Cass. civ. Sez. V, Sent., 24-01-2013, n. 1668

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. MELONI Marina – rel. Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE elettivamente domiciliata in Roma Via dei Portoghesi 12 rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

LA GAIA SRL in persona del curatore;

– intimata –

avverso la sentenza n.92/36/07 della Commissione Tributaria regionale del Lazio con la quale è stato rigettato il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la decisione della Commissione Tributaria provinciale di Roma 64/08/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/10/2012 dal Consigliere Dott.ssa Marina Meloni;

udito l’Avvocato dello Stato Gianna Galluzzo;

udite le conclusioni dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa ZENO Immacolata che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

Su ricorso del contribuente La Gaja srl avverso la cartella di pagamento notificata in data 28/1/2003, con cui era stato richiesto il versamento della somma di Euro 1.915.501,79 a titolo di IRPEG, ILOR ed IVA 1996, oltre interessi e sanzioni, si pronunciava la Commissione tributaria provinciale del Lazio con la sentenza nr. 64/08/05 di primo grado la quale dichiarava la nullità della notifica dell’avviso di accertamento. Con sentenza nr.92/36/07 pronunciata in data 23/5/2007 la Commissione tributaria regionale del Lazio rigettava il ricorso in appello proposto dalla Agenzia delle Entrate Ufficio di Roma avverso la predetta sentenza, ritenendo che la notifica effettuata ex art. 140 c.p.c. non poteva essere applicata qualora il destinatario dell’atto fosse una persona giuridica irreperibile.

L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello con un motivo.

Motivi della decisione

1. Con il primo ed unico motivo l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c. e art. 145 c.p.c., comma 3 nonchè D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. e) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nella parte in cui il giudice territoriale ha affermato che la cartella di pagamento impugnata doveva essere considerata illegittima in quanto non era stata preceduta dalla notifica dell’avviso di accertamento finalizzato a rendere edotto il contribuente dell’oggetto della natura del tributo e dei motivi posti a fondamento della rettifica.

2. Secondo l’appellante occorre considerare che, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, la notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norma stabilite dagli artt. 137 e segg. c.p.c. con alcune modifiche e che pertanto nella fattispecie erano stati rispettati i principi in quanto la notifica dell’avviso di accertamento era stata effettuata in base all’art. 140 c.p.c. e non in base all’art. 145 c.p.c., comma 3, come erroneamente ritenuto dalla CTR secondo la quale l’art. 140 c.p.c.: era applicabile “solo nei confronti della persona fisica legale rappresentante della società dopo che sia stata esperita nei suoi confronti la notifica e constatata la sua irreperibilità”.

3. Il ricorso è infondato. Infatti, premesso che il messo notificatore aveva dichiarato che all’indirizzo della società La Gaja srl Via (OMISSIS) risultava un negozio chiuso e pertanto aveva depositato l’atto nella casa comunale a norma dell’art. 140 c.p.c. e D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, appare condivisibile l’orientamento espresso nella sentenza di appello dalla CTR di Lazio, secondo la quale, se il destinatario della notifica è una persona giuridica irreperibile, è escluso il ricorso alla proceduta regolata dall’art. 140 c.p.c., che può essere validamente adottata solo nei confronti della persona fisica irreperibile, legale rappresentante della società. In tema di notifiche alla persona giuridica risulta consolidato l’orientamento della Corte secondo il quale, in caso di irreperibilità presso il domicilio fiscale noto, si deve procedere ex art. 145 c.p.c., comma 3 alla notifica dell’atto alla persona fisica che rappresenta l’ente, nella specie il curatore del fallimento, come affermato per esempio in Cass. 5 sezione, nr. 15856 del 7/7/2009 secondo la quale: Gli atti tributari devono essere notificati al contribuente persona giuridica presso la sede della stessa, entro l’ambito del domicilio fiscale, secondo la disciplina dell’art. 145 c.p.c., comma 1. Qualora tale modalità risulti impossibile, si applica il successivo terzo comma dell’art. 145 cod. proc. civ., e la notifica dovrà essere eseguita ai sensi degli art. 138, 139 e 141 cod. proc. civ., alla persona fisica che rappresenta l’ente. In caso d’impossibilità di procedere anche secondo questa modalità, la notifica dovrà essere eseguita secondo le forme dell’art. 140 cod. proc. civ., ma se l’abitazione, l’ufficio o l’azienda del contribuente non si trovano nel comune del domicilio fiscale, la notifica dovrà effettuarsi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), e si perfezionerà nell’ottavo giorno successivo a quello dell’affissione del prescritto avviso di deposito nell’albo del Comune”. Le considerazioni che precedono inducono al rigetto del ricorso. Non v’è luogo a provvedere sulle spese stante l’assenza di attività difensiva dell’intimata.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 5 sezione civile, il 29 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 24 gennaio 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-10-2012) 10-01-2013, n. 440

Ricordano i giudici, “l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto” e, di conseguenza, “è nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate” dalla norma.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. BOTTA Raffaele – Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. CIGNA Mario – rel. Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 5426-2008 proposto da:

CURATORE FALLIMENTO ITALCASA DI COSTANTINO A. & COSTANTINO M. SNC in persona del Curatore del fallimento, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LUCA DELLA ROBBIA 3, presso lo studio dell’avvocato CAPORILLI MARIA ROSARIA, rappresentato e difeso dall’avvocato MACCARI RAFFAELE con studio in MESSINA VIALE SAN MARTINO 116, (avviso postale), giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 54/2006 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 21/12/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/2012 dal Consigliere Dott. MARIO CIGNA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
A seguito di avvisi di accertamento per IRPEG ed ILOR relativi agli anni 1995 e 1996 a carico del Fallimento ITALCASA snc di Costantino A. e Costantino M., notificati il 5-11-2001 dall’Agenzia delle Entrate – Ufficio di Padova 1 e divenuti definitivi per mancata impugnazione, il Curatore del Fallimento proponeva ricorso dinanzi alla CTP di Padova avverso la cartella di pagamento, con la quale veniva richiesto il pagamento della somma di Euro 417.356,68, per il titolo e per gli anni di cui sopra.

Il ricorrente sosteneva la nullità della cartella per vari motivi e, in particolare, perchè gli avvisi di accertamento, presupposto della cartella stessa, non erano stati ritualmente notificati nel domicilio eletto (studio professionale del Curatore), bensì irregolarmente consegnati a tale O.S., nella sua presunta qualità di portiere dell’abitazione del Curatore.

L’adita CTP accoglieva il ricorso.

In seguito ad appello dell’Ufficio ed appello incidentale del Curatore, la CTR di Venezia, in riforma della sentenza impugnata, rigettava il ricorso proposto dal Curatore avverso la cartella di pagamento.

In motivazione la CTR, in particolare, evidenziava:

che la Italcasa snc era stata dichiarata fallita, sicchè legittimamente l’Ufficio aveva notificato gli avvisi presso la residenza del Curatore;

che, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 3 e L. n. 890 del 1982, art. 7 in mancanza delle persone indicate nelle dette disposizioni, la copia (o il piego) poteva essere consegnata al portiere dello stabile.

Avverso detta sentenza proponeva ricorso per Cassazione il Curatore, affidato a quattro motivi, cui resisteva l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente deduceva violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60 e art. 145 c.p.c., ritenendo che, in base alle su citate norme, l’Ufficio avrebbe potuto notificare gli avvisi di accertamento in questione presso la residenza del Curatore soltanto ove non fosse stato possibile notificarli presso lo studio o domicilio eletto dallo stesso curatore.

Siffatto motivo è infondato Al riguardo va, invero, condiviso il principio già espresso da questa stessa S.C., secondo cui “in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la notifica degli avvisi e degli atti presupposti rispetto alla cartella di pagamento, emessi nei confronti di una società dichiarata fallita, è validamente effettuata presso la residenza anagrafica del curatore fallimentare, anche se questi abbia eletto il domicilio nel suo studio professionale, perchè la disposizione che prevede la “facoltà del contribuente” di eleggere domicilio in luogo diverso dalla residenza anagrafica – il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, comma 1, lett. d), – non riguarda l’ipotesi della notifica fatta a persona diversa dal contribuente, anche se legittimata a ricevere la notifica” (Cass. 26178/2011), come, nel caso di specie, è il Curatore.

Con il secondo e terzo motivo deduceva, ex art. 360, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c. e/o L. n. 890 del 1982, art. 7 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 violazione dell’art. 112 c.p.c. per omessa pronuncia nonchè insufficiente motivazione su un fatto decisivo.

In particolare, rilevava che, in base al su citato art. 139 c.p.c. e/o L. n. 890 del 1982, art. 7 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 la consegna al portiere poteva avvenire solo in mancanza delle persone indicate in ordine tassativo di successione preferenziale nei rispettivi commi 2 dei predetti articoli; di conseguenza il Giudice di merito avrebbe potuto pronunciarsi nel senso della validità della notifica solo previo accertamento (omesso invece nel caso di specie) che dalla relata in atti risultasse che la consegna al portiere era avvenuta esclusivamente in ragione della mancanza dei predetti soggetti; lo stesso Giudice del merito, inoltre, aveva insufficientemente motivato, ritenendo che la qualità di “portiere” si doveva presumere alla luce delle dichiarazioni rese all’ufficiale notificatore, senza tuttavia prendere in considerazione la prova contraria fornita dal ricorrente, e cioè la dichiarazione resa dall’amministratore p.t. del Condominio, dalla quale risultava che O.S. era solo custode (e non “portiere”) dello stabile, senza alcun obbligo di ricevere notifiche o lett. racc..

Detto motivo è fondato.

Va, invero, condiviso il principio ripetuta mente stabilito da questa Corte, secondo cui “in caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, onde il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 cod. proc. civ., comma 2 secondo la successione preferenziale da detta norma tassativamente stabilita. E’ pertanto nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata (Cass. 8214/2005; conf. 11332/2005; 6101/2006).

La CTR non ha fatto corretto uso di tale principio, avendo affermato che, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 3, e L. n. 890 del 1982, art. 7 in mancanza delle persone indicate nelle dette disposizioni, la copia (o il piego) poteva essere consegnata al portiere dello stabile, senza tuttavia avere previamente verificato che l’ufficiale giudiziario, nella sua relata, avesse o meno dato atto, oltre che dell’assenza del destinatario anche dell’effettuazione delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto.

L’accoglimento del detto motivo, comporta l’assorbimento del quarto, con il quale il ricorrente deduceva, ex art. 360 c.p.c., n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere il Giudice d’Appello totalmente trascurato di prendere in considerazione la censura (rivolta direttamente contro la cartella) riguardante la mancata indicazione del responsabile del procedimento.

In conclusione, pertanto, in accoglimento del ricorso, va cassata la gravata sentenza e la causa va rinviata ad altra sezione della CTR di Venezia al fine di decidere la stessa sulla base del su riportato principio di diritto; detta CTR provvedere, inoltre, anche sui compensi di lite.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la impugnata sentenza e rinvia, anche per provvedere sulle spese di lite, alla CTR di Venezia, diversa sezione.

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della sez. tributaria, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2013


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 30-10-2012) 05-12-2012, n. 21817

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – rel. Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. CONTI Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 10542/07 proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del suo Direttore Centrale pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., in persona del suo legale rappresentante M.B., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Paridi n. 43, presso lo Studio dell’avv. Francesco D’Ayala Valva, che la rappresenta e difende giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 23/41/06 della Commissione Tributaria Regionale della Campania, depositata in data 21.2.2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del giorno 30.10.2012 dal Consigliere Dott. Ernestino Bruschetta;

udito l’Avvocato dello Stato Lorenzo D’Ascia, per la ricorrente Agenzia delle Entrate, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito l’Avv. Francesco D’Ayala Valva, per la controricorrente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., che ha chiesto dichiararsi l’inammissibilità del ricorso e comunque il suo rigetto;

udite le conclusioni dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 215/03/02 depositata in data 12.11.2002 la Commissione Tributaria Regionale della Campania – respinto l’appello proposto dalla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l.

– confermava la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Benevento n. 49/04/02 depositata in data 2.4.2002 che aveva dichiarata “legittima” la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994 emessa dalla Agenzia delle Entrate di Benevento a seguito del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 e quest’ultimo ritenuto definitivo perchè correttamente notificato e non tempestivamente opposto.

In particolare la CTR della Campania – rilevato che non era stata proposta querela di falso – considerava incontestabile il contenuto della relata di notifica del “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994. E, specificatamente, laddove il messo aveva dato atto che la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. non era più presso la sede legale di via (OMISSIS) e che per tale ragione si era proceduto alla notifica presso la sede “effettiva” di via (OMISSIS) a mani di M.G. “addetto” alla ricezione.

In proseguo di lite questa Suprema Corte, con sentenza n. 4377/05 depositata in data 2.3.2005, cassava con rinvio la ridetta decisione n. 215/03/02 della CTR della Campania statuendo il principio per cui la relata di notifica dell’avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 poteva invece contestarsi senza necessità di proporre querela di falso e sia con riguardo alla dichiarazione ivi contenuta di aver proceduto alla notifica presso la sede “effettiva” della contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. e sia con riguardo alla dichiarazione secondo cui M.G. era “addetto” al ricevimento di atti. E, per di qui, la Suprema Corte derivava la conseguenza per cui i ridetti contestati fatti indicati in relata di notifica del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 “avrebbero dovuto essere accertati dal giudice di merito”.

Con sentenza n. 23/4106 depositata in data 21.2.2006 la Commissione Tributaria Regionale della Campania, definendo il giudizio di rinvio, annullava la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994 per cagione la inesistenza della notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994. La sentenza del giudice del rinvio, era fondata sulle ragioni appresso:

1. veniva dapprima premesso che, ai fatti indicati in relata di notifica, la Suprema Corte non aveva invero assegnata “alcuna validità”;

2. veniva poi ritenuto che gli “elementi” di prova forniti dalla Agenzia delle Entrate di Benevento circa l’esistenza della sede “effettiva” indicata in relata, come ad es. la presenza di tre linee telefoniche intestate alla contribuente nella sede indicata quale “effettiva” di via (OMISSIS), avevano in realtà la consistenza di semplici “illazioni”;

3. veniva ritenuto, infine, che l’Agenzia delle Entrate di Benevento non aveva fornito “elementi” che potessero far pensare ad un collegamento tra la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. ed il sedicente “addetto” alla ricezione M.G..

Contro la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 23/4106 depositata in data 21.2.2006, sentenza appunto terminativa del giudizio di rinvio, l’Agenzia delle Entrate proponeva ricorso per cassazione affidato a numero tre motivi.

La contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. resisteva con controricorso, in limine eccependo l’inammissibilità dell’impugnazione ex adverso.

Motivi della decisione
1. La resistente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l., come anticipato in narrativa, ha sotto vari profili preliminarmente eccepita l’inammissibilità dell’avversario ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c. E, nello specifico, perché:

1. il ricorso difettava “del tutto” di “una compiuta e fedele rappresentazione, almeno sinottica e narrativa, della sentenza di cassazione con rinvio”;

2. il ricorso non dava inoltre “conto compiutamente dello svolgimento del processo”;

3. il ricorso non riproduceva “tutta la parte della sentenza del giudice del rinvio concernente la ricostruzione dello svolgimento del processo”.

I plurimi profili della eccepita inammissibilità, ut supra riassunti, possono esser congiuntamente esaminati stante la loro stretta connessione.

L’eccezione è infondata.

Deve in effetti osservarsi che il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, nella sua parte espositiva, ha dato conto con sufficiente chiarezza della vicenda processuale descrivendone sinteticamente come ex lege richiesto ogni suoi fase e grado e gli esiti degli stessi. E cosicchè, anche a mezzo della integrale trascrizione della parte motiva della sentenza sub iudice, ha ricostruito il fatto processuale senza lacune o incertezza. E per tal modo permettendo a questa Suprema Corte l’esercizio nomofilattico su dati fattuali e processuali sicuri e quindi senza necessità di ricerche integrative.

Non si da pertanto luogo a quella assoluta incertezza alla quale solamente devesi far conseguire la sanzione di inammissibilità per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, (Cass. 13550/04; Cass. 2432/03).

2. Col primo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 384 e 394 c.p.c., ed a riguardo deduceva come la CTR della Campania avesse “trasgredito” i compiti commessi dalla Suprema Corte colla sentenza rescindente e ciò in quanto non era punto vero che la Suprema Corte fosse entrata nel merito negando “validità” di prova al contenuto della relata di notifica e per tal modo esonerando la CTR dal riesaminare le prove che dall’Agenzia delle Entrate di Benevento erano state portate a sostegno della verità dei fatti riportati nella relata di notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. 82351299 IVA 1994 e per il che sottoponeva il quesito: “se violi il principio di diritto affermato e contravvenga ai compiti assegnati dalla sentenza di cassazione il giudice di rinvio che travisi il contenuto di quella pronuncia, erroneamente ritenendo che la denegata attribuzione della fede privilegiata al contenuto intrinseco delle attestazioni dell’Ufficio giudiziario comporti la negazione della legittimità dell’attività da lui svolta”. Con riferimento a questo primo motivo deve peraltro andare precisato che, per causa il travalicare dai poteri processuali assegnati, il giudice del rinvio che non si uniformi ai principi indicati dalla Suprema Corte colla sentenza rescindente compie un error in procedendo denunciatale à sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 1, n. 4, (Cass. 6441/05; Cass. 17564/04).

Tuttavia deve in proposito andare rammentata la consolidata giurisprudenza di questa Suprema Corte per cui, quando sia stato denunciato come error in iudicando ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quello che in realtà sarebbe un error in procedendo, il motivo è da ritenersi lo stesso ammissibile quando sia come qui stato esattamente e chiaramente prospettato il fatto costitutivo dell’errore. E, ciò, sul rilievo per cui in tutte e due i casi trattasi di un vizio di violazione di legge e cosicchè la certa individuazione dell’errore permette l’esercizio nomofilattico (Cass. 19661/06; Cass. 3941/02).

3. Col secondo complesso motivo l’Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, per violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 145 e 148 c.p.c., e artt. 2697, 2699 e 2700 c.c., e oltrechè per insufficiente e illogica motivazione su punti decisivi della controversia ed a riguardo deduceva che la circostanza che il contenuto intrinseco della relata di notifica del “prodromico” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 non fosse assistito da fede pubblica “non escludeva la fede privilegiata di ogni altra attestazione” di fatti avvenuti alla presenza del messo e come ad es. erano sia il mancato rinvenimento della contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. presso la sua sede legale e sia le indicazioni ricevute circa la sede “effettiva” e sia le dichiarazioni di M.G. di esser “addetto” alla ricezione degli atti e cosicchè la CTR della Campania avrebbe da qui dovuto ricavare “che la notifica presso la sede dichiarata era risultata impossibile” e che pertanto era di necessità tentare la notifica presso la sede “effettiva” e che “sarebbe stato onere della società dimostrare che la sede fosse stata effettivamente dove la notifica era risultata impossibile” e colla conclusione per cui in mancanza di una tale prova si doveva ritenere che la notifica presso la sede “effettiva” era stata “eseguita correttamente” a mani dell’”addetto” M.G. e per il che venivano formulati i plurimi quesiti:

1. “se abbiano fede privilegiata le affermazioni rese dal messo notificatore nella relata di notifica in merito all’attività compiuta, al mancato rinvenimento della sede della società destinataria dell’atto da notificare all’indirizzo indicato ed alla acquisizione di informazioni attestanti l’avvenuto trasferimento della sede effettiva”;

2. “se può presumersi la veridicità delle dichiarazioni rese al Messo notificatore dalle persone sentite in merito all’avvenuto trasferimento della sede ad altro indirizzo”;

3. “se, nel caso in cui il messo notificatore non abbia rinvenuto all’indirizzo dichiarato la sede della persona giuridica destinataria di un atto ed abbia acquisito notizia del suo trasferimento ad altro indirizzo del suo circondario, sia legittimo l’esperimento della notifica presso la nuova sede, anzichè presso il domicilio del suo legale rappresentante”;

4. “se – in mancanza di prova contraria – debba ritenersi legittima la notifica di un atto effettuata ad una persona giuridica nella sede individuata dal messo notificatore mediante consegna a mani di persona ivi rinvenuta, che si sia dichiarata addetta alla società e capace di riceverlo”.

4. I motivi ut supra riassunti, stante la loro stretta connessione, debbono esser esaminati congiuntamente. I due motivi sono, peraltro, fondati.

In effetti questa Suprema Corte è sempre stata costante nell’insegnamento per cui – se pur è vero che il contenuto delle dichiarazioni ricevute dal messo notificare o l’esito delle sue ricerche non possono far fede fino a querela di falso e differentemente ad es. da quanto in relata vien scritto esser avvenuto davanti al ridetto messo notificatore o dalla attività che questi dichiara di aver compiuta – è altresì vero che i ripetuti contenuto delle dichiarazioni ricevute dal messo notificare o l’esito delle sue ricerche debbono presumersi veritiere sino a contraria dimostrazione e questa ovviamente da darsi a chi contesta la notifica (Cass. 25860/08; Cass. 12311/07). Una contraria prova, circa la non veridicità del luogo di rinvenimento della sede “effettiva” e della ricezione dell’”addetto”, che la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. non ha invero allegato. Il giudice a quo, come correttamente denunciato dalla ricorrente Agenzìa delle Entrate, ha quindi violato le regole sul riparto della prova fissate in subiecta materia e ciò allorquando ha onerato l’Ufficio della dimostrazione della realtà della sede “effettiva” e dell’”addetto” alla ricezione della notifica. Fatti la cui contrarietà a verità, seppur dimostrabile senza querela di falso, spettava alla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. di provare. Il principio di diritto da enunciarsi ex art. 384 c.p.c., comma 1, è pertanto:

“Quando l’ufficiale giudiziario attesti di non avere rinvenuto la Società destinataria della notifica presso la sua sede legale, perchè, secondo quanto appreso, questa aveva la sua sede “effettiva” altrove, e recatosi presso la sede “effettiva” abbia fatta consegna a persona qualificatasi “addetta” alla ricezione per la Società ridetta, le attestazioni in parola sono da ritenersi assistite da fede fino a querela di falso, attenendo a circostanze frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale. Laddove, invece, il contenuto delle notizie apprese circa la sede “effettiva” ed il contenuto della dichiarazione di chi si sia qualificato “addetto” alla ricezione di atti per conto della Società notificata, sono assistiti da presunzioni iuris tantum, che, in assenza di prova contraria, non consentono al giudice di disconoscere la regolarità dell’attività di notificazione”.

4. Col terzo motivo la ricorrente Agenzia delle Entrate censurava la sentenza à sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, 4 e 5, epperò senza indicazione alcuna delle norme assunte come violate o falsamente applicate e soltanto in rubrica indicando i vizi di “omessa, insufficiente, contraddittoria ed illogica motivazione” ed a riguardo deduceva “gravi lacune ed incongruenze nella valutazione degli elementi di fatto emersi dai documenti di causa” e particolarmente per aver la Commissione Tributaria Regionale della Campania “prestato nessuna attenzione al fatto che il messo notificatore aveva rinvenuto un altro luogo certamente riferibile alla società” e nel quale dovevasi individuare la “sede effettiva” e tenuto conto che ivi la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. risultava intestataria di utenza telefonica e che sempre ivi chi aveva ricevuta la notifica risultava aver nome identico a quello del legale rappresentante della contribuente e col che la valutazione negativa dei fatti controversi era da intendersi siccome “assai superficiale e perciò illogica”.

Il motivo rimane assorbito.

5. Il giudice a quo in assenza della contraria prova che abbiamo veduto spettava alla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. di dare – e che invece nemmeno era stata allegata – avrebbe quindi dovuto ritenere correttamente eseguita la notifica dell’atto “presupposto” avviso di rettifica n. (OMISSIS) IVA 1994 e col conseguente rigetto del ricorso proposto contro la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994. E, questo, perchè non c’erano altri fatti da accertare ed in quanto erano da ritenersi presunti la sede “effettiva” e la ricezione della notifica da parte dell’”addetto”. Ciò che, in effetti, à sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, consente ora a questa Suprema Corte di statuire nel merito e quindi di pronunciare il rigetto del ricorso avverso la cartella sub iudice.

6. Le spese del grado seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo, mentre nella particolarmente difficoltosa vicenda processuale stanno quei giusti motivi che permettono per il resto di compensare integralmente le spese.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo e il secondo motivo del ricorso, dichiara assorbito il terzo, cassa l’impugnata sentenza e decidendo nel merito respinge il ricorso proposto dalla contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS) IVA 1994.

Condanna la contribuente Industria Olearia Biagio Mataluni S.r.l. a rimborsare all’Agenzia delle Entrate le spese del presente grado che si liquidano in Euro 15.000,00 per compensi oltre a spese prenotate;

compensa integralmente nel resto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2012


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 09-10-2012) 29-11-2012, n. 21253

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9240-2008 proposto da:

D.S.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GIUSEPPE TOMASSETTI 3, presso lo studio dell’avvocato BRUNI CARLO, rappresentato e difeso dall’avvocato FILEGGI ANTONIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

SOCIETÀ ITALIANA DISTRIBUZIONE MODERNA S.P.A., (già LA RINASCENTE S.P.A.);

– Intimata –

e sul ricorso 13243-2008 proposto da:

S.I.D.M. S.P.A.,(già LA RINASCENTE S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO 96, presso lo studio dell’avvocato LUCA DI PAOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato FRASCA FRANCESCO SAVERIO, giusta delega in atti;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

D.S.E.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 281/2007 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 27/03/2007 R.G.N. 651/2006;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/10/2012 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito l’Avvocato FILEGGI ANTONIO;

udito il p.m. in persona dei sostituto procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
Con ricorso al Tribunale di Pescara, D.S.E. ha chiesto che venisse dichiarata l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatogli dalla Società Italiana Distribuzione Moderna spa (già La Rinascente spa), per avere svolto attività lavorativa consistente nel servizio della clientela presso un locale pubblico mentre si trovava in congedo per ragioni di salute, ed ha chiesto altresì la condanna della società convenuta al pagamento di somme dovute a titolo di lavoro straordinario e notturno.

Il Tribunale ha accolto la domanda relativa all’accertamento della illegittimità del licenziamento e ha respinto quella riguardante la pretesa del compenso per lavoro straordinario, con sentenza che è stata riformata dalla Corte d’appello dell’Aquila, che ha ritenuto invece la legittimità del licenziamento, rigettando sul punto la domanda del lavoratore, ed ha accolto la domanda relativa al compenso per lavoro straordinario e notturno, condannando la società al pagamento, per questi titoli, della complessiva somma di Euro 40.984,85 (di cui Euro 37.928,55 a titolo di lavoro straordinario diurno e Euro 3.056,30 a titolo di lavoro notturno), oltre rivalutazione e interessi. A tali conclusioni la Corte territoriale è pervenuta osservando che il lavoratore era stato sorpreso a svolgere attività di servizio della clientela in un locale pubblico in occasione di due assenze dal lavoro motivate da uno stato di malattia (lombosciatalgia) e che, in tali occasioni, era apparso in condizioni fisiche normali, sì da legittimare l’insorgenza di fondati dubbi circa la stessa esistenza della malattia e giustificare così il recesso del datore di lavoro. Quanto al compenso per lavoro straordinario diurno e notturno, la Corte di merito ha osservato che dalle risultanze istruttorie era emerso che il D.S. aveva svolto settimanalmente numerose ore di lavoro straordinario e, in alcune occasioni, anche un certo numero di ore di lavoro notturno, che dovevano essere compensate con le maggiorazioni previste dalla contrattazione collettiva, a nulla rilevando che il D.S., per la sua funzione di capo reparto, godesse di una certa autonomia operativa riguardo al reparto affidatogli.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione D.S.E. affidandosi a due motivi di ricorso cui resiste con controricorso la SIDM spa, che ha proposto anche ricorso incidentale fondato su due motivi. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Preliminarmente, deve essere disposta la riunione del ricorso principale e di quello incidentale, ex art. 335 c.p.c., trattandosi di impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza.

1.- Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 3 “in relazione a consolidati principi giurisprudenziali in materia di svolgimento di altra attività durante l’assenza per malattia”, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto che sarebbe assolutamente vietato al lavoratore assente per malattia lo svolgimento di una qualsiasi altra attività lavorativa, a prescindere da ogni valutazione circa la compatibilità tra tale attività lavorativa e la malattia medesima.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7 in relazione al principio di immutabilità della contestazione disciplinare, nonché vizio di motivazione, chiedendo a questa Corte di stabilire se la sentenza impugnata abbia violato tale principio laddove ha ritenuto giustificato il licenziamento sotto il profilo, che non formava oggetto di specifica contestazione, del presunto svolgimento di una attività lavorativa idonea a compromettere la guarigione.

3.- Con il primo motivo del ricorso incidentale si denuncia violazione degli artt. 414, 164, 244 c.p.c., dell’art. 2697, 2108, 2099, 1241 c.c., art. 36 Cost., nonchè vizio di motivazione, in ordine all’omesso rilievo, da parte della Corte di merito, delle carenze dell’atto introduttivo e dell’inammissibilità dei capitoli di prova articolati dal ricorrente, oltre che per aver disatteso l’eccezione di compensazione formulata in via subordinata dalla società, sostenendo che, sulla base di tali carenze, il giudice d’appello avrebbe dovuto ritenere il ricorso nullo ovvero rigettarlo nel merito, o comunque, in accoglimento della suddetta eccezione, contenere la condanna entro una diversa e più ridotta misura.

4.- Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 2108 c.c., R.D.L. n. 1955 del 1923, art. 3 R.D.L. n. 692 del 1923, art. 1 nonché vizio di motivazione, sostenendo che, in base alle normativa sopra richiamata, non doveva essere riconosciuto al ricorrente, che svolgeva funzioni di capo reparto e non era, quindi, tenuto ad osservare l’orario normale di lavoro, alcun compenso per lavoro straordinario.

5. – I motivi del ricorso principale, che, per riguardare problematiche strettamente connesse tra loro, possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

6.- In tema di svolgimento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente conformi. In linea di principio, si è affermato che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Siffatto comportamento può, tuttavia, costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà. Ciò può avvenire quando lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia sia di per sé sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, o quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, con violazione di un’obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto (cfr. ex plurimis Cass. n. 9474/2009, Cass. n. 14046/2005).

7.- Ad ulteriore specificazione di questo principio, questa Corte (Cass. n. 14046/2005 cit.) ha precisato che “la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge per conto di terzi un’attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio”, con l’ulteriore conseguenza che “ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante”.

Ed ha ribadito che lo svolgimento da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della infermità e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, che giustifica il recesso del datore di lavoro (nello stesso senso, Cass. n. 17128/2002).

8.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che, nella fattispecie, le modalità dello svolgimento dell’attività svolta dal dipendente (quale addetto al servizio ai tavoli e alla riscossione alla cassa presso un locale pubblico, in orario notturno) durante l’assenza per malattia erano di per sè sufficienti a far dubitare della stessa esistenza della malattia (o quanto meno di una sua gravità tale da impedire l’espletamento di una attività lavorativa) ed erano comunque indice di una scarsa attenzione del lavoratore alle esigenze di cura della propria salute ed ai connessi doveri di non ostacolare o ritardare la guarigione, considerato anche l’impegno fisico richiesto dall’espletamento di tale attività.

9.- Tale affermazione risulta in tutto conforme ai principi enunciati in materia da questa Corte e non presuppone affatto l’esistenza di un divieto assoluto, per il lavoratore, di svolgere una qualsiasi altra attività lavorativa durante l’assenza per malattia, prescindendo da ogni valutazione circa la compatibilità tra detta attività e la malattia; nè può ritenersi che la Corte di merito, cosi argomentando, abbia preso in considerazione fatti diversi da quelli che formavano oggetto della contestazione disciplinare, che la contestazione riguardava appunto il fatto di essere stato sorpreso, in più occasioni, a lavorare con mansioni di servizio ai tavoli durante l’assenza per malattia.

10.- Non sussistono, inoltre, i vizi motivazionali denunciati nella seconda parte del secondo motivo, in quanto la decisione impugnata si fonda, in primo luogo, sul rilievo della inidoneità dello stato di malattia ad impedire l’espletamento dell’attività lavorativa e la fondatezza di tale rilievo non può certo ritenersi inficiata per effetto delle indicazioni contenute nella documentazione medica richiamata nel ricorso, che attesta sì l’esistenza di una lomobosciatalgia (esistenza che non viene, peraltro, disconosciuta dal giudice del merito), ma non ha diretta attinenza alla specifica situazione di impedimento dell’attività lavorativa che si sarebbe verificata a carico del D.S. nei periodi di tempo in contestazione.

11.- Le ulteriori osservazioni svolte nell’ultima parte del ricorso si riferiscono al profilo relativo alla idoneità (o meno) del comportamento del lavoratore ad incidere sulla guarigione della malattia e non hanno comunque rilievo decisivo ai fini della prova della effettiva esistenza di uno stato della malattia impeditivo della prestazione lavorativa.

12.- Il ricorso principale non può pertanto trovare accoglimento.

13.- Il primo motivo del ricorso incidentale è in parte infondato e, per la restante parte, assorbito, come si dirà, dall’accoglimento del secondo motivo.

14.- Deve escludersi anzitutto la sussistenza della dedotta violazione degli artt. 414 e 164 c.p.c., posto che, come è stato più volte affermato da questa Corte (cfr. ex plurimis Cass. n. 3126/2011, Cass. n. 820/2007, Cass. n. 17076/2004), nel rito del lavoro la valutazione di nullità del ricorso introduttivo per mancanza di determinazione dell’oggetto della domanda o per mancata esposizione degli elementi di fatto e delle ragioni di diritto sulle quali questa si fonda è ravvisabile solo quando, attraverso l’esame complessivo dell’atto, sia impossibile l’individuazione esatta della pretesa dell’attore e il convenuto non possa apprestare una compiuta difesa; ipotesi, questa, che non si riscontra nel caso in esame, posto che, nella specie, le indicazioni contenute nel ricorso introduttivo in ordine ai fatti posti a fondamento della domanda hanno consentito alla convenuta di apprestare adeguatamente le proprie difese e al giudice di impostare e svolgere l’attività istruttoria indispensabile ai fini della decisione. Le censure formulate dalla società, d’altra parte, si incentrano in gran parte sulla genericità e sulla inattendibilità degli elementi di fatto indicati nel ricorso a sostegno delle pretese fatte valere, oltre che sulla omessa indicazione di altri elementi che si assumono idonei a modificare o a ridurre tali pretese, ed attengono quindi alla fondatezza della domanda più che alla insufficienza della esposizione degli elementi di fatto su cui questa si fonda, sicchè deve ritenersi che, sotto questo profilo, la valutazione della Corte di merito risulti del tutto immune dalle censure che le sono state mosse, al riguardo, dalla controricorrente.

15.- Anche la censura relativa alla valutazione della idoneità della specificazione dei fatti dedotti nei capitoli di prova, ex art. 244 c.p.c., non può trovare accoglimento, in quanto la parte avrebbe dovuto riportare, in ossequio al principio di autosufficienza, lo specifico contenuto dei capitoli di prova, onde rendere edotta la Corte del modo in cui la prova era stata formulata con il ricorso introduttivo.

16.- Il secondo motivo del ricorso incidentale deve ritenersi fondato. Questa Corte ha ripetutamente affermato che ai fini dell’esclusione della limitazione dell’orario di lavoro, con conseguente negazione del diritto a compenso per lavoro straordinario, il concetto di “personale direttivo” di cui al R.D.L. n. 692 del 1923, art. 1 è comprensivo – come chiarito dal R.D. n. 1955 del 1923, art. 3, n. 2, (regolamento per l’applicazione del citato R.D.L. n. 692 del 1923) – non soltanto di tutti i dirigenti ed institori che rivestono qualità rappresentative e vicarie, bensì anche, in difetto di una pattuizione contrattuale in deroga, del personale dirigente c.d. minore, ossia gli impiegati di prima categoria con funzioni direttive, i capi di singoli servizi o sezioni d’azienda, i capi ufficio e i capi reparto (cfr. ex plurimis Cass. n. 12367/2003), precisando che il personale direttivo, escluso dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, ha diritto al compenso per lavoro straordinario se la disciplina collettiva delimiti anche per il medesimo l’orario normale, e tale orario venga in concreto superato, oppure se la durata della prestazione lavorativa ecceda il limite di ragionevolezza in rapporto alla necessaria tutela della salute e della integrità fisiopsichica garantita dalla Costituzione a tutti i lavoratori (cfr. ex plurimis Cass. n. 16050/2004, Cass. n. 13882/2004, Cass. n. 7201/2004, Cass. n. 12301/2003, Cass. n. 11929/2003, Cass. n. 7577/2003).

17.- Nella specie, è pacifico che il D.S. abbia prestato la propria attività lavorativa con la qualifica e le mansioni di capo reparto, qualifica che lo escludeva dalla disciplina legale delle limitazioni dell’orario di lavoro, applicabile, all’epoca, al rapporto di lavoro. Anche la disciplina collettiva (art. 39 c.c.n.l.) escludeva il diritto di direttori tecnici, capi ufficio e capi reparto ad un compenso per lavoro straordinario.

18.- La Corte d’appello ha ritenuto di riconoscere il diritto dell’appellante al compenso per lavoro straordinario – superando così, implicitamente, l’impedimento che derivava al riconoscimento di tale diritto dalle previsioni della disciplina legale e della normativa collettiva – in base alla considerazione che la stessa società aveva riconosciuto al dipendente, facendone menzione nelle buste paga, un compenso per lavoro straordinario, seppure “forfettizzato”.

19.- L’argomentazione non merita condivisione in quanto l’attribuzione di un compenso per lavoro straordinario “forfettizzato”, in presenza di una normativa legale e contrattuale che esclude determinate categorie di lavoratori dall’applicazione della disciplina in tema di limitazioni dell’orario di lavoro, non può assumere, per sè solo, il significato di un riconoscimento, da parte del datore di lavoro, dell’esistenza di una limitazione dell’orario normale, nè del diritto ad un compenso per il lavoro prestato oltre tale limite, ma, se mai, solo quello di un trattamento più favorevole determinato e corrisposto dal datore di lavoro al dipendente, al quale non si applica la disciplina delle limitazioni dell’orario di lavoro, proprio in conseguenza degli svantaggi eventualmente derivanti al lavoratore dalla suddetta esclusione.

20.- In definitiva, alla stregua della disciplina legale e contrattuale delle limitazioni dell’orario di lavoro applicabile al rapporto – e non essendo in questione nella presente controversia, per come emerge dalle rispettive deduzioni svolte negli scritti difensivi delle parti, il limite della “ragionevolezza” -, deve escludersi il diritto del ricorrente al compenso per lavoro straordinario.

21.- Il secondo motivo del ricorso incidentale deve essere pertanto accolto e la sentenza deve essere cassata relativamente alla statuizione con cui la società è stata condannata al pagamento del compenso per lavoro straordinario diurno (ferma restando la statuizione di condanna della medesima società al pagamento della somma di _ 3.056,30 a titolo di compenso per lavoro notturno), con l’assorbimento di ogni altra censura svolta sul punto dalla controricorrente.

22.- Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, con il rigetto della domanda di condanna al pagamento del compenso per lavoro straordinario (diurno).

23.- Avuto riguardo alla peculiarità della materia che ha dato luogo a diverse e contrastanti soluzioni nel corso del giudizio di merito, si ritiene che sussistano giusti motivi per compensare interamente fra le parti anche le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi, rigetta il principale, accoglie il secondo motivo del ricorso incidentale, rigettato il primo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dichiara non dovuta al D.S. la somma liquidata dalla Corte d’appello a titolo di compenso per lavoro straordinario diurno;

compensa le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 29 novembre 2012


L’avviso previsto dall’art. 140 c.p.c non si pubblica all’Albo On Line

La sentenza era già attesa da un po’ di tempo e finalmente si è fatta chiarezza su una norma assurda quale quella presa in esame che già veniva applicata non esattamente alla lettera dai Messi Esattoriali più illuminati, poiché anche se non espressamente previsto la raccomandata A.R. dell’art. 140 c.p.c. di solito veniva spedita ugualmente.
Certo non poteva essere che il perfezionamento della notificazione in caso di irreperibilità relativa fosse comunque condizionato all’affissione all’albo on line dell’avviso di deposito e si perfezionasse il giorno successivo ad essa invece che con il ritiro della raccomandata A.R. o comunque col decorso dei 10 giorni dalla spedizione della raccomandata.
Già precedente sentenza della Corte Costituzionale si era avvicinata all’obiettivo ma non lo aveva potuto centrare poiché la richiesta di valutazione sulla costituzionalità non era stata correttamente argomentata. Pertanto, l’avviso previsto dall’art. 140 c.p.c., in relazione all’applicazione dell’art. 26 del Dpr 602/1973 non si pubblica all’Albo On Line.

Leggi: Corte Costituzionale sentenza n. 258 del 19.11.2012


Corte cost., Sent., (ud. 23-10-2012) 22-11-2012, n. 258

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Alfonso QUARANTA Presidente

– Franco GALLO Giudice

– Luigi MAZZELLA “

– Gaetano SILVESTRI “

– Sabino CASSESE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

– Giuseppe FRIGO “

– Alessandro CRISCUOLO “

– Paolo GROSSI “

– Giorgio LATTANZI “

– Aldo CAROSI “

– Marta CARTABIA “

– Sergio MATTARELLA “

– Mario Rosario MORELLI “

ha pronunciato la seguente

Svolgimento del processo
SENTENZA

Nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 26, «comma 1» [recte: terzo comma, nel testo applicabile ratione temporis], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), e 60, «comma 1» [rectius: «primo comma, alinea e lettera e)], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), promosso dal giudice del lavoro del Tribunale di Padova nel giudizio civile vertente tra la s.c. a r.l. Cooperativa Quadrifoglio, l’INPS, la s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (SCCI) e la s.p.a. Equitalia Polis, con ordinanza del 26 luglio 2010, iscritta al n. 365 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di costituzione dell’INPS e della s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (SCCI), nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 23 ottobre 2012 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi l’avvocato Antonino Sgroi per l’INPS e per la s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (SCCI), l’avvocato Marcello Cecchetti per la s.p.a. Equitalia Nord (successore della s.p.a. Equitalia Polis), nonché l’avvocato dello Stato Vincenzo Rago per il Presidente del Consiglio dei ministri.

1.- Nel corso di un giudizio di opposizione contro il ruolo sotteso ad una cartella di pagamento relativa a debiti previdenziali promosso da una società cooperativa a responsabilità limitata nei confronti dell’INPS e della s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (hinc s.p.a. SCCI), ai sensi dell’art. 24, comma 5, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), il giudice del lavoro del Tribunale di Padova, con ordinanza del 26 luglio 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità del combinato disposto degli artt. 26, «comma 1» [recte: terzo comma, nel testo applicabile ratione temporis], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), e 60, «comma 1» [rectius: «primo comma, alinea e lettera e)»], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui, individuando per i «casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile» il momento di perfezionamento della notificazione della cartella di pagamento «nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune», rende applicabili alla notificazione di detta cartella le modalità di notificazione mediante deposito nella casa comunale ed affissione del relativo avviso nell’albo comunale non solo nell’ipotesi in cui nel Comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario, ma anche nell’ipotesi in cui sia noto il luogo di residenza, dimora o domicilio del destinatario.

1.1.- Il giudice rimettente premette, in punto di fatto, che: a) la cartella di pagamento era stata notificata alla società cooperativa ai sensi delle disposizioni denunciate, come espressamente affermato dall’agente della riscossione, non costituito nel giudizio principale; b) l’agente notificatore, «dopo aver constatato la temporanea assenza del destinatario» presso l’indirizzo, «noto ed effettivo», della sede legale della società, aveva depositato la cartella nella casa comunale di Chioggia ed aveva affisso nell’albo comunale, dal 13 agosto al 14 agosto 2009, l’avviso di deposito; c) detto agente aveva spedito alla medesima società una lettera raccomandata contenente l’avviso di deposito (come da avviso postale di spedizione prodotto in giudizio); d) non era stata fornita in giudizio la prova del «momento di ricevimento» di tale lettera; e) l’opposizione alla cartella di pagamento era stata proposta dalla società con ricorso depositato nella cancelleria del Tribunale di Padova il 25 settembre 2009, cioè oltre 40 giorni dopo il 14 agosto 2009.

1.2.- Lo stesso giudice rimettente premette altresí, in punto di diritto, che: a) in forza delle disposizioni denunciate, nel caso di irreperibilità o incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’art. 139 del codice di procedura civile, la notificazione della cartella di pagamento si perfeziona nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del Comune e non nel momento di ricevimento della raccomandata prevista dall’art. 140 cod. proc. civ. e comunque non nel momento risultante dall’applicazione dei princípi indicati dalla Corte costituzionale – con specifico riferimento alla notificazione effettuata ai sensi di tale ultimo articolo – nella sentenza n. 3 del 2010; b) le medesime impugnate disposizioni escludono che il procedimento notificatorio della cartella si perfezioni in una data diversa da quella da esse stabilita e non prevedono, «a rigore», l’invio di una lettera raccomandata contenente l’avviso di deposito; c) nella specie, pertanto, la notificazione si era perfezionata in data 14 agosto 2009 e, di conseguenza, l’opposizione alla cartella di pagamento è inammissibile, perché presentata il 25 settembre 2009, cioè dopo la scadenza del termine perentorio decadenziale di 40 giorni, decorrente dalla notificazione della cartella, stabilito dall’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999 (sulla natura perentoria di tale termine vengono richiamate le pronunce della Corte di cassazione n. 11274 e n. 4506 del 2007; n. 21863 del 2004).

1.3.- Poste tali premesse, il giudice a quo afferma che le disposizioni denunciate contrastano con l’art. 3 Cost., sia perché irragionevoli in sé, sia perché introducono una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla disciplina della notificazione degli avvisi di accertamento.

L’irragionevolezza deriverebbe dal fatto che la notificazione mediante deposito dell’atto nella casa comunale ed affissione del relativo avviso nell’albo comunale, benché originariamente prevista per l’ipotesi in cui v’è «impossibilità pratica di notificazione presso il domicilio fiscale» (data la mancanza, nel Comune, dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, come precisato al primo comma, alinea e lettera e, dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973), si applica, in forza del richiamo contenuto nel denunciato terzo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, anche alla ben diversa ipotesi in cui sussiste ancora la suddetta possibilità di notificazione (data la mancanza, l’incapacità od il rifiuto, al momento dell’accesso in loco del notificatore, di soggetti legittimati alla ricezione dell’atto).

L’ingiustificata disparità di trattamento, sempre ad avviso del rimettente, deriverebbe invece dal fatto che, con riguardo all’ipotesi di irreperibilità cosiddetta “relativa” del destinatario e degli altri soggetti legittimati alla ricezione, trovano irragionevolmente applicazione due diversi procedimenti notificatori, a seconda che la notificazione riguardi un atto di accertamento od una cartella di pagamento: a) con riferimento all’atto di accertamento, infatti, si applica la disciplina di cui all’art. 140 cod. proc. civ. (come «correttamente […] la giurisprudenza di legittimità ritiene»), con conseguente perfezionamento della notificazione al momento del ricevimento della lettera contenente l’avviso di deposito (nei sensi precisati dalla sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010), secondo un criterio di effettiva conoscibilità dell’atto (art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973); b) con riferimento alla cartella di pagamento, invece, si applica la disciplina censurata, secondo un criterio legale tipico di conoscenza. Il rimettente sottolinea che l’omogeneità di tali due situazioni (riguardanti entrambe rapporti «autoritativi, caratterizzati dalla soggezione all’unilaterale potere autoritativo dell’ente impositore») non giustifica la indicata difformità di disciplina e che le disposizioni censurate non garantiscono al destinatario l’effettiva conoscenza degli atti notificati, senza che a tale diminuita garanzia corrisponda un apprezzabile interesse dell’amministrazione finanziaria notificante a non subire eccessivi aggravi, posto che l’applicazione dell’art. 140 cod. proc. civ. anche alla notificazione della cartella di pagamento non provocherebbe alcun aggravio procedimentale rispetto alle modalità di notificazione degli atti di accertamento previste dall’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 (viene citata, al riguardo, la sentenza della Corte costituzionale n. 366 del 2007).

Il giudice a quo afferma, inoltre, che le disposizioni denunciate violano anche l’art. 24 Cost., perché il debitore – nonostante sia noto il luogo della sua abitazione, ufficio od azienda – non è messo nelle condizioni, con le modalità di notificazione previste da dette disposizioni, di pervenire ad una tempestiva ed effettiva conoscenza della cartella di pagamento notificata e, pertanto, subisce una ingiustificata compressione del suo diritto di difesa (vengono citate le pronunce della Corte costituzionale n. 366 del 2007; n. 360 del 2003; n. 346 del 1998).

1.4.- In punto di rilevanza, infine, il Tribunale rimettente afferma che l’accoglimento della questione renderebbe inapplicabile alla notificazione della cartella di pagamento il denunciato primo comma, lettera e), dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ., con conseguente esclusione della tardività dell’opposizione al ruolo, in quanto la fattispecie sarebbe disciplinata da tale ultimo articolo e quindi, in base ai «principi espressi dalla […] sentenza n. 3 del 2010 della Corte cost.», dalla regola secondo cui la notificazione si perfeziona al momento del ricevimento della lettera raccomandata contenente l’avviso di deposito. Il giudice a quo precisa che, poiché in giudizio è stata documentata solo la data di spedizione e non anche quella di ricevimento della lettera raccomandata contenente l’avviso di deposito della cartella nella casa comunale, non sarebbe stato adempiuto l’onere, gravante sull’ente previdenziale, di provare l’intervenuta decadenza dall’opposizione.

2.- Si sono costituite nel giudizio di legittimità costituzionale l’INPS e la s.p.a. SCCI, parti opposte nel giudizio principale, deducendo l’inammissibilità e l’infondatezza della sollevata questione.

Quanto all’inammissibilità, viene osservato che, nel giudizio principale, l’agente della riscossione s.p.a Equitalia Polis, pur rimanendo contumace, aveva prodotto, su richiesta del giudice, la relata di notificazione della cartella opposta, dalla quale risultava che alla società cooperativa debitrice era stata inviata – tramite un’agenzia di recapito – una lettera raccomandata con ricevuta di ritorno. Ad avviso di tali parti, pertanto, l’agente della riscossione avrebbe potuto richiedere all’ufficio postale, in mancanza della ricevuta di ritorno, l’esito della spedizione ed il momento del recapito, con la conseguenza che le risposte a tale richiesta «avrebbero potuto essere risolutive della questione di merito, senza necessità alcuna di promuovere giudizio di legittimità costituzionale».

Quanto alla dedotta infondatezza, viene affermato che: a) il «quarto» [recte: terzo] comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, con l’espressione «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», opera un richiamo di tale articolo «limitato all’individuazione dell’ambito di efficacia della disposizione, ovverosia l’irreperibilità o il rifiuto a ricevere la copia»; b) nella specie, era stata data notizia al notificando del deposito nella casa comunale, «quale conclusione del procedimento di notificazione», mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, come previsto dall’art. 140 cod. proc. civ.; c) la fattispecie presa in esame nella sentenza della Corte costituzionale n. 366 del 2007 era diversa, perché in quel caso la notificazione si era risolta in un mero deposito nella casa comunale, non seguito nemmeno dalla spedizione di un avviso con lettera raccomandata, tanto che le cartelle non erano di fatto pervenute a conoscenza della destinataria; d) non sussisteva la violazione degli evocati parametri costituzionali, perché «le concrete modalità di notificazione della cartella esattoriale a persona irreperibile garantiscono che lo stesso abbia conoscenza della notifica, essendo il concessionario onerato non solo del deposito presso la casa comunale, ma anche dell’invio di raccomandata con ricevuta di ritorno al debitore».

3.- È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dell’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in via subordinata, manifestamente infondata.

L’inammissibilità è eccepita sotto tre profili: in primo luogo, perché il dubbio di illegittimità costituzionale viene riferito, nell’ordinanza di rimessione, al «comma 1» dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, mentre il perfezionamento della notificazione della cartella di pagamento è disciplinato dal successivo «comma 4» [recte: «terzo comma»] dello stesso articolo; in secondo luogo, perché il rimettente – richiamando talora gli artt. 17 e 19 del d.lgs. n. 46 del 1999 e talora l’art. 24 dello stesso decreto – non precisa la natura del credito posto in riscossione (in particolare, se di diritto pubblico o di diritto privato) e, quindi, non chiarisce se sussista o no una posizione di parità tra le parti; in terzo luogo, infine, perché la mancata produzione in giudizio della documentazione idonea a provare l’avvenuto ricevimento dell’avviso di deposito comporta l’inadempimento dell’onere probatorio gravante sull’ente previdenziale di dimostrare la tardività del ricorso e, quindi, rende «nulla la notifica della cartella e pertanto inoperante la tardività del ricorso», con conseguente irrilevanza della sollevata questione.

La manifesta infondatezza della questione è dedotta dall’Avvocatura generale sul rilievo che il regime previsto per il perfezionamento della notificazione dal denunciato art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 è espressione della discrezionalità del legislatore in materia.

4.- Con memoria depositata il 15 dicembre 2011, in prossimità della pubblica udienza del 10 gennaio 2012, l’INPS, «in proprio e quale mandatario» della s.p.a. SCCI, osserva che: a) alla s.p.a. Equitalia Polis (nel frattempo incorporata dalla s.p.a. Equitalia Sud), parte non costituita del giudizio principale, non risulta notificata – da parte della cancelleria del giudice a quo – l’ordinanza di rimessione; b) il giudice a quo ha impugnato sia l’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, sia l’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973; c) lo stesso giudice rimettente non ha esercitato i poteri riconosciutigli dall’art. 421 cod. proc. civ. per acquisire ex officio l’avviso di ricevimento della lettera raccomandata informativa del deposito inviata alla s.c. a r.l. debitrice. Da tali osservazioni l’INPS fa derivare l’inammissibilità della questione perché, rispettivamente: a) il difetto di notificazione dell’ordinanza di rimessione alla parte rimasta contumace nel giudizio principale (la s.p.a. Equitalia Polis) comporta la mancanza di un essenziale adempimento della speciale procedura prevista dal quarto comma dell’art. 23 della legge n. 87 del 1953 (secondo cui il giudice deve ordinare la notificazione dell’ordinanza «alle parti in causa»), con lesione del diritto di tale parte di costituirsi tempestivamente e di esercitare il proprio diritto di difesa nel giudizio di legittimità costituzionale (art. 25 della medesima legge n. 87 del 1953), come affermato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (da ultimo, con la sentenza n. 13 del 2006); b) i due articoli impugnati regolano fattispecie diverse; c) la mancata acquisizione, da parte del giudice, mediante i suoi poteri istruttori, dell’avviso di ricevimento della lettera raccomandata informativa rende irrilevante la questione.

5.- All’esito della pubblica udienza, questa Corte, con ordinanza n. 47 del 2012, ha ordinato – richiamando come precedente l’ordinanza n. 81 del 1964 – la restituzione degli atti al rimettente affinché provvedesse alla notificazione dell’ordinanza di rimessione all’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Polis, rimasta contumace nel giudizio principale. Il giudice a quo, effettuata la suddetta notifica all’agente della riscossione in data 13 aprile 2012, ritrasmetteva gli atti a questa Corte per la decisione.

6.- A seguito della restituzione degli atti, il giudice rimettente ha provveduto in data 13 aprile 2012 a notificare all’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Polis (non costituita nel giudizio principale) o suoi successori l’ordinanza di rimessione.

7.- Ricevuti gli atti ritrasmessi dal giudice a quo, il Presidente della Corte ha fissato per la nuova discussione l’udienza pubblica del 23 ottobre 2012.

8.- In prossimità di tale udienza si è costituita in giudizio l’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Nord – in qualità di cessionaria, con decorrenza dal 23 giugno 2011, del ramo d’azienda relativo alla riscossione dei tributi della Provincia di Padova, in forza di atto intervenuto tra detta società e la cedente s.p.a. Equitalia Polis – chiedendo che la questione sia dichiarata «inammissibile e infondata», perché, a suo avviso, è possibile pervenire ad una interpretazione conforme a Costituzione della normativa denunciata. In particolare, la parte sostiene che l’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, per i casi di notificazione a destinatario relativamente irreperibile, rinvia non già esclusivamente alle modalità di notificazione previste dal comma 1, lettera e), dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 per i casi di irreperibilità assoluta del destinatario, ma all’intero art. 60, consentendo cosí di applicare, appunto nell’ipotesi di irreperibilità relativa, il comma 1 di tale articolo e, quindi, attraverso il testuale rinvio alla disciplina di cui agli «artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile», l’art. 140 cod. proc. civ. In base a tale interpretazione (accolta, secondo l’agente della riscossione, «dalla giurisprudenza costante» e dalla quale «si sente vincolata»), si eviterebbe che la notificazione dell’avviso di accertamento avvenga con modalità diverse da quelle della cartella di pagamento; tanto piú che, nella specie, «l’avviso di deposito presso la casa comunale è stato oggetto di invio al destinatario della notifica mediante lettera raccomandata», con conseguente scissione del momento perfezionativo della notificazione per la notificante agente della riscossione e per il notificato, «alla luce di quanto statuito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 3 del 2010».

Motivi della decisione
1.- Il giudice del lavoro del Tribunale di Padova dubita – in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione – della legittimità del combinato disposto degli artt. 26, «comma 1» [recte: terzo comma, nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche apportate dall’art. 38, comma 4, lettera b, del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78, recante «Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica», convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), e 60, «comma 1» [rectius: «primo comma, alinea e lettera e)»], del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui stabilisce che la notificazione della cartella di pagamento si perfeziona nel giorno successivo a quello in cui l’avviso dell’avvenuto deposito di tale atto nella casa comunale è affisso nell’albo del Comune anche «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile» e non solo, quindi, nei casi in cui nel Comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario.

In particolare, le disposizioni impugnate stabiliscono, rispettivamente, che: 1) «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile, la notificazione della cartella di pagamento si effettua con le modalità stabilite dall’art. 60 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune» (terzo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973); 2) «La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, con le seguenti modifiche: […] e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione» (primo comma, alinea e lettera e, dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973).

Ad avviso del giudice rimettente, il censurato combinato disposto víola gli evocati parametri perché l’applicazione del suddetto procedimento notificatorio anche nell’ipotesi in cui la consegna della cartella di pagamento sia stata impedita dalla cosiddetta “irreperibilità relativa” del destinatario (cioè dalla sua temporanea assenza dal domicilio fiscale e dalla mancanza, incapacità o rifiuto di altri soggetti legittimati alla ricezione dell’atto): a) è irragionevole, in quanto rende applicabile una modalità di notificazione che presuppone la cosiddetta “irreperibilità assoluta” del destinatario (per essere ignoto il luogo in cui egli effettivamente abita, lavora od ha sede la sua azienda) ad una ipotesi in cui, invece, è noto il suo effettivo domicilio fiscale; b) crea una ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’analoga ipotesi di notificazione di un atto di accertamento a soggetto solo “relativamente irreperibile”, nella quale la notificazione va effettuata, invece, con le modalità di cui all’art. 140 cod. proc. civ., predisposte per consentire all’interessato l’effettiva conoscibilità dell’atto notificato; c) lede il diritto di difesa del destinatario, il quale non è posto nella condizione di avere conoscenza della cartella, senza che a ciò corrisponda un apprezzabile interesse del soggetto notificante.

2.- In via preliminare, l’Avvocatura generale dello Stato (per l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri) e le parti costituite nel giudizio di legittimità costituzionale (l’INPS; la s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS; l’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Nord) hanno eccepito l’inammissibilità della questione sotto vari profili.

2.1.- L’INPS eccepisce l’inammissibilità della questione assumendo che il difetto di notificazione dell’ordinanza di rimessione alla parte rimasta contumace nel giudizio principale (la s.p.a. Equitalia Polis) impedisce di ritenere perfezionata la speciale procedura di cui al quarto comma dell’art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (in forza del quale il giudice deve ordinare la notificazione dell’ordinanza «alle parti in causa») ed evidenzia la lesione del diritto della parte di costituirsi e di esercitare il proprio diritto di difesa nel giudizio di legittimità costituzionale (art. 25 della medesima legge n. 87 del 1953).

L’eccezione non è fondata per le ragioni già esposte nell’ordinanza n. 47 del 2012 alle quali si fa qui integrale richiamo.

2.2.- La difesa dello Stato eccepisce, poi, che la questione è inammissibile perché il rimettente è incorso in una aberratio ictus, avendo indicato, quale disposizione censurata, il «comma 1» dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, relativo alle forme di notificazione della cartella di pagamento e rispetto al quale non sono pertinenti le prospettate censure, e non il successivo «comma 4» [recte: «terzo comma»] dello stesso articolo, il quale precisa le denunciate modalità e il momento di perfezionamento della notificazione di pagamento nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.

Anche tale eccezione non è fondata.

Dal complessivo tenore dell’ordinanza di rimessione risulta chiaramente, infatti, che il giudice a quo ha inteso censurare l’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 nella parte in cui dispone che, «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», la notificazione della cartella di pagamento si perfeziona «nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune». Ne deriva che l’oggetto della sollevata questione è costituito esclusivamente dal terzo comma di detto art. 26, il quale ha appunto tale contenuto normativo, a nulla rilevando che nell’ordinanza di rimessione sia erroneamente indicato, per un evidente lapsus calami, il «comma 1», anziché il solo «terzo comma», dell’articolo («terzo», beninteso, in relazione al testo applicabile alla fattispecie di causa ratione temporis, corrispondente all’attuale «quarto» comma, per effetto delle modifiche apportate dall’art. 38, comma 4, lettera b, del decreto-legge n. 78 del 2010, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 122 del 2010).

2.3.- L’Avvocatura generale dello Stato eccepisce, altresí, l’inammissibilità della questione per omessa descrizione della fattispecie, perché il rimettente non ha precisato la natura del credito posto in riscossione (in particolare, se di diritto pubblico o di diritto privato) e, quindi, non chiarisce se sussista una posizione di parità tra le parti.

Neppure tale eccezione è fondata.

Innanzi tutto, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa dello Stato, nell’ordinanza di rimessione è espressamente affermato sia che il giudizio principale ha ad oggetto la riscossione di crediti previdenziali dell’INPS, sia che l’opposizione è stata proposta dal debitore ai sensi dell’art. 24, comma 5, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, recante «Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337»), cioè davanti al giudice del lavoro avverso l’iscrizione a ruolo di crediti di enti previdenziali. Non sussiste, dunque, dubbio alcuno circa la natura previdenziale e non tributaria dei crediti menzionati nella cartella di pagamento oggetto di opposizione nel giudizio principale.

Oltre a ciò, va rilevato, in punto di diritto, che il denunciato combinato disposto degli artt. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 si applica alle notificazioni delle cartelle di pagamento riguardanti tutte le entrate riscosse mediante ruolo previste dagli artt. 17 e 18 del d.lgs. n. 46 del 1999 e, quindi, anche le entrate non tributarie dello Stato e degli altri enti pubblici, anche previdenziali, esclusi quelli economici. In particolare, poiché gli artt. 19 e 20 del medesimo d.lgs. n. 46 del 1999 non ricomprendono i censurati articoli nell’elenco di quelli applicabili alle sole entrate tributarie, è irrilevante – ai fini della questione di legittimità costituzionale – se i crediti indicati nella cartella siano di natura previdenziale o tributaria, dovendo il giudice a quo far applicazione in ogni caso della denunciata normativa.

2.4.- L’INPS, la s.p.a. Società di cartolarizzazione dei crediti INPS (SCCI) e l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri deducono l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, perché il mancato raggiungimento, nel giudizio principale (secondo quanto segnalato dallo stesso rimettente), della prova dell’avvenuto ricevimento, da parte del debitore, della lettera raccomandata spedita dall’agente della riscossione recante la notizia del deposito della cartella nella casa comunale avrebbe dovuto indurre, alternativamente: a) l’agente della riscossione (contumace nel giudizio a quo) a fornire tale prova, al fine di rendere inutile la questione medesima (eccezione sollevata dall’INPS e dalla predetta società per azioni); b) il giudice rimettente a prendere atto dell’inadempimento dell’onere probatorio gravante sull’ente previdenziale di dimostrare la tardività del ricorso e, quindi, a dichiarare «nulla la notifica della cartella» e tempestivo il ricorso, con conseguente irrilevanza della questione (eccezione sollevata dalla difesa dello Stato).

Neanche questa eccezione è fondata.

2.4.1.- Come puntualmente osserva il giudice rimettente, il denunciato combinato disposto non prevede, «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», alcun invio al debitore di una lettera raccomandata recante la notizia del deposito nella casa comunale della cartella di pagamento non potuta notificare per la sua irreperibilità “relativa” (dovuta, come visto, alla temporanea assenza dalla casa di abitazione o dal luogo in cui ha l’ufficio od esercita l’industria o il commercio, nonché alla mancanza, incapacità o rifiuto di altri soggetti legittimati alla ricezione dell’atto). L’univoco e dettagliato contenuto delle impugnate disposizioni esclude, infatti, la possibilità di interpretarle nel senso che, nei casi di irreperibilità meramente “relativa” del destinatario della notificazione, si applichino le modalità notificatorie previste dal citato art. 140 cod. proc. civ., quali precisate dalla sentenza di questa Corte n. 3 del 2010. L’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 – stabilendo in modo inequivoco che, nei casi suddetti, la notificazione della cartella si perfeziona il giorno successivo a quello in cui è stato affisso nell’albo comunale l’avviso di deposito della cartella nella casa comunale – è palesemente incompatibile con il disposto dell’art. 140 cod. proc. civ., secondo cui la notificazione si perfeziona soltanto con la ricezione della lettera raccomandata contenente la notizia del deposito della cartella nella casa comunale o, comunque, decorsi dieci giorni dalla spedizione di detta lettera. Ne deriva l’impossibilità di una interpretazione adeguatrice che consenta di applicare integralmente alla fattispecie di causa il medesimo art. 140 cod. proc. civ. Va precisato che non risulta essersi formato un diritto vivente al riguardo, perché nella giurisprudenza di legittimità si rinviene una sola pronuncia sullo specifico tema, la quale sembra ammettere l’applicazione delle formalità di cui all’art. 140 cod. proc. civ. nella notificazione della cartella di pagamento al contribuente “relativamente” irreperibile (ordinanza n. 14316 del 2011), limitandosi ad affermare, senza specifica motivazione e nell’ambito di un discorso meramente ipotetico, che in tal caso il deposito nella casa comunale della cartella costituisce un adempimento ulteriore («un quid pluris») rispetto a quelli previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.

2.4.2.- Nella specie, ove la notificazione della cartella di pagamento si fosse perfezionata – in base all’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, come sopra interpretato – in data 14 agosto 2009 (cioè il giorno successivo a quello in cui è stato affisso nell’albo comunale l’avviso di deposito della cartella nella casa comunale), l’opposizione al ruolo dovrebbe considerarsi tardiva, perché proposta il 25 settembre 2009, cioè dopo la scadenza del termine decadenziale di 40 giorni decorrente dalla notificazione della cartella, previsto dall’art. 24, comma 5, del d.lgs. n. 46 del 1999 per le opposizioni avverso l’iscrizione a ruolo di crediti previdenziali. Sussiste, perciò, la rilevanza della sollevata questione, perché le modalità di notificazione stabilite dall’art. 140 cod. proc. civ., delle quali il rimettente invoca l’applicazione quale conseguenza della richiesta pronuncia di illegittimità costituzionale, renderebbero tempestiva l’opposizione, altrimenti tardiva.

2.4.3.- Le parti costituite e l’intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri obiettano a tale conclusione che, con riguardo alla cartella di pagamento oggetto del giudizio principale, l’agente della riscossione ha comunque applicato, di fatto, il procedimento notificatorio previsto dall’art. 140 cod. proc. civ., in quanto ha inviato al debitore una lettera raccomandata contenente la notizia del deposito nella casa comunale, anche se a tale invio non era obbligato dal denunciato art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973.

L’obiezione non può accogliersi.

In proposito, va preliminarmente osservato che la questione sarebbe irrilevante soltanto a condizione che, nel caso concreto, l’opposizione al ruolo previdenziale proposta dal debitore fosse tardiva anche ove si applicasse – per individuare il momento perfezionativo della notificazione della cartella e, quindi, il dies a quo del termine previsto per proporre l’azione – l’art. 140 cod. proc. civ. È evidente, infatti, che se, alla stregua di quest’ultimo articolo, l’azione del debitore fosse, invece, tempestiva, la questione sarebbe rilevante, perché il giudice a quo potrebbe esaminare il merito della controversia previdenziale solo per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, in base alle quali si sarebbe maturata, come visto, la decadenza dall’azione.

Nella fattispecie, l’applicabilità delle modalità previste dall’art. 140 cod. proc. civ. alla notificazione della cartella di pagamento renderebbe tempestiva l’opposizione e, pertanto, rilevante la questione. A tale conclusione si giunge attraverso due distinte argomentazioni, procedenti entrambe dalla circostanza, riferita dal rimettente, che nel giudizio principale non è stata raggiunta la prova della ricezione della raccomandata informativa dell’avvenuto deposito della cartella nella casa comunale.

In primo luogo, occorre sottolineare che l’art. 140 cod. proc. civ. richiede non solo che al destinatario sia data notizia del deposito nella casa comunale mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, ma anche che l’avviso del deposito sia affisso, in busta chiusa e sigillata, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario medesimo. Nel caso in esame, la notificazione sarebbe viziata, ai sensi del predetto articolo, perché l’affissione alla porta del destinatario non risulta essere stata effettuata e perché al vizio derivante da tale omissione non sarebbe applicabile – proprio per il riferito difetto di prova della ricezione della lettera raccomandata – la sanatoria per raggiungimento dello scopo derivante, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, dalla ricezione della lettera informativa del deposito nella casa comunale (ex plurimis, le pronunce della Corte di cassazione, n. 11713 del 2011 e n. 15856 del 2009, che consolidano l’orientamento in precedenza espresso, tra le tante, dalle sentenze n. 14817 e n. 5450 del 2005, nonché n. 8929 del 1998). L’invalidità della notificazione della cartella renderebbe tempestiva, cosí, l’opposizione al ruolo e rilevante la questione di legittimità costituzionale.

In secondo luogo, va osservato che, ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., nel testo risultante a séguito della sentenza di questa Corte n. 3 del 2010, la notificazione si perfeziona, per il destinatario, il giorno del ricevimento della lettera raccomandata informativa o, comunque, con il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione di tale raccomandata (nello stesso senso si è espressa anche la sentenza della Corte di cassazione n. 11713 del 2011, in dichiarata adesione alla citata pronuncia della Corte costituzionale). Dalla mancata prova della ricezione della lettera raccomandata discende che la notificazione della cartella – anche a voler considerare comunque valida tale notificazione ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ. ed a voler computare il suo momento perfezionativo nel modo piú favorevole per l’ente previdenziale – può ritenersi perfezionata non prima del decimo giorno successivo alla spedizione della notizia del deposito (deposito avvenuto il 13 agosto 2009) e, pertanto, non prima del 23 agosto 2009, con conseguente tempestività dell’opposizione, proposta il successivo 25 settembre, prima della scadenza del termine di 40 giorni decorrente dalla notificazione della cartella stessa. Ne deriverebbe, anche per questo aspetto, la rilevanza della questione proposta dal rimettente, intesa a rendere applicabile l’art. 140 cod. proc. civ. alla notificazione della cartella di pagamento.

2.5.- L’agente della riscossione s.p.a. Equitalia Nord (successore della s.p.a. Equitalia Polis), infine, ha eccepito l’inammissibilità della questione perché il rimettente non ha tentato di pervenire ad una interpretazione conforme a Costituzione della normativa denunciata. La parte sostiene che l’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, nel rinviare, per la notificazione a destinatario relativamente irreperibile, all’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, richiama tale articolo nel suo complesso e non esclusivamente alla lettera e) del primo comma. Ciò consentirebbe di applicare la disciplina di cui agli «artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile» (come recita l’alinea del primo comma dell’art. 60), ivi compreso l’art. 140 cod. proc. civ., e, quindi, di pervenire in via interpretativa allo stesso risultato che deriverebbe dalla richiesta dichiarazione di illegittimità costituzionale.

L’eccezione non è fondata, perché la normativa denunciata non consente – come sottolineato dal rimettente – la prospettata interpretazione adeguatrice a Costituzione, secondo quanto risulta dall’esame delle disposizioni denunciate e dai diversi significati ad esse ascrivibili.

2.5.1.- Con riguardo alla notificazione degli atti di accertamento, l’alinea e la lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 stabiliscono che «La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile, con le seguenti modifiche: […] e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 del codice di procedura civile, in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione».

Tali disposizioni sono costantemente interpretate dalla giurisprudenza di legittimità e di merito, ormai assurta a diritto vivente (ex plurimis, Corte di cassazione, sentenze n. 14030 del 2011; n. 3426 del 2010; n. 15856 e n. 10177 del 2009; n. 28698 del 2008; n. 22677 e n. 20425 del 2007), nel senso che, se il destinatario dell’atto di accertamento è temporaneamente assente dal (noto) suo domicilio fiscale (sia esso la casa di abitazione, l’ufficio od il luogo in cui esercita l’industria o il commercio) e se non è possibile consegnare l’atto per irreperibilità, incapacità o rifiuto delle persone legittimate alla ricezione (in altri termini: se ricorrono i casi di irreperibilità cosiddetta “relativa”, previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.), la notifica si perfeziona con il compimento delle attività stabilite dall’art. 140 cod. proc. civ., richiamato dall’alinea del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 («La notificazione […] è eseguita secondo le norme stabilite dagli articoli 137 e seguenti del codice di procedura civile»). Occorrono, dunque, per perfezionare la notificazione di un atto di accertamento ad un destinatario “relativamente” irreperibile: a) il deposito di copia dell’atto, da parte del notificatore, nella casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi; b) l’affissione dell’avviso di deposito (avviso avente il contenuto precisato dall’art. 48 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile), in busta chiusa e sigillata, alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario; c) la comunicazione, mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, dell’avvenuto deposito nella casa comunale dell’atto di accertamento; d) il ricevimento della lettera raccomandata informativa o, comunque, il decorso del termine di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata informativa (sentenza n. 3 del 2010 di questa Corte).

Le modalità di notificazione dell’atto di accertamento previste dalla lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 sono applicabili, invece, nella diversa ipotesi di cosiddetta “irreperibilità assoluta” del destinatario (quando, cioè, il domicilio fiscale risulti oggettivamente inidoneo, per effetto della mancanza, nel Comune in cui deve essere eseguita la notificazione, dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del contribuente). In tal caso occorrono, per perfezionare la notificazione: a) il deposito di copia dell’atto di accertamento, da parte del notificatore, nella casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi; b) l’affissione dell’avviso di deposito (avviso avente lo stesso contenuto di quello indicato negli artt. 140 cod. proc. civ. e 48 disp. att. cod. proc. civ.), in busta chiusa e sigillata, nell’albo del medesimo Comune; c) il decorso del termine di otto giorni dalla data di affissione nell’albo comunale. L’irreperibilità “assoluta” del destinatario impedisce, ovviamente, di inviargli la raccomandata informativa dell’avvenuto deposito nella casa comunale. Secondo questo procedimento, dunque, la notificazione di un atto di accertamento ad un destinatario “assolutamente” irreperibile si perfeziona nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione nell’albo comunale.

2.5.2.- Con riguardo alla diversa ipotesi di notificazione delle cartelle di pagamento, il censurato terzo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 stabilisce che, «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», la notificazione si effettua con le modalità stabilite dall’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 e «si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune».

Il suddetto terzo comma dell’art. 26 (corrispondente al quarto comma del testo attualmente vigente dello stesso articolo), nel menzionare l’affissione nell’albo comunale dell’avviso di deposito e nel fissare il momento perfezionativo della notificazione nel giorno successivo a quello di detta affissione, si riferisce evidentemente soltanto alle modalità notificatorie previste dalla sopra esaminata lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973. Tale letterale e specifico riferimento all’affissione nell’albo comunale impedisce, cioè, di ritenere, nel caso di destinatario relativamente irreperibile, che il richiamo alle modalità di notificazione stabilite dal citato art. 60 possa intendersi alla stregua di un richiamo alle modalità previste dall’art. 140 cod. proc. civ. Tra queste, infatti, è prevista non l’affissione all’albo comunale, ma solo l’affissione alla porta del destinatario ed il deposito nella casa comunale. Ne deriva l’impraticabilità dell’interpretazione prospettata dall’agente della riscossione, in quanto essa appare basata su una lettura palesemente contrastante sia con la lettera della legge che con l’intento del legislatore di ridurre le formalità della notificazione agli irreperibili delle cartelle di pagamento. Poiché, contrariamente a quanto affermato dalla s.p.a. Equitalia Nord, non risulta neppure che detta interpretazione antiletterale costituisca diritto vivente, occorre scrutinare nel merito la questione, valutando la conformità a Costituzione delle denunciate disposizioni, interpretate – come di norma – secondo il senso fatto palese dal significato proprio delle parole, secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore.

3.- Nel merito, il rimettente deduce, tra l’altro, che la disciplina della notificazione da effettuarsi a soggetto temporaneamente assente dalla sua casa di abitazione o dal luogo in cui ha l’ufficio od esercita l’industria o il commercio è ingiustificatamente diversa (nel caso in cui non sia possibile consegnare l’atto per irreperibilità, incapacità o rifiuto delle persone abilitate alla ricezione), a seconda che oggetto della notificazione sia un atto di accertamento oppure una cartella di pagamento. Nel primo caso, infatti, si applicherebbero le modalità di notificazione previste dall’art. 140 cod. proc. civ.; nel secondo, invece, solo quelle previste dall’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, che garantiscono al destinatario una minore conoscibilità dell’atto.

La questione è fondata.

3.1.- Come emerge dalla sopra ricordata ricostruzione del quadro normativo in cui si inseriscono le censurate disposizioni, nell’ipotesi di irreperibilità meramente “relativa” del destinatario (cioè «nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile», come recita il denunciato terzo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973), la cartella di pagamento va notificata applicando non l’art. 140 cod. proc. civ., ma le formalità previste per la notificazione degli atti di accertamento a destinatari “assolutamente” irreperibili (lettera e del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973). Pertanto, nonostante che il domicilio fiscale sia noto ed effettivo, non sono necessarie, per la validità della notificazione della cartella, né l’affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, né la comunicazione del deposito mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Inoltre, in forza dell’ultimo comma (quinto comma, trasfuso nel piú ampio attuale sesto comma) dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 – secondo cui «Per quanto non è regolato dal presente articolo, si applicano le disposizioni dell’art. 60 del predetto decreto» n. 600 del 1973 -, le sopra ricordate modalità di notificazione previste dalla menzionata lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 sono applicabili non solo, come visto, nell’ipotesi in cui il destinatario della cartella di pagamento sia solo “relativamente” irreperibile («nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.»), ma anche in quella in cui detto destinatario sia “assolutamente” (cioè oggettivamente e permanentemente) irreperibile.

3.2.- Da quanto precede risulta, dunque, che – come esattamente rilevato dal rimettente – nella medesima ipotesi di irreperibilità “relativa” del destinatario (cioè nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ.), la notificazione si esegue con modalità diverse, a seconda che l’atto da notificare sia un atto di accertamento oppure una cartella di pagamento: nel primo caso, si applicano le modalità previste dall’art. 140 cod. proc. civ.; nel secondo caso, quelle previste dalla lettera e) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973.

Tale peculiarità della normativa riguardante la notificazione a soggetto “relativamente” irreperibile comporta che, nella notificazione di un atto di accertamento, l’avvenuto deposito di tale atto nella casa comunale viene comunicato al destinatario sia con l’affissione di un avviso alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, sia con l’invio di una lettera raccomandata con avviso di ricevimento e, quindi, secondo modalità improntate al criterio dell’effettiva conoscibilità dell’atto. Viceversa, nella notificazione di una cartella di pagamento, l’avvenuto deposito di questa nella casa comunale non viene comunicato al destinatario, né con l’affissione alla porta, né con l’invio di una raccomandata informativa, ma – essendo prevista solo l’affissione nell’albo del Comune – secondo modalità improntate ad un criterio legale tipico di conoscenza della cartella. Tale disciplina, con riferimento alla cartella di pagamento, non assicura, dunque, né l’«effettiva conoscenza da parte del contribuente», né, quale mezzo per raggiungere tale fine, la comunicazione «nel luogo di effettivo domicilio del contribuente, quale desumibile dalle informazioni in possesso della […] amministrazione» finanziaria; finalità queste fissate dal comma 1 dell’art. 6 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente).

3.3.- Siffatta evidente diversità della disciplina di una medesima situazione (notificazione a soggetto “relativamente” irreperibile) non appare riconducibile ad alcuna ragionevole ratio, con violazione dell’evocato art. 3 Cost. Per ricondurre a ragionevolezza il sistema, è necessario pertanto, nel caso di irreperibilità “relativa” del destinatario, uniformare le modalità di notificazione degli atti di accertamento e delle cartelle di pagamento. A questo risultato si perviene restringendo la sfera di applicazione del combinato disposto degli artt. 26, terzo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 e 60, primo comma, alinea e lettera e), del d.P.R. n. 600 del 1973 alla sola ipotesi di notificazione di cartelle di pagamento a destinatario “assolutamente” irreperibile e, quindi, escludendone l’applicazione al caso di destinatario “relativamente” irreperibile, previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. In altri termini, la notificazione delle cartelle di pagamento con le modalità indicate dal primo comma, alinea e lettera e), dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 deve essere consentita solo ove sussista lo stesso presupposto richiesto dalla medesima lettera e) per la notificazione degli atti di accertamento: la mancanza, nel Comune, dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario (irreperibilità “assoluta”).

Ne consegue che, in accoglimento della sollevata questione di costituzionalità, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’impugnato terzo comma (corrispondente all’attualmente vigente quarto comma) dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 nella parte in cui dispone che, «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile, la notificazione della cartella di pagamento si esegue con le modalità stabilite dall’art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600», invece che: «Quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, la notificazione della cartella di pagamento si esegue con le modalità stabilite dall’art. 60, primo comma, alinea e lettera e), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600». Per effetto di tale pronuncia, nei casi di irreperibilità “relativa” (cioè nei casi di cui all’art. 140 cod. proc. civ.), sarà applicabile, con riguardo alla notificazione delle cartelle di pagamento, il disposto dell’ultimo comma dello stesso art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, in forza del quale – come visto – «Per quanto non è regolato dal presente articolo, si applicano le disposizioni dell’art. 60 del predetto decreto» n. 600 del 1973 e, quindi, in base all’interpretazione data a tale normativa dal diritto vivente, quelle dell’art. 140 cod. proc. civ., cui anche rinvia l’alinea del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973.

Resta assorbita la censura basata sulla violazione dell’art. 24 Cost.

P.Q.M.
LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale del terzo comma (corrispondente all’attualmente vigente quarto comma) dell’art. 26 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nella parte in cui stabilisce che la notificazione della cartella di pagamento «Nei casi previsti dall’art. 140 del codice di procedura civile […] si esegue con le modalità stabilite dall’art. 60 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600», anziché «Nei casi in cui nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi sia abitazione, ufficio o azienda del destinatario […] si esegue con le modalità stabilite dall’art. 60, primo comma, alinea e lettera e), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600».

Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 novembre 2012.

Depositata in Cancelleria il 22 novembre 2012.


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 04-10-2012) 05-11-2012, n. 18921

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 3609/2007 proposto da:

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A., (già FERROVIE DELLO STATO SOCIETA’ DI TRASPORTI E SERVIZI PER AZIONI), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR 19, presso lo studio dell’avvocato DE LUCA TAMAJO RAFFAELE, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.M., + ALTRI OMESSI elettivamente domiciliati in ROMA, CORSO TRIESTE 56/A, presso lo studio dell’avvocato PENNA CLAUDIO, rappresentati e difesi dall’avvocato MARZIALE GIUSEPPE, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

e contro

V.L., + ALTRI OMESSI ;

– intimati –

avverso la sentenza n. 96/2006 del TRIBUNALE di NAPOLI, depositata il 23/01/2006 r.g.n. 44814/99;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/2012 dal Consigliere Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROMANO Giulio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
D.C., + ALTRI OMESSI quali dipendenti della Ferrovie dello Stato spa (oggi Rete Ferroviaria Italiana spa), negli anni ’80 dello scorso secolo erano addetti alle Officine Grandi Riparazioni di (OMISSIS), ove, fino al marzo 1987, venivano effettuate operazioni di rimozione dell’amianto da vagoni ferroviari, mentre successivamente la Società aveva affidato tali operazioni all’esterno, restando in proposito alle Officine il compito di procedere, in un’area dedicata (Zona A ed, eccezionalmente, Zona B), unicamente a lavori di rimozione di eventuali residui di amianto, prima di effettuare le necessarie riparazioni e manutenzioni dei vagoni.

In tale contesto operativo, già nel maggio – giugno 1988, i lavoratori dell’Officina avevano ripetutamele chiesto, anche astenendosi temporaneamente dalle lavorazioni da effettuare a contatto con l’amianto, interventi aziendali di bonifica degli impianti, effettivamente poi realizzati dall’Ente tra il giugno e il novembre del medesimo anno; ritenendo, anche a seguito della conoscenza di un verbale di sopralluogo del 1 dicembre 1988 sugli impianti da parte del medico e dell’ufficiale sanitario delle Ferrovie, che l’ambiente lavorativo non presentasse ancora sufficiente sicurezza per la salute degli addetti, le organizzazioni sindacali interne avevano in data 8 febbraio 1989 riproposto all’Ente Ferrovie dello Stato la richiesta di immediata sospensione del lavoro nei settori ritenuti pericolosi per procedere a più risolutivi interventi; al diniego da parte della parte datoriale, i lavoratori decisero di astenersi dal 14 febbraio 1989, a tempo indeterminato, dalle sole lavorazioni di bonifica dell’amianto, timbrando ogni giorno il cartellino all’entrata e quindi restando in attesa di eventuali richieste di lavori diversi.

Tale situazione si protrasse fino al 31 marzo 1989, data nella quale, anche a seguito di un provvedimento del Pretore di Firenze (intervenuto il 7 marzo 1989 su denuncia di alcuni dipendenti) di immediata chiusura dei capannoni di lavorazione dei rotabili esistenti presso lo stabilimento, con prescrizioni relative ad una serie di modifiche agli impianti e ai sistemi di lavorazione (capannoni poi riaperti su provvedimento del Pretore di Firenze del 21 giugno 1989 – dichiarato dalla Cassazione incompetente in ordine al procedimento penale avviato – e del Pretore di Torre del Greco del 24 giugno 1989), l’astensione cessò.

Poiché la parte datoriale non aveva erogato ai partecipanti all’astensione la retribuzione relativa al periodo 14.2 – 31.3.1989, gli odierni intimati, assumendo di avere, con l’astensione, reagito all’inadempimento della datrice di lavoro in relazione agli obblighi sulla stessa incombenti in materia di sicurezza, adirono il Pretore di Napoli per ottenerne la condanna al pagamento della retribuzione non corrisposta a titolo di risarcimento del danno, originato a loro carico da tale inadempimento.

Il Giudice adito accolse le domande.

Con sentenza del 5.12.2005 – 23.1.2006, il Tribunale di Napoli rigettò il gravame proposto dalla Ferrovie dello Stato spa; pur dando atto che in precedenti procedimenti penali il responsabile delle Officine era stato assolto dal Pretore di Torre del Greco per non aver commesso il fatto dalla imputazione di lesioni colpose ai danni di alcuni dipendenti (sentenza del 6 aprile 1998 n. 117) e prosciolto per amnistia in relazione all’imputazione di violazione delle norme di cui del D.P.R. n. 303 del 1956, art. 21, e del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 354, (sentenza del 25 luglio 1990), il Tribunale, soprattutto sulla base dell’analisi di due perizie svolte nell’ambito di quest’ultimo procedimento e acquisite agli atti, rilevò una serie di difetti negli impianti e nell’organizzazione del lavoro afferente alle operazioni di bonifica dall’amianto, ritenuti pericolosi per la salute degli addetti a tali lavorazioni e che, pertanto, avevano giustificato il rifiuto della prestazione nei relativi ambienti lavorativi da parte dei lavoratori, che, in tal modo, avevano reagito all’inadempimento da parte del datore di lavoro agli obblighi di cui alle leggi citate e più in generale a quelli nascenti dall’art. 2087 c.c..

Avverso l’anzidetta sentenza resa in grado d’appello, la Rete Ferroviaria Italiana spa ha proposto ricorso per cassazione fondato su tre motivi e illustrato con memoria.

Gli intimati D.C., + ALTRI OMESSI hanno resistito con controricorso.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, nonchè per violazione dell’art. 2087 c.c., deducendo che il contenuto dell’obbligazione di cui alla suddetta norma va valutato in relazione alle conoscenze e ai mezzi a disposizione al tempo cui si riferisce il fatto esaminato e che il rispetto di tale obbligo si misura alla stregua delle tecnologie e degli accorgimenti organizzativi e procedurali generalmente acquisiti e praticati in quel determinato momento storico; la sentenza impugnata avrebbe invece omesso di effettuare tale operazione di storicizzazione dei doveri imprenditoriali, non considerando in maniera adeguata che nel periodo oggetto di causa (anno 1989, quando l’uso dell’amianto non era stato ancora vietato e non erano stati ancora stabiliti i valori limite di tollerabilità nel trattamento dello stesso) le precauzioni adottate dalla Società nella scelta dei macchinari e degli impianti istallati nelle Officine e nella relativa organizzazione del lavoro erano in perfetta sintonia con la legislazione e con le conoscenze scientifiche del tempo, come del resto accertato nella sentenza del Pretore di Torre del Greco del 6 aprile 1998, che aveva testualmente affermato che l’imputato (responsabile dell’Officina) “ha adottato, dal 1982 al 1993, tutte quelle misure antinfortunistiche che l’evoluzione tecnologica ha, nel corso degli anni, consentito di applicare”: il Tribunale, pur citando tale sentenza, non aveva poi tenuto alcun conto delle relative motivazioni, fondando sostanzialmente le proprie valutazioni su rilievi ampiamente estrapolati dalle due perizie svolte nel 1989 su incarico del Pretore di Torre del Greco nell’altro procedimento penale concluso nel 1990, sostanzialmente peraltro ignorando altri preziosi ed importanti elementi emergenti da tali perizie, esprimenti una valutazione positiva in ordine al comportamento delle Ferrovie sul piano considerato (quali i risultati dei campionamenti effettuati; la limitata esposizione alle fibre di amianto per ciascun lavoratore; il fatto che nessuno dei trentasette lavoratori esaminati era risultato affetto da asbestosi; che 17 su 33 lavoratori esposti al rischio presentavano fibre di amianto nell’espettorato, tracce che peraltro avevano presentato anche tre su quattro lavoratori mai addetti ai reparti a rischio); in definitiva, quindi, la valutazione di responsabilità della parte datoriale risultava fondata su semplici presunzioni, non avendo i lavoratori fornito in giudizio elementi sufficienti a provarla.

Con il secondo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, nonché violazione dell’art. 1460 c.c., deducendo che il Tribunale aveva ritenuto legittima l’eccezione di inadempimento formulata dai lavoratori omettendo di accertare se effettivamente ciascuno di essi fosse stato adibito alle lavorazioni ritenute pericolose.

Con il terzo motivo la ricorrente denuncia vizio di motivazione, per avere il Tribunale escluso che in realtà gli odierni intimati avevano posto in essere un’azione di sciopero, operando una ricostruzione solo parziale del loro comportamento nel periodo considerato; secondo la prassi aziendale, infatti, la presenza in azienda veniva certificata non solo dalla timbratura del cartellino all’ingresso, ma anche dalla attestazione di successiva presenza nel reparto di appartenenza; poichè i lavoratori non si erano mai presentati in quei giorni nel reparto di appartenenza per porsi eventualmente a disposizione per l’espletamento di lavori diversi da quelli in cui era implicato l’amianto, la loro astensione collettiva avrebbe dovuto essere qualificata come sciopero e non come reazione al preteso inadempimento della società.

2. In ordine al primo motivo, osserva il Collegio che, secondo la condivisa giurisprudenza di questa Corte (cfr, ex plurimis, Cass., nn. 2491/2008; 644/2005, ambedue in materia di cautele contro il rischio da amianto, anche in anni tra i ’60 e gli ’80 del secolo scorso), la responsabilità dell’imprenditore ex art. 2087 c.c., pur non configurando una ipotesi di responsabilità oggettiva, non è circoscritta alla violazione di regole di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma deve ritenersi volta a sanzionare, alla luce delle garanzie costituzionali del lavoratore, l’omessa predisposizione da parte del datore di lavoro di tutte quelle misure e cautele atte a preservare l’integrità psicofisica e la salute del lavoratore sul luogo di lavoro, tenuto conto della concreta realtà aziendale e della sua maggiore o minore possibilità di venire a conoscenza e di indagare sull’esistenza di fattori di rischio in un determinato momento storico; inoltre, nel caso in cui il datore di lavoro non adotti, a norma dell’art. 2087 c.c., tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e le condizioni di salute del prestatore di lavoro, rendendosi così inadempiente ad un obbligo contrattuale, questi, oltre al risarcimento dei danni, ha in linea di principio il diritto di astenersi dalle specifiche prestazioni la cui esecuzione possa arrecare pregiudizio alla sua salute (cfr, Cass., n. 11664/2006).

La sentenza impugnata non si è discostata da tali principi nella valutazione delle risultanze istruttorie relative ai fatti rappresentati in giudizio a sostegno delle domande e delle eccezioni delle parti; infatti, facendo corretta applicazione della regola per cui compete al giudice di merito la valutazione delle risultanze istruttorie, attingendo a quelle che ritiene più attendibili e idonee a sostenere il proprio convincimento e fornendo al riguardo una motivazione che dia conto della formazione di esso sulla base dell’esame complessivo di tutte le prove (cfr, ex plurimis, Cass., SU, n. 898/1999), il Tribunale (che in questa attività valutativa di merito è censurabile in sede di legittimità unicamente per errori evidenti e vizi logici cadenti su di uno snodo decisivo di essa) ha anzitutto tenuto adeguato conto delle considerazioni svolte dal Pretore di Torre del Greco nella sentenza di assoluzione del 1998, valutando come scarsamente rilevanti, nel presente procedimento, gli accertamenti operati in quella sede e posti alla base delle valutazioni del giudice penale, in ragione del fatto che essi erano consistiti in sopralluoghi e analisi della organizzazione aziendale di gran lunga posteriori all’anno 1989, nonché nella elencazione di macchinai acquistati nel tempo dalla Società per predisporre le tutele nel settore in esame, e tenendo poi contro delle perizie ambientale e medico legale svolte nel luglio 1989, in prossimità quindi dell’epoca dei fatti, nell’ambito dell’altro procedimento penale concluso con una sentenza di non doversi procedere per amnistia, che avevano evidenziato gravi difetti soprattutto nella organizzazione del lavoro negli ambienti ove avveniva la bonifica dall’amianto.

Tali difetti attenevano, tra l’altro, all’imperfetto isolamento dei suddetti ambienti, con conseguente possibile dispersione di polveri e fibre di amianto nelle zone circostanti; al difettoso trattamento delle acque di lavaggio del sottocassa; al fatto che le superfici delle pareti della zona deputata alla bonifica avevano una consistenza tale da rendere difficile una loro decontaminazione attraverso gli interventi di pulizia predisposti dalla società, anche nella zona in cui venivano effettuati operazioni di sostituzione dei filtri ed ove quindi potevano trovare sviluppo e dispersione fibre di amianto; alla inidoneità dell’impianto di immissione e di estrazione dell’aria in tale ambiente;

all’inidoneità del casco a evitare l’introduzione di fibre di amianto all’interno di esso.

Pertanto i giudici d’appello hanno valutato che tali perizie dimostravano che nell’Officina di Santa Maria La Bruna, nel periodo in questione, si era creato un rischio ambientale di esposizione ad inalazione di fibre di amianto per tutti i lavoratori dipendenti e tanto sia per la colpevole gestione della zona B, sia per le carenze di tutela nella zona A, coerentemente concludendo nel senso che la Società si era resa inadempiente agli obblighi di cui all’art. 2087 c.c., non per la mancata applicazione di nuove tecnologie, ma in ragione della violazione delle norme di comportamento da essa stessa dettate in materia di trattamento dell’amianto con la propria circolare del 1 aprile 1983, quando, a seguito dell’evolvere delle conoscenze mediche e dell’adozione da parte della Comunità delle direttive del 1980, del 1982 e del 1983, era ormai divenuto pienamente noto il rischio di tumore derivante dalla esposizione alle fibre di amianto.

In proposito, la ricorrente deduce peraltro che i giudici avrebbero trascurato alcuni elementi delle perizie che militerebbero nel senso della piena adozione da parte della società di misure idonee alla salvaguardia della salute dei lavoratori della officina; tale eccezione è però sostenuta dalla estrapolazione di alcune frasi o parti di frasi dalle perizie, delle quali non è pertanto possibile cogliere completamente il significato, anche alla luce di ciò che di diverso ampiamente riproduce il testo della sentenza impugnata, cosicché deve ritenersi che tali rilievi non siano stati evidentemente ritenuti sufficientemente significativi dal Tribunale nel contesto della integrale lettura delle relazioni peritali.

Deve quindi convenirsi che, esclusa la erroneità della interpretazione dell’art. 2087 cc, le censure formulate con il motivo all’esame non incidono sulla correttezza, sul piano dell’iter logico seguito e della corrispondenza delle argomentazioni alle risultanze istruttorie, delle conclusioni assunte con la sentenza impugnata, onde il motivo va rigettato.

3. La questione svolta con il secondo motivo non risulta trattata nella sentenza impugnata, nè la ricorrente specifica i termini e i modi con cui la stessa sarebbe stata devoluta al Giudice del gravame.

Configurandosi quindi come questione nuova, il secondo motivo deve ritenersi inammissibile.

4. In ordine al terzo motivo deve rilevarsi che il Tribunale ha ritenuto che il comportamento dei lavoratori, che avevano marcato il cartellino di presenza, ma si erano poi rifiutati di lavorare nelle zone a rischio, coincidenti con quelle contrassegnate dalle lett. A e B, esprimesse una giustificata reazione all’altrui inadempimento ai sensi dell’art. 1460 c.c., implicitamente valutando come irrilevante il fatto che, dopo la timbratura all’orologio marcatempo, i lavoratori medesimi si fossero trattenuti nelle vicinanze, senza recarsi ai singoli reparti di produzione, ma neppure allontanandosi dall’officina.

Trattasi di valutazione che non appare irragionevole, tenuto conto dei motivi dell’iniziativa, indicati dal Tribunale nell’avvenuta conoscenza da parte dei lavoratori del contenuto del verbale di sopralluogo del medico delle F.S. che riportava notizie allarmanti con riguardo a detto luogo di lavoro e del fatto che alcuni dipendenti (evidentemente ritenuti diversi da quelli esposti allo specifico rischio) avevano regolarmente lavorato.

Anche il motivo all’esame non merita quindi accoglimento.

5. In definitiva il ricorso va rigettato.

Le spese a favore dei controricorrenti, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza; non è luogo a provvedere al riguardo per gli altri intimati, che non hanno svolto attività difensiva.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla rifusione in favore dei controricorrenti delle spese di lite, che liquida in Euro 4.040,00 (quattromilaquaranta), di cui Euro 4.000,00 (quattromila) per compenso, oltre accessori come per legge; nulla sulle spese quanto agli altri intimati.

Così deciso in Roma, il 4 ottobre 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2012


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 26-09-2012) 18-10-2012, n. 17904

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente –

Dott. AMENDOLA Adelaide – Consigliere –

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 763/2008 proposto da:

G.G. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LAZIO 9, presso lo studio dell’avvocato BALLA PAOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato CIANCIMINO Rino, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

HDI ASSICURAZIONI S.P.A. (OMISSIS), in persona del suo Direttore P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ROMEO ROMEI 27, presso lo studio dell’avvocato ROMAGNOLI MAURIZIO, rappresentato e difeso dall’avvocato SCHIFANO Sabina, giusta delega in atti;

– controricorrente –

e contro

C.G. (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 488/2007 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 09/08/2007, R.G.N. N. 1663/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2012 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito l’Avvocato MAURIZIO LANIGRA per delega;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CORASANITI Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. G.G. propone ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi, avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo, depositata il 9.08.2007 e di cui si deduce la notifica in data 6.12.2007, la quale ha confermato quella di primo grado, che, a sua volta, aveva ritenuto il G. e C.G. corresponsabili, nella misura del 50%, del sinistro stradale in lite.

2. Come raccomandato dal Collegio, viene adottata una motivazione in forma semplificata.

3. Dall’esame degli atti, emerge che il ricorrente non ha depositato la copia notificata della sentenza impugnata.

4. Al riguardo, deve confermarsi il principio secondo cui la previsione – di cui all’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, n. 2 – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al comma 1 della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di Cassazione – a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitabile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente, alleghi (come nella specie) che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con a relata avvenuta nel rispetto dell’art. 372 cod. proc. civ., comma 2, applicabile estensivamente, purchè entro il termine di cui all’art. 369 cod. proc. civ., comma 1, e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione (Cass. S.U. 2009/9005;

nonché Cass. 11376/2010; 25070/2010, ord.).

5. Il ricorso deve perciò essere dichiarato improcedibile. Le spese seguono la soccombenza nel rapporto con la parte costituita. Nulla per le spese nel rapporto con l’altro intimato, che non ha svolto attività difensiva.

P.Q.M.
Dichiara improcedibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio nei confronti della Compagnia assicuratrice, che liquida in Euro 2.700,00, di cui Euro 2.500,00 per onorario, oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2012.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2012


Cons. Stato Sez. V, Sent., (ud. 13-07-2012) 18-10-2012, n. 5351

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2438 del 2003, proposto da:

D.C.E., rappresentata e difesa dall’avv. Giovanni Di Gioia, con domicilio eletto presso Giovanni Di Gioia in Roma, piazza Mazzini, n. 27;

contro

Comune di Roma Capitale, in persona del Sindaco p.t., rappresentato e difeso dall’avvocato Carlo Sportelli dell’Avvocatura Comunale, con domicilio in Roma, via del Tempio di Giove, n. 21;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. LAZIO – ROMA: SEZIONE II BIS n. 00596/2002, resa tra le parti, concernente concorso interno per conferimento di 29 posti a primo dirigente amministrativo

Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 13 luglio 2012 il Cons. Carlo Schilardi e uditi per le parti gli avvocati Sommovigo, per delega dell’Avvocato Di Gioia, e Graglia, per delega dell’Avvocato Sportelli;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con bando in data 6.3.1995 il Comune di Roma ha indetto, in esecuzione della deliberazione di Giunta comunale n. 463 del 24.2.1995 un concorso interno per titoli di servizio e di cultura integrato da colloquio, ai sensi dell’art. 28, nono comma, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, per il conferimento di 29 posti di primo dirigente amministrativo.

Al concorso venivano ammessi a partecipare “i dipendenti dell’area amministrativa e contabile – profilo professionale amministrativo – in possesso del diploma di laurea in giurisprudenza o equipollente ad essa, provenienti dalla ex carriera direttiva dell’Amministrazione che abbiano maturato un’anzianità di nove anni di effettivo servizio nella predetta carriera direttiva”.

La dott.ssa E.D.C., dipendente del Comune di Roma con la settima qualifica funzionale, collocata nell’area socio-sanitaria e in possesso della laurea in sociologia, ha impugnato il bando di concorso e la precedente delibera di G.M., deducendone la illegittimità e chiedendone l’annullamento.

La ricorrente sostiene che il bando, nella parte in cui limita l’ammissione al concorso soltanto ai dipendenti in possesso della laurea in giurisprudenza o equipollente e collocati nell’area amministrativa e contabile, sarebbe illegittimo in quanto in contrasto con la disposizione di cui all’art. 28, nono comma, del D.Lgs. 3 febbraio 1993, n. 29, in attuazione della quale il concorso è stato bandito.

La predetta disposizione non prevede , a suo avviso, ulteriori specificazioni e quindi non consente discriminazioni né in ordine al tipo di laurea posseduta né in relazione all’area di provenienza, dovendosi anche considerare che, ancorché collocata in area professionale diversa da quella amministrativo-contabile, ella svolge comunque mansioni amministrative.

L’Amministrazione comunale si è costituita in giudizio, sostenendo l’infondatezza delle censure proposte dalla ricorrente.

Con sentenza del 6.12.2001 il T.A.R. per il Lazio ha respinto il ricorso.

Avverso la sentenza ha prodotto appello la dott.ssa E.D.C. con i seguenti motivi di censura.

1- La disposizione dell’art. 29, IX comma del D.Lgs. n. 29 del 1993, che permette alle amministrazioni pubbliche di indire concorsi interni per l’accesso alla qualifica dirigenziale, ha carattere transitorio, per permettere alle professionalità interne alle amministrazioni, uno sviluppo di carriera prima di rendere definitiva ed intangibile l’affermazione del principio che si accede alla qualifica dirigenziale solo attraverso pubblico concorso e ciò nel presupposto che la notevole anzianità di servizio richiesta potesse supplire alla mancanza di un titolo specifico e che il generico possesso di un diploma di laurea (e, quindi, di un’istruzione universitaria) fosse il requisito sufficiente ad essere ammesso alle procedure concorsuali.

2- La qualifica dirigenziale negli enti locali, individuata dal D.Lgs. n. 29 del 1993 e successive modificazioni, non è articolata per profili professionali e mentre il possesso di un particolare diploma di laurea è necessario per svolgere le funzioni direttive di alcuni profili (quali quello tecnico), per svolgere funzioni direttive in genere di cui la ricorrente è stata incaricata sin dalla data di assunzione non ve ne sarebbe bisogno e del resto la stessa amministrazione avrebbe fatto transitare un numero cospicuo di dirigenti farmacisti (cioè laureati in farmacia) nella qualifica dirigenziale unica affidando loro incarichi amministrativi.

3- L’art. 13 del D.Lgs. n. 29 del 1993 escluderebbe per gli Enti locali l’immediata applicabilità delle disposizioni del capo II del titolo II, prevedendone l’applicazione solo previa modifica dei rispettivi ordinamenti.

L’appello è infondato e va rigettato.

Preliminarmente si osserva che non vi sono motivi per discostarsi da quanto ritenuto dal T.A.R. circa l’applicabilità al caso di specie dell’art. 28, comma 9, del D.Lgs. n. 29 del 1993, quanto ai requisiti di ammissione al concorso.

Il Comune di Roma ha infatti recepito tale norma, con delibera commissariale n. 983 del 16.7.1993, prendendo atto del disposto dell’art. 13 del D.Lgs. n. 29 del 1993 e ha inteso così conformarsi, in via complessiva, alla norma generale in materia di concorsi per l’accesso alla dirigenza e quindi della possibilità che siano ammessi alle selezioni solo i dipendenti in possesso di laurea, oltre che della richiesta anzianità di servizio nella ex carriera direttiva della stessa amministrazione.

Tanto premesso, giova evidenziare che la individuazione poi da parte della pubblica amministrazione di specifici tipi di laurea quale requisito di ammissione alla procedura concorsuale per posti dirigenziali non trova limiti nel dettato dell’art. 28 del D.Lgs. n. 29 del 1993.

La norma, nel prevedere la possibilità di partecipazione al concorso pubblico per esami ai soggetti muniti di laurea, non ha inteso affermare la sufficienza di tale titolo di studio, ma ha unicamente individuato la imprescindibile necessità del diploma di laurea per l’accesso alla qualifica dirigenziale, lasciando alla singola amministrazione, in relazione al posto da ricoprire, la concreta individuazione del tipo di laurea ritenuto necessario per la partecipazione al concorso.

Né può ritenersi illegittima la scelta di uno specifico titolo di studio in relazione all’affermato carattere necessario ed imprescindibile delle esperienze maturate e capacità organizzative già dimostrate nelle attività svolte nei profili di appartenenza.

Al riguardo, va in primo luogo evidenziato che la normativa in materia, nel richiedere quale requisito di partecipazione al concorso il possesso sia del titolo di studio che di pregressa esperienza di servizio (elementi minimi entrambi inderogabili e, per l’effetto, non sostituibili l’uno con l’atro), ha inteso attribuire concorrente e pari rilevanza tanto alla qualificazione culturale che alla concreta esperienza professionale del candidato.

Conseguentemente, non risulta illogica o irragionevole la scelta dell’amministrazione la quale, per assicurarsi già in sede di predeterminazione delle regole della procedura concorsuale, la migliore qualificazione possibile in relazione al posto da ricoprire, indirizzi la richiesta di specifici elementi di qualificazione non solo al tipo di servizio già svolto all’interno della pubblica amministrazione, ma al titolo di studio necessario per partecipare al concorso.

Ciò è avvenuto nel caso in esame, laddove, a fronte della “esperienza di servizio … di almeno nove anni … in posizione di lavoro corrispondente, per contenuto, alle funzioni della ex carriera direttiva del personale degli enti locali…”, la specificità della qualificazione in relazione al posto per il quale il concorso è stato indetto (dirigente amministrativo), è stata indirizzata al diploma di laurea da possedere, individuato nel …”diploma di laurea in giurisprudenza o equipollente”.

Da un punto di vista oggettivo non appare affetta da irragionevolezza la scelta riferita in via esclusiva al diploma di laurea in giurisprudenza (o equipollente), considerato che la stessa risulta la più aderente alle problematiche ed alle complesse materie di ordine giuridico amministrativo da trattare da parte dei dirigenti.

La prescrizione in questione è correlata con lo specifico potere dell’organo politico di conferimento degli incarichi dirigenziali all’interno dell’ente, al fine di consentirne il concreto esercizio.

Invero, la previsione dei requisiti di ammissione e, tra questi, del titolo di studio è finalizzata alla instaurazione di un rapporto di lavoro dirigenziale ad alto contenuto tecnico professionale e non può affermarsi l’esistenza di una qualsiasi omogeneità tra la laurea in giurisprudenza e quella in sociologia.

Allorché, come nel caso di specie, il bando di concorso richieda tassativamente il possesso di un determinato titolo di studio (o equipollente) per l’ammissione ad un concorso pubblico, non è consentita la valutazione di un titolo di studio diverso. Il principio poggia sul dovuto riconoscimento in capo all’Amministrazione che indice la procedura selettiva – ferma la definizione del livello del titolo, affidata alla legge o ad altra fonte normativa – di un potere discrezionale nell’individuazione della tipologia del titolo stesso, da esercitare tenendo conto della professionalità e della preparazione culturale richieste per il posto da ricoprire (Consiglio di Stato, Sez. VI, 19.8.2009, n. 4994).

Legittimamente quindi l’appellante non è stato ammesso alla partecipazione al concorso per la copertura del posto di dirigente amministrativo essendo in possesso di titolo di studio (laurea in sociologia) diverso da quello richiesto dal bando.

Non privo di rilievo è poi quanto evidenziato nella sentenza appellata che il regolamento generale per il personale del Comune di Roma, vigente all’epoca del concorso, prevedeva la possibilità di accesso alla prima qualifica dirigenziale solo per il candidato “in possesso del titolo di studio richiesto e di una esperienza acquisita in posizione di lavoro corrispondenti, per contenuto, alle funzioni della qualifica funzionale immediatamente inferiore al posto messo a concorso…perché acquisita nella stessa area del posto messo a concorso”.

L’appello è pertanto infondato e va rigettato.

Attesa la complessità interpretativa della materia trattata, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese di giudizio.

P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta)

definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta.

Spese compensate tra le parti.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 luglio 2012 con l’intervento dei magistrati:

Stefano Baccarini, Presidente

Carlo Saltelli, Consigliere

Nicola Gaviano, Consigliere

Fabio Franconiero, Consigliere

Carlo Schilardi, Consigliere, Estensore


Corte Costituzionale n. 223 del 11.10.2012

La Corte Costituzionale, con sentenza del 11-10-2012 n°223, ha bocciato i tagli agli stipendi della dirigenza pubblica superiori ai 90.000 euro, stabiliti dal decreto legge 78/2010.

Leggi: Corte Costituzionale n. 223/2012


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 19-07-2012) 03-10-2012, n. 16817

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GOLDONI Umberto – Presidente –

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere –

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 3191/2011 proposto da:

SERIT SICILIA SPA (OMISSIS) – Agente della Riscossione per le Province della Regione Siciliana in persona del Direttore Generale, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TIBULLO 20, presso lo studio dell’avv. URBANI DANIELE, (avv. MARIA TARANTINO), rappresentata e difesa dall’avvocato DI SALVO GIOVANNI, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

G.M. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VINCENZO BELLINI 4, presso lo studio dell’avvocato ANDREA GEMMA, rappresentata e difesa dall’avvocato CATERINA GIUNTA, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1382/2010 del TRIBUNALE di PALERMO del 9.3.2010, depositata il 18/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 19/07/2012 dal Consigliere Relatore Dott. MILANA FALASCHI;

udito per la ricorrente l’Avvocato Giovanni Di Salvo che si riporta agli scritti e chiede l’accoglimento del ricorso;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La SERIT Sicilia s.p.a. – Agente Riscossione Province Regione Siciliana ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello del Tribunale di Palermo del 18 marzo 2010 che nell’ambito del giudizio di opposizione L. n. 689 del 1981, ex art. 22, promosso da G.M. relativo ad ordinanza ingiunzione applicativa di sanzioni amministrative per plurime violazioni del Codice della Strada, ha rigettato il gravame e, per l’effetto, ha confermato la decisione del giudice di primo grado, di accoglimento dell’opposizione proposta per avere dichiarato la nullità della notifica delle cartelle di pagamento. Il ricorso è affidato ad un unico motivo di impugnazione.

La G. si è costituita con controricorso.

Il consigliere relatore, nominato a norma dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione di cui all’art. 380 bis c.p.c., formulando una proposta per il rigetto del ricorso.

All’udienza camerale il Procuratore Generale ha rassegnato conclusioni conformi a quelle di cui alla relazione.

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

RITENUTO IN DIRITTO Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni di cui alla relazione ex art. 380 bis c.p.c., che di seguito si riporta:

“Con l’unica censura la ricorrente Serit Sicilia s.p.a. denuncia violazione ed errata applicazione dell’art. 140 c.p.c., per avere i giudici di merito ritenuto non essere state ritualmente notificate alla G. le cartelle di pagamento di cui al preavviso di fermo di beni mobili registrati effettuate con le forme delle notificazioni agli irreperibili, perchè l’Ufficiale giudiziario procedente aveva depositato i plichi presso l’Ufficio nella “Casa del Comune” di (OMISSIS), luogo da considerarsi equipollente alla Casa comunale, attuando una forma di decentramento amministrativo.

La censura è infondata.

E’ incontestato che l’Ufficiale giudiziario addetto ha provveduto alla notifica delle cartelle esattoriali in atti nelle forme di esposte dalla stessa Agenzia di riscossione in ricorso. Per le formalità previste da quest’ultimo articolo (in base al quale, come noto, la notifica si considera perfetta quando l’Ufficiale Giudiziario attesti di aver depositato copia dell’atto nella Casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi, affisso avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio del notificando a avergliene dato notizia per raccomandata con avviso di ricevimento) l’intimata ha eccepito la inesistenza della notifica perchè, come si è detto, il deposito dell’atto è avvenuto presso la “Casa Comunale” di via (OMISSIS), che dunque non era la sede ufficiale ma ufficio decentrato del comune di (OMISSIS). Orbene, accertato che via Orsini n. 11 all’epoca delle notifiche non era la sede di comune, ne deriva l’esattezza del rilievo della G., recepita integralmente dai giudici di merito.

Infatti anche se a seguito di delibera comunale alla sede di via Orsini n. 11 risultassero attribuite le particolari forme di autonomia previste dalla vigente legislazione in materia (il che non è comunque dimostrato), è certo che la “casa comunale” è unica per l’intero comune e ha sede presso l’Ufficio centrale del Comune.

Si deve quindi riconoscere che a via (OMISSIS), quand’anche esistesse un ufficio comunale, questo non può costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

Secondo risalente orientamento di questa corte, che appare da condividere, l’art. 140 c.p.c., parla esclusivamente di “casa comunale”, usando quindi una terminologia precisa, insuscettibile di estensione a diversi “luoghi” e pertanto, anche in applicazione del principio che le formalità dei procedimenti notificatori nei quali la notifica non avviene direttamente a.1 notificando devono essere rispettate rigorosamente, non può che concludersi per la nullità delle notifiche delle cartelle di pagamento (non altrimenti sanate) (in tal senso, Cass. 3 febbraio 1993 n. 1321).

La censura mossa alla decisione impugnata è, quindi, infondata per avere la corte di merito applicato in modo corretto l’art. 140 c.p.c.”.

Vanno condivise e ribadite le argomentazioni e le conclusioni contenute nella relazione di cui sopra, giacchè non è in discussione il potere di decentramento della pubblica amministrazione, come dedotto dalla ricorrente (su cui ha insistito anche nella memoria illustrativa), ma nella specie l’atto amministrativo è intervenuto solo successivamente alla data di notificazione delle infrazioni. Infatti la delibera amministrativa (che peraltro ha disposto il decentramento non presso uffici del Comune, ma nella sede dello stesso ente esattore) in atti reca la data dell’agosto 2006 a fronte della notificazione dell’ordinanza ingiunzione del 3.3.2003.

Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di cassazione che liquida in complessivi Euro 900,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori, come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione 6 – 2 Sezione Civile della Corte di Cassazione, il 19 luglio 2012.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2012


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 06-06-2012) 26-09-2012, n. 16375

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ROSELLI Federico – Presidente –

Dott. BANDINI Gianfranco – Consigliere –

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Consigliere –

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere –

Dott. FILABOZZI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9653/2010 proposto da:

M.M. (OMISSIS), domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati CATALANO Agostino, BRESSANINI CETORINO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

INTERBRENNERO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268-A, presso lo Studio dell’avvocato PETRETTI Alessio, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALBERTI IVAN, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 7/2010 della CORTE D’APPELLO di TRENTO, depositata il 29/01/2010 R.G.N. 28/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/2012 dal Consigliere Dott. ANTONIO FILABOZZI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SERVELLO Gianfranco, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
M.M. ha impugnato davanti al Tribunale di Trento il licenziamento disciplinare comminatogli dalla società Interbrennero spa, per avere ripetutamente svolto attività lavorativa quale addetto alla sicurezza presso alcune discoteche locali mentre si trovava in congedo per ragioni di salute.

Il Tribunale di Trento ha accolto la domanda con sentenza che è stata riformata dalla Corte d’appello della stessa città, che ha ritenuto la legittimità del licenziamento sia sotto il profilo della proporzionalità tra la sanzione e la condotta illecita sia sotto il profilo della tempestività della contestazione.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione M.M. affidandosi a tre motivi di ricorso cui resiste con controricorso la società Interbrennero spa.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 2118 e 2106 c.c., nonchè vizio di motivazione, con riferimento alla statuizione con la quale il giudice d’appello ha ritenuto la sussistenza del giustificato motivo soggettivo di licenziamento, evidenziando, da un lato, che non potevano sorgere dubbi circa l’effettività dello stato di malattia e sostenendo, dall’altro, che l’illecito disciplinare, consìstente nello svolgimento di altra attività lavorativa durante il periodo di malattia, doveva ritenersi temporalmente ristretto, in concreto, ad un solo giorno di lavoro effettivo.

2.- Con il secondo motivo si denuncia violazione delle stesse disposizioni di legge, nonchè vizio di motivazione, con riferimento alle affermazioni contenute nella sentenza impugnata circa la gravità dell’infrazione commessa dal lavoratore, contestando, in particolare, che dalla condotta in questione potesse essere derivato un nocumento di qualsiasi natura all’attività aziendale o che fosse stata fornita la prova della insostituibilità del ricorrente nel l’espletamento delle mansioni a lui affidate.

3.- Con il terzo motivo si denuncia violazione delle ridette disposizioni di legge, nonchè vizio di motivazione, in relazione alla statuizione con la quale la sentenza impugnata ha ritenuto sussistente la proporzionalità tra la sanzione e la condotta addebitata al lavoratore, considerata anche l’inesistenza di precedenti disciplinari ed il fatto che l’illecito disciplinare risultava limitato ad un solo giorno di lavoro effettivo.

4,- Tali motivi, che, per riguardare problematiche strettamente connesse tra loro, possono essere esaminati congiuntamente, sono infondati.

5.- In tema di svolgimento di attività lavorativa durante l’assenza per malattia la giurisprudenza è pervenuta a risultati sostanzialmente conformi. In linea di principio, si è affermato che non sussiste nel nostro ordinamento un divieto assoluto per il dipendente di prestare attività lavorativa, anche a favore di terzi, durante il periodo di assenza per malattia. Siffatto comportamento può, tuttavia, costituire giustificato motivo di recesso da parte del datore di lavoro ove esso integri una violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi di contrattuali di diligenza e fedeltà. Ciò può avvenire quando lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia sia di per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza dell’infermità addotta a giustificazione dell’assenza, dimostrando quindi una sua fraudolenta simulazione, o quando l’attività stessa, valutata in relazione alla natura ed alle caratteristiche della infermità denunciata ed alle mansioni svolte nell’ambito del rapporto di lavoro, sia tale da pregiudicare o ritardare, anche potenzialmente, la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore, con violazione di un’obbligazione preparatoria e strumentale rispetto alla corretta esecuzione del contratto (cfr. ex plurimis Cass. n. 9474/2009, Cass. n. 14046/2005).

6.- Ad ulteriore specificazione di questo principio, questa Corte (Cass. n. 14046/2005 cit.) ha precisato che “la valutazione del giudice di merito, in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione, ha per oggetto il comportamento del dipendente nel momento in cui egli, pur essendo malato e (per tale causa) assente dal lavoro cui è contrattualmente obbligato, svolge per conto di terzi un’attività che può recare pregiudizio al futuro tempestivo svolgimento di tale lavoro; in tal modo, la predetta valutazione è costituita da un giudizio ex ante, ed ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio”, con l’ulteriore conseguenza che “ai fini di questa potenzialità, la tempestiva ripresa del lavoro resta irrilevante”.

Ed ha ribadito che lo svolgimento, da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della infermità e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede, che giustifica il recesso del datore di lavoro (nello stesso senso, Cass. n. 17128/2002).

7.- Non si è discostata da tali principi la Corte territoriale con l’affermazione che,nella fattispecie, la natura dell’attività svolta dal dipendente (quale addetto alla sicurezza presso alcune discoteche) durante l’assenza per malattia era di per sè sufficiente a far dubitare della stessa esistenza della malattia (o quanto meno di una sua gravità tale da impedire l’espletamento di una attività lavorativa) ed era comunque indice di una scarsa attenzione del lavoratore alle esigenze di cura della propria salute ed ai connessi doveri di non ostacolare o ritardare la guarigione, considerato che la malattia da cui egli risultava affetto (“cefalea in sinusite frontale riacutizzata”) non era certamente compatibile con lo svolgimento di un’attività che, come quella di sorvegliante di discoteche, richiedeva piena efficienza e prestanza fisica.

8.- Le contrarie affermazioni del ricorrente, secondo cui i giudici d’appello non avrebbero adeguatamente valutato l’esiguità del periodo di effettiva coincidenza tra turni di lavoro, giorni di assenza per malattia e giorni di svolgimento di altra attività lavorativa (periodo che, secondo la prospettazione del ricorrente, dovrebbe ritenersi limitato ad un solo giorno di lavoro effettivo), nè il fatto che lo stesso ricorrente aveva comunque sempre ripreso regolarmente il suo lavoro, non tengono conto del rilievo correttamente assegnato dalla sentenza impugnata all’incidenza del lavoro di sorvegliante di discoteche sulla completa guarigione della malattia – oltre che del fatto che, ai fini della valutazione di detta incidenza, non può non venire in rilievo il lavoro prestato durante tutto il periodo di malattia, ivi compresi i giorni festivi e quelli in cui non era previsto un turno lavorativo – e si risolvono nella contestazione diretta (inammissibile in questa sede) del giudizio di merito, giudizio che risulta motivato in modo sufficiente e logico con riferimento, come sopra accennato, alla necessità che lo svolgimento di altra attività lavorativa, valutata in relazione alla natura della malattia e delle mansioni svolte, non pregiudichi o ritardi la guarigione e il rientro in servizio.

9.- Come si è già detto, la valutazione in ordine all’incidenza del lavoro sulla guarigione è costituita da un giudizio ex ante, che ha per oggetto la potenzialità del pregiudizio e prescinde dalla avvenuta o meno tempestiva ripresa del lavoro, sicchè restano irrilevanti le considerazioni svolte al riguardo con il primo e il terzo motivo.

10.- Contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso per cassazione, inoltre, l’onere di provare la compatibilità dell’attività svolta con le proprie condizioni di salute, ed in particolare con la malattia impeditiva della prestazione lavorativa – e conseguentemente l’inidoneità di tale attività a pregiudicare il recupero delle normali energie lavorative – grava sul dipendente che, durante l’assenza per malattia, sia stato sorpreso a svolgere attività lavorativa a favore di terzi (cfr. ex plurimis Cass. n, 3647/99).

11.- Quanto alle altre censure svolte dal ricorrente in ordine alla gravità dell’infrazione ed alla proporzionalità della sanzione irrogata, è sufficiente ribadire, richiamando quanto già detto in precedenza, che “lo svolgimento, da parte del dipendente assente per malattia, di altra attività lavorativa che, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, può pregiudicare o ritardare la guarigione ed il rientro in servizio, costituisce violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede; e questa violazione giustifica il recesso del datore di lavoro” (così Cass. n. 14046/2005 cit.).

12.- Il ricorso deve essere pertanto respinto con la conferma della sentenza impugnata, dovendosi ritenere assorbite in quanto sinora detto, tutte le censure non espressamente esaminate.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio liquidate in Euro 40,00 oltre Euro 3.000,00 per onorari, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 6 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2012


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 14-06-2012) 05-09-2012, n. 14865

La Corte Suprema di Cassazione civile, con ordinanza n. 14865 del 5 settembre 2012, ha dichiarato come sia da considerarsi valida la notifica di un atto, indirizzato a una persona giuridica, effettuata a un dipendente della società, il quale in quel momento risulta essere addetto alla sede della società stessa.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – rel. Consigliere –

Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

COMMERCIALE AUTOMOBILI s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via F. Barnabei n. 5, presso l’avv. Gualtieri Cesidio, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Di Ramio Giuseppe, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 40/02/06, depositata il 5 luglio 2006;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 14 giugno 2012 dal Relatore Cons. Dott. Biagio Virgilio.

La Corte:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Ritenuto che, ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“1. La Commerciale Automobili s.r.l., propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo n. 40/02/06, depositata il 5 luglio 2006, con la quale, rigettando l’appello della contribuente, è stata confermata l’inammissibilità del ricorso da questa proposto avverso cartella esattoriale relativa ad IVA, 1RPEG ed IRAP del 1998 contestando la fondatezza della pretesa tributaria sul presupposto della omessa notificazione del prodromico avviso di accertamento.

Il giudice a quo ha ritenuto che la notifica doveva ritenersi validamente eseguita a mani di una impiegata della società e quindi addetta alla sede, come risultava dalla relazione di notificazione (peraltro – ha precisato – la stessa ricorrente definisce la consegnataria una dipendente).

L’Agenzia delle entrate non si è costituita.

2. L’unico motivo di ricorso, con il quale si chiede se “in ipotesi di notifica a persona giuridica, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., la consegna dell’atto ad un qualunque di lei dipendente, senza che consti la previa infruttuosa ricerca del legale rappresentante e, successivamente, della persona incaricata di ricevere le notificazioni, renda la notificazione nulla”, è manifestamente infondato: premesso, infatti, che la norma indicata non richiede affatto la previa ricerca, presso la sede della persona giuridica, del suo legale rappresentante, ai fini della regolarità della notificazione è sufficiente che il consegnatario sia legato alla persona giuridica da un particolare rapporto che, non dovendo necessariamente essere di prestazione lavorativa, può risultare anche dall’incarico, eventualmente provvisorio o precario, di ricevere la corrispondenza; sicchè, qualora dalla relazione dell’ufficiale giudiziario risulti la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede, è da presumere che tale persona fosse addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, laddove la società, per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere una sua dipendente, non era neppure addetta alla sede per non averne mai ricevuto incarico alcuno, nel senso che la prova dell’insussistenza di un rapporto siffatto non è adempiuto con la sola dimostrazione dell’inesistenza d’un rapporto di lavoro subordinato tra la persona in questione ed il destinatario della notifica, attesa la configurabilità di altri rapporti idonei a conferire la richiesta qualità (Cass. nn. 13935 del 1999, 904 e 7113 del 2001, 19201 del 2003, 12754 del 2005, 16102 del 2007).

3. Pertanto, si ritiene che il ricorso possa essere deciso in camera di consiglio”;

che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti (l’Avvocatura Generale dello Stato ha depositato “atto di costituzione”);

che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio, condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione e, pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato, il ricorso deve essere rigettato;

che non v’è luogo a provvedere in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità, in assenza di svolgimento di attività difensiva da parte dell’intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 14 giugno 2012.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2012


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 27/04/2012) 27/07/2012, n. 13461

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente –

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

CARIERI SPA in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA BENEDETTO CAIROLI 2, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO DAGNINO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

SERIT SICILIA SPA, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIAE DI PALERMO;

– intimati –

Nonchè da:

SERIT SICILIA SPA in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ORAZIO 3, STUDIO MALVAGNA presso lo studio dell’avvocato MARIA TARANTINO, rappresentato e difeso dall’avvocato DI SALVO GIOVANNI, giusta delega in calce;

– ricorrente incidentale –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente a ricorso incidentale –

e contro

CARIERI SPA, AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIAE DI PALERMO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 68/2010 della COMM. TRIB. REG. di PALERMO, depositata il 24/05/2010;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/04/2012 dal Consigliere Dott. DOMENICO CHINDEMI;

uditi per il ricorrente gli Avvocati DAGNINO e DI SALVO, che hanno chiesto l’accoglimento del ricorso, l’Avvocato DI SALVO chiede l’accoglimento del ricorso incidentale con riguardo alle spese, e rigetto del ricorso principale;

udito per il controricorrente l’Avvocato TIDORE, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, accoglimento ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Con sentenza n 68/29/2010, depositata il 24.5.2010, la Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, in riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo, appellata dall’Agenzia delle entrate, rigettava l’appello proposto dalla società Carieri s.p.a. nei confronti dell’Agenzia delle Entrate e Serit Sicilia S.p.A. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo che aveva, invece, accolto il ricorso presentato dalla Carieri s.p.a. avverso la cartella di pagamento per Iva e Irap 2000 e 2001.

La Carieri s.p.a. impugna la sentenza della Commissione Tributaria Regionale deducendo i seguenti motivi:

a) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per l’omessa sottoscrizione autografa della cartella di pagamento che non contiene la firma del rappresentante del Concessionario della riscossione;

b) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione alla mancata sottoscrizione della cartella di pagamento;

c) violazione falsa applicazione dell’art. 111 Cost. in relazione alla obbligatorietà della sottoscrizione autografa delle cartelle di pagamento;

d) violazione e/o falsa applicazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per il mancato invio della comunicazione di irregolarità (c.d. avviso bonario);

e) vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) in ordine alla obbligatorietà dell’avviso bonario qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti nella dichiarazione;

f) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) in relazione alla intervenuta decadenza dell’Amministrazione dal potere di iscrizione a ruolo delle somme vantate contro l’atto impugnato, ritenendo applicarsi alla fattispecie il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17 e non l’art. 25 novellato del citato D.P.R., rilevando come la cartella di pagamento avrebbe dovuto essere notificata, relativamente all’anno di imposta 2000, entro il 31/12/2004 e, in relazione all’anno imposta 2001, entro il 31/12/2005.

g) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), dovendo essere dichiarato inammissibile l’appello principale con conseguente perdita di efficacia dell’appello incidentale tardivo.

Rilevava, in particolare come l’appello fosse stato proposto dall’Agenzia delle entrate che non aveva interesse processuale a proporre appello, mancando di legittimazione processuale, mentre la Serit Sicilia s.p.a. non ha proposto un proprio mezzo di gravame, ma si era costituita in segreteria con atto di controdeduzioni e non con appello incidentale tardivo che, tutt’al più, avrebbe potuto essere proposto solamente dalla Carieri s.p.a..

h) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per la mancata rilevazione d’ ufficio della inesistenza o della nullità insanabile della notificazione della cartella;

i) violazione di legge (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) per la mancata rilevazione d’ ufficio della nullità della cartella di pagamento per essere la relata di notifica apposta sul frontespizio anzichè in calce alla stessa.

Si sono costituite nel giudizio di legittimità con controricorso l’Agenzia delle Entrate e Serit Sicilia S.pA, quest’ultima formulando anche ricorso incidentale eccependo violazione di legge in ordine alla omessa motivazione delle spese processuali.

La Carieri s.p.a. presentava memoria.

Il ricorso è stato discusso alla pubblica udienza del 27/4/2012, in cui il PG ha concluso come in epigrafe.

Motivi della decisione
Sono infondati i motivi del ricorso principale.

1) I primi tre motivi di ricorso concernenti, sotto diversi profili, la mancata sottoscrizione autografa della cartella impugnata, vanno trattati congiuntamente, stante la connessione logica.

Non era necessaria, anche con riferimento all’epoca di emanazione del provvedimento, la sottoscrizione della cartella da parte del legale rappresentante della Serit Sicilia s.p.a..

Gli atti tributari privi della sottoscrizione del dirigente responsabile sono sicuramente legittimi a partire dal 1 luglio 2009 D.L. n. 78 del 2009, ex art. 15, comma 7, che prevede: “la firma autografa prevista sugli atti di liquidazione, accertamento e riscossione dalle norme che disciplinano le entrate tributarie erariali amministrate dalle Agenzie fiscali e dall’amministrazione autonoma dei monopoli di Stato può essere sostituita dall’indicazione a stampa del nominativo del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto in tutti i casi in cui gli atti medesimi siano prodotti da sistemi informativi automatizzati.

Quindi, la firma autografa non è più essere necessaria e può sostituirsi con la mera indicazione del soggetto responsabile dell’adozione dell’atto (es. il capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1).

Il D.L. n. 79 del 2009, art. 15, comma 7 specifica che “Con provvedimento dei Direttori della Agenzie fiscali e del Direttore generale dell’Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato sono individuati gli atti di cui al comma 7”.

Peraltro anche in precedenza non era elemento necessario ai fini della validità dell’atto emanato dalla Amministrazione la sottoscrizione del legale rappresentante, essendo sufficiente la riferibilità dell’atto all’Autorità da cui promanava, in quanto “l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista dalla legge” (Corte Cost. 117/2000; cfr Cass. n 4923/2007; Cass. 29/10/2007 n. 22692).

Un primo provvedimento del Direttore dell’Agenzia fiscale risulta emanato in data 2.11.2010 e riguarda liquidazioni, accertamenti e riscossioni e prevede che anche la firma a stampa del funzionario responsabile può sostituire quella autografa per atti prodotti da sistemi informativi automatizzati per attività a carattere seriale, realizzandosi una economia di scala e maggiore efficienza nell’utilizzo delle risorse.

Anche in precedenza, tuttavia, si riteneva che non fosse elemento necessario ai fini della validità dell’atto emanato dalla Amministrazione la sottoscrizione del provvedimento, essendo sufficiente la riferibilità dell’atto all’Autorità da cui promana, in quanto “l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia espressamente prevista dalla legge”. (Cass. 29.10.2007 n. 22692).

Solo nel caso in cui la mancanza di sottoscrizione dell’atto non consente di individuare l’Autorità da cui provenga il provvedimento, ne va pronunciata la nullità, circostanza non sussistente e neanche prospettata nella fattispecie.

2) Il quarto e quinto motivo di ricorso, fra loro connessi, possono essere esaminati congiuntamente.

Con riferimento al mancato invio della comunicazione di irregolarità (c.d. avviso bonario) va rilevato che in tema di riscossione delle imposte, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, comma 5, non impone l’obbligo del contraddittorio preventivo in tutti i casi in cui si debba procedere ad iscrizione a ruolo, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis ma soltanto “qualora sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione”, situazione, quest’ultima, che non ricorre nel caso in cui nella dichiarazione vi sia un mero errore materiale, che è l’ipotesi tipica disciplinata dall’art. 36-bis citato, poichè in tal caso non v’è necessità di chiarire nulla e, se il legislatore avesse voluto imporre il contraddittorio preventivo in tutti i casi di iscrizione a ruolo derivante dalla liquidazione dei tributi, non avrebbe indicato quale presupposto di esso l’incertezza riguardante “aspetti rilevanti della dichiarazione”. (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 7536 del 31/03/2011, Cass Sez. 5, Sentenza n. 795 del 14/01/2011).

Anche nella fattispecie in esame non vi era, quindi, una necessità di notificare una prodromica comunicazione contenente gli esiti della liquidazione in mancanza di incertezza sull’esito della stessa, non avendo, peraltro, la stessa società contribuente eccepito nulla in ordine alla debenza delle somme iscritte a ruolo.

3) In seguito alla declaratoria, con sentenza n. 280 del 25 luglio 2005, di illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, come modificato dal D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, nella parte in cui non prevede un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis, il legislatore, con la L. 31 luglio 2005, n. 156, al dichiarato “fine di garantire l’interesse del contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni e di assicurare l’interesse pubblico alla riscossione del crediti tributari”, ha aggiunto al D.L. 17 giugno 2005, n. 106, art. 1, (da essa convertito), tra altri, il comma 5 bis, con cui ha fissato i termini entro i quali deve essere effettuata, a espressa “pena di decadenza”, la “notifica delle … cartelle di pagamento” relative alla “pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni”.

E stato altresì introdotto (n. 2 della lett. b), all’enunciato “fine di conseguire … la necessaria uniformità dei sistema di riscossione mediante ruolo delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto”, il comma 5 ter, con cui si è sostituito il D.Lgs. 29 febbraio 1999, n. 46, art. 36, comma 2, con il seguente:

“in deroga al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, comma 1, lett. a), per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione delle dichiarazioni, la cartella di pagamento è notificata, a pena di decadenza, entro il 31 dicembre:

a) del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003;

b) del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate entro il 31 dicembre 2001″.

La fattispecie qui esaminata risponde ai canoni, in relazione ai quali la giurisprudenza di questa Corte precedentemente richiamata (cfr Cass. 16826/06, 20384/06, 4255/07, 14861/07, cit.) prevede l’assoggettamento, in via di applicazione retroattiva della norma, allo ius superveniens costituito dal D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5 bis, (convertito in L. n. 156 del 2005, art. 1, comma 5 bis).

Quindi, con riferimento al termine di decadenza per la notifica, in tema di riscossione delle imposte sui redditi, il D.L. 17 giugno 2005, n. 106, art. 1 convertito con modificazioni nella L. 31 luglio 2005, n. 156 – emanato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005 di declaratoria di incostituzionalità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 -, che ha fissato, al comma 5- bis, i termini di decadenza per la notifica delle cartelle di pagamento relative alla pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni ed ha stabilito all’art. 5-ter, sostituendo il comma 2 del D.Lgs. 29 febbraio 1999, n. 46, art. 36 che per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione delle dichiarazioni, la cartella di pagamento debba essere notificata, a pena di decadenza, per le dichiarazioni presentate negli anni 2000 e 2001 (come nel caso di specie) , rispettivamente entro il quinto e quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, ha un inequivoco valore transitorio e trova applicazione non solo alle situazioni tributarie anteriori alla sua entrata in vigore, ma anche a quelle ancora non definite con sentenza passata in giudicato.

Pertanto i termini da osservare, ai fine di non incorrere nella decadenza, per la notifica della cartella di pagamento per le due diverse annualità d’imposta era, per entrambe, il 31/12/2006, termine rispettato essendo la notifica intervenuta, per la stessa ammissione della Carieri s.p.a. in data 10/5/2006.

4) Anche il motivo sub g) è infondato, anche se occorre correggere la motivazione della sentenza impugnata ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..

Essendo stato contestato anche il mancato invio dell’avviso bonario, l’Agenzia aveva interesse e quindi legittimazione processuale autonoma alla proposizione del gravame.

Pertanto l’Agenzia delle entrate era legittimata ad impugnare la sentenza, senza che potesse essere opposta la carenza di legittimazione passiva, per le motivazioni dianzi indicate.

La stessa Carieri s.p.a. ha citato in giudizio davanti alla Commissione tributaria provinciale sia l’Agenzia delle entrate che la Serit Italia e, in via generale, non può pretendere di avvantaggiarsi da un presunto errore dalla stessa compiuta, eccependo la carenza di legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate dalla stessa evocata in giudizio.

La Commissione regionale ha erroneamente ritenuto, che l’atto “tempestivamente” proposto dalla Serit, ancorchè denominato “controricorso” fosse da qualificare quale appello incidentale tardivo.

La regola dell’art. 334 cod. proc. civ., che consente l’impugnazione incidentale tardiva (ammissibile nei confronti di qualsiasi capo della sentenza impugnata “ex adverso”) trova applicazione solo per l’impugnazione incidentale tardiva in senso stretto, rivolta contro la stessa parte che ha proposto l’impugnazione, e non opera per ogni altra impugnazione spiegata a tutela di un interesse autonomo della parte, non derivante dalla impugnazione della controparte. (Sez. L, Sentenza n. 10291 del 17/05/2005).

Quindi, nella specie, vanno esclusi i presupposti di ammissibilità dell’appello incidentale tardivo proposto dalla Serit Sicilia s.p.a.

rimasta soccombente nel giudizio di primo grado e non intimata nel ricorso principale del soccombente nei confronti di altra parte.

La partecipazione al giudizio di secondo grado della Serit Sicilia s.p.a. appare comunque legittima, potendosi alla stessa attribuire natura di intervento volontario, in forza del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 il quale stabilisce che possono intervenire volontariamente o essere chiamati in giudizio solo i soggetti che, insieme al ricorrente, siano destinatari dell’atto impugnato o parti nel rapporto controverso che avrebbero potuto proporre autonoma impugnazione.

Inoltre l’intervento adesivo dipendente è stato ritenuto ammissibile nel processo tributario e anche in appello, posto che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 49 dispone che alle impugnazioni delle sentenze delle commissioni tributarie si applicano le disposizioni del titolo terzo, capo primo del libro secondo del c.p.c. escluso l’art. 337 e fatto salvo quanto disposto nel presente decreto” (Cass. 12 gennaio 2012 n. 255) e, a maggior regione deve ritenersi ammissibile anche l’appello adesivo della Serit Sicilia che ha emanato la cartella impugnata.

5) Gli ultimi due motivi di ricorso costituiscono domande nuove, proposte per la prima volta in sede di legittimità, difettando anche dei requisiti dell’autosufficienza, trattandosi di considerazioni generiche, non pertinenti con l’oggetto del giudizio, essendo inidonee le circostanze di fatto evidenziate, mai contestate nei giudizi di merito, ad acclarare la pretesa nullità della notifica dell’atto o della cartella di pagamento.

6) Va accolto il ricorso incidentale della Serit Sicilia S.p.A..

L’intimata eccepisce la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in relazione alla compensazione delle spese, dato che, secondo la formulazione dell’art. 92 applicabile ratione temporis (essendo stato il giudizio instaurato dopo l’entrata in vigore della L. n. 263 del 2005), il giudice può compensare le spese tra le parti solo se vi è soccombenza reciproca o se ricorrono altri giusti motivi che devono essere esplicitamente indicati nella motivazione. Nel regime successivo a quello introdotto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. a) il provvedimento di compensazione parziale o totale delle spese “per giusti motivi” deve trovare un adeguato supporto motivazionale.

Nella sentenza impugnata non vi è alcuna motivazione in ordine alle ragioni che hanno indotto la commissione alla compensazione delle spese del grado di appello e la cui regolamentazione può essere applicata da questa Corte, trattandosi di violazione di legge, ponendole a carico della Carieri s.p.a., in forza del principio di soccombenza, liquidate come in motivazione.

Anche le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico della Carieri s.p.a. in forza del principio di soccombenza e liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale, accoglie il ricorso incidentale della Serit Sicilia s.p.a. e, decidendo nel merito, liquida a favore della Serit Sicilia s.p.a. le spese del giudizio di appello che determina in complessive Euro 9.000,00, di cui Euro 7.000,00 per onorario e Euro 300,00 per spese, oltre accessori di legge. Condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida a favore della Agenzia delle Entrate in Euro 13.500,00 per onorario, oltre le spese prenotate a debito e a favore della Serit Sicilia s.p.a. in Euro 13.500,00 per onorari, oltre Euro 100,00 per spese, oltre accessori di legge.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Quinta Civile, il 27 aprile 2012.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2012


Corte Suprema di Cassazione, civ., sez. VI, n. 13016 del 24.7.2012

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente –
Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere –
Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –
Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –
Dott. VALITUTTI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 24233/2010 proposto da:

Omissis – Agente della Riscossione per le Province di Avellino, Benevento, Bologna, Campobasso, Caserta, Isernia, Napoli, Padova, Rovigo, Salerno e Venezia appartenente al Gruppo Omissis in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PREMUDA 1/A, presso lo studio dell’avvocato Omissis, rappresentata e difesa dall’avvocato  Omissis, giusta procura ad litem in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Omissis SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA TORTONA 4, presso lo studio degli avvocati Omissis e Omissis, che la rappresentano e difendono, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 166/41/2009 della Commissione Tributaria Regionale di NAPOLI del 26.6.09, depositata il 17/07/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/04/2012 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO VALITUTTI;

E’ presente il Procuratore Generale in persona del Dott. RAFFAELE CENICCOLA.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

La Corte;

– rilevato che, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., è stata depositata in cancelleria la seguente relazione:

“Con sentenza n. 166/41/09, la CTR della Campania rigettava l’appello proposto dall’Omissis s.p.a. avverso la decisione di prime cure, con la quale era stato accolto il ricorso proposto dalla Omissis s.r.l. nei confronti della cartella di pagamento, emessa ai fini IRPEF per gli anni di imposta 2000 e 2001. Il giudice di appello riteneva, invero, affetta da nullità la notifica di tali atti, poiché effettuata in (OMISSIS), anziché al n. civico (OMISSIS), corrispondente alla residenza effettiva del legale rappresentante della società.

Avverso la suddetta decisione della CTR della Campania ha proposto ricorso per cassazione la Omissis s.p.a. articolando due motivi, con i quali deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 145 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.

L’intimata ha replicato con controricorso.

I due motivi di ricorso – che, attesa la loro evidente connessione, vanno esaminati congiuntamente – si palesano manifestamente fondati.

Ed invero, va osservato che la notificazione degli avvisi di accertamento tributario a soggetti diversi dalle persone fisiche non si sottrae alla regola generale, enunciata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti tributari al contribuente dev’essere fatta nel comune dove quest’ultimo ha il domicilio fiscale.

In riferimento alla notifica di atti alle società commerciali, il necessario coordinamento di tale disciplina con quella di cui all’art. 145 c.p.c., comporta, pertanto, che, in caso d’impossibilità di eseguire la notificazione presso la sede sociale, il criterio sussidiario della notificazione alla persona fisica che la rappresenta è applicabile soltanto se tale persona fisica, oltre ad essere identificata nell’atto, risiede nel comune in cui l’ente ha il suo domicilio fiscale, da individuarsi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58 (Cass. 3618/06, 6325/08).

In caso contrario, non potrà che farsi ricorso al criterio di cui all’art. 60, lett. e) (affissione nell’albo del Comune del luogo un cui la società contribuente ha il domicilio fiscale), puntualmente seguito, nel caso, concreto, dall’amministrazione sia pure in concorso con il tentativo – non riuscito – di notifica presso il domicilio dell’amministratore della società.

Per tutte le ragioni che precedono, pertanto, il ricorso può essere deciso in camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 1″;

– che la relazione è stata comunicata al pubblico ministero e notificata agli avvocati delle parti;

– che non sono state depositate conclusioni scritte, nè memorie.

Considerato che il Collegio, a seguito della discussione in camera di consiglio condivide i motivi in fatto e in diritto esposti nella relazione. Pertanto, riaffermato il principio di diritto sopra richiamato, il ricorso va accolto, la sentenza impugnata deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va decisa nel merito, con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza, mentre vanno compensate le spese dei gradi di merito.

La Corte Suprema di Cassazione

P.Q.M.

accoglie il ricorso; cassa l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo del contribuente; condanna il resistente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 1.600,00, oltre alle spese generali e accessori di legge; dichiara compensate le spese dei gradi di merito.