legge che “ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio o sede fiscale ed un determinato rappresentante legale, non corrisponde l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto”).

Le considerazioni esposte impongono dunque di tenere nettamente distinta l’ipotesi del cambio di residenza da quella di una originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi. Infatti, in quest’ultimo caso, questa Corte ha ripetutamente ribadito la validità della notifica effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, e ciò anche quando il perfezionamento della notifica sia avvenuto tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto, nonostante tale indicazione sia difforme rispetto alle risultanze anagrafiche (Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 14/12/2016, n. 25680; Cass., sez. 6-5, 10/04/2018, n. 8747; Cass., sez. 5, 15/05/2019, n. 12905; Cass., sez. 6-5, 10/10/2019, n. 25450).

Nelle pronunce da ultimo richiamate, si è evidenziato, da un lato, che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la competenza territoriale dell’ufficio accertatore è determinata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 31, con riferimento al domicilio fiscale indicato dal contribuente, la cui variazione, comunicata nella dichiarazione annuale dei redditi, costituisce pertanto atto idoneo a rendere noto all’Amministrazione il nuovo domicilio non solo ai fini delle notificazioni, ma anche ai fini della legittimazione a procedere, che spetta all’ufficio nella cui circoscrizione il contribuente ha indicato il nuovo domicilio” e, dall’altro, che “tale ius variandi dev’essere peraltro esercitato in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario: pertanto, il contribuente che abbia indicato nella propria denuncia dei redditi il domicilio fiscale in un luogo diverso da quello precedente, non può invocare detta difformità, sfruttando a suo vantaggio anche un eventuale errore, al fine di eccepire, sotto il profilo dell’incompetenza per territorio, l’invalidità dell’atto di accertamento compiuto dall’ufficio finanziario del domicilio da lui stesso dichiarato” (Cass., sez. 5, 10/03/2006, n. 5358; Cass., sez. 5, 10/05/2013, n. 11170; Cass., sez. L, 21/12/2015, n. 25680).

In sostanza, proprio in coerenza con i principi a cui si ispira la L. n. 212 del 2000, che, all’art. 10, sancisce che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria “sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”, deve ritenersi corretta una notificazione effettuata presso un recapito coincidente con quello palesato dal contribuente all’amministrazione, anche se diverso da quello risultante dai pubblici registri anagrafici.

4.3. Alla luce del quadro normativo sopra delineato e della lettura delle medesime disposizioni normative operata da questa Corte, non è utile invocare la modifica dell’art. 60, comma 1, lett. d), introdotta dal D.L. n. 78 del 2010, art. 38, comma 4, lett. a), n. 2, convertito dalla L. n. 122 del 2010, che ha eliminato la facoltà di far dipendere l’elezione di domicilio espressamente dalla dichiarazione dei redditi annuale, facendola dipendere da apposita comunicazione effettuata al Comune a mezzo di lettera raccomandata con avviso di accertamento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate.

Infatti, la disposizione invocata, come modificata, riguardante la facoltà riconosciuta al contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti che lo riguardano, ha solo diversamente disciplinato tale facoltà, escludendo che essa debba risultare espressamente dalla dichiarazione dei redditi e richiedendo apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

4.4. Come accertato dai giudici di merito e non contestato dalla ricorrente, nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 presentata per l’anno in contestazione, il domicilio indicato era quello di (OMISSIS) in (OMISSIS), presso il quale l’Agenzia delle entrate ha effettuato la notifica dell’avviso di accertamento che ha preceduto la comunicazione di avvio dell’attività di riscossione da parte di Equitalia Centro s.p.a.

Pertanto, nel caso in esame, il domicilio indicato in dichiarazione costituiva l’unico recapito conosciuto dall’Amministrazione per procedere alla notifica dell’atto impositivo, cosicchè tale indicazione, in difetto di diversa comunicazione, da parte della contribuente, effettuata con le modalità prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, richiamato art. 60, comma 1, lett. d), non può che equivalere ad elezione di domicilio all’indirizzo indicato in dichiarazione.

L’elezione di domicilio effettuata dalla contribuente nella dichiarazione per l’anno 2008 si è perfezionata in epoca anteriore alla entrata in vigore della novella di cui al D.L. n. 78 del 2010, e, pertanto, essa era pienamente efficace e produttiva di effetti al momento della notificazione dell’atto impositivo, avvenuta il 26 ottobre 2012, ed imponeva all’Amministrazione finanziaria di eseguire la notifica presso l’indirizzo indicato in dichiarazione, a nulla rilevando che a quella data la contribuente risultasse ancora iscritta all’anagrafe del Comune di (OMISSIS), alla via (OMISSIS).

5. Con il quarto motivo – rubricato: violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, e del L. n. 241 del 1990, art. 21-septies – rilevabilità d’ufficio della nullità assoluta ovvero dell’inesistenza giuridica dell’avviso di accertamento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – la contribuente, dopo avere fatto riferimento alla sentenza n. 37 del 25 febbraio 2015, della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, art. 1, comma 1, evidenzia che per effetto di tale declaratoria di incostituzionalità sono illegittimi i ripetuti conferimenti, da parte dell’Agenzia delle entrate, di incarichi dirigenziali ai funzionari delle Agenzie delle entrate senza il ricorso alla procedura del concorso pubblico.

Poiché, nel caso di specie, l’avviso di accertamento era stato sottoscritto, su delega del Direttore provinciale, C.R., dal Capo Ufficio F.A.B., il quale era intervenuto ad adiuvandum per sostenere le ragioni dell’Agenzia delle entrate nel giudizio di appello proposto innanzi al Consiglio di Stato, nell’ambito del quale era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, ritenuta fondata con la suddetta sentenza n. 37/2015, doveva dichiararsi l’inesistenza giuridica ovvero la nullità assoluta dell’impugnato avviso di accertamento.

5.1. La censura è inammissibile.

5.2. Come statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 22810 del 2015, “per le ipotesi di nullità dell’atto tributario, di qualsiasi natura esse siano, compresa, quindi, quella di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, opera il principio generale di conversione in mezzi di gravame. Le forme di invalidità dell’atto tributario, ove anche dal legislatore indicate sotto il nomen di nullità, non sono rilevabili d’ufficio, nè possono essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di cassazione (Cass., sez. 5, 16/02/2015, n. 18448). La conversione delle ipotesi di nullità in mezzi di gravame avverso l’atto fiscale è una conseguenza della struttura del processo tributario, che vede la contestazione della pretesa fiscale suscettibile di essere prospettata solo attraverso specifici motivi di impugnazione dell’atto che la esprime.

Il giudizio tributario, difatti, è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio circoscritto alla verifica della legittimita della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado (cfr. per tutte Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25756)”.

Nella fattispecie la nullità, qui prospettata dalla parte ricorrente, per come emerge dalla stessa descrizione dello svolgimento del processo evincibile dal ricorso, non era stata eccepita quale motivo di ricorso avverso gli avvisi di accertamento, sicchè ogni indagine sulla stessa è preclusa in sede di legittimità.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al rimborso, in favore della Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite con riguardo ad Equitalia Centro s.p.a., essendo questa rimasta intimata.

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 10-03-2021) 14-07-2021, n. 20074

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20766/2016 proposto da:

G.E., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE TRASTEVERE 244, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO FASSARI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Z.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FOLENGO TEOFILO, 49, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARINACI, rappresentato e difeso dall’avvocato WALTER FALCONIERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 555/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/03/2021 dal Consigliere Dott. ELISA PICARONI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che chiede di respingere il proposto ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Lecce, con la sentenza n. 555 del 2016, pubblicata il 7 giugno 2016 e notificata il 16 giugno 2016, ha rigettato l’appello proposto da G.E. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce – sezione distaccata di Nardò n. 510 del 2010, e nei confronti di Z.D..

1.1. Il Tribunale aveva dichiarato inammissibile l’opposizione proposta dalla G., ai sensi dell’art. 650 c.p.c., avverso il decreto ingiuntivo che le intimava di pagare la somma di Euro 11.745,39 in favore dello Z..

2. La Corte d’appello ha confermato la decisione, sul rilievo che la notificazione del decreto ingiuntivo era stata eseguita correttamente in data 18 aprile 2008, presso la residenza anagrafica della G., con le forme di cui all’art. 140 c.p.c., con la compiuta giacenza in data 17 maggio 2007 (recte 2008); che eventuali contestazioni delle risultanze della relazione di notificazione avrebbero dovuto formare oggetto di querela di falso; che non erano ravvisabili situazioni di impedimento oggettivo – riconducibili al caso fortuito o alla forza maggiore – della conoscenza dell’atto da parte della destinataria, che, pertanto, l’opposizione al decreto ingiuntivo notificata in data 29 luglio 2008 era tardiva.

3. G.E. ricorre per la cassazione della sentenza sulla base di quattro motivi, ai quali resiste Z.D. con controricorso. Il Pubblico mistero ha concluso per il rigetto del ricorso. La ricorrente ha depositato memoria in prossimità della Camera di consiglio.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo è denunciata violazione dell’art. 140 c.p.c., perché l’avviso di ricevimento non era completo, essendo stata omessa dall’agente postale l’indicazione relativa alla verifica in loco della solo temporanea assenza della destinataria dal luogo di residenza.

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione dell’art. 148 c.p.c. e art. 2700 c.c., per censurare l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui le risultanze della relazione di notificazione avrebbero dovuto essere contestate con la querela di falso. In realtà, nella specie non v’erano attestazioni di cui contestare la veridicità, in quanto, come già evidenziato con il primo motivo, l’avviso di ricevimento non recava alcuna attestazione. L’agente postale si era limitato a dichiarare di avere applicato il procedimento notificatorio previsto dall’art. 140 c.p.c., senza altra indicazione.

3. Con il terzo motivo è denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame del fatti decisivo rappresentato dalla mancata indicazione della spedizione della raccomandata di avviso dell’avvenuta notificazione del decreto ingiuntivo, nonché del mancato svolgimento delle verifiche sulla irreperibilità della destinataria e della relativa attestazione.

4. Con il quarto motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, omessa pronuncia sulla esistenza del nesso tra la mancata tempestiva conoscenza dell’atto oggetto di notificazione e l’irregolarità della notificazione.

5. Il ricorso è fondato con riferimento ai motivi primo e terzo, con assorbimento dei rimanenti.

5.1. In premessa si rileva che, diversamente da quanto prospettato nelle conclusioni scritte del Pubblico ministero, la parte ricorrente non è incorsa nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per non avere trascritto l’avviso di ricevimento nel corpo del ricorso.

Come evidenziato nella memoria di parte ricorrente, il ricorso indica specificamente e localizza i documenti sui quali sono fondate le doglianze, e quindi assolve l’onere richiamato (ex plurimis, Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726; più di recente, Cass. 11/01/2016, n. 195).

6. In materia di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., secondo l’orientamento consolidato di questa Corte – a partire da Sezioni Unite n. 458 del 2005 – ai fini del perfezionamento della notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non è sufficiente l’allegazione dell’avvenuta spedizione dell’avviso di ricevimento della raccomandata con cui il destinatario viene notiziato dell’avvenuto deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve avere luogo, ma è necessario che dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, si possa ricavare che l’atto è pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario.

In tal senso, si trova affermato che l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso a casa comunale deve recare l’annotazione, da parte dell’agente postale, dell’accesso presso il domicilio del destinatario e delle ragioni della mancata consegna, non essendo sufficiente la sola indicazione del deposito del plico presso l’ufficio postale (Cass. 30/01/2019, n. 2683, che ha confermato la nullità della notifica di un ricorso introduttivo di primo grado in quanto l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa, pur allegato all’atto, non risultava compilato nella parte relativa alla mancata consegna del plico al domicilio).

Secondo altre pronunce, invece, non occorre che dall’avviso di ricevimento della raccomandata informativa risulti precisamente documentata l’effettiva consegna della raccomandata, ovvero l’infruttuoso decorso del termine di giacenza presso l’ufficio postale, né che l’avviso contenga, a pena di nullità dell’intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto da esso risultare, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso (Cass. 12/12/2018, n. 32201; Cass. 27/02/2012, n. 2959).

E’ stato ulteriormente affermato che, in tema di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la raccomandata cosiddetta informativa, poiché non tiene luogo dell’atto da notificare, ma contiene la semplice “notizia” del deposito dell’atto stesso nella casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, sicché occorre per la stessa rispettare solo quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria (Cass. 18/12/2014, n. 26864, che ha escluso che la mancata specificazione, sull’avviso di ricevimento, della qualità del consegnatario e della situazione di convivenza o meno con il destinatario determinasse la nullità della notificazione).

7. Nella fattispecie in oggetto, dall’esame degli atti, consentito ed anzi dovuto a fronte della deduzione di error in procedendo (per tutte, Cass. 30/07/2016, n. 16164), risulta che la raccomandata con avviso di ricevimento è stata spedita ma non anche “recapitata” alla destinataria, prima della restituzione al mittente per compiuta giacenza.

E se, certamente, dell’avvenuta spedizione fa fede fino a querela di falso l’attestazione contenuta sull’avviso stesso recante l’indicazione del cronologico, della data di spedizione, del nome della destinataria e del luogo di destinazione, diversamente è a dirsi con riferimento all’esito della spedizione che è rimasto ignoto, poiché l’avviso non reca alcuna indicazione riguardo alle ragioni della mancata consegna della raccomandata.

Il procedimento di notificazione ex art. 140 c.p.c., non può pertanto ritenersi completato – anche nella prospettiva meno formalista, che esige comunque che dall’avviso risulti il trasferimento, il decesso del destinatario o “altro fatto impeditivo” della conoscibilità dell’avviso stesso – e la notifica del decreto ingiuntivo è nulla, con le conseguenti implicazioni in ordine all’ammissibilità dell’opposizione ex art. 650 c.p.c..

8. Nei limiti precisati sussistono i vizi di violazione dell’art. 140 c.p.c. e di omesso esame dell’avviso di ricevimento denunciati con i motivi primo e terzo, il cui accoglimento assorbe i rimanenti motivi ed impone la cassazione della sentenza impugnata con rinvio al giudice designato in dispositivo, il quale procederà ad un nuovo esame della domanda, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso, assorbiti i rimanenti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, a seguito di riconvocazione, il 5 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021


Commissione Tributaria regionale LAZIO – Sezione 11, Sentenza 8 luglio 2021 n. 3440

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DI LAZIO

SEZIONE 11

riunita con l’intervento dei Signori:

SORRENTINO FEDERICO Presidente
LEPORE ANTONIO Relatore
CIANCIO MARIO ROSARIO Giudice
ha emesso la seguente

SENTENZA

– sull’appello n. 6811/2019
depositato il 20/12/2019
– avverso la pronuncia sentenza n. 9374/2019 Sez:18 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di ROMA

contro:

AG.ENT. – RISCOSSIONE – ROMA
VIA G.GREZAR.14 00142 ROMA

difeso da:
(…)
proposto dall’appellante:
(…)
difeso da:
(…)

Atti impugnati:

CARTELLA DI PAGAMENTO n. (…) IVA-ALTRO 2012

1. La Srl (…) propone appello contro la sentenza n. 9374/18/2019, con la quale la CTP di Roma dichiarava la inammissibilità di un ricorso avverso l’estratto di ruolo riportante la cartella di pagamento n. (…) relativa nell’importo di Euro 26.763,16 all’IRPEF e all’IVA dovute per l’anno 2012.

Lamenta la appellante società i seguenti motivi di gravame: a) erroneamente la CTP ha ritenuto provata la regolarità della notifica della cartella, sia perché l’Agenzia si è limitata a produrre la copia di una busta in gran parte illeggibile e senza un chiaro collegamento con la cartella stessa; sia perché non risultano rispettati gli adempimenti previsti in caso di irreperibilità assoluta del destinatario; b) la CTP non ha inoltre considerato la inesistenza della procura alle liti in favore del difensore dell’Agenzia delle Entrate Riscossione.

Si è costituita in giudizio l’Agenzia delle Entrate Riscossione, chiedendo il rigetto dell’appello.

2. Osserva in via preliminare la Commissione che è oramai costante l’orientamento della Corte di Cassazione circa la ammissibilità della impugnazione degli estratti di ruolo onde contestare, con funzione recuperatola, la omessa notifica delle sottostanti cartelle di pagamento. La Corte ha infatti anche di recente affermato che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 19 comma 3 DL.gs 546/92 impone di ritenere che la prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere la invalidità della notifica di un atto, del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza (in tal senso Cass. Ord. 1423/2019, in esplicito richiamo a Cass. SS. UU. 19704/2015).

La stessa Corte di Cassazione ha altresì chiarito che, data la particolare natura dell’estratto di ruolo, non sussiste alcun termine entro il quale è possibile proporre ricorso (in tal senso Cass. 22507/2019).

3.Ciò posto l’appello della società merita accoglimento in forza delle seguenti considerazioni:

– al fine di provare la regolarità della notifica della sopra ricordata cartella di pagamento l’Agente per la riscossione si è limitato a depositare in atti la copia di una busta postale, dalla quale non risulta possibile operare alcun sicuro collegamento con la cartella stessa;

– deve inoltre rilevarsi che non è stata fornita alcuna prova circa il concreto rispetto di tutti gli adempimenti previsti ai sensi dell’art. 60 comma primo lett. e) DPR 600/73 nella ipotesi di irreperibilità assoluta del destinatario; vale a dire il deposito dell’atto nella Casa Comunale, l’affissione del deposito dell’atto nell’albo del Comune e il decorso del termine di otto giorni da tale affissione.

– va aggiunto che il meccanismo notificatorio previsto dal citato art. 60 nella ipotesi di irreperibilità assoluta richiede, al fine della sua ritualità, che il messo notificatore prima di procedere alla notifica debba effettuare nel Comune di domicilio fiscale del contribuente le ricerche volte a verificare la sussistenza dei presupposti per operare la scelta tra l’ipotesi della irreperibilità relativa e quella appunto della irreperibilità assoluta (Cass. 6911/2017, Cass. 2877/2018 e Cass. 29956/2018).

4. Alla soccombenza segue la condanna alle spese di entrambi i gradi del giudizio.

P.Q.M.

La Commissione accoglie l’appello e condanna l’Agenzia delle Entrate Riscossione al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate in complessivi Euro 5.000,00 comprensivi del rimborso forfettario delle spese generali.

Così deciso in Roma il 9 giugno 2021.

Depositata in Segreteria l’8 luglio 2021.


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 10/02/2021) 23/06/2021, n. 17968

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10227/2019 proposto da:

GENERALI PREFABBRICATI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE MEDAGLIE D’ORO 113, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA MARIA CONSUELO SANGUEDOLCE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI RONDINI;

– ricorrenti –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SABOTINO 46, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FERRONI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 277/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 22/01/2019.

Svolgimento del processo
Con ricorso del 17 aprile 2015, UnipolSai chiedeva al Tribunale di Bologna di emettere ingiunzione di pagamento nei confronti di Generali Prefabbricati S.p.A. per essere stata escussa, ad opera di RFI S.p.A. sulla base di una polizza fideiussoria rilasciata nell’interesse di una associazione temporanea di imprese, con a capo la società mandataria (OMISSIS) (dichiarata fallita dal Tribunale di Milano con sentenza del 17 febbraio 2005) e della mandante, Generali Prefabbricati.

Il decreto ingiuntivo emesso il 29 aprile 2015 veniva notificato a Generali Prefabbricati S.p.A., dai difensori di UnipolSai Ass.ni, a mezzo PEC, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3 bis, in data 12 giugno 2015, mentre il 16 ottobre 2015, era data esecutorietà al decreto ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e, conseguentemente, in data 14 settembre 2016, UnipolSai notificava all’atto di precetto.

Con atto di citazione, portato per la notifica il 22 settembre 2016, Generali Prefabbricati proponeva opposizione ai sensi dell’art. 650 c.p.c. deducendo, preliminarmente, di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo, per caso fortuito o forza maggiore, legittimante l’impugnazione tardiva e ciò in quanto la mail PEC di notifica del ricorso del decreto monitorio era finita nella cartella della “posta indesiderata” della propria casella PEC (spam) ed era stata eliminata dall’impiegata preposta, senza apertura e lettura della busta, per timore di danni al sistema informatico aziendale. Nel merito contestava la esistenza del credito.

Si costituiva l’opposta UnipolSai chiedendo, preliminarmente, dichiararsi l’inammissibilità dell’opposizione tardiva per mancanza dei presupposti previsti all’art. 650 c.p.c. e, nel merito, il rigetto.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza dell’11 maggio 2018, emessa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., dichiarava inammissibile l’opposizione tardiva, compensando le spese tra le parti.

Secondo il Tribunale la notificazione effettuata dai difensori di UnipolSai possedeva i requisiti di validità previsti dal citato art. 3 bis, con la conseguenza che si doveva considerare perfezionata per il destinatario nel momento in cui era stata generata la ricevuta di avvenuta consegna. Non sussisterebbero i presupposti della mancata conoscenza incolpevole, per caso fortuito o forza maggiore, non ricorrendo l’ipotesi di circostanza “assolutamente ostativa e meramente oggettiva, avulsa dalla volontà umana”, atteso che l’elemento determinante era rappresentato dalla scelta volontaria della persona preposta, di cestinare la PEC per evitare un presunto rischio per il sistema informatico.

Avverso tale decisione proponeva appello la società Generali Prefabbricati S.p.A.. Si costituiva UnipolSai Ass.ni insistendo per il rigetto del gravame.

La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 22 gennaio 2019, facendo propria la motivazione adottata dal Tribunale, rigettava l’impugnazione condannando parte appellante al pagamento delle spese di lite.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Generali Prefabbricati S.p.A. affidandosi a motivi. Resiste con controricorso UnipolSai Ass.ni S.p.A..

La trattazione del ricorso è stata fissata in udienza pubblica, ma il Collegio ha proceduto in Camera di consiglio ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con L. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta di discussione orale, con adozione della presente decisione in forma di sentenza in ragione della modalità di trattazione già fissata. Il Procuratore generale ha formulato le sue conclusioni motivate ritualmente comunicate alle parti insistendo per il rigetto del ricorso. Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
Con il primo motivo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione fra le parti, stante la mancata ammissione di mezzi di prova orali sull’esercizio della dovuta diligenza nel controllo della Posta Elettronica Certificata in ingresso e nell’installazione di sistemi di protezione antivirus sulla propria rete informatica. In particolare, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si deduce che la Corte non avrebbe considerato il fatto decisivo che aveva impedito la conoscenza effettiva del decreto ingiuntivo nei termini riferiti dalla dipendente, segretaria della azienda, T.M. la quale aveva precisato che nella giornata di venerdì 12 giugno 2015 era sola in ufficio ed era la prima volta che riceveva una notifica di un atto giudiziario a mezzo PEC, ricordando che in precedenza un virus informatico aveva messo in crisi il software aziendale. Tali circostanze rilevanti e non contestate sarebbero state oggetto di richiesta di prova testimoniale erroneamente disattesa.

Il motivo è inammissibile per una pluralità di ragioni.

In primo luogo, la ricorrente omette di dedurre e documentare di avere formulato uno specifico motivo di appello al fine di sollecitare l’ammissione delle prove articolate in primo grado e che sarebbero state disattese dal Tribunale.

In secondo luogo, la censura è dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale omessa considerazione di un fatto storico, rappresentato dalle circostanze poste a sostegno della opposizione tardiva (nello specifico, profili istruttori). Tale doglianza è inammissibile in presenza di una doppia conforme atteso il divieto contenuto dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5 e non avendo parte ricorrente precisato che la decisione di secondo grado sarebbe fondata su elementi fattuali diversi rispetto a quella del Tribunale.

In terzo luogo, con il ricorso si lamenta sostanzialmente la mancata ammissione della prova, facendo riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, ma tale ipotesi esula del tutto dalla fattispecie richiamata che, come si è detto, riguarda la mancata considerazione di un fatto storico.

Infine, la censura è dedotta in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, mancando di trascrivere il tenore delle prove orali che la ricorrente avrebbe voluto fossero ammesse, sì da impedire ogni valutazione circa la loro rilevanza e decisività.

Quando il ricorso si fonda su documenti, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:

(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;

(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;

(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6-3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).

Principio ribadito da ultimo dalle Sezioni Unite secondo cui sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Sez. U., Sentenza n. 34469 del 27/12/2019, Rv. 656488 – 01).

La ricorrente ha omesso di assecondare tutti gli oneri richiesti, non avendo trascritto il contenuto dei capitoli di prova, non avendo individuato la fase processuale della tempestiva richiesta e non avendo precisato di avere reiterato in appello tale istanza, omettendo di allegare e localizzare all’interno del fascicolo di legittimità gli atti richiamati.

Con il secondo motivo si deduce la violazione degli art. 647 e 650 c.p.c.. La Corte di appello di Bologna non avrebbe considerato che l’addetta alla ricezione della P.E.C., già a conoscenza di una precedente aggressione virale del sistema informatico della ricorrente, era stata costretta ad eliminare la notificazione via P.E.C. del decreto ingiuntivo non opposto, al solo fine di evitare il ripetersi di una simile dannosa situazione. Tale inevitabilità della scelta dell’addetta alla ricezione P.E.C. integrava gli estremi di quella forza maggiore che avrebbe consentito di giustificare l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c..

La censura è infondata atteso che l’argomentazione non consente di giustificare l’omesso controllo della posta qualificata da parte dell’addetta alla ricezione, in presenza di una determinata PEC, smistata dal sistema interno fra la posta elettronica indesiderata e contrassegnata come spam.

I programmi di posta elettronica non sono in grado di individuare, con esattezza, i messaggi da qualificarsi come spam, e – pertanto – rientra nella diligenza ordinaria dell’addetto alla ricezione della posta elettronica il controllo anche della cartella della posta indesiderata, atteso che in tale cartella ben possono essere automaticamente inseriti messaggi provenienti da mittenti sicuri e attendibili e non contenenti alcun allegato pregiudizievole per il destinatario.

Le suddette cautele di attenzione sono note a chi opera professionalmente quale recettore dei messaggi di posta elettronica, strumento di notificazione telematica che ormai appartiene al know how di ogni operatore commerciale – e per lui, dei suoi ausiliari – stante la sua diffusione e il suo valore di comunicazione idonea a produrre effetti giuridici.

In materia questa Corte si è già pronunciata, affermando che il titolare dell’account di posta elettronica certificata ha il dovere di controllare prudentemente tutta la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come “posta indesiderata” (Cass. n. 7752 del 2020 e Cass. Sez. L. 21-05-2018, n. 12451; Cass. civ. Sez. I, 03-01-2017, n. 31; Cass. civ. Sez. VI-1, 07-07-2016, n. 13917).

Come rilevato da questa Corte (Cass. n. 3965 del 2020) del D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 20 (“regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. B2, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24”), disciplina i “requisiti della casella di P.E.C. del soggetto abilitato esterno”, imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di P.E.C. e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica; in particolare, il “soggetto abilitato esterno”, cioè, nel caso che ci occupa, il difensore della parte privata, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. 3 R.G. 25467/2018 m) del D.M. n. 44 del 2011: a) “è tenuto a dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati” (comma 2); b) “è tenuto a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia” (comma 3); c) è tenuto a munirsi di una casella di posta elettronica certificata che “deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui all’art. 34” (comma 4); d) “è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione” (comma 5).

Nel caso di specie ciò avrebbe consentito di isolare la mali ritenuta sospetta e porla in cd quarantena ovvero di eseguire la scansione manuale del file in questione, azionando il prescritto “software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio”.

Come rilevato dai giudici di merito, tali considerazioni appaiono particolarmente pregnanti se riferite al caso concreto in cui il messaggio era espressamente riferito alla L. n. 53 del 1994, la cui rilevanza è nota a chi professionalmente può essere destinatario di comunicazione a mezzo P.E.C..

Le considerazioni oggetto della memoria non superano quanto detto, dovendosi escludersi – per quanto sopra argomentato – che l’addetta alla ricezione P.E.C. non potesse in alcun modo adottare un comportamento alternativo a quello della mera ed immediata eliminazione del messaggio P.E.C. nel cestino, una volta classificato dal computer come spam.

Rimangono assorbiti i restanti motivi che sono stati dedotti “subordinatamente alla ipotesi di accoglimento dei motivi” precedenti. La ricorrente, nella parte finale del ricorso (pagine da 25 a 35), riproduce i motivi di opposizione che, in ragione della pronunzia di inammissibilità dell’opposizione tardiva, non erano stati presi in esame in sede di merito e che vengono reiterati per l’ipotesi di favorevole decisione da parte della Corte di legittimità ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Tali considerazioni riguardano rispettivamente:

– il difetto di legittimazione passiva di Generali Prefabbricati S.p.A;

– l’infondatezza dell’azione di regresso e conseguente insussistenza del debito;

– la circostanza che la polizza sarebbe sottoscritta in nome proprio dalla sola S.p.A. (OMISSIS), che resterebbe l’unica obbligata con conseguente estraneità della S.p.A. Generali prefabbricati dalla solidarietà prospettata nel ricorso monitorio;

– il mandato con rappresentanza non si estenderebbe alla stipula della polizza fideiussoria prospettandosi, al più, ed in via subordinata, una responsabilità solidale pro quota;

– l’eccezione di prescrizione relativamente agli interessi legali con riferimento alla parte della pretesa più risalente rispetto al termine di cinque anni previsto all’art. 2948 c.c..

Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 3800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2021


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 07-04-2021) 21-06-2021, n. 24280

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMMINO Matilde – Presidente –

Dott. DE SANTIS Anna Maria – Consigliere –

Dott. BORSELLINO Maria D. – rel. Consigliere –

Dott. CIANFROCCA Pierluigi – Consigliere –

Dott. SARACO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

I.K., nato in (OMISSIS);

avverso l’ordinanza resa dal Tribunale di L’Aquila il 31 dicembre 2020;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MARIA DANIELA BORSELLINO;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. CUOMO Luigi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

lette le conclusioni dell’avv. Pasquale Cardillo Cupo che ha insistito nel motivo di ricorso, osservando che la difesa ha documentato per tabulas l’impossibilità tecnica di partecipare all’udienza da remoto.

Svolgimento del processo
1.Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di L’Aquila sezione del riesame ha confermato l’ordinanza resa dal GIP del Tribunale di Avezzano il 6 novembre 2020 con cui è stata applicata nei confronti di I.K. la misura cautelare degli arresti domiciliari nella qualità di indagato in ordine ad una rapina impropria e del delitto previsto dall’art. 617 quater c.p..

Si addebita all’indagato di essersi impossessato di un’autovettura Lamborghini sottraendola dall’interno di un piazzale recintato e di avere usato violenza contro la persona offesa nel tentativo di darsi alla fuga, venendo arrestato nella flagranza del reato.

2.Avverso la detta sentenza ricorre l’indagato deducendo:

2.1 violazione del D.L. n. 137 del 2020, art. 23 comma 5 e dell’art. 309 c.p.p., comma 8 poichè l’ordinanza pronunciata dal GIP è nulla in quanto l’udienza è stata tenuta in assenza di contraddittorio, nonostante la difesa abbia più volte chiesto di parteciparvi in modalità videoconferenza, così come indicato nel decreto di fissazione.

In particolare il difensore deduce che il 24 dicembre 2020 è stato comunicato il decreto di fissazione udienza in cui era indicata la data del 31 dicembre 2020 e l’avviso al difensore che l’udienza sarebbe stata celebrata mediante collegamento audiovisivo. La difesa ha più volte inoltrato il proprio indirizzo al recapito PEC indicato, ma l’indirizzo non è risultato valido; il difensore ha contattato telefonicamente la cancelleria del tribunale per comunicare la propria intenzione di partecipare all’udienza, ma non ha ottenuto nessuna risposta e l’udienza è stata celebrata in sua assenza.

Nell’ordinanza impugnata si legge che il difensore, pur ritualmente avvisato, non è comparso, ma si tratta di un’affermazione inesatta poichè il difensore non è stato posto in condizioni di comunicare la propria intenzione di partecipare all’udienza e, pur ritualmente avvisato, non ha avuto la possibilità di prendervi parte e il provvedimento assunto deve ritenersi nullo.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.

Dall’esame degli atti allegati al ricorso e di quelli presenti nel fascicolo, il cui esame è consentito per la natura dell’eccezione dedotta, emerge che il difensore è stato ritualmente avvisato che per partecipare all’udienza avrebbe dovuto inviare almeno 48 ore prima dell’udienza il proprio recapito all’indirizzo caratterizzato nella parte iniziale dalla dicitura “sez.1…” per consentire alla cancelleria di contattarlo.

Il difensore ha invece inviato, peraltro solo 24 ore prima dell’udienza, la richiesta all’indirizzo sbagliato, caratterizzato dalla dicitura “sezione 1…” e non a quello indicato dalla cancelleria e riportato nell’avviso di fissazione. Tale divergenza tra i due indirizzi emerge ictu oculi dal confronto tra il decreto di fissazione dell’udienza e l’avviso di mancato recapito della comunicazione del difensore, allegato al ricorso, in cui viene attestato che la comunicazione era diretta ad indirizzo inesistente.

E’ evidente che la conseguente mancata partecipazione del difensore all’udienza di convalida a causa dell’erronea indicazione dell’indirizzo della cancelleria nella missiva con cui chiedeva di partecipare a distanza ricade esclusivamente sulla responsabilità del difensore che, ai sensi dell’art. 182 c.p.p. non può dolersi della nullità cagionata per l’omesso contraddittorio, avendola lui stesso provocata.

L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma che si reputa congruo fissare in Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 10/03/2021) 17/06/2021, n. 17289

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. GALATI Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 7332 del ruolo generale dell’anno 2015 proposto da:

B.M., rappresentato e difeso, in virtù di procura in calce al ricorso, dall’Avv. Domenico Siciliano, presso il cui studio in Roma, Via Gramsci, 14 è elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore;

Riscossione Sicilia Spa;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 2636/34/14 della Commissione tributaria regionale della Sicilia – sez. di Catania depositata in data 18.09.2014;

udita nella camera di consiglio del 10.3.2021 la relazione svolta dal consigliere Vincenzo Galati.

Svolgimento del processo
Con la sentenza indicata la CTR della Sicilia ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate e, in riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo, ha rigettato l’originario ricorso proposto dal contribuente avverso una cartella di pagamento relativa ad IRPEF, IRAP ed IVA e conseguenti addizionali per l’anno 2005.

Il ricorso è stato accolto in primo grado per l’assenza di prova della notifica della cartella da parte del concessionario della riscossione stante la mancata produzione della relata di notifica.

La CTR ha accolto l’appello dell’Agenzia affermando la validità della notifica della cartella avvenuta il (OMISSIS) mediante consegna a mani del destinatario sottolineando, altresì, che, comunque, l’atto aveva raggiunto lo scopo, per come confermato dall’avvenuta proposizione dell’opposizione.

In ogni caso, secondo la ricostruzione dei giudici di appello, anche la notifica dell’avviso di accertamento era stata regolare, trattandosi di plico ritirato il (OMISSIS) dalla moglie del destinatario dell’atto appositamente delegata.

L’irretrattabilità di tale atto, non oggetto di impugnazione, rendeva inammissibile qualsiasi ulteriore motivo di opposizione.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione B.M. affidandolo a cinque motivi.

L’Agenzia si è costituita al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.

Riscossione Sicilia Spa è intimata.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non essere stato dichiarato inammissibile l’appello dell’Agenzia.

Nel corso del giudizio di primo grado il contribuente ha eccepito la mancata notifica dell’avviso di accertamento e, a fronte della produzione in giudizio della relata e del frontespizio dello stesso avviso, asseritamente notificato in data (OMISSIS), ha contestato la mancata produzione dell’atto notificato.

In tal modo è stato impossibile comprendere a quale atto fosse riferibile la relata prodotta.

Secondo alcuni stralci della sentenza di primo grado riportati in ricorso la Commissione tributaria provinciale ha accolto il rilievo.

Neppure in grado di appello è avvenuta detta integrale produzione documentale, sicchè la CTR ha errato nel non rilevare l’inammissibilità del gravame.

2. Il secondo motivo censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Ribadisce, a tale proposito, la mancata produzione integrale dell’avviso di accertamento notificato e la circostanza che, alla luce della produzione del solo frontespizio dell’atto, può ritenersi eseguita la sola notifica della prima pagina dello stesso.

3. Con il terzo motivo viene dedotta omessa motivazione su un punto decisivo della controversia a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

In particolare, l’illustrazione del motivo si sofferma nuovamente sulla mancata analisi dell’omessa produzione in giudizio di copia integrale dell’avviso di accertamento, circostanza che, laddove esaminata, avrebbe comportato la constatazione che nessun procedimento notificatorio si è mai perfezionato.

4. Con il quarto motivo il contribuente deduce violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis, nonchè della L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Qualora la notifica dell’avviso fosse stata eseguita in data (OMISSIS) a mani di delegato del destinatario, l’agente postale avrebbe dovuto dare notizia allo stesso dell’avvenuta notificazione a mezzo lettera raccomandata.

Adempimento che nel caso di specie non è stato eseguito.

5. Con il quinto motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, essendo inesistente la notifica della cartella esattoriale per mancata compilazione della relata di notifica sulla cartella medesima, atto ritenuto indispensabile allo scopo di verificare che l’adempimento compiuto da colui che ha posto in essere l’atto sia qualificabile, appunto, come attività che abbia legalmente portato l’atto nella sfera di conoscenza del destinatario.

6. Infondato il primo motivo di ricorso.

La mancata produzione in appello dell’avviso di accertamento, per come descritta dal ricorso del contribuente, non determina certamente l’inammissibilità dell’impugnazione per difetto di interesse.

Semmai, laddove fosse requisito indispensabile quello omesso, la carenza del relativo adempimento potrebbe, ipoteticamente, determinare l’infondatezza nel merito del motivo.

Attraverso una lettura comprensiva dell’accoglimento del rilievo relativo alla mancata allegazione di copia integrale dell’atto notificato, il ricorrente non sostiene che tale statuizione non sia stata impugnata dall’Agenzia, ma che non sia stata fornita quella prova che egli ritiene indispensabile per neutralizzare l’eccezione difensiva.

Ciò non determina la formazione di alcun giudicato interno per inammissibilità del gravame, ma, si ripete, qualora fosse indispensabile la produzione non effettuata, la sua infondatezza nel merito.

Il motivo, per come formulato, pertanto, deve essere disatteso.

7. Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente e sono, anch’essi, infondati.

Entrambi prendono le mosse da un assunto errato in diritto, ossia che sia a carico della parte notificante che produce l’avviso di ricevimento relativo alla notificazione di un determinato atto l’onere di produrre anche la copia dell’atto notificato in maniera tale che emerga la prova della certa riferibilità dell’avviso di ricevimento all’atto prodotto.

Questa Corte, con orientamento qui condiviso, ha affermato che “in tema di notifica della cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova” (Cass. sez. 5, 22 giugno 2018, n. 16528).

La ragione di tale orientamento risiede nel fatto che, una volta effettuata la consegna del plico per la spedizione, esso fuoriesce dalla sfera di conoscibilità del mittente, e perviene in quella del destinatario, il quale può dunque dimostrare che al momento del ricevimento il plico era privo di contenuto (o ne aveva uno diverso).

Nello stesso senso Cass. sez. 3, 22 ottobre 2013, n. 23920, mentre è recessivo il diverso orientamento secondo cui “nel caso di notifica della cartella di pagamento mediante l’invio diretto di una busta chiusa raccomandata postale, è onere del mittente il plico raccomandato fornire la dimostrazione del suo esatto contenuto, allorchè risulti solo la cartolina di ricevimento ed il destinatario contesti il contenuto della busta medesima (nella specie, sull’assunto che essa contenesse il bollettino di versamento, ma non il corpo della cartella)” (Cass. sez. 5, 30 luglio 2013, n. 18252; Cass. sez. 5, 12 maggio 2015, n. 9533, non massimata).

Ulteriormente, di recente, è stato ribadito che “nel caso di contestazione dell’atto comunicato a mezzo raccomandata, la prova dell’arrivo di questa fa presumere, ex art. 1335 c.c., l’invio e la conoscenza dell’atto, spettando al destinatario, in conformità al principio di “vicinanza della prova”, l’onere eventuale di dimostrare che il plico non conteneva l’avviso. Tale presunzione, però, opera per la sola ipotesi di una busta che contenga un unico atto, mentre ove il mittente affermi di averne inserito più di uno e il destinatario contesti tale circostanza, grava sul mittente l’onere di provare l’intervenuta notifica e, quindi, il fatto che tutti gli atti fossero contenuti nel plico, in quanto, secondo l’”id quod plerumque accidit”, ad ogni atto da comunicare corrisponde una singola spedizione” (Cass. sez. 5, 26 novembre 2019, n. 30787).

8. Infondato il quarto motivo.

Nel caso di specie, non si verte in tema di notifica dell’atto attraverso l’ausilio dell’ufficiale giudiziario e, dunque, non trovano applicazione le disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982.

Sul punto si richiama la granitica giurisprudenza di legittimità secondo cui “in tema di notificazioni a mezzo posta, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato, ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14, l’avviso di accertamento o liquidazione senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla legge citata attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c. Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato nella impossibilità senza sua colpa di prenderne cognizione” (Cass. sez. 5, 15 luglio 2016, n. 14501).

9. Il quinto motivo è, anch’esso, infondato per plurime ragioni.

La mancata compilazione della relata di notifica sulla cartella recapitata alla contribuente non costituisce omissione che determina alcun vizio della notifica (Cass. sez. 5, 12 febbraio 2020, n. 17354 in motivazione; in senso conforme Cass. 23 maggio 2018, n. 12750 e Cass. sez. 6-5, 5 maggio 2017, n. 11134).

Nel caso di specie la relata di notifica è stata prodotta in giudizio e la CTR ne ha desunto che l’adempimento è stato effettuato in data 9.11.2009 a mani del destinatario.

In ogni caso, va assicurata continuità all’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità secondo cui “la tempestiva e rituale opposizione ha l’effetto di sanare ogni irregolarità della notifica dell’atto, in quanto ne dimostra il raggiungimento dello scopo”.

Nel caso di specie la contribuente ha potuto proporre opposizione tempestiva.

A ciò si aggiunga che la sanatoria di cui all’art. 156 c.p.c., comma 3, trova applicazione anche in relazione alla nullità della notifica di atti non processuali quali la cartella di pagamento con l’unico limite che non sia intervenuta la decadenza dal potere di accertamento (sul punto si veda Cass. sez. 5, 12 dicembre 2018, n. 708 in fattispecie assolutamente identica e con ampi richiami alle pagg. 2 e 3 a precedenti conformi).

10. Da quanto esposto consegue il rigetto complessivo del ricorso. Nessuna statuizione deve essere assunta sulle spese, essendosi costituita l’Agenzia per la sola partecipazione alla eventuale udienza di discussione e Riscossione Sicilia Spa è rimasta intimata.

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;

nulla sulle spese;

Da atto dei presupposti processuali per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto, del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2021

 


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 03-02-2021) 14-06-2021, n. 16746

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14585-2018 proposto da:

DON CARLO SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE TITO LABIENO N 118, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO GIAMPAOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato ATTILIO DE PASQUALE;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIBULLO 10, presso lo studio dell’avvocato MARIA VITTORIA PIACENTE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO CRISTOFARO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 414/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 27/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Svolgimento del processo
Che:

1.La Don Carlo Srl ricorre, affidandosi ad un unico motivo, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro che aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta avverso la pronuncia del Tribunale di Cosenza con la quale:

a. era stata accolta la domanda spiegata da C.A. che, proprietaria di tre fondi siti in (OMISSIS), concessi in locazione ad uso commerciale alla società odierna ricorrente, aveva chiesto la sua condanna alla esecuzione dei lavori necessari per la riapertura della finestra sita nel vano bagno di un locale facente parte della complessiva proprietà locata ed il pagamento delle somme dovute per i canoni insoluti, oltre che le spese tributarie ed il risarcimento dei vari danni subiti;

b. era stata parzialmente accolta la domanda riconvenzionale spiegata dalla società odierna ricorrente, con la dichiarazione di nullità delle clausole contrattuali che escludevano la produzione degli interessi sulle somme versate a titolo di deposito cauzionale, respingendola per il resto e condannando la società alla rifusione delle spese di lite.

1.1.Per ciò che interessa in questa sede, la Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l’appello ritenendolo tardivo, in quanto proposto oltre il termine “breve” di trenta giorni, decorrenti dalla notifica della sentenza a mezzo PEC, notifica della quale la società aveva eccepito la nullità, assumendo che sulla “relata”, nonostante la diversa notazione sulla copia stampata, non era stata apposta la firma digitale dell’avvocato notificante e che, in via residuale, doveva applicarsi il termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c..

2. La parte intimata ha resistito con controricorso.

3. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
Che:

1. Con unico articolato motivo, la società ricorrente deduce, ex art. 360 co 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 bis e 11 della L. 53/1994 e degli artt. 125,148 e 156 c.p.c..

1.1. Assume, al riguardo:

a. che in data 31.5.2017 era stato trasmesso dal difensore della controparte un messaggio di posta elettronica certificata contenente la comunicazione P.E.C. per la notificazione della sentenza del Tribunale di Cosenza, a cui erano allegati i file della relata di notifica in formato nativo digitale e della copia informatica per immagine di essa, senza alcuna attestazione di conformità;

b. al file della relata di notifica ed a tutti gli altri file allegati al messaggio di PEC, nonostante la diversa notazione riportata sulla copia analogica per stampa prodotta dalla difesa della controparte, non veniva apposta la firma digitale dell’avvocato notificante;

c. il suddetto file della relata di notifica veniva allegato con estensione pdf semplice e non con estensione “p7m” o “pdf” oppure “pdf” ma con eventuale aggiunta del suffisso “signed” al nome del file tanto da presentarlo come “nomefile-signed-pdf”: assume che, pur condivisibile la recente pronuncia di questa Corte relativa alla validità delle firme digitali CAdES e PAdES ritenute equivalenti a quelle previste dalla normativa in vigore (richiama, al riguardo, Cass. SU 10266/2018), affinché il file di notifica potesse considerarsi validamente sottoscritto, doveva ritenersi però necessaria almeno una di tali firme digitali, del tutto assenti nel caso di specie.

1.2. Contesta, in buona sostanza, la statuizione della Corte territoriale che aveva ritenuto che la mancanza della firma digitale del difensore nella relata di notificazione non rilevasse ai fini della validità di essa; ed assume che tale orientamento si poneva in contrasto con quanto predicato dall’art. 125 c.p.c., secondo il quale tutti gli atti di parte dovevano essere sottoscritti dal difensore. 2. In via preliminare, il Collegio rileva la violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto parte ricorrente non ha “localizzato”, nel presente giudizio di legittimità e con riferimento specifico agli atti prodotti, la relata di notificazione della sentenza di primo grado di cui si discute.

2.1. Nemmeno ha dedotto di voler fare riferimento alla presenza di tali atti nel fascicolo d’ufficio della corte territoriale oppure in quello del giudizio di appello della controparte (in questo secondo caso o presente nel fascicolo de quo o prodotto dalla resistente) (cfr, sulla specifica questione, Cass. Sez. Un. 22726/2011).

3. Ma tanto premesso, la censura se fosse esaminabile sarebbe infondata.

3.1. Lo stesso appellante, infatti, pur rilevando l’assenza della firma digitale del difensore notificante, ha affermato che la copia stampata della relata di notifica riportava “la diversa annotazione” senza alcuna specificazione in ordine alle caratteristiche di essa: al riguardo, si osserva che questa Corte ha avuto modo di chiarire che in tema di notificazione a mezzo posta elettronica certificata (PEC), “la mancanza, nella relata, della firma digitale dell’avvocato notificante non è causa d’inesistenza dell’atto, potendo la stessa essere riscontrata attraverso altri elementi di individuazione dell’esecutore della notifica, come la riconducibilità della persona del difensore menzionato nella relata alla persona munita di procura speciale per la proposizione del ricorso, essendosi comunque raggiunti la conoscenza dell’atto e, dunque, lo scopo legale della notifica (cfr. Cass. 6518/2017).

3.2. Ed è stato chiarito, in motivazione (cfr. pag. 3 della sentenza citata), che “la notificazione a mezzo PEC è un documento diretto inequivocabilmente dalla casella PEC dell’avvocato del ricorrente a quella del difensore avversario, senza che abbia limitato i diritti difensivi della parte ricevente. Infatti, questa Corte ha stabilito che il difetto della firma non è causa di inesistenza dell’atto, ed ha anzi affermato la surrogabilità di quella prescrizione attraverso altri elementi capaci di far individuare l’esecutore di esso (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10272 del 2015)”.

3.3. Orbene, nella specie, nella notificazione effettuata a mezzo PEC la mancata firma digitale della relata non lascia alcun dubbio sulla riconducibilità alla persona del difensore, attraverso la sua indicazione e l’accostamento di quel nominativo alla persona munita ritualmente della procura speciale.

3.4. Del resto, questa Corte ha affermato che “l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica (nella specie, in “estensione.doc”, anzichè “formato.pdf”) ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale” (cfr. Cass. Sez. U 7665/2016 ed, in termini, Cass. 3805/2018).

3.5. Nè può ritenersi utile, per una diversa decisione, l’argomento, di tenore “letterale”, portato dal riferimento all’art. 125 c.p.c. e, dunque, alla inclusione della notifica fra gli atti processuali di parte che necessitano della sottoscrizione del difensore, in quanto, da una parte, il richiamo appare improprio non potendosi considerare tale (e cioè ” atto processuale”) il prodotto dell’esercizio della funzione notificatoria del difensore, e, dall’altra, il Collegio ritiene che comunque, l’elencazione della norma richiamata sia tassativa, e non possa essere estesa ai documenti che fanno parte di un procedimento, con più passaggi, come quello per via telematica per il quale è sufficiente che venga attestata la conformità all’originale dell’atto da notificare (cfr. Cass. 26102/2016).

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma del comma Ibis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2300,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di Cassazione, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2021


Comm. trib. regionale Basilicata Potenza, Sez. I, Sent., 09/06/2021, n. 142

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DI BASILICATA
PRIMA SEZIONE

riunita con l’intervento dei Signori:

DE LUCE ANTONIO – Presidente

MORLINO ALDO – Relatore

DI FLORIO VINCENZO – Giudice

ha emesso la seguente

SENTENZA

– sull’appello n. 230/2020

depositato il 28/07/2020

– avverso la pronuncia sentenza n. 220/2020 Sez:3 emessa dalla Commissione Tributaria Provinciale di POTENZA

contro:

G.A.

V/LE G. C A DALLA C. 35 G 85016 P.

difeso da:

DE BONIS VITTORIO

VIA DUE TORRI 4 85100 POTENZA

contro:

G.M.

V A. C A. 2 SC B I. 5 84122 S.

difeso da:

DE BONIS VITTORIO

VIA DUE TORRI 4 85100 POTENZA

contro:

G.C. DI L.A.M. SAS

P.ZZA A. DE G. N. 10 85100 P.

difeso da:

DE BONIS VITTORIO

VIA DUE TORRI 4 85100 POTENZA

contro:

L.A.M.

VIALE S. M. Z. 24 85016 P.

difeso da:

DE BONIS VITTORIO

VIA DUE TORRI 4 85100 POTENZA

proposto dall’appellante:

AG. ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE POTENZA

VIA DEI MILLE 85100 POTENZA PZ

Atti impugnati:

AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRPEF-ALTRO 2014

AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IVA-OP.IMPONIB. 2014

AVVISO DI ACCERTAMENTO n. (…) IRAP 2014

Svolgimento del processo
L’Agenzia delle Entrate, Direzione provinciale di Potenza, faceva notificare al contribuente, avvisi di accertamento, relativi ad Iva e Irap, con i quali, rettificava, per l’anno 2014, in aumento i ricavi determinati sulla base di presunzioni da indagini finanziarie sui c/c intestati ai soci.

Avverso tale atto la “G.C. di L.A.M. sas” in persona del socio accomandatario e legale rappresentante e i soci G.M. e A. quali litis consortili necessari proponevano ricorso eccependo violazione e falsa applicazione degli artt. 39, co. 2, D.P.R. n. 600 del 1973, 54, D.P.R. n. 633 del 1972, 32, D.P.R. n. 600 del 1973, e 2667 c.c. per illegittimità della determinazione induttivo extracontabile del reddito sotto il profilo della carenza di motivazione e della erronea valutazione degli elementi probatori; violazione e falsa applicazione dell’art. 12, co. 7, L. n. 212 del 2000, in combinato disposto con l’art. 5, D.Lgs. n. 218 del 1997, per violazione del contraddittorio endoprocedimentale e del termine dilatorio di gg. 60 necessario al perfezionamento del contraddittorio endoprocedimentale; violazione degli artt.10 L. n. 265 del 1999, e 1, co. 158, L. n. 296 del 2006, per inesistenza giuridica dell’atto per illegittimità della notificazione.

Chiedevano annullamento degli avvisi di accertamento.

La Commissione Tributaria Provinciale di Potenza, sez. III, in data 10.02/03.03.20 ritenendo che la notifica fosse stata effettuata da soggetto sprovvisto della specifica funzione e nominato dal responsabile dell’area affari generali e non dl Sindaco come previsto dalla normativa, accoglieva il ricorso compensando le spese.

Avverso tale decisione propone appello l’ufficio eccependo violazione e falsa applicazione dellart.36 D.Lgs. n. 546 del 1992 per difetto di motivazione avendo omesso il giudice di indicare gli elementi da cui aveva desunto il proprio convincimento e non avendo effettuato alcuna disamina dei motivi dell’ufficio ; violazione e falsa applicazione degli artt. 60, D.P.R. n. 600 del 1973, e 148, c.p.c. stante la legittimità e correttezza della notifica avvenuta per il tramite di messo comunale. Nel prosieguo dell’atto, non essendo state esaminate dal primo giudice le ulteriori argomentazioni poste a sostegno dell’atto impositivo e rappresentate nel corso del giudizio di primo grado, le ripropone ritrascrivendole e chiedendone l’esame.

Chiede in conseguenza un riesame dell’intera vicenda con conferma degli avvisi di accertamento e trattazione in pubblica udienza.

Con atto in data 01.02.21 il contribuente deposita controdeduzioni con le quali contestata la fondatezza dei motivi d’impugnazione insiste per la conferma della decisione di primo grado.

Per l’odierna l’udienza, in data 15 maggio 2021 il contribuente deposita istanza per la partecipazione da remoto

All’udienza odierna, constata la regolarità delle comunicazioni di trattazione, udite le conclusioni delle parti, come da separato verbale, la causa veniva decisa.

Motivi della decisione
Sul primo motivo con il quale si lamenta la omessa motivazione su tutte le questioni sottoposte all’esame del giudicante va richiamata una recente decisione di legittimità (Cass. civ. sez. V, n. 9262 del 3 aprile 2019,) nella quale si afferma che “Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia.”

Nel caso di specie non manca il provvedimento con il quale si forniva la soluzione del caso ed è presente l’argomentazione, anche con richiami giurisprudenziali e normativi, idonea a rappresentare l’iter logico giuridico seguito per pervenire alla decisione con la quale si statuiva che l’atto d’impulso del giudizio (avviso di accertamento) fosse da considerarsi inesistente per mancanza della qualifica di legge in capo al soggetto che aveva effettuato la consegna.

Orbene la questione affrontata dal primo giudice attenendo alla regolare instaurazione del giudizio è preliminare cosicché la sua fondatezza precludeva al giudicante qualsivoglia esame delle altre questioni di merito che restavano e restano tutte assorbite, in senso improprio, nella decisione di inesistenza della notificazione e quindi di mancata regolare instaurazione del giudizio.

La figura dell’assorbimento è in senso improprio quando, come nel caso, la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto delle domande.

Ne consegue che l’assorbimento non comporta un’omissione di pronuncia in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento. (Cass. civ., sez. I, sent. n. 28663 del 27.12.2013)

Passando all’esame del secondo motivo, con il quale l’appellante lamenta una non corretta interpretazione della normativa attinente al processo di notificazione assumendo la correttezza del proprio operato e la piena legittimità della notifica che ove ritenuta illegittima e, giammai inesistente, sarebbe comunque sanata dal raggiungimento dello scopo. Va precisato che nella specie non si discute del processo notificatiorio “strictu sensu” ma dei riflessi che su questo ha l’essere stato messo in atto da soggetto non in possesso delle necessarie qualifiche per operare la notifica stessa. Infatti, nella prima ipotesi l’atto sarebbe affetto da nullità sanabile per raggiungimento dello scopo, nella seconda ipotesi lo atto sarebbe affetto da insanabilità tale da farlo considerare inesistente.

Il mancato rispetto del procedimento notificatorio non può che produrre l’inesistenza giuridica della notifica e dell’atto stesso, da cui discende l’impossibilità di procedere a sanatoria per il raggiungimento dello scopo. Infatti, a fronte dell’eccezione di carenza di potere del messo, scatta, in capo al resistente, l’onere di provare che il messo era in realtà abilitato alle notifiche; in caso contrario, l’eccezione sollevata dal contribuente deve essere accolta sulla base dei principi relativi all’onere della prova.

Ciò posto, la notifica dell’atto di accertamento non può considerarsi validamente eseguita: pur se nella relata di notificazione vi è la sottoscrizione di chi l’ha redatta, ed è indicata la qualità di messo comunale, con apposizione del timbro del Comune di Pietragalla, in quanto è stata dimostrata dal contribuente l’insussistenza della suddetta qualifica in capo al redattore della relata. Nella documentazione in atti, depositata dallo stesso ufficio, infatti, risulta copia del provvedimento di nomina dell’unico messo comunale del Comune di Pietragalla, effettuata non già dal Sindaco, unico soggetto in grado di attribuire le funzioni di messo comunale a soggetto avente i requisiti, ma dal Dirigente dell’Area Affari Generali ed Amministrativi non avente titolo e potere per potere effettuare la nomina ovvero per potere conferire l’incarico di messo notificatore.

Nella pratica, infatti, è nulla, per difetto di legittimazione all’espletamento delle funzioni di agente notificatore, la notifica effettuata dal messo comunale in assenza del decreto di nomina del sindaco.

Passando a valutare se nel caso, come acclarato, si possa parlare di nullità ovvero di inesistenza dell’atto va detto come la giurisprudenza di legittimità tenda a delimitare (correttamente) ed individuare i casi in cui le notificazioni possano definirsi inesistenti. Da ultimo le SS.U. della Cassazione, pronunciandosi, sono state lapidarie nell’affermare che “ogni qual volta la notifica è posta in essere da un soggetto non qualificato e privo in base alla legge della possibilità di espletare questa attività, la stessa, per totale carenza di potere deve ritenersi inesistente.”

Le Sezioni Unite della Cassazione, dunque, individuano in maniera chiara che ogni qual volta l’attività di notificazione sia posta in essere da un soggetto privo della “posizione giuridica” per poter svolgere tale attività, la stessa non può essere oggetto di sanatoria ex articolo 156 c.p.c., in quanto inesistente, determinando, se contestata come nel caso , la nullità dell’atto che porta la irregolarità, non essendo azione sanante l’impugnazione dell’atto medesimo.

Da quanto detto consegue la reiezione di entrambe i motivi di appello che precludono l’esame di ulteriori questioni poste dal contribuente con il ricorso introduttivo ovvero delle argomentazioni difensive opposte dall’ufficio nelle proprie controdeduzioni.

La particolarità della questione, in deroga al principio si soccombenza, consente e legittima la compensazione delle spese tra le parti nel presente grado di giudizio.

P.Q.M.
Rigetta l’appello proposto dall’ufficio. Spese compensate.

Conclusione
Potenza, il 26 maggio 2021.


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 10-03-2021) 09-06-2021, n. 16183

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35659-2019 proposto da:

AMA – AZIENDA MUNICIPALE AMBIENTE SPA ROMA, in persona dell’Amministratore Unico pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CALDERON DE LA BARCA, 87, presso lo studio dell’avvocato FABIO LITTA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO SCICOLONE;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO DOSSI, n. 45, presso lo studio dell’avvocato MARIA ELISABETTA TABOSSI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 2432/5/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL LAZIO, depositata il 17/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del 10/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ESPOSITO ANTONIO FRANCESCO.

Svolgimento del processo
che:

Con sentenza in data 17 aprile 2019 la Commissione tributaria regionale del Lazio confermava la decisione di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da C.A. contro la cartella di pagamento relativa a Tari per l’anno 2011, emessa a seguito del mancato pagamento del presupposto avviso di accertamento. Rilevava la CTR, in conformità della statuizione del primo giudice, la nullità della notifica dell’atto presupposto, con conseguente invalidità derivata della successiva cartella. Ciò in quanto, non essendo stato l’atto consegnato personalmente al destinatario, l’agente postale avrebbe dovuto effettuare l’adempimento previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, il quale dispone che se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario dell’avvenuta notifica a mezzo di lettera raccomandata.

Avverso la suddetta pronuncia AMA – Azienda Municipale Ambiente S.p.A. Roma – ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

Resiste con controricorso la contribuente.

L’Agenzia delle entrate – Riscossione è rimasta intimata. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio. La controricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla controricorrente, posto che l’atto di impugnazione contiene tutti gli elementi necessari a porre questa Corte in grado di avere piena cognizione della controversia.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, per non avere la CTR considerato che tale disposizione normativa attribuiva agli enti locali, per i tributi di propria competenza, la facoltà di notificare al contribuente, anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, gli atti impositivi. Pertanto, poiché, nella fattispecie, l’ente creditore si era avvalso di tale facoltà, trovavano applicazione le norme del servizio postale ordinario e non la L. n. 890 del 1982, art. 7, come erroneamente ritenuto dal giudice di appello.

La censura è fondata.

Secondo l’orientamento espresso da questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, “In tema di notifica diretta degli atti impositivi, eseguita a mezzo posta dall’Amministrazione senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario, in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario, la notificazione si intende eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza e di deposito presso l’Ufficio Postale (o dalla data di spedizione dell’avviso di giacenza, nel caso in cui l’agente postale, sebbene non tenuto, vi abbia provveduto), trovando applicazione in detto procedimento semplificato, posto a tutela delle preminenti ragioni del fisco, il regolamento sul servizio postale ordinario che non prevede la comunicazione di avvenuta notifica, avendo peraltro Corte Cost. n. 175 del 2018 ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1 (nel rilievo che il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque assicurato dalla facoltà per il contribuente di richiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove dimostri, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, di non aver avuto conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile) (Cass. n. 10131 del 2020).

La sentenza impugnata, ritenendo invalida la notifica dell’avviso di accertamento presupposto della cartella di pagamento impugnata, effettuata sulla base della normativa del servizio postale ordinario, poiché non era stata inviata la successiva raccomandata prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, non si è uniformata al principio di diritto sopra richiamato.

Resta assorbito il secondo motivo di ricorso, con il quale si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 1335 c.c..

Sulla base di tali considerazioni, idonee a superare i rilievi difensivi svolti dalla controricorrente anche in memoria, in accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 11-12-2020) 28-05-2021, n. 15002

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22354/2016 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANDREA VESALIO 22, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO IRTI, rappresentato e difeso dagli avvocati SALVATORE LIUZZO, VALERIA LEONE;

– ricorrenti –

contro

C.C., S.R.A.C., S.V.M.A., C.R., C.L., C.N., S.M., elettivamente domiciliate in Catania, via Pantano n. 70, presso lo studio dell’avv.to ANGELA PATRIZIA GIUCA, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1437/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 24/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 11/12/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Catania accoglieva la domanda proposta da G.R. e dichiarava risolto il contratto preliminare stipulato il 9 ottobre 2003 tra C.A. e R.G., quali promittenti venditori, e G.R., quale promissario acquirente, per inadempimento dei promittenti venditori; condannava gli eredi di C.A. e gli eredi di R.G., ciascuno in proporzione alla propria quota ereditaria, al pagamento in favore della controparte della somma di Euro 72.303,96 corrispondente al doppio della caparra confirmatoria versata dal G..

2. C.N., C., R. e L., eredi di C.A., e S.R.A.C., S.V.M.A. e S.M., eredi di R.G. – che nel costituirsi in giudizio avevano proposto domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto con conseguente richiesta di riconoscimento del diritto al trattenimento della caparra proponevano appello avverso la suddetta sentenza.

3. La Corte d’Appello di Catania, in accoglimento dell’impugnazione rigettava le domande formulate da G.R. e in accoglimento delle domande riconvenzionali formulate dai convenuti dichiarava la risoluzione del contratto preliminare del 9 ottobre 2003 per il legittimo recesso della parte promittente venditrice determinato dall’inadempimento della parte promissaria acquirente, G.R. e il diritto della parte promittente venditrice alla ritenzione della caparra confirmatoria ricevuta.

2. La Corte d’Appello rigettava preliminarmente le eccezioni pregiudiziali circa l’avvenuta estinzione del giudizio per mancata riassunzione in quanto la notificazione dell’atto unitamente al decreto di fissazione dell’udienza era stata effettuata sia agli eredi di C. che a quelli di R.. Anche l’eccezione di tardività della notifica dell’appello doveva ritenersi superata stante la tempestività di quello proposto dai litisconsorti necessari.

Nel merito la Corte d’Appello riteneva che il contratto preliminare stipulato tra le parti, alla stregua dei criteri interpretativi di cui agli artt. da 1362 a 1365 c.c., non aveva ad oggetto un terreno edificabile. Nel contratto preliminare, infatti, i promittenti venditori si impegnavano a vendere un lotto di terreno, senza ulteriore specificazione, anzi dal contratto risultava che le parti concordemente accettavano la soppressione delle parole “non agricolo”. Tale eliminazione, a prescindere dall’iniziativa dell’una o dell’altra parte, era stata accettata da entrambe ed evidenziava in maniera incontrovertibile che l’oggetto del contratto era rappresentato da un terreno, senza ulteriore specificazione di una determinata qualità.

Doveva, dunque, affermarsi che l’edificabilità del lotto non faceva parte della qualità del bene oggetto del contratto promesso dalla parte venditrice. Tale conclusione era confermata anche in applicazione del principio di interpretazione del contratto secondo buona fede come canone di reciproca lealtà di condotta tra le parti. La circostanza che l’edificabilità del terreno non costituisse una qualità promessa della parte venditrice emergeva dal fatto che il terreno in questione, pur eventualmente ricadente in zona c4 e non anche in zona vincolata, era comunque inedificabile per la sua conformazione planimetrica. Ciò era emerso dalla consulenza tecnica e, pertanto, il terreno per le sue dimensioni, a prescindere dal mutamento della destinazione urbanistica, era in concreto inedificabile e di conseguenza era contrario al principio di buona fede invocare l’inadempimento della parte promittente venditrice per non aver dichiarato l’esistenza di un vincolo di inedificabilità a seguito dell’approvazione di una variante al programma di fabbricazione vigente, nonostante l’espressa volontà di acquistare un terreno, di fatto inedificabile, a prescindere dal vincolo imposto.

Secondo la Corte d’Appello il disinteresse del promissario acquirente all’edificabilità o meno del lotto era dimostrato anche dal fatto di aver ritenuto sufficiente l’allegazione di un certificato di destinazione urbanistica rilasciato circa 10 mesi prima della stipulazione del contratto. Peraltro, dal contenuto del contratto non poteva evincersi l’esistenza di un presupposto tenuto presente da entrambi i contraenti nella formazione del loro consenso e condizionante l’esistenza e il permanere del vincolo negoziale, anzi la cancellazione delle parole non agricolo rendeva evidente l’insussistenza di tale presupposto.

Il G. non aveva, peraltro, fornito la prova dell’esternazione alla controparte dello scopo di voler comprare il terreno per edificare. L’allegazione di un certificato di destinazione urbanistica che non riproduceva la reale qualità del terreno non poteva da sola essere espressione di una garanzia del venditore relativa alle destinazione edificatoria del terreno oggetto del preliminare. Al contrario da quanto era emerso doveva dedursi che i promittenti venditori si erano impegnati a vendere un terreno senza ulteriore qualità e il G. si era impegnato ad acquistare il lotto in questione a prescindere dalla sua edificabilità, risultando dunque irrilevante ai fini della decisione la consapevolezza o meno dei venditori del mutamento della destinazione urbanistica del bene avvenuta già prima della stipulazione dell’atto.

In ogni caso il vincolo imposto all’immobile con deliberazione del consiglio comunale n. 33 del 10 aprile 2003 non poteva qualificarsi come onere non apparente gravante sull’immobile, secondo la previsione dell’art. 1479 c.c. e non era conseguentemente invocabile dal compratore come fonte di responsabilità della controparte che non l’aveva dichiarato nel contratto. Con la suddetta Delibera l’area in questione era stata classificata come parco naturalistico e dunque inedificabile in applicazione delle misure di salvaguardia. La deliberazione di adozione del piano regolatore e del programma di fabbricazione, atto collegiale esprimente la volontà definitiva dell’ente pubblico, conferiva agli strumenti edilizi un’efficacia immediata sia pur limitata.

In conseguenza dell’adozione degli stessi secondo la Corte d’appello divenivano operanti le cosiddette misure di salvaguardia le quali conferivano ai sindaci dei Comuni il potere-dovere di sospendere ogni decisione sulle domande di concessione o autorizzazione edilizia in contrasto con il programma adottato. L’affissione nell’albo pretorio delle deliberazioni comunali effettuata nei modi e termini di legge costituiva una forma di pubblicità legale di per sè esaustiva ai fini della presunzione assoluta di piena conoscenza erga omnes allorquando tali atti non fossero direttamente riferibili a soggetti determinati. Peraltro, la mancanza di una garanzia sulla destinazione edificatoria del suolo e l’allegazione di un certificato risalente nel tempo imponevano al compratore di indagare sulla qualità del suolo. Infine, era possibile rilevare di ufficio la non apparenza del vizio anche senza allegazione della parte risultando la stessa dagli atti.

3. G.R. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi.

4. C.N., C., R. e L., eredi di C.A., e S.R.A.C., S.V.M.A. e S.M., eredi di R.G., si sono costituiti con controricorso.

5. Entrambe le parti, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, hanno insistito nelle rispettive richieste.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., in materia di interpretazione dei contratti e dei principi regolatori dei criteri di ermeneutica contrattuale. Violazione dei criteri di interpretazione soggettiva del contratto diretti all’accertamento della comune volontà delle parti. Violazione del criterio di interpretazione secondo il tenore letterale del contratto.

La censura ha ad oggetto la violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale e, in particolare, di quello che richiede al giudice di compiere una valutazione complessiva di tutte il contenuto dell’accordo in ogni sua parte. Anche solo in base alla complessiva disamina letterale del contratto preliminare del 9 ottobre 2003 emergerebbe che aveva ad oggetto un lotto di terreno dalle specifiche caratteristiche edificatorie. In tal senso secondo il ricorrente deporrebbe anche la circostanza fondamentale della allegazione al preliminare del certificato di destinazione urbanistica del terreno contenente l’espressa descrizione delle specifiche caratteristiche e qualità edificatorie del fondo oggetto di contestazione, documento che era stato sottoscritto da tutti i contraenti, così da costituire parte integrante e sostanziale del contratto preliminare.

Anche l’entità del prezzo convenuto in Euro 72.303,96 era in linea con il valore di mercato di un terreno edificabile anche tenuto conto dell’estensione del lotto di appena 2464 mq.

Pertanto, l’eliminazione delle parole “non agricolo” dal contratto, alla luce delle caratteristiche oggettive promesse dai venditori in ordine al bene oggetto del preliminare, dimostrerebbe che la suddetta indicazione era superflua.

Nel contratto preliminare,di cui faceva parte integrante anche il certificato di destinazione urbanistica del terreno, era fin dall’inizio esattamente specificata ed indicata in maniera chiara ed incontrovertibile la sua edificabilità. In forza di una corretta applicazione dei criteri di interpretazione soggettiva del contratto la Corte d’Appello di Catania avrebbe dovuto condividere quanto ritenuto dal Tribunale a fondamento della propria decisione, rilevando l’inadempimento dei promittenti venditori ed il diritto del G. di ottenere il recesso del preliminare e il pagamento del doppio della caparra confirmatoria a causa del sopravvenuto accertamento dell’inesistenza della qualità edificatoria del fondo a causa del vincolo posto dagli organi competenti in data antecedente la stipula del contratto.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 1366 c.c., in materia di interpretazione dei contratti – Violazione del criterio di interpretazione oggettiva del contratto secondo il principio di buona fede. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, consapevolezza dei promittenti venditori dell’esistenza del vincolo.

Anche il secondo motivo attiene alla violazione dei canoni di interpretazione del contratto, questa volta con riferimento al principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c., evidenziato dalla Corte d’Appello ma di fatto erroneamente applicato. Tale canone di interpretazione permea anche la fase di formazione del contratto. Nel caso di specie i promittenti venditori avevano allegato e sottoscritto un certificato di destinazione urbanistica che apparentemente riportava le caratteristiche edificatoria del terreno oggetto di vendita. In atti vi era però specifica prova documentale del fatto che alla data di stipula del preliminare i promittenti venditori avevano piena consapevolezza che la potenzialità edificatoria riportata nel certificato di destinazione urbanistica era venuta meno per effetto del vincolo di inedificabilità assoluta apposto al terreno con provvedimento del 10 aprile 2003. Infatti, i promittenti venditori avevano proposto ricorso al Tar di Catania contro il diniego a realizzare dei manufatti sul citato terreno in conseguenza dell’intervenuto vincolo di inedificabilità. In atti vi erano, dunque, specifici riscontri documentali della malafede dei promittenti venditori che nel corso del giudizio avevano negato di essere a conoscenza dell’esistenza del vincolo e che anzi ne avevano addirittura negato l’esistenza.

Secondo il ricorrente la Corte d’Appello si sarebbe soffermata unicamente sulla condotta del promissario acquirente quando avrebbe dovuto valutare la condotta di entrambe le parti anche in relazione al principio contrattuale della buona fede, quale obbligo di lealtà, di solidarietà, correttezza e collaborazione previsto dalla legge per ogni parte contrattuale.

La malafede dei promittenti venditori avrebbe determinato il G. a fare affidamento su quanto certificato circa la sussistenza delle qualità edificatoria del terreno che si obbligava ad acquistare senza procedere ad ulteriori accertamenti al riguardo se non al momento della stipula del definitivo allorquando era emersa la situazione diversa del bene.

Neanche rileverebbe la sostanziale inedificabilità del terreno per la sua conformazione come risulterebbe provato proprio dalla condotta dei venditori che avevano tentato di attuare un’iniziativa edificatoria che il Comune aveva negato solo per l’apposizione del vincolo e non per l’obbligo di staccarsi dal confine. La questione della consapevolezza da parte dei promittenti venditori dell’esistenza del vincolo di inedificabilità rappresentava un fatto decisivo per il giudizio oggetto di specifica discussione tra le parti.

2.1 Il primo e il secondo motivo di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono in parte inammissibili, in parte infondati.

Nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata l’interpretazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, infatti, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra la volontà dei contraenti così come ritenuta dal ricorrente e quella invece accertata dalla sentenza impugnata, ma debbono essere proposte o sotto il profilo della mancata osservanza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, delle norme che fissano i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c. ovvero, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore ratione temporis, del vizio di motivazione consistito nell’omesso esame di un fatto decisivo, a condizione, però, che, in ossequio al principio dell’onere di specificità del motivo, tali censure siano accompagnate dalla trascrizione, nel corpo del ricorso, almeno nella stesura che ne consenta la piena comprensione, delle clausole asseritamente individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di cassazione di valutarne la fondatezza senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte: ciò che, nel caso di specie, non è accaduto. I ricorrenti, infatti, non hanno provveduto alla trascrizione del contenuto del contratto nella misura minima necessaria a consentirne la comprensione. L’interpretazione di un atto negoziale, del resto, è un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che, come accennato, nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.). Il sindacato di legittimità può avere, quindi, ad oggetto solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. n. 23701 del 2016). Pertanto, al fine di riscontrare l’esistenza dei denunciati errori di diritto o vizi di ragionamento, non basta che il ricorrente faccia, com’è accaduto nel caso di specie, un astratto richiamo alle regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., occorrendo, invece, che specifichi, per un verso, i canoni in concreto inosservati e, per altro verso, il punto e il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato (Cass. n. 7472 del 2011; più di recente, Cass. n. 27136 del 2017). Ne consegue l’inammissibilità del motivo di ricorso che, come quelli in esame, pur denunciando la violazione delle norme ermeneutiche o il vizio di motivazione, si risolva, in realtà, nella mera proposta di una interpretazione diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito (Cass. n. 24539 del 2009), così come è inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati (Cass. n. 2465 del 2015, in motiv.). In effetti, per sottrarsi al sindacato di legittimità sotto i profili di censura dell’ermeneutica contrattuale, quella data dal giudice al contratto non dev’essere l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 16254 del 2012; conf., più di recente, Cass. 27136 del 2017).

Nella specie, la Corte d’Appello ha affermato che la promessa di vendita stipulata tra le parti non aveva ad oggetto un terreno edificabile, evidenziando che nell’ambito della trattativa per la stipula del contratto le parti si erano accordate per la cancellazione dal testo dell’espressione “non agricolo”. Tale circostanza, non contestata, evidenzia che, nell’ambito dell’accordo negoziale, l’aspetto dell’edificabilità del terreno era stato esplicitamente considerato, tanto da determinare l’esigenza di precisare che il terreno era promesso in vendita a prescindere dalla sua edificabilità.

D’altra parte, il contenuto del contratto non è riportato e il ricorrente non indica nessun’altro elemento, non valutato dalla Corte d’Appello, da cui ricavare che il bene promesso in vendita fosse un terreno con la specifica qualità della sua edificabilità. L’allegazione del certificato di destinazione urbanistica, oltre ad essere anch’essa considerata nella motivazione della Corte d’Appello, rientra tra le attività ordinarie nell’ambito della stipula dei contratti preliminari di compravendita di beni immobili e il fatto che il suddetto certificato non fosse aggiornato non è sufficiente a supportare una diversa interpretazione della volontà negoziale di segno contrario a quella esplicitata nel testo dai contraenti.

In conclusione, deve ribadirsi che il sindacato di legittimità può avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto. Nella specie nessun canone di interpretazione negoziale risulta violato, compreso quello della buona fede, posto che, come si è detto, la cancellazione della dicitura “non agricolo” è segno di un comportamento delle parti che hanno ritenuto di escludere l’edificabilità del terreno dal vincolo contrattuale.

Una volta ricostruita la volontà negoziale rispetto all’oggetto del contratto perdono di consistenza tutte le restanti censure attinenti alla edificabilità in concreto del suolo e alla consapevolezza dei promittenti venditori del cambio di destinazione del terreno.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1373, 1385, 1453, 1498, 1490 e 1497 c.c., in materia di recesso unilaterale e caparra confirmatoria, vizi della cosa. Violazione degli artt. 99, 112, 342 c.p.c., in merito alla corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e alla specifica proposizione dei motivi di appello e alla rilevabilità d’ufficio dell’eccezioni.

Il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di chiarire che il promissario acquirente non può avvalersi della disciplina relativa alla garanzia dei vizi della cosa venduta o di quella di cui all’art. 1497 c.c., relativa alla garanzia per mancanza di qualità della cosa venduta le quali presuppongono la conclusione del contratto definitivo e sono estranee al contratto preliminare che ha ad oggetto un facere e non un dare.

Sarebbe dunque illogica l’affermazione secondo la quale il vincolo di inedificabilità era assistito da una presunzione legale di conoscenza erga omnes e, dunque, privo del requisito normativo della non apparenza.

Il ricorrente evidenzia che l’apposizione di un vincolo assoluto di inedificabilità sui singoli terreni ricompresi in una zona deve essere qualificato come un atto direttamente riferibile a soggetti determinati dunque esclusi dalla presunzione di conoscenza. Ma in ogni caso, anche a prescindere da tale considerazione, la questione dell’apparenza del vizio non era mai stata introdotta in giudizio in primo grado e neppure in appello tanto che la Corte aveva ritenuto necessario motivare sulla rilevabilità d’ufficio. Ne consegue che la Corte avrebbe erroneamente qualificato la domanda del G. come azione di garanzia ex art. 1489 c.c., subordinando l’azione all’apparenza del vizio mentre il G. aveva agito unicamente per dichiarare legittimo il recesso dall’impegno preliminare di vendita per inadempimento del venditore, non potendo questi trasferire un terreno con le caratteristiche edificatoria promesse. Secondo il ricorrente dunque vi sarebbe un duplice errore sia circa la rilevanza dell’apparenza del vizio sia sulla sua rilevabilità d’ufficio.

3.1 Il terzo motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha individuato l’oggetto del contratto per stabilire se vi fosse stato un inadempimento da parte dei promittenti venditori che potesse giustificare il recesso del G. e la restituzione del doppio della caparra o se l’inadempimento dovesse essere a lui attribuito con diritto di C.A. e R.G. a trattenere la caparra. Come si è detto con riferimento ai primi due motivi, la Corte d’Appello ha ritenuto che l’edificabilità del terreno fosse stata volutamente esclusa dall’oggetto del contratto.

Peraltro, la Corte d’Appello ha correttamente richiamato l’orientamento consolidato di questa Corte secondo il quale “i vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia “erga omnes”, come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicchè i vincoli in tal modo imposti, a differenza di quelli inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 c.c. e non sono, conseguentemente, invoca bili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore, che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto” (Sez. 2, Sent. n. 14289 del 2018; Sez. 2, Sent. n. 2737 del 2012).

Da un lato, quindi, il vincolo di inedificabilità costituiva un “onere apparente”, in quanto i limiti posti dall’amministrazione comunale non erano contenuti in singoli atti intercorsi fra il Comune e i proprietari dei terreni, ma erano ricavabili dai piani urbanistici e, pertanto, conoscibili a tutti e, dall’altro, alla luce dell’interpretazione dell’intero contratto condotta dalla Corte d’Appello secondo i criteri sopra indicati, doveva escludersi l’affidamento del promittente acquirente circa l’edificabilità del terreno dato che si era deciso di escludere la dicitura “non agricolo” dal contratto.

Deve ribadirsi pertanto che nella vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di godimento di terzi, la conoscibilità del vincolo urbanistico gravante sulla cosa, idonea ad escludere la responsabilità del venditore ex art. 1489 c.c., deve essere valutata in concreto, alla luce della natura del vincolo medesimo e della possibilità per l’acquirente di avvertire la necessità di compiere una verifica e che deve escludersi la possibilità per il promissario acquirente di richiedere la risoluzione del contratto quale conseguenza automatica della presenza di un vincolo sul bene dovendo verificarsi i presupposti della risoluzione ai sensi dell’art. 1489 c.c..

4. Il ricorso è rigettato.

5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5200 di cui 200 per esborsi;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 11 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2021


T.A.R. Puglia Lecce, Sez. III, Sent., (data ud. 11/05/2021) 28/05/2021, n. 820

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia

Lecce – Sezione Terza

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 386 del 2019, integrato da motivi aggiunti, proposto da M.J., rappresentata e difesa dall’avvocato Giuseppe Cipressa, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Galatone, via Savoia, n. 92;

contro

Accademia di Belle Arti di Lecce, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce, domiciliataria ex lege in Lecce, piazza S. Oronzo;

nei confronti

C.M., rappresentata e difesa dagli avvocati Angela Tinelli e Gaetano Amatulli, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia;

Per quanto riguarda il ricorso introduttivo:

per l’accertamento

dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Accademia di Belle Arti di Lecce sull’istanza presentata a mezzo PEC dalla ricorrente in data 22 dicembre 2018 e sulla ulteriore diffida-sollecito del 18 gennaio 2019, volte ad ottenere l’accesso a tutti gli atti della “Procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica” indetta dal medesimo Istituto ;

nonché per l’annullamento,

previa adozione di idonee misure cautelari,

– del Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018, pubblicato sul sito istituzionale dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (www.accademialecce.it) in pari data, con il quale il Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce ha approvato gli atti della procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica ed il relativo elenco di idonei (che ha visto collocarsi al primo posto C.M. ed in seconda posizione la ricorrente M.J.),

– di ogni altro atto ad esso prodromico, contestuale, connesso o successivo, ivi compresa la graduatoria finale;

nonché per la condanna dell’Accademia di Belle Arti di Lecce:

– all’attribuzione, in via cautelare, dell’insegnamento di che trattasi per l’A.A. 2018/2019;

– al risarcimento per equivalente dei danni subiti in conseguenza dei comportamenti tenuti e degli atti adottati dall’Amministrazione.

Per quanto riguarda i motivi aggiunti presentati dalla ricorrente il 19 luglio 2019:

per l’accertamento

dell’illegittimità del silenzio serbato dall’Accademia di Belle Arti di Lecce sull’istanza presentata a mezzo PEC dalla ricorrente in data 22 dicembre 2018 e sulla ulteriore diffida-sollecito del 18 gennaio 2019 volte ad ottenere l’accesso a tutti gli atti della “Procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica” indetta dal medesimo Istituto;

nonché per l’annullamento,

previa adozione di idonee misure cautelari,

– del Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018, pubblicato sul sito istituzionale dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (www.accademialecce.it) in pari data, con il quale il Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce ha approvato gli atti della procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica ed il relativo elenco di idonei (che ha visto collocarsi al primo posto C.M. ed in seconda posizione la ricorrente M.J.);

– di ogni altro atto ad esso prodromico, contestuale, connesso o successivo, ivi compresa la graduatoria finale e l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019);

nonché per la condanna dell’Accademia di Belle Arti di Lecce:

– all’attribuzione, anche in via cautelare, dell’insegnamento di che trattasi per l’A.A. 2018/2019;

– al risarcimento per equivalente dei danni subiti in conseguenza dei comportamenti tenuti e degli atti adottati dall’Amministrazione.

Visti il ricorso, i motivi aggiunti e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Accademia di Belle Arti di Lecce e di C.M.;

Visti tutti gli atti della causa;

Visto l’art. 84 del D.L. n. 18 del 2020;

Visto l’art. 4 del D.L. n. 28 del 2020;

Visto l’art. 25 del D.L. n. 137 del 2020;

Visto l’art. 1 comma 17 del D.L. n. 183 del 2020;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 11 maggio 2021 il dott. Giovanni Gallone e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Svolgimento del processo
1. Con ricorso notificato il 19 febbraio 2019 e depositato il 21 marzo 2019 la ricorrente, già in precedenza docente a contratto di “Inglese per la comunicazione artistica” presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce e partecipante alla “Procedura comparativa pubblica per titoli finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica” indetta dal medesimo Istituto, ha domandato l’accertamento e la dichiarazione di illegittimità ex art. 117 c.p.a. (rectius art. 116 c.p.a.) del silenzio illegittimamente serbato dall’Accademia di Belle Arti di Lecce sull’istanza presentata a mezzo PEC dalla ricorrente in data 22 dicembre 2018 e sulla ulteriore diffida-sollecito del 18 gennaio 2019 volte ad ottenere l’accesso a tutti gli atti della prefata procedura comparativa e l’estrazione di copia delle relative schede di valutazione, delle griglie di valutazione compilate dalla Commissione, dei criteri adottati per l’attribuzione dei punteggi e di ogni altro documento riguardante la valutazione e le relative operazioni condotte dalla Commissione in relazione ai titoli prodotti dalla ricorrente e dagli altri partecipanti alla stessa, nonché i relativi verbali. Ha, altresì, contestualmente domandato l’annullamento ex art. 29 c.p.a., previa adozione di idonee misure cautelari, del Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018, pubblicato sul sito istituzionale dell’Accademia di Belle Arti di Lecce (www.accademialecce.it) in pari data, con il quale il Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce ha approvato gli atti della procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica ed il relativo elenco di idonei (che ha visto collocarsi al primo posto C.M. ed in seconda posizione la ricorrente M.J.), nonché di ogni altro atto ad esso prodromico, contestuale, connesso o successivo, ivi compresa la graduatoria finale.

Ha, poi, chiesto la condanna dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce all’attribuzione, anche in via cautelare, dell’insegnamento di che trattasi per l’A.A. 2018/2019 nonché al risarcimento del danno subito in conseguenza dei comportamenti tenuti e degli atti adottati dall’Amministrazione.

1.1 A sostegno delle domande proposte ha dedotto i motivi così rubricati:

1) violazione e falsa applicazione dell’art. 31 del cod. proc. amm.;

2) eccesso di potere dell’amministrazione convenuta, arbitrarietà nell’emanazione dei giudizi. anomalie nella valutazione, illogicità manifesta della procedura valutativa, difetto di motivazione.

3) eccesso di potere per sviamento dell’interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione in riferimento all’art. 97 della Costituzione, inosservanza del disposto di cui all’art. 2 bis della L. n. 241 del 1990.

2. Ad esito dell’udienza in Camera di Consiglio del 10 aprile 2019 con ordinanza cautelare n. 215 dell’11 aprile 2019 questa Sezione, ritenendolo necessario ai fini della decisione sull’istanza cautelare, ha ordinato all’Accademia delle Belle Arti di Lecce, in persona del legale rappresentante pro tempore, “l’esibizione di tutti gli atti della procedura comparativa di che trattasi e di una dettagliata relazione di chiarimenti sulla vicenda dedotta in contenzioso”.

3. In data 6 giugno 2019 l’Accademia delle Belle Arti di Lecce ha adempiuto all’ordine istruttorio impartito con l’ordinanza cautelare n. 215 dell’11 aprile 2019, depositando la documentazione di interesse ma senza depositare la richiesta relazione di chiarimenti.

4. All’udienza in Camera di Consiglio dell’11 giugno 2019, il Presidente, in accoglimento della richiesta avanzata dalla difesa di parte ricorrente, ha disposto il rinvio dell’udienza alla Camera di Consiglio del 24 luglio 2019, al fine di consentire la notifica del ricorso alla controinteressata, individuata (inequivocamente) solo a seguito dell’adempimento istruttorio.

5. Con motivi aggiunti notificati in data 15 luglio 2019 anche alla controinteressata C.M. e depositati in data 19 luglio 2019 la ricorrente ha addotto nuove ragioni a sostegno delle domande già proposte ed ha, altresì domandato l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, degli atti allo stesso successivi al Decreto Direttoriale Prot. n. (…) del 21 dicembre 2018 già impugnato, compreso l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019). In particolare, ha dedotto le censure così rubricate:

1) eccesso di potere dell’amministrazione convenuta, arbitrarietà nell’emanazione dei giudizi, anomalie nella valutazione, illogicità manifesta della procedura valutativa;

2) eccesso di potere per sviamento dell’interesse pubblico al buon andamento della pubblica amministrazione in riferimento all’art. 97 della Costituzione;

3) manifesta illogicità ed inadeguatezza della valutazione, eccesso di potere per contraddittorietà ed illogicità manifesta, difetto di motivazione di cui all’art. 3 della L. n. 241 del 1990;

4) genericità dei criteri di valutazione.

6. All’udienza in Camera di Consiglio del 24 luglio 2019, il Presidente, in accoglimento della richiesta avanzata dalla difesa di parte ricorrente, ha disposto il rinvio dell’udienza alla Camera di Consiglio del 3 settembre 2019.

7. In data 1 agosto 2019 si è costituita in giudizio, per resistere al ricorso per motivi aggiunti, la controinteressata C.M.. Il successivo 29 agosto 2019 la stessa ha depositato memorie difensive.

8. All’udienza in Camera di Consiglio del 3 settembre 2019, il Presidente, su richiesta della difesa di parte ricorrente, preso atto dell’intervenuta conclusione del corso di insegnamento di che trattasi, ha disposto a cancellazione della causa dal ruolo delle istanze cautelari.

9. In data 31 marzo 2021 la controinteressata C.M. si è costituita in giudizio a mezzo di nuovi difensori. Il successivo 9 aprile 2021 la stessa ha depositato una memoria difensiva.

10. In data 14 aprile 2021 si è costituita in giudizio a mezzo dell’Avvocatura erariale l’Accademia delle Belle Arti di Lecce.

11. In data 20 aprile 2021 l’Avvocatura dello Stato ha formulato, nell’interesse dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce, un’istanza di remissione in termini ex art. 37 c.p.a. rappresentando che “il ricorso originario e i successivi motivi aggiunti ex art. 43 c.p.a. sono stati notificati, su istanza della ricorrente, nei confronti dell’Accademia di Belle Arti di Lecce, direttamente presso la sede della stessa, sita in L., Via G. L. n. 3, e non già presso la sede della Avvocatura Distrettuale dello Stato di Lecce che ne assicura ex lege la Difesa”. L’Avvocatura erariale ha aggiunto che per tale ragione l’Accademia delle Belle Arti di Lecce “non ha mai formalizzato la costituzione in giudizio con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato” sino a quando, in data 8 aprile 2021, è stato notificato, questa volta ritualmente nei confronti della Accademia presso l’Avvocatura Dello Stato di Lecce, l’atto di costituzione di nuovo difensore e nuova elezione di domicilio della controinteressata C.M.. L’Accademia ha, dunque, formalizzato la propria costituzione a mezzo dell’Avvocatura dello Stato nel presente giudizio solo data in 14 aprile 2021, ricevendo in pari data copia dell’avviso di fissazione della udienza pubblica dell’11 maggio 2021 per la trattazione del merito del ricorso (avviso, invero, già emesso in data 16 ottobre 2020). Alla luce di ciò l’Avvocatura dello Stato, rilevato “che la nullità della notifica del ricorso introduttivo della lite ha impedito la regolare instaurazione del contraddittorio nei confronti della Amministrazione resistente, che ha sanato detta nullità solo a seguito del primo atto formalmente idoneo ed efficace (la costituzione del nuovo difensore della controinteressata) alla costituzione, peraltro parziale, del rapporto processuale nei confronti della Accademia”, ha chiesto la remissione in termini “rispetto alla presentazione di documenti, al deposito di memoria difensiva, nonché di eventuale, successiva replica ai sensi dell’art. 73 c.p.a.”.

12. All’udienza pubblica dell’11 maggio 2021 la causa è stata introitata per la decisione ai sensi degli artt. 1 comma 17 del D.L. n. 183 del 2020 con riferimento agli artt. 84 del D.L. n. 18 del 2020, 4 del D.L. n. 28 del 2020 e 25 del D.L. n. 137 del 2020.

Motivi della decisione
1. In limine deve essere respinta l’istanza di remissione in termini formulata dalla difesa erariale.

E’, infatti, appena il caso di notare che questa Sezione ha già affrontato ex professo e risolto in senso negativo la questione dell’applicabilità all’Accademia di Belle Arti dello speciale regime di notifica di cui all’art. 11 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 nell’ambito della sentenza, divenuta di irrevocabile, del 10 giugno 2019 n. 958, pronunciata tra le stesse parti nell’ambito del giudizio n. 835/2018 Reg. Ric.. con riguardo ad una vicenda perfettamente sovrapponibile a quella che occupa e relativa alla procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica per l’A.A. 2017-2018.

Si è, in tale sede, infatti, precisato che “alle Accademie delle Belle Arti, dopo la riforma di cui alla L. 21 dicembre 1999, n. 508 (“Riforma delle Accademie di belle arti, dell’Accademia nazionale di danza, dell’Accademia nazionale di arte drammatica, degli Istituti superiori per le industrie artistiche, dei Conservatori di musica e degli Istituti musicali pareggiati”) non può essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di enti pubblici autonomi (cfr. art. 2 della citata L. n. 508 del 1999); con la conseguenza che (come già evidenziato nella fase cautelare del giudizio), ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio disciplinato agli artt. 1 – 11 del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, bensì il patrocinio facoltativo/autorizzato ex art. 43 del medesimo R.D. n. 1611 del 1933, con la conseguente inapplicabilità delle disposizioni sulla domiciliazione “ex lege” presso l’Avvocatura dello Stato ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (si vedano, per “eadem ratio”, i principi espressi, con riferimento alle Università degli Studi, da Cassazione Civile, Sezioni Unite, 10 maggio 2006, n. 10700)” (T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. III, 10 giugno 2019 n. 958).

Ne consegue che risulta, anche nella vicenda in esame, corretta la notificazione del ricorso ritualmente effettuata presso la sede reale dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce.

2. Va, poi, sempre in via preliminare, delibata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per nullità della notificazione del ricorso introduttivo sollevata dalla difesa della controinteressata C.M.. In particolare, si eccepisce che parte ricorrente avrebbe dovuto notificare personalmente l’atto introduttivo alla controinteressata nelle forme dell’art. 139 c.p.c. e non nella persona della “Sig.ra M.C. … presso l’Accademia delle Belle Arti di Lecce con sede in 73100 L. alla Via G. L. n.3”. Inoltre, non potrebbe ritenersi perfezionata neppure la successiva notifica effettuata nelle forme dell’art. 143 comma 2 c.p.a. osservandosi, in proposito, che sia la ricorrente che il suo difensore sarebbero stati perfettamente consapevoli della circostanza per cui la controinteressata, indicata nel Decreto Direttoriale impugnato come “M.C.” a causa di un mero refuso di battitura, era M.C.. Ciò in quanto quest’ultima era risultata vincitrice della precedente procedura indetta dall’Accademia delle Belle Arti di Lecce per l’A.A. 2017/2018, il cui provvedimento definitorio è stato oggetto di impugnazione da parte dell’odierna ricorrente nell’ambito del giudizio n. 835/2018 Reg. Ric..

2.1 L’eccezione non coglie nel segno.

Il Collegio ritiene che la notifica del ricorso introduttivo si sia ritualmente perfezionata nei confronti della controinteressata C.M. ai sensi e per gli effetti dell’art. 143 comma 2 c.p.a.. Infatti, sussisteva, al momento della proposizione del ricorso introduttivo, un’obiettiva incertezza circa la corretta identità della controinteressata. Detta situazione di incertezza, di certo non imputabile alla parte ricorrente e non superabile in via induttiva, ha giustificato, anche in ragione del mancato perfezionamento della prima notifica operata presso la sede dell’Accademia delle Belle Arti di Lecce, il ricorso alla forma residuale di notificazione di cui all’art. 143 comma 2 c.p.c.

Deve aggiungersi, in ogni caso, che l’intervenuta costituzione in giudizio della controinteressata (la quale ha compiutamente controdedotto) ha sanato con effetto retroattivo ogni eventuale difetto di notifica.

3. Nel merito, il ricorso, come integrato da motivi aggiunti, è, in parte, improcedibile per cessata materia del contendere e, in parte, fondato nei sensi appresso precisati.

4. Anzitutto, occorre rilevare che il ricorso è divenuto in parte qua improcedibile per cessazione della materia del contendere limitatamente alla domanda proposta avverso il silenzio (da riqualificare, in ragione del suo contenuto sostanziale, in actio ad exhibendum ex art. 116 comma 1 c.p.a.) a seguito dell’intervenuta ostensione della documentazione richiesta da parte dell’Accademia resistente in adempimento di ordinanza n. 215 dell’11 aprile 2019 di questa Sezione (emessa nella fase cautelare del giudizio).

Ciò ha, infatti, determinato, all’evidenza, l’integrale soddisfazione della pretesa ostensiva di parte ricorrente ai sensi dell’art. 34 comma 5 c.p.a..

5. Deve, invece, essere accolta la domanda di annullamento del Decreto Direttoriale prot. n. (…)/B3 del 21 dicembre 2018 con il quale il Direttore dell’Accademia di Belle Arti di Lecce ha approvato gli atti della procedura comparativa pubblica per titoli, finalizzata alla stipulazione di contratti didattici Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 – insegnamento: Inglese per la comunicazione artistica e la relativa graduatoria finale (che ha visto collocarsi al primo posto C.M. ed in seconda posizione la ricorrente M.J.) e degli atti allo stesso successivi, compreso l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019).

5.1 Occorre, in proposito, preliminarmente rilevare che, pur essendo, ormai da tempo, terminato l’A.A. 2018/2019 ed i relativi corsi (tra cui quello di “Inglese per la comunicazione artistica”), non risulta comunque venuto meno l’interesse di parte ricorrente ad ottenere la rimozione con decorrenza ex tunc degli effetti giuridici ed economici degli atti impugnati, anche ai fini della corretta riformulazione, ora per allora, della graduatoria concorsuale di che trattasi.

5.2 Tanto premesso, appaiono certamente fondate le censure mosse da parte ricorrente contro gli atti impugnati in seno al secondo motivo di gravame del ricorso introduttivo, così come integrato a mezzo del primo motivo aggiunto.

Con essi si denuncia la violazione dell’art. 5 del Bando di concorso e dell’art. 4 comma 2 del Regolamento dell’Accademia di Belle Arti di Lecce recante la disciplina della procedura per il conferimento degli incarichi esterni e supplenti, entrambi richiamati dalla Commissione Esaminatrice nel corso della riunione del 20 dicembre 2018, che individuerebbero, quale primo criterio di valutazione dei candidati al fine della formazione della graduatoria finale, la “a) qualificazione professionale”. Osserva parte ricorrente che dalla documentazione presentata dalla controinteressata Dott.ssa C. si evincerebbe chiaramente che ella non sarebbe in possesso di alcun titolo specifico che la renda maggiormente idonea all’insegnamento della lingua inglese rispetto alla seconda classificata in quanto mentre ella risulterebbe essere in possesso di laurea triennale in scienze storico artistiche e laurea specialistica in storia dell’arte, la ricorrente Prof.ssa M. risulterebbe essere in possesso di Laurea in Lingue e Letterature Straniere, conseguita con il massimo dei voti, ed oltre a tale titolo (già da solo sufficiente a posizionarsi prima in graduatoria) avrebbe conseguito l’abilitazione all’insegnamento per la Lingua Inglese. La Commissione esaminatrice avrebbe, invece, irragionevolmente ritenuto, con riferimento alla controinteressata, “particolarmente significativa la presenza nel C.V. di una formazione internazionale … nell’ambito della comunicazione artistica in lingua inglese”, senza prendere, a tal fine, in considerazione che l’insegnamento messo a concorso è denominato nell’Avviso pubblico quale “Inglese per la comunicazione artistica”.

È appena il caso di notare che trattasi di doglianza analoga a quella già dedotta, a fronte di identica lex specialis, in seno al primo motivo di gravame del ricorso introduttivo del giudizio n. 835/2018, accolto da questa Sezione con la già citata sentenza, divenuta irrevocabile, n. 958 del 10 giugno 2019.

Ritiene, pertanto, il Collegio di non doversi discostarsi da quanto già osservato in tale sede.

Appare, in particolare, manifestamente erronea, ai fini dell’affidamento dell’insegnamento de quo (“Inglese per la Comunicazione Artistica”), la valutazione dei titoli di studio e professionali e delle esperienze maturate espressa dalla Commissione Esaminatrice con riguardo alle due candidate in questione, considerato che la ricorrente è laureata in “Lingue e Letteratura Inglese”, nonché abilitata all’insegnamento di “Inglese”, nel mentre la controinteressata ha conseguito laurea specialistica in “Storia dell’Arte”. Detto ultimo titolo di studio non riscontra, infatti, a differenza di quello vantato dalla Prof.ssa M., le specificità proprie dell’incarico di insegnamento in questione, che vede, senza dubbio, prevalente, alla luce della sua denominazione formale e del contenuto del Programma Didattico, la componente linguistica su quella storico- artistica.

Deve, quindi, essere disposto l’annullamento del Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018 e dei successivi atti ivi compreso l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019) con conseguente ordine di attribuzione in favore della ricorrente, ora per allora, dell’insegnamento “Inglese per la comunicazione artistica” nell’ambito dei Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 tenuti dall’Accademia di Belle Arti di Lecce.

6. Rimane, in ultimo, da scrutinare la domanda di risarcimento per equivalente monetario dei danni sofferti dalla ricorrente in conseguenza dell’adozione da parte dell’Amministrazione resistente degli atti impugnati.

La domanda in parola è fondata e merita accoglimento.

Sussistono, infatti, tutti i presupposti di legge per la configurabilità in capo all’Accademia di Belle Arti di Lecce di una responsabilità per fatto illecito da attività provvedimentale illegittima, secondo le coordinate da ultimo ribadite nella decisione n. 7 del 27 aprile 2021 dell’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato.

6.1 Anzitutto, sussiste, per le ragioni già esposte al punto 5.2, il presupposto della (patente) illegittimità dei provvedimenti lesivi.

6.2 Parimenti sussistente è l’ulteriore presupposto costituito dall’effettiva spettanza in capo alla ricorrente del bene della vita a cui la stessa aspira (id est, nel caso che occupa, l’affidamento dell’incarico di insegnamento “Inglese per la comunicazione artistica” per l’A.A. 2018-2019 presso l’Accademia di Belle Arti di Lecce).

Alla stregua del consueto giudizio prognostico in concreto richiesto per l’accertamento della responsabilità civile da lesione di un interesse legittimo di tipo pretensivo, è, infatti, da ritenere che, in assenza delle illegittimità sopra riscontrate, la ricorrente si sarebbe certamente collocata prima nella graduatoria finale, sopravanzando l’odierna controinteressata.

Basti osservare che la ricorrente si è posizionata al secondo posto in graduatoria e che la corretta applicazione del criterio della “qualificazione professionale” (come tratteggiata supra al punto 5.2) avrebbe certamente condotto a ritenere più meritevoli le pregresse esperienze professionali vantate da parte ricorrente, in quanto più aderenti alle specificità proprie dell’incarico di insegnamento in questione.

6.3 Deve, poi, ritenersi che la condotta tenuta dall’Amministrazione resistente sia connotata da colpa.

In proposito, è sufficiente rilevare che l’Accademia delle Belle Arti di Lecce ha, nel caso che occupa, reiterato le medesime illegittimità già denunciate da parte l’anno precedente con il ricorso introduttivo del giudizio n. 835/2018 Reg. Ric., accolto da questa Sezione con la già citata sentenza n. 958 del 10 giugno 2019. Ad apparire particolarmente significativo è che l’Amministrazione resistente ha adottato gli atti causativi del danno (il Decreto Direttoriale prot. n. (…)del 21 dicembre 2018 e l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019) dopo che questa Sezione aveva già accolto la domanda cautelare proposta dall’odierna ricorrente nell’ambito del giudizio n. 835/2018 Reg. Ric. a mezzo dell’ordinanza cautelare n. 448 del 2018 (confermata, peraltro, dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato in sede di appello ex art. 62 c.p.a. con ordinanza n. 6113 del 2018).

Ciò denota una grave negligenza ed imprudenza nell’esercizio del potere pubblico che vale a fondare un giudizio di sicura rimproverabilità nei confronti dell’Amministrazione resistente.

6.4 Sussiste, in ultimo, il presupposto rappresentato da un danno (patrimoniale o non patrimoniale) alla sfera giuridica di parte ricorrente che sia riconducibile, sul piano causale, all’adozione del provvedimento amministrativo assunto come lesivo.

Parte ricorrente ha, infatti, compiutamente allegato e dimostrato di aver sofferto un pregiudizio di tipo patrimoniale consistente nel lucro cessante derivato dalla mancata corresponsione in suo favore del compenso previsto per l’incarico (pari a complessivi € 5.000,00).

Come emerge dal combinato disposto degli artt. 1 e 6 dell’Avviso pubblico di concorso prot. n. (…) del 6 dicembre 2018, è stato, infatti, previsto che il vincitore della procedura comparativa avrebbe stipulato un contratto di insegnamento della durata totale di n. 100 ore, da retribuire con un importo di € 50,00 l’ora, comprensivo degli oneri a carico del prestatore e del committente.

6.5 Non spetta, invece, alla ricorrente, in ragione dell’intervenuto annullamento degli atti impugnati con conseguente attribuzione in suo favore, ora per allora, dell’insegnamento “Inglese per la comunicazione artistica” nell’ambito dei Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 tenuti dall’Accademia di Belle Arti di Lecce, alcun ristoro in relazione lamentato danno curricolare (che deve ritenersi integralmente riparato).

6.6 Ritiene, in conclusione, il Collegio di dover determinare il quantum risarcibile nella somma complessiva di € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione (da far risalire, in ragione dell’attribuzione ora per allora in favore della ricorrente dell’insegnamento de quo, al 30 aprile 2019, data di avvio del corso per l’A.A. 2018/2019), trattandosi di debito di valuta.

7. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex artt. 26 e c.p.a. e 91 c.p.c. la soccombenza e sono da porre integralmente a carico dell’Amministrazione resistente e della controinteressata C.M..

7.1 Si dispone la trasmissione della presente sentenza alla Procura Regionale della Corte dei Conti della Puglia per le determinazioni di competenza.

P.Q.M.
Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia Lecce – Sezione Terza definitivamente pronunciando sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, come in epigrafe proposto:

– dichiara l’improcedibilità per cessazione della materia del contendere della domanda proposta avverso il silenzio serbato dall’Accademia di Belle Arti di Lecce sull’istanza presentata a mezzo PEC dalla ricorrente in data 22 dicembre 2018 e sulla ulteriore diffida-sollecito del 18 gennaio 2019 volte ad ottenere l’accesso a tutti gli atti della procedura comparativa di che trattasi;

– annulla il Decreto Direttoriale prot. n. (…) del 21 dicembre 2018 ed i successivi atti, ivi compreso l’avviso di “inizio corso” pubblicato il 12 aprile 2019 (per il giorno 30 aprile 2019), con conseguente attribuzione in favore della ricorrente, ora per allora, dell’insegnamento “Inglese per la comunicazione artistica” nell’ambito dei Corsi di Arti visive e Discipline dello Spettacolo (Triennio e Biennio) A.A. 2018/2019 tenuti dall’Accademia di Belle Arti di Lecce;

– condanna l’Accademia delle Belle Arti di Lecce, in persona del rappresentante legale pro tempore, al pagamento in favore della ricorrente, a titolo di risarcimento del danno, della somma di € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione;

– condanna l’Accademia delle Belle Arti di Lecce, in persona del rappresentante legale pro tempore, al pagamento in favore della ricorrente, a titolo di spese processuali, della somma di € 1.000,00 (mille/00), oltre gli accessori di legge;

– condanna la controinteressata C.M. al pagamento in favore della ricorrente, a titolo di spese processuali, della somma di € 1.000,00 (mille/00), oltre gli accessori di legge;

– dispone la trasmissione della presente sentenza alla Procura Regionale della Corte dei Conti della Puglia per le determinazioni di competenza.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa.

Conclusione
Così deciso in Lecce nella Camera di Consiglio del giorno 11 maggio 2021 svolta da remoto tramite l’applicativo Microsoft Teams con l’intervento dei magistrati:

Enrico d’Arpe, Presidente

Patrizia Moro, Consigliere

Giovanni Gallone, Referendario, Estensore


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 23/02/2021) 27/05/2021, n. 14745

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19493/14 R.G. proposto da:

P.M., rappresentata e difesa, come da delega a margine del ricorso, dagli avv.ti Stefano Modenesi e Antonio Tomassini, con domicilio eletto presso il loro studio, DLA Piper Studio Legale Tributario Associato, in Roma, via dei Due Macelli, n. 66;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 510/38/14 depositata in data 29 gennaio 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 23 febbraio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. Con distinti ricorsi P.M. impugnò gli avvisi di accertamento, per gli anni d’imposta 2006 e 2007, con i quali l’Agenzia delle entrate aveva rideterminato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e 5, il reddito dichiarato sulla base degli indici di cui al D.M. 10 settembre 1992, tabella allegata, ed in particolare, assumendo a riferimento l’acquisto (avvenuto nel 2007) di una autovettura Jaguar, del valore di Euro 80.000,00.

2. La Commissione tributaria provinciale di Varese, previa riunione dei ricorsi, li rigettò con sentenza che venne impugnata dalla contribuente dinanzi alla Commissione tributaria regionale che, con la pronuncia in questa sede impugnata, rigettò il gravame.

Osservò, in particolare, che la notificazione degli atti impositivi era avvenuta a mezzo posta, nel rispetto delle disposizioni normative, e che la determinazione del reddito era avvenuta sulla base dell’applicazione del redditometro, procedura che dispensava l’Amministrazione finanziaria dal fornire ulteriori elementi indici di maggiore capacità contributiva oltre quelli individuati dallo stesso redditometro. Dando atto che la contribuente, nel corso dell’anno 2007, aveva acquistato un’automobile Jaguar, affrontando una spesa di Euro 80.000,00, accertò che era rimasto non dimostrato l’assunto difensivo secondo cui le somme per far fronte a tale spesa provenivano da donazioni del marito, il quale, sottoposto ad autonomo accertamento, non aveva fatto alcun riferimento alle elargizioni addotte a giustificazione dalla moglie.

3. La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, affidandosi a sette motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione agli artt. 23, 24 e 53 Cost., laddove tali disposizioni non prevedono alcun limite al potere regolamentare riconosciuto all’Amministrazione finanziaria.

Deduce a sostegno della questione che le norme in esame delegano l’Amministrazione finanziaria alla elaborazione di uno strumento accertativo che, poggiando su presunzioni, non può rappresentare il solo presupposto per procedere alla rettifica dei redditi del contribuente e che si pone un problema di compatibilità del menzionato art. 38 e del D.M. 10 settembre 1992, rispetto alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., che risulterebbe violata dall’attribuzione all’Amministrazione finanziaria di poteri normativi idonei ad incidere sulla base imponibile dei contribuenti.

Poichè, secondo lo stesso disposto del citato art. 38, gli unici mezzi di prova contraria di cui il contribuente può avvalersi rispetto all’accertamento sintetico sono a) il fatto che il maggior reddito sinteticamente accertato sia costituito da redditi esenti o b) il fatto che il maggior reddito sinteticamente accertato sia costituito da redditi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, ad avviso della ricorrente, risulta evidente il contrasto sia con l’art. 24 Cost., sia con l’art. 53 Cost..

Aggiunge che l’introduzione dell’accertamento sintetico ha comportato una discrasia tra indici di spesa in esso non contemplati ed indici di spesa in esso contemplati, dal momento che ai primi corrisponde una presunzione semplice, mentre ai secondi soltanto una presunzione legale, a fronte della quale il contribuente non ha modo di tutelarsi con adeguati strumenti costituzionalmente tutelati.

1.1. La questione di legittimità costituzionale, sebbene rilevante ai fini del presente giudizio, è manifestamente infondata.

1.2. La Corte Costituzionale, con la ordinanza n. 297 del 13 luglio 2004, depositata il 28 luglio 2004, con riguardo alla dedotta violazione del principio di riserva di legge, si è già pronunciata per la infondatezza della questione, richiamando la costante giurisprudenza costituzionale secondo cui tale riserva va intesa in senso relativo, ponendo al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (v. sentenze n. 7 del 2001, n. 215 del 1998 e n. 111 del 1997); ha, in particolare, affermato che “è stata rispettata la riserva di legge relativa, in quanto l’art. 38 stabilisce che il regolamento deve prendere in considerazione elementi e circostanze di fatto certi e fissa delle linee direttive a cui si deve attenere l’accertamento compiuto tramite regolamento perchè lo stesso sia valido (deve scostarsi di almeno un quarto da quanto dichiarato per almeno due periodi di imposta), con salvezza della prova contraria del contribuente..”, precisando, altresì, che “nessuna norma costituzionale o di legge stabilisce che in materia tributaria i regolamenti debbano essere adottati con regolamento governativo ai sensi della L. n. 400 del 1988, art. 17, con la conseguenza che nessun vulnus costituzionale può ravvisarsi nella scelta di un regolamento del Ministro delle finanze, senza considerare che la norma da ultimo citata, nel fare un elenco delle materie che devono essere disciplinate con il regolamento, non fa menzione della materia tributaria”.

Questa Corte, peraltro, ha già avuto modo di precisare che i decreti ministeriali assolvono ad una funzione meramente accertativa e probatoria e non hanno natura sostanziale poichè non contengono norme per la determinazione del reddito (Cass., sez. 5, 19/04/2013, n. 9539). Il che esclude, alla radice, l’ipotizzata lesione dell’art. 23 Cost., che riserva alla legge la facoltà d’imporre (per quanto qui interessa) prestazioni patrimoniali (Cass., sez. 5, 24/04/2018, n. 10037).

La Corte Costituzionale, con la pronuncia sopra richiamata, ha parimenti escluso la violazione dell’art. 53 Cost., confermando quanto già statuito con la precedente ordinanza n. 283 del 23 luglio 1987, con la quale si è osservato che, sebbene l’accertamento previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, sia fondato su presunzioni, esso è ancorato ad elementi che debbono essere rigorosamente dimostrati e che sono idonei a costituire fonte sicura di rilevamento della capacità contributiva.

Anche la violazione dell’art. 24 è stata disattesa con la ordinanza n. 283 del 1987, poichè nessun limite è posto dalla normativa alla prova della insussistenza degli elementi e circostanze di fatto sui quali si basa l’accertamento induttivo.

D’altro canto, l’insussistenza di limitazioni del diritto di difesa e dei poteri probatori in capo a chi è sottoposto a verifica fiscale trova evidente riscontro nel costante orientamento di questa Corte secondo cui l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, oltre che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, anche che, più in generale, il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass., sez. 5, 19/10/2016, n. 21142; Cass., sez. 5, 19/04/2013, n. 9539; Cass., sez. 5, 24/04/2018, n. 10037; Cass., sez. 5, 18/04/2019, n. 10919).

2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello affermato che l’accertamento sintetico dispensa l’Ufficio dal fornire altri elementi indici di maggiore capacità contributiva, oltre quelli individuati dal redditometro stesso.

La ricorrente sostiene che la ricostruzione presuntiva realizzata dall’Ufficio non presenta i requisiti della gravità, precisione e concordanza e che, al di là del dato esibito con riguardo all’autovettura, nessuna circostanza sarebbe stata addotta dall’Amministrazione finanziaria che possa confermare le risultanze della verifica.

Sottolinea, pure, che in primo ed in secondo grado aveva prodotto documentazione – non vagliata dai giudici di appello – comprovante che l’acquisto dell’autovettura era avvenuto grazie all’intervento del marito, C.C., che aveva emesso un assegno circolare di Euro 15.000,00, nonchè grazie all’accensione di un finanziamento per un importo di Euro 41.177,38, che prevedeva rate di circa Euro 700,00 mensili, e che il marito le versava ogni mese circa Euro 1.000,00 con i quali sosteneva le spese personali, fra le quali la rata del finanziamento.

3. Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., del D.M. 10 settembre 1992, e violazione del principio del contraddittorio, lamentando che l’accertamento nei suoi confronti non è stato preceduto da un contraddittorio, nonostante lo stesso legislatore abbia introdotto, con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, specifici correttivi allo strumento presuntivo dell’accertamento sintetico, imponendo all’Amministrazione finanziaria una analisi più approfondita della posizione fiscale del contribuente.

4. Con il quarto motivo – rubricato: “omessa pronuncia – Nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Della violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42” – lamenta che i giudici di secondo grado hanno omesso di esaminare l’eccezione con la quale era stato dedotto il vizio di motivazione dell’atto impositivo che non dava conto delle ragioni per le quali erano state disattese le contestazioni sollevate dalla contribuente.

5. Con il quinto motivo – rubricato: Omessa pronuncia – Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, e degli artt. 100 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Della violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42 – ripropone la doglianza fatta valere con il quarto motivo per il caso in cui il vizio di omessa pronuncia venga ritenuto rientrante tra i motivi di impugnazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6. Con il sesto motivo denuncia omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e reitera la doglianza esposta con il quarto ed il quinto motivo per il caso che la si ritenga rientrante nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

7. Con il settimo motivo la ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e della L. n. 890 del 1982, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui i giudici regionali hanno respinto l’eccezione di inesistenza della notificazione, pacificamente avvenuta a mezzo posta, per mancanza di relata di notifica, deducendo che la proposizione dell’impugnazione non comporta sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, dal momento che lo scopo della notificazione non è quello di “provocare” l’impugnazione del provvedimento impositivo, bensì di perfezionarne la formazione.

8. Il terzo motivo, che deve essere esaminato con priorità, è infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno invero affermato (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823) che: “Differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica previsione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Le Sezioni Unite hanno evidenziato, appunto, come, nella normativa tributaria nazionale, in relazione ai tributi non armonizzati, non si rinviene alcuna disposizione espressa che sancisca in via generale l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, al di fuori di precise disposizioni che tale contraddittorio prescrivono, peraltro a condizioni e con modalità ed effetti differenti, in rapporto a singole ben specifiche ipotesi, quale D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7 (come modificato dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, convertito in L. n. 122 del 2010), in tema di accertamento sintetico.

Nella specie, si verte in ipotesi di accertamento sintetico per gli anni d’imposta 2006 e 2007, in relazione ai quali non opera la modifica normativa di cui al D.L. n. 78 del 2010, convertito dalla L. n. 122 del 2010.

Infatti, il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, ha disposto (con l’art. 22, comma 1), con specifica norma di diritto transitorio, che le modifiche operano in relazione agli “accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto” e quindi la norma ha effetto dal periodo d’imposta 2009 (cfr. Cass., sez. 6-5, 6/10/2014, n. 21041; Cass., sez. 6-5, 6/11/2015, n. 22746; Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283).

La sentenza della C.T.R. è pertanto conforme ai suddetti principi di diritto.

9. Il quarto motivo è infondato.

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 6-1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 5, 2/04/2020, n. 7662).

La Commissione tributaria regionale, nel rigettare l’appello della contribuente e nel confermare l’accertamento, ha implicitamente disatteso l’eccezione di nullità dell’atto impositivo per carenza di motivazione, sollevata dalla contribuente.

10. Il quinto ed il sesto motivo, che possono essere scrutinati congiuntamente perchè connessi, sono parimenti infondati.

10.1. Sebbene i giudici regionali non si siano espressamente pronunciati sulla presunta nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass., sez. U, 2/02/2017, n. 2731).

10.2. Va, al riguardo, ribadito (cfr. Cass., sez. 5, 31/03/2017, n. 8378; Cass., sez. 5, 1/12/2020, n. 27401) che “In tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo”.

La C.T.R. ha correttamente ritenuto che l’avviso di accertamento era idoneamente motivato, dal momento che l’Ufficio deve solo indicare gli elementi indicatori di reddito e lo scostamento derivatone rispetto al reddito dichiarato, ben potendo la parte contribuente fornire la prova contraria anche nel corso del giudizio.

11. Anche il settimo motivo va rigettato.

A partire dal 15 maggio 1998, data di entrata in vigore della L. n. 146 del 1998, art. 20, (che ha modificato la L. n. 890 del 1982, art. 14), gli uffici finanziari possono procedere alla notificazione a mezzo posta ed in modo diretto degli avvisi e degli atti che per legge vanno notificati al contribuente. Pertanto, quando l’Ufficio si sia avvalso di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982 (in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, concernono esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c.).

Ne deriva che non va redatta alcuna relata di notifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass., sez. 5, 4/07/2014, n. 15315; Cass., sez. 5, 15/07/2016, n. 14501; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642), senza che si renda, peraltro, necessario l’invio della raccomandata al destinatario (Sez. 5, Sentenza n. 8293 del 04/04/2018).

Nella sentenza qui impugnata si afferma che la notifica degli atti impositivi è avvenuta a mezzo posta e che “ha seguito tutto il dettato della normativa al riguardo”, cosicchè l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito non può essere sindacato in sede di legittimità.

Peraltro, l’eventuale invalidità della notifica dell’avviso di accertamento deve intendersi comunque sanata, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo ove detto vizio non abbia pregiudicato il diritto di difesa del contribuente, situazione che si realizza nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il medesimo abbia tempestivamente impugnato l’atto contestandone il contenuto (Cass., sez. 5, 9/05/2018, n. 11043; Cass., sez. 6-5, 12/07/2017, n. 17198).

12. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile.

Per costante orientamento di questa Corte (cfr. tra le altre Cass., sez. 10/08/2016, n. 16912), in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dal D.M. 10 settembre e D.M. 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicchè è legittimo l’accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.

Si è, in particolare, chiarito, con principio del tutto condivisibile, (Cass., sez. 6-5, 26/01/2016, n. 1332) che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali ed il contribuente deduca che tale spesa sia il frutto di liberalità, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, applicabile ratione temporis, la relativa prova deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi ma anche l’entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall’accertamento”; con la ulteriore precisazione (Cass., sez. 6-5, 10/07/2018, n. 18097) che “in tema di accertamento sintetico, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, comma 6, non è sufficiente la dimostrazione, da parte del contribuente, della disponibilità di redditi ulteriori rispetto a quelli dichiarati, in quanto, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che tali redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, deve essere fornita quella delle circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere” e che “in tema di accertamento sintetico del reddito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, ove il contribuente deduca che la spesa sia il frutto di liberalità o di altra provenienza, la relativa prova deve essere fornita con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi, ma anche l’entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall’accertamento, pur non essendo lo stesso tenuto, altresì, a dimostrare l’impiego di detti redditi per l’effettuazione delle spese contestate, attesa la fungibilità delle diverse fonti di provvista economica” (Cass., sez. 6-5, 28/03/2018, n. 7757).

La C.T.R., dopo avere rilevato che la contribuente ha acquistato un’automobile Jaguar, affrontando una spesa di Euro 80.000,00, a fronte di un reddito dichiarato nello stesso periodo di Euro 7.700,00, ha escluso, con accertamento di fatto, che la contribuente, sulla quale gravava l’onere di dimostrare che i proventi utilizzati per far fronte a detta spesa derivavano da redditi esenti o da donazioni o da altre entrate non reddituali, avesse fornito idonea prova documentale che l’acquisto fosse stato effettuato con elargizioni provenienti dal coniuge.

L’apprezzamento svolto dai giudici di merito non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità.

Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (Cass., sez. 1, 6/03/2019, n. 6519; Cass., sez. 5, 28/11/2014, n. 25332), senza considerare le ragioni offerte dal giudice d’appello, poichè in tal modo la censura si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass., sez. 1, 24/09/2018, n. 22478; Cass., sez. 3, 31/08/2015, n. 17330).

13. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 26-02-2021) 26-05-2021, n. 14579

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MANCINI Laura – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5408/2014 R.G. proposto da:

RI.BO. GOMMA DI /RIVELINI/ A. & C. SAS, (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. ANDREA BODRITO, dall’Avv. Prof. GIANNI MARONGIU dell’Avv. Prof. FRANCESCO D’AYALA VALVA, elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, al Viale Parioli, 43;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD SPA, (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. DONATO PASCUCCI, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. ALESSANDRA ZAMBRINO, in Roma, Via delle Tre Madonne, 18;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, n. 206/29/13, depositata il 16 luglio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 febbraio 2021 dal Consigliere Relatore Filippo D’Aquino.

Svolgimento del processo
CHE:

La società ricorrente RI.BO GOMMA DI /RIVELLINI/ A. & C. SAS ha impugnato una cartella di pagamento, relativa al periodo di imposta dell’esercizio 2005, la cui iscrizione a ruolo era avvenuta a titolo provvisorio a termini del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15, nella formulazione pro tempore, stante la pendenza del giudizio di primo grado avverso l’atto impositivo con cui si accertava l’indebito utilizzo di crediti di imposta.

La CTP di Caserta ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto tardivo e la CTR della Campania, con sentenza in data 16 luglio 2013, ha rigettato l’appello della società contribuente. Ha ritenuto corretta la notificazione della cartella di pagamento presso la sede legale della contribuente sita in (OMISSIS) (CE), Via (OMISSIS), costituente anche “domicilio fiscale”, effettuata per irreperibilità del destinatario alla data del 7 aprile 2009, il cui termine doveva ritenersi decorso alla data di proposizione del ricorso (19 ottobre 2009). Ha, inoltre, ritenuto il giudice di appello che a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), è sufficiente l’affissione dell’avviso all’albo comunale, senza invio della raccomandata, con conseguente irrilevanza della notificazione eseguita a termini dell’art. 145 c.p.c.. Ha, poi, ritenuto irrilevante la mancanza di invito al contribuente a fornire chiarimenti, trattandosi di procedura automatizzata. Ha, infine, ritenuto legittima l’iscrizione a ruolo dell’intera somma anzichè per il solo 50% a termini del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, essendo – a seguito del rigetto in primo grado del ricorso avverso l’atto impositivo – il potere di riscossione fondato sull’atto di recupero ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 422.

Propone ricorso per cassazione parte contribuente affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso il concessionario della riscossione; l’ente impositore si è costituito ai soli fini della partecipazione all’eventuale udienza di discussione.

Motivi della decisione
CHE:

1.1 – Con il primo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, (senza ulteriore specificazione in relazione al suddetto comma), violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), e dell’art. 145 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto di far decorrere il termine per l’impugnazione della cartella dalla notificazione alla società presso la sede legale e non dalla notificazione al legale rappresentante. Deduce la società ricorrente che la notificazione si sarebbe dovuta eseguire presso la sede effettiva, quale luogo dove si svolge l’attività di direzione, risultando la stessa in luogo diverso da quello ritenuto dalla CTR. Deduce, sotto un secondo profilo, che il procedimento notificatorio di cui al D.P.R. cit., art. 60, comma 1, lett. e), non potrebbe ritenersi concluso per effetto della mera affissione, ma richiederebbe necessariamente la ricezione della raccomandata informativa, in assenza della quale il procedimento non potrebbe ritenersi perfezionato.

1.2 – Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto storico decisivo, per non avere esaminato la sentenza impugnata la legittimità della notificazione avvenuta al legale rappresentante presso la propria residenza anagrafica, deducendo ulteriormente il ricorrente violazione dell’art. 145 c.p.c..

1.3 – Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, per avere il giudice di appello escluso la rilevanza del mancato invio della comunicazione di irregolarità, osservando che tale atto prodromico può essere omesso solo in caso di iscrizioni a ruolo derivanti da liquidazione di imposte, laddove nel caso di specie sussisterebbe il requisito dell’incertezza sull’oggetto dell’accertamento.

1.4 – Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto legittima l’iscrizione dell’intera somma in quanto derivante dall’indebito utilizzo di un credito di imposta. Deduce parte ricorrente come l’iscrizione sia avvenuta a titolo provvisorio per l’intera somma, laddove la norma in epigrafe, secondo la formulazione pro tempore, così come anche l’atto di recupero, non legittimerebbero l’iscrizione integrale delle somme.

2 – Deve preliminarmente rilevarsi che nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate Riscossione, quale successore ope legis di Equitalia, D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, ex art. 1, conv.. in L. 1 dicembre 2016, n. 225, non si è costituita in giudizio, per cui il processo prosegue tra le parti originarie ai sensi dell’art. 111 c.p.c. (Cass., Sez. V, 28 dicembre 2018, n. 33639).

3.1 – Quanto al primo profilo, si evidenzia come la questione del diverso luogo (sede effettiva o principale dell’impresa) in cui si sarebbe dovuta eseguire la notificazione non risulta trattata nella sentenza impugnata; nè il ricorrente offre elementi per ritenere che la questione sia stata affrontata nel ricorso introduttivo, così non assolvendo all’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito e di indicare in quale atto del giudizio di merito lo abbia fatto (Cass., Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 32804), nè avendo – infine – illustrato gli elementi in fatto da cui si trarrebbe la prova di una diversa sede effettiva (o principale) dell’impresa. 3.2 – Il primo motivo è, in ogni caso, infondato, posto che non è stato censurato l’accertamento in fatto, compiuto dal giudice del merito, secondo cui il luogo che coincide con la sede legale costituisce domicilio fiscale del contribuente, luogo che prevale su diverse indicazioni di domicilio per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta a controllare l’esattezza del domicilio eletto (Cass., Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 9567; Cass., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 4675; Cass., Sez. VI, 10 ottobre 2019, n. 25450; Cass., Sez. VI 26 giugno 2019, n. 17198; Cass., Sez. V, 14 dicembre 2016, n. 25680; Cass., Sez. VI, 21 luglio 2015, n. 15258). L’orientamento è conforme al principio secondo cui è onere del contribuente indicare all’ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni – come in caso di fallimento prevede la L. Fall., art. 49, nei confronti dell’organo concorsuale – non potendosi addossare all’Amministrazione l’onere di ricercare il contribuente fuori dall’ultimo domicilio noto e legittimandola, pertanto, in caso di inadempimento del contribuente, a eseguire la notificazione nella forma semplificata di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, lett. e), (Cass., Sez. V, 11 maggio 2018, n. 11504).

3.3 – Il motivo è, ulteriormente, infondato, quanto alla dedotta necessità dell’invio della raccomandata informativa in caso di notificazione effettuata a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), essendo costante la giurisprudenza di questa Corte nell’affermare la ritualità della notificazione, ove il messo notificatore abbia eseguito le opportune ricerche nell’ambito del Comune di domicilio fiscale (circostanza non oggetto di specifica censura) e non abbia rinvenuto l’ufficio o l’azienda del contribuente, ancorchè vi sia stato il mero deposito dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune (Cass., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3378; Cass., Sez. V, 28 febbraio 2019, n. 5902; Cass., Sez. V, 27 novembre 2006, n. 25095; Cass., Sez. V, 23 giugno 2003, n. 9922). Orientamento conforme al principio secondo cui è onere del contribuente comunicare all’Amministrazione finanziaria gli spostamenti del domicilio fiscale dichiarato.

4 – Il rigetto del primo motivo comporta l’inammissibilità degli ulteriori motivi, aventi ad oggetto le autonome ragioni della decisione attinenti alle ulteriori questioni decise, risultando stabilizzata la decisione per effetto del passaggio in cosa giudicata della prima ratio decidendi.

Le spese sono regolate dalla soccombenza e liquidate come da dispositivo in relazione alla parte controricorrente – non anche per l’ente impositore, che non ha svolto difese scritte – oltre al raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il primo motivo, dichiara inammissibili gli ulteriori motivi; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, che liquida in complessivi Euro 6.500,00, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021