Cass. civ. Sez. lavoro, (ud. 23-01-2007) 23-01-2007, n. 1418

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERCURIO Ettore – Presidente

Dott. FIGURELLI Donato – Consigliere

Dott. CUOCO Pietro – Consigliere

Dott. MAIORANO Francesco Antonio – rel. Consigliere

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

C.G.L., elettivamente domiciliato in ROMA VIA R. GRAZIOLI LANTE 16, presso lo studio dell’avvocato DOMENICO BONAIUTI, rappresentato e difeso dall’avvocato PETTINAU ANDREA, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE;

– intimato –

avverso la sentenza n. 230/03 della Sezione distaccata di Corte d’Appello di SASSARI, depositata il 08/09/03 – R.G.N. 85/2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13/11/06 dal Consigliere Dott. MAIORANO Francesco Antonio;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso alla Corte d’Appello è i Cagliari, sezione di Sassari, C.G.L., dipendente del Ministero del Tesoro in qualità di direttore dell’Ufficio Provinciale di Sassari, proponeva appello avverso la sentenza del Tribunale di Sassari con la quale era stata rigettata la sua domanda per l’integrale rimborso (ai sensi del D.L. 25 marzo 1997, n. 67, art. 18, convertito in L. 23 maggio 1997, n. 135) delle spese di difesa da lui sopportate in un giudizio intrapreso contro di lui per il reato di cui all’art. 323 c.p., (abuso d’ufficio) e dal quale era stato assolto con sentenza del 14/12/1999. Precisava che l’Amministrazione di appartenenza aveva autorizzato con nota del 18/6/2000 la rifusione della somma di L. 13.935.240, a fronte di un totale di L. 21.586.220 da lui erogate per sostenere la difesa, come da fatture emesse dai due avvocati, Marsali e Concas, che l’avevano difeso nel procedimento penale e dell’avv. Speranza che l’aveva assistito nel procedimento disciplinare, conclusosi con l’archiviazione dopo l’assoluzione in sede penale.

L’Amministrazione appellata contrastava il gravame e la Corte d’Appello lo rigettava sulla base delle seguenti considerazioni:

l’eccezione di incompetenza della Sezione staccata di Sassari per le cause in materia di lavoro in cui fosse parte una Amministrazione dello Stato, era infondata trattandosi non di una questione di competenza ma di una semplice ripartizione degli affari tra sezioni del medesimo ufficio giudiziario e ed essendo noto l’orientamento del presidente della Corte d’Appello di assegnare alla sezione di Sassari tutti i provvedimenti emessi dai Tribunali di Sassari, Nuoro e Tampio Pausania.

Nel merito, il gravame era infondato: il procedimento disciplinare non rientrava fra quelli per i quali al pubblico dipendente spettasse il rimborso delle spese legali e comunque non c’era la prova della relativa erogazione. Per le spese dei giudizio penale spettava il rimborso delle spese, in caso di assoluzione, previo parere di conformità dell’Avvocatura dello Stato che era immune da censure; il richiamo fatto dal ricorrente al parere di congruità espresso dal Consiglio dell’ordine su richiesta dell’avvocato non era calzante, sia perchè non era obbligatorio come nella specie (ma necessario per il professionista che intendesse ricorrere a forme coattive di recupero del suo credito), sia perchè la valutazione dell’Avvocatura riguardava non la conformità della parcella alle tariffe forensi ma il rapporto fra importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa e delle quali si chiedeva il rimborso.

Nella specie, non poteva essere censurata la decisione del Ministero perchè lo stesso si era attenuto al parere dell’Avvocatura dello Stato, nè il parere medesimo che non era errato o fuorviante: dagli atti prodotti emergeva infatti che il processo, per quanto delicato non era di tale importanza da giustificare la nomina di due difensori e quindi la spesa per la doppia difesa non era giustificata.

L’imputato era libero di nominare più difensori, ma non poteva pretendere il rimborso delle due parcelle; tale rimborso, infatti, non poteva avvenire a piè di lista, ma in base alla congruità delle stesse. La valutazione dell’Avvocatura poteva essere contestata in sede giudiziale, dimostrando la necessità della doppia difesa cosi da rendere incongrua ed ingiustificabile la valutazione dell’avvocatura erariale e non semplicemente richiamando il proprio diritto a nominare due difensori, come nella specie. La sentenza quindi doveva essere confermata.

E’ domandata ora la Cassazione di detta pronuncia con un solo motivo, col quale si lamenta contraddittorietà e insufficienza della motivazione, per non avere il Giudice considerato che egli è un dirigente a contratto, per cui un’eventuale condanna avrebbe comportato la cessazione del rapporto di lavoro; tale eventualità è stata scongiurata soltanto a seguito dell’assoluzione in sede penale, perchè questa ha comportato l’archiviazione del procedimento disciplinare. Il parere dell’Avvocatura è stato espresso dopo l’assoluzione, mentre la valutazione in ordine alla necessità di una adeguata difesa deve essere fetta in via preventiva. La previsione secondo cui il rimborso deve avvenire “nei limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato” si riferisce al controllo di congruità rispetto alla tariffe, analogamente a quanto fa il Consiglio dell’ordine nell’esprimere il suo parere.

L’intimato non si è costituito.

Motivi della decisione
Il ricorso è infondato.

Nei giudizi intrapresi nei confronti dei dipendenti delle Amministrazioni statali per responsabilità civili, penali ed amministrative, in conseguenza di fatti ed atti connessi con l’espletamento del servizio o con l’assolvimento di obblighi istituzionali e conclusi con sentenza che escluda la loro responsabilità, è previsto il rimborso da parte della Amministrazione di appartenenza delle spese legali, che viene effettuato ai sensi del D.L. n. 67 del 1997, art. 18, conv. in L. n. 135 del 1997, nei “limiti riconosciuti congrui dall’Avvocatura dello Stato”. Questa esegue una valutazione caratterizzata essenzialmente da aspetti di discrezionalità tecnica, in quanto riferita al parametro della tariffa penale, nonché alla natura e alla complessità della causa ed all’importanza delle questioni trattate, alla durata del processo, alla qualità dell’opera professionale prestata ed al vantaggio arrecato al cliente (cfr. TAR Veneto n. 01033 del 14/4/04). La previsione legislativa, infetti, è di così ampia portata da giustificare pienamente l’interpretazione del Giudice d’appello, secondo cui è fior di luogo il richiamo al parere di congruità espresso dal Consiglio dell’ordine su richiesta dell’avvocato che intenda agire nei confronti del cliente per il recupero della sue spettanze, sia perché quel parere non è obbligatorio, come nella specie, ma necessario, sia perché la valutazione dell’Avvocatura riguarda non solo la conformità della parcella alla tariffe forense (oltre la quale il rimborso sarebbe illegittimo), ma il rapporto fra l’importanza e delicatezza della causa e le somme spese per la difesa e delle quali si chiede il rimborso.

Osserva in proposito la Corte che tale interpretazione è confermata direttamente dalla ratio legis, che è quella di tenere indenne il funzionario per le spese legali, indispensabili ai fini della difesa da un’accusa ingiusta per fatti inerenti ai compiti e responsabilità dell’ufficio, e indirettamente anche dalla norma finale e di chiusura di cui al D.L. medesimo, art. 20, secondo cui “l’attuazione delle disposizioni di cui al presente decreto deve risultare coerente con gli obiettivi di contenimento della spesa pubblica stabilito con la nota di aggiornamento al documento di programmazione economico – finanziaria per il triennio 1997 – 99”. In sostanza il dipendente, ingiustamente accusato di abuso d’ufficio, ha diritto al rimborso da parte della Amministrazione di appartenenza delle spese sopportate per la sua difesa, ma entro il limite di quanto strettamente necessario (trattandosi di erogazioni che gravano sulla finanza pubblica e devono quindi essere contenute al massimo) secondo il parere di un organo tecnico altamente qualificato per valutare sia le necessità difensive del funzionario, in relazione alle accuse che gli vengono mosse ed ai rischi del giudizio penale, e sia la conformità della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale. Emerge così nettamente la differenza fra questo parere dell’Avvocatura dello Stato, con quello emesso dal Consiglio dell’ordine in merito alla parcella dell’avvocato in vista del contenzioso col suo cliente privato e per il quale deve essere controllata soltanto la conformità alla tariffa professionale, essendo assolutamente irrilevante l’ammontare complessivo della spesa.

Questa Corte però ha ripetutamente affermato che la discrezionalità tecnica è variamente limitata, sia dal rispetto delle norme di comune prudenza e diligenza, poste a tutela del principio del “neminem iaedere” (Cass. n. 1501/97; SU n. 3567/97), sia dalle esigenze di tutela dei diritti soggettivi perfetti (Cass. SU n. 9477/97; 10737/98; 117/99); da qui deriva la conseguenza che il parere espresso dall’Avvocatura erariale è soggetto al vaglio del Giudice ordinario per il necessario controllo del rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti, riconosciuti dalla Costituzione, in modo da poter escludere che la discrezionalità tecnica si trasformi in arbitrio. Il parere dell’Avvocatura quindi è soggetto alla valutazione di congruità da parte del Giudice, come ogni questione che influisca sui diritti soggettivi.

In punto di fatto, tale valutazione è stata già espressa dal Giudice di merito che, attenendosi a questo principio di diritto, ha ritenuto che tale parere non è “logicamente errato o altrimenti fuorviante: il processo penale, per quanto delicato e non semplice, non era – né comunque ciò è stato dimostrato con la produzione dei relativi atti o altrimenti – di tale importanza da consigliare la nomina di due difensori”. Lo stesso Giudice specifica poi quale prova doveva essere data ai fini dell’accoglimento della domanda ed aggiunge che il parere in questione può essere contestato, non richiamando semplicemente il diritto dell’istante a nominare due difensori, ma dimostrando che “per la particolare natura dell’affare, per l’esigenza di apporto specialistico di un legale versato in una branca non comune, o per altre particolari circostanze, è opportuna (e non solo consentita) la difesa da parte di due professionisti, sì da rendere incongrua ed ingiustificabile la valutazione dell’Avvocatura erariale per la liquidazione della parcella ad un solo legale”. Questa valutazione non è stata minimamente contestata e quindi il ricorso va rigettato. Non vi è luogo a provvedere in ordine alle spese non essendosi costituita in giudizio l’Amministrazione intimata.

P.Q.M.
LA CORTE Rigetto il ricorso e dichiara non luogo a provvedere in ordine alle spese.

Così deciso in Roma, il 13 novembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2007


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 14-12-2006) 19-01-2007, n. 1139

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Primo Presidente f.f.

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Consigliere

Dott. GRAZIADEI Giulio – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere

Dott. BONOMO Massimo – Consigliere

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.D.H.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE ANGELICO 38, presso lo studio dell’avvocato L. NAPOLITANO, rappresentata e difesa dall’avvocato MARONE GHERARDO, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ CATTOLICA DEL SACRO CUORE, in persona del Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL VIMINALE 43, presso lo studio dell’avvocato LORENZONI FABIO, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la decisione n. 345/04 del Consiglio di Stato di ROMA, depositata il 03/02/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/12/06 dal Consigliere Dott. Bruno BALLETTI;

uditi gli avvocati Domenico IARIA per delega dell’avvocato Gherardo Marone, Pasquale MOSCA per delega dell’avvocato Fabio Lorenzoni;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PALMIERI Raffaele, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso dinanzi al T.A.R. del Lazio T.D.H.C. richiedeva la declaratoria di illegittimità del silenzio serbato dall’Università Cattolica del Sacro Cuore – Facoltà di Medicina e Chirurgia sulla istanza notificata in data 22 novembre 2002, e l’annullamento del Decreto 26 agosto 2002, con cui era stato bandito un concorso per l’assegnazione di dodici borse di studio, riservate agli iscritti al primo anno delle scuole di specializzazione medica, nonchè del provvedimento che la escludeva dalla assegnazione delle cennate borse di studio.

Con sentenza del 17 marzo 2003 il T.A.R. Lazio – ritenuta fondata l’eccezione di inammissibilità formulata dalla resistente Università Cattolica del Sacro Cuore – dichiarava inammissibile il ricorso della T.D.H. e – su impugnativa della soccombente e ricostituitosi il contraddittorio – il Consiglio di Stato, con decisione del 3 febbraio 2004, rigettava l’appello compensando le spese di giudizio.

Per la cassazione di tale sentenza T.D.H.C. propone ricorso affidato ad un unico complesso motivo concludendo per “la declaratoria del giudice amministrativo”.

L’intimata Università Cattolica del Sacro Cuore resiste con controricorso e deposita memoria ex art. 378 cod. proc. civ..

Motivi della decisione
1 – Con l’unico motivo di ricorso la ricorrente – denunciando “violazione dell’art. 111 Cost.” rileva che “nel caso di specie il Giudice amministrativo non poteva giudicare in quanto si trattava sicuramente di diritto soggettivo, (atteso che) l’attribuzione della borsa di studio è indipendente da qualsiasi valutazione discrezionale della Pubblica Amministrazione perchè si tratta della particolare procedura di affidamento della borsa di cui alla L. n. 398 del 1989; e in virtù di quella norma l’Amministrazione deve solo prendere atto della esistenza della graduatoria di ammissione alla scuola di specializzazione e attribuire, nell’ordine di inserimento in quella graduatoria, le borse di studio”. 2 – Il ricorso come dianzi proposto di appalesa infondato. Dalla normativa applicabile in materia di borse di studio postuniversitarie (spec. L. n. 398 del 1985, art. 6) si evince, infatti, che è proprio la “particolare procedura di affidamento della borsa ex L. n. 398 cit., pure richiamata dalla ricorrente, che impone il ricorso alla procedura concorsuale al fine di accertare il reddito personale e l’eventuale cumulo con altre borse di studio allo stesso titolo da parte dei candidati.

Nel caso di specie, con il bando rettorale n. (OMISSIS), l’Università Cattolica del Sacro Cuore ha dato attuazione alla cennata normativa – che prevede, appunto l’assegnazione delle borse di studio in base alla graduatoria di merito salvo l’accertamento, a mezzo di apposito procedura, degli ulteriori requisiti di legge -:

per cui; trattandosi di procedura concorsuale, la posizione giuridica soggettiva che i concorrenti possono dedurre in giudizio riveste natura di interesse legittimo sulla quale ha giurisdizione esclusiva il giudice amministrativo.

E’ , altresì, da rilevare che nella decisione impugnata il Consiglio di Stato, in relazione alla prospettazione difensiva della T. D.H. che l’Università non avrebbe dovuto bandire alcun concorso per l’assegnazione delle borse di studio in contestazione, ha prettamente osservato, che “l’Università non ha derogato al criterio di assegnare le borse di studio sulla base della graduatoria di merito, ma solo previsto, nell’ambito di una scelta logica e comprensibile, che gli studenti collocati in posizione utile possono presentare la domanda di assegnazione, onde evitare che la assegnazione delle borse di studio potesse avvenire a beneficio di studenti non più interessati ovvero privi dei requisiti richiesti dalla legge”; sicchè – vale ribadire – il giudizio de quo verteva sulla pretesa tutela di posizione di interesse legittimo e, sotto altro profilo, la ricorrente non poteva, comunque, vantare un diritto soggettivo all’assegnazione della borsa di studio da far valere dinanzi al giudice ordinario, non avendo presentato la domanda di partecipazione alla procedura concorsuale, finalizzata, all’accertamento dei requisiti previsti dalle disposizioni di cui alla L. n. 398 del 1989 cit., art. 6. Al riguardo, a conferma dell’infondatezza del ricorso, si rimarca che la giurisdizione si determina sulla base della domanda e, ai fini del riparto tra giudice ordinario e giudice amministrativo, rileva non già la prospettazione delle parti, bensì il petitum sostanziale, il quale va identificato non solo e non tanto in funzione della concreta pronuncia che si chiede al giudice, ma anche e soprattutto in funzione della causa petendi, ossia della intrinseca natura della posizione dedotta in giudizio ed individuata dal giudice con riguardo ai fatti allegati ed al rapporto giuridico del quale detti fatti sono manifestazione (Cass. Sez. Un. n. 10180/2004).

In particolare, il sindacato delle Sezioni Unite della Corte di cassazione sulle decisioni del Consiglio di Stato è circoscritto ai motivi inerenti alla giurisdizione, ossia ai vizi concernenti l’ambito della giurisdizione in generale o il mancato rispetto dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo (ipotesi, quest’ultima, che ricorre anche quando il Consiglio di Stato, in materia attribuita alla propria giurisdizione limitatamente al solo sindacato di legittimità degli atti amministrativi, abbia compiuto un sindacato di merito), con esclusione di ogni sindacato sul modo di esercizio della funzione giurisdizionale, cui invece attengono gli errori “in indicando” e “in procedendo”, i quali esorbitano dai confini dell’astratta valutazione di sussistenza degli indici definitori della materia ed investono l’accertamento della fondatezza, o meno, della domanda (Cass. Sez. Un. n. 17553/2002). Con l’ulteriore precisazione che il ricorso in cassazione contro le decisioni del Consiglio di Stato, consentito per i soli motivi inerenti alla giurisdizione dall’art. 111 Cost., è ammissibile per il difetto assoluto di giurisdizione solo quando manchi nell’ordinamento una norma di diritto astrattamente idonea a tutelare l’interesse dedotto in giudizio, sì che non possa individuarsi alcun giudice titolare del potere di decidere; non è, per contro, ammissibile – come nella fattispecie – il ricorso in cassazione che asserisca un’erronea interpretazione della norma di diritto, inidonea in concreto a tutelare l’interesse affermato dalla parte, poichè in tal caso la questione attiene al merito della controversia e non alla giurisdizione (così, testualmente, Cass. Sez. Un. n. 10734/2003).

3 – In definitiva – affermata la giurisdizione del giudice amministrativo – il ricorso proposto da T.D.H. deve essere rigettato e la ricorrente, per effetto della soccombenza, va condannata al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 2600,00, di cui Euro 2500,00, per onorario, oltre alle “spese generali ed agli accessori di legge”.

Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 23-10-2006) 27-11-2006, n. 25095

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SACCUCCI Bruno – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe V.A. – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. GENOVESE Francesco A. – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore;

e Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;

– ricorrenti –

contro

M.A., elettivamente domiciliato in Roma, via Ovidio 32, presso l’Avv. Pellicciari Irene, rappresentato e difeso dall’Avv. Mastrangelo Cosimo giusta delega a margine del ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Centrale, Sez. 19, n. 5152/2002, del 8 marzo 2002, depositata il 15 giugno 2002, non notificata;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23 ottobre 2006 dal Relatore Cons. Dott. BOTTA Raffaele;

udito l’Avv. Mastrangelo Cosimo per il controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La controversia concerne l’impugnativa dell’intimazione a pagare l’imposta I.N.V.I.M. relativa ad una donazione, in ordine alla quale l’Ufficio del Registro di Trieste, formatosi il giudicato sulla determinazione del valore finale dell’immobile oggetto di accertamento sotto tale profilo, aveva inutilmente notificato al contribuente, nel frattempo trasferitosi all’estero, il relativo avviso di liquidazione. A fondamento della propria impugnazione il contribuente deduceva la nullità della notifica dell’avviso di liquidazione e la conseguente decadenza dell’Ufficio.

Vistosi rigettato il ricorso tanto in primo, quanto in secondo grado, il contribuente, da un lato, produceva istanza di condono ai sensi della L. n. 413 del 1991, art. 53, comma 5, e, dall’altro, ricorreva alla Commissione Tributaria Centrale, la quale, con la sentenza in epigrafe, accoglieva il ricorso originariamente proposto avverso l’intimazione di pagamento e, considerato conseguenzialmente non esaurito il rapporto e pendente la controversia, affermava la legittimità della suindicata istanza di definizione agevolata.

Avverso tale sentenza, il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate propongono ricorso per cassazione con due motivi. Resiste il contribuente con controricorso, illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso, le parti ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e), dell’art. 140 c.p.c., del D.P.R. n. 634 del 1972, art. 74 e del D.P.R. n. 643 del 1972, art. 31, nonché motivazione apodittica, incerta e contraddittoria, ed omesso esame di un punto decisivo della controversia. La Commissione Tributaria Centrale avrebbe erroneamente, ad avviso delle parti ricorrenti, ritenuto applicabile nella fattispecie l’art. 140 c.p.c., mentre la disposizione cui doveva farsi riferimento era costituita dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e).

La censura proposta è, sotto il profilo della violazione di legge, fondata. E’ infatti pacifico, lo ammette chiaramente lo stesso contribuente, che questi si era trasferito all’estero all’epoca della contestata notifica dell’avviso di liquidazione: siffatta situazione imponeva all’Ufficio di procedere alla predetta notifica non già ai sensi dell’art. 140 c.p.c., bensì ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lettera e).

Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, “le persone fisiche, che dopo la presentazione della dichiarazione dei redditi non sono più residenti nel territorio dello Stato per aver trasferito la propria residenza anagrafica all’estero, hanno, per espressa previsione di legge, il domicilio fiscale nel Comune in cui si è prodotto il reddito (o, se il reddito si è prodotto in più Comuni, nel Comune in cui si è prodotto il reddito più elevato) (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, commi 1 e 2). Pertanto, la notificazione dell’avviso di accertamento fiscale, ove non possa essere eseguita presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi per il trasferimento all’estero del contribuente, non deve essere eseguita nelle forme consolari, ostandovi la previsione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. f), ma, in mancanza di abitazione, ufficio o azienda nel Comune di domicilio fiscale, deve essere svolta, sul presupposto dell’esecuzione di adeguate ricerche nel detto Comune, non già per mezzo della spedizione della raccomandata, ma con l’affissione dell’avviso di deposito all’albo del Comune, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), senza che tale disciplina, tenuta ferma anche dallo Statuto del contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000 (art. 6, comma 1), possa dirsi lesiva del diritto di difesa del contribuente, il quale deve essere contemperato con l’interesse fiscale dello Stato” (Cass. n. 9922/2003; v. anche Cass. n. 7773/2006).

Anzi, la Corte ha stabilito che, contrariamente a quanto mostra di ritenere il controricorrente, sarebbe stata inesistente una notifica eseguita ai sensi dell’art. 142 c.p.c., la cui applicazione è esplicitamente esclusa dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. f). Infatti, ha affermato la Corte, “in tema di imposta di registro, la notifica dell’avviso di accertamento di maggior valore relativo alla compravendita di un immobile a persona non residente, né dimorante, né domiciliata nella Repubblica, effettuata all’estero tramite il Consolato d’Italia, è inesistente, dovendosi effettuare, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e), nel Comune di stipulazione o formazione dell’atto” (Cass. n. 8456/1996).

Nel caso di specie, quindi, correttamente l’Ufficio aveva proceduto a notificare l’avviso di liquidazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), notifica che si perfeziona con l’affissione del deposito dell’atto all’albo della Casa Comunale, ove deve rimanere esposto per 8 giorni consecutivi, senza che occorra la spedizione dell’avviso (dell’avvenuto deposito) mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

Essendo state rispettate le formalità prescritte dalla surrichiamata disposizione (ed essendo inapplicabile la procedura di notifica prevista dall’art. 140 c.p.c.), non poteva essere dichiarato il mancato esaurimento del rapporto ed affermata la validità dell’istanza di definizione agevolata prodotta dal contribuente: invero, se la Commissione Tributaria Centrale avesse accertato, come avrebbe dovuto, il rispetto delle formalità di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), e, quindi, la validità della notifica dell’avviso di liquidazione, non impugnato dal contribuente, ne sarebbe conseguita la definitività dell’accertamento e della relativa liquidazione con l’impossibilità di ricorrere al condono ex L. n. 413 del 1991, art. 53 non essendo pendente alcuna controversia alla data del 30 settembre 1991 (l’avviso di liquidazione era stato notificato l’11 aprile 1989).

Deve essere accolto, quindi, il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessario alcun altro accertamento di fatto, la causa può essere decisa nel merito mediante il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente. Sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente. Compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 23 ottobre 2006.

Depositato in Cancelleria il 27 novembre 2006


Cass. civ. Sez. II, (ud. 04-05-2006) 21-11-2006, n. 24673

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORONA Rafaele – Presidente

Dott. EBNER Vittorio Glauco – Consigliere

Dott. SCHERILLO Giovanna – Consigliere

Dott. TROMBETTA Francesca – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.A., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA RISORGIMENTO 59, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO VIOLA, difeso dall’avvocato RICCIUTI BRUNO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CHIETI, in persona del Sindaco e legale rappresentante pro tempore;

– intimato –

avverso la sentenza n. 244/01 del Giudice di pace di CHIETI, depositata il 30/05/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/06 dal Consigliere Dott. Ippolisto PARZIALE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo che ha concluso per l’accoglimento del secondo motivo del ricorso e il rigetto del resto.

Svolgimento del processo
M.A. ricorre, articolando tre motivi, avverso la sentenza del giudice di pace di Chieti, pubblicata il 30 maggio 2002, che ha respinto la sua opposizione avverso la cartella esattoriale numero (OMISSIS) del 2001 ((OMISSIS)), notificata il primo ottobre 2001, relativa a sanzione amministrativa conseguente a violazione del codice della strada.

Il giudice di pace ha respinto la sua opposizione ritenendola tardiva, non avendo il ricorrente proposto opposizione al verbale di accertamento della violazione, ritenuto tempestivamente e regolarmente notificato a mezzo posta all’indirizzo del predetto risultante dall’archivio nazionale dei veicoli presso la direzione generale della motorizzazione civile, così come prescritto dall’art. 201 C.d.S.. Il giudice di pace osservava in particolare che “la responsabilità della tempestiva trascrizione dei dati, pur trasmessi dal ricorrente, non è imputabile alla polizia municipale di Chieti”.

L’amministrazione intimata non ha svolto difese in questa sede.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso viene dedotta la “violazione e falsa applicazione di norme procedurali”. Deduce il ricorrente la nullità della costituzione del comune resistente in primo grado, ex articoli 311 e 83 c.p.c. per non avere il comandante dei vigili urbani alcuna rappresentanza legale dell’ente territoriale, potendo stare in giudizio per il Comune soltanto il sindaco.

Il motivo è infondato e va respinto. Contrariamente a quanto affermato dal ricorrente, dall’esame degli atti, consentito in questa sede in relazione all’errore denunciato, risulta la delega conferita dal Comune al Comandante dei Vigili Urbani, sufficiente per fini del giudizio avanti al giudice di pace. Ed infatti la L. 4 novembre 1981, n. 689, art. 23 consente alla autorità, la quale abbia emesso ordinanza-ingiunzione per la comminazione di sanzioni amministrative, di stare personalmente nel relativo giudizio di opposizione, avvalendosi anche di propri funzionari appositamente delegati. Tale norma comporta soltanto, ai fini della regolarità di tale delega che la stessa provenga dall’organo dotato della rappresentanza esterna dell’ente e, quindi, ove si tratti di un Comune, dal Sindaco (Cass. 1249 del 1991).

Con il secondo motivo di ricorso viene dedotta la violazione e falsa applicazione di norme diritto. Osserva il ricorrente che l’unico atto da lui ricevuto regolarmente era costituito dalla cartella esattoriale, impugnata nei termini di legge. Erroneamente il giudicante aveva ritenuto regolarmente effettuata la notifica dell’avviso di accertamento, spedito a mezzo posta con plico raccomandato con avviso di ricevimento ad un indirizzo presso il quale il ricorrente non aveva più la sua abitazione e residenza sin dal 25 febbraio 1997. Sicché la compiuta giacenza al 19 aprile 1999, effettuata per la notifica in tale indirizzo, non poteva avere alcuna validità nè di fatto nè giuridica. Tale circostanza egli aveva documentato con la produzione del certificato di residenza del comune di Chieti del 6/11/2001 e con la documentazione rilasciata dall’ufficio provinciale di Chieti del PRA del 28 ottobre 2001.

Il motivo è fondato e va accolto.

Il giudice di pace ha ritenuto, infatti, valida la notificazione dell’ordinanza-ingiunzione effettuata “presso l’indirizzo del M. risultante dall’archivio nazionale dei veicoli presso la Direzione generale della MCTC, così come prescritto dall’art. 201 C.d.S.; pertanto la responsabilità della tempestiva trascrizione dei dati, pur trasmessi dal ricorrente, non sono imputabili alla Polizia Municipale di Chieti il cui atto sanzionatorio viene confermato.” Il giudice ha, quindi, deciso sulla base dei seguenti elementi: 1) la notifica dell’ordinanza ingiunzione fu effettuata all’indirizzo di residenza del M. non ancora aggiornato dopo il trasferimento della residenza avvenuto in epoca anteriore alla notifica; 2) il M. aveva provveduto alla tempestiva comunicazione della variazione dell’indirizzo di residenza.

Sulla base di tali fatti accertati il giudice di pace ha ritenuto che il mancato aggiornamento dei dati non poteva considerarsi imputabile alla Polizia Municipale di Chieti (affermazione questa condivisibile, non essendo quest’ultima responsabile della tenuta dei dati) ed ha concluso che la notifica effettuata al precedente indirizzo di residenza dell’odierno ricorrente doveva considerarsi come correttamente eseguita. E ciò pur risultando dagli atti che la notifica era stata effettuata a mezzo posta, che il destinatario risultava assente e che il plico era stato restituito per compiuta giacenza. L’interessato, quindi, non aveva avuto alcuna notizia della notifica ed aveva diligentemente e tempestivamente provveduto anche a quanto di sua competenza per la necessaria variazione non solo ai fini anagrafici, ma anche ai fini previsti dal codice della strada.

In tale situazione il ricorrente ha avuto cognizione dell’ordinanza- ingiunzione soltanto con la notifica della cartella esattoriale, correttamente eseguita al suo effettivo indirizzo di residenza. Ha poi tempestivamente proposto ricorso deducendo il precedente vizio di notifica, di cui ha fornito la prova.

Il giudicante ha quindi compiuto un errore di interpretazione della norma di cui all’articolo 201 C.d.S., che è del seguente tenore (per la parte che interessa in questa sede e nel testo all’epoca vigente):

“… le noti fiche si intendono validamente eseguite quando siano fatte alla residenza, domicilio o sede del soggetto risultante dalla carte di circolazione o dall’archivio nazionale dei veicoli istituito presso la Direzione generale della M. T.C T. …”.

La ratio di tale norma non può che essere quella di semplificare le attività che debbono svolgere gli enti accertatori per la notifica delle violazioni al codice della strada, evitando così molteplici indagini. Di conseguenza, sul cittadino, proprietario del veicolo, grava l’onere di comunicare tempestivamente le variazioni anagrafiche, se non vuole subire gli effetti (negativi) di una notifica effettuata al precedente indirizzo di residenza. Peraltro tali effetti negativi non possono ricadere sul cittadino che abbia diligentemente ottemperato a tale onere, e ciò anche nel caso in cui si verifichi un ritardo nell’aggiornamento dei relativi archivi per l’inefficienza della pubblica amministrazione, come accaduto nel caso in questione.

Con il terzo motivo di ricorso, come lo stesso ricorrente afferma, viene contestato il contenuto dell’infrazione.

Il motivo è inammissibile perché relativo al merito della contestazione.

In conseguenza dell’accoglimento del secondo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altro giudice di pace di Chieti il quale si atterrà al seguente principio il diritto: “la notifica effettuata a mezzo posta all’indirizzo di residenza del contravventore risultante dagli archivi non aggiornati, non può ritenersi correttamente eseguita, ove il destinatario risulti assente e il plico restituito al mittente per compiuta giacenza, quando l’interessato abbia provveduto alla tempestiva comunicazione della relativa variazione anagrafica”.

P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso, cassa con rinvio ad altro giudice di pace di Chieti che provvedere anche per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 4 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 21 novembre 2006


Cass. civ., Sez. II, Sent., (data ud. 09/12/2005) 16/11/2006, n. 24416

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente

Dott. COLARUSSO Vincenzo – Consigliere

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. EBNER Vittorio Glauco – Consigliere

Dott. MAZZACANE Vincenzo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

N.G., M.A., L.R., elettivamente domiciliati in ROMA VIA BOEZIO 2, presso lo studio dell’avvocato MILANA CARLO, che li difende, giusta delega in atti;

– ricorrenti –

contro

N.V., N.S., M.R. vedova N.U., N.A., N.G., N.L., gli ultimi cinque nella qualità di eredi di N.U., elettivamente domiciliati in ROMA VIA G GALILEI 45, presso lo studio dell’avvocato CIAFFI ONOFRIO, che li difende, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

N.B., NI.AM., N.P., N.C., S.D.G.R., D.G. AL., DI.GI.AN., D.G.A.M., D. G.G., L.E.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2315/02 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 13/06/02;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 09/12/05 dal Consigliere Dott. Vincenzo MAZZACANE;

udito l’Avvocato MILANA Carlo, difensore dei ricorrenti che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria che ha concluso per l’accoglimento del 1^ motivo di ricorso, assorbiti gli altri.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione dell’aprile 1991 N.U. e N.V. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Roma G., B., P. e N.C., M. A., R., A., A.M. e D.G.G. chiedendo dichiararsi la nullità del testamento olografo pubblicato il 13.2.1991 di N.E., deceduta il 31.1.1991, con il quale quest’ultima aveva istituito suoi unici eredi il fratello N.G. e la di lui moglie M.A.; al riguardo gli attori assumevano che al momento della redazione del suddetto testamento N.E. era incapace di intendere e di volere, cosicchè essi chiedevano l’attribuzione e la divisione dei beni secondo i criteri della successione legittima.

Si costituivano in giudizio N.G. e M.A. deducendo che la “de cuius” all’atto della stesura del testamento era sana di mente e che solo nell’aprile del 1990 era stata colpita da malattia, e pertanto chiedevano il rigetto della domanda attrice.

Dopo l’integrazione del contraddittorio nei confronti di Emanuele e L.R. e N.S. il Tribunale adito con sentenza del 27.1.1998 dichiarava la nullità del suddetto testamento olografo del 18.1.1990.

A seguito di gravame da parte di N.G., M. A. e L.R. cui resistevano N.V. mentre gli altri appellati restavano contumaci, la Corte di Appello di Roma con sentenza del 13.6.2002 ha rigettato l’impugnazione.

La Corte territoriale preliminarmente ha disatteso il motivo di appello con il quale era stata dedotta la nullità della notificazione dell’atto di citazione (e di tutti gli atti successivi) nei confronti di L.R. in quanto eseguita nel domicilio di via (OMISSIS) in Roma dal quale invece la L. risultava essersi trasferita fin dall’anno 1989 perchè emigrata in altro comune; invero premesso che la notifica suddetta era avvenuta ai sensi dell’art. 140 c.p.c., il giudice di appello ha escluso l’esistenza di elementi da cui desumere che il notificante conoscesse o avrebbe potuto conoscere con l’ordinaria diligenza il trasferimento di residenza del destinatario della notifica; ha poi aggiunto che la dichiarazione dell’Ufficiale Giudiziario di non aver trovato nessuno all’indicato domicilio idoneo ai sensi di legge a ricevere l’atto postulava un accertamento sulla effettiva ubicazione del destinatario non superabile dall’esistenza di certificazione di segno contrario.

La sentenza impugnata, poi, dopo aver disatteso il motivo di appello concernente la inutilizzabilità della consulenza tecnica d’ufficio espletata anche tra l’altro per la mancanza nel professionista incaricato delle necessarie qualità tecniche, ha evidenziato che dalle cartelle cliniche riguardanti N.E. era emerso un quadro costante contrassegnato da confusione e disorientamento spaziale e temporale con grave deficit della memoria, con conseguente onere degli appellanti, in realtà non assolto, di provare la redazione del testamento in un momento di lucido intervallo. Il giudice di appello ha quindi concluso condividendo pienamente l’analisi degli atti processuali condotta dal giudice di primo grado.

Per la cassazione di tale sentenza N.G., M. A. e L.R. hanno proposto un ricorso articolato in dieci motivi cui M.R., U., A., L., S. e N.G., tutti quali eredi di N. U., e N.V. hanno resistito con controricorso;

B., Am., P., C. e N.S., R., A., A.M. e D.G.G. nonchè L.E. non hanno svolto attività difensiva in questa sede; le parti hanno successivamente depositato delle memorie.

Motivi della decisione
Con il primo ed il secondo motivo di ricorso i ricorrenti, denunciando rispettivamente violazione degli articoli 102 – 140 c.p.c. – art. 44 c.c. – art. 31 disp. att. c.c. – D.P.R. n. 136 del 1958, art. 16 e D.P.R. n. 223 del 1989, art. 18 e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver ritenuto valida la notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio nei confronti di L.R. avvenuta nel primo grado di giudizio ex art. 140 c.p.c. avendo così omesso l’esame dei documenti anagrafici ritualmente prodotti che attestavano il trasferimento di L.R. dal Comune di Roma a quello di Marino a decorrere dall’11.9.1989;

pertanto da tale data la L. risultava risiedere in (OMISSIS), Piazza (OMISSIS).

I ricorrenti quindi rilevano che il trasferimento della L. da Roma a (OMISSIS) a decorrere dall’11.9.1989 emergente dai certificati anagrafici provenienti dai suddetti Comuni avrebbe potuto e dovuto essere conosciuto dagli attori con l’ordinaria diligenza allorchè nell’anno 1991 precedettero alla integrazione del contraddittorio nei confronti della suddetta parte; pertanto nella fattispecie era stato erroneo il ricorso alla notifica ex art. 140 c.p.c., posto che tale modalità di notificazione non richiede l’effettiva irreperibilità del destinatario, bensì soltanto l’occasionale mancato rinvenimento di quest’ultimo nella sua residenza.

I ricorrenti quindi censurano l’affermazione della Corte territoriale secondo cui non risultavano dedotti in giudizio elementi da cui desumere che il notificante conoscesse o avrebbe potuto conoscere con l’ordinaria diligenza l’avvenuto trasferimento di residenza del destinatario della notifica. Le enunciate censure, da esaminare contestualmente in quanto strettamente connesse, sono fondate.

Dall’esame diretto degli atti (consentito a questa Corte dalla natura procedurale del vizio denunciato) risulta che gli appellanti avevano ritualmente prodotto nel giudizio di secondo grado un certificato del Comune di Roma del 27.1.1999 che attestava che L.R. dall’11.9.1989 era emigrata a (OMISSIS) ed un certificato del Comune di Marino del 24.5.1999 da cui emergeva che la L. dalla medesima data dell’11.9.1989 risiedeva a Marino, via della Repubblica 2;

sempre dall’esame diretto degli atti risulta che l’integrazione del contraddittorio nei confronti di L.R. nel giudizio di primo grado fu eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. e che il piego relativo alla raccomandata spedita con avviso di ricevimento recante la notizia dell’avvenuto compimento delle formalità previste dalla suddetta disposizione è stato restituito al mittente per compiuta giacenza. Orbene alla luce degli elementi ora evidenziati deve ritenersi la nullità della notifica in questione.

Invero gli appellanti avevano provato l’avvenuta cancellazione di L.R. dall’anagrafe del Comune di precedente iscrizione e la sua iscrizione nell’anagrafe del Comune di nuova residenza con la stessa decorrenza (ovvero l’11.9.1989), cosicchè sussistevano i requisiti di legge, ai sensi degli articoli 44 c.c., comma 1 e art. 31 disp. att. c.c., ovvero la doppia dichiarazione fatta al Comune che si abbandona ed a quello di nuova residenza – per poter opporre il trasferimento della residenza ai terzi di buona fede (vedi al riguardo Cass. 2.3.1996 n. 164 8); e d’altra parte la notifica ex art. 140 c.p.c. non esclude, ma anzi postula che sia stato esattamente individuato il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario, e che la copia da notificare non sia stata consegnata per mere difficoltà di ordine materiale, quali la momentanea assenza, l’incapacità o il rifiuto delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c. (Cass. 11.8.2000 n. 10629; Cass. 20.9.2002 n. 13755).

Pertanto nella fattispecie non può essere condiviso il generico assunto del giudice di appello – che invero non ha operato alcun riferimento specifico alla documentazione sopra richiamata – secondo cui non erano stati dedotti in giudizio elementi da cui desumere che il notificante conoscesse, o avrebbe potuto conoscere con l’ordinaria diligenza, il trasferimento di residenza della L.; infatti una normale ricerca anagrafica avrebbe consentito di accertare che all’epoca della notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio nei confronti della L. (luglio del 1991) quest’ultima da molto tempo, ovvero dall’11.9.1989, aveva trasferito la propria residenza dal Comune di Roma a quello di Marino;

conseguentemente la notifica di tale atto nella precedente residenza anagrafica di Roma, via (OMISSIS) non era più giustificata da alcun elemento oggettivo, ed era quindi nulla.

A tal proposito non possono essere condivisi nè il rilievo in senso contrario attribuito dal giudice di appello alla dichiarazione dell’ufficiale giudiziario di non aver trovato nessuno all’indicato domicilio idoneo, ai sensi di legge, alla consegna dell’atto nè la considerazione che tale dichiarazione postulava un accertamento sulla effettiva ubicazione del destinatario non superabile dall’esistenza di contraria certificazione: infatti nel caso in cui la notifica venga effettuata nelle forme previste dall’art. 140 c.p.c. nel luogo indicato nell’atto da notificare e nella richiesta di notifica, costituisce mera presunzione, superabile con qualsiasi mezzo (e senza necessità di impugnare con querela, di falso la relazione dell’ufficiale giudiziario) che in quel luogo si trovi la residenza effettiva (o la dimora o il domicilio) del destinatario dell’atto, sicchè compete al giudice di merito, in caso di contestazione, compiere tale accertamento in base all’esame ed alla valutazione delle prove fornite dalle parti (Cass. 26.8.1997 n. 8011).

Con il terzo motivo i ricorrenti, deducendo vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per non aver preso in esame i motivi di appello relativi alla asserita inutilizzabilità della consulenza tecnica d’ufficio anche per difetto di adeguati requisiti di professionalità sul consulente tecnico nominato.

Con il quarto motivo i ricorrenti, denunciando vizio della motivazione, assumono che il giudice di appello non ha minimamente esaminato le censure degli appellanti relative alla contraddittorietà ed alla illogicità della consulenza tecnica d’ufficio. Con il quinto motivo i ricorrenti, deducendo vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per aver affermato che gravava sugli appellanti l’onere, in realtà non assolto, di provare che il testamento in questione fosse stato redatto da N. E. in un momento di lucido intervallo; in realtà era onere delle controparti provare che la redazione del suddetto testamento fosse avvenuta in un periodo di grave malattia mentale della N..

Con il sesto motivo i ricorrenti, deducendo vizio di motivazione, sostengono che l’affermazione del giudice di appello secondo cui il grave stato confusionale riscontrato in N.E. risaliva a circa sei mesi prima del suo ricovero contrastava con la documentazione acquisita in atti. Con il settimo motivo i ricorrenti, denunciando vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per non aver esaminato la richiesta degli appellanti di effettuare una perizia psicografologica sulla scheda testamentaria onde accertare le condizioni psichiche della testatrice al momento della redazione del testamento. Con l’ottavo motivo i ricorrenti, deducendo violazione degli articoli 246 e 257 c.p.c., comma 2 e vizio di motivazione, censurano la sentenza impugnata per non aver specificatamente esaminato i motivi di appello relativi alla nullità parziale della prova testimoniale di parte attrice, alla errata valutazione della prova espletata ed alla omessa ammissione di un teste indotto dagli esponenti.

Con il nono motivo i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli articoli 91 e 92 c.p.c..

Con il decimo motivo i ricorrenti deducono vizio di motivazione.

Con tali connesse censure i ricorrenti assumono di essere stati condannati al rimborso delle spese del secondo grado di giudizio liquidate complessivamente nella elevatissima somma di Euro 21.200,00 in violazione dei limiti massimi delle tariffe e senza alcuna motivazione; aggiungono che comunque la compensazione delle spese sarebbe stata più logica all’esito del giudizio.

Tutti gli enunciati motivi restano assorbiti in seguito all’accoglimento dei primi due motivi di ricorso.

In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti e la causa deve essere rinviata ai sensi dell’art. 383 c.p.c., comma ultimo, al Tribunale di Roma quale giudice di primo grado.

Ricorrono giusti motivi per compensare interamente tra le parti le spese di tutti i gradi di giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE Accoglie i primi due motivi di ricorso, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa al Tribunale di Roma quale giudice di primo grado; compensa interamente tra le parti le spese di tutti i gradi del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 9 dicembre 2005.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2006


Cons. Stato Sez. V, (ud. 21-04-2006) 02-10-2006, n. 5718

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

IL CONSIGLIO DI STATO IN SEDE GIURISDIZIONALE

Sezione Quinta

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso n. 10337 del 2005, proposto dal sig. C.M., rappresentato e difeso dall’avv. Vincenzo Mascolo, elettivamente domiciliato presso il medesimo in Roma, via P. Frisi 18

contro

l’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Perugia, rappresentato e difeso dall’avv. Goffedo Gobbi e dall’avv. Claudio Marcello Leonelli, elettivamente domiciliato presso il primo in Roma, via Maria Cristina 8

e nei confronti

della signora F.M., non costituita in giudizio

per la riforma

della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria, 29 luglio 2005 n. 383, resa tra le parti.

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurgi e Odontoiatri di Perugia;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Relatore alla camera di consiglio del 21 aprile il consigliere Marzio Branca, e uditi gli avv.ti Mascolo, L. Gobbi per delegadi G. Gobbi;

Svolgimento del processo
Con la sentenza in epigrafe è stato respinto il ricorso proposto dal sig. C.M. per l’annullamento della nota 25 febbraio 2005 n. 602 con la quale l’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Perugia ha negato l’accesso dell’istante al verbale relativo alla audizione della dr. F.M., medico psichiatra, sentita dall’Ordine predetto a seguito di esposto inoltrato dal medesimo sig. M., ai fini dell’apertura di un procedimento disciplinare.

Il TAR ha ritenuto che non sussistessero le condizioni per accogliere la richiesta in ragione della natura riservata dell’atto e della sostanziale irrilevanza del medesimo in funzione della tutela di posizioni giuridiche qualificate.

Il sig. M. ha proposto appello assumendo l’erroneità della sentenza e chiedendone la riforma, con contestuale accertamento del diritto all’accesso al documento.

L’Ordine intimato si è costituito in giudizio per resistere al gravame.

Entrambe le parti hanno depositato memoria per ostenere le rispettive ragioni.

Alla pubblica udienza del 21 aprile 2006 la causa è stata trattenuta in decisione.

Motivi della decisione
La vicenda in esame si inserisce nel contenzioso che contrappone l’odierno appellante alla suocera, medico psichiatra, a carico della quale pende un procedimento penale per sottrazione di minore, e che in data 31 marzo 2004 ha inviato una nota al Tribunale dei minorenni di Perugia attribuendo al ricorrente precedenti penali ed una forma di patologia mentale ossessiva.

Il ricorrente, oltre a sporgere denuncia per diffamazione, e domanda di risarcimento del danno, ha inviato un esposto all’Ordine dei Medici Chirurghi e Odontoiatri di Perugia, accusando la suocera di violare il codice deontologico, avendo usato per fini personali le proprie competenze professionali.

L’Ordine ha proceduto all’audizione dell’interessata ed ha disposto la archiviazione del procedimento.

E’ appunto al verbale di tale audizione che l’appellante ha domandato l’accesso ai sensi dell’art. 22 della legge n. 241 del 1990, allegando l’esigenza di tutelare la propria onorabilità dalle accuse che, verosimilmente, la suocera avrebbe reiterato in quella sede nei suoi confronti.

Il giudizio di primo grado, instaurato per contestare il diniego opposto dall’Ordine, è stato definito con sentenza di rigetto, considerando che l’obbligo della trasparenza dell’azione amministrativa, imposto dalla legge n. 241 del 1990, incontra un limite nell’esigenza della tutela della riservatezza dei terzi, ma tale limite può essere superato quando “il soggetto che richiede l’accesso è destinatario o comunque risente, nella sua sfera giuridica, degli effetti di una attività amministrativa che abbia, quali diretti destinatari, altri soggetti.”.

Con la conseguenza che, in difetto di una attività amministrativa che in qualche modo coinvolga il soggetto richiedente, il problema di verificare l’imparzialità dell’Amministrazione neppure si pone, e ciò accade quando, come nella specie, la domanda di acceso si riferisce a controversie tra privati che non coinvolgono l’organo pubblico o l’esercizio delle competenze ad esso spettanti.

L’appellante ha criticato la detta motivazione facendo leva sull’art. 24, comma 7, della legge n. 241 del 1990, del testo sostituito dall’art. 16 della legge 11 febbraio 2005 n. 15, a norma del quale “deve comunque essere garantito ai richiedenti l’accesso ai documenti amministrativi la cui conoscenza sia necessaria per curare o per difendere i propri interessi giuridici.”.

Osserva il Collegio che la norma invocata dall’appellante costituisce lo sviluppo logico della statuizione di cui all’art. 22, comma 1, lett. b) della medesima legge, nel testo novellato, ma non sostanzialmente innovativo, dove si stabilisce che può esercitare il diritto di acceso chi abbia “un interesse diretto, concreto e attuale, corrispondente ad una situazione giuridicamente tutelata e collegata al documento al quale è chiesto l’accesso;”.

Entrambe le disposizioni pongono l’accento sulla strumentalità del diritto di acceso rispetto alla tutela di una posizione soggettiva qualificata dall’ordinamento, e da ciò la giurisprudenza consolidata fa discendere il potere del giudice di verificare la effettività e la concretezza del collegamento dell’acceso al documento con la dichiarata esigenza di tutela (Cons. St., Sz. V, 13 dicembre 1999 n. 2109; Ad. Plen., 28 aprile 1999 n. 6; Sez. V, 8 luglio 2003 n. 4049). Tale verifica, poi, non può che essere più rigorosa allorché si tratti di un documento che raccolga, come nella specie, dichiarazioni di terzi su profili attinenti alla propria attività professionale, poiché in tal caso il diritto all’accesso entra in conflitto con il diritto alla riservatezza, cui pure la legge accoda particolare tutela (art. 22, comma 6, lett. d) della legge n. 241 del testo novellato).

Alla stregua dei detti principi, il Collegio ritiene che la domanda di accesso dell’appellante non sia sorretta da quella plausibile esigenza di difesa dei propri interessi cui la legge subordina la sussistenza del diritto.

L’istanza, infatti, è fondata sul sospetto che il verbale della audizione resa dalla congiunta dinanzi all’Ordine professionale, per difendersi dalla accusa di abuso delle proprio titolo, contenga affermazioni lesive della persona dell’appellante, dello stesso tenore di quelle già esternate a carico del medesimo con nota al Tribunale per i minorenni di Perugina, e per le quali già pendono procedimenti penali e civili ad iniziativa dell’interessato.

Ne consegue che, mentre l’appellante, pur essendo l’autore di un apposito esposto, non ha titolo per replicare alle tesi difensive della sua avversaria con riguardo alla ipotetica responsabilità disciplinare della stessa (Cons. St., Sez. I, parere 19 novembre 2003 n. 2764/2002 e giurisprudenza ivi citata), nessuna utilità potrebbe ricavare dalla conoscenza della presunta reiterazione dei medesimi addebiti negativi a suo carico, nei cui confronti ha già esperito i mezzi di tutela giudiziaria ritenuti opportuni.

In tale situazione, la dedotta esigenza di conoscere un documento necessario alla difesa di una posizione soggettiva minacciata, degrada ad interesse meramente speculativo, legittimo in sé, ma non idoneo a prevalere sulla naturale riservatezza che deve proteggere le dichiarazioni rese da un terzo nello svolgimento di una attività difensiva della propria figura professionale, nel corso di un procedimento cui l’appellante è totalmente estraneo.

L’appello deve quindi essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quinta, rigetta l’appello in epigrafe;

condanna l’appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore dell’Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi Odontoiatri di Perugia, e ne liquida l’importo in Euro 3.000,00=;

ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 aprile 2006 con l’intervento dei magistrati:

Raffaele Iannotta Presidente

Raffaele Carboni Consigliere

Giuseppe Farina Consigliere

Paolo Buonvino Consigliere

Marzio Branca Consigliere est.


Cass. civ. Sez. I, (ud. 28-06-2006) 21-09-2006, n. 20440

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente

Dott. MORELLI Mario Rosario – Consigliere

Dott. GILARDI Gianfranco – Consigliere

Dott. DEL CORE Sergio – rel. Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.C., elettivamente domiciliato in ROMA VIA GREGORIO VII 396, presso l’avvocato GIUFFRIDA ANTONIO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CATANIA, MONTEPASCHI SERIT S.P.A.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 1419/01 del Giudice di pace di CATANIA, depositata il 24/09/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/06/2006 dal Consigliere Dott. Sergio DEL CORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARESTIA Antonietta, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Giudice di pace di Catania, B.C. impugnò la cartella esattoriale notificatagli dal concessionario dal servizio riscossione tributi (Montepaschi Serit s.p.a.) il 10 maggio 2001 e relativa a sanzione pecuniaria di L. 192.730 emessa a suo carico per violazione del codice della strada accertata con sommario processo verbale il 28 agosto 1997 dalla polizia municipale di quella città.

L’adito giudice respinse l’opposizione osservando, a confutazione dei relativi motivi, che, il processo verbale era stato notificato, nei termini di cui all’art. 201 C.d.S., nelle mani della madre del B., la quale, in data 4 novembre 1997, in nome e per conto del figlio, sottoscrisse la ricevuta, ritirando il piego presso gli uffici dell’agenzia recapiti Ventura; per provvedimento del sindaco di Catania del 3 ottobre 1999, detta agenzia aveva assunto la qualifica di messo notificatore; in tale veste, esercitava le funzioni di ufficiale giudiziario e aveva valido titolo a compiere tutti gli adempimenti del procedimento di notificazione previsti per l’amministrazione postale dalla L. n. 890 del 1982; l’avviso di ricevimento del piego raccomandato, munito del bollo dell’ufficio recante la data del giorno della consegna e la firma del delegato al ritiro da parte del destinatario, costituiva prova dell’avvenuta notificazione; la Montepaschi Serit s.p.a. difettava di legittimazione passiva dacché non partecipa alla formazione del ruolo, di competenza dell’ente impositore.

Di tale sentenza il B. chiede la cassazione per tre motivi con ricorso proposto nei confronti del Comune di Catania e della Montepaschi Serit s.p.a..

Nessuno degli intimati svolge difese in questa sede.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente denunzia letteralmente la “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, L. n. 689 del 1981, art. 14, comma 4 e u.c., art. 149 c.p.c., art. 201 C.d.S., comma 3, L. n. 890 del 1982, art. 12”. Il giudice di pace – lamenta – ha ritenuto valida la notifica del sommario processo verbale benchè eseguita due anni prima del presunto atto amministrativo del 3 ottobre 1999 con cui si era attribuita alla agenzia recapiti Ventura la qualifica di messo notificatore, consentendole di esercitare appieno le funzioni di ufficiale giudiziario. La notificazione era quindi inesistente, non essendo avvenuta pel tramite dell’amministrazione postale come prescritto dalle richiamate disposizioni di legge. E, in mancanza di valida notificazione nei termini, si è verificata l’estinzione della obbligazione del pagamento della sanzione amministrativa. Peraltro, il giudice di pace, violando il principio del contraddittorio e procedendo arbitrariamente ex officio, ha basato la decisione su un provvedimento amministrativo da nessuno dedotto nè tampoco prodotto in corso di giudizio. Quand’anche equiparata a un messo notificatore, l’agenzia avrebbe potuto effettuare la notifica ai sensi degli artt. 137 ss. c.p.c., avvalendosi del servizio postale, come i messi notificatori agli ufficiali giudiziari, ma non certamente trasformarsi in un ufficio postale e compierne, come avvenuto nella specie, le specifiche attività.

Con il secondo motivo il ricorrente, ribadendo le argomentazioni di cui al precedente motivo, denunzia come “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4” la “nullità del procedimento”, conseguita anche dalla violazione del principio dispositivo e del contraddittorio da parte del giudice di pace.

Con il terzo motivo, il ricorrente denuncia la “violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5”. Riproponendo, ancora una volta, quanto detto in precedenza, segnala la contraddittorietà e illogicità della motivazione adottata dal giudice di pace nel valorizzare, ex officio, il provvedimento sindacale intervenuto dopo la contestata notificazione e nel ritenere comunque valida l’attività notificatoria avvenuta a mezzo posta, ma con recapito a cura di una agenzia privata, tributaria di servizi postali.

A parte l’erronea indicazione, tra le norme violate, dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – che è ovviamente norma strumentale in base alla quale gli errori, in iudicando e/o in procedendo, possano essere denunciati – il primo motivo si appalesa fondato nel suo nucleo essenziale incentrata sulla invalidità della eseguita notificazione del verbale di accertamento della infrazione al codice della strada.

Come già rilevato da questa Corte con le sentenze nn. 563/1994, 8079/1996, 2889/2002, 12533/2003, la L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 14 impronta a rigore formale l’atto della contestazione differita attuata con la notificazione degli “estremi della violazione” all’interessato, indicando tassativamente i soggetti abilitati a provvedere alla notificazione stessa e prevedendo le modalità esecutive secondo le disposizioni dettate dalle leggi vigenti e dal codice di procedura civile, essendo al riguardo annesso – in difetto di un espresso divieto – anche l’impiego del servizio postale. Da parte sua, l’art. 201 nuovo C.d.S., comma 3, prevede invece espressamente la notificazione della violazione a mezzo posta.

Il rigore formale dell’atto di notificazione ben si spiega anche avuto riguardo agli effetti che la legge (art. 14, u.c.) riconduce alla omissione della notificazione nel previsto termine, cui consegue l’estinzione della obbligazione di pagare la somma dovuta dal trasgressore per la violazione. Ebbene, quando l’Amministrazione alla quale appartiene il funzionario o l’agente che ha accertato la violazione si avvalga del servizio postale per la notificazione degli estremi della violazione, è tenuta ad osservare le norme sulla notificazione degli atti giudiziari a mezzo della posta come dettate dalla L. 20 novembre 1982, n. 890 e dal complesso di tale minuziosa disciplina si deve con certezza desumere che i relativi adempimenti non possono formare oggetto della concessione a privati come prevista per taluni servizi postali dal D.P.R. 29 marzo 1973, n. 156, art. 29 (cd. codice postale) e dagli artt. da 121 a 148 reg. esec. approvato con D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655. La L. n. 890 del 1982 riserva, infatti, all’amministrazione postale tutti gli adempimenti del procedimento di notificazione, dalla accettazione (art. 3), al recapito (artt. 7 e 8), alla spedizione, infine, dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato che, “munito del bollo dell’ufficio postale recante la data dello stesso giorno della consegna”, “costituisce prova della eseguita notificazione”. Non può dunque dubitarsi che le complesse formalità previste dalla legge n. 890/1982, finalizzate insieme a garantire il risultato del ricevimento dell’atto da parte del destinatario e ad attribuire certezza all’esito in ogni caso del procedimento di notificazione, costituiscano una attribuzione esclusiva degli uffici postali e degli “agenti” e “impiegati” addetti, con connotati di specialità essenzialmente estranei a quei “servizi postali” di “accettazione” e “recapito” “per espresso” di corrispondenza che il direttore provinciale delle poste ha facoltà di dare in concessione secondo la previsione del D.P.R. n. 156 del 1973 citato, art. 29 ad agenzie private alle quali gli artt. 129 e 138 del relativo regolamento attribuiscono le denominazioni rispettivamente di “Agenzia privata autorizzata alla accettazione e al recapito degli espressi in loco” e “Agenzia per il recapito degli espressi postali”. Con la conseguenza necessitata che la notificazione degli estremi della violazione affidata (dall’ufficio cui appartiene l’agente accertatore) all’agenzia privata concessionaria a norma dell’art. 29 codice postale ed eseguita dai dipendenti della stessa agenzia (“suoi fattorini”, cosi definiti dall’art. 131 del regolamento) si deve considerare giuridicamente inesistente e, come a omessa notificazione, ad essa consegue l’effetto della estinzione della obbligazione di pagare la somma dovuta per la violazione, secondo la previsione della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c..

Le particolarità della notifica a mezzo posta sono state, non a caso, confermate dal D.Lgs. n. 261 del 1999 che, pur liberalizzando i servizi postali in attuazione della direttiva 97/67/CE (concernente regole comuni per lo sviluppo del mercato interno dei servizi postali comunitari e per il miglioramento della qualità del servizio), all’art. 4, comma 5, ha continuato a riservare in via esclusiva “al fornitore del servizio universale”, ovverosia all’organismo che fornisce l’Intero servizio postale universale su butto il territorio nazionale (id est all’Ente Poste), “gli invii raccomandati attinenti alle procedure amministrative e giudiziarie”.

Detto intervento legislativo ha, in un certo senso, avallato l’orientamento giurisprudenziale inaugurato in subiecta materia da questa Corte in epoca antecedente.

Non è controverso, nella specie, che i vigili urbani di Catania affidarono la notificazione degli estremi della violazione alla agenzia privata concessionaria per quel Comune del servizio recapito espressi. L’affermazione del giudice a quo circa la validità della notifica così eseguita integra violazione delle norme che disciplinano la notificazione dagli atti giudiziari a mezzo del servizio postale.

L’accoglimento del primo e pregiudiziale motivo comporta l’assorbimento degli altri.

Cassata perciò la sentenza impugnata, poichè non sono necessari ulteriori accertamenti di fatto (in ordine ai modi non controversi della eseguita notificazione), a norma dell’art. 384 c.p.c., la causa deve essere decisa nel merito con l’accoglimento della opposizione da B.C. proposta avverso la cartella esattoriale e la consequenziale dichiarazione di estinzione dell’obbligazione sanzionatoria, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 14, u.c..

Il Comune va, infine, condannato al rimborso delle spese del giudizio, di merito e di cassazione, a favore del B..

Il ricorso e, invece, inammissibile nei confronti della Montepaschi Serit s.p.a.. Il giudice di pace ha rigettato l’opposizione nei confronti del predetto esattore per difetto di legittimazione passiva in quanto estraneo alla formazione del ruolo, di competenza dell’ente impositore. Tale decisione non è stata censurata con alcuno dei motivi in cui si articola il ricorso ed e pertanto divenuta regiudicata.

Non vi è luogo a statuizione sulle spese relativamente al predetto intimato, astenutosi da qualsivoglia difesa in questa sede.

P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il primo motivo del ricorso proposto nei confronti del Comune di Catania, dichiara assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’opposizione e condanna il Comune di Catania alle spese del giudizio a favore del ricorrente, liquidate in complessivi Euro 300,00, di cui Euro 180,00 per onorari di avvocato e Euro 80,00 per diritti di procuratore, quanto al giudizio davanti al Giudice di pace, e in Euro 400,00, di cui Euro 300,00, per onorari di avvocato, quanto al giudizio di cassazione, oltre spese generali e accessori di legge.

Dichiara inammissibile il ricorso proposto nei confronti della Montepaschi Serit s.p.a..

Così deciso in Roma, il 28 giugno 2006.

Depositato in Cancelleria il 21 settembre 2006


Cass. civ. Sez. lavoro, (ud. 09-05-2006) 13-09-2006, n. 19554

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICIRETTI Stefano – Presidente

Dott. LUPI Fernando – Consigliere

Dott. CELENTANO Attilio – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. DE MATTEIS Aldo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PIETRO COSSA 41, presso lo studio dell’avvocato PORCELLI VINCENZO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

MICRON TECHNOLOGY ITALIA S.R.L., in persona del .Presidente rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BOCCA Di LEONE 78, presso lo studio dell’avvocato IRACE ERNESTO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 91/04 della Corte d’Appello di L’AQUILA, depositata il 08/01/04 r.g.n. 804/02;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 09/05/06 dal Consigliere Dott. Aldo DE MATTEIS;

udito l’Avvocato PORCELLI;

udito l’Avvocato IRACE ERNESTO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAETA Pietro che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Micron Technology Italia s.r.l. ha licenziato il proprio dipendente sig. M.M. previa contestazione disciplinare del fatto che a partire dal mese di novembre 1999 erano state eseguite connessioni con la rete informatica interna della società utilizzando l’identificativo del M., e ciò anche da un’utenza telefonica del distretto di Milano, in giorni in cui il M. era al lavoro nella sede di Avezzano; tali connessioni si erano verificate anche nei giorni 26, 27 e 28 dicembre utilizzando la password del M. da poco sostituita.

L’impugnativa del licenziamento, accolta dal Tribunale di Avezzano, è stata respinta dalla Corte d’ Appello di L’Aquila con sentenza 30 ottobre 2003/8 gennaio 2004 n. 91.

Il giudice d’appello ha ritenuto accertate le seguenti circostanze di fatto: 1. le connessioni dall’esterno utilizzando la password del M. sono iniziate subito dopo il licenziamento del dipendente B., avvenuto il 26 ottobre 1999, 2. esse sono state eseguite in maggioranza attraverso un’utenza appartenente al distretto telefonico di Milano ed intestata alla moglie del B., come da rapporto P.S., 3. il 13 dicembre 1999 il M. ha modificato la propria password su richiesta del sistema informatico, 4. alle ore 13,05 del giorno 24 dicembre 1999 è intercorsa una telefonata tra il B. ed il M., e dal pomeriggio dello stesso giorno sono riprese le connessioni dall’utenza telefonica intestata alla moglie del B. con la nuova password del M..

Il primo giudice aveva ritenuto che non fosse possibile escludere che il B. fosse venuto a conoscenza della password del M. per altre vie, in particolare: 1. potrebbe essergli stata comunicata dall’amministratore del sistema informatico, 2. o da altri colleghi che avrebbero sbirciato alle spalle del M., 3. ovvero perchè il B. avrebbe indovinato la password tentando a caso. Non essendovi tale certezza, ha ritenuto che non fosse possibile affermare la responsabilità del M.. Il giudice d’appello, con ampia motivazione, ha argomentato che le tre possibilità ventilate dal primo giudice erano o impossibili a verificarsi o molto poco verosimili. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il M., con tre motivi.

La società intimata si è costituita con controricorso, resistendo.

Entrambi hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 2119, 1324, 1362 cod. civ., e segg.; L. 15 luglio 1966, n. 604, artt. 1 e 3; L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7; art. 112 c.p.c., omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), censura la sentenza impugnata per violazione dei principi della specificità ed immutabilità della contestazione, sotto diversi profili.

Sostiene innanzitutto la mancanza di specificità degli addebiti, che non avrebbe consentito al lavoratore l’individuazione dei fatti nella loro materialità.

Assume poi che, mentre la contestazione aveva per oggetto il fatto della connessione personale dall’esterno da parte del M., la sentenza impugnata ha interpretato come motivo del licenziamento il fatto della comunicazione della password al B., violando così il principio della immutabilità della contestazione. Il motivo non è fondato, nei suoi diversi profili. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa corte, la previa contestazione dell’addebito, necessaria in funzione dei licenziamenti disciplinari, ha lo scopo di consentire al lavoratore l’immediata difesa e deve conseguentemente rivestire il carattere della specificità, che è integrato quando sono fornite le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare, nella sua materialità, il fatto o i fatti nei quali il datore di lavoro abbia ravvisato infrazioni disciplinari o comunque comportamenti in violazione dei doveri di cui agli artt. 2104 e 2105 cod. civ. (ex plurimis Cass. 10 giugno 2004 n. 11045).

La sentenza impugnata non ha immutato i fatti contestati, ma ne ha operato una valutazione di merito, alla stessa rimessa, il che non costituisce immutazione dei fatti. Con il secondo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 132 c.p.c.; artt. 2119, 2697, 2727 e 2729 cod. civ.; L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 5; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), censura la sentenza impugnata nel governo delle risultanze istruttorie. Anche questo motivo non è fondato.

Il giudice d’appello ha esaminato partitamente le singole motivazioni della sentenza avanti a lui impugnata, ed ha esposto le sue contrarie considerazioni e conclusioni in maniera molto ragionata.

1. Circa la possibilità che il B. sia potuto venire a conoscenza della password dall’amministratore del sistema, ha rilevato, seguendo la esposizione tecnica della Micron, che al primo accesso l’utente è obbligato dal sistema a modificare la propria password, con la conseguenza che l’amministratore del sistema non è più in grado di conoscerla. Infatti, una volta memorizzata la password, il sistema la trasforma automaticamente ed immediatamente, attraverso un algoritmo matematico, in una stringa che successivamente il sistema stesso sarà in grado di riconoscere; una simile operazione è irreversibile e non è quindi possibile risalire alla password partendo dalla stringa.

Ha rilevato inoltre che, se è vero che i sistemisti possono annullare la password di un dipendente ed inserirne una nuova, è anche vero che il dipendente interessato verrebbe immediatamente a conoscenza di una simile operazione, visto che la sua vecchia password sarebbe ormai da lui inutilizzabile e si vedrebbe, quindi, negato l’accesso al sistema; nel nostro caso, il M. non ha mai dedotto di essere stato vittima di un simile accadimento, ma, anzi, è del tutto pacifico che la password utilizzata per le connessioni per cui è causa è sempre stata proprio quella prescelta dallo stesso M..

2. Quanto alla possibilità che altri dipendenti possano aver carpito la password osservando il M. nel momento in cui la digitava, il giudice d’appello ha sottolineato che il piano di lavoro del dipendente si trovava sul lato del box opposto a quello dove si apriva la porta che dava sul corridoio (v. la riproduzione grafica delle postazioni di lavoro degli impiegati allegata al fascicolo della Micron nel procedimento ex art. 700 c.c.). Ne ha dedotto che era praticamente impossibile che qualche impiegato, transitando sul corridoio o affacciandosi sulla porta, potesse vedere i tasti premuti dal M. nel momento in cui digitava la password perchè costui si sarebbe trovato con la schiena rivolta verso la porta e pertanto avrebbe coperto con il proprio corpo la visuale della tastiera al collega.

Il giudice d’appello ha inoltre rilevato che l’eventualità prospettata dal Tribunale appare davvero improbabile se si considera che il B. ha eseguito le connessioni utilizzando non solamente la “vecchia” password del M., ma anche quella “nuova” che egli, su richiesta del sistema, aveva dovuto adottare in sostituzione della prima. Tale circostanza, innanzi tutto, esclude la possibilità che il B. sia venuto a conoscenza della password in ragione del fatto di lavorare insieme con il M.; infatti, la seconda delle password in questione è stata adottata dal M. quando il B. era stato già da tempo licenziato dalla Micron. 3. Infine,il giudice d’appello ha escluso la terza ipotesi prospettata dal Tribunale e cioè che il B. abbia indovinato la password del M. provando a caso varie combinazioni, rilevando l’elevatissimo numero di combinazioni possibili per una password che utilizzi, come nel caso di specie, da un minimo di sei ad un massimo di 32 caratteri alfanumerici.

In conclusione, delle tre possibili ipotesi prospettate dal Tribunale circa le modalità attraverso le quali il B. sarebbe potuto venire a conoscenza della password del M., la sentenza impugnata ha ritenuto la prima (responsabilità dell’amministratore del sistema) impossibile e le altre due (da terzi o tentando a caso) estremamente improbabili.

Viceversa il giudice d’appello ha ritenuto che nel senso della responsabilità diretta del M. depongono le seguenti circostanze di fatto: a) il M. era l’unico che conosceva le proprie password; b) le connessioni dall’esterno sono state compiute utilizzando ben due password diverse e ciò si spiega molto facilmente se si ammette che sia stato lo stesso M. a comunicare le password al B.; c) dopo la modifica della password, il B. tentò inutilmente di collegarsi alla rete e vi riuscì nuovamente (utilizzando la nuova password) solamente dopo aver intrattenuto un colloquio telefonico con il M..

La Corte ritiene la motivazione sopra riassunta molto ragionata e priva di vizi logici o giuridici.

Occorre ricordare che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per Cassazione conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge). Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettato dalle parti o rilevabile di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. 9 febbraio 2004 n. 2399; Cass. Sez. Un. 27 dicembre 1997 n. 13045; Cass. Sez. Un. 11 giugno 1998 n. 5802; Cass. 22 ottobre 1993 n. 10503).

In realtà le censure del ricorrente non segnalano vizi del ragionamento, ma dissensi interpretati sui fatti.

Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2106, 2119 cod. civ.; L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), censura la sentenza impugnata in punto di proporzionalità tra mancanza e sanzione. Rileva che il M. aveva accesso al sistema come user, e cioè come utente ordinario; poteva con il codice relativo accedere alle statistiche ed alle illustrazioni pubblicitarie dei prodotti, ma non poteva interagire con il sistema, non aveva accesso ai programmi, non poteva fare copia di files o programmi residenti nel sistema.

Sul punto il giudice d’appello ha così motivato: Per quanto riguarda, infine, la valutazione della gravità dell’inadempimento realizzato dal M., ritiene il Collegio che essa sia tale da giustificare il recesso datoriale. Invero il comportamento dei lavoratore si è concretato nella diffusione all’esterno di dati (le password personali) idonei a consentire a terzi di accedere ad una gran massa di informazioni attinenti l’attività aziendale e destinate a restare riservate.

Il ricorrente non contesta che si trattasse di dati comunque riservati.

La valutazione della proporzionalità della sanzione rispetto alla gravità della mancanza del lavoratore si risolve in un apprezzamento di fatto incensurabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione adeguata e logica (ex plurimis Cass. 23 agosto 2004 n. 16628 Cass. 18 agosto 2003 n. 12083, Cass. 8 agosto 2003 n. 12001).

La sottrazione di dati aziendali è stata ritenuta idonea ad integrare la giusta causa di licenziamento (Cass. 2 marzo 1993 n. 2560).

Il ricorso va pertanto respinto.

Le spese processuali seguono la soccombenza e vengono liquidate in Euro 103,00 (oltre Euro duemilacinquecento per onorari di avvocato, oltre spese generali, IVA e CPA..

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a pagare le spese del presente giudizio liquidate in Euro 103,00 oltre Euro duemilacinquecento per onorari di avvocato, oltre spese generali, IVA e CPA..

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 9 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 13 settembre 2006


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 10-05-2006) 28-06-2006, n. 14916

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RUGGIERO Francesco – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE e AGENZIA DELLE ENTRATE, con l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

D.M.A., con l’Avv. IULLI Giuseppe, che la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di ROMA, Sez. 10, n. 05/10/2001, pubblicata il 27/02/2001;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/05/2006 del Relatore Cons. Dott. FITTIPALDI Onofrio.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Vista l’istanza depositata dall’Avvocatura Generale dello Stato attestante la regolarità della domanda di definizione della controversia ed il pagamento integrale di quanto dovuto; Viste le conclusioni scritte del P.G. nelle quali si chiede dichiararsi l’estinzione del processo; Vista la L. n. 289 del 2002, art. 16, comma 8; Ritenuta l’esistenza di giusti motivi per la compensazione delle spese.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara estinto il processo. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 maggio 2006.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2006


Cass. civ. Sez. V, (ud. 20-03-2006) 19-05-2006, n. 11821

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTARELLA ORESTANO Francesco – Presidente

Dott. CICALA Mario – rel. Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA UGO BASSI 3, presso lo studio dell’avvocato MASIANI ROBERTO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato CORRADO MAGNANI, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE FINANZE – DIPARTIMENTO ENTRATE UFFICIO DISTRETTUALE IMPOSTE DIRETTE DI VARESE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 251/99 della Commissione Tributaria Regionale di MILANO, depositata il 18/10/99;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/03/06 dal Consigliere Dott. Mario CICALA;

udito per il ricorrente l’Avvocato MAZZOCCO (su delega dell’Avvocato MASIANI), che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato GIACOBBE, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il sig. R.G. ricorre per Cassazione deducendo un unico articolato motivo avverso la sentenza 18 ottobre 1999 n. 251/44/99 con cui la Commissione Tributaria Regionale per la Lombardia ha rigettato l’appello del contribuente avverso la pronuncia di primo grado che aveva ritenuto valida la notifica di avviso di accertamento IRPEF-ILOR a mani della madre del contribuente, per gli anni 1978- 1979-1980 e quindi legittima la conseguente cartella di pagamento per un importo di oltre L. 344 milioni.

La Amministrazione resiste con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 139 (c.p.c.) nonchè difetto di motivazione (art. 360 c.p.c., n. 5) Il motivo deve essere rigettato per le ragioni che verranno esposte e che ex art. 384 del codice di procedura civile sostituiscono le motivazioni della sentenza impugnata, senza intaccarne il dispositivo.

Invero l’art. 139 c.p.c. al suo comma 2 dispone: “Se il destinatario non viene trovato nella casa di abitazione o dove ha l’ufficio o esercita l’industria o il commercio, l’ufficiale giudiziario consegna copia dell’atto a una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda, purchè non minore di quattordici anni o non palesemente incapace”. I successivi terzo e quarto comma soggiungono: “In mancanza delle persone indicate nel comma precedente, la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda, e, quando anche il portiere manca, a un vicino di casa che accetti di riceverla. Il portiere o il vicino deve sottoscrivere una ricevuta e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”.

Dunque se nella casa di abitazione del notificando viene reperita “una persona di famiglia” la notifica è ben eseguita con la consegna a tale persona, e non occorre l’ulteriore invio di una lettera raccomandata.

La qualifica di “persona di famiglia” prescinde poi dal requisito della convivenza, come non debbono essere conviventi le persone “addette alla casa o all’ufficio o all’azienda”.

In termini è la giurisprudenza di questa Corte secondo cui la consegna della copia dell’atto “a persona di famiglia”, prevista dall’art. 139 c.p.c., comma 2, non richiede l’ulteriore requisito della convivenza del familiare, atteso che la presunzione della successiva consegna dell’atto si fonda proprio sul vincolo parentale, senza che assuma rilievo autonomo la diversa residenza anagrafica, avente valenza solo presuntiva, della persona consegnataria dell’atto (Cass. 26 febbraio 2004, n. 3902; Cass. 20 giugno 2000, n. 8336).

Nè appare rilevante domandarsi quale sia l’ambito delle “persone di famiglia”, dal momento che qualunque criterio si adotti esso non potrà mai essere così restrittivo da escluderne il rapporto di primo grado in linea retta (nel caso di specie madre-figlio). Si può del resto ricordare che si è ritenuta “persona di famiglia” anche la moglie non convivente (a causa di una crisi familiare non ancora formalizzata in atti giudiziali).

Il ricorso contesta anche il passo della sentenza d’appello secondo cui: “Inoltre, eventualmente avrebbe potuto essere rilevata la mancata compilazione della relata di notifica di uno dei tre atti oggetto di impugnazione, ma anche tale ultimo aspetto viene superato – dall’effettivo possesso di detto atto da parte del contribuente ed il tutto porta a ritenere come effettivamente realizzatasi l’avvenuta consegna al destinatario di tutti e tre gli atti di accertamento in un unico contesto”.

Si tratta per altro di un obiter dictum del giudice che non trova rispondenza nei motivi di appello del contribuente depositati il 13 settembre 1989.

Quindi questo profilo del ricorso è inammissibile.

Appare opportuno procedere a compensazione delle spese.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Compensa fra le parti le spese del presente grado di giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 20 marzo 2006.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2006


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 12/01/2006) 10/05/2006, n. 10700

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Presidente aggiunto

Dott. CORONA Rafaele – Presidente di sezione

Dott. DUVA Vittorio – Presidente di sezione

Dott. PROTO Vincenzo – Consigliere

Dott. PREDEN Roberto – rel. Consigliere

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. GRAZIADEI Giulio – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. CICALA Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI NAPOLI “L’ORIENTALE”, in persona del Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

V.F.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3281/03 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 20/11/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 12/01/06 dal Consigliere Dott. Roberto PREDEN;

udito l’Avvocato Ettore FIGLIOLIA dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 20.11.2003, pronunciando sull’appello proposto dall’Istituto Universitario Orientale, con il patrocinio dell’Avvocatura dallo Stato, avverso sentenza del Pretore di Napoli che aveva accolto la domanda di risarcimento danni proposta da V.F., lo dichiarava improcedibile sul rilievo che, per effetto della L. n. 168 del 1989 le Università hanno perduto la natura di organi dello Stato e non possono più essere rappresentate in giudizio dall’Avvocatura dello Stato.

Avverso la sentenza l’Università degli studi di Napoli “L’Orientale”, in persona del Rettore, con il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato, ha proposto ricorso per Cassazione.

L’intimata non ha svolto difese.

Il ricorso è stato assegnato alle Sezioni unite per la soluzione della questione concernente la rappresentanza e difesa in giudizio delle Università statali dopo la L. n. 168 del 1989.

La ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. L’unico mezzo denuncia: violazione e falsa applicazione del R.D. n. 1592 del 1933, artt. 56 e 245, R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, L. n. 260 del 1958, art. 1, L. n. 103 del 1979, art. 11, L. n. 168 del 1989, art. 6, art. 122 regolamento per l’amministrazione finanziaria e contabilità dell’Università “L’Orientale”, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Assume la ricorrente che erroneamente la corte d’appello ha ritenuto che, a norma della L. 9 maggio 1989, n. 168, art. 6, secondo cui le Università sono dotate di personalità giuridica ed hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, le Università hanno perduto la natura di organi dello Stato e non possono più essere rappresentate in giudizio dall’Avvocatura dello Stato.

Sostiene che le Università statali usufruiscono del patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato ai sensi del R.D. n. 1592 del 1933, art. 56 (T.U. dell’istruzione superiore) e del R.D. n. 1611 del 1933, art. 43 (T.U. sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato, come modificato dalla L. n. 103 del 1979, art. 11), sicchè è conseguente che detto patrocinio spetta ope legis all’Avvocatura dello Stato, così come statuito dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (sent. n. 1086/2001).

2. Il motivo è fondato e va accolto nei termini di seguito precisati.

3. Il R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611 (T.U. delle leggi sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello stato), disciplina distintamente la rappresentanza e difesa in giudizio dello stato (racchiusa nei capi primo, secondo e terzo, articoli da 1 ad 11), e la rappresentanza e difesa di amministrazioni non statali e degli impiegati (racchiusa nel titolo secondo, articoli 43, 44 e 45).

3.1. I tratti distintivi della prima (cd. patrocinio obbligatorio) sono costituiti: dalla attribuzione della rappresentanza, patrocinio e assistenza in giudizio delle “amministrazioni dello Stato, anche se organizzate ad ordinamento autonomo”, alla Avvocatura dello Stato (art. 1, comma 1); dalla non necessità del mandato (art. 1, comma 2); dalla impossibilità per le amministrazioni dello Stato di richiedere l’assistenza di avvocati del libero foro, se non per ragioni assolutamente eccezionali, inteso il parere dell’Avvocato generale dello Stato (art. 5); dalla individuazione, nelle cause in cui è parte una amministrazione dello Stato, di uno specifico foro dello Stato (art. 6); dall’obbligo della notifica degli atti giudiziali alle amministrazioni dello Stato presso l’Avvocatura dello Stato (art. 11).

3.2. La disciplina della seconda (cd. patrocinio facoltativo o autorizzato) è dettata dal R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, in virtù del quale l’Avvocatura dello Stato può assumere la rappresentanza e difesa in giudizio di amministrazioni pubbliche non statali ed enti sovvenzionati, sottoposti a tutela o vigilanza dello Stato, “sempre che ne sia autorizzata da disposizioni di legge, di regolamento o di altro provvedimento approvato con R.D.”, e dall’art. 45, il quale dispone che per l’esercizio delle funzioni di cui ai due precedenti articoli (il riportato art. 43 e l’art. 44. concernente la difesa degli impiegati) si applica il secondo comma dell’art. 1.

La suindicata disciplina è stata integrata dalla L. 3 aprile 1979, n. 103, art. 11, che ha aggiunto all’art. 43 tre commi: il comma 3, il quale stabilisce che, qualora sia intervenuta l’autorizzazione, la rappresentanza e la difesa in giudizio è assunta dall’Avvocatura dello Stato “in via organica ed esclusiva”, eccettuati i casi di conflitto di interessi con lo Stato; il comma 4, secondo cui, salve le ipotesi di conflitto, ove tali amministrazioni ed enti intendano, in casi speciali, non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato, debbono adottare apposita motivata delibera da sottoporre agli organi di vigilanza; il comma 5, che estende le disposizioni di cui ai commi precedenti agli enti regionali, previa deliberazione degli organi competenti.

3.3. Il patrocinio autorizzato per le amministrazioni non statali, secondo l’originaria disciplina dettata dagli artt. 43 e 45, si distingue da quello obbligatorio, previsto per le amministrazioni dello Stato (anche se organizzate ad ordinamento autonomo) dagli articoli da 1 a 11, sia in ragione della fonte, costituita per il primo da una espressa autorizzazione normativa, sia per i più limitati effetti processuali, consistenti, in virtù dell’espresso richiamo, nell’art. 45, all’art. 1, comma 2, nella sola esclusione della necessità del mandato. Il mancato richiamo agli artt. 6 ed 11 determina infatti l’inapplicabilità del foro dello Stato (art. 25 c.p.c.) e della domiciliazione presso l’Avvocatura ai fini della notificazione di atti e provvedimenti giudiziali (art. 144 c.p.c.), previsti per le sole amministrazioni dello Stato.

3.4. Tale diversa ampiezza di effetti sul piano della disciplina processuale, non ha subito modifiche per effetto dell’introduzione, ad opera dalla L. n. 103 del 1979, art. 11, dei tre commi aggiunti all’art. 43, ed in particolare del comma 3, secondo cui, qualora sia intervenuta l’autorizzazione, la rappresentanza e la difesa in giudizio è assunta dall’Avvocatura dello Stato “in via organica ed esclusiva”.

La piena equiparazione, sul piano degli effetti processuali, tra patrocinio obbligatorio e patrocinio autorizzato, che sarebbe stata determinata dalla espressa qualificazione della rappresentanza dell’Avvocatura come “organica ed esclusiva”, non è sostenibile.

Ben più ristretta è la portata delle integrazioni apportate dalla L. n. 103 del 1979. 1 tre nuovi commi disciplinano solo il rapporto interno tra ente autorizzato ed Avvocatura dello Stato, qualificandolo come caratterizzato da organicità ed esclusività, eccettuate le ipotesi di conflitto di interesse con lo Stato (in quanto patrocinato per legge dall’Avvocatura, impossibilitata a difendere le contrapposte parti in lite) o con le regioni (in quanto ammesse al patrocinio facoltativo dell’Avvocatura dal D.P.R. n. 616 del 1977, art. 107, con eguale conseguenza), e con previsione, salve le suindicate ipotesi di conflitto, della facoltà di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato in casi speciali con delibera motivata.

La qualificazione della rappresentanza e difesa dell’Avvocatura come “organica ed esclusiva”, attiene palesemente al rapporto interno tra ente e Avvocatura dello Stato in veste di difensore. Rapporto caratterizzato da organicità, in ragione della esclusione della necessità del mandato (come del resto, già espressamente previsto dall’art. 45, mediante il rinvio all’art. 1, comma 2, per il patrocinio obbligatorio per le amministrazioni dello Stato), e da esclusività, nel senso che non è possibile per l’ente autorizzato al patrocinio dell’Avvocatura ex art. 43 non avvalersene per far ricorso ad avvocati del libero foro (eccettuati i casi di conflitto con altri enti, come lo Stato e le regioni, difesi anch’essi dall’Avvocatura), se non in casi speciali e mediante apposita delibera motivata (l’esclusività è ben più rigorosamente presidiata dall’art. 5 per le amministrazioni dello Stato).

A ciò si aggiunga che la pretesa equiparazione tra patrocinio obbligatorio e facoltativo ad opera della L. n. 103 del 1979, art. 11, con conseguente estensione della operatività delle disposizioni sul foro dello Stato (R.D. n. 1611 del 1933, art. 6 ed art. 25 c.p.c.) e sulle notificazioni alle Amministrazioni dello Stato (R.D. n. 1611, art. 11 ed art. 144 c.p.c.) anche alle amministrazioni non statali autorizzate ad avvalersi della difesa dell’Avvocatura ed agli enti regionali, in quanto produttiva di rilevanti effetti sul piano processuale anche nei confronti dei terzi in lite con tali enti, avrebbe evidentemente richiesto ben più specifica ed espressa enunciazione.

Anche dopo le integrazioni all’art. 43 apportate alla L. n. 103 del 1979, art. 11 è rimasta quindi in vita, con netta differenziazione sul piano degli effetti processuali, la distinzione tra patrocinio obbligatorio e patrocinio facoltativo o autorizzato (v., in tal senso, sent. n. 7649/97, ma v. anche, sulla diversità di regime, S.D. n. 8211/2004, con riferimento alle regioni).

4. Per quanto concerne la rappresentanza e difesa delle Università statali, prima delle modifiche al sistema universitario introdotte dalla L. 9 maggio 1989, n. 168, che ha riconosciuto alle Università ampia autonomia (artt. 6 e 7), la giurisprudenza di questa Corte, nel vigore del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592 (T.U. delle leggi sull’istruzione superiore), secondo cui le Università statali sono dotate di personalità giuridica e autonomia amministrativa, didattica e disciplinare (art. 1, comma 3), in linea di principio era pervenuta a riconoscere alle Università statali natura di organi statali, essendo inserite nell’organizzazione statale, come risultava sia dall’imputazione allo Stato di almeno una parte degli atti posti in essere, sia dallo status del personale, anche docente, appartenente ai ruoli degli impiegati dello Stato, sia dalla fonte del loro finanziamento posto a carico dello Stato (S.U. n. 2546/1975, in tema di giurisdizione della Corte dei conti per i giudizi di responsabilità nei confronti di amministratori e dipendenti delle Università, e specificamente dell’Istituto orientale di Napoli; n. 256/1981, in tema di applicazione nei contratti di appalto delle Università del capitolato generale approvato con D.P.R. n. 1063 del 1962).

Un inquadramento siffatto apriva la via per ritenere che per le Università statali – almeno per gli atti posti in essere nella suindicata qualità di organi dello Stato, e non nell’esercizio della propria limitata autonomia – trovava applicazione il patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello Stato, ai sensi del R.D. n. 1611 del 1933, art. 1 e seguenti, con pienezza di effetti sul piano della disciplina processuale, quanto al foro erariale (art. 6 R.D. e art. 25 c.p.c.) ed alla domiciliazione per le notificazioni (art. 11 R.D. e art. 144 c.p.c). Non risultano tuttavia espresse pronunce di questa Corte in tal senso.

5. Va ancora rilevato che una specifica disciplina circa la rappresentanza delle Università era dettata dal R.D. n. 1592 del 1933, art. 56, secondo cui: “Le Università e gli Istituti superiori possono essere rappresentati e difesi dall’Avvocatura dello Stato nei giudizi attivi e passivi avanti l’autorità giudiziaria, i collegi arbitrali e le giurisdizioni amministrative speciali, semprechè non trattisi di contestazioni contro lo Stato”.

In tale disposizione, tenuto conto della formula utilizzata (possono essere rappresentati e difesi) va ravvisata una autorizzazione all’assunzione del patrocinio, che, coordinandosi con quanto previsto dal R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, integra una ipotesi di patrocinio facoltativo o autorizzato, con i limitati effetti previsti per tale forma di rappresentanza (esclusione della necessità del mandato e facoltà di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera, ma inoperatività del foro erariale e della domiciliazione per le notifiche).

Ed è a tale disciplina che in varie occasioni si è riferita la giurisprudenza di questa Corte (n. 4512/83, secondo cui, ai sensi del R.D. n. 1592 del 1933, art. 56, comma 4, del R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, come modificato dall’art. 11 della legge n. 103 del 1979, l’Università può affidare la difesa ad avvocati del libero foro solo con apposita e motivata delibera; n. 1057 del 1987, che in relazione alle suindicate disposizioni riafferma il principio; n. 2321 del 1986, ancora sul tema).

6. La L. 9 maggio 1989, n. 168, con la quale è stato istituito il Ministero dell’università e della ricerca scientifica, ha dettato, nel titolo 2^, nuove norme sulla autonomia delle Università.

La legge, all’art. 6, comma 1, dispone che le Università sono dotate di personalità giuridica e, in attuazione dell’art. 33 Cost., hanno autonomia didattica, scientifica, organizzativa, finanziaria e contabile, e si danno ordinamenti autonomi con propri statuti e regolamenti; all’art. 7, nel comma 1, prevede che le entrate delle università sono costituite da trasferimenti dello Stato, da contributi obbligatori e da altre forme di autonome di finanziamento (contributi volontari, proventi di attività, rendite, frutti e alienazioni del patrimonio, atti di liberalità e corrispettivi di contratti e convenzioni); nel comma 7, dispone che le università possono adottare un regolamento di ateneo per l’amministrazione, la finanza e la contabilità, anche in deroga alle norme sull’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, ma comunque nel rispetto dei relativi principi.

Si tratta di una disciplina che, mentre conferma la soggettività giuridica delle Università statali, già riconosciuta dal R.D. n. 1592 del 1933, art. 1, ne rafforza significativamente l’autonomia, con l’attribuzione, oltre a quella didattica e scientifica, già presente nel citato R.D., di quella organizzativa, finanziaria e contabile, e soprattutto della autonomia . normativa statutaria e regolamentare. Potestà, quest’ultima, idonea a caratterizzare le Università come ente pubblico autonomo, e non più come organo dello Stato.

Ed in tal senso depone anche la mutata natura del rapporto di lavoro dei dipendenti, dal momento che sia gli impiegati tecnici ed amministrativi (D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, art. 6, comma 5), sia anche i docenti e ricercatori (L. 24 dicembre 1993, n. 937, art. 5, commi 9 e 10) sono da considerare non più dipendenti statali bensì dipendenti dell’Ente-Università. Viene così meno, infatti, uno dei principali elementi considerati dalla sentenza n. 2546/75 a sostegno della tesi che qualificava le università come organi dello Stato.

Nè vale in contrario la persistenza del prevalente finanziamento da parte dello Stato (anch’esso valorizzato dalla citata decisione), che, mentre è coerente con la confermata qualificazione dell’Ente – Università come amministrazione pubblica, non è di per sè determinante ai fini della pretesa natura di ente-organo dello Stato.

7. Deve quindi ritenersi venuta meno la possibilità di ritenere operante per l’Ente-Università il patrocinio obbligatorio riservato, R.D. n. 1611 del 1933, ex art. 1, alle sole amministrazioni dello Stato ed ai loro organi.

Non meritano pertanto adesione le decisioni di questa Corte che, anche dopo la L. n. 168 del 1989, hanno continuato a qualificare le Università, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, come organi dell’amministrazione statale, con conseguente operatività della disciplina propria del patrocinio obbligatorio dettata dal R.D. n. 1611 del 1933, articoli da 1 a 11 (sent. n. 2061/94; n. 8877/97; n. 13292/99). Le menzionate sentenze non danno infatti conto dell’incidenza della L. n. 168 del 1989 sulla qualificazione delle Università, ma si limitano a richiamare la giurisprudenza risalente che qualificava le Università come organi statali (in particolare la sent. n. 2456/75). E si tratta comunque di orientamento non univoco (v. sent. n. 12346/99, che esclude l’applicabilità del foro erariale, sul rilievo che le università non sono amministrazioni dello Stato ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2).

Nè potrebbe sostenersi l’applicabilità del patrocinio obbligatorio traendo argomento dalla sua estensione, ai sensi del citato art. 1, alle amministrazioni dello Stato “anche se organizzate ad ordinamento autonomo”. L’estensione riguarda infatti una specificazione del genere “amministrazione dello Stato”, caratterizzata da ordinamento autonomo, e le Università, per quanto sopra rilevato, non possono più essere considerate amministrazioni dello Stato, bensì amministrazioni pubbliche (v. D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2) con ordinamento autonomo.

8. Se non è più predicabile la vigenza, per le Università, del patrocinio obbligatorio dell’Avvocatura dello stato del R.D. n. 1611 del 1933, ex art. 1 in quanto organi dello Stato, deve invece affermarsi che, anche dopo il riconoscimento delle Università come enti autonomi, in virtù della L. n. 168 del 1989, resta fermo il patrocinio autorizzato ai sensi del R.D. n. 1592 del 1933, art. 56, con i limitati effetti di cui al R.D. n. 1611 del 1933, artt. 43 e 45 (a tale disciplina, successivamente alla L. n. 168 del 1989 hanno fatto correttamente riferimento le sentenze n. 7649/97 e n. 1086/01, entrambe in tema di facoltà, per le Università, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato affidando il mandato ad avvocati del libero foro con apposita e motivata delibera). Queste le ragioni che sorreggono l’assunto.

8.1. Il R.D. n. 1592 del 1933, art. 56 non risulta espressamente abrogato dalla L. n. 168 del 1989, nè si configura abrogazione tacita per incompatibilità, poichè la citata legge non reca disposizioni in materia.

8.2. Non possono assumere rilevanza disposizioni eventualmente adottate dalle Università con il regolamento di ateneo volte ad escludere il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato in deroga alla disciplina fissata dal R.D. n. 1592 del 1933, art. 56 e del R.D. n. 1611 del 1933, art. 43.

Non giova richiamare al riguardo la L. n. 168 del 1989, art. 7, comma 11, secondo cui, per ciascuna Università, con l’emanazione del regolamento di ateneo, cessano di aver efficacia le disposizioni legislative e regolamentari con esso incompatibili. Ai sensi del precedente comma 7, il regolamento di ateneo può infatti dettare soltanto norme per l’amministrazione, la finanza e la contabilità, anche in deroga alle norme sull’ordinamento contabile dello Stato e degli enti pubblici, e non può quindi recare norme in materia processuale suscettive di derogare a norme di tale natura.

8.3. Diversamente da quanto è accaduto per le istituzioni scolastiche, anch’esse oggetto di una riforma attributiva di autonomia (con la L. 15 marzo 1997, n. 59), è mancato per le Università uno specifico intervento del legislatore sul punto.

Per istituti e scuole di ogni ordine e grado, per i quali, in quanto organi dello Stato, era pacificamente operante il patrocinio obbligatorio R.D. n. 1611 del 1933, ex art. 1, con pienezza di effetti sul piano processuale, il D.P.R. n. 352 del 2001, dopo che con la L. n. 59 del 1997, art. 21 alle istituzioni scolastiche è stata attribuita l’autonomia e la personalità giuridica, ha infatti disposto che l’Avvocatura “continua” ad assumere il patrocinio. E l’espressione “continua” usata dalla norma rende chiara la volontà del legislatore di disporre la protrazione del patrocinio obbligatorio come in precedenza operante (v., in tal senso, ord. n. 12977/04). Per università ed istituzioni scolastiche vige quindi una disciplina differenziata quanto al patrocinio dell’Avvocatura, che appare tuttavia giustificata dalla diversa consistenza delle rispettive autonomie.

8.4. Non giova neppure richiamare le innovazioni introdotte dal D.Lgs. n. 80 del 1998 nel codice di procedura civile in materia di controversie di lavoro, con le integrazioni agli artt. 413 e 415 e l’inserimento dell’art. 417-bis.

Se può ritenersi, infatti, che le Università, pur essendo enti pubblici autonomi, siano da ricomprendere tra le amministrazioni pubbliche equiparate a quelle statali (ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 1, comma 2, ora D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 1, comma 2), e quindi soggette alla disciplina del codice di rito ai fini delle notificazioni (da eseguire, ai sensi dell’art. 415, u.c., presso l’ufficio dell’Avvocatura dello Stato nel cui distretto si trova il giudice individuato in base al foro del dipendente di cui all’art. 413, comma 4), e della facoltà di difesa, in primo grado, avvalendosi di propri dipendenti (art. 417-bis, comma 2), va tuttavia rilevato che l’equiparazione spiega effetti soltanto per le controversie individuali di lavoro con le amministrazioni pubbliche.

E la specialità della previsione normativa osta ad una applicazione generalizzata per le controversie di altra natura.

9. Concernendo il ricorso l’Istituto orientale di Napoli, è opportuno precisare che, per le suesposte ragioni, resta altresì valido anche il R.D. n. 1592 del 1933, art. 245 che dichiara applicabili a tale Istituto le disposizioni concernenti il foro erariale (già contenute nel R.D. 30 dicembre 1923, n. 2828, capo 3^, artt. 19 e sg., ora R.D. n. 1611 del 1933, art. 6).

10. Va quindi affermato il seguente principio di diritto.

Alle Università, dopo la riforma introdotta dalla L. 9 maggio 1989, n. 168, non può essere riconosciuta la qualità di organi dello Stato, ma quella di ente pubblico autonomo, con la conseguenza che, ai fini della rappresentanza e difesa da parte dell’Avvocatura dello Stato, non opera il patrocinio obbligatorio disciplinato dal R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, artt. da 1 a 11, bensì, in virtù del R.D. 31 agosto 1933, n. 1592, art. 56, non abrogato dalla L. n. 168 del 1989, il patrocinio autorizzato disciplinato dal R.D. n. 1611 del 1933, art. 43, come modificato dalla L. 3 aprile 1979, n. 103, art. 11 e art. 45 R.D. cit., con i limitati effetti previsti per tale forma di rappresentanza: esclusione della necessità del mandato e facoltà, salvo i casi di conflitto, di non avvalersi dell’Avvocatura dello Stato con apposita e motivata delibera.

11. In conclusione il ricorso è accolto. La sentenza impugnata va cassata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli che si atterrà all’affermato principio di diritto.

12. Al giudice di rinvio va affidata anche la pronuncia sulle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.

Così deciso in Roma, il 12 gennaio 2006.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2006


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 16-03-2006) 04-05-2006, n. 10216

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SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Presidente aggiunto

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di sezione

Dott. VITTORIO Paolo – Presidente di sezione

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere

Dott. MORELLI Mario Rosario – rel. Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. BONOMO Massimo – Consigliere

Dott. BERRUTI Giuseppe Maria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

L.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GORIZIA 20, presso lo studio dell’avvocato LUISELLA VALENTINO, rappresentato e difeso dall’avvocato PELLEGRINO RAFFAELE, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CONDOMINIO DI (OMISSIS), in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SAN MARINO 36, presso lo studio dell’avvocato VALERIA SALLUSTRO, rappresentato e difeso dall’avvocato MUROLO LANDI OSCAR, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1128/00 del Giudice di pace di NAPOLI, depositata il 14/01/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/03/06 dal Consigliere Dott. Mario Rosario MORELLI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico che ha concluso per l’accoglimento dei primi due motivi del ricorso; rinvio per il resto ad una sezione semplice.

Svolgimento del processo
L.M. ricorre per Cassazione avverso la sentenza in data 14 gennaio 2000, con la quale il Giudice di pace di Napoli – pronunciando sulla opposizione da lui proposta avverso decreto ingiuntivo nei suoi confronti emesso, dallo stesso giudice, su istanza del Condominio di (OMISSIS) – ne dichiarava la improcedibilità in quanto proposta con atto notificato oltre il termine di 40 giorni di cui all’art. 641 c.p.c., a nulla rilevando – secondo quel giudice – che un precedente tentativo di notifica non fosse andato a buon fine per causa non imputabile all’opponente, il quale aveva pur consegnato l’atto in tempo utile all’ufficiale notificante.

Con i due connessi motivi dell’odierna impugnazione cui resiste il Condominio con controricorso il ricorrente, denunciando violazione dell’art. 650 c.p.c. e vizi di motivazione, critica in sostanza il giudice a quo per avere esclusa la ricorrenza dei presupposti di ammissibilità della opposizione tardiva in una fattispecie, come quella in esame, in cui la mancanza di una tempestiva notifica dell’opposizione non poteva attribuirsi a responsabilità di esso opponente, ma era stata, come in fatto pacifico, determinata invece dalle errate affermazioni date all’ufficiale giudiziario da un terzo, il quale aveva riferito – contrariamente al vero – che l’avvocato, presso il quale l’intimante aveva eletto domicilio, “era sloggiato”.

Per cui, non essendo stata portata a compimento, per tal motivo, quella prima notifica, il L. si era appunto risolto a proporre una successiva opposizione tardiva, notificata, questa volta, allo stesso amministratore del Condominio.

L’esame del ricorso, così articolato, è stato rimesso dal Primo Presidente a queste Sezioni unite a seguito di ordinanza interlocutoria della Sezione seconda, per il ritenuto coinvolgimento in esso di questioni di massima di particolare importanza.

Motivi della decisione
1. La peculiarità della fattispecie in esame deriva, per quanto emerge dalla narrativa, dal fatto che la non addebitabilità alla parte, della inosservanza del termine perentorio di compimento dell’atto, non viene qui in rilievo in relazione ad un procedimento notificatorio iniziato in tempo utile e, per fatto appunto indipendente dalla volontà della parte, completato in ritardo (in modo comunque continuativo rispetto alla prima richiesta), bensì rispetto ad un procedimento non portato a compimento dopo la fase di consegna dell’atto, all’ufficiale giudiziario, e del quale si tratta, pertanto, di verificare l’an, il quomodo e il quando della sua reiterabilità. 2. A fronte di una siffatta fattispecie il quesito che si pone è allora duplice.

Dovendosi, in linea logicamente e giuridicamente preliminare, innanzitutto stabilire se dal mancato completamento dell’attività di notifica per fatto non riconducibile a errore o negligenza del disponente possa o non – derivare, per lo stesso, un effetto di decadenza.

E (solo) in caso di soluzione negativa del quesito che precede, dovendosi allora ricercare nel sistema lo strumento idoneo a consentire alla parte di rinnovare la procedura non completata nella fase sottratta al suo potere di impulso, e che assicuri, nel contempo, il corretto bilanciamento delle opposte esigenze, di pari rango costituzionale, correlate, per un verso, al diritto di difesa di detta parte, incolpevolmente decaduta da una attività difensiva (e per di più esposta, come in questo caso, alla formazione in suo danno di un titolo esecutivo definitivo) e, per altro verso, all’esigenza di certezza dei tempi processuali, sottesa alla regola di improrogabilità dei termini perentori, ora anche presidiata dal canone della ragionevole durata del processo di cui al novellato art. 111 Cost..

2.1. La risposta al primo quesito è da ritenere costituzionalmente obbligata nel senso della esclusione dell’effetto di decadenza nei confronti del soggetto cui non sia addebitabile l’esito negativo della procedura di notifica.

E, ben vero, il Giudice delle leggi già con la sentenza n. 69 del 1994, relativa alla disciplina delle notifiche all’estero, aveva avuto modo di affermare che, ai sensi degli artt. 3 e 24 Cost., le garanzie di conoscibilità dell’atto da parte del destinatario della notificazione debbono coordinarsi con l’interesse del notificante a non vedersi addebitare l’esito intempestivo del procedimento notificatorio per la parte sottratta alla sua disponibilità.

Questo principio, confermato dalla successiva sentenza n. 358 del 1996, è stato ulteriormente ribadito dalla sentenza n. 477 del 2002 – che ne ha espressamente sottolineato la “portata generale” e la riferibilità “ad ogni tipo di notificazione” – ed ha trovato, in ulteriore prosieguo, applicazione nelle più” recenti sentenze n. 28 e 97 del 2004 e n. 154 del 2005.

Per effetto di tali pronunzie risulta così ormai presente nell’ordinamento processuale civile, tra le norme generali sulle notificazioni degli atti, il principio secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve considerare perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario. Con la conseguenza, che, alla luce di tale principio, le norme in tema di notificazioni di atti processuali vanno interpretate, senza necessità di ulteriori interventi da parte del giudice delle leggi, nel senso (costituzionalmente, appunto, adeguato) che la notificazione si perfeziona nei confronti del notificante al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario.

E con l’ulteriore corollario che, ove tempestiva, quella consegna evita appunto alla parte la decadenza correlata alla inosservanza del termine perentorio entro il quale la notifica va effettuata.

E ciò sia pur come effetto provvisorio e anticipato a vantaggio del notificante, ma che si consolida comunque col perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario; per il quale, a tal fine, rileva la data, invece, in cui l’atto è da lui ricevuto o perviene nella sua sfera di conoscibilità. 2.2. Nel caso in esame si tratta, però, non già di non far carico alla parte del ritardo nel completamento della procedura verificatosi nella fase successiva a quella di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario bensì di consentire alla stessa di rinnovare una procedura che, dopo quella consegna, non è stata portata a compimento.

Ma anche rispetto a tale seconda, e peculiare, evenienza la soluzione affermativa si impone sul piano della interpretazione costituzionalmente orientata.

Poiché è solo con la rinnovazione della notifica che, in questo caso, si realizza il contemperamento degli interessi in gioco (entrambi presidiati dalla garanzia della difesa): quello, cioè, del notificante di non vedersi addebitare il mancato esito della procedura notificatoria per la parte sottratta al suo potere di impulso e quello, del destinatario dell’atto, di essere posto in condizione di riceverlo ed approntare – nel pertinente termine (per lui decorrente da tale ricezione) – le proprie difese.

2.3. Occorre allora reperire nell’ordinamento il meccanismo idoneo ad attuare una siffatta rinnovazione della notifica, che permetta appunto alla parte di superare l’ostacolo che, non per sua colpa si è frapposto all’esercizio del suo potere. E che ciò, per altro, consenta non senza limiti di tempo, ma entro un circoscritto e predefinito arco temporale, quale coessenziale ad un processo che si svolge per fasi successive e logicamente coordinate, venendo altrimenti riconosciuto a quella parte una protezione del suo diritto di difendersi esorbitante rispetto alla ragione che la giustifica.

L’ordinamento conosce due tipologie di moduli procedimentali all’uopo utilizzabili, rispettivamente attivabili su autorizzazione del giudice in accoglimento di previa istanza della parte (secondo lo schema della rimessione in termini di cui all’art. 184 bis c.c., che rinvia, a sua volta, all’art. 294 c.p.c.) o direttamente dalla parte, con atto soggetto al successivo controllo del giudice quanto all’effettiva sussistenza delle ragioni che hanno impedito l’esercizio in modo tempestivo dell’attività altrimenti preclusa, secondo lo schema, appunto, dell’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c..

La scelta tra tali meccanismi non può ovviamente essere operata a discrezione dell’interprete, ma deve avvenire in base ad un criterio di autocollegamento. Nel senso che è dallo stesso sistema, o subsistema, del quale fa parte il procedimento del cui incolpevole mancato completamento si tratta che deve provenire l’indicazione del modulo procedimentale per la sua rinnovazione.

Per cui è conseguente che, nell’ipotesi in esame, sia proprio il meccanismo della opposizione tardiva (qui operante anche indipendentemente dai presupposti del caso fortuito e della forza maggiore) quello deputato a consentire all’ingiunto – entro il limite temporale di cui all’ultimo comma del citato art. 650 c.p.c. (“L’opposizione non è più ammessa decorsi dieci giorni dal primo atto di esecuzione”) – la rinnovazione della notifica della opposizione, precedentemente mancata per causa, comunque, a lui non addebitatale.

Soluzione questa “costituzionalmente imposta” (argomentando la Corte Cost. n. 350 del 2004) anche in ragione del fatto che, altrimenti, l’inutile decorso del termine perentorio per l’opposizione, derivante da causa non imputabile alla parte onerata, determinerebbe per l’ingiunto, con la consolidazione del titolo esecutivo, l’impossibilità di agire e difendersi in giudizio per la tutela del suo diritto (cfr. anche Corte cost. 1976 n. 120).

3. Va conclusivamente quindi affermato il principio per cui, nella notifica della opposizione a decreto ingiuntivo, la tempestiva consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario perfeziona la notifica per l’opponente, evitando al medesimo anche l’effetto di decadenza, dal rimedio oppositorio, nell’ipotesi di non tempestivo o mancato completamento della procedura notificatoria per la fase sottratta al suo potere d’impulso. Con la conseguenza, in tale ultimo caso, che è in potere della parte di rinnovare la notifica con il modulo, e nel termine, della opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c..

4. La sentenza impugnata – che ha deciso in difformità – va pertanto cassata con il conseguente rinvio della causa allo stesso Giudice di pace di Napoli, in persona di diverso magistrato, cui si demanda di provvedere anche in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Giudice di pace di Napoli, in persona di diverso magistrato.

Così deciso in Roma, il 16 marzo 2006.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2006


Cass. civ. Sez. II, (ud. 02-02-2006) 15-03-2006, n. 5789

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Presidente

Dott. EBNER Vittorio Glauco – Consigliere

Dott. TROMBETTA Francesca – Consigliere

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

M.B.S., elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZALE CLODIO 12, presso lo studio dell’avvocato MARCELLO TROVATO, difeso dall’avvocato RICCOTTI FRANCESCO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI RAGUSA, in persona del Sindaco pro tempore, MONTEPASCHI SERIT SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimati –

avverso la sentenza n. 9/03 del Giudice di pace di RAGUSA, depositata il 15/01/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/02/06 dal Consigliere Dott. Mario BERTUZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCHIAVON Giovanni che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso al giudice di pace di Ragusa, M.B. S. proponeva opposizione avverso la cartella esattoriale notificatagli il 21.11.2001, con cui gli veniva intimato il pagamento della somma di L. 225.800 a seguito di iscrizione a ruolo di una contravvenzione al codice della strada risalente al 16.1.1997, assumendo che il verbale di accertamento dell’infrazione non gli era stato mai notificato, con conseguente decadenza della potestà di riscossione coattiva. All’esito del giudizio, in cui si costituiva il Comune di Ragusa, con sentenza in data 15.1.2003 il giudice adito respingeva l’opposizione, rilevando che, pur non avendo l’opposto prodotto il verbale di contravvenzione notificato alla controparte, deducendo che, per prassi, al contravventore inviava l’originale, senza formazione e conservazione della relativa copia, tuttavia i documenti prodotti in atti testimoniavano che il Comune aveva provveduto, mediante il proprio servizio notificazioni per infrazioni al codice della strada, a notificare un atto al M. in data 26.4.1997, elemento questo che, unitamente alla presenza in atti di copia dell’avviso di contravvenzione, portava a ritenere che la notificazione del verbale fosse in realtà avvenuta.

Avverso questa decisione, con ricorso notificato il 7.2.2003, propone ricorso per Cassazione M.B.S., affidandosi a due motivi.

Il Comune di Ragusa non si è costituito.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di violazione della L. n. 689 del 1981, art. 23, per avere la sentenza impugnata ritenuto provata l’avvenuta notifica del verbale pur in mancanza della relativa produzione documentale, stravolgendo in tal modo le regole dell’onere della prova, in questo caso totalmente a carico del Comune, e tralasciando di trarre le dovute conseguenze dall’inadempimento ad opera dell’opposto dell’ordine di produzione emesso dal giudice nel corso del giudizio.

Con il secondo motivo si deduce il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione per non avere il giudice esplicitato le ragioni in forza delle quali ha ritenuto non rilevante, al fine della decisione della causa, l’inadempimento del Comune al suo ordine di produrre in giudizio il verbale di contravvenzione notificato al ricorrente.

Il ricorso è fondato.

La sentenza impugnata motiva la soluzione accolta in ordine alla sussistenza della avvenuta notificazione del verbale di accertamento della infrazione sulla base di due elementi: una mera annotazione di eseguita notifica, riportante la data ma senza indicazioni del contenuto dell’atto notificato, e l’avviso di contravvenzione. Ora, a parte quest’ultimo, che palesemente è atto diverso dal verbale di accertamento, sicchè la sua esistenza nulla può dire circa la effettiva redazione e notificazione di questo, non può non osservarsi che l’annotazione in un registro, sia pure di una pubblica amministrazione, di una eseguita notifica, senza indicazione dell’atto notificato, integra un elemento privo anche di valore indiziario e comunque del tutto inidoneo a fornire la prova che un determinato atto sia stato effettivamente notificato al destinatario, prova nella specie necessaria al fine di poter superare la contestazione sollevata dal ricorrente.

L’iter logico seguito dalla decisione impugnata appare, pertanto, errato, dal momento che desume l’esistenza di un fatto il cui accertamento appare decisivo ai fini della soluzione della controversa da elementi irrilevanti ovvero privi della univocità e precisione necessaria. La sentenza va quindi cassata, con rinvio della causa ad altro giudice di pace, che provvedere anche alla liquidazione delle spese di giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altro giudice di pace di Ragusa, che provvedere anche sulle spese.

Così deciso in Roma, il 2 febbraio 2006.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2006


Cass. pen. Sez. I, (ud. 28-02-2006) 09-03-2006, n. 8324

Notificazioni Polizia Giudiziaria

A seguito della modifica all’articolo 148 Codice di Procedura Penale, apportata dall’articolo 17 del Decreto Legge n. 144 del 2005, la polizia giudiziaria rimane organo di notificazione, in alternativa all’Ufficiale Giudiziario, anche se la sua sfera di competenza risulta limitata all’ipotesi di cui all’articolo 151.
Ne consegue che l’irregolarità verificatasi nel caso di specie – ove la polizia giudiziaria ha provveduto a notificare un atto al di fuori della sua sfera di competenza – non può ritenersi determinante l’inesistenza della notificazione, come avverrebbe nel caso in cui questa fosse effettuata da un organo del tutto privo del potere di notificazione e del relativo potere di certificazione; nè può ritenersi causa di nullità non essendo prevista tale sanzione espressamente e non essendo la predetta irregolarità riconducibile alle nullità di ordine generale, posto che comunque una notifica vi è stata, ad opera di un organo dotato di tale potere, e che essa ha prodotto il suo effetto di conoscenza, pertanto l’irregolarità non ha inciso negativamente sull’intervento e l’assistenza dell’indagato.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE DI CASSAZIONE Penale, Sez. I, 28/02/2006 C.c. (Dep. 09/03/2006), Sentenza n. 8324
(Pres. G. Fabbri,  Rel. G. Fabbri  Imp. Argentina)
UDIENZA CAMERALE DEL 15/02/2006
SENTENZA N. 634
REGISTRO GENERALE N. 045679/2005

Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. FABBRI GIANVITTORE Presidente
1.Dott.CHIEFFI SEVERO Consigliere
2.Dott.MOCALI PIERO ”
3.Dott.CORRADINI GRAZIA ”
4.Dott.PIRACCINI PAOLA ”
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) ARGENTINA CATALDO N. IL 27/04/1977
avverso ORDINANZA del 10/10/2005
TRIB. LIBERTA’ di TARANTO
sentita la relazione fatta dal Consigliere
FABBRI GIANVITTORE
Sentite le conclusioni del P. G. Dr. Febbraro.
Rigetto del ricorso.
SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Con ordinanza dell’ 10-10-2005 il Tribunale di Taranto, costituito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., confermava l’ordinanza cautelare emessa dal G.I.P. del Tribunale di Taranto il 19-9-2005, con la quale Argentina Cataldo era stato sottoposto agli arresti domiciliari per detenzione e porto di arma da fuoco, usata per sparare contro la porta dell’abitazione di Lanza Antonio.
Il tribunale disattendeva l’eccezione di nullità dell’udienza di convalida del fermo, rilevandone la tardività.
Riteneva sussistenti a carico dell’indagato i necessari indizi in base alle dichiarazioni rese alla P.G. da Barone Rosina – ex convivente dell’indagato e poi legata a Lanza Angelo – a quelle rese da Lanza Lorenzo, fratello di Angelo, e a quelle risultanti dalla registrazione di una telefonata fra quest’ultimo e il M.llo De Leonardis. Dalle prime era emerso che l’Argentina, che possedeva un fucile, aveva minacciato di sparare a Lanza Angelo e alla sua famiglia e che la sera prima dei fatti aveva detto che nella nottata sarebbero iniziati i fuochi e la guerra contro la famiglia Lanza; dalle seconde era emerso che l’indagato aveva ripetutamente cercato di rintracciare Lanza Angelo; dalle ultime era emerso che l’Argentina aveva mostrato una doppietta con le canne mozzate e aveva minacciato di sparare a chi avesse avuto una relazione con la sua ex convivente.
Il tribunale riteneva sussistente il pericolo di reiterazione di reati e non prevedibile la concessione della sospensione condizionale della pena, per l’ontologica incompatibilità di tale beneficio con il pericolo di recidiva.
Avverso la predetta ordinanza ricorre l’indagato, deducendo due motivi.
Con il primo denuncia la violazione di legge con riferimento all’art. 148 c.p.p. Premette, in proposito, che il tribunale ha errato nel ritenere sollevata l’eccezione di nullità dell’udienza di convalida, mentre egli aveva eccepito la nullità dell’udienza per il riesame; sostiene, poi, che tale nullità — che peraltro era rilevabile anche di ufficio — sussisteva in quanto la notifica dell’avviso di udienza era stata effettuata tramite i carabinieri, contrariamente a quanto previsto dall’art. 148 comma 2 c.p.p., come modificato dal D.L. 144/2005.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 273 c.p.p. e il vizio di motivazione, sostenendo che non erano utilizzabili le dichiarazioni di Barone e Lanza Angelo, raccolte per telefono; che non è stata valutata la gravità degli indizi, semplicemente indicati; che non è stata adeguatamente motivata l’impossibilità della concessione della sospensione condizionale della pena.
MOTIVI DELLA DECISIONE
Il ricorso è infondato.
Quanto al primo motivo, si osserva che anche a seguito della modifica all’art. 148 c.p.p., apportata dall’art. 17 del D.L. 144/2005, la polizia giudiziaria rimane organo di notificazione, in alternativa all’ufficiale giudiziario, anche se la sua sfera di competenza risulta limitata all’ipotesi prevista dall’art. 151 c.p.p.
Ne consegue che l’irregolarità verificatasi nel caso di specie – ove la polizia giudiziaria ha provveduto a notificare un atto al di fuori della sua sfera di competenza – non può ritenersi determinante l’inesistenza della notificazione, come avverrebbe nel caso che questa fosse effettuata da un organo del tutto privo del potere di notificazione e del relativo potere di certificazione; né può ritenersi causa di nullità, non essendo prevista tale sanzione espressamente e non essendo la predetta irregolarità riconducibile alle nullità di ordine generale, posto che comunque una notifica vi è stata, ad opera di un organo dotato di tale potere, e che essa ha prodotto il suo effetto di conoscenza, di talché l’irregolarità non ha inciso negativamente sull’intervento e l’assistenza dell’indagato.
Peraltro la predetta irregolarità non può neppure considerarsi eccepita all’udienza di riesame, perché in tale sede l’eccezione risulta verbalizzata come formulata in relazione all’avviso per l’udienza di convalida del fermo, e non per quella di riesame, e che il verbale è fidefacente e non ne è stata chiesta la correzione.
Anche il secondo motivo di ricorso è infondato. Invero dall’ordinanza impugnata risulta – contrariamente a quanto affermato dal ricorrente – che la teste Barone ha reso sommarie informazioni presso la Stazione dei Carabinieri di Angri, di talché le sue dichiarazioni sono pienamente utilizzabili.
Esse, valutate dal giudice a quo come pienamente attendibili, ben possono costituire, insieme a quelle rese da Lanza Lorenzo – anche a prescindere da quelle rese da Lanza Angelo solo telefonicamente – il quadro indiziario necessario in fase cautelare, la cui gravità è stata implicitamente ritenuta dal tribunale, nel confermare la misura dopo avere specificamente indicato i predetti indizi, e può ritenersi sussistente anche indipendentemente dalle dichiarazioni telefoniche di Lanza Angelo, in base alla cosiddetta prova di resistenza che può essere effettuata anche in sede di legittimità (Sez. U. 25-2-1998, Gerina; I,  13-11-2001, Postiglione; I, n. 1495 del 2-12-1998, Archinà e altri, rv. 212274).
La valutazione della non prevedibilità della concessione della sospensione condizionale della pena è stata effettuata in conformità al sistema giuridico e in maniera non manifestamente illogica, perché l’accertamento del pericolo di reiterazione di reati vale a configurare un giudizio prognostico negativo che è ostativo alla concessione del predetto beneficio.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Cosi deciso in Roma, il 28 febbraio 2006.
M A S S I M E
1) Procedure e varie – Polizia Giudiziaria – Notifiche – Effetti. E’ tuttora possibile l’effettuazione di notificazioni da parte della polizia giudiziaria. Costituisce infatti mera irregolarità la violazione della disposizione dell’art. 148 co. 2 cpp che, introdotta dall’art. 17 del d.l. n. 144/05, ha escluso la possibilità che le notifiche, in via generale, siano eseguite dalla P.G. Pres. Fabbri; Est. Fabbri; Imp. Argentina. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. I, 9 marzo 2006 (c.c. 28 febbraio 2006), sentenza n. 8324
2) Procedure e varie – Polizia giudiziaria – Organo di notificazione – Competenza e limiti – Fattispecie – Artt. 148 e 151 c.p.p. – Art. 17 del D.L. 144/2005. A seguito della modifica all’art. 148 c.p.p., apportata dall’art. 17 del D.L. 144/2005, la polizia giudiziaria rimane organo di notificazione, in alternativa all’ufficiale giudiziario, anche se la sua sfera di competenza risulta limitata all’ipotesi prevista dall’art. 151 c.p.p.. Ne consegue che l’irregolarità verificatasi nel caso di specie – ove la polizia giudiziaria ha provveduto a notificare un atto al di fuori della sua sfera di competenza – non può ritenersi determinante l’inesistenza della notificazione, come avverrebbe nel caso che questa fosse effettuata da un organo del tutto privo del potere di notificazione e del relativo potere di certificazione; né può ritenersi causa di nullità, non essendo prevista tale sanzione espressamente e non essendo la predetta irregolarità riconducibile alle nullità di ordine generale, posto che comunque una notifica vi è stata, ad opera di un organo dotato di tale potere, e che essa ha prodotto il suo effetto di conoscenza, di talché l’irregolarità non ha inciso negativamente sull’intervento e l’assistenza dell’indagato. Pres. Fabbri; Est. Fabbri; Imp. Argentina. CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez. I, 9 marzo 2006 (c.c. 28 febbraio 2006), sentenza n. 8324


Cass. civ. Sez. V, (ud. 10-01-2006) 01-02-2006, n. 2223

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente

Dott. RUGGIERO Francesco – Consigliere

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

C.A.M., C.P., S.L.;

– intimati –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte (Torino), Sez. 23, n. 123/23/98, del 28 maggio 1998, depositata il 14 luglio 1998, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 10 gennaio 2006 dal Relatore Cons. Dott. Raffaele Botta;

Preso atto che nessuno è presente per le parti;

Udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA Marcello che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La controversia concerne una convenzione stipulata il 8 novembre 1991 relativamente alla dilazione dell’imposta di successione dovuta dagli intimati nella loro qualità di eredi di C.G.: i contribuenti hanno proposto ricorso al Giudice tributario avverso la pretesa dell’Ufficio di ottenere il pagamento degli interessi sulla dilazione nella misura del 9%, prevista dalla nuova normativa di cui al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 38, in luogo di quella del 5% prevista dalla normativa vigente all’epoca dell’apertura della successione (27 dicembre 1989). L’impugnazione – rigettata in primo grado sulla base della considerazione che la convenzione relativa alla dilazione conteneva una clausola che faceva “salva l’eventuale variazione degli interessi legali” – era accolta in grado di appello, con la sentenza in epigrafe, che riteneva inapplicabile nella specie la nuova disciplina sulla base della disposizione di cui al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 63.

Avverso tale sentenza, l’Amministrazione finanziaria propone ricorso per Cassazione con unico motivo. I contribuenti non si sono costituiti.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso, l’amministrazione denuncia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 38, comma 2, e art. 63, art. 1418 c.c. e art. 11 preleggi, sostenendo che la convenzione di dilazione, in ragione della propria autonomia, “costituendo un atto eventuale ed ulteriore del procedimento di riscossione, deve ritenersi disciplinata dalla “legge vigente al momento del suo venire in essere”: ad avviso della parte ricorrente, “nella misura in cui la legge detta disposizioni ad hoc per la concessione di dilazione, tali disposizioni saranno applicabili a tutte le dilazioni intervenute sotto la vigenza delle norme stesse, a meno di non voler dare al D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 63, un significato di ultrattività della norma abrogata che l’art. 63 non intende certo attribuire”.

Il motivo è infondato. Secondo l’orientamento costantemente espresso da questa Suprema Corte, “l’art. 38, secondo comma del D.Lgs. n. 346 del 1990, in tema di interessi per il caso di dilazione del pagamento dell’imposta di successione, non si applica, ai sensi dell’art. 63 della stessa normativa, per le successioni che si siano aperte anteriormente al 1 gennaio 1991, anche se posteriore a detta data si riveli la concessione della dilazione in questione” (così cfr. Cass. n. 8823/2000; e, nella stessa prospettiva, cfr. Cass. nn. 3840/1999;

9685/1999; 8773/2000; 8779/2000; 7325/2003).

Il ricorso deve essere, quindi, rigettato. In ragione della mancata costituzione dei contribuenti non occorre provvedere sulle spese.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 gennaio 2006.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2006