Tribunale di Roma, sezione XIII, sentenza n. 431 del 12.01.2010

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Rilevato che:

non sussiste litisconsorzio necessario nei confronti dell’ente esattore, essendo esso del tutto estraneo al rapporto sostanziale in contestazione (Cfr. Cass. 1278/05, 11746/04);

fondato risulta il primo motivo di appello con cui si deduce che erroneamente il giudice di primo grado ha ritenuto valida la notifica dei verbali effettuata ex art. 139, 2 e 3 comma, c.p.c.;

ed invero, l’Ufficiale Giudiziario, prima di effettuare la notifica al portiere, avrebbe dovuto dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto rientranti nelle categorie contemplate dal 2 comma dell’art. 139 succitato;

nella relata di notifica, invece, si legge soltanto la dicitura “in assenza … di tutti gli altri soggetti indicati nella relata di notifica momentaneamente assenti”, affermazione questa che è del tutto generica non attestando essa chiaramente l’effettiva e reale ricerca del destinatario prima, nonché degli altri soggetti contemplati dal secondo comma dell’art. 139 c.p.c.;

tale omissione comporta la nullità della notifica dei verbali di accertamento posti a fondamenti della cartella (cfr. SS. UU. ord. n. 8214 del 2005, 1258/07);

inoltre, nella notificazione eseguita ex art. 139, 3 comma, c.p.c., l’omessa spedizione della raccomandata prescritta dal 4 comma della medesima disposizione non costituisce una mera irregolarità, ma un vizio dell’attività dell’ufficiale giudiziario che determina, fatti salvi gli effetti della consegna dell’atto dal notificante all’ufficiale giudiziario medesimo, la nullità della notificazione nei riguardi del destinatario (cfr. Cass. 17915/08);

ne consegue la nullità della cartella di pagamento impugnata e la condanna dell’amministrazione appellata alla restituzione della somma da essa riscossa a seguito del pagamento della medesima;

alla soccombenza segue la condanna del Comune di Roma al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio, spese che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale, in persona del giudice dr. Sergio Pannunzio, definitivamente pronunciando sull’appello avverso la sentenza del Giudice di Pace di Roma n. 7449 del 2008, così provvede:

a) – annulla la cartella esattoriale n. (omissis) emessa nei confronti di Ni.Pa.;

b) – condanna il Comune di Roma, in persona del Sindaco pro tempore, al pagamento delle spese di lite di entrambi i gradi di giudizio che liquida in Euro 320,00 per diritti ed Euro 270,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CAP come per legge.

Così deciso in Roma il 12 gennaio 2010.

Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2010.


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 03-12-2009) 30-12-2009, n. 27887

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente

Dott. VIDIRI Guido – rel. Consigliere

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12862-2006 proposto da:

L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 116, presso lo studio dell’avvocato DIERNA ANTONINO, rappresentato e difeso dall’avvocato MUGNAI FRANCO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI;

– intimato –

e sul ricorso 15266-2006 proposto da:

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 116, presso lo studio dell’avvocato DIERNA ANTONINO, rappresentato e difeso dall’avvocato MUGNAI FRANCO, giusta mandato in calce al ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 686/2 005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 06/05/2005 R.G.N. 1377/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2009 dal Consigliere Dott. GUIDO VIDIRI;

udito l’Avvocato BUCCI FEDERICO per delega MUGNAI FRANCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 11 febbraio 2002 il dott. ing. L. L., dipendente del Ministero delle infrastrutture e trasporti con la qualifica di (OMISSIS) qualifica professionale, adiva il Tribunale di Grosseto al fine di ottenere – previo accertamento dell’asserito svolgimento di mansioni superiori “per essere stato adibito alla Direzione dell’Ufficio Provinciale della M.C.T.C. di Grosseto” – la condanna del Ministero al pagamento del trattamento economico corrispondente a quello di (OMISSIS), a far data dal 1 dicembre 1998, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Dopo la costituzione dell’amministrazione convenuta, il Tribunale di Grosseto accoglieva la domanda del L. ed, a seguito del gravame del Ministero, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava l’amministrazione al pagamento delle differenze retributive maturate nel periodo corrente dal 1 dicembre 1998 sino al 2 agosto 2000, oltre interessi legali dalle singole scadenze al saldo effettivo. Osservava al riguardo la Corte territoriale – per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità – che nel periodo per il quale andavano riconosciute le differenze retributive il L. aveva esercitato funzioni dirigenziali in via permanente e duratura ed aveva diretto un ufficio, al quale, sulla base della documentazione dello stesso Ministero, doveva essere preposto un dipendente con qualifica dirigenziale. Per il periodo successivo all’agosto 2000 – con un decreto avente, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, non un mero valore di atto interno ma forza vincolante anche nei riguardi del L. perchè regolarmente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – il Ministero aveva individuato in relazione ai suoi 112 uffici periferici (sulla base dell’ampiezza dell’area territoriale di competenza e del carico di lavoro effettivamente gravante su ciascuna unità) solo 61 posizioni dirigenziali, e tra queste non era compresa la posizione dell’Ufficio provinciale di Grosseto. Da qui il diritto del L. al riconoscimento delle differenze retributive solo sino al 2 agosto 2000, data di pubblicazione del suddetto decreto di classificazione dei suddetti uffici.

Avverso tale sentenza hanno spiegato ricorso sia il L., affidandosi a tre motivi, che il Ministero delle Infrastrutture, con due motivi, la cui fondatezza è stata dal L. contestata con controricorso.

Motivi della decisione
1. Ai sensi dell’art. 335 c.p.c. i ricorsi del L. e del Ministero vanno riuniti perchè proposti ambedue contro la stessa decisione.

2. Con il primo e secondo motivo del suo ricorso il L. deduce violazione di legge e nella specie degli artt. 2697 c.c., artt. 101, 426, 421 e 437 c.p.c., anche in relazione alla L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17 laddove prevede espressamente al numero 4 che i regolamenti sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale, ed ancora denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla applicazione della suddetta normativa sostanziale e processuale alla fattispecie in oggetto. In particolare lamenta che, contrariamente a quanto ha ritenuto la impugnata sentenza, il diritto alle differenze retributive non è venuto meno in concomitanza con l’asserita emanazione del D.M. 2 agosto 2000 n. 148, atteso che era preciso onere dell’Amministrazione, che aveva eccepito l’inesistenza del diritto azionato, dimostrare che l’atto regolamentare fosse efficace in quanto rispettoso del procedimento di cui alla L. n. 400 del 1988, art. 17. La Corte fiorentina, pertanto, a fronte di un fatto non contestato dal Ministero (che nulla aveva eccepito con riferimento alla inefficacia del regolamento in esame) aveva in violazione dell’art. 2697 c.c., dato invece conto della pubblicazione del regolamento di cui al D.M. n. 148 de 2000, sopperendo in tal modo all’inerzia dell’amministrazione sul punto ed esercitando così poteri officiosi in difetto però dei requisiti richiesti.

2.1. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia un error in procedendo assumendo che il giudice di merito, in pregiudizio del diritto di difesa di esso ricorrente e del principio del contraddittorio, aveva fatto un uso non corretto dei suoi poteri ufficiosi anche in relazione alla L. 23 agosto 1988, art. 17, n. 400, incorrendo in un vizio di ultrapetizione deducibile a norma dell’art. 112 c.p.c.. Rileva in particolare che l’uso non corretto dei poteri officiosi denunziati nel primo motivo di ricorso aveva finito per concretizzare un error in procedendo capace di rendere nullo il procedimento d’appello e la sentenza impugnata.

3. Con il primo motivo del suo ricorso il Ministero deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25; disposizione poi successivamente modificata dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e ora contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52. In particolare più precisamente che appartenendo il L. alla ex qualifica (OMISSIS), cui risultavano con decreto conferite ad interini le funzioni direttive dell’Ufficio Provinciale M.C.T.C. di Grosseto, non potevano trovare applicazione i principi normativi di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 disciplinante la diversa ipotesi di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza.

3.1. Con il secondo motivo il Ministero addebita alla impugnata sentenza violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 266 del 1987, art. 20, comma 1, e della L. n. 870 del 1986, art. 13, comma 2, in relazione a quanto previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1. Assume a tale riguardo il Ministero che si era in presenza – con riferimento all’ufficio della motorizzazione della Provincia di Grosseto – di una reggenza, e cioè si era in presenza di una semplice misura organizzativa tesa ad assicurare una continuità dell’azione di pubblici poteri mediante l’utilizzazione di un funzionario adibito a compiti diversi. Proprio in virtù della radicale differenza tra la reggenza da parte del funzionario pubblico e l’incarico di direzione, affidato al titolare proprio nella qualità di dirigente, non potevano al L., chiamato a reggere il suddetto ufficio, riconoscersi gli emolumenti spettanti al dirigente.

4. I motivi dei due ricorsi, per comportare la soluzione di questioni tra loro strettamente connesse, vanno esaminati unitariamente.

5. Va in primo luogo ritenuta infondata l’eccezione, sollevata dal L., di inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 3 del ricorso del Ministero per ricavarsi dal suo contenuto, contrariamente a quanto sostenuto da controparte, i fatti rilevanti ai fini della decisione e le censure in fatto e diritto mosse alla impugnata sentenza.

6. Va esaminata anche l’altra eccezione del L. secondo cui essendo la sua impugnazione notificata per prima tutte le eventuali successive impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza dovevano essere avanzate nello stesso procedimento e nella forma del ricorso incidentale.

6.1. L’eccezione è infondata. Ed invero questa Corte di cassazione ha più volte ribadito che atteso il principio di unità dell’impugnazione, sancito dall’art. 333 cod. proc. civ. – il quale implica che l’impugnazione proposta per prima determina la pendenza dell’unico processo nel quale sono destinate a confluire, sotto pena di decadenza, per essere decise simultaneamente, tutte le eventuali impugnazioni successive proposte avverso la stessa sentenza, le quali, in conseguenza, possono assumere soltanto carattere incidentale – nei procedimenti con pluralità di parti, una volta avvenuta ad istanza di una di esse la notificazione del ricorso per cassazione, le altre parti, alle quali il ricorso sia stato notificato, debbono proporre, a pena di decadenza, i loro eventuali ricorsi avverso la medesima sentenza nello stesso procedimento e, perciò, nella forma del ricorso incidentale, ai sensi dell’art. 371 c.p.c., in relazione all’art. 333 c.p.c.. Tuttavia, l’inosservanza della forma del ricorso incidentale, in ragione della mancanza di una espressa affermazione da parte della legge circa l’essenzialità dell’osservanza di tale requisito formale, va apprezzata secondo i principi generali relativi alla nullità per inosservanza dei requisiti formali, con la conseguenza che – una volta che l’impugnazione principale e quella successiva autonomamente proposta, anzichè esercitata in via incidentale, siano state riunite ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ. – essa non impedisce la conversione di detto ricorso in ricorso incidentale, qualora esso risulti proposto nel rispetto dei termini temporali entro i quali avrebbe dovuto proporsi, cioè entro i quaranta giorni dalla notificazione del primo ricorso principale. Ed invero si determina in tale ipotesi il verificarsi di una fattispecie di idoneità de secondo ricorso a raggiungere quello stesso scopo che avrebbe raggiunto la rituale proposizione dell’impugnazione nella forma incidentale (cfr. in tali sensi: Cass. 6 agosto 2004 n. 15199, cui adde ex plurimis: Cass., Sez. Un., 25 giugno 2002 n. 9232, ed ancora in epoca successiva, Cass. 22 ottobre 2004 n. 20593).

6.2. In applicazione di tali principi alla fattispecie in esame, in cui i due processi vanno riuniti, il ricorso del Ministero deve ritenersi ammissibile perchè lo stesso da considerarsi incidentale per essere stato proposto successivamente a quello del L., è stato notificato alla controparte entro il termine di cui all’art. 370 c.p.c., per avere il suddetto L. notificato il proprio ricorso in modo rituale il 24 aprile 2006 (in Roma presso l’Avvocatura generale dello Stato) al Ministero, che ha a sua volta notificato la propria impugnazione alla controparte il 6 maggio 2006. 7. Passando all’esame del merito della controversia, va premesso che la sentenza impugnata ha affermato – con una motivazione congrua e corretta sul piano logico-giuridico e pertanto non assoggettabile su tale punto ad alcuna censura in questa sede di legittimità – che nella ipotesi in esame, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso del Ministero, non poteva affermarsi che l’incarico di direttore generale appartenesse al profilo professionale proprio della (OMISSIS) qualifica funzionale rivestita dal L., perchè svolto in regime di semplice reggenza in attesa della destinazione nell’ufficio stesso di un dirigente titolare.

Era rimasto infatti accertato che le mansioni superiori erano state invece assegnate al L. – in ragione delle numerose incombenze cui doveva assolvere l’ufficio della M.C.T.C. di Grossetto – a partire dal 1993 e si erano protratte per circa 12 anni sicchè non poteva parlarsi di funzioni vicarie. L’esercizio delle funzioni vicarie per rientrare nei compiti propri dei dipendenti con la nona qualifica, non potevano in alcun caso dare diritto ad alcuna differenza retributiva, mentre nel caso di specie non si trattava di sopperire ad una esigenza sopravvenuta e limitata nel tempo, ma si era reso necessario coprire per molti anni un posto rimasto vacante sicchè non poteva parlarsi di espletamento di mere funzioni vicarie.

7.1. Corollario di tale accertamento è il principio di diritto affermato più volte dai giudici di legittimità secondo cui in materia di pubblico impiego contrattualizzato – come si evince anche dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, nel testo, sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 e successivamente modificato dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 ora riprodotto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 32 – l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.; norma quest’ultima che deve trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (cfr. in tali esatti termini: Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cui adde, più di recente, Cass. 17 settembre 2008 n. 23741).

7.2. Nel pervenire a tale conclusione i suddetti giudici hanno rimarcato : che la Corte costituzionale con numerose pronunzie ha patrocinato la diretta applicabilità al rapporto di pubblico impiego dei principi dettati dall’art. 36 Cost., specificando al riguardo che detta norma “determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato”, a prescindere dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori (Corte Cost. 23 febbraio 1989 n. 57; Corte Cost ord. 26 luglio 1988 n. 908), precisando anche che “il principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è incompatibile con il diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost.” (Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236).Ed ancora il giudice delle leggi ha rilevato che il mantenere da parte della pubblica amministrazione l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determina una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost. – perchè non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento” e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2) (cfr. per richiami ai pronunziati della Corte Costituzionale: Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cit.).

7.3 A tale riguardo va rimarcato anche come l’estensione della norma costituzionale nei sensi ora precisati all’impiego pubblico sia stato condiviso dalla dottrina giuslavoristica che ha evidenziato come – pur essendo a seguito del D.Lgs. n. 165 del 2001 il trattamento economico dell’impiegato disciplinato dalla contrattazione collettiva e pur essendo detta contrattazione non priva di vincoli unilateralmente apposti per fini di controllo della spesa pubblica (quali quelli derivanti dai primi tre commi dell’art. 48 del suddetto Decreto) – i suddetti vincoli derivanti da esigenze di bilancio non possano impedire comunque la piena operatività, anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall’art. 36 Cost., per poggiare tale principio sulla peculiare corrispettività del rapporto lavorativo, qualificato dalla specifica rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare “una attività contrassegnata dall’implicazione della stessa persona del lavoratore”, il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia. Assunto questo che ha anche condotto un indirizzo dottrinario, da un lato, a sganciare il rapporto giuridico retributivo dal novero dei diritti di credito per inquadrarlo tra i diritti assoluti della persona, e dall’altro ha spinto ad affermare – sulla base di una coessenzialità o di una stretta relazione dei due principi della “sufficienza” e della “proporzionalità” ostativa a qualsiasi rapporto gerarchico tra gli stessi – che l’attenuazione del principio sinallagmatico, integrato nel caso in esame dalla rilevanza della persona umana (che determina una traslazione sul datore di lavoro del rischio della inattività del prestatore di lavoro, come in caso di sospensione del rapporto), mostra con palmare evidenza una dimensione sociale della retribuzione ed attesta contestualmente la necessità della copertura a livello costituzionale dei diritti inderogabili del lavoratore.

7.4. In questo contesto ordinamentale si è anche precisato che le uniche ipotesi in cui potrebbe essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente.

8. Orbene, le considerazioni svolte forniscono le coordinate per la soluzione della problematica oggetto della presente controversia perchè risultano assorbire tutte le questioni sollevate dalle parti sulla produzione nel presente giudizio e sulla sua rilevanza del D.M. 2 agosto 2000, n. 148, che – è bene però sottolinearlo – secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità doveva, stante la sua natura di atto amministrativo, essere ritualmente e tempestivamente prodotto dal Ministero, che su di esso fondava il suo assunto (cfr. al riguardo: Cass., Sez Un, 29 aprile 2004 n. 9941).

8.1. Ed invero, la regola, secondo cui anche nel pubblico impiego privatizzato l’esercizio di mansioni superiori da diritto ai sensi dell’art. 36 Cost. alle differenze retributive a favore del lavoratore,induce a riformare la sentenza impugnata nella parte in cui ha negato al L. per il periodo successivo al 2 agosto 2000 le differenze retributive rivendicate, riconoscendole invece per il solo periodo corrente dal 1 dicembre 1998 al 2 agosto 2000. 8.2. Il lavoratore pubblico cui vanno riconosciute le differenze retributive ai sensi dell’art. 36 Cost. per avere svolto mansioni superiori a quelle della propria qualifica ha diritto a non vedersi diminuita a seguito di un provvedimento della pubblica amministrazione la retribuzione percepita dovendosi alla suddetta fattispecie estendersi l’applicazione della prescrizione di cui l’art. 2103 c.c. – secondo cui il prestatore di lavoro deve essere adibito “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione” – la cui ratio non può non trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui la diminuzione della retribuzione si verifichi nel corso di svolgimento delle stesse superiori mansioni.

8.3. La fondatezza della soluzione seguita riceve un riscontro, anche se indiretto, da alcune significative regole normative. A tale riguardo va fatto riferimento: al divieto di reformatio in peius – ritenuto un principio generale dell’ordinamento anche se non a copertura costituzionale -introdotto dal disposto del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, art. 227, (t.u.), volto a riconoscere al lavoratore (in caso di modifica di qualifica o di nuovo inquadramento o di passaggio da una amministrazione all’altra o, infine, di mobilità) il diritto alla corresponsione del trattamento economico in godimento; ed ancora all’art. 202, cit. t.u. impiegati civili dello stato (D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) che, sempre in osservanza del suddetto divieto, contempla la conservazione del trattamento economico in godimento attraverso l’attribuzione di un assegno ad personam, utile a comporre la base pensionabile e pari alla differenza fra lo stipendio in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione.

9. Per concludere l’excursus argomentativo sulla problematica in esame, oggetto delle censure spiegate dalle parti in causa sulla base di contrapposte considerazioni, va enunciato – in osservanza a quanto voluto dall’art. 384 c.p.c., comma 1 in presenza di questioni di diritto di particolare importanza – la regola di diritto nei seguenti termini: “Il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost., è applicabile anche al dipendente pubblico nelle fattispecie in cui la pretesa del suddetto dipendente ad una retribuzione adeguata si basi sullo svolgimento di mansioni corrispondenti ad una qualifica superiore a quella posseduta, sempre che tali mansioni siano in concreto svolte nella loro pienezza, sia per quanto attiene al profilo quantitativo che qualitativo dell’attività spiegata sia per quanto attiene all’esercizio dei poteri ed alle correlative responsabilità attribuite. Da ciò consegue che il lavoratore pubblico, cui sono state riconosciute ai sensi del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 5, tali differenze ha diritto a non vedersi diminuita – a seguito di un provvedimento della pubblica amministrazione – per tutto il periodo in cui esercita le stesse superiori mansioni la retribuzione percepita dovendosi estendere alla suddetta fattispecie pure la prescrizione di cui al disposto dell’art. 2103 c.c. – secondo cui il prestatore di lavoro deve essere adibito “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione” – la cui ratio non può non trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui il lavoratore sia adibito “alle stesse mansioni”. 10. Alla stregua dell’enunciato principio il ricorso principale del L. va, dunque, accolto e le stesse ragioni poste a fondamento di tale accoglimento portano al rigetto del ricorso incidentale, con la consequenziale cassazione della sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto.

11. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la controversia va decisa nel merito con l’accoglimento della domanda del L. nei termini di cui alla sentenza di primo grado, che va confermata anche in ordine alla statuizione sulle spese.

12. Con riferimento alle spese del gravame e del presente giudizio di cassazione, tenuto conto della natura della controversia, della complessità delle questioni trattate e dell’esito della lite nei diversi gradi del processo, le spese dell’appello vanno compensate tra le parti ricorrendo giusti motivi, mentre il Ministero delle infrastrutture e trasporti va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate unitamente agli onorari difensivi come in dispositivo.

P.Q.M.
la Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale del L. e rigetta quello incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e, decidendo nel merito, accoglie la domanda del ricorrente principale nei termini di cui alla sentenza di primo grado, che conferma anche in ordine alla statuizione sulle spese. Compensa tra le parti le spese dell’appello e condanna il Ministero al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 75,00 oltre Euro 3.000,00(tremila/00) per onorari difensivi, ed oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2009


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 12-11-2009) 15-12-2009, n. 26239

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE LUCA Michele – Presidente

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere

Dott. NOBILE Vittorio – rel. Consigliere

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere

Dott. MORCAVALLO Ulpiano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Z.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI 140, presso lo studio dell’avvocato LUCATTONI PIERLUIGI (o PAOLO), rappresentato e difeso dall’avvocato PALITTA PAOLA, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

BANCOM SARDEGNA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLA VITE 7, presso lo studio dell’avvocato MASINI MARIA STEFANIA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato CORRIAS PIERGIORGIO, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 365/2007 della SEZ. DIST. CORTE D’APPELLO di SASSARI, depositata il 24/07/2007 R.G.N. 312/06;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 12/11/2009 dal Consigliere Dott. NOBILE Vittorio;

udito l’Avvocato CORRIAS PIERGIORGIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per: in via principale inammissibile in subordine rigetto.

Svolgimento del processo
Con ricorso 20/12/2002 Z.F., premesso di avere lavorato come impiegato di (OMISSIS) categoria dall’agosto 1992 al marzo 1998 per il Banco di Sardegna s.p.a., presso varie Casse comunali di credito agrario della Provincia di Nuoro nonche’ presso l’Agenzia di (OMISSIS) del Banco stesso dal 11/8/1993 al 10/12/1993 e presso la Filiale di (OMISSIS) del Banco medesimo dal 4/7/1994 al 30/9/1994, esponeva che, quanto ai contratti formalmente conclusi con le Casse ma in sostanza completamente gestiti dal Banco di Sardegna, si era in presenza di una violazione del divieto di interposizione di manodopera e doveva configurarsi una conversione del rapporto in capo all’effettivo titolare, aggiungendo che i motivi a giustificazione del termine non erano occasionali o straordinari, ma ordinari, normali e ricorrenti.

Quanto, poi, ai rapporti di lavoro nelle due citate dipendenze del Banco lo Z. affermava che era stato invitato a prestare servizio presso l’Agenzia di (OMISSIS) l’11-8-1993, che era stato assunto in sostituzione di Z.C. (assente ai sensi della L. n. 1204 del 1971, art. 4) e che la lettera di assunzione era stata formata dopo l’inizio della prestazione lavorativa.

Il ricorrente chiedeva, quindi, che venisse accertata la sussistenza di un unico contratto a tempo indeterminato dal 31/8/1992 con diritto alle retribuzioni dal 25/9/1992.

Il Banco di Sardegna s.p.a. si costituiva eccependo, in relazione ai contratti con le Casse, la nullità del ricorso, la propria carenza di legittimazione passiva e comunque rilevando che esisteva una convenzione con le Casse, in forza della quale queste funzionavano anche come uffici di corrispondenza del Banco.

Quanto, poi, ai rapporti intercorsi con lo Z., il Banco deduceva che il primo contratto era stato stipulato per sostituire un lavoratore assente dal servizio e il secondo per far fronte ad una intensificazione eccezionale dell’attività in coincidenza con l’avvio della stagione turistica.

Il convenuto, infine, contestava che spettassero le retribuzioni per i periodi in cui non vi era stata prestazione ed eccepiva che il lungo lasso di tempo fra l’ultima prestazione e la proposizione del ricorso doveva far ritenere che il contratto si fosse comunque sciolto per mutuo dissenso.

Il Giudice del lavoro del Tribunale di Sassari, con sentenza n. 625/2005, rigettava la domanda e compensava le spese.

Lo Z. proponeva appello avverso la detta sentenza, chiedendone la riforma con l’accoglimento della domanda.

Il Banco di Sardegna s.p.a. si costituiva e resisteva al gravame.

La Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, con sentenza depositata il 24/7/2007, rigettava l’appello e condannava l’appellante alle spese.

In sintesi la Corte territoriale, con riferimento ai rapporti a termine presso le Casse comunali di credito agrario, in base alle risultanze di causa, escludeva che nella fattispecie vi fosse stata una intermediazione ed interposizione di manodopera vietata dalla legge.

Riguardo, poi, al rapporto a termine presso la dipendenza di (OMISSIS) la Corte di merito riteneva che era risultato provato, anche in base alla stessa prospettazione attorea, che l’assunzione era avvenuta per sostituire la Z.C., assente dal servizio per maternità, mentre l’unico profilo di nullità sollevato con il ricorso introduttivo (concernente la tardività della sottoscrizione del contratto, rispetto al momento di inizio della prestazione lavorativa) era risultato infondato all’esito della prova testimoniale.

Quanto, infine, al rapporto presso la dipendenza di (OMISSIS), la Corte territoriale rilevava che “fuor di luogo” era il richiamo dell’appellante alla diversa vicenda della lavoratrice D.M. C., assunta a termine con diversa motivazione (“straordinarie esigenze derivanti dalla attuazione del piano informatico”) e che comunque il precedente invocato non aveva in alcun modo affermato che l’organico di (OMISSIS)era sottodimensionato, mentre l’assunzione dello Z., debitamente autorizzata, era risultata effettivamente collegata alla intensificazione dell’attività in coincidenza con l’avvio della stagione turistica” e (contrariamente all’assunto dell’appellante) il datore di lavoro aveva comunque dimostrato che la clausola che apponeva il termine al contratto era stata sottoscritta da lavoratore il (OMISSIS) (contestualmente all’inizio della prestazione).

Per la cassazione di tale sentenza lo Z. ha proposto ricorso con due motivi, corredati da quesiti ex art. 366 bis c.p.c. (applicabile nella fattispecie ratione temporis).

Il Banco di Sardegna s.p.a. ha resistito con controricorso ed ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Il ricorrente, nel censurare la decisione della Corte d’Appello relativamente (soltanto) ai due contratti a tempo determinato intercorsi direttamente con il Banco di Sardegna, con il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 230 del 1962 e con il secondo motivo lamenta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo per giudizio.

In specie, con riferimento al primo contratto, presso l’agenzia di (OMISSIS), il ricorrente deduce che il Banco non avrebbe provato la obiettiva esistenza delle condizioni legittimanti la apposizione del termine ed in particolare non avrebbe dimostrato che esso Z. abbia effettivamente prestato la propria attività lavorativa in sostituzione della Z.C., assente per maternità, giacché, l’unico teste sentito al riguardo ( De.) ha riferito soltanto di ricordare “che fu necessario sostituire Z.C.”, ma di non ricordare “se fu mandato proprio il ricorrente”.

Il ricorrente aggiunge, inoltre, che, come risultante dalle numerose controversie decise dal Tribunale di Sassari, il Banco, mantenendo sottodimensionato il proprio organico, era solito ricorrere ad un uso generalizzato del rapporto di lavoro a termine motivandolo per straordinarie esigenze di servizio.

Infine il ricorrente deduce che “sorprende” che il Banco “non abbia reperito il contratto di lavoro” “richiesto in prima udienza”.

Le censure risultano infondate.

La Corte d’Appello, sul punto, ha rilevato che la circostanza della assunzione dello Z. presso l’agenzia di (OMISSIS) avvenuta per sostituire la Z.C., assente per maternità, e’ risultata ammessa dall’attore nella “stessa prospettazione contenuta nell’atto introduttivo, in cui per un verso il lavoratore menziona espressamente tale ipotesi di apposizione del termine per ragioni sostitutive e, per altro verso, si duole esclusivamente della tardiva consegna della lettera di assunzione, senza mai prospettare che la sostituzione sarebbe stata fittizia”.

La Corte ha altresì precisato che soltanto in appello “e dopo che un teste, esaminato sulla circostanza, ha avuto incertezze – ben spiegabili peraltro dato il lungo tempo trascorso – nel ricollegare l’assenza obbligatoria della Z.C. per maternità con l’assunzione dello Z., costui ha tentato di mettere in dubbio la corrispondenza fra i due eventi, con ciò prospettando un fatto del tutto nuovo, mai dedotto in prime cure, come motivo di nullità del termine”.

Il ricorrente, quindi, neppure coglie nel segno la impugnata decisione, in quanto, ignorando la stessa e con essa le proprie iniziali chiare ammissioni, si limita a ribadire le tardive contestazioni e le incertezze della prova testimoniale al riguardo.

Neppure, poi, risulta fondata la censura circa la mancata considerazione dell’asserito ricorso frequente ai contratti a termine motivato, da parte del Banco, con straordinarie esigenze di servizio, trattandosi, come pure rilevato dalla Corte d’Appello, di assunzione a termine (debitamente autorizzata dall’UPLMO di Nuoro) diversamente motivata da esigenze sostitutive ammesse dallo stesso attore nel ricorso introduttivo ed emerse anche dalla testimonianza De..

Infine, sulla mancata produzione del contratto “non reperito” dalla convenuta, la Corte territoriale ha rilevato che “in relazione all’unico profilo di nullità effettivamente e tempestivamente sollevato in prime cure, concernente la tardività della sotto iscrizione del contratto, rispetto al momento in cui la prestazione lavorativa ha avuto inizio, deve osservarsi che tale eventualità è da escludere alla luce della dichiarazione testimoniale – non contraddetta – di M.F.”, “il quale ha riferito che, quando lo Z. prese servizio in filiale, (la filiale) era già in possesso del contratto, tanto che il M.F. provvedette alla registrazione sul libro matricola”.

Tale accertamento di fatto, decisivo, non e’ stato in alcun modo censurato specificamente dal ricorrente.

Con riferimento, poi, al secondo contratto a termine presso l’agenzia di (OMISSIS), il ricorrente, richiamando un precedente della stessa Corte d’Appello, riguardante la lavoratrice D.M.C., deduce che la detta agenzia era sottodimensionata rispetto al normale andamento produttivo, di guisa che la causale apposta al contratto de quo doveva ritenersi nulla “perché fittizia”.

Lamenta inoltre lo Z. che la data di effettiva sottoscrizione del contratto da parte del ricorrente non poteva certamente essere quella che appare sul contratto”.

Tali generiche censure, in sostanza, ribadiscono le tesi gia’ avanzate con l’appello, senza neppure considerare la specifica decisione dei giudici di secondo grado sul punto.

Sotto il primo profilo, infatti, la sentenza impugnata ha accertato che lo Z. era stato assunto “per far fronte all’eccezionale intensificazione dell’attività lavorativa in coincidenza con l’avvio della stagione turistica” (come emerso dal contratto prodotto dallo stesso lavoratore) mentre la Denti era stata assunta con ben diversa motivazione (straordinarie esigenze derivanti dalla attuazione del piano informatico).

Tanto premesso la Corte d’Appello ha precisato che con la sentenza invocata dall’appellante “non e’ stato in alcun modo affermato (ne’ poteva essere accertato, essendo ben altra la materia del contendere) che l’organico della Filiale di (OMISSIS) era sottodimensionato” e che, comunque, l’assunzione a termine dello Z., debitamente autorizzata, nel periodo estivo in una zona di rilevante importanza turistica “come e’ notorio essere quella di (OMISSIS)” certamente non poteva considerarsi “fittizia”.

Quanto, poi, alla asserita tardiva apposizione della sottoscrizione, la Corte territoriale ha osservato che “l’unico argomento di carattere logico prospettato in appello per confutare la tesi del primo giudice, quello secondo cui e’ impossibile che una raccomandata spedita da Sassari il 29 giugno non possa arrivare a destinazione a (OMISSIS) il 4 luglio è francamente debole, dato che l’arrivo di una lettera raccomandata in cinque giorni e’ fatto – contrariamente a quanto sostiene l’appellante – assolutamente plausibile”.

Tali accertamenti di fatto, congruamente motivati, resistono alle generiche censure del ricorrente, il quale, riproponendo semplicemente la propria tesi, in sostanza invoca in questa sede di legittimità un inammissibile riesame del merito (senza peraltro neppure indicare specificamente alcun vizio logico in cui sia incorsa la impugnata sentenza).

Il ricorso va, pertanto, respinto e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese in favore della società controricorrente.

P.Q.M.
LA CORTE Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese liquidate in Euro 36,00 oltre Euro 2.000,00 per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 12 novembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2009


Equitalia non può effettuare le notifiche per posta

Le notifiche effettuate direttamente da Equitalia attraverso il servizio postale sono inesistenti. A stabilirlo, con un precedente che farà discutere a lungo, è stata la Commissione di primo grado di Lecce (sentenza 23 ottobre 2009 n. 909/05/09). La sentenza riflette un orientamento di dottrina (essenzialmente, Villani) coltivato da alcuni mesi, e che ha trovato nella sentenza in commento un primo, significativo riscontro da parte della giustizia tributaria. La condivisione del Collegio giudicante della tesi proposta dalla difesa del contribuente è stata così piena, che lo stesso ha condannato l’agente per la riscossione a rifondere le spese di giudizio, per evidente inesistenza della notifica di una iscrizione ipotecaria, avvenuta per raccomandata del servizio postale, pur non essendo espressamente abilitato dalla normativa sulle notifiche.

Caso.

La vicenda riguarda l’omesso versamento di imposte (Iva, Irpef e Irap), contestato a un contribuente da parte dell’ufficio finanziario. Essendo decorsi gli ordinari termini per il pagamento del richiesto, il concessionario prima iscrive a ruolo il debito tributario e, successivamente, decorsi gli ordinari termini di legge, iscrive ipoteca sugli immobili del contribuente, ai sensi dell’articolo 77 del Dpr 602/1973. Lo stesso contribuente impugna l’atto di iscrizione, ritenendo illegittima l’ipoteca. Tuttavia, nel contesto del ricorso, il contribuente lamenta anche la regolarità della notifica eseguita da Equitalia. In effetti, come ricorda la Commissione, la materia è oggetto di una inspiegabile vacatio legis, in quanto il Legislatore, nel modificare l’articolo 19 del Dlgs 546/1992, ha mancato di dettagliare le procedure di notifica della misura cautelare in argomento. Ne deriva, quindi, che la fattispecie deve essere regolata alla luce delle indicazioni generali dettate dall’articolo 26 del Dpr 602/1973. In particolare, proprio l’articolo 26, comma 1, del Dpr 29 settembre 1973 n.602, prescrive che la notificazione della cartella di pagamento e di tutti gli altri atti dell’esecuzione (ipoteca, fermi amministrativi e altro), deve essere tassativamente effettuata soltanto dai seguenti soggetti:

a. ufficiali della riscossione;

b. soggetti abilitati dal concessionario nelle forme previste dalla legge, in base a un documento ufficiale, precedente alle notifiche con data certa;

c. messi comunali, previa convenzione tra Comune e concessionario, anche in questo caso in base a un documento ufficiale, precedente alle notifiche con data certa;

d. agenti della Polizia Municipale.

Tesi di Equitalia.

Secondo Equitalia, invece, che si è difesa in giudizio, la lettura della norma invocata dal contribuente deve essere armonizzata nel suo contesto generale. Da tale prospettiva, l’Agente per la riscossione si richiama al comma 2 dello stesso articolo 26 del Testo unico citato. Quest’ultima norma, invero, autorizza espressamente il ricorso al servizio postale. La norma, infatti, recita «la notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento». Insomma, il parere del concessionario è che il servizio postale rappresenti un ulteriore soggetto legittimato alla notifica. Il collegio giudicante ha, tuttavia, disatteso le posizioni del concessionario, sposando le tesi del contribuente. Nel dettaglio, i giudici tributari hanno ritenuto di non poter condividere l’interpretazione della norma fornita da Equitalia, ritenendola avulsa dalla reale volontà del Legislatore. Stando al parere della Commissione, infatti, mentre il comma 1 dell’articolo 26 si limiterebbe a individuare – con una elencazione tassativa – i soggetti legittimati all’esecuzione della notifica, il comma 2 indicherebbe un modo attraverso il quale i soggetti di cui al comma 1 possono eseguirla. In pratica, pur rimanendo fermi i soggetti autorizzati, questi, a loro volta, invece che direttamente, possono ricorrere all’ausilio del servizio postale per la notifica degli atti.

Conclusioni.

Ne consegue che l’Agente per la riscossione non potrebbe ricorrere alla notifica diretta, ma dovrebbe, per forza di cose, passare prima attraverso i soggetti menzionati dal comma 1 dell’articolo 26. Questi, e solo questi, potranno poi fruire del servizio postale. Pertanto, conclude la Commissione, le notifiche eseguite per posta, con raccomandata, direttamente da Equitalia sono inesistenti, perché effettuate da un soggetto che non rientra nelle categorie espressamente contemplate dalla norma.

Leggi: CTP Lecce Sez. 5, 16.11.2009, n 909 Notifica postale inesistente


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 13-10-2009) 18-11-2009, n. 44047

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARMENINI Secondo L. – Presidente

Dott. BARTOLINI Francesco – Consigliere

Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Consigliere

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere

Dott. MANNA Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.G. presso la Corte d’Appello di Brescia;

nel processo a carico di:

(OMISSIS);

Avverso la sentenza 28.10.05 del Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;

Udita la pubblica udienza la relazione del Consigliere Dott. Manna Antonio;

Udito il Procuratore Generale nella persona del Dott. Giovanni D’Angelo, che ha concluso per l’annullamento con rinvio dell’impugnata sentenza.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza 28.10.05 del Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, dichiarava non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) in ordine al reato di ricettazione di un assegno bancario in quanto non punibile ex art. 649 c.p., atteso che lo smarrimento dell’assegno era stato denunciato da quella che all’epoca dei fatti era la convivente more uxorio ((OMISSIS)) dell’imputato.

Il PG presso la Corte d’Appello di Brescia di Brescia ricorreva per saltum contro detta sentenza, di cui chiedeva l’annullamento per inapplicabilità al convivente more uxorio della causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p., comma 1, n. 1, per il coniuge, il che era avallato anche dalla sentenza 25.7.2000 n. 352 della Corte Cost..

1 – Il ricorso è fondato.

L’impugnata sentenza dà per pacifica l’estensione anche al convivente more uxorio della causa di non punibilità prevista dall’art. 649 c.p., comma 1, n. 1, immotivatamente trascurando che, invece, proprio sul presupposto contrario la Corte Cost., con sentenza 12 – 25.7.2000 n. 352, ha dichiarato non fondata la relativa questione di legittimità costituzionale in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., rifacendosi – per altro – a sua antica e costante giurisprudenza, elaborata sempre con specifico riferimento all’art. 649 c.p., (cfr. sentenza n. 8/96; sentenza n. 423/88; ordinanza n. 1122 del 1988), in base alla quale la convivenza more uxorio non è sempre e comunque meccanicamente assimilabile al rapporto di coniugio, mancando in essa i caratteri di certezza e di (tendenziale) stabilità propri del vincolo coniugale, essendo invece basata sull’affectio quotidiana, liberamente ed in ogni istante revocabile.

Riguardo ai reati contro il patrimonio, ad avviso della Corte Cost. l’art. 649 c.p., comma 1. razionalmente collega l’esclusione della punibilità a rapporti di parentela, affinità, adozione e coniugio incontrovertibili ed agevolmente riscontrabili in sede di risultanze anagrafiche, anche riguardo all’epoca di loro instaurazione, il che non sempre avviene nella convivenza more uxorio, il cui accertamento in punto di fatto è normalmente rimesso alla dichiarazione degli stesso interessati.

In altre parole, la ratio della mancata estensione della causa di non punibilità risiede in mere esigenze di certezza del diritto.

Analoghe considerazioni si leggono nell’ordinanza 6.12.06 n. 444 della Corte Cost., sia pure relativa alla diversa fattispecie di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 19, comma 2.

Nè l’impugnata sentenza ha prospettato differenti profili di valutazione per superare tale orientamento mediante nuovo incidente di costituzionalità.

Ne discende che la sentenza impugnata, in quanto basata su un presupposto erroneo in punto di diritto, deve annullarsi con rinvio alla Corte d’Appello di Brescia.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello di Brescia.

Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2009


Commissione Tributaria di Lecce, Sentenza 16.11.2009, n. 909

Commissione Tributaria Provinciale di Lecce – Sezione V –

Sentenza 16 novembre 2009 n. 909/5/2009

 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA COMMISSIONE TRIBUTARIA PROVINCIALE DI LECCE

riunita con l’intervento dei Signori:

P.D. Presidente

C.V. Relatore

T.R. Giudice

ha emesso la seguente

SENTENZA

– sul ricorso n° 709/08 depositato il 10/03/2008

– avverso ISCR. IPOT n° 52757 IVA+IRPEF+IRAP 1999 contro CONCESSIONARIO

EQUITALIA LECCE S.P.A.

proposto dal ricorrente:

difeso da:

VILLANI MAURIZIO

VIA CAVOUR 56 73100 LECCE LE

altre parti coinvolte:

CONC. EQUITALIA LECCE S.P.A.

VIA DALMAZIO BIRAGO 60/A 73100 LECCE LE

difeso da:

– avverso ISCR. IPOT n° 52757 IVA+IRPEF+IRAP 2000 contro CONCESSIONARIO EQUITALIA LECCE S.P.A.

FATTO

Con ricorso notificato all’Agente della riscossione Equitalia Lecce S.p.A. a mezzo del servizio postale in data 07/03/2008 e depositato il 10/03/2008 presso la segreteria della C.T.P. di Lecce, DSR, rappresentato e difeso dall’Avv. Maurizio Villani, impugnava la comunicazione di avvenuta iscrizione di ipoteca su immobili, ex art. 77 D.P.R. 602/1973, in relazione alle somme iscritte a ruolo pari ad 32.991,88.

Con detto gravame il difensore del contribuente eccepiva:

1)      Nullità dell’atto per inesistenza della notifica perché non avvenuta nei modi di legge;

2)      Illegittimità dell’iscrizione di ipoteca per violazione dei principi di chiarezza e motivazione degli atti, nonché di buona fede e certezza del diritto, sanciti dagli artt. 3 e 97 della Costituzione ed attuati dagli artt. 7 e 10 della L. 212/2000, e per avere il contribuente provveduto a pagare buona parte del carico a ruolo;

3)      Illegittimità costituzionale dell’art. 77 D.P.R. 602/1973 in relazione agli arti. 3, 97, 24 e 53 della Costituzione.

In data 27 giugno 2008 l’Agente della riscossione Equitalia Lecce S.p.A. si costituiva in giudizio contestando le eccezioni sollevate dalla difesa del contribuente e chiedeva il rigetto del ricorso ritenendolo infondato.

 

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo del ricorso il ricorrente evidenzia la rilevanza della notifica del provvedimento 3 iscrizione di ipoteca ai fini della decorrenza del termine di impugnazione, ai sensi e per gli effetti dell’art. 21 del D.Lgs. 546/1992. Sulla questione osserva che nel modificare l’art. 19 D.Lgs. 546/1992 il legislatore abbia trascurato di disciplinare le modalità di notifica di detta misura cautelare.

Pertanto, in assenza di una specifica previsione sul punto ritiene corretto fare riferimento all’art. 26 D.P.R. 602/1973, rubricato “Notificazione della cartella di pagamento”, a mente del quale la notificazione deve sempre essere effettuata da un agente abilitato, il quale può avvalersi del servizio postale.

Quindi la difesa giunge alla conclusione di ritenere illegittime le notifiche eseguite a mezzo del servizio postale direttamente e non tramite agente all’uopo abilitato.

Sul punto Equitalia Lecce S.p.A. rivendica la legittimità della comunicazione di avvenuta iscrizione di ipoteca effettuata direttamente dall’Agente della riscossione a mezzo del servizio postale senza che ciò importi violazione dell’art. 26 del D.P.R. 602/1973.

Tale posizione viene sostenuta ricorrendo al secondo periodo del primo comma dell’art. 26 del citato D.P.R., laddove si legge :”La notifica può esse eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento”.

L’interpretazione assunta da Equitalia Lecce S.p.A. non convince il Collegio in quanto la locuzione su citata viene letta in modo estrapolato dal contesto in cui è inserita. La stessa non è altro che la prosecuzione del primo periodo dell’art. 26 citato tenendo come riferimento il punto principale dell’articolato laddove specifica che “la cartella è notificata dagli ufficiali della riscossione o da altri soggetti abilitati” e la possibilità di notificare la cartella mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento va riferita sempre agli ufficiali della riscossione o altri soggetti abilitati i quali possono avvalersi del servizio postale mentre sono illegittime le notifiche eseguite direttamente dall’Agente della riscossione.

Il tema della notifica di atti che incidono nella sfera patrimoniale del cittadino è stato rigorosamente disciplinato dal legislatore negli artt. 26 D.P.R. 602/1973 e 60 D.P.R. 600/1973, laddove vengono dettate tassative prescrizioni, finalizzate a garantire il risultato del ricevimento dell’atto da parte del destinatario ed attribuire certezza all’esito del procedimento notificatorio.

Con l’art. 14 della L. 890/1982 il legislatore ha riservato la possibilità di eseguire “la notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente anche a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”. Detta previsione è chiaramente riservata agli uffici che esercitano potestà impositiva, con esclusione degli Agenti della riscossione che sono preposti solo alla fase riscossiva.

Pertanto la notifica dell’atto impugnato deve considerarsi giuridicamente inesistente. L’accoglimento del primo motivo di doglianza assorbe e rende superfluo l’esame delle restanti censure sollevate.

Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

La Commissione accoglie il ricorso e, per l’effetto, annulla l’iscrizione di ipoteca. Liquida per spese di giudizio la somma di 2.204,00, di cui 87,00 per spese vive, 617,00 per diritti, 1.500,00 per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Lecce, 23/10/2009

L’Estensore                                                                                                                                     Il Presidente


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 20-10-2009) 09-11-2009, n. 23677

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. SENESE Salvatore – Presidente di sezione

Dott. PREDEN Roberto – Presidente di sezione

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. ODDO Massimo – Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consigliere

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 2930/2009 proposto da:

S.G. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CHIANA 35, presso lo studio dell’avvocato MAZZEI Giancarlo, che lo rappresenta e difende, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

PROCURATORE GENERALE RAPPRESENTANTE IL PUBBLICO MINISTERO PRESSO LA CORTE DEI CONTI, domiciliato in ROMA, VIA BAIAMONTI 25;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO SANT’ANGELO DEI LOMBARDI;

– intimati –

avverso la sentenza n. 38/2008 della CORTE DEI CONTI, depositata il 12/02/2008;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 20/10/2009 dal Consigliere Dott. Mario FINOCCHIARO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso e giurisdizione della Corte dei Conti.

Svolgimento del processo
Con atto 24 febbraio 2002 la Procura Regionale presso la Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Campania ha convenuto in giudizio S.G., chiedendone la condanna al pagamento della somma di Euro 300.000,00 oltre interessi.

Ha esposto parte attrice che il S. aveva cagionato un danno alla Amministrazione Finanziaria dello Stato (danno costituito dall’omesso introito di imposte sul valore aggiunto e sanzioni iscritte a ruolo a carico di C.C.) poichè il S. – all’epoca dei fatti messo notificatore del Comune di S. Angelo dei Lombardi – non aveva ritualmente notificato al C. due avvisi di rettifica redatti dall’Ufficio IVA di Avellino.

In particolare il C. aveva proposto ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Avellino avverso le cartelle esattoriali emesse sulla base di detti avvisi e l’adita Commissione aveva accolto l’opposizione annullando le cartelle con decisione confermata in appello dalla Commissione Tributaria Regione Campania.

Il P.M. ha fatto presente – altresì – che anche il Tribunale di Napoli, adito dal C. con querela di falso, aveva riconosciuto che il S. aveva falsamente dichiarato, nella relata di notificazione degli avvisi fiscali predetti, che il destinatario si era rifiutato di firmare l’atto mentre, in realtà, era stato non C.C. ma il di lui figlio a rifiutare l’atto stesso.

Nell’ambito del procedimento penale scaturito da tali fatti – ha riferito, ancora, il P.M. – il giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di S. Angelo dei Lombardi aveva assolto il S. con la formula “perchè il fatto non costituisce reato”, ritenendo la mancanza di dolo dell’imputato.

Costituitosi in giudizio S.G. ha eccepito, da un lato, il difetto di giurisdizione della Corte dei Conti per mancanza del rapporto di servizio tra gli uffici finanziari e gli impiegati comunali, dall’altro, la prescrizione della azione di risarcimento del presunto danno erariale mancanza di responsabilità sulla base del giudicato penale assolutorio del GIP presso il Tribunale di S. Angelo dei Lombardi, da ultimo, che il giorno in cui le notificazioni venivano effettuate non era nemmeno in servizio e che le notificazioni erano state materialmente redatte da S. S., Vigile Urbano del Comune di S. Angelo dei Lombardi, mentre esso S. si era limitato ad accompagnarlo ad effettuare le notificazioni.

Svoltasi la istruttoria del caso, l’adita Sezione, affermata la propria giurisdizione, ha ritenuto la responsabilità del S. in termini di colpa grave e – rigettata l’eccezione di prescrizione – ha affermato dimostrati sia il nesso di causalità sia la responsabilità del S., con riguardo a uno degli avvisi – concernente l’anno di imposta 1991 – ed ha, quindi, condannato il S. al pagamento in favore dell’Erario della somma di Euro 50,00 mila, oltre interessi legali (e ciò valutando la incidenza rivestita dall’operato di altri soggetti nonchè facendo applicazione del potere riduttivo).

Gravata tale pronunzia dal S., che ha insistito – per le difese già svolte in primo grado la Corte dei Conti, Terza Sezione Giurisdizionale di Appello, con sentenza 14 novembre 2007 – 12 febbraio 2008 ha rigettato il gravame, con condanna del S. al pagamento delle spese del giudizio.

Per la cassazione di tale ultima pronunzia ha proposto ricorso, affidato a un unico motivo, S..

Resiste, con controricorso il Procuratore Generale, rappresentante il Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti.

Motivi della decisione
1. Con l’unico motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata denunziando “art. 360 c.p.c., n. 1, difetto di giurisdizione della corte dei conti in favore dell’ago”.

Si assume, infatti, che dalla circostanza, incontestata, che l’Ufficio IVA di Avellino ebbe a richiedere al Comune di S. Angelo dei Lombardi di provvedere alla notificazione nei confronti di C.C., discende che il rapporto si è instaurato tra il predetto Ufficio ed il predetto Ente e da ciò consegue ulteriormente che solo il Comune di S. Angelo dei Lombardi poteva essere chiamato a rispondere del danno addebitabile al messo notificatore, salvo rivalsa, e la relativa controversia rientrerebbe, perciò, nella giurisdizione dell’AGO. 2. Il ricorso è infondato.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

2.1. Giusta la testuale previsione della L. 14 gennaio 1994, n. 20, art. 1, comma 4 (come risultante per effetto del D.L. 23 ottobre 1996, n. 543, art. 3, comma 1, lett. c/bis, convertito nella L. 20 dicembre 1996, n. 639) la Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa degli amministratori e dipendenti pubblici anche quanto il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza, per i fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge.

La L. 20 dicembre 1996, n. 639, di conversione – con modifiche – del D.L. 23 ottobre 1996, n. 543, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 299 del 21 dicembre 1996 e – giusta la puntuale previsione contenuta all’art. 1, comma 4, della stessa è entrata in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e, pertanto, il 22 dicembre 1996. 2.2. Non controverso, in diritto, quanto precede si osserva che nel caso di specie la condotta causativa del danno per cui si procede è stata posta in essere dal S. non prima del 31 dicembre 1996 cfr., al riguardo, accertamento in fatto, contenuto a pagina 6 della sentenza ora oggetto di ricorso, in alcun modo contestato dalla difesa del ricorrente e, quindi, nel vigore della disposizione sopra trascritta.

E’ palese, di conseguenza, che è totalmente irrilevante – al fine di escludere la giurisdizione della Corte dei conti a conoscere della controversia – la circostanza che il danno reclamato (e per cui è stato promosso il presente giudizio) sia stato patito dall’erario dello Stato (e per esso dell’Ufficio Iva di Avellino) mentre il S. non era – all’epoca – dipendente di detto Ufficio, ma del Comune di S. Angelo dei Lombardi.

Come espressamente previsto dalla L. n. 20 del 1994, art. 1, comma 4, sopra trascritto, infatti, per i fatti commessi successivamente alla data di entrata in vigore della presente legge, cioè in epoca successiva al 22 dicembre 1996 come puntualmente nella specie la Corte dei conti giudica sulla responsabilità amministrativa dei … dipendenti pubblici anche quando il danno sia stato cagionato ad amministrazioni o enti pubblici diversi da quelli di appartenenza.

2.3. In alcun modo pertinente, al fine del decidere, è – quindi – l’insegnamento contenuto in Cass., sez. un., 7 novembre 1997, n. 10929 resa con riguardo a fattispecie verificatasi nel vigore di un diverso quadro normativo, atteso che nella specie – come risulta dalla parte espositiva della ricordata pronunzia Cass., sez. un., n. 10929 del 1997, l’Ufficio distrettuale delle II.DD. di Livorno aveva richiesto a un Comune di far notificare ad un contribuente un avviso di accertamento dei redditi IRPEF ed ILOR per il 1982 nel novembre 1988. 3. Risultato infondato, il proposto ricorso – come anticipato – deve rigettarsi.

Nulla sulle spese di questo giudizio di Cassazione, stante la qualità di parte unicamente formale del Procuratore Generale rappresentante il Pubblico Ministero presso la Corte dei Conti.

P.Q.M.
LA CORTE rigetta il ricorso;

nulla sulle spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione, il 20 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2009


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 02-10-2009) 22-10-2009, n. 40727

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAGANO Filiberto – Presidente

Dott. NUZZO Laurenza – Consigliere

Dott. PRESTIPINO Antonio – Consigliere

Dott. GALLO Domenico – Consigliere

Dott. DE CRESCIENZO Ugo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

avv. Putzolu Domenico del foro di Tempio Pausania nell’interesse di T.L., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza della Corte d’appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, in data 2 maggio 2006;

Sentita la relazione della causa fatta, in pubblica udienza, dal Consigliere Dott. Domenico Gallo;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale, Dr. Giuseppe Febbraro, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

osserva:

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 2 maggio 2006, la Corte di appello di Cagliari, Sezione distaccata di Sassari, in parziale riforma della sentenza del Gup presso il Tribunale di Tempio Pausania, in data 15 novembre 2005, riduceva ad anni uno e mesi otto di reclusione la pena inflitta a T.L. per i reati di maltrattamenti in famiglia, violenza privata e ricettazione.

La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l’atto d’appello, in punto di sussistenza dell’elemento oggettivo di ciascun reato, e confermava le statuizioni del primo giudice, ritenendo accertata la penale responsabilità dell’imputato in ordine ai reati a lui ascritti, provvedendo soltanto a ridurre la pena inflitta per riportarla ad equità.

Avverso tale sentenza propone ricorso l’imputato per mezzo del suo difensore di fiducia, sollevando tre motivi di gravame con i quali deduce:

1) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato di cui all’art. 672 c.p e vizio della motivazione sul punto;

2) contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, in relazione al reato di violenza privata di cui al capo b);

3) inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla sussistenza dei presupposti della condotta punibile per il reato di cui all’art. 648 c.p e vizio della motivazione sul punto.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile in quanto basato su motivi non consentiti nel giudizio di legittimità e comunque manifestamente infondati.

Per quanto riguarda il primo motivo, in punto di configurabilità dei presupposti di cui all’art. 572 c.p., la questione è manifestamente infondata. Non v’è dubbio, infatti, che la tutela apprestata dalla norma penale si estenda anche alla famiglia di fatto. Secondo l’insegnamento di questa Corte: “ai fini della configurabilità del reato di maltrattamenti in famiglia, non assume alcun rilievo la circostanza che l’azione delittuosa sia commessa ai danni di una persona convivente “more uxorio”, atteso che il richiamo contenuto nell’art. 572 cod. pen. alla “famiglia” deve intendersi riferito ad ogni consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo” (Cass. Sez. 6, Sentenza n. 20647 del 29/01/2008 Cc. (dep. 22/05/2008) Rv. 239726;

Sez. 6, Sentenza n. 21329 del 24/01/2007 Ud. (dep. 31/05/2007) Rv.

236757; nel senso che sia sufficiente solo la stabilità del rapporto: Sez. 3, Sentenza n. 44262 del 08/11/2005 Ud. (dep. 05/12/2005) Rv. 232904).

Per quanto riguarda le questioni dedotte con il secondo ed il terzo motivo, con le quali si deducono violazione di legge e vizi della motivazione, occorre rilevare che il vaglio logico e puntuale delle risultanze processuali operato dai Giudici di appello non consente a questa Corte di legittimità di muovere critiche, né tantomeno di operare diverse scelte di fatto. Le osservazioni del ricorrente non scalfiscono l’impostazione della motivazione e non fanno emergere profili di manifesta illogicità della stessa; nella sostanza, al di là dei vizi formalmente denunciati, esse svolgono, sul punto dell’accertamento della responsabilità, considerazioni in fatto insuscettibili di valutazione in sede di legittimità, risultando intese a provocare un intervento in sovrapposizione di questa Corte rispetto ai contenuti della decisione adottata dal Giudice del merito. E’ il caso di aggiungere che la sentenza di secondo grado va necessariamente integrata con quella, conforme nella ricostruzione dei fatti, pronunciata in prime curo, derivandone che i giudici di merito hanno spiegato, in maniera adeguata e logica, le risultanze confluenti nella certezza del pieno coinvolgimento dell’imputato nella commissione del reato ritenuto a suo carico.

Ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende di una somma che, alla luce del dictum della Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000, sussistendo profili di colpa, si stima equo determinare in Euro 1.000,00 (mille/00).

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 ottobre 2009


Corte Costituzionale Sentenza n. 275 del 19.10.2009

La lavoratrice che lavora oltre i 60 anni non deve comunicarlo

 

Presidente AMIRANTE – Redattore MAZZELLA

Camera di Consiglio del 07/10/2009 Decisione del 19/10/2009

Deposito del 29/10/2009 Pubblicazione in G. U.

Norme impugnate:

Art. 30 del decreto legislativo 11/04/2006, n. 198.

Atti decisi:

ord. 91/2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco  AMIRANTE       Presidente

– Ugo               DE SIERVO        Giudice

– Paolo            MADDALENA               “

– Alfio              FINOCCHIARO             “

– Alfonso        QUARANTA                  “

– Luigi              MAZZELLA                   “

– Gaetano        SILVESTRI                   “

– Sabino           CASSESE                    “

– Maria Rita    SAULLE                       “

– Giuseppe      TESAURO                    “

– Paolo Maria   NAPOLITANO               “

– Giuseppe      FRIGO                         “

– Alessandro  CRISCUOLO                 “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), promosso dal Tribunale di Milano nel procedimento vertente tra Caterina Giovinazzo e la Manutencoop Facility Management S.p.A., con ordinanza del 1° dicembre 2008, iscritta al n. 91 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 7 ottobre 2009 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza emessa il 1° dicembre 2008, il Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il lavoratore di sesso maschile – l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la re cedibilità ad nutum di quest’ultimo dal rapporto di lavoro.

Riferisce il rimettente che, con ricorso ex art. 414 c.p.c., la signora Caterina Giovinazzo aveva convenuto in giudizio l’impresa Manutencoop Facility Management S.p.A., per impugnare il licenziamento a lei intimato in data 9 maggio 2007. La ricorrente aveva esposto di essere stata licenziata in data 9 maggio del 2007 per avere raggiunto l’età pensionabile, senza anticipatamente manifestare la propria intenzione di volere proseguire nel rapporto di lavoro. La difesa di parte ricorrente, insistendo per l’accertamento della illegittimità del recesso, aveva sollevato eccezione di legittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 4, 27 e 35 della Carta costituzionale, della disposizione di cui all’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198, che, a suo dire, aveva reintrodotto lo stesso onere di comunicazione già dichiarato incostituzionale con ripetuti pronunciamenti della Corte costituzionale (sentenze n. 138 del 1986, n. 498 del 1988 e n. 256 del 2002).

Il rimettente ricorda che la Corte costituzionale aveva dichiarato dapprima l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge n. 604 del 1966 e di altre disposizioni connesse (sentenza n. 137 del 1986), «nella parte in cui prevedono il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per questo motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno d’età, anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo», giudicando ormai venute meno quelle ragioni e condizioni che in precedenza potevano giustificare una differenza di trattamento della donna rispetto all’uomo, e, di riflesso, illegittima qualsiasi disposizione che differenziasse l’applicazione dei diritti di tutela del posto di lavoro alla condizione di essere lavoratore uomo, ovvero lavoratrice donna.

In seguito, anche l’onere, introdotto dall’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), di comunicare anticipatamente al datore di lavoro la propria intenzione di proseguire a lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, era stato parimenti dichiarato incostituzionale.

Detti principi, prosegue il rimettente, venivano poi ulteriormente ribaditi dalla pronunzia n. 256 del 2002, laddove si afferma, in sintesi, che «i precetti costituzionali di cui agli artt. 3 e 37, primo comma, non consentono di regolare l’età lavorativa della donna in modo difforme da quello previsto per gli uomini, non soltanto per quanto concerne il limite massimo di età, ma anche riguardo alle condizioni per raggiungerlo».

Sennonché, riferisce il Tribunale di Milano, il legislatore, tramite l’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006 n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna, a norma dell’articolo 6 della legge 28 novembre 2005, n. 246), nel ribadire il pieno diritto delle donne lavoratrici di continuare a lavorare fino agli stessi limiti di età fissati per gli uomini, di fatto ha reintrodotto le disposizioni in materia di preventiva dichiarazione di opzione al datore di lavoro, nel senso di subordinare il diritto della donna lavoratrice alla stabilità del rapporto di lavoro fino al sessantacinquesimo anno di età, ad una esplicita e preventiva manifestazione di volontà.

Tanto premesso, il Tribunale rimettente dubita che la pure constatata esistenza di una normativa di carattere previdenziale più favorevole per le donne, possa essere tale da giustificare una tutela differenziata in materia di licenziamenti.

Infatti, le argomentazioni che avevano già in passato indotto la Corte costituzionale a dichiarare illegittima e priva di una logica giustificatrice l’introduzione di un obbligo per le lavoratrici donne, quale condizione per rendere applicabile la normativa vincolistica sui licenziamenti, non solo appaiono al rimettente di rinnovata attualità, ma addirittura rafforzate proprio alla luce delle penetranti modifiche che si sono venute a determinare nel mercato del lavoro e nella struttura della società italiana (ed europea), che sempre più valuta come radicalmente inattuale qualsiasi differenziazione di norme e/o di trattamenti in funzione del sesso.

Nella fattispecie, quindi, siccome la richiesta opzione discrimina la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del rapporto di lavoro e, quindi, la diminuita tutela della lavoratrice in tema di licenziamento, sussisterebbe la violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro.

2. – E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato ed ha chiesto che la questione sia dichiarata infondata.

Secondo la difesa erariale, la circostanza che la facoltà della donna di restare in servizio sino all’età massima prevista per gli uomini sia subordinata, dall’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198, all’onere di una preventiva comunicazione al datore di lavoro non sarebbe discriminatoria rispetto all’uomo né sotto il profilo della violazione dell’art. 3 Cost. né sotto il profilo della violazione dell’art. 37 Cost., essendo mutato il quadro normativo di riferimento rispetto alla sentenza n. 498 del 1988.

Essendo, infatti, facoltà della lavoratrice avvalersi o meno della possibilità di prolungare il rapporto di lavoro fino al limite massimo di 65 anni, subordinare la continuazione del rapporto ad una tempestiva comunicazione al datore di lavoro, afferma l’Avvocatura, si giustifica perfettamente con le esigenze organizzative di questo e la necessità per lo stesso di conoscere per tempo le determinazioni del proprio dipendente in proposito.

Parimenti infondato, per il Presidente del Consiglio, sarebbe anche l’ulteriore parametro costituzionale invocato a sostegno della denunciata incostituzionalità della norma e basato su una presunta discriminazione delle donne lavoratrici in assenza di un analogo obbligo per i lavoratori. Infatti, la previsione dell’obbligo della comunicazione per le sole donne si giustificherebbe sempre con l’originaria diversa disciplina in materia di età pensionabile.

Secondo il Presidente del Consiglio, poiché è riconosciuta solo alle lavoratrici donne la possibilità prolungare la propria età lavorativa fino a quella prevista per gli uomini, in un’ottica di parificazione totale tra i due sessi, ma nella salvaguardia di vecchi principi e diritti, e non prevedendosi un’analoga possibilità di prolungamento del rapporto di lavoro per gli uomini, come tali tenuti ad andare in pensione al raggiungimento dei 65 anni, l’obbligo della comunicazione non potrebbe che essere imposto alla sole donne, non essendo concepibile un obbligo di comunicazione per una facoltà non riconosciuta.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Milano dubita, con riferimento agli articoli 3, 4, 35 e 37 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età – a differenza di quanto previsto per il lavoratore di sesso maschile – l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, pena la recedibilità ad nutum da parte di quest’ultimo dal rapporto di lavoro.

2. – Nella legislazione precedente, il principio di cui all’art. 11 della legge 15 luglio 1966 n. 604 (Norme sui licenziamenti individuali), che sanciva la radicale inapplicabilità della tutela contro i licenziamenti illegittimi alle lavoratrici che fossero rimaste in servizio oltre il raggiungimento della loro età pensionabile (allora prevista in 55 anni), era stato temperato successivamente dall’art. 4 della legge 9 dicembre 1977, n. 903 (Parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro), in base al quale, alla maturazione di detta età pensionabile, le lavoratrici ben potevano restare in servizio fino al raggiungimento dell’età lavorativa massima prevista per gli uomini (all’epoca 60 anni), a condizione che comunicassero tale loro opzione al datore di lavoro tre mesi prima del raggiungimento dell’età pensionabile.

Le ora riportate disposizioni avevano formato oggetto di due successivi interventi da parte di questa Corte. Con la sentenza n. 137 del 1986, sul presupposto che l’avvento di nuove tecnologie e metodi di produzione e di riforme intervenute nel campo del diritto del lavoro aveva reso il lavoro femminile meno usurante e più sicuro, era stato dichiarato illegittimo, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 37 Cost., l’art. 11 della legge n. 604 del 1966, nella parte in cui prevedeva il conseguimento della pensione di vecchiaia e, quindi, il licenziamento della donna lavoratrice per detto motivo, al compimento del cinquantacinquesimo anno di età anziché al compimento del sessantesimo anno come per l’uomo. In altri termini, si riconosceva, alla medesima lavoratrice, la scelta se essere collocata a riposo alla stessa età degli uomini, conservando la piena tutela contro il licenziamento ingiustificato, o se andare in pensione anticipatamente.

Restava tuttavia in vigore la previsione, contenuta nell’art. 4 della legge n. 903 del 1977, dell’onere, per la donna che scegliesse di restare in servizio oltre l’età pensionistica, di comunicare al datore di lavoro tale opzione tre mesi prima della data di scadenza, pena la perdita da parte della stessa della tutela contro i licenziamenti ingiustificati. Ebbene, anche tale previsione, in tutto corrispondente a quella oggetto dell’odierna questione, veniva dichiarata illegittima, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, con la sentenza n. 498 del 1998, “nella parte in cui subordina il diritto delle lavoratrici, in possesso dei requisiti per la pensione di vecchiaia, di continuare a prestare la loro opera fino agli stessi limiti di età previsti per gli uomini da disposizioni legislative, regolamentari e contrattuali, all’esercizio di un’opzione in tal senso, da comunicare al datore di lavoro non oltre la data di maturazione dei predetti requisiti”. Nella citata pronuncia, la Corte affermava che anche la previsione di un simile onere discrimina «la donna rispetto all’uomo per quanto riguarda l’età massima di durata del rapporto di lavoro stabilita da leggi, regolamenti e contratti, e, quindi, la protrazione del rapporto […], non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e […] risultando leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro», e ribadiva che «l’età lavorativa deve essere eguale per la donna e per l’uomo, mentre rimane fermo il diritto della donna a conseguire la pensione di vecchiaia al cinquantacinquesimo anno di età, onde poter soddisfare esigenze peculiari della donna medesima, il che non contrasta con il fondamentale principio di parità, il quale non esclude speciali profili, dettati dalla stessa posizione della lavoratrice, che meritano una particolare regolamentazione».

3. – La questione sottoposta ora all’esame della Corte è fondata in relazione ai medesimi parametri degli artt. 3 e 37 della Costituzione.

Nessuna delle disposizioni di legge intervenute in materia nell’arco temporale intercorso tra le disposizioni dichiarate illegittime da questa Corte e l’odierna questione di costituzionalità ha in alcun modo alterato i termini del problema.

Nel periodo indicato, ben vero, si è realizzato, a più scaglioni, un complessivo spostamento in avanti dell’età pensionistica di uomini e donne. L’art. 1 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), emesso in attuazione di tale legge, ha infatti disposto, secondo quanto indicato in una tabella allegata al decreto stesso poi sostituita dall’art. 11 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), per il periodo compreso tra il primo gennaio 1994 e il 31 dicembre 1999, una elevazione graduale dei limiti di età rispettivamente previsti per gli uomini e per le donne (compresa, per i primi, tra i sessantuno e i sessantaquattro anni e per le donne tra i cinquantasei e i cinquantanove anni) fino a pervenire, con la disciplina “a regime”, decorrente dal 1° gennaio 2000, alla introduzione del limite di sessantacinque anni di età per gli uomini e sessanta anni per le donne.

Tali interventi normativi, tuttavia, non hanno inciso sulla persistente validità delle precedenti statuizioni di questa Corte, in quanto non hanno determinato alcuna alterazione della portata e dell’incidenza della disposizione oggi censurata, identica a quella già dichiarata incostituzionale.

Infatti, come questa Corte ha già chiarito nella sentenza n. 256 del 2002, «le innovazioni introdotte […] non hanno violato il principio costituzionale della parità tra uomo e donna riguardo all’età lavorativa, più volte affermato da questa Corte in quanto sancito dagli artt. 3 e 37 della Costituzione. Infatti, mentre le diverse disposizioni che hanno in vario modo ampliato la possibilità di fare ricorso al pensionamento c.d. posticipato, originariamente introdotto dall’art. 6 del d.l. 22 dicembre 1981, n. 791 (Disposizioni in materia previdenziale), convertito in legge 26 febbraio 1982, n. 54, non contengono alcuna diversità di disciplina tra i lavoratori dei due sessi, le altre disposizioni hanno esclusivamente innalzato i limiti della età pensionabile perpetuando in riferimento a tale età, sia pure con uno spostamento in avanti, la differenza già esistente tra uomini e donne, la quale continua a costituire un giustificato beneficio per queste ultime, ma non hanno in alcun modo reintrodotto per le donne la correlazione tra età pensionabile ed età lavorativa.».

4. – La disposizione censurata con l’odierno incidente di costituzionalità, ha dunque introdotto, in un contesto normativo non alterato, per quanto rileva in questa sede, dalle pur numerose novità legislative apportate, una norma dal medesimo contenuto precettivo dell’art. 4 della legge n. 903 del 1977, la cui illegittimità costituzionale è stata dichiarata da questa Corte con la citata sentenza n. 498 del 1998. Tale disposizione, nel subordinare il riconoscimento della tutela contro il licenziamento ingiustificato al rispetto di un onere di comunicazione perfettamente coincidente con quello già dichiarato illegittimo da questa Corte, realizza la medesima discriminazione tra lavoro maschile e lavoro femminile già stigmatizzata in tale occasione.

Anche nella disposizione oggi censurata, l’onere di comunicazione posto a carico della lavoratrice, infatti, condizionando il diritto di quest’ultima di lavorare fino al compimento della stessa età prevista per il lavoratore ad un adempimento – e, dunque, a un possibile rischio – che, nei fatti, non è previsto per l’uomo, compromette ed indebolisce la piena ed effettiva realizzazione del principio di parità tra l’uomo e la donna, in violazione dell’art. 3 Cost., non avendo la detta opzione alcuna ragionevole giustificazione, e dell’art. 37 Cost., risultando nuovamente leso il principio della parità uomo-donna in materia di lavoro.

Né la reintroduzione di un istituto, quale l’onere di comunicazione, già dichiarato illegittimo da questa Corte può essere ritenuta giustificata in ragione di una maggiore considerazione delle esigenze organizzative del datore di lavoro, dato che, proprio per effetto dell’invocata declaratoria di illegittimità costituzionale, quest’ultimo, nell’organizzare il proprio personale dovrà considerare come normale la permanenza in servizio della donna oltre l’età pensionabile e come meramente eventuale la scelta del pensionamento anticipato, nella prospettiva, già indicata da questa Corte, della tendenziale uniformazione del lavoro femminile a quello maschile.

5. – Va dunque dichiarata, in riferimento agli artt. 3 e 37 della Costituzione, l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 del d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti individuali.

6. – Le questioni relative agli artt. 4 e 35 della Costituzione restano assorbite.

per questi motivi

la corte costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 30 del decreto legislativo 11 aprile 2006, n. 198 (Codice delle pari opportunità tra uomo e donna), nella parte in cui prevede, a carico della lavoratrice che intenda proseguire nel rapporto di lavoro oltre il sessantesimo anno di età, l’onere di dare tempestiva comunicazione della propria intenzione al datore di lavoro, da effettuarsi almeno tre mesi prima della data di perfezionamento del diritto dalla pensione di vecchiaia, e nella parte in cui fa dipendere da tale adempimento l’applicazione al rapporto di lavoro della tutela accordata dalla legge sui licenziamenti individuali.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 ottobre 2009.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 29 ottobre 2009.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 22-05-2009) 07-09-2009, n. 19315

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SALME’ Giuseppe – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere

Dott. SALVATO Luigi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.V., con domicilio eletto in Roma, Via Monte Santo n. 14 presso gli Avv.ti Sergio Falcone e Pierfrancesco Rina, rappresentato e difeso dall’Avv. RINA Vincenzo, come da procura in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA;

– intimato –

per la cassazione del decreto della Corte d’appello di Roma depositato il 3 novembre 2005.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del giorno 22 maggio 2009 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio Zanichelli;

Viste le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo e il rigetto degli altri.

Svolgimento del processo
M.V. ricorre per cassazione nei confronti del decreto in epigrafe della Corte d’appello che ha accolto parzialmente il suo ricorso con il quale è stata proposta domanda di riconoscimento dell’equa riparazione per violazione dei termini di ragionevole durata del processo iniziato avanti al Tribunale di Napoli nel settembre del 1988 e ancora pendente alla data di presentazione della domanda.

L’Amministrazione non ha svolto difese.

La causa è stata assegnata alla Camera di consiglio essendosi ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso con cui si lamenta che la Corte abbia ritenuto ragionevole una durata di quattro anni per il processo avanti al Tribunale è manifestamente fondato.

Premesso infatti che “La Corte Europea dei diritti dell’uomo, ai cui principi il giudice nazionale deve tendenzialmente uniformarsi nella determinazione della durata ragionevole del procedimento, ha in linea di massima stimato tale durata in anni tre per quanto riguarda il giudizio di primo grado ed in anni due per quello di secondo grado;

da questi parametri il giudice può discostarsi riconoscendo una durata ragionevole maggiore o minore in considerazione della maggiore o minore complessità dei procedimento” (Cassazione civile, sez. 1^, 3 aprile 2008, n. 8521), non appare congrua la motivazione adottata per scostarsi dagli standard, posto che la Corte si è limitata ad accennare alla “natura” del procedimento e alla “istruttoria necessaria” senza minimamente indicare perché l’una e l’altra abbiano comportato un impegno straordinario.

Manifestamente fondato è anche il secondo motivo con cui si lamenta l’insufficiente quantificazione dell’indennizzo per il danno morale conseguente all’ingiustificata durata del processo, liquidato dal giudice del merito in Euro 500,00 in ragione d’anno.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiarito come la valutazione dell’indennizzo per danno non patrimoniale resti soggetta – a fronte dello specifico rinvio contenuto nella L. n. 89 del 2001, art. 2 – all’art. 6 della Convenzione, nell’interpretazione giurisprudenziale resa dalla Corte di Strasburgo, e, dunque, debba conformarsi, per quanto possibile, alle liquidazioni effettuate in casi similari dal Giudice europeo, sia pure in senso sostanziale e non meramente formalistico, con la facoltà di apportare le deroghe che siano suggerite dalla singola vicenda, purché in misura ragionevole (Cass., Sez. Un., 26 gennaio 2004, n. 1340); in particolare, detta Corte, con decisioni adottate a carico dell’Italia il 10 novembre 2004 (v., in particolare, le pronunce sul ricorso n. 62361/01 proposto da Riccardi Pizzati e sul ricorso n. 64897/01 Zullo), ha individuato nell’importo compreso fra Euro 1.000,00 ed Euro 1.500,00 per anno la base di partenza per la quantificazione dell’indennizzo, ferma restando la possibilità di discostarsi da tali limiti, minimo e massimo, in relazione alle particolarità della fattispecie, quali l’entità della posta in gioco e il comportamento della parte istante (cfr., ex multis, Cass., Sez. 1^, 26 gennaio 2006, n. 1630). A tali principi non si è adeguata la Corte d’appello che ha liquidato un importo notevolmente inferiore senza darsi carico di motivare lo scostamento.

Il terzo motivo con cui si censura la liquidazione delle spese è assorbito, stante la necessità di procedere ad una nuova liquidazione.

Il ricorso deve dunque essere accolto e cassata la sentenza impugnata nei limiti precisati. Non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto la causa può essere decisa nel merito e pertanto, ritenuto che non sussistano motivi per discostarsi dallo standard minimo indicato dalla Corte europea in Euro 1.000,00 in ragione d’anno e che debba tenersi conto solo del periodo di anni tredici eccedente quello ritenuto ragionevole di anni tre e non dell’intera durata del processo (Cassazione civile, sez. 1^, 14 febbraio 2008, n. 3716;

Cassazione civile, sez. 1^, 19 novembre 2007, n. 23844) pendente da sedici anni alla data della domanda, il Ministero della Giustizia deve essere condannato al pagamento in favore del ricorrente della somma di Euro 13.000,00 oltre interessi nella misura legale dalla data della domanda, oltre che delle spese del giudizio di primo grado che si liquidano in complessivi Euro 1.080,00 di cui Euro 480,00 per diritti, Euro 500,00 per onorari e Euro 100,00 per spese.

Tenuto conto dell’accoglimento solo parziale, le spese del giudizio di legittimità possono essere compensata per un mezzo e poste a carico per la differenza dell’Amministrazione.

P.Q.M.
la Corte accoglie il primo e il secondo motivo di ricorso, assorbito il terzo, cassa il decreto impugnato in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, condanna il Ministero della Giustizia al pagamento in favore di M.V. della somma di Euro 13.000,00 oltre interessi nella misura legale dalla data della domanda; compensa per un mezzo le spese del giudizio di legittimità e condanna l’Amministrazione alla rifusione in favore del ricorrente delle spese del giudizio di merito che liquida in complessivi Euro 1.080,00 e del 50% delle spese di questa fase che, per l’intero, liquida in complessivi Euro 900, di cui Euro 700 per onorari, il tutto oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 22 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2009


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 27-02-2009) 07-09-2009, n. 19323

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 15472-2006 proposto da:

C.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BELSIANA 71, presso lo studio dell’avvocato OCCHIPINTI MARIO, che lo rappresenta e difende, giusta mandato ad litem in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso l’AVVOCATURA COMUNALE, rappresentato e difeso dall’avvocato MARZOLO RICCARDO, giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

e contro

BANCA MONTE dè PASCHI DI SIENA SPA – nella qualità di Concessionaria del Servizio Nazionale di Riscossione per la Provincia di Roma;

– intimata –

avverso la sentenza n. 18392/2005 del GIUDICE DI PACE di ROMA del 12.4.05, depositata il 27/04/2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 27/02/2009 dal Consigliere Relatore Dott. IPPOLISTO PARZIALE;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Fulvio UCCELLA che ha concluso visto l’art. 375 c.p.c., comma 2, per il rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
C.S. impugna la sentenza 18392 del 2005 Giudice di Pace di Roma, pubblicata il 27 aprile 2005, con la quale veniva respinto il suo ricorso avverso la cartella esattoriale n. (OMISSIS) con la quale il Comune di Roma, per il tramite del relativo concessionario del servizio di riscossione, intimava il pagamento di Euro 331,09 per la iscrizione a ruolo di tre sanzioni amministrative mai portate a sua conoscenza. Le raccomandate non erano state recapitate ma erano state restituite “per compiuta giacenza”. In una delle notifiche risultava anche errato il civico o l’interno presso il quale risultava essere stata fatta la ricerca da parte dell’ufficiale notificante.

Il Giudice di Pace rigettava l’opposizione, ritenendo regolari le notifiche del verbale di accertamento. In particolare osservava che in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario si era provveduto al deposito degli atti presso la casa comunale, dandosi comunicazione di tanto con raccomandata con avviso di ritorno. Tali formalità risultavano degli atti perchè la “compiuta giacenza si riferisce proprio alle raccomandate con ricevuta di ritorno”.

L’odierno ricorrente articola due motivi di ricorso. Resiste con controricorso la parte intimata.

Attivatasi procedura ex art. 375 c.p.c., il Procuratore Generale invia requisitoria scritta nella quale conclude con richiesta di rigetto del ricorso per manifesta infondatezza.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Il ricorrente lamenta quanto segue.

Col primo motivo deduce violazione e falsa applicazione di norme di diritto con particolare riferimento all’art. 140 c.p.c.. Sostiene che la notifica ai sensi dell’art. 140 del c.p.c. si perfeziona con il compimento di tutti gli adempimenti richiesti dalla citata disposizione: deposito dell’atto nella casa comunale, affissione dell’avviso di deposito sulla porta dell’abitazione e invio della notizia di tale deposito a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento. Nel caso in questione dalla documentazione in atti risultavano dubbi in ordine al luogo nel quale l’ufficiale giudiziario aveva svolto attività prevista dall’art. 140 c.p.c.. La mancata affissione alla porta dell’abitazione del destinatario dell’avviso di deposito della casa comunale rendeva giustificata l’inesistenza della notifica. Inoltre, a giudizio del ricorrente, non è sufficiente il solo invio della raccomandata ma è necessario anche che l’atto di avviso dell’avvenuto deposito pervenga nell’effettiva conoscenza del destinatario.

Con il secondo motivo vengono dedotti vizi di motivazione. Il ricorso è fondato e va accolto.

Il ricorrente aveva dedotto un vizio di notifica dei verbali di infrazione al Codice della Strada, posti a fondamento della cartella esattoriale opposta. A fronte dell’eccepita mancata ricezione dei verbali in questione, il Giudice di Pace ha rilevato che dovevano ritenersi intervenute le relative notificazioni, perchè risultava inviata la raccomandata con la quale si era data notizia al notificando del deposito dell’atto presso il Comune e della tentata precedente notifica presso la sua abitazione per sua (momentanea) irreperibilità. Il Giudice di Pace ha, quindi, implicitamente concluso che ai fini della notifica dell’atto non è necessaria l’allegazione agli atti degli avvisi di ricevimento della predetta raccomandata, soltanto dai quali si sarebbe potuto rilevare l’effettiva conclusione del procedimento notificatorio.

Tale conclusione appare errata, non potendosi prescindere dalla verifica dell’esito del procedimento notificatorio (rilevabile solo dall’avviso di ricevimento) ai fini di considerare regolare (o meno) la notifica del verbale, non potendosi escludere in linea generale che l’avviso di deposito-giacenza dell’atto non sia in effetti pervenuto alla conoscenza dell’interessato, privandolo così della possibilità di tutelare i propri diritti.

A tali conclusioni è sostanzialmente giunta questa Corte, anche per effetto degli interventi della Corte costituzionale sul procedimento notificatorio, seppure con riferimento agli effetti della notifica effettuata per atti processuali, nei quali l’avviso di ricevimento, che conclude il procedimento notificatorio ex art. 140 c.p.c., è (o deve essere) nella disponibilità del notificante con le conseguenze che questa Corte ha tratto in tali situazioni (vedi per tutte Sezioni Unite 2005 n. 458 e successive).

Nel caso in questione occorre osservare che il procedimento notificatorio ha riguardo al verbale per infrazione al Codice della Strada, per le quali restano applicabili le norme processuali civili, in virtù dello specifico richiamo contenuto nell’art. 201 C.d.S., comma 1.

Ai fini, quindi, della successiva emissione della cartella esattoriale è necessario documentare la regolarità della notifica del verbale presupposto, che, se eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non può prescindere dal relativo avviso. Ove questo non risulti, come nella specie, allegato alla cartella esattoriale, in sede di opposizione, nel caso di deduzione della mancata conoscenza del relativo verbale, l’onere della relativa prova non può non far carico che all’Amministrazione nella cui disponibilità esclusiva si trova il documento in questione. Sicchè, il mancato deposito degli avvisi di ricevimento della notifica ex art. 140 c.p.c., se non giustificato, non può che determinare l’assoluta incertezza in ordine alla corretta conclusione del procedimento notificatorio con conseguente accoglimento sul punto del relativo motivo di opposizione.

Nel caso in questione, quindi, il Giudice di Pace avrebbe dovuto rilevare la nullità della notifica di verbali posti a fondamento della cartella esattoriale ed accogliere l’opposizione, posto che, in assenza di notifica valida nel termine di cui all’art. 201 C.d.S., comma 1, ai sensi del comma 5, stesso art. “l’obbligo di pagare la somma dovuta… si estingue”.

Il ricorso va accolto e il provvedimento impugnato cassato.

Sussistendone i presupposti, ai sensi dell’art. 384 c.p.c. questa Corte può pronunciare sul . merito, e, in accoglimento dell’opposizione originariamente proposta, annulla la cartella esattoriale opposta.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE accoglie il ricorso, cassa senza rinvio il provvedimento impugnato e, decidendo nel merito, in accoglimento dell’opposizione originariamente proposta al Giudice di Pace, annulla la cartella esattoriale opposta. Condanna la parte intimata alle spese di giudizio, liquidate in complessivi 400,00 Euro per onorari Euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2009


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 16/04/2009) 23/07/2009, n. 17281

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. VIVALDI Roberta – Consigliere

Dott. LANZILLO Raffaella – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 24155/2008 proposto da:

A.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ULPIANO 29, presso lo studio dell’avvocato ANTONETTI Marco, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BELLEI GIANNI, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

C.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 515/2007 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI, SEZIONE DISTACCATA di SASSARI del 31/07/07, depositata il 13/09/2007;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 16/04/2009 dal Consigliere e Relatore Dott. RAFFAELLA LANZILLO;

udito l’Avvocato Antonetti Marco, difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

è presente il P.G. in persona del Dott. CARLO DESTRO che si riporta alla relazione scritta.

La Corte:

Svolgimento del processo
– Il giorno 18.2.2 009 è stata depositata in cancelleria la seguente relazione, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ:

“1.- Con atto di citazione notificato il 21.4.1994 C.M. ha convenuto davanti al Tribunale di Tempio Pausania A. F., chiedendone la condanna al pagamento di L. 21.500.000, a lui promesse tramite scrittura privata (OMISSIS) per il caso di buon fine della vendita di un complesso immobiliare in località (OMISSIS).

Il convenuto è rimasto contumace e il Tribunale ha accolto la domanda, con sentenza n. 331/1999.

L’ A., premesso di avere avuto notizia del giudizio di primo grado solo con la notifica della sentenza del tribunale, avvenuta il 4.6.2004, ha proposto appello con atto notificato il 2.7.2004, deducendo la nullità dell’atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, per nullità della notifica.

Ha resistito l’appellato.

Con sentenza 31 luglio – 13 settembre 2007 n. 515 la Corte di appello di Cagliari ha dichiarato l’appello inammissibile perchè tardivo, condannando l’appellante al pagamento delle spese del grado. Ha ritenuto che la sentenza di primo grado fosse stata notificata all’ A. il 1.6.2004 e che, essendo stata richiesta la notifica dell’atto di appello il 2 luglio successivo, i trenta giorni concessi per l’impugnazione fossero stati superati.

Con atto notificato il 15.10.2008 l’ A. propone due motivi di ricorso per cassazione.

L’intimato non ha presentato difese.

2.- Con il primo motivo, deducendo violazione della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, in relazione agli art. 325 e 326 cod. proc. civ., il ricorrente afferma che erroneamente la Corte di appello ha ritenuto che la sentenza di primo grado gli fosse stata notificata il 1 giugno 2004.

In tale data gli era stata solo recapitata la comunicazione dell’avvenuto deposito presso l’ufficio postale dell’atto da notificare. L’ufficiale giudiziario infatti, recatosi una prima volta il 31 maggio 2004 presso la sua abitazione per eseguire la notifica della sentenza di primo grado con allegato atto di precetto – notifica richiesta a mezzo posta – non aveva trovato nessuno. Aveva quindi depositato l’atto presso l’ufficio postale, comunicando poi l’avviso del deposito con lettera raccomandata.

A seguito dell’avviso, egli ha ritirato il plico dall’Ufficio postale il 4 giugno successivo – entro il termine di dieci giorni dal deposito – sicchè la notifica era da ritenere perfezionata il 4 giugno e non il 1 giugno, come ha ritenuto la Corte di appello. Il ricorrente richiama a conferma la sentenza 5 marzo 1996 n. 1279 di questa Corte a sezioni unite.

3.- Il motivo è manifestamente fondato.

La notificazione a mezzo posta si perfeziona, nei confronti del destinatario, nel momento in cui il piego raccomandato viene da lui ritirato dall’ufficio postale, ovvero con il decorso dei termini previsti per la compiuta giacenza (Cass. civ. S.U. 12 giugno 1999 n. 321), fermo restando che – per quanto concerne il notificante – a seguito delle sentenze n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004 della Corte Costituzionale, la notificazione si perfeziona nel momento della presentazione della richiesta all’Ufficiale giudiziario.

4.- La sentenza impugnata deve essere cassata, in accoglimento del primo motivo, restando assorbito il secondo motivo, dedotto in subordine.

8.- Il ricorso può essere avviato alla trattazione in Camera di consiglio”.

-La relazione è stata comunicata al Pubblico Ministero e notificata ai difensori delle parti.

– Il pubblico ministero non ha presentato conclusioni scritte.

Motivi della decisione
Il collegio, all’esito dell’esame del ricorso, ha condiviso la soluzione e gli argomenti esposti nella relazione.

– Il primo motivo di ricorso deve essere accolto, restando assorbito il secondo, e la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio della causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, affinchè decida la controversia uniformandosi al seguente principio di diritto:

“La notificazione a mezzo posta si perfeziona, nei confronti del destinatario, nel momento in cui il piego raccomandato viene da luì ritirato dall’ufficio postale, ovvero con il decorso dei termini previsti per la compiuta giacenza, fermo restando che – per quanto concerne il notificante – a seguito delle sentenze n. 477 del 2002 e n. 28 del 2004 della Corte Costituzionale, la notificazione si perfeziona nel momento della presentazione della richiesta all’Ufficiale giudiziario”.

P.Q.M.
La Corte di cassazione accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Cagliari, in diversa composizione, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 16 aprile 2009.

Depositato in Cancelleria il 23 luglio 2009


Corte Costituzionale n. 238 del 16.07.2009

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Francesco AMIRANTE Presidente

– Ugo DE SIERVO Giudice

– Paolo MADDALENA “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

– Paolo GROSSI “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promossi con ordinanze del 17 luglio 2008 dal Giudice di pace di Catania e del 7 novembre 2008 dalla Commissione tributaria provinciale di Prato, rispettivamente iscritte al n. 445 del registro ordinanze 2008 e al n. 21 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3 e n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 giugno 2009 il Giudice relatore Franco Gallo.

1. – Nel corso di un giudizio di opposizione all’esecuzione proposto ai sensi dell’art. 615 del codice di procedura civile, il Giudice di pace di Catania, con ordinanza depositata il 17 luglio 2008 (r.o. n. 445 del 2008), ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, primo comma, 102, secondo comma, e VI disposizione transitoria della Costituzione, questioni di legittimità dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 – nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie relative alla debenza del canone […] per lo smaltimento di rifiuti urbani».

1.1. – Il Giudice di pace rimettente premette, in punto di fatto, che:

a) il contribuente si è opposto, ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ., al diritto del Comune di Catania di procedere, a séguito della notificazione di una cartella di pagamento, alla riscossione coattiva «della tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani, oggi tariffa di igiene ambientale (TIA), per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000»;

b) la convenuta s.p.a. SERIT Sicilia, agente della riscossione per la provincia di Catania, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adíto, essendo la controversia devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie, ai sensi dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992.

1.2. – Il medesimo giudice rimettente premette altresì, in punto di diritto, che:

a) «con l’emanazione del cosiddetto decreto Ronchi» (art. 49 del d.lgs. 5 febbraio 1997, n. 22, recante «Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio») la tassa sui rifiuti solidi urbani (TARSU), disciplinata dall’art. 58 del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, è stata sostituita con un prelievo di natura non più tributaria, ma privatistica, cioè con la tariffa di igiene ambientale (TIA), determinata in base al costo complessivo del servizio, «al fine di far pagare agli utenti il costo del reale servizio usufruito»;

b) la natura non tributaria della TIA è desumibile sia dalla denominazione di «tariffa» sia dalla sua determinazione quantitativa in ragione della copertura del costo del servizio, a nulla rilevando – contrariamente a quanto affermato dalla Corte di cassazione con le sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006 – né il fatto che la sua disciplina presenterebbe elementi di natura tributaria e non tributaria né il fatto che essa subentra alla TARSU, cioè ad una entrata avente indiscussa natura tributaria.

1.3. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma che la norma censurata – nell’attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie, di natura non tributaria, in materia di TIA – «comporta lo snaturamento della giurisdizione tributaria e, quindi, la violazione» degli evocati parametri costituzionali, perché, come più volte affermato dalla Corte costituzionale, «la giurisdizione del giudice tributario deve ritenersi imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto» (sentenza n. 64 del 2008; ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006).

1.4. – Quanto alla rilevanza, il Giudice di pace osserva che la decisione sulla controversia «non potrà prescindere dall’eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal convenuto, eccezione la cui fondatezza dipende dall’applicabilità, nel giudizio principale, della disposizione censurata».

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale promosso dal Giudice di pace di Catania ed ha chiesto dichiararsi manifestamente inammissibili, per difetto di motivazione, le questioni sollevate in riferimento al primo comma dell’art. 25 ed alla VI disposizione transitoria Cost., nonché manifestamente infondata quella sollevata in riferimento al secondo comma dell’art. 102 Cost. In particolare, in relazione a quest’ultima questione, la difesa erariale afferma che:

a) l’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 ha soppresso, in attuazione di direttive comunitarie, la «tassa per lo smaltimento dei rifiuti urbani» ed ha istituito una «tariffa» per la copertura dei costi del servizio di smaltimento;

b) l’art. 238 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nel quale – sempre per la difesa erariale – «è stata trasfusa la disciplina della tariffa», «non presenta […] caratteri di sostanziale diversità rispetto alla previgente “tassa per lo smaltimento dei rifiuti”, considerata la sostanziale identità del presupposto oggettivo e dei soggetti passivi, nonché la confermata obbligatorietà del prelievo»;

c) l’obbligo del privato di pagare detta tariffa scaturisce, pertanto, da un fatto individuato direttamente dalla legge e non da un titolo contrattuale o da un fatto comunque fonte di un rapporto negoziale;

d) inoltre, la tariffa prevede la copertura di costi (come ad esempio le spese di spazzamento delle strade) estranei alla logica della corrispondenza tra costi e benefici e riferibili, piuttosto, alla collettività;

e) la tariffa, dunque, in considerazione della doverosità e del fondamento solidaristico della prestazione, va qualificata come “tassa”, cioè come una forma di finanziamento di un servizio pubblico attraverso l’imposizione dei relativi costi sull’area sociale che da tale servizio riceve, nel suo insieme, un beneficio.

3. – Nel corso di due giudizi riuniti aventi ad oggetto l’impugnazione, da parte del medesimo contribuente, di avvisi di pagamento della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 e relativa agli anni 2007 e 2008, la Commissione tributaria provinciale di Prato, con ordinanza depositata il 7 novembre 2008 (r.o. n. 21 del 2009), ha sollevato, in riferimento all’art. 102, secondo comma, Cost., questione di legittimità del citato art. 2, comma 2, secondo periodo, del d. lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie in materia di TIA.

3.1. – La Commissione tributaria rimettente premette, in punto di diritto, che:

a) con le sentenze n. 130 e n. 64 del 2008 e con l’ordinanza n. 34 del 2006, la Corte costituzionale ha sottolineato che l’attribuzione della giurisdizione alle commissioni tributarie è imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto;

b) la tariffa prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006 («già art. 49 d.Lgs. n. 22/1997») non ha natura tributaria, ma di «corrispettivo per il servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani» (comma 1) ed è costituita da due quote, una commisurata alle componenti essenziali del costo del servizio (investimenti, ammortamenti), l’altra «rapportata alla quantità dei rifiuti conferiti» (comma 4), così da assicurare «la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (stesso comma 4);

c) il mero dato formale costituito dal fatto che il comma 15 del menzionato art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 richiama, per la riscossione coattiva della tariffa, le norme per la riscossione delle imposte sul reddito (d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602) non è sufficiente ad escludere che la suddetta tariffa abbia la natura di corrispettivo di un servizio, commisurato al costo di questo ed all’entità della sua fruizione da parte del privato;

d) tuttavia, le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 4895 del 2006, hanno affermato che, in forza della disposizione denunciata, le controversie relative alla debenza della TIA sono devolute alla giurisdizione delle commissioni tributarie.

3.2. – Su tali premesse, il giudice a quo afferma che tale ultima disposizione – nell’attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie, di natura non tributaria, in materia di TIA – si risolve nella creazione di un nuovo giudice speciale e, quindi, víola l’evocato parametro costituzionale.

4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto anche in questo giudizio ed ha chiesto dichiararsi la questione manifestamente inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. Per la difesa erariale, l’inammissibilità deriva dal difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto nell’ordinanza di rimessione manca l’esposizione dei fatti di causa e dei termini della controversia; l’infondatezza deriva, invece – per le medesime considerazioni svolte nell’atto di intervento nel giudizio di costituzionalità promosso dal Giudice di pace di Catania – dalla natura tributaria della tariffa prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006.

Motivi della decisione

1. – Il Giudice di pace di Catania (r.o. n. 445 del 2008) dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui dispone che «Appartengono alla giurisdizione tributaria […] le controversie relative alla debenza del canone […] per lo smaltimento di rifiuti urbani» e, quindi, della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/ CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).

Il Giudice di pace rimettente afferma che la disposizione denunciata víola:

a) l’art. 25, primo comma, della Costituzione;

b) la VI disposizione transitoria della Costituzione;

c) l’art. 102, secondo comma, Cost. In particolare, tale ultimo parametro sarebbe violato, perché la disposizione censurata, attribuendo alla cognizione delle commissioni tributarie le controversie concernenti la TIA, la quale non è qualificabile come “tributo”, comporterebbe «lo snaturamento della giurisdizione tributaria […], imprescindibilmente collegata alla natura tributaria del rapporto».

2. – La Commissione tributaria provinciale di Prato (r.o. n. 21 del 2009) dubita della legittimità costituzionale della medesima disposizione denunciata dal Giudice di pace di Catania.

Per il rimettente, la suddetta disposizione víola l’art. 102, secondo comma, Cost., perché attribuisce alla cognizione delle commissioni tributarie controversie che non hanno ad oggetto tributi e, pertanto, «si risolve nella creazione di un nuovo giudice speciale», vietata da tale parametro.

3. – L’identità della disposizione denunciata dai due giudici rimettenti e la parziale coincidenza sia delle censure prospettate, sia dei parametri costituzionali evocati, sia delle argomentazioni svolte nelle ordinanze di rimessione, rendono opportuna la riunione dei giudizi, al fine di esaminare e decidere congiuntamente le questioni.

4. – Le questioni sollevate dal Giudice di pace di Catania (r.o. n. 445 del 2008) sono manifestamente inammissibili.

4.1. – Con riferimento agli evocati art. 25, primo comma, Cost. e VI disposizione transitoria della Costituzione, il rimettente non indica le ragioni della denunciata illegittimità costituzionale. Da ciò consegue la manifesta inammissibilità di tali questioni.

4.2. – Con riferimento al parimenti evocato secondo comma dell’art. 102 Cost., il rimettente afferma che:

a) il giudizio principale è stato instaurato ai sensi dell’art. 615 del codice di procedura civile, come opposizione al diritto del Comune di Catania di procedere alla riscossione coattiva del credito risultante da una cartella di pagamento notificata al debitore;

b) tale credito riguarda «la tassa di smaltimento rifiuti solidi urbani, oggi tariffa di igiene ambientale (TIA), per gli anni 1997, 1998, 1999 e 2000».

4.2.1. – In relazione all’affermazione sub a) – secondo cui il giudizio principale è stato instaurato ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. -, va rilevato che sia l’art. 72, comma 5, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, con riferimento alla TARSU, sia l’art. 49, comma 15, del d.lgs. n. 22 del 1997, con riferimento alla TIA, fanno espresso rinvio, per la disciplina della riscossione di tali prelievi, al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte su reddito). In particolare, l’art. 57, comma 1, alinea e lettera a), di detto decreto presidenziale stabilisce che «Non sono ammesse: […]

a) le opposizioni regolate dall’art. 615 del codice di procedura civile, fatta eccezione per quelle concernenti la pignorabilità dei beni». Il rimettente, tuttavia, qualifica espressamente l’azione proposta dal contribuente non come opposizione agli atti esecutivi, ma come opposizione regolata dall’art. 615 cod. proc. civ., ed inoltre non precisa se essa abbia ad oggetto la pignorabilità dei beni. L’ordinanza, pertanto, è priva di motivazione sulle ragioni per le quali il Giudice di pace – nonostante il citato chiaro disposto dell’art. 57, comma 1, alinea e lettera a), del d.P.R. n. 602 del 1973 – ha ritenuto ammissibile, nella specie, detta opposizione. In difetto di tale motivazione, non appare evidente che il giudice a quo debba fare applicazione della disposizione denunciata e pertanto, non essendo stata dimostrata la rilevanza della sollevata questione, questa deve dichiararsi manifestamente inammissibile.

4.2.2. – Sempre in relazione all’affermazione sub a), va ulteriormente rilevato che l’art. 2, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce che «Restano escluse dalla giurisdizione tributaria soltanto le controversie riguardanti gli atti della esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento e, ove previsto, dell’avviso di cui all’art. 50 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, per le quali continuano ad applicarsi le disposizioni del medesimo decreto del Presidente della Repubblica». Nell’ordinanza di rimessione viene riferito che il giudizio principale riguarda la fase della esecuzione forzata tributaria successiva alla notifica della cartella di pagamento, e cioè proprio la fase per la quale la citata disposizione prevede la giurisdizione del giudice ordinario. Dopo tale premessa, tuttavia, il rimettente non fornisce alcuna motivazione sulle ragioni per le quali, nella specie, egli ritiene sussistere – in contrasto con il sopra citato art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 – la giurisdizione delle commissioni tributarie, in luogo di quella del giudice ordinario. Anche in questo caso, in difetto di siffatta motivazione, non appare evidente che il giudice debba fare applicazione della disposizione denunciata e pertanto, non essendo stata dimostrata – neppure sotto tale diverso profilo – la rilevanza della sollevata questione, questa deve dichiararsi manifestamente inammissibile.

4.2.3. – Infine, con l’affermazione sub b), il rimettente dichiara, ad un tempo, che il credito per il quale si procede alla riscossione coattiva riguarda solo la TARSU e che quest’ultimo prelievo, della cui natura tributaria egli non dubita, è stato successivamente sostituito dalla TIA, della cui natura tributaria, invece, dubita. La circostanza che le cartelle di pagamento poste a base dell’esecuzione forzata attengono esclusivamente alla TARSU, e non alla TIA, rende non rilevante la sollevata questione, la quale ha ad oggetto la norma, non applicabile nel giudizio a quo, con cui sono attribuite alla giurisdizione delle commissioni tributarie le controversie in materia di TIA. Di qui la manifesta inammissibilità, anche sotto tale profilo, della questione.

5. – La difesa erariale ha eccepito la manifesta inammissibilità della questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Prato (r.o. n. 21 del 2009), affermando che l’ordinanza di rimessione, non avendo esposto i fatti di causa ed indicato i termini della controversia, è priva di motivazione sulla rilevanza.

L’eccezione non è fondata. Contrariamente a quanto dedotto dall’Avvocatura generale dello Stato, infatti, il rimettente ha chiaramente precisato che il giudizio principale ha ad oggetto l’impugnazione di «avvisi di pagamento […] relativi alla TIA (tariffa igiene ambientale) per gli anni 2007 e 2008, concernente l’immobile ove ha sede l’impresa individuale» del soggetto sottoposto a prelievo. Ciò è sufficiente ad evidenziare la rilevanza della questione, perché, per affermare la propria giurisdizione, il giudice a quo deve fare applicazione proprio della disposizione denunciata.

6. – Nel merito, la questione prospettata dalla Commissione tributaria provinciale di Prato non è fondata, perché il giudice rimettente muove dall’erroneo presupposto interpretativo che la TIA ha natura di corrispettivo privatistico di prestazioni contrattuali e non di tributo. Dall’erroneità di tale presupposto consegue la non fondatezza del prospettato dubbio di legittimità costituzionale.

6.1. – Al riguardo, per precisare il thema decidendum, appare opportuno procedere ad una sintetica ricostruzione delle linee essenziali del complesso quadro normativo in cui si inserisce la disposizione denunciata.

L’evoluzione normativa in materia, per quanto qui interessa, è scandita da quattro diversi principali interventi legislativi.

6.1.1. – Il regio decreto 14 settembre 1931, n. 1175 (Testo unico per la finanza locale), prevedeva, originariamente, la corresponsione al Comune di un «corrispettivo per il servizio di ritiro e trasporto delle immondizie domestiche» ed attribuiva natura privatistica al rapporto tra utente e servizio comunale. Tale configurazione sinallagmatica del rapporto è stata, però, radicalmente mutata – con un primo significativo intervento del legislatore – dall’art. 10 della legge 20 marzo 1941, n. 366 (Raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti solidi urbani), il quale ha attribuito ai Comuni la facoltà di istituire una «tassa» per la raccolta ed il trasporto delle immondizie e dei rifiuti ordinari (interni ed esterni), ponendo tale prelievo a carico dei soggetti occupanti i fabbricati posti nelle zone in cui si svolge (in regime di privativa comunale) il servizio di raccolta. L’art. 21 del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915 (Attuazione delle direttive CEE numero 75/442 relativa ai rifiuti, numero 76/403 relativa allo smaltimento dei policlorodifenili e dei policlorotrifenili e numero 78/319 relativa ai rifiuti tossici e nocivi), ha poi sostituito (a decorrere dal 1° gennaio 1984, come successivamente stabilito dall’art. 25 del decreto-legge 28 febbraio 1983, n. 55, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 1983, n. 131) l’intera sezione II (artt. da 268 a 278) del capo XVIII (Proventi di servizi municipalizzati) del titolo III (Entrate comunali e provinciali) del suddetto r.d. n. 1175 del 1931. Con tale normativa e, in particolare, con la nuova formulazione dell’art. 268 del testo unico, il legislatore ha esteso e reso obbligatorie sia l’effettuazione dei vari servizi relativi allo smaltimento dei rifiuti solidi urbani «interni», sia l’applicazione della «tassa» (che il comma 2 dell’art. 20 del decreto-legge 22 dicembre 1981, n. 786, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1982, n. 786, aveva già reso obbligatoria, con effetto dal 1° gennaio 1982, per i Comuni che avevano istituito il servizio) a carico di chiunque occupi o conduca locali, a qualunque uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui sono istituiti i servizi, ovvero aree adibite a campeggi, a distributori di carburante, a sala da ballo all’aperto, nonché a qualsiasi altra area scoperta ad uso privato e non costituente accessorio o pertinenza dei suddetti locali tassabili. In particolare, il legislatore, nel ridisciplinare il suddetto prelievo comunale, ha individuato nel «costo di erogazione del servizio» il limite massimo di gettito, «al netto delle entrate derivanti dal recupero e dal riciclaggio dei rifiuti sotto forma di materiali o energia»; e ciò in coerenza con la denominazione di «tassa» (art. 268, citato). Nella medesima prospettiva della natura pubblicistica del prelievo, l’art. 9 del decreto-legge 2 marzo 1989, n. 66, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 1989, n. 144, ha previsto, con effetto dal 1° gennaio 1989, che mediante la «tassa» venissero coperti (in tutto o in parte) anche i costi dei servizi di smaltimento (cioè di «conferimento, raccolta, spazzamento, cernita, trasporto, trattamento, ammasso, deposito, discarica sul suolo e nel suolo») non solo dei rifiuti «interni», ma anche di quelli «di qualunque natura e provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o soggette ad uso pubblico» (cosiddetti “esterni”) e che fossero tenuti al pagamento (sia pure in misura ridotta) anche gli occupanti di case coloniche e “case sparse” non ubicate nella zona di raccolta dei rifiuti. L’art. 8 dello stesso decreto-legge ha ribadito la qualificazione di «tassa» del prelievo, inserendo tale denominazione anche nella rubrica della citata sezione II del regio decreto.

6.1.2. – Un secondo essenziale intervento legislativo è costituito dal decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell’imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell’art. 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), efficace a decorrere dal 1° gennaio 1994, il quale – in attuazione del comma 4 dell’art. 4 della legge di delegazione 23 ottobre 1992, n. 421 – ha stabilito, all’art. 58, che, in relazione all’istituzione ed all’attivazione del servizio relativo allo «smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, svolto in regime di privativa» nelle zone del territorio comunale, i Comuni «debbono istituire una tassa annuale» (usualmente denominata “TARSU”), da applicarsi «in base a tariffa», secondo appositi regolamenti comunali, a copertura (dal cinquanta al cento per cento ovvero, per gli enti locali per i quali sussistono i presupposti dello stato di dissesto, dal settanta al cento per cento) del costo del servizio stesso, nel rispetto delle prescrizioni e dei criteri specificati negli artt. da 59 a 81 del medesimo decreto legislativo. Diversamente dal precedente regime, il prelievo non riguarda lo smaltimento dei rifiuti “esterni” ed il richiamo ai rifiuti solidi urbani «equiparati» (ai sensi dell’art. 60 del decreto legislativo) a quelli «interni» – richiamo originariamente contenuto nel comma 1 del citato art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 – è stato soppresso dalla lettera a) del comma 3 dell’art. 39 della legge 22 febbraio 1994, n. 146 (articolo che ha abrogato anche l’art. 60 del suddetto decreto legislativo). Solo con l’introduzione del comma 3-bis dell’art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993, ad opera dall’art. 3, comma 68, lettera b), della legge 28 dicembre 1995, n. 549, hanno acquistato rilevanza anche per la TARSU i rifiuti “esterni”, perché tale disposizione stabilisce che dal costo complessivo dei servizi di nettezza urbana gestiti in regime di privativa comunale va dedotta una quota «a titolo di costo dello spazzamento dei rifiuti solidi urbani di cui all’art. 2, terzo comma, numero 3), del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915» (cioè «i rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private, comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime, lacuali e sulle rive dei fiumi»). L’art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448, ha ampliato, dal punto di vista quantitativo, l’incidenza del suddetto costo di spazzamento dei rifiuti “esterni”.

Quanto ai soggetti passivi, la tassa è dovuta (in solido tra i componenti del nucleo familiare o tra gli utilizzatori in comune degli immobili) da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti – ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde – esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, ivi comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). I soggetti passivi hanno «l’obbligo di denuncia» dell’occupazione o detenzione dei locali ed aree tassabili siti nel territorio del Comune (art. 70, specie commi 1 e 6). In connessione con l’obbligo di presentare tale dichiarazione di scienza, è attribuito al Comune il potere di «emettere» (nel senso di “notificare”, come chiarito dal comma 1 dell’art. 72) motivati avvisi di accertamento d’ufficio (in caso di omessa denuncia) o in rettifica (in caso di denuncia infedele o incompleta), entro specifici termini di decadenza (artt. 71, 73). È prevista l’esclusione o l’esonero dal tributo in determinati casi in cui gli immobili si trovino in condizione di non potere produrre rifiuti, mentre è, di regola, irrilevante la circostanza che il soggetto passivo abbia, in concreto, autonomamente provveduto allo smaltimento (art. 62, commi 2, 3 e 5). Il prelievo, dunque, è posto in relazione, da un lato, alla attitudine media ordinaria alla produzione quantitativa e qualitativa dei rifiuti per unità di superficie e per tipo di uso degli immobili e, dall’altro, alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento dei rifiuti da parte dei soggetti passivi. In particolare, la tassa, mediante determinazione tariffaria da parte del Comune, «può essere commisurata […] in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile di rifiuti solidi […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1, come sostituito dall’art. 3, comma 68, della legge 28 dicembre 1995, n. 549). Solo in via eccezionale ed alternativa è prevista la possibilità di commisurare la medesima tassa, «per i comuni aventi popolazione inferiore a 35.000 abitanti, in base alla qualità, alla quantità effettivamente prodotta, dei rifiuti solidi urbani e al costo dello smaltimento» (ibidem). È coerente con tale impostazione pubblicistica l’obbligo, imposto agli occupanti o detentori «degli insediamenti comunque situati fuori dall’area di raccolta», di utilizzare il servizio pubblico di nettezza urbana, conferendo i rifiuti urbani, «interni ed equiparati», nei «contenitori viciniori» (art. 59, comma 3). È compatibile con la medesima impostazione, anche la previsione di riduzioni della tassa per le zone in cui la raccolta non viene effettuata e per i casi di non svolgimento, svolgimento per periodi stagionali, nonché per i casi in cui l’utente dimostri di aver provveduto autonomamente allo smaltimento in periodi di protratto mancato svolgimento del servizio, ove l’autorità sanitaria competente abbia riconosciuto una situazione di danno o di pericolo di danno alle persone o all’ambiente secondo le norme e prescrizioni sanitarie nazionali (art. 59, commi 2, 4, 5, 6, secondo periodo). La natura pubblicistica e non privatistica del prelievo è ulteriormente evidenziata sia dalla regola secondo cui «L’interruzione temporanea del servizio di raccolta per motivi sindacali o per imprevedibili impedimenti organizzativi non comporta esonero o riduzione del tributo» (art. 59, comma 6, primo periodo); sia dal sopra citato comma 3-bis dell’art. 61 e successive modificazioni, che ha reso rilevante anche il costo dello spazzamento dei rifiuti esterni. Il d.lgs. n. 507 del 1993 prevede anche una «tassa giornaliera di smaltimento» dei rifiuti producibili mediante l’uso (autorizzato o no), per periodi inferiori a 183 giorni per anno solare, di locali od aree pubbliche, di uso pubblico, o aree gravate da servitú di pubblico passaggio (art. 77). Per la riscossione, si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, e del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (art. 72). Ai sensi dell’art. 52, comma 5, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, il Comune ha facoltà di disciplinare con proprio regolamento l’affidamento a terzi delle fasi di liquidazione, accertamento e riscossione della tassa. Sanzioni specifiche sono previste dall’art. 76 (e successive modificazioni) per l’omessa o infedele denuncia e per la mancata presentazione o trasmissione di atti, documenti o dati richiesti dal Comune; sono comunque applicabili le disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria stabilite dal d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472.

6.1.3. – Un terzo intervento legislativo si è realizzato con l’entrata in vigore (dal 1° gennaio 1999) dell’art. 49 del cosiddetto “decreto Ronchi”, cioè del d.lgs. n. 22 del 1997 (successivamente modificato dall’art. 1, comma 28, della legge 9 dicembre 1998, n. 426, e dall’art. 33 della legge 23 dicembre 1999, n. 488), il quale – in dichiarata attuazione delle direttive 91/156/CEE, 91/689/CEE e 94/62/CE – ha stabilito l’obbligo dei Comuni di effettuare, in regime di privativa, la gestione dei rifiuti urbani ed assimilati e, in particolare, ha previsto l’istituzione, da parte dei Comuni medesimi, di una «tariffa» per la copertura integrale dei costi per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale. Tale tariffa – usualmente denominata tariffa di igiene ambientale (TIA) – «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere e dai relativi ammortamenti, e da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). Con regolamento del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, viene elaborato il metodo normalizzato per definire le componenti dei costi e determinare la tariffa di riferimento (comma 5). Il metodo normalizzato è stato approvato con il regolamento di cui al d.P.R. 27 aprile 1999, n. 158. È tenuto al pagamento della tariffa «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (comma 3). La tariffa è ridotta nei casi in cui il produttore di rifiuti assimilati dimostri (mediante attestazione rilasciata da chi effettui il recupero) di aver avviato detti rifiuti al recupero (comma 14). La tariffa è applicata e riscossa dal soggetto che gestisce il servizio (commi 9 e 13). Diversamente dalla normativa sulla TARSU, l’art. 49 del “decreto Ronchi”, pertanto: a) evita di qualificare espressamente il prelievo come “tributo” o “tassa”, pur mantenendo il riferimento testuale alla «tariffa»; b) stabilisce che la TIA deve sempre coprire l’intero costo del servizio di gestione dei rifiuti; c) dispone che detta tariffa è dovuta anche per la gestione dei rifiuti “esterni” (come già statuiva l’abrogato art. 268 del r.d. n. 1175 del 1931, quale sostituito dall’art. 21 del d.P.R. n. 915 del 1982, in relazione all’art. 9 del decreto-legge n. 66 del 1989, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 144 del 1989); d) non reca, con riguardo alla TIA, specifiche disposizioni in tema di accertamento, liquidazione e sanzioni. Analogamente alla TARSU, anche per la TIA la riscossione volontaria e coattiva della tariffa può essere effettuata tramite ruolo, secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973 e del d.P.R. n. 43 del 1988 (comma 15 del medesimo art. 49). Lo stesso art. 49 ha soppresso la TARSU «a decorrere dai termini previsti dal regime transitorio», da disciplinarsi con il suddetto regolamento ministeriale (comma 1) al fine di garantire la graduale applicazione del metodo normalizzato e della tariffa ed il graduale raggiungimento dell’integrale copertura dei costi del servizio di gestione dei rifiuti urbani da parte dei Comuni (commi 1 e 5). Resta comunque ferma la possibilità, per i Comuni, di deliberare l’applicazione della tariffa, «in via sperimentale», in sostituzione della TARSU, anche prima di tali termini (commi 1-bis e 16). La completa soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA, inizialmente fissata a decorrere dal 1° gennaio 1999, è stata via via differita dal legislatore, il quale, preso atto della difficoltà di rendere operativa, per i vari Comuni, l’abolizione del prelievo soppresso, ha previsto, con numerose disposizioni contenute soprattutto nelle varie leggi finanziarie, un articolato regime transitorio, che concede termine ai Comuni – da ultimo, fino a tutto il 2008 – per sostituire la TARSU con la TIA, secondo uno scadenzario differenziato, in ragione sia del grado di copertura dei costi dei servizi raggiunto dai diversi Comuni sia della popolazione dei Comuni stessi (comma 184 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, quale modificato dall’art. 5, commi da 1 a 2-quinquies del decreto-legge 30 dicembre 2008, n. 208, recante «Misure straordinarie in materia di risorse idriche e di protezione dell’ambiente», convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 27 febbraio 2009, n. 13).

6.1.4. – La quarta rilevante modifica legislativa del prelievo è costituita dall’art. 238 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), in vigore dal 23 aprile 2006, il quale ha soppresso la tariffa di cui all’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, sostituendola con la diversa «tariffa per la gestione dei rifiuti urbani» (come testualmente indicato nella rubrica dell’articolo), che una disposizione successiva (l’art. 5, comma 2-quater, del citato decreto-legge n. 208 del 2008) denomina «tariffa integrata ambientale (TIA)». Tale tariffa integrata deve essere determinata ad opera dell’autorità d’àmbito territoriale ottimale (AATO), prevista dall’art. 201 dello stesso decreto legislativo, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore del regolamento ministeriale (da emanarsi, a sua volta, entro sei mesi dalla sopra indicata data di entrata in vigore della parte quarta del decreto legislativo e, quindi, dell’art. 238 in essa compreso) con il quale sono fissati i criteri generali per la definizione delle componenti dei costi e la determinazione della tariffa (commi 3 e 6). La tariffa integrata è dovuta da chiunque possegga o detenga a qualsiasi titolo locali, o aree scoperte ad uso privato o pubblico non costituenti accessorio o pertinenza dei locali medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale, che producano rifiuti urbani (comma 1, primo periodo). Detta tariffa, in particolare, è «commisurata alle quantità e qualità medie ordinarie di rifiuti prodotti per unità di superficie, in relazione agli usi e alla tipologia di attività svolte, sulla base di parametri […] che tengano anche conto di indici reddituali articolati per fasce di utenza e territoriali» (comma 2), e costituisce «il corrispettivo per lo svolgimento del servizio di raccolta, recupero e smaltimento dei rifiuti solidi urbani e ricomprende anche i costi indicati dall’art. 15 del decreto legislativo 13 gennaio 2003, n. 36» (comma 1, secondo periodo) – cioè «i costi di realizzazione e di esercizio dell’impianto per lo smaltimento in discarica, i costi sostenuti per la prestazione della garanzia finanziaria ed i costi stimati di chiusura, nonché i costi di gestione successiva alla chiusura per il periodo fissato dalla legge – oltre ai «costi accessori relativi alla gestione dei rifiuti urbani quali, ad esempio, le spese di spazzamento delle strade» (comma 3, secondo periodo). La medesima tariffa «è composta da una quota determinata in relazione alle componenti essenziali del costo del servizio, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti, nonché da una quota rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito e all’entità dei costi di gestione, in modo che sia assicurata la copertura integrale dei costi di investimento e di esercizio» (comma 4). È espressamente previsto che la tariffa «è applicata e riscossa dai soggetti affidatari del servizio di gestione integrata» (comma 3) e che la sua riscossione, volontaria o coattiva, «può» essere effettuata secondo le disposizioni del d.P.R. n. 602 del 1973, «mediante convenzione con l’Agenzia delle entrate» (comma 12). La soppressione della precedente tariffa di igiene ambientale ha effetto dalla data di entrata in vigore dello stesso art. 238, ma, fino alla completa attuazione della nuova tariffa integrata (cioè con l’emanazione del sopra menzionato regolamento ministeriale ed il compimento degli adempimenti per l’applicazione della tariffa), «continuano ad applicarsi le discipline regolamentari vigenti» (comma 10). Nel caso in cui il regolamento ministeriale non sia stato adottato entro il 30 giugno 2009, i Comuni possono ugualmente «adottare la tariffa integrata ambientale TIA […] ai sensi delle disposizioni legislative e regolamentari vigenti» (art. 5, comma 2-quater, del decreto-legge n. 208 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 13 del 2009).

6.2. – Da tale ricostruzione normativa emerge che, per il periodo dal 1999 a tutto il 2008, in alcuni Comuni è applicabile la TARSU ed in altri la tariffa di igiene ambientale (TIA). Fino al 2009, poi, non risulta, allo stato, ancora applicabile dai Comuni la tariffa integrata ambientale di cui all’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006. La rilevata formale diversità delle fonti istitutive delle due suddette tariffe (ancorché entrambe usualmente denominate, in breve, TIA), la successione temporale delle fonti, la parziale diversità della disciplina sostanziale di tali prelievi, il fatto che la tariffa integrata espressamente sostituisce la tariffa di igiene ambientale, nonché la circostanza che i giudizi riuniti a quibus, pendenti presso la Commissione tributaria provinciale di Prato, hanno ad oggetto solo avvisi di accertamento della tariffa di igiene ambientale per gli anni d’imposta 2007 e 2008 sono tutti elementi che impediscono di ritenere che la questione sollevata dalla suddetta Commissione tributaria riguardi, oltre alla tariffa di igiene ambientale, anche la tariffa integrata ambientale. Ne deriva che lo scrutinio di legittimità costituzionale va limitato alla norma che attribuisce alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative alla debenza della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 e non anche di quelle relative alla debenza della tariffa integrata ambientale (TIA) prevista dall’art. 238 del d.lgs. n. 152 del 2006.

7. – così delimitato il thema decidendum, va rilevato che, nel porre la questione di legittimità costituzionale, il rimettente muove da due diversi assunti: a) che la giurisdizione tributaria, ai sensi dell’evocato parametro, deve avere ad oggetto solo controversie tributarie; b) che la TIA prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 ha natura non tributaria, ma di corrispettivo contrattuale.

7.1. – Il primo dei due assunti del rimettente è esatto. Per costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, la giurisdizione del giudice tributario «deve ritenersi imprescindibilmente collegata» alla «natura tributaria del rapporto» (ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006), con la conseguenza che l’attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi tale natura comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali posto dall’art. 102, secondo comma, Cost. (sentenze n. 141 del 2009; n. 130 e n. 64 del 2008).

La decisione della sollevata questione esige, dunque, che si proceda alla qualificazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA) prevista dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, in quanto solo il riconoscimento della natura tributaria di tale prelievo può escludere la dedotta illegittimità costituzionale della disposizione denunciata.

7.2. – Il secondo assunto del rimettente, circa la natura di corrispettivo privatistico, propria della suddetta tariffa di igiene ambientale, è erroneo, come sopra osservato, ove si proceda al raffronto tra la sua disciplina positiva e la nozione di tributo, quale elaborata dalla giurisprudenza costituzionale.

7.2.1. – Questa Corte, mediante numerose pronunce, ha indicato i criteri cui far riferimento per qualificare come tributari alcuni prelievi. Tali criteri, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina i prelievi stessi, consistono nella doverosità della prestazione, nella mancanza di un rapporto sinallagmatico tra parti e nel collegamento di detta prestazione alla pubblica spesa in relazione ad un presupposto economicamente rilevante (ex plurimis: sentenze n. 141 del 2009; n. 335 e n. 64 del 2008; n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).

7.2.2. – Con specifico riferimento alla disciplina della tariffa di igiene ambientale, va preliminarmente preso atto che non è individuabile, allo stato, un’univoca giurisprudenza di legittimità sulla natura di tale tariffa, anche se pare maggiormente attestato l’orientamento che le riconosce natura tributaria. Infatti, ad una pronuncia della Corte di cassazione civile che ha qualificato come non tributaria tale prestazione pecuniaria (sezioni unite, ordinanza n. 3274 del 2006), hanno fatto séguito altre decisioni della stessa Corte che, con varie motivazioni e differenze linguistiche, hanno invece ricondotto detta prestazione nel novero dei tributi (sezioni unite: ordinanza n. 3171 del 2008, sentenze n. 13902 del 2007 e n. 4895 del 2006; sezioni semplici: sentenze n. 5298 e n. 5297 del 2009, n. 17526 del 2007). Al fine di determinare la natura (tributaria o extratributaria) della TIA, oggetto di contrastanti opinioni anche nella dottrina, è perciò necessario procedere ad un autonomo ed analitico esame delle caratteristiche di tale prelievo. Al riguardo, non rilevano né la formale denominazione di «tariffa», né la sua alternatività rispetto alla TARSU, né la possibilità di riscuoterla mediante ruolo.

Quanto all’irrilevanza della denominazione, lo stesso art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 stabilisce espressamente che i tributi vanno individuati indipendentemente dal nomen iuris («comunque denominati»). Inoltre, il termine «tariffa» – nella tradizione propria della legislazione tributaria – ha un valore semantico neutro, nel senso che non si contrappone necessariamente a termini quali «tassa» e «tributo», tanto che anche l’art. 58 del d.lgs. n. 507 del 1993 testualmente prevede che la TARSU (cioè una «tassa» e, quindi, un «tributo») si applica «in base a tariffa». Va comunque rilevato che, contrariamente a quanto sembrano ritenere il rimettente e la difesa erariale, il termine «corrispettivo» non compare, con riguardo alla TIA, nel cosiddetto “decreto Ronchi”, ma solo nell’art. 238, comma 1, secondo periodo, del d.lgs. n. 152 del 2006 ed è riferito esclusivamente alla tariffa integrata ambientale, estranea alla questione di legittimità in esame.

Quanto alla regola stabilita dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, secondo cui la TIA si applica in luogo della TARSU, va osservato che un tributo (come, nella specie, la TARSU) può ben essere surrogato da un altro tributo o sostituito da una entrata non tributaria, non incontrando il legislatore, al riguardo, alcun vincolo logico o giuridico (nel limite della non manifesta irragionevolezza).

Quanto, infine, alla possibilità per il Comune, prevista dal medesimo art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, di procedere alla riscossione della TIA mediante ruolo, deve sottolinearsi che il ricorso a tale modalità di riscossione è solo facoltativo, e, comunque, ancorché tipico delle entrate tributarie, è consentito dalla legge anche per le entrate extratributarie.

Per una corretta valutazione della natura della tariffa di igiene ambientale (TIA), è invece opportuno muovere dalla constatazione che tale prelievo, pur essendo diretto a sostituire la TARSU, è disciplinato in modo analogo a detta tassa, la cui natura tributaria non è mai stata posta in dubbio né dalla dottrina né dalla giurisprudenza. Conseguentemente, deve procedersi ad una approfondita comparazione tra il prelievo tributario sostituito e quello che lo sostituisce, sotto i profili della struttura, della funzione e della disciplina complessiva della fattispecie dei prelievi.

7.2.3. – Dalla comparazione tra la TARSU e la TIA emergono le forti analogie dei due prelievi. Entrambi mostrano un’identica impronta autoritativa e somiglianze di contenuto con riguardo alla determinazione normativa, e non contrattuale, della fonte del prelievo.

7.2.3.1. – In primo luogo, quanto al fatto generatore dell’obbligo del pagamento e ai soggetti obbligati – come si è già rilevato al punto 6.1.2. – la TARSU è dovuta, per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani interni, da coloro che occupano o detengono locali od aree scoperte a qualsiasi uso adibiti, ad esclusione delle aree scoperte pertinenziali o accessorie di civili abitazioni diverse dalle aree a verde, esistenti nelle zone del territorio comunale in cui il servizio è istituito ed attivato o comunque reso in maniera continuativa, e comprese le abitazioni coloniche e gli altri fabbricati con area scoperta di pertinenza anche se nella zona in cui è attivata la raccolta dei rifiuti è situata solo la strada di accesso (artt. 62 e 63). Analogamente, la TIA – come sottolineato al punto 6.1.3. – è dovuta, per i servizi relativi alla gestione dei rifiuti urbani e dei rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico, nelle zone del territorio comunale, da «chiunque occupi oppure conduca locali, o aree scoperte ad uso privato non costituenti accessorio o pertinenza dei medesimi, a qualsiasi uso adibiti, esistenti nelle zone del territorio comunale» (art. 49, comma 3, del d.lgs. n. 22 del 1997). Le differenze tra le due fattispecie sono, perciò, minime: la “occupazione o detenzione” di superfici ed il riferimento ai soli rifiuti “interni”, per la TARSU; la “occupazione o conduzione” di superfici ed il riferimento anche ai rifiuti “esterni”, per la TIA. Esse non sono, comunque, tali da far venir meno la comune circostanza che il fatto generatore dell’obbligo di pagamento è legato non all’effettiva produzione di rifiuti da parte del soggetto obbligato e alla effettiva fruizione del servizio di smaltimento, ma esclusivamente all’utilizzazione di superfici potenzialmente idonee a produrre rifiuti ed alla potenziale fruibilità del servizio di smaltimento.

7.2.3.2. – In secondo luogo, in relazione ad entrambi i pagamenti, sussiste una medesima struttura autoritativa e non sinallagmatica, che emerge sotto svariati e concorrenti profili. In particolare, con riguardo ai due suddetti prelievi:

a) i servizi concernenti lo smaltimento dei rifiuti devono essere obbligatoriamente istituiti dai Comuni, che li gestiscono, in regime, appunto, di privativa, sulla base di una disciplina regolamentare da essi stessi unilateralmente fissata;

b) i soggetti tenuti al pagamento dei relativi prelievi (salve tassative ipotesi di esclusione o di agevolazione) non possono sottrarsi a tale obbligo adducendo di non volersi avvalere dei suddetti servizi;

c) la legge non dà alcun sostanziale rilievo, genetico o funzionale, alla volontà delle parti nel rapporto tra gestore ed utente del servizio.

La rilevata comune struttura autoritativa dei prelievi non viene meno per il fatto che, riguardo alla TARSU, il d.lgs. n. 507 del 1993 individua quale soggetto attivo del tributo il Comune e disciplina specificamente la fase di accertamento e di liquidazione della tassa, prevedendo sanzioni e interessi (artt. 71, 73 e 76); mentre, riguardo alla TIA, l’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, da un lato identifica nel gestore del servizio il soggetto che la applica e riscuote (commi 9 e 13) e, dall’altro, non reca alcuna disciplina specifica in tema di accertamento, di liquidazione della prestazione dovuta, di contenzioso e di sanzioni e interessi per omesso o ritardato pagamento. Non può negarsi, infatti, che, sia per la TARSU che per la TIA, il soggetto attivo del prelievo è il Comune; e ciò anche nel caso in cui il regolamento comunale affidi a terzi l’accertamento e la riscossione dei due prelievi e la relativa legittimazione a stare in giudizio. In particolare – come visto al punto 6.1.2. – già per la TARSU il Comune aveva la possibilità, con proprio regolamento, di affidare a terzi l’accertamento e la riscossione dei tributi, ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, e di delegare ad essi il potere di essere «parti del processo tributario», ai sensi dell’art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992, senza che con ciò venisse meno l’originaria posizione di soggetto attivo del Comune stesso. La normativa riguardante la TIA si differenzia sul punto solo per il fatto che essa pone un collegamento ex lege tra la gestione del servizio e i poteri di accertamento, con la conseguenza che il solo fatto dell’affidamento a terzi della gestione del servizio comporta la delega a questi dei poteri di accertamento e del potere di stare in giudizio in luogo del Comune, analogamente a quanto avviene per la TARSU.

Con riguardo, poi, alla disciplina dell’accertamento e della liquidazione della TIA, la lacunosità delle statuizioni contenute nel comma 9 dell’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 (il quale si limita a prevedere che «la tariffa è applicata dai soggetti gestori nel rispetto della convenzione e del relativo disciplinare») può essere colmata con l’esercizio del potere regolamentare comunale previsto per le entrate «anche tributarie» dal citato art. 52 del d.lgs. n. 446 del 1997 o in via di interpretazione sistematica. Analogamente, nulla osta a che, per le sanzioni ed interessi relativi all’omesso o ritardato pagamento della TIA, possano applicarsi le norme generali in tema di sanzioni amministrative tributarie. Così come, con riguardo al contenzioso, è evidente che ad entrambi i prelievi si applica il comma 2 dell’art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, che attribuisce, appunto, alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie relative, in generale, alla debenza dei tributi e, specificamente del «canone […] per lo smaltimento dei rifiuti urbani».

Non contraddice tale conclusione il fatto che fonti secondarie prevedano, per il pagamento della TIA, l’emissione di semplici «bollette che tengono luogo delle fatture […] sempreché contengano tutti gli elementi di cui all’art. 21» del d.P.R. n. 633 del 1972 (art. 1, comma 1, del citato decreto ministeriale n. 370 del 2000), e cioè l’emissione di atti formalmente diversi da quelli espressamente indicati dall’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 come impugnabili davanti alle Commissioni tributarie. In tale caso, infatti, è possibile, in via interpretativa – come, del resto, ha già affermato la Corte di cassazione con la sentenza n. 17526 del 2007, con specifico riferimento alla TIA -, un’applicazione estensiva dell’elenco di cui al citato art. 19, al fine di considerare impugnabili anche atti che, pur con un diverso nomen iuris, abbiano la stessa funzione di accertamento e di liquidazione di tributi svolta dagli atti compresi in detto elenco; con l’ovvio corollario che le suddette «bollette», avendo natura tributaria, debbono possedere i requisiti richiesti dalla legge per gli atti impositivi.

7.2.3.3. – In terzo luogo, sono analoghi i criteri di commisurazione dei due prelievi. La TARSU – quantomeno per i Comuni con popolazione non inferiore a 35.000 abitanti – è commisurata «in base alla quantità e qualità medie ordinarie per unità di superficie imponibile dei rifiuti solidi urbani […] producibili nei locali ed aree per il tipo di uso, cui i medesimi sono destinati, e al costo dello smaltimento» (art. 65, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993). La TIA, in forza dell’art. 49, comma 4, del d.lgs. n. 22 del 1997, è suddivisa in una parte fissa (concernente le componenti essenziali del costo del servizio – ivi compreso quello dello spazzamento delle strade -, riferite in particolare agli investimenti per le opere ed ai relativi ammortamenti) ed una parte variabile (rapportata alle quantità di rifiuti conferiti, al servizio fornito, e all’entità dei costi di gestione). I criteri di determinazione di tali due parti della TIA sono contenuti nel citato d.P.R. n. 158 del 1999, che prevede indici costruiti, tra l’altro, sulla quantità totale dei rifiuti prodotti nel Comune, sulla superficie delle utenze, sul numero dei componenti il nucleo familiare delle utenze domestiche, su coefficienti di potenziale produzione di rifiuti secondo le varie attività esercitate nell’àmbito delle utenze non domestiche. Risulta evidente, pertanto, che il suddetto «metodo normalizzato» per la determinazione della TIA è pienamente coerente con i criteri fissati dalla legge per la commisurazione della TARSU, la quale, certamente, non può definirsi “corrispettivo”, neppure in relazione ai criteri stabiliti dall’art. 117, comma 1, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, per le tariffe dei servizi pubblici resi dagli enti locali. Per entrambi i prelievi, infatti, rileva la potenziale produzione dei rifiuti, valutata per tipo di uso delle superfici tassabili. In particolare, per quanto riguarda la TIA, va sottolineato che, ai sensi dell’art. 49, comma 14, del d.lgs. n. 22 del 1997, perfino l’autonomo avviamento a recupero dei rifiuti, da parte del produttore di essi, non comporta l’esclusione dal pagamento, ma determina una riduzione proporzionale della sola parte variabile di tale tariffa. Questa disposizione è, per alcuni aspetti, analoga al comma 2 dell’art. 67 del d.lgs. n. 507 del 1993, secondo cui il regolamento comunale «può» prevedere riduzioni della TARSU nel caso in cui gli «utenti dimostrino di avere sostenuto spese per interventi tecnico-organizzativi comportanti un’accertata minore produzione di rifiuti od un pretrattamento volumetrico, selettivo o qualitativo che agevoli lo smaltimento o il recupero da parte del gestore del servizio». I due prelievi, pertanto, sono dovuti, sia pure in misura ridotta, anche nel caso in cui il produttore di rifiuti dimostri di aver adeguatamente provveduto allo smaltimento. Il che esclude per entrambi la sussistenza di un rapporto di sinallagmaticità tra pagamento e servizio di smaltimento dei rifiuti.

7.2.3.4. – In quarto luogo, come sopra accennato, la TIA – analogamente alla TARSU nella disciplina risultante dal disposto del comma 3-bis dell’art. 61 del d.lgs. n. 507 del 1993 (riportato al punto 6.1.2.) e dell’art. 31, comma 23, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 – ha la funzione di coprire il costo dei servizi di smaltimento concernenti i rifiuti non solo “interni” (cioè prodotti o producibili dal singolo soggetto passivo che può avvalersi del servizio), ma anche “esterni” (cioè «rifiuti di qualunque natura o provenienza giacenti sulle strade ed aree pubbliche e soggette ad uso pubblico», come ricordato al punto 6.1.3., in relazione agli artt. 7, comma 2, lettere c, d, e 49, comma 2, del d.lgs. n. 22 del 1997, per la componente fissa della TIA). Ha la funzione, cioè, di coprire anche le pubbliche spese afferenti a un servizio indivisibile, reso a favore della collettività e, quindi, non riconducibili a un rapporto sinallagmatico con il singolo utente. L’unica sostanziale differenza sul punto tra i due prelievi si riduce al fatto che, mentre per la TARSU il gettito deve corrispondere ad un ammontare compreso tra l’intero costo del servizio ed un minimo costituito da una percentuale di tale costo determinata in funzione della situazione finanziaria del Comune (art. 61, comma 1, del d.lgs. n. 507 del 1993); per la TIA il gettito deve, invece, assicurare sempre l’integrale copertura del costo dei servizi (art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997). Tuttavia, tale differenza non è sufficiente a caratterizzare in senso privatistico la TIA, perché nulla esclude che una pubblica spesa (come il costo di un servizio utile alla collettività) possa essere integralmente finanziata da un tributo. Come si è già osservato al punto 6.1.2., anche la TARSU può coprire il cento per cento del costo del servizio di smaltimento dei rifiuti ed in tal caso essa non muta, per ciò solo, la sua natura da pubblicistica a privatistica. In altri termini, la mera circostanza che la legge assegni a un pagamento la funzione di coprire integralmente i costi di un servizio non è sufficiente ad attribuire al medesimo pagamento la natura di prezzo privatistico.

7.2.3.5. – In quinto luogo, con riferimento alla disciplina complessiva della TIA, va rilevato che l’art. 49, comma 17, del d.lgs. n. 22 del 1997 ha espressamente tenuto ferma l’applicabilità del tributo provinciale «per l’esercizio delle funzioni di tutela, protezione ed igiene dell’ambiente» previsto dall’art. 19 del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 504 (cosiddetto TEFU), anche dopo la soppressione della TARSU e la sua sostituzione con la TIA. Poiché il TEFU è stato configurato dal legislatore come un’addizionale della TARSU, ne consegue che, una volta soppressa quest’ultima, esso deve necessariamente determinarsi con riferimento ai criteri di quantificazione della TIA e deve, perciò, essere qualificato come un tributo addizionale della TIA stessa. Ciò evidenzia un ulteriore elemento di omogeneità e continuità tra la TARSU e la TIA.

7.2.3.6. – In sesto luogo, infine, un altro significativo elemento di analogia tra la TIA e la TARSU è costituito dal fatto che ambedue i prelievi sono estranei all’àmbito di applicazione dell’IVA. Infatti, la rilevata inesistenza di un nesso diretto tra il servizio e l’entità del prelievo – quest’ultima commisurata, come si è visto, a mere presunzioni forfetarie di producibilità dei rifiuti interni e al costo complessivo dello smaltimento anche dei rifiuti esterni – porta ad escludere la sussistenza del rapporto sinallagmatico posto alla base dell’assoggettamento ad IVA ai sensi degli artt. 3 e 4 del d.P.R. n. 633 del 1972 e caratterizzato dal pagamento di un «corrispettivo» per la prestazione di servizi. Non esiste, del resto, una norma legislativa che espressamente assoggetti ad IVA le prestazioni del servizio di smaltimento dei rifiuti, quale, ad esempio, è quella prevista dall’alinea e dalla lettera b) del quinto comma dell’art. 4 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, secondo cui, ai fini dell’IVA, «sono considerate in ogni caso commerciali, ancorché esercitate da enti pubblici», le attività di «erogazione di acqua e servizi di fognatura e depurazione, gas, energia elettrica e vapore». Se, poi, si considerano gli elementi autoritativi sopra evidenziati, propri sia della TARSU che della TIA, entrambe le entrate debbono essere ricondotte nel novero di quei «diritti, canoni, contributi» che la normativa comunitaria (da ultimo, art. 13, paragrafo 1, primo periodo, della Direttiva n. 2006/112/CE del Consiglio del 28 novembre 2006; come ribadito dalla sentenza della Corte di giustizia CE del 16 settembre 2008, in causa C-288/07) esclude in via generale dall’assoggettamento ad IVA, perché percepiti da enti pubblici «per le attività od operazioni che esercitano in quanto pubbliche autorità» (come si desume a contrario dalla sentenza della Corte costituzionale n. 335 del 2008), sempre che il mancato assoggettamento all’imposta non comporti una distorsione della concorrenza (distorsione, nella specie, non sussistente, in quanto il servizio di smaltimento dei rifiuti è svolto dal Comune in regime di privativa). Non osta a tali conclusioni il secondo periodo del comma 13 dell’art. 6 della legge n. 133 del 1999, il quale stabilisce, con una formula meramente negativa, che «Non costituiscono, altresì, corrispettivi agli effetti dell’IVA le somme dovute ai comuni per il servizio di smaltimento dei rifiuti solidi urbani reso entro» la data del 31 dicembre 1998 «e riscosse successivamente alla stessa, anche qualora detti enti abbiano adottato in via sperimentale il pagamento del servizio con la tariffa, ai sensi dell’articolo 31, comma 7, secondo periodo, della legge 23 dicembre 1998, n. 448». Questa disposizione non può interpretarsi nel senso che, a partire dal 1999, sia la TARSU sia la tariffa sperimentale (cioè la TIA adottata prima della definitiva soppressione della TARSU) entrino nell’àmbito di applicazione dell’IVA. Si deve escludere, infatti, che tali prelievi, pur restando invariata la loro disciplina sostanziale, mutino natura, divenendo entrambi corrispettivi, solo in forza di una norma dagli effetti meramente temporali. Tale norma, ragionevolmente interpretata, ha il solo effetto di ribadire la non assoggettabilità ad IVA dei due prelievi fino a tutto il 1998 e non quello di provvedere anche per il periodo successivo, per il quale non può che trovare applicazione la disciplina generale in tema di IVA. Non rileva, al riguardo, la diversa prassi amministrativa, perché la natura tributaria della TIA va desunta dalla sua complessiva disciplina legislativa.

7.2.4. – È appena il caso di rilevare che la riscontrata omogeneità tra i due prelievi in esame è compatibile sia con le direttive comunitarie di cui il d.lgs. n. 22 del 1997 istitutivo della TIA costituisce attuazione (91/156/CEE, 91/689/CEE e 94/62/CE), sia con il principio comunitario “chi inquina paga” (ribadito dall’art. 15 della direttiva comunitaria 2006/12/CE), sia con le leggi di delegazione in forza delle quali il suddetto decreto legislativo è stato emanato (artt. 1 e 38 della legge 22 febbraio 1994, n. 146; artt. 1, 6 e 43 della legge 6 febbraio 1996, n. 52). Nessuna di tali disposizioni, infatti, impone al legislatore di configurare in termini privatistici il rapporto tra utente e gestore del servizio di smaltimento dei rifiuti. Quanto al diritto comunitario, esso, con tutta chiarezza, si limita a richiedere che la legislazione nazionale garantisca un ragionevole collegamento tra la produzione di rifiuti e la copertura del costo per il loro smaltimento, secondo un principio di proporzionalità, in modo che tale costo sia posto a carico, per una parte significativa, del produttore dei rifiuti. Ed ove questa attribuzione di costi sia rispettata, resta indifferente per il diritto comunitario se essa sia realizzata dal legislatore mediante l’istituzione di un tributo o la previsione di un corrispettivo privatistico. Quanto alle leggi di delegazione, esse si limitano ad autorizzare il legislatore delegato ad apportare «modifiche» al d.lgs. n. 507 del 1993, al fine di attuare le direttive comunitarie, e non impongono affatto di trasformare la natura del prelievo da tributaria ad extratributaria.

8. – Le sopra indicate caratteristiche strutturali e funzionali della TIA disciplinata dall’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997 rendono evidente che tale prelievo presenta tutte le caratteristiche del tributo menzionate al punto 7.2.1. e che, pertanto, non è inquadrabile tra le entrate non tributarie, ma costituisce una mera variante della TARSU disciplinata dal d.P.R. n. 507 del 1993 (e successive modificazioni), conservando la qualifica di tributo propria di quest’ultima. A tale conclusione, del resto, si giunge anche considerando che, tra le possibili interpretazioni della censurata disposizione e dell’art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, deve essere preferita quella che, negando la violazione del secondo comma dell’art. 102 Cost., appare conforme a Costituzione (sulla necessità, in generale, di privilegiare un’interpretazione costituzionalmente orientata, ex plurimis: sentenza n. 308 del 2008, ordinanze n. 146 e n. 117 del 2009).

Le controversie aventi ad oggetto la debenza della TIA, dunque, hanno natura tributaria e la loro attribuzione alla cognizione delle commissioni tributarie, ad opera della disposizione denunciata, rispetta l’evocato parametro costituzionale.

P.Q.M.

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – come modificato dall’art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all’evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, sollevate, in riferimento agli artt. 25, primo comma, e 102, secondo comma, della Costituzione, nonché alla VI disposizione transitoria della Costituzione, dal Giudice di pace di Catania, con l’ordinanza indicata in epigrafe;

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione del d.lgs. n. 546 del 1992, sollevata, in riferimento all’art. 102, secondo comma, Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Prato, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 16 luglio 2009.

TRIBUTI LOCALI

Tassa rimozione rifiuti solidi

Tributi locali in genere

Riferimenti normativi

COST Art.25

COST Art.102

L 30-12-1991 n. 413, Art. 30

DLT 31-12-1992 n. 546, Art. 2

DLT 15-11-1993 n. 507 0

DLT 05-02-1997 n. 22, Art. 49

DL 30-09-2005 n. 203, Art. 3-bis

L 02-12-2005 n. 248 0

L 02-12-2005 n. 248, Art. 1


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 18-06-2009) 15-07-2009, n. 16444

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – rel. Consigliere

Dott. DI DOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’economia e delle finanze, in persona del Ministro p.t., e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore p.t., domiciliati in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che li rappresenta e difende in base alla legge;

– ricorrenti –

contro

A.G.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 10/25/04, depositata il 12.11.2004.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18.6.2009 dal relatore Cons. Dott. Giuseppe Vito Antonio Magno;

Udito, per i ricorrenti, l’Avvocato dello Stato Barbara Tidore;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Sorrentino Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1.- Dati del processo.

1.1.- Con ricorso alla commissione tributaria provinciale di Napoli, il signor A.G. impugnò una cartella di pagamento dell’IVA relativa all’anno 1995, dell’importo complessivo di Euro 11.101,68 per imposta, sanzioni ed accessori, emessa a seguito di rettifica divenuta definitiva per mancata impugnazione dell’avviso, asserendo di non avere avuto conoscenza di tale avviso di rettifica, perchè notificato nelle mani di tale C.M., non avente relazioni di parentela o di affinità nè di convivenza con esso contribuente.

1.2.- La sentenza n. 26 del 2004, con cui la commissione adita aveva respinto il ricorso, impugnata dal contribuente, fu riformata, nel contraddittorio delle parti, dalla commissione tributaria regionale con la sentenza indicata in epigrafe, che, in base alla documentazione acquisita, ritenne invalida la notificazione dell’avviso di rettifica, eseguita a mani di persona non avente le enunciate relazioni di affinità e di convivenza col destinatario dell’atto.

1.3.- Per la cassazione di tale sentenza ricorrono l’amministrazione finanziaria dello Stato e l’agenzia delle entrate, con unico articolato motivo, cui non resiste l’intimato contribuente.

1.4.- La causa, chiamata all’udienza del 1.12.2006 per la discussione davanti a questa suprema corte, fu rinviata a nuovo ruolo in attesa di decisione, da parte delle sezioni unite, sulla questione relativa all’influenza del vizio di notifica dell’atto presupposto sulla validità di quello successivo, impugnato. E’ stata quindi rifissata all’udienza odierna.

2.- Questioni pregiudiziali.

2.1.- Il ricorso proposto dall’amministrazione dell’economia e delle finanze deve essere dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione processuale, dal momento che essa – cui è succeduta l’agenzia delle entrate, a far data dal 1.1.2001, anteriore a quella di deposito dell’atto d’appello (17.5.2004) – deve intendersi tacitamente estromessa dal relativo giudizio, svoltosi nei soli confronti dell’agenzia delle entrate, ufficio di S.M. Capua Vetere (Cass, n. 9004/2007); senza pronunzia sulle spese, giacchè l’intimato non propone difese in questo giudizio di cassazione.

3.- Motivo del ricorso.

3.1.- L’agenzia ricorrente censura la sentenza impugnata, e ne chiede la cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione dell’art. 139 c.p.c., D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 3, e per nullità conseguente ad omessa indicazione delle ragioni di diritto della decisione (violazione dell’art. 36, n. 4, D.Lgs. cit.); in via gradata, per erronea applicazione dell’art. 139, comma 3. 3.1.1.- Sostiene che l’asserita nullità della notificazione dell’avviso di rettifica non sarebbe idonea a giustificare la dichiarata – e peraltro non motivata in diritto – nullità della cartella esattoriale, atto impugnabile solo per vizi propri; essendo determinata dalla mancata notifica dell’atto presupposto non la nullità dell’atto conseguente (cartella), bensì soltanto la possibilità d’impugnazione, unitamente ad essa, dell’atto precedente, asseritamente non notificato.

3.1.2.- In subordine, sostiene la validità – o, al limite, la mera nullità (sanabile), non l’inesistenza – della notifica eseguita a mani di persona che, pur non facendo parte della famiglia del destinatario dell’atto, si trovava nella sua abitazione, quale vicina di casa; incombendo a quest’ultimo l’onere di provare il contrario.

4.- Decisione.

4.1.- Il ricorso è infondato, per le ragioni di seguito esposte, e deve essere rigettato.

Nulla devesi disporre in ordine alle spese del presente giudizio di cassazione, in cui l’intimato non ha svolto difese.

5.- Motivi della decisione.

5.1.- La commissione regionale ha accertato, in base alla documentazione acquisita agli atti, che la notificazione dell’avviso di rettifica, presupposto dell’iscrizione a ruolo e della conseguente emissione della cartella esattoriale, fu eseguita a mani di persona risultata non affine (benchè indicata come nuora nella relata) nè convivente con la famiglia del notificando, perchè abitante in altro appartamento dello stesso condominio.

5.2.- Si osserva, in proposito, che la notificazione eseguita, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., a persona non legata al destinatario da rapporti “di famiglia”, cioè di parentela o di affinità, nè di servizio, quale “addetta alla casa”, è da considerare nulla anche se, come nel caso di specie, tale persona sia trovata nell’abitazione del destinatario (Cass. n. 22879/2006); mentre è stata ritenuta valida la notifica nel diverso caso di non provata convivenza (che può essere presunta), quando però sussista la relazione di parentela o affinità fra il destinatario e la persona che ricevette la notifica (Cass. un. 3902/2004, 18141/2002,9658/2000, 1331/2000).

Nell’ipotesi in esame, la nullità della notifica dipende quindi dall’accentata mancanza sia della relazione di famiglia sia della convivenza.

Nullità che, ovviamente, non può ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo dell’atto, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, non essendo stato impugnato (in termini) tale atto presupposto, bensì la cartella esattoriale conseguente all’iscrizione a ruolo delle somme da esso portate.

5.3.- La censura di violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, (esposta al par. 3.1.1), è pure infondata.

5.3.1.- Come statuito dalle sezioni unite di questa suprema corte con sentenza n. 5791/2008, le cui argomentazioni sono condivise dal collegio, l’omissione della notifica di un atto presupposto – nel caso di specie, l’avviso di rettifica della dichiarazione IVA – costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato, ossia della cartella di pagamento, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata dal rispetto di una sequenza procedimentale di atti, ritualmente notificati, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del contribuente.

5.3.2.- Pertanto, è corretta la pronunzia di annullamento della cartella esattoriale, per effetto d’invalidità della notifica dell’atto presupposto; pronunzia non inficiata dalla mancanza di motivazione in diritto, dovendo a tanto sopperire (nel modo indicato al par. 5.3.1) questo giudice di legittimità, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, stante la conformità al diritto del dispositivo della sentenza impugnata (S.U. n. 28054/2008; Cass. n. 5595/2003).

6.- Dispositivo.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile – Tributaria, il 18 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-06-2009) 03-07-2009, n. 15752

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.M. residente a (OMISSIS), rappresentato e difeso, giusta delega in calce al ricorso, dall’Avv. SALERNO Francesco, elettivamente domiciliato in Roma, Via Ettore Petrolini n. 2 presso lo studio dell’avv. Angela Ludovica Sirignani;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici, in Roma, Via dei Portoghesi, 12 è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53/01/2004, emessa inter partes dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano – Sezione n. 01, in data 19/10/2004 e depositata il 10 novembre 2004.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04 giugno 2 009 dal Relatore Dott. Antonino Di Blasi;

Viste le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale.

Svolgimento del processo
Il contribuente impugnava in sede giurisdizionale il silenzio rifiuto opposto alla domanda di rimborso dell’Irap degli anni dal 1998 al 2000.

L’adita CTP di Milano accoglieva il ricorso, con decisione che veniva riformata dal Giudice di appello, il quale, invece, riteneva fondato il gravame dell’Agenzia Entrate, e sussistenti i presupposti impositivi.

Con ricorso notificato il 17-20 ottobre 2005, il contribuente ha chiesto la cassazione dell’impugnata decisione.

L’Agenzia della Entrate, giusto controricorso notificato il 22.11.2005, ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile e, comunque, rigettato, per infondatezza.

Con istanza 23.03.2009, il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza.

Motivi della decisione
La Corte:

Visto il ricorso, come sopra notificato, con cui il contribuente censura l’impugnata decisione per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, nonché per vizio di motivazione;

Visto il controricorso dell’Agenzia delle Entrate;

Vista la richiesta del Sostituto Procuratore Generale;

Considerato che il ricorso è a ritenersi fondato, sulla base di quanto enunciato dalla Corte di Cassazione in pregresse condivise pronunce, nelle quali è stato affermato il principio secondo cui “a norma del combinato disposto dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, primo periodo, e art. 3, comma 1, lett. c), l’esercizio delle attività di lavoro autonomo è escluso dall’applicazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata; il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell’assenza delle condizioni sopraelencate”. (Cass. n. 3680/2007, 3678/2007, n. 3676/2007, n. 3672/2007);

Considerato che i Giudici di appello, ritenendo che l’attività professionale svolta dal contribuente, dovesse considerarsi autonomamente organizzata, in presenza di elementi di supporto, anche minimali, affermando pure, che “solo per quei professionisti sprovvisti totalmente di propria organizzazione difetta il presupposto di applicabilità dell’Irap”, e giungendo, per tale via, a riconoscere l’esistenza dell’autonoma organizzazione, senza, per altro, indicare gli elementi indici dell’autonoma organizzazione quali desumibili dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, hanno fatto malgoverno dei principi desumibili dalle richiamate pronunce;

Considerato, infatti, che la sentenza omette di indicare, verificare e valutare, in concreto, alla stregua del ricordato principio, gli elementi indice dell’autonoma organizzazione, ed in particolare, la natura e consistenza dei beni strumentali e le spese per prestazioni di lavoro dipendente e collaborazioni coordinate e continuative;

elementi che, secondo l’assunto del ricorrente e dei Giudici di primo grado, erano insignificanti e/o inesistenti, ai fini della configurazione di una autonoma organizzazione;

Considerato, altresì, che la CTR, al riguardo sembra non essere andata oltre una apparente motivazione, e che, quindi, sussiste anche il vizio denunciato con il secondo mezzo, essendo principio consolidato quello secondo cui “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. n. 1756/2006, n. 890/2006);

Considerato che la decisione impugnata va, quindi, cassata e, per l’effetto, la causa rinviata ad altra sezione della CTR della Lombardia, perchè proceda al riesame e, quindi, attenendosi ai richiamati principi ed al quadro normativo di riferimento, decida nel merito, ed anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, motivando congruamente.

P.Q.M.
accoglie il ricorso del contribuente, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Lombardia.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2009