Comm. trib. regionale Veneto Sez. XIV, Sent., 17-01-2008, n. 49

Svolgimento del processo
Il servizio riscossione tributi G. spa notificava al contribuente A.G., cartella di pagamento per complessivi euro …, contestualmente iscrivendo corrispondente ipoteca sui beni dello stesso.

Proponeva ricorso il contribuente lamentando, oltre ai vizi della cartella (mancata sottoscrizione, omessa indicazione del responsabile del procedimento, mancata notifica dell’atto presupposto), anche l’illegittimità della pretesa in quanto socio accomandante (ex art. 2313 cod. civ.) di società dichiarata fallita.

L’Agenzia delle Entrate Ufficio di Este, si è costituita in giudizio confermando che la responsabilità del socio accomandante doveva restare limitata all’importo di Euro …, corrispondente alla quota conferita, compensando le spese.

La Commissione Tributaria di Padova accoglieva il ricorso annullando la cartella e disponendo la cancellazione dell’iscrizione ipotecaria accesa dall’ente concessionario della riscossione.

Propone appello la G. spa ribadendo la validità della cartella, pur mancante di sottoscrizione ed indicazione del responsabile del procedimento e ribadendo, per le lamentate illegittimità dell’iscrizione a ruolo e carenza di motivazione della cartella, proprio difetto di legittimazione passiva rimanendo, la predisposizione e la motivazione del ruolo, di esclusiva competenza dell’ente impositore.

Propone appello incidentale l’Ufficio ribadendo la validità del ruolo notificato, secondo norma, alla Società, con relativa cartella di pagamento notificata e non impugnata. Ribadisce altresì che. la responsabilità del socio accomandante è limitata .alla quota di partecipazione e quindi all’importo di euro …

Motivi della decisione
Entrambi gli appelli meritano accoglimento.

È fondato l’appello dell’Ufficio il quale ha dimostrato come la pretesa fiscale sia stata contenuta nell’ambito della quota conferita dal G., socio accomandante della società fallita, alla quale a suo tempo fu correttamente notificato sia l’avviso di accertamento che, successivamente, la cartella di pagamento, ai quali fu fatto però significativamente acquiescenza per omessa impugnazione di entrambi da parte dell’unica legittimata società.

È fondato altresì l’appello della G. spa. Richiamando la giurisprudenza consolidata in termini di non necessità della sottoscrizione della cartella di pagamento, corrispondente peraltro, al modello ministeriale che, appunto, non richiede tale formalità, va ricordata la recentissima ordinanza della Corte Costituzionale (n. 377/2007) che ha affermato la legittimità costituzionale della norma relativa alla indicazione del responsabile del procedimento anche nelle cartelle di pagamento.

Fatta questa premessa, in ordine alla portata generale di tale norma di garanzia (l’obbligo imposto ai concessionari di indicare nelle cartelle di pagamento il responsabile del procedimento, lungi dall’essere un inutile adempimento, ha lo scopo di assicurare la trasparenza dell’attività amministrativa, la piena informazione del cittadino, anche ai fini di eventuali azioni nei confronti del responsabile, e la garanzia. del diritto di difesa, che sono altrettanti aspetti del buon andamento e dell’imparzialità della pubblica amministrazione predicati dall’art. 97, primo comma, Cost.) osserva la Commissione come sia problematica la individuazione delle conseguenze della omissione della indicazione, posto il generale principio che la nullità degli atti è sanzione così grave, che deve essere prevista espressamente dal legislatore per il tipo di violazione di cui si discute. Orbene nella fattispecie la normativa prevista dall’art. 7 dello Statuto del Contribuente, approvato con legge 212/2000, non prevede alcuna sanzione.

In assenza dell’insegnamento della Suprema Corte, che pure non tarderà di formarsi sul punto, questa Commissione non ritiene di poter condividere l’opinione contraria di qualche giudice di merito, favorevole alla dichiarazione di nullità, principalmente in funzione del generale principio richiamato. Ricorda peraltro altre affermazioni di merito relative alla individuazione delle conseguenze della omessa indicazione nella sola responsabilità disciplinare del funzionario e nella individuazione del responsabile del procedimento, in caso di omessa indicazione nell’atto, nella persona del capo dell’Ufficio.

La cartella esattoriale in questione deve pertanto ritenersi legittima e corretta. Conseguentemente in riforma della appellata decisione, va accolto sia l’appello dell’Ufficio che quello della G., confermandosi la cartella di pagamento impugnata.

Sussistono giusti motivi affinché le parti, avuto riguardo alla novità della questione, sopportino definitivamente le spese processuali anticipate.

P.Q.M.
Accoglie gli appelli proposti dalla G. spa e dall’Ufficio e, in totale riforma dell’impugnata decisione, dichiara la legittimità e correttezza della cartella esattoriale in esame. Nulla per le spese.


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 04-12-2007) 14-01-2008, n. 627

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. SENESE Salvatore – Presidente di Sezione

Dott. MORELLI Mario Rosario – Consigliere

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – rel. Consigliere

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere

Dott. MALPICA Emilio – Consigliere

Dott. TIRELLI Francesco – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, entrambi domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

S.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 355/00 della Commissione tributaria regionale di PERUGIA, depositata il 05/06/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/12/07 dal Consigliere Dott. Alfonso AMATUCCI;

udito l’Avvocato VARRONE, dell’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso iscritto al numero di R.G. 18015 del 2001 il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno chiesto la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Perugia del 5 giugno 2000, con la quale è stato rigettato l’appello proposto dall’Ufficio delle Entrate di Città di Castello avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Perugia, emessa nel giudizio promosso da S.M..

Il ricorso propone un unico motivo, illustrato anche da memoria, con il quale si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 133 del 1999, art. 28, del D.L. n. 791 del 1985, art. 3, comma 2 bis, della L. n. 449 del 1997, art. 13, comma 1, della L. n. 46 del 1986, art. 10, del D.P.R. n. 597 del 1973, art. 2, e del D.L. n. 202 del 1989, convertito nella L. n. 263 del 1989. Vi si prospettano questioni relative alla effettiva portata delle agevolazioni fiscali a favore dei residenti nelle zone terremotate o colpite da bradisismo in ordine alla determinazione della base imponibile relativa alla imposta sui redditi prodotti in dette zone.

2. L’esame del ricorso è stato rimesso dal Primo Presidente a queste Sezioni Unite a seguito di ordinanza interlocutoria della Sezione Tributaria n. 23222 del 3 novembre 2006, per il ritenuto coinvolgimento di una questione di massima di particolare importanza.

3. Con la predetta ordinanza la Sezione Tributaria, dopo aver premesso che il ricorso era stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica il 26 giugno 2001 e che questi, avvalendosi del servizio postale, lo aveva presentato il giorno stesso alla posta per la spedizione a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento ai sensi dell’art. 149 c.p.c., comma 2, riferisce che l’intimato non ha resistito e che i ricorrenti non hanno depositato la cartolina postale di ricevuta di ritorno della raccomandata.

Osserva quindi che, in relazione alla notificazione a mezzo posta, è consolidato l’orientamento della Corte secondo il quale, per il perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario, è necessario ch’egli abbia ricevuto l’atto o che esso sia pervenuto nella sua sfera di conoscibilità; e che l’unico documento idoneo a fornire tale dimostrazione, nonché della data in cui essa è avvenuta e dell’identità ed idoneità della persona cui il plico sia stato consegnato è la ricevuta di ritorno della raccomandata (L. n. 890 del 1982, art. 149 cit., e art. 4, commi 3 e 8); ovvero, per il caso di suo smarrimento o distruzione, il duplicato rilasciato dall’ufficio postale. Così che, quando la notificazione si riferisca ad un atto di impugnazione ed il notificante non ottemperi all’onere di depositare in giudizio la ricevuta di ritorno, l’impugnazione è inammissibile (salvo che sia riproposta nel termine per l’impugnazione e prima che sia dichiarata l’inammissibilità), “perché il mancato completamento del procedimento notificatorio determina l’inesistenza della notifica (Cass. 2722/2005), e perciò la causa non può esser messa in decisione (L. n. 890 del 1982, art. 5, comma 3) ed il Giudice non può ordinare la rinnovazione della notifica (art. 291 c.p.c.)”.

Rileva ancora la Sezione Tributaria che si è escluso (vengono citate Cass., nn. 4900 del 2004 e 2722 del 2005) che su tale orientamento abbia potuto incidere la declaratoria di incostituzionalità del combinato disposto dell’art. 149 c.p.c., e L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 2, di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002 (cui hanno fatto seguito le sentenze di quella Corte nn. 28 e 97 del 2004), avendo essa influito sulla sola disciplina del momento (quando) nel quale la notificazione si considera tempestivamente eseguita per il notificante, ma non anche su quella relativa ai requisiti del suo perfezionamento (an).

Si afferma, peraltro, che con recente sentenza n. 10216 del 2006 le Sezioni unite hanno ritenuto che, nell’ipotesi in cui l’intempestivo o mancato completamento della procedura notificatoria sia conseguenza di attività, errori o inerzie non imputabili al notificante perchè sottratte ai suoi poteri di impulso, egli ha il potere di rinnovare la notificazione nei confronti del destinatario. E si sostiene che tale arresto potrebbe influire sull’orientamento secondo il quale la mancata produzione dell’avviso di ricevimento, quale documento probatorio del perfezionamento per il destinatario della notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, determina l’inammissibilità dell’atto da compiersi in un termine perentorio: ciò in quanto l’assolvimento di tale onere probatorio per un verso è successivo alla consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario e, per altro verso, è “dipendente dalla restituzione della ricevuta di ritorno da parte dell’ufficio postale”. Sicchè – conclude l’ordinanza – “potrebbe ipotizzarsi la possibilità per il Giudice di disporre il rinnovo della notifica, ovvero di concedere al notificante che lo richieda un termine perentorio per la produzione della ricevuta di ritorno della raccomandata o di idonea certificazione sostitutiva”.

Motivi della decisione
1. E’ stato reiteratamente affermato che la notificazione a mezzo posta deve considerarsi inesistente nel caso in cui non venga prodotto in giudizio l’avviso di ricevimento e che sia per questo preclusa l’applicabilità dell’art. 291 c.p.c.,, comma 1, essendo la rinnovazione correlata al rilievo di “un vizio che importi nullità della notificazione” e non essendo consentito farvi ricorso quando addirittura difetti la prova della sua esistenza.

L’orientamento risulta confermato, con specifico riferimento alla notificazione del ricorso per cassazione, da una serie di decisioni (cfr., ex plurimis, Cass., nn. 24877/06, 10506/06, 1180/06, 23291/05, 12289/05, 5529/05, 4610/05, 1413/05, 2722/05, 23663/04, 16976/04, 5481/04, 4900/04, 11257/03, 11072/03, 13922/02, 1605/89, 2746/88, 4441/78, 3371/71, 2253/71) anche successive alla sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 2002 che, com’ è noto, in linea con le sue precedenti decisioni nn. 69 del 1994 e 358 del 1996 (cui hanno fatto seguito anche le sentenze nn. 477 del 2002, 28 e 97 del 2004, e 154 del 2005), ha sancito il principio della scissione fra il momento di perfezionamento della notificazione per il notificante e per il destinatario, fermo restando che il consolidamento dell’effetto anticipato per il primo dipende dal perfezionamento del procedimento notificatorio per il secondo.

La qualificazione della situazione conseguente alla mancata produzione dell’avviso di ricevimento come ipotesi di “inesistenza” della notificazione aveva, talo-ra, addirittura indotto a ritenere che neppure la costituzione dell’intimato costituisse fatto idoneo a determinare l’ammissibilità del ricorso per intervenuto raggiungimento dello scopo della notificazione (così Cass., nn. 181/1970 e 338/1972), benchè sia poi venuto affermandosi l’orientamento secondo il quale la costituzione del convenuto vale ad integrare essa stessa “la prova, sia pur presuntiva, dell’avvenuto ricevimento dell’atto, e così della regolarità del contraddittorio” (cfr. Cass., n. 3271/86, nonchè, ex multis, nn. 5141/94 e 3764/95).

Con recente sentenza (Cass., 24 luglio 2007, n. 16354) la Sezione Lavoro ha, peraltro, espressamente negato che la mancata produzione dell’avviso di ricevimento integri un’ipotesi di inesistenza o di nullità della notificazione a mezzo posta. Sul rilievo che l’avviso di ricevimento non è elemento costitutivo del procedimento di notificazione ma documento di prova dell’avvenuto perfezionamento della notifica per il destinatario, s’è ritenuto che l’omesso deposito determina il mancato assolvimento dell’onere, incombente sulla parte ricorrente, di dimostrare (eventualmente con distinta produzione ai sensi dell’art. 372 c.p.c.) l’avvenuta costituzione del rapporto processuale mediante il solo documento idoneo a provare sia l’intervenuta consegna dell’atto al destinatario, sia la data della stessa, sia l’identità e l’idoneità della persona a mani della quale è stata eseguita. Se ne sono tratti due corollari: il primo è che, non incidendo l’omessa produzione sulla validità della notifica, nemmeno è ammesso il procedimento di rinnovazione di cui all’art. 291 c.p.c., il quale presuppone la nullità della “eseguita” notificazione; il secondo è che, non equivalendo la mancata produzione neppure alla inesistenza della notificazione, l’intimato può comunque costituirsi, dovendosi la costituzione riguardare non già come una sanatoria bensì come prova dell’intervenuta consegna dell’atto al destinatario.

Sembra che la ricostruzione operata dalla sentenza appena citata sia la più aderente al dettato normativo di cui all’art. 4, comma 3, della L. 20 novembre 1982, n. 990, il quale stabilisce che “l’avviso di ricevimento costituisce prova dell’eseguita notificazione”, ed all’art. 5, comma 3, della stessa legge, laddove recita che “la causa non potrà essere messa in decisione se non sia allegato agli atti l’avviso di ricevimento, salvo che il convenuto si costituisca”. La previsione che possa esserlo se il convenuto si sia costituito depone per l’estraneità dell’allegazione dell’avviso di ricevimento alla struttura della notificazione, che si realizza con la consegna del piego contenente l’atto da notificare, di cui l’allegazione dell’avviso di ricevimento costituisce solo la prova, peraltro superflua se il convenuto si sia appunto costituito.

In difetto di costituzione del convenuto, l’omessa allegazione dell’avviso di ricevimento non consente, invero, alcuna inferenza né in ordine alla intervenuta consegna dell’atto al destinatario, né sulle ragioni per le quali la consegna potrebbe non essere avvenuta, né circa l’osservanza delle disposizioni in ordine ai requisiti della persona diversa dal destinatario cui l’atto può essere consegnato. L’unico dato di conoscenza emergente dalla relazione dell’ufficiale giudiziario è in tal caso costituito dall’essere stato il piego dato a mani del medesimo per la spedizione a mezzo posta e da questo all’ufficio postale per il recapito al destinatario ad un determinato indirizzo. Ma tanto evidentemente non vale a documentare che la consegna al destinatario sia stata poi effettivamente eseguita, e dunque che notificazione vi sia stata, né che sia mancata (o che sia stata eseguita in luogo o mediante consegna a persona in nessun modo riferibili al destinatario), nè che essa, quand’anche avvenuta, non sia nulla per inosservanza, secondo quanto statuito dall’art. 160 c.p.c., delle “disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia”, o per incertezza assoluta sulla sua identità. Quel che manca è, in tal caso, non già un elemento della fattispecie legale della notificazione (già verificatasi, o invalidalo mente intervenuta, o mancata), ma solo la documentazione destinata a provare un fatto, appunto la notificazione, che resta altrimenti ignoto e del quale non è possibile ravvisare in alcun modo l’esistenza (ma neppure l’inesistenza) in difetto di esercizio di attività difensiva da parte dell’intimato; la ricorrenza della quale, invece, per un verso attesta che la consegna è stata eseguita, avendo il destinatario avuto conoscenza dell’atto avverso il quale ha apprestato le sue difese e, per altro verso, può rivelarsi proprio per questo idonea a sanare, per intervenuto raggiungimento dello scopo dell’atto (ex art. 156 c.p.c., comma 3), le possibili nullità connesse ad una consegna irregolare.

2. Il caso deciso da queste Sezioni Unite con sentenza n. 10216 del 2006 – che la sezione tributaria richiama nel porre il problema del se, nel caso in cui l’intimato non abbia svolto attività difensiva e l’avviso di ricevimento non sia stato prodotto, sia o meno possibile disporre la rinnovazione della notifica del ricorso ex art. 291 c.p.c., ovvero concedere al ricorrente un termine per la produzione dell’avviso stesso – concerneva un’opposizione a decreto ingiuntivo, nella quale la consegna dell’atto per la notificazione era stata tempestiva ed invece il perfezionamento per il destinatario non si era compiuto a causa delle errate affermazioni date all’ufficiale giudiziario da un terzo, il quale aveva riferito, contrariamente al vero, che l’avvocato presso il quale l’intimante aveva eletto domicilio “era sloggiato”. L’opponente aveva, pertanto, di sua iniziativa notificato l’opposizione direttamente alla parte, ma questa volta con consegna dell’atto oltre il termine per la sua proposizione.

Negata dal giudice del merito la sussistenza dei presupposti di ammissibilità dell’opposizione tardiva, la sentenza è stata cassata per avere questa corte di legittimità escluso, in linea con le richiamate sentenze della Corte costituzionale, che dal mancato completamento dell’attività di notifica per “fatto non riconducibile a errore o negligenza del disponente” possa derivare, per lo stesso, un effetto di decadenza. Si è in particolare ritenuto che vada salvaguardato l’interesse del notificante a non vedersi addebitare il mancato esito della procedura notificatoria, per la parte sottratta al suo potere d’impulso, tutte le volte che esso “non per sua colpa” si sia determinato, all’uopo individuandosi due tipologie di moduli apprestati dall’ordinamento: quello attivabile su autorizzazione del giudice in accoglimento di previa istanza della parte, secondo lo schema della rimessione in termini di cui all’art. 184 bis c.p.c., che a sua volta rinvia all’art. 294 c.p.c.; e quello attivabile direttamente dalla parte, con atto soggetto al successivo controllo del giudice quanto all’effettiva esistenza delle ragioni che hanno impedito l’esercizio in modo tempestivo dell’attività altrimenti preclusa, secondo lo schema dell’opposizione tardiva di cui all’art. 650 c.p.c.. E si è chiarito che la scelta tra tali meccanismi non può essere operata a discrezione dell’interprete, ma deve avvenire in base ad un criterio di autocollegamento, nel senso che è dallo stesso sistema, o subsistema del quale fa parte il procedimento del cui “incolpevole” mancato completamento si tratta, che deve pervenire il modulo procedimentale per la rinnovazione della notifica precedentemente mancata “per causa non imputabile” al notificante.

3. Se può dunque dirsi acquisito il principio secondo il quale al notificante non può essere addebitato, ove non dipenda da un fatto a lui imputabile, il mancato perfezionamento della notificazione nei confronti del destinatario, alla stessa conclusione deve, a fortiori, addivenirsi in ordine alla mera mancanza di quella dimostrazione, sempre che la mancata produzione non sia dipesa da un fatto imputabile al notificante; e purchè non vi sia stato, prima della rimessione dell’atto all’ufficiale giudiziario, un fatto indotto dallo stesso notificante (o dal suo difensore) ed a lui imputabile che abbia reso impossibile il perfezionamento della notificazione per il destinatario, essendo evidente che in tal caso la mancata produzione, pur incolpevole, è del tutto priva di significato, non diversamente da come lo sarebbe stata la produzione, che avrebbe evidenziato il mancato perfezionamento per fatto imputabile.

Il rimedio alla situazione che si sta scrutinando va, invero, individuato nell’istituto della rimessione in termini, già ritenuto applicabile al giudizio di legittimità (tra le altre) da Cass., n. 7018 del 2004, pur in difetto di una disposizione che richiami, come l’art. 359 c.p.c., per il giudizio di appello, le norme dettate per il procedimento di primo grado davanti al tribunale. E’ stato in quell’occasione condivisibilmente affermato che militano in tal senso sia le innovazioni apportate all’art. 184 bis c.p.c., (come sostituito dal D.L. 18 ottobre 1995, n. 432, art. 6, convertito con modificazioni in L. 20 dicembre 1995, n. 534) con la soppressione del riferimento alle sole decadenze previste negli artt. 183 e 184 c.p.c., sia i recenti richiami della Corte costituzionale in ordine alle esigenze di certezza ed effettività delle garanzie difensive nel processo civile, sia il difetto di situazioni di incompatibilità tra la norma in questione e le peculiarità del giudizio di Cassazione. Non può del resto omettersi di tener conto della garanzia costituzionale dell’effettività del contraddittorio posta dal nuovo testo dell’art. 111 Cost., comma 2, sicché la regola dell’improrogabilità dei termini perentori posta dall’art. 153 c.p.c., non può costituire ostacolo al ripristino del contraddittorio quante volte la parte si vedrebbe dichiarare decaduta dall’impugnazione, pur avendo ritualmente e tempestivamente esercitato il relativo potere, per un fatto incolpevole che si collochi del tutto al di fuori della sua sfera di controllo e che avrebbe, altrimenti, un effetto lesivo del suo diritto di difesa in violazione dell’art. 24 Cost..

4. La raggiunta conclusione in ordine alla individuazione nella rimessione in termini, ex art. 184 bis c.p.c., dell’unica alternativa possibile all’immediata declaratoria di inammissibilità del ricorso in caso di mancata produzione dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente l’atto da notificare a mezzo posta (ex art. 149 c.p.c.) si fonda su considerazioni generalizzabili e, dunque, valide anche per il caso in cui l’avviso di ricevimento concerna la raccomandata con funzione informativa spedita, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., ed a completamento delle altre formalità indicate nello stesso articolo (deposito nella casa comunale ed affissione dell’avviso del deposito alla porta dell’abitazione, dell’ufficio e dell’azienda), al destinatario della notificazione cui non sia stato possibile eseguire la consegna per irreperibilità dello stesso o per incapacità o rifiuto delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c..

E’ ben vero che con ordinanza del 13 gennaio 2005, n. 458, queste Sezioni unite hanno ritenuto che, nel caso della mancata allegazione dell’avviso della raccomandata spedita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la notificazione dovesse considerarsi nulla, e dunque da rinnovarsi ex art. 291 c.p.c.; ma tanto è stato affermato solo in relazione alla ravvisata necessità dell’allegazione anche di tale avviso (oltre che di quello della raccomandata spedita ai sensi dell’art. 149 c.p.c., secondo quanto espressamente prescritto dal comma 2, di tale articolo), dopo che si era escluso che l’omessa produzione dello stesso desse luogo ad un’ipotesi di inesistenza, per doversi la notificazione considerare eseguita nei confronti del destinatario con l’assolvimento dell’ultimo degli adempimenti prescritti dall’art. 140 del codice di rito, perfezionativo dell’effetto della conoscibilità legale nei confronti del destinatario.

E’ stato peraltro chiarito che dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente può emergere che la raccomandata non è stata consegnata perché il destinatario risulta trasferito, oppure deceduto o, ancora, per altre ragioni le quali comunque rivelino che l’atto non è in realtà pervenuto nella sfera di conoscibilità dell’interessato e che, dunque, non si è prodotto l’effetto legale tipico ancorato a tale evento. E si è ritenuto che, appunto in difetto delle risultanze documentate dal non prodotto avviso di ricevimento, non potesse non riverberarsi sulla validità della notificazione la conseguente “incertezza” sull’esito della spedizione (ovvero, addirittura, sulla coincidenza del luogo in cui l’ufficiale giudiziario abbia svolto l’attività di cui all’art. 140 c.p.c., con quello di effettiva residenza, dimora o domicilio del destinatario), dissipabile solo mediante la “verifica” consentita dall’esame dell’avviso di ricevimento, postulata del resto dalla stessa previsione normativa nel momento in cui richiede che la spedizione della raccomandata ne sia corredata.

Anche in quell’occasione si è dunque ritenuto che l’avviso di ricevimento costituisce strumento di verifica della consegna, altrimenti incerta, ovvero delle ragioni della mancata consegna della raccomandata al destinatario, al di là delle conseguenze che se ne sono tratte sul piano dell’alternativa nullità/inesistenza, essendo la rinnovazione consentita solo nel primo caso (ex art. 291 c.p.c.) e non anche nel secondo (che parte della dottrina tende addirittura ad escludere come categoria giuridica al di fuori del caso, di cui al secondo comma dell’art. 161 c.p.c., della sentenza emessa a non iudice e di altre situazioni eccezionali).

Ma una volta escluso – come s’è fatto ex professo in questa sede, affrontando lo specifico problema posto dalla sezione tributaria – che la documentazione della consegna della raccomandata (id est: l’avviso di ricevimento) costituisca un momento strutturale del procedimento notificatorio, attenendo la stessa piuttosto alla prova della intervenuta instaurazione del contraddittorio (volta che, come s’è detto sopra, la consegna è già avvenuta o no, e validamente o invalidamente, prima ed indipendentemente dalla prova che ne sia poi data e dalla verifica che ne sia fatta), ragioni di coerenza sistematica e di semplificazione procedimentale impongono che siano tratte le medesime conseguenze sia nel caso che la raccomandata contenga l’atto da notificare, come accade quando la notifica avvenga ex art. 149 c.p.c., sia nel caso che sia destinata a svolgere per il destinatario un’essenziale funzione informativa della notificazione effettuata nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c., e dunque mediante l’espletamento di attività (deposito ed affissione) che inevitabilmente non garantiscono appieno che sia stato raggiunto l’effetto della conoscibilità.

Nella prassi giurisprudenziale è del resto frequente che la parte cui, in ragione della omessa produzione della ricevuta di ritorno della notifica effettuata a mezzo posta o ex art. 140 c.p.c., sia stato assegnato un termine per la rinnovazione, alla scadenza del termine ovvero all’udienza successiva esibisca non già la relazione della seconda notificazione, ma l’avviso di ricevimento della raccomandata relativa alla prima notificazione, in ipotesi andata a buon fine; e si ritiene che tanto autorizzi, ex post, a considerare superflua la disposta rinnovazione, essendosi il contraddittorio già instaurato ab origine. Il che vale a rendere palese, da un canto, che la rinnovazione della notificazione viene allora disposta indipendentemente dal rilievo di un vizio che ne importi la nullità, e dunque in assenza del presupposto che lo stesso art. 291 c.p.c., richiede; e, per altro verso, che l’assegnazione del termine per la rinnovazione finisce in tal caso con l’assumere la valenza di una rimessione in termini per la produzione del documento al di là dei limiti posti dall’art. 184 bis, che la rimessione in termini invece consente solo se la decadenza si sia verificata per causa non imputabile alla parte che vi sia incorsa.

5. Quando sia dunque affermato che l’avviso di ricevimento non è stato prodotto perché non restituito al notificante, questi dovrà anzitutto domandare di essere rimesso in termini per la produzione dell’avviso stesso, offrendo la prova documentale della non imputabilità della causa della omessa produzione e, dunque, di avere esperito i rimedi che la legge appresta per il caso che l’avviso di ricevimento non sia tempestivamente restituito o sia stato smarrito dall’amministrazione postale. Sarà pertanto necessario che depositi la documentazione dalla quale risulti che, con congruo anticipo rispetto alla data fissata dalla corte per la trattazione del ricorso, era stato richiesto il duplicato che l’amministrazione postale è tenuta a rilasciare nel caso di smarrimento dell’originale da parte dell’ufficio postale (ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 990, art. 6, comma 1): e tanto dovrà fare, se non vi abbia provveduto con la memoria depositata ai sensi dell’art. 378, ovvero degli artt. 375, 380 bis o 380 ter c.p.c., al più tardi in udienza prima che abbia inizio la relazione di cui all’art. 379 c.p.c., comma 1, ovvero all’adunanza in camera di consiglio di cui all’art. 380 bis c.p.c..

La modalità di produzione dell’avviso che avrebbe dovuto essere allegato all’originale ex art. 149 c.p.c., comma 2, ultima parte, (sebbene la L. n. 890 del 1982, art. 5, comma 4, consenta comunque il deposito del ricorso anche “prima del ritorno dell’avviso di ricevimento”) ovvero della documentazione attestante che la parte si era comunque attivata per ottenere l’originale o la copia, non possono essere, per il ricorso per cassazione, che quelle contemplate dall’art. 372 c.p.c., comma 2, il quale prevede bensì che il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, ma stabilisce anche che “deve essere notificato mediante elenco alle parti”.

Benché la norma non stabilisca espressamente quale sia la conseguenza della omessa notificazione dell’elenco dei documenti depositati direttamente in udienza prima dell’inizio della relazione, o all’adunanza di cui all’art. 380 bis, costituisce principio consolidato che a tale omissione consegue l’inutilizzabilità del documento quand’anche l’intimato non abbia resistito in giudizio con controricorso, non essendogli comunque preclusa la possibilità di partecipare alla discussione orale e di esercitare in tal modo la propria difesa anche in ordine alla documentazione predetta (Cass., nn. 13954/2006, 12671/2004, 3135/1998). E va qui ribadito che l’ipotesi di omesso esercizio di attività difensiva da parte del destinatario della notifica è, per il caso dell’avviso di ricevimento, l’unica data, essendosi sopra chiarito che, ove l’intimato si sia invece difeso, tanto vale in re ipsa ad attestare l’avvenuta conoscenza del ricorso e dunque, indirettamente, il positivo compimento del procedimento notificatorio.

Ebbene, la conseguenza dell’inutilizzabilità del documento prodotto senza la previa notificazione dell’elenco che lo menziona è stata tratta (v., ad es., Cass., n. 2702 del 2004 e n. 4248 del 2000) anche con specifico riguardo all’avviso di ricevimento del ricorso notificato a mezzo posta. Ciò sul rilievo che, dovendo il ricorso essere dichiarato inammissibile in difetto dell’unico documento dal quale risulti l’intervenuta instaurazione del contraddittorio, anch’esso costituisce un documento “relativo all’ammissibilità”, sicchè il deposito non può non essere soggetto alla regola posta dall’art. 372 c.p.c., comma 2.

Ritengono queste Sezioni unite che, in relazione all’avviso di ricevimento, tale conclusione non possa essere condivisa.

La ragione della inutilizzabilità ad altro non è, infatti, correlabile che alla possibile violazione del diritto di difesa della controparte, nel senso che questa, una volta ricevuta la notifica del verbale, avrebbe potuto determinarsi ad essere presente solo al fine di esercitare la propria difesa in relazione alle risultanze del documento depositato, dal quale avesse in ipotesi evinto irregolarità della notificazione non direttamente riscontrabili dalla corte sulla base della sola lettura dell’avviso. Tutte le vote, infatti, che dall’esame officioso dell’avviso risultassero nullità della notificazione, dovrà esserne disposta la rinnovazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c., risultando con ciò superata ogni questione relativa alla omessa notificazione dell’elenco. Resta del pari escluso – per ovvie ragioni – il caso nel quale la consegna del piego raccomandato sia avvenuta a mani del destinatario e che tanto risulti dalla ricevuta di ritorno.

Quanto agli altri casi di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7, commi 2 e 3, (consegna a persona di famiglia e convivente, o addetta alla casa o al servizio del destinatario, ovvero, in mancanza, al portiere o a persona addetta alla distribuzione della posta) va rilevato che la legge non dispone la notifica di copia del documento, ma solo di un elenco che lo indichi; e che da tale elenco altro non può risultare che la produzione dell’avviso di ricevimento e non anche il suo contenuto; contenuto che rimane del resto sconosciuto al destinatario della notificazione quand’anche l’avviso sia depositato unitamente al ricorso, nel quale neppure può essere menzionato, costituendo un documento che comunque viene in essere successivamente alla redazione dell’atto la cui notificazione è destinato a documentare, sicché la scelta della parte di esercitare o no attività difensiva è indipendente dalla conoscenza delle sue risultanze.

A ben vedere, dunque, una violazione del diritto di difesa sarebbe astrattamente configurabile in relazione al solo caso che il difensore della parte intimata che non abbia depositato il controricorso si sia tuttavia recato presso la cancelleria della corte per controllare le risultanze dell’avviso, non abbia potuto farlo e per questo non si sia presentato in udienza.

Ma, a parte il rilievo che l’art. 372 c.p.c., comma 2, non contempla alcun termine per la notifica dell’elenco, che ben potrebbe dunque intervenire anche dopo l’ipotetico controllo compiuto dalla parte, pare assorbente la considerazione che tale controllo comunque presupporrebbe la conoscenza o l’acquisita conoscenza della pendenza del ricorso (o del contenuto del controricorso) da parte di chi lo avesse effettuato, al quale sarebbe stata dunque data la possibilità di presentarsi in udienza e di svolgere in quella sede le proprie difese, ovvero di instare per una rimessione in termini per apprestarle, ai sensi dell’art. 184 bis c.p.c..

Se, invero, omessa la produzione dell’avviso relativo alla notificazione da parte del ricorrente, il destinatario si costituisca in udienza ma adduca tuttavia di aver avuto effettivà conoscenza del processo, a causa di un problema insorto nella fase del procedimento notificatorio successiva alla consegna del ricorso all’ufficiale giudiziario, in un momento tale che gli ha impedito di usufruire dei termini minimi per l’apprestamento della difesa (da determinarsi in complessivi sessanta giorni, ex art. 370 c.p.c., comma 1, e art. 377 c.p.c., comma 2,), potrà senz’altro domandare di essere rimesso in termini per depositare il controricorso, cioè per difendersi per iscritto, secondo le normali modalità previste per il giudizio di legittimità (la cui udienza dovrà, in caso di assegnazione di un nuovo termine, svolgersi in altra data, previo rinvio a nuovo ruolo). Così come analoga richiesta potrà svolgere il ricorrente principale se non sia stato depositato l’avviso di ricevimento del controricorso e dell’eventuale ricorso incidentale ed il notificante sia stato rimesso in termini.

Alla luce dell’esigenza di garantire che il processo possa andare a conclusione e che la (gravissima) sanzione dell’inammissibilità del ricorso o del controricorso non consegua ad una violazione insuscettibile di autentico pregiudizio per il destinatario della notificazione, sembra allora doversi concludere nel senso che, quanto all’avviso di ricevimento prodotto direttamente in udienza, l’omessa notifica dell’elenco di cui all’art. 372 c.p.c., comma 2, integra una violazione di carattere meramente formale, cui non consegue la inutilizzabilità del documento. Lo scopo della disposizione prevedente la notifica dell’elenco dei documenti depositati successivamente al deposito del ricorso è, invero, quello di garantire l’instaurazione del contraddittorio e la possibile esplicazione del diritto di difesa delle altre parti anche in ordine al contenuto dei documenti prodotti successivamente. E tali esigenze devono considerarsi soddisfatte sulla scorta della diretta produzione dell’avviso di ricevimento (ovvero della documentazione giustificativa della omessa produzione, dalla quale comunque risulti che il notificante si era diligentemente e con congruo anticipo attivato per ottenere copia dell’avviso, tuttavia non pervenutagli), quand’anche non preceduta dalla notificazione dell’elenco di cui all’art. 372 c.p.c., comma 2. 6. Va, da ultimo, precisato che all’indicazione in udienza della questione dell’inammissibilità del ricorso per la mancata produzione dell’avviso di ricevimento – cui la Corte è tenuta ex art. 384 c.p.c., comma 3, nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, per i ricorsi avverso le sentenze e gli altri provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 – non può conseguire, in caso di omessa immediata produzione, la possibilità di un rinvio perché la parte vi provveda successivamente.

Il consentire la produzione a seguito di rinvio si porrebbe in manifesta contraddizione con il principio, ricavabile dal novellato secondo comma dell’art. 111 Cost., secondo il quale i tempi di definizione di un processo non possono essere protratti per sopperire ad ingiustificate omissioni di una parte.

La concessione di un termine per osservazioni sulla questione sarà per contro necessaria solo nel caso in cui la mancanza dell’avviso non sia stata rilevata in udienza, dovendo la disposizione di cui all’art. 384 c.p.c., comma 3, interpretarsi nel senso che essa mira ad evitare solo che la decisione possa essere fondata su questioni rilevate d’ufficio che non abbiano costituito oggetto di dibattito tra le parti perché rilevate dalla Corte dopo la discussione (la cosiddetta “terza via”); non concerne invece le questioni che, siccome rilevate prima, avrebbero potuto essere dibattute se le parti fossero state presenti all’udienza e si fossero dunque avvalse di tutte le possibilità di espletamento di attività difensiva garantite dalla legge.

7. Devono conclusivamente enunciarsi i seguenti principi di diritto:

“ – la produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale ai sensi dell’art. 149 c.p.c., o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario da notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c., è richiesta dalla legge esclusivamente in funzione della prova dell’intervenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio;

– l’avviso non allegato al ricorso e non depositato successivamente può essere prodotto fino all’udienza di discussione di cui all’art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione prevista dal comma 1, della citata disposizione, ovvero fino all’adunanza della corte in camera di consiglio di cui all’art. 380 bis c.p.c., anche se non notificato mediante elenco alle altre parti ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2;

– in difetto di produzione dell’avviso di ricevimento ed in mancanza di esercizio di attività difensiva da parte dell’intimato il ricorso è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito e non ricorrendo i presupposti per la rinnovazione della notificazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c.;

– il difensore del ricorrente presente in udienza o all’adunanza della corte in camera di consiglio può tuttavia domandare di essere rimesso in termini, ai sensi dell’art. 180 bis c.p.c., per il deposito dell’avviso che affermi di non aver ricevuto, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all’amministrazione postale un duplicato dell’avviso stesso, secondo quanto previsto dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 6, comma 1”. 8. Nel caso in esame, non avendo l’intimato svolto attività difensiva e non avendo i ricorrenti addotto alcuna giustificazione in ordine alla mancata produzione dell’avviso di ricevimento della raccomandata spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, il ricorso va dichiarato inammissibile.

Non sussistono i presupposti per provvedere sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE A SEZIONI UNITE dichiara il ricorso inammissibile.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 4 dicembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2008


Cass. civ. Sez. V, (ud. 17-10-2007) 20-12-2007, n. 26844

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. CICALA Mario – Consigliere

Dott. CHIARINI Maria Margherita – rel. Consigliere

Dott. SCUFFI Massimo – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

F.M., M.P., M.G., M.F., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI MONTI PARIOLI 48, presso lo studio dell’avvocato MARINI GIUSEPPE, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato TOSI LORIS, giusta delega a margine;

– ricorrenti –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI TREVISO;

– intimato –

avverso la sentenza n. 99/00 della Commissione tributaria regionale di VENEZIA, depositata il 10/10/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/10/07 dal Consigliere Dott. CHIARINI Maria Margherita;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

F.M., M.F., G. e P. impugnavano due avvisi di accertamento notificati dall’Ufficio delle II.DD. con cui erano rettificate le dichiarazioni dei redditi dei coniugi M.B. e F.M. per gli anni 1989 e 1990 avendo l’Ufficio accertato sinteticamente (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4) un maggior reddito per gli anni 1989 e 1990 ai fini IRPEF ed ILOR – deducendo che l’Ufficio non aveva notificato gli atti impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio del de cuius.

La C.T.P. accoglieva il ricorso per illegittimità della notifica degli avvisi di accertamento, avvenuta in violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 4.

L’Ufficio interponeva appello, rilevando che l’eventuale nullità della notifica si era sanata per raggiungimento dello scopo.

La C.T.R., rilevato che gli eredi non contestavano l’omessa comunicazione all’Ufficio del decesso di M.B. (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2) e che all’atto della notifica degli avvisi, avvenuta, a mezzo del servizio postale, nell’ultimo domicilio del contribuente, la moglie, F.M., aveva firmato la ricevuta di ritorno senza nulla rappresentare al riguardo, sì che l’Ufficio ignorava il decesso del dante causa e perciò non poteva effettuare la notifica collettiva ed impersonale agli eredi, considerando inoltre che detta moglie è coerede del de cuius e quindi obbligata in solido con gli altri coeredi per le obbligazioni tributarie del medesimo (art. 65 cit.), affermava la validità della notifica ed accoglieva l’appello dell’Ufficio.

Ricorrono per cassazione F.M., M.P., M.G., M.F., cui resistono il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione

Deducono i ricorrenti: 1. “Art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Violazione di legge e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia.

Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 4. Nullità degli avvisi di accertamento in quanto notificati al contribuente: defunto anzichè, impersonalmente e collettivamente, agli eredi”. Nel caso di decesso del contribuente non comunicato all’Ufficio finanziario dagli eredi, la notifica degli atti tributari deve avvenire nell’ultimo domicilio del de cuius, collettivamente ed impersonalmente agli eredi, soggetti passivi del tributo.

Diversamente l’atto è insanabilmente nullo.

Pertanto erroneamente la C.T.R. ha affermato che la notifica impersonale e collettiva agli eredi va effettuata soltanto se è stato comunicato all’Ufficio il decesso, vero essendo invece che in tal caso essa va effettuata nel domicilio indicato da ciascun erede.

Nella fattispecie l’amministrazione conosceva il decesso del de cuius avvenuto due anni prima dell’avviso impugnato – per avere gli eredi presentato la dichiarazione di morte, la denuncia di successione, e le dichiarazioni dei redditi per gli anni 1995 e 1996 e quindi sia la notizia del decesso, sia i dati identificativi dei coeredi, potevano esser acquisiti direttamente (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 2).

Nemmeno ha rilievo la circostanza che la moglie del de cuius non abbia rappresentato il decesso del marito al portalettere, non essendo tale notizia idonea a far conoscere all’Ufficio nè le generalità degli eredi, nè il loro domicilio fiscale, sì che non poteva esser assimilata alla comunicazione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2, e tutt’al più poteva rendere edotto l’ufficio del decesso del de cuius, ma tale evento era già noto all’amministrazione con la dichiarazione di morte del medesimo;

quanto alla ricezione dell’avviso da parte della moglie del de cuius, l’atto era a lei cointestato in quanto codichiarante e non già quale erede o coerede del medesimo; conseguentemente nessun rapporto tributario si è instaurato tra gli eredi e l’amministrazione.

Il motivo è infondato.

1.1 – Le disposizioni che disciplinano la fattispecie rispettivamente dispongono (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, comma 2, prima parte, e comma 4): “Gli eredi del contribuente devono comunicare all’Ufficio delle imposte del domicilio fiscale del dante causa le proprie generalità ed il proprio domicilio fiscale”. “La notifica degli atti intestati al dante causa può esser effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio dello stesso ed è efficace nei confronti degli eredi che, almeno trenta giorni prima, non abbiano effettuato la comunicazione di cui al comma 2”.

Questa Corte aveva già affermato (Cass. 7494/1994) che, in caso di morte del contribuente, in mancanza della, tempestiva comunicazione, all’Ufficio delle imposte del domicilio fiscale di quest’ultimo – della ricorrenza di tale evento e del nominativo degli eredi, è valida, non potendosi procedere alla notifica collettiva ed impersonale agli eredi, prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, art. 65, la notificazione dell’avviso di accertamento, intestato al contribuente deceduto, mediante consegna dell’atto a persona legittimata a riceverla in ragione dei suoi rapporti con il destinatario, che non ne palesi l’avvenuto decesso. A questo principio si sono attenuti i Giudici di appello.

Questo orientamento è poi divenuto maggioritario (Cass. 13504/1993, 12886/2007, 8272/2006, 7645/2006, 16699/2005) considerando: “… si deve tener conto che il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 65, considera espressamente, e disciplina di conseguenza, la sola ipotesi in cui la morte del soggetto passivo del rapporto giuridico tributario sia nota all’Ufficio e la disarticola in due sottoipotesi:

1) una prima nella quale gli eredi abbiano comunicato all’Ufficio, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 65, comma 2, le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale, nel qual caso la notifica degli atti intestati al dante causa:

a) può essere effettuata a ciascuno degli eredi personalmente e individualmente e, quindi, nel loro domicilio fiscale differenziato;

oppure;

b) può esser effettuata agli eredi impersonalmente e collettivamente nell’ultimo domicilio del defunto anche per i 30 giorni successivi alla presentazione diretta all’Ufficio della comunicazione delle generalità degli eredi e del loro domicilio fiscale o successivi alla data di spedizione della raccomandata con ricevuta di ritorno della stessa comunicazione (D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 65, comma 4;

2) una seconda ipotesi nella quale gli eredi non abbiano comunicato all’Ufficio le proprie generalità e il proprio domicilio fiscale, in violazione dell’onere previsto dal D.P.R. 29 settembre 1973, n 600, art. 65, comma 2, n. 1, nel qual caso la notifica degli atti intestati al dante causa, della cui morte l’Ufficio è comunque a conoscenza, è efficacemente effettuata dall’Ufficio impersonalmente e collettivamente agli eredi nell’ultimo domicilio del defunto.

Pertanto, il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 65, comma 4, la cui formulazione non pare, per la verità, che sia stata concepita per facilitarne l’immediata comprensibilità è una disposizione derogatoria all’efficacia temporale della comunicazione delle generalità e del domicilio fiscale degli eredi ex art. 65, comma 2, nel senso che tale: comunicazione, invece di produrre i suoi effetti sin dalla sua ricezione da parte dell’Ufficio, inizia a produrli solo dopo che siano trascorsi trenta giorni..

Questo è, dunque, l’articolato, ma limitato, contenuto delle disposizioni normative inserite nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 65, perchè esso non considera affatto l’ipotesi in cui l’Ufficio non abbia alcuna conoscenza della morte del soggetto passivo di imposta.

In tal caso, a maggior ragione, l’Ufficio non ha la conoscenza nemmeno dell’esistenza di eredi e non potrebbe, pertanto, indirizzare loro alcun atto nè potrebbe renderli destinatari di alcuna operazione trasmissiva di conoscenza, come la notificazione di atti eventualmente destinati ad altri, cioè, per quel che qui interessa, destinati al loro dante causa. Ne deriva l’inapplicabilità del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 65, e l’inapplicabilità, quindi, anche delle due diverse modalità di realizzazione della notificazione di atti intestati ad un soggetto, la cui condizione di dante causa è ignota all’Ufficio. Ne consegue anche che gli atti intestati ad un soggetto, che, per quanto è a conoscenza dell’Ufficio, sia ancora in vita, deve essere non solo a lui destinato, ma a lui notificato nel suo domicilio fiscale come dichiarato”.

Questo è il caso in esame, come accertato dai Giudici di secondo grado secondo i quali è pacifico che gli eredi non hanno ottemperato all’onere di cui al comma 2, del succitato D.P.R. n. 600 del 1973, art. 65, e che l’ufficio non aveva avuto notizia del decesso del de cuius neppure dalla relata di notifica dell’atto, ricevuto dalla moglie del medesimo senza nulla dichiarare al riguardo. Ne consegue che le circostanze richiamate in ricorso a sostegno della conoscenza, da parte dell’Ufficio dell’ultimo domicilio fiscale del de cuius, del decesso da parte di quest’ultimo desumibile dal certificato di morte;

dalla denuncia di successione e dalla denuncia dei redditi degli eredi, in difetto di indicazione dell’atto processuale con cui sono state rappresentate in giudizio, non possono configurare il vizio di omesso esame su punto decisivo della controversia, e poichè involgono nuovi accertamenti di fatto, sono inammissibili in questa sede.

Pertanto le censure vanno respinte.

2 – “Inapplicabilità al caso di specie della sanatoria prevista dagli artt. 156 e 160 c.p.c.. Natura amministrativa dell’ avviso di accertamento”.

La proposizione del ricorso da parte degli eredi non ha sanato il vizio di notifica innanzi denunciato perché l’inesistenza dell’atto ne comporta l’insanabilità.

Inoltre le regole degli atti processuali non sono estensibili agli atti amministrativi.

Il rigetto del precedente motivo di ricorso sulle, questione pregiudiziale della invalidità della notifica effettuata dall’Ufficio rende priva di rilievo la questione, logicamente e giuridicamente successiva, della sanatoria degli atti invalidi.

3.- “Art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Violazione di legge: Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 8 e 25.

Intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi”.

Comunque, in via subordinata, le sanzioni irrogate non sono trasmissibili agli eredi del M. a norma dei succitati articoli.

Il motivo, formulato per la prima volta in questa sede, è inammissibile.

Infatti deve esser ribadito (Cass. 5713/2007) che in tema di sanzioni per violazione delle norme tributarie, qualora le modifiche del sistema sanzionatorio introdotte dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, nn. 471, 472 e 473 siano entrate in vigore nel corso del giudizio, incombe al contribuente l’onere di chiederne l’applicazione, anche in sede di deposito delle memorie ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 32, risultando altrimenti inammissibile nel giudizio di legittimità la censure riflettente la mancata applicazione della nuove, disciplina.

4.- Concludendo il ricorso va respinto.

Stante qualche pronuncia di, legittimità dissonante sulla prima questione si compensano le spese dei. giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2007.

Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2007


Cass. pen. Sez. V, (ud. 11-12-2007) 19-12-2007, n. 47096

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIZZUTI Giuseppe – Presidente

Dott. AMATO Alfonso – Consigliere

Dott. MARASCA Gennaro – Consigliere

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere

Dott. SANDRELLI Giangiacomo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA/ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

P.M.;

in proc. pen. a carico di:

T.G., n. a (OMISSIS);

avverso la sentenza del Tribunale di Torino, sezione di Chivasso, depositata il 15 settembre 2006;

Sentita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Aniello Nappi;

Udite le conclusioni del P.M. Dott. CONSOLO Santi, che ha chiesto il rigetto;

udito il difensore Avv. MITTONE Alberto.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con la sentenza impugnata il Tribunale di Torino, sezione di Chivasso, ha prosciolto T.G. perchè il fatto non sussiste dall’imputazione di avere abusivamente preso cognizione della corrispondenza informatica aziendale della dipendente M. R., licenziata poi sulla base delle informazioni così acquisite.

Ricorre per Cassazione il pubblico ministero e deduce violazione dell’art. 616 c.p., lamentando che il giudice del merito si sia fondato sull’erroneo presupposto della rilevanza della proprietà aziendale del mezzo di comunicazione violato, senza considerare il profilo funzionale della destinazione del mezzo telematico non solo al lavoro ma anche alla comunicazione, tutelata dall’art. 15 Cost..

Il ricorso è infondato.

L’art. 616 c.p., comma 1 punisce infatti la condotta di “chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta, ovvero sottrae o distrae, al fine di prenderne o di farne da altri prendere cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta, ovvero, in tutto o in parte, la distrugge o sopprime”. Sicché, quando non vi sia sottrazione o distrazione, la condotta di chi si limita a “prendere cognizione” è punibile solo se riguarda “corrispondenza chiusa”. Chi “prende cognizione” di “corrispondenza aperta” è punito solo se l’abbia a tale scopo sottratta al destinatario ovvero distratta dalla sua destinazione.

Ciò posto, e indiscussa l’estensione della tutela anche alla corrispondenza informatica o telematica (art. 616 c.p., comma 4), deve tuttavia ritenersi che tale corrispondenza possa essere qualificata come “chiusa” solo nei confronti dei soggetti che non siano legittimati all’accesso ai sistemi informatici di invio o di ricezione dei singoli messaggi. Infatti, diversamente da quanto avviene per la corrispondenza cartacea, di regola accessibile solo al destinatario, è appunto la legittimazione all’uso del sistema informatico o telematico che abilita alla conoscenza delle informazioni in esso custodite. Sicchè tale legittimazione può dipendere non solo dalla proprietà, ma soprattutto dalle norme che regolano l’uso degli impianti. E quando in particolare il sistema telematico sia protetto da Una password, deve ritenersi che la corrispondenza in esso custodita sia lecitamente conoscibile da parte di tutti coloro che legittimamente dispongano della chiave informatica di accesso. Anche quando la legittimazione all’accesso sia condizionata, l’eventuale violazione di tali condizioni può rilevare sotto altri profili, ma non può valere a qualificare la corrispondenza come “chiusa” anche nei confronti di chi sin dall’origine abbia un ordinario titolo di accesso.

Nel caso in esame è indiscusso, e ne da atto lo stesso ricorrente, che le password poste a protezione dei computer e della corrispondenza di ciascun dipendente dovevano essere a conoscenza anche dell’organizzazione aziendale, essendone prescritta la comunicazione, sia pure in busta chiusa, al superiore gerarchico, legittimato a utilizzarla per accedere al computer anche per la mera assenza dell’utilizzatore abituale.

Ne consegue che del tutto lecitamente T.G. prese cognizione della corrispondenza informatica aziendale della sua dipendente, utilizzando la chiave di accesso di cui legittimamente disponeva, come noto alla stessa M.R.. Infatti, secondo le prescrizioni del provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali n. 13 dell’1 marzo 2007, i dirigenti dell’azienda accedono legittimamente ai computer in dotazione ai propri dipendenti, quando delle condizioni di tale accesso sia stata loro data piena informazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 11 dicembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 19 dicembre 2007


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 20-11-2007) 11-12-2007, n. 25837

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di sezione

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. VITRONE Ugo – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – rel. Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

REGIONE UMBRIA, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, rappresentata e difesa dall’avvocato MANUALI PAOLA, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANAPO 20, presso lo studio dell’avvocato RIZZO CARLA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASTRANGELI D. FABRIZIO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 343/05 della Corte d’Appello di PERUGIA, depositata il 08/11/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. Guido VIDIRI;

uditi gli avvocati Goffredo GOBBI, per delega dell’avvocato Paola MANUALI, Fabrizio D. MASTRANGELI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento de primo e secondo motivo (giurisdizione dell’aga per la differenza retributiva fino al 30/6/1998; ago per il periodo successivo); rinvio per il resto ad una sezione semplice.

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 17 agosto 1999 dinanzi al Tribunale di Perugia, in funzione di giudice del lavoro, R.S.F. riferiva di essere dipendente della Regione dell’Umbria e di avere lavorato presso il “Centro di Studi Giuridici e Politici”, inquadrato nella 7^ qualifica funzionale. Con Delib. n. 14 del 1991, Delib. n. 13 del 1991, il Comitato Direttivo gli aveva affidato il compito di responsabile della Segreteria del Centro, dopo che dal settembre del 1991 il precedente responsabile, R.L., era stato collocato in quiescenza ed il Comitato aveva deciso di non ricoprire il posto. Dal 1 novembre 1991, in forza delle predette delibere, aveva ricoperto l’incarico di segretario, vacante in organico, espletandone tutte le mansioni sino al 31 dicembre 1998, allorchè con Delib. Giunta Regionale del 30 dicembre 1998, n. 6488, con decorrenza dal 1 gennaio 1999 era stato assegnato, in qualità di dirigente, alla segreteria del Centro il signor C.G..

L’espletamento di mansioni superiori non aveva mai comportato per esso ricorrente – inquadrato sino al 5 novembre 1992 nel 6^ livello e successivamente nel 7^ – alcun incremento economico. Tutto ciò premesso, chiedeva che gli venisse riconosciuto il trattamento corrispondente al 9^ livello e che la Regione fosse condannata a corrispondere le conseguenti differenze retributive.

Dopo la costituzione della Regione, che aveva eccepito preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice adito, quanto meno per il periodo antecedente al 30 giugno 1998, entro il quale si era svolta la maggior parte del rapporto, il Tribunale, ritenendo invece la propria giurisdizione, accoglieva la domanda e condannava la Regione al pagamento delle differenze retributive richieste nonchè al pagamento delle spese del giudizio.

A seguito di gravame, la Corte d’appello di Perugia con sentenza dell’8 novembre 2005 rigettava l’appello e confermava l’impugnata sentenza. Nel pervenire a tale decisione la Corte territoriale osservava in via pregiudiziale che sulla giurisdizione si era formato il giudicato atteso che, con la stessa ordinanza con cui era stata ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 29 del 1992, art. 56 e del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, era stata affermata “preliminarmente la propria giurisdizione a conoscere dell’intera vertenza”. Si era pertanto in presenza di un provvedimento che, pur qualificato “ordinanza”, conteneva nella prima parte un provvedimento sulla giurisdizione che, avendo natura di sentenza, andava tempestivamente impugnato, mentre nella seconda parte una vera ordinanza per essere stata rimessa al giudice delle leggi una questione di costituzionalità. Nel merito poi il giudice d’appello affermava che correttamente il Tribunale aveva ritenuto applicabile l’art. 36 Cost. al pubblico impiego privatizzato in una fattispecie in cui veniva rivendicata una retribuzione adeguata alle mansioni in concreto svolte, superiori a quelle di inquadramento. Avverso tale sentenza la Regione Umbria propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. Resiste con controricorso R.F.S..

Ambedue le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Nel controricorso R.S.F. afferma che il ricorso proposto dalla Regione notificato il 14 marzo 2006 (consegnato gli ufficiali giudiziari il 13 marzo 2006) è inammissibile “avendo quest’ultima notificato due ricorsi, di cui il primo è nullo in quanto non si comprende se viene chiesta la cessazione totale o parziale della sentenza di primo grado” e perchè la delega a proporre tale ricorso era stata conferita dal vice Presidente della Giunta senza che venissero enunciate nè provate le ragioni di impedimento alla firma per il Presidente della Regione, che aveva rilasciata invece regolare delega in relazione al secondo ricorso. A supporto della sua eccezione il R. deduce che la notificazione del primo atto in data 6 marzo 2006 aveva consumato il potere della Regione di ricorrere per cassazione sicchè il ricorso successivamente notificato non poteva sanare i vizi del primo che, per non essere stato oggetto di rinunzia, aveva finito per incardinare il rapporto processuale.

1.1. L’eccezione è priva di giuridico fondamento.

1.2. Ed invero va in primo luogo considerato che non può ritenersi in alcun modo inficiato di invalidità un ricorso per Cassazione che, sebbene mancante -come nel caso di specie – di una o più righe per mero errore di stampa, consenta tuttavia, sulla base del suo integrale contenuto, di desumere – dalla esposizione dei fatti e dei motivi posti a base della detta impugnazione – la richiesta di cassazione totale della sentenza impugnata. In ogni caso va considerato che il R. avverso il secondo ricorso non ha sollevato fondate ragioni di nullità e che inoltre non si è verificato nel caso di specie una consumazione del potere di impugnazione, atteso che questa Corte ha più volte ribadito il principio secondo cui la regola della consumazione dell’impugnazione non esclude che, dopo la proposizione di un’impugnazione viziata, possa esserne proposta una seconda immune dai vizi della precedente e destinata a sostituirla, precisando anche al riguardo che, per espressa previsione normativa (artt. 353 e 387 cod. proc. civ., rispettivamente per l’appello e per il ricorso per cassazione), la consumazione del diritto d’impugnazione presuppone l’esistenza – al tempo della proposizione della seconda impugnazione – di una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della precedente;

sicchè, in mancanza di tale (preesistente) declaratoria, ben è consentita la proposizione di una (altra) impugnazione (di contenuto identico o diverso) in sostituzione della precedente viziata, semprechè il relativo termine non sia decorso (cfr. in tali sensi:

Cass. 23 gennaio 1998 n. 643, cui adde tra le tante: Cass. 22 maggio 2007 n. 11870; Cass. 15 gennaio 2003 n. 491; Cass. 11 maggio 2002 n. 6560).

2. Quanto ora detto consente l’esame dei motivi del ricorso proposto dalla Regione Umbria.

3. Con il primo motivo la Regione denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., dell’art. 279 c.p.c., comma 2, e della L. 11 marzo 1953, art. 23, n. 87, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e 3 assumendo che la Corte d’appello ha errato nel ritenere che l’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale contenesse “nella prima parte un provvedimento sulla giurisdizione, avente natura di sentenza”, e che, su detto presupposto ha fatto scaturire la formazione del giudicato sulla giurisdizione.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione ed errata interpretazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 45, comma 17, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e 3. A tale riguardo sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere la giurisdizione del giudice amministrativo almeno sino al 30 giugno 1998, assumendo altresì che il R. doveva ritenersi assoggettato a decadenza per ogni pretesa relativa al suddetto periodo per essere dette pretese assoggettate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se proposte entro il 15 settembre 2000.

Con il terzo motivo la Regione Umbria lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 (ora art. 52 del t.u. approvato con il D.Lgs. n. 165 del 2001), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Precisa a tale riguardo la ricorrente che, come statuito più volte dai giudici amministrativi, solo a decorrere dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e precisamente solo a partire dal 22 novembre 1998, andava riconosciuto con carattere di generalità il diritto alle differenze retributive a favore del dipendente pubblico che abbia svolto le mansioni superiori, mentre per il periodo precedente non poteva essere riconosciuto alcun diverso trattamento economico nè facendo riferimento all’art. 36 Cost. nè all’art. 2126 c.c. nè all’art. 2041 c.c..

Con il quarto motivo la Regione denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo sul punto che è stato illegittimamente riconosciuto al R. un trattamento retributivo equivalente alla ex nona qualifica, spettante al personale dirigenziale, sicchè risultava violato il principio giurisprudenziale secondo cui la valutabilità delle mansioni superiori poteva di fatto avvenire con riferimento al livello o alla qualifica immediatamente superiore. Ed invero l’espletamento delle mansioni superiori da parte del dipendente non può riguardare una qualifica due volte superiore a quella rivestita, come invece era avvenuto nel caso di specie per essersi il R. visto riconosciuto un trattamento economico equivalente prima al sesto livello e successivamente al settimo e per avere, infine, rivendicato un trattamento equivalente al nono livello.

4. I primi due motivi del ricorso, da esaminarsi congiuntamente per essere relativi alla problematica del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e per comportare la risoluzione di questioni tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perchè privi di fondamento.

4.1. E’ del tutto pacifico in dottrina e nella giurisprudenza, e comunque univocamente postulato dal dato normativo (art. 134 Cost.;

L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23), che all’ordinanza con cui il giudice a quo motiva la rilevanza e la non manifesta infondatezza della ipotesi di illegittimità di norma che egli è chiamato ad applicare, non possa riconnettersi altro effetto che quello endoprocessuale di attivare l’incidente di costituzionalità (cfr. in tali sensi in motivazione: Cass. 21 luglio 1995 n. 7950), essendosi al riguardo statuito pure che l’ordinanza con la quale il giudice ritenga rilevante e non manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale trasmettendo gli atti alla Corte Costituzionale a norma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, con la sospensione del giudizio in corso e dell’esecuzione di propria precedente statuizione, configura un provvedimento strumentale ed ordinatorio, privo di carattere decisorio e, pertanto, non impugnabile neanche quando si ponga in discussione il potere stesso di quel giudice di disporre la remissione di detta questione alla Corte Costituzionale (cfr,. al riguardo:Cass., Sez. Un., 31 maggio 1984 n. 3317).

4.2. Come però emerge dalla lettura della impugnata sentenza l’ordinanza con la quale nella fattispecie in esame gli atti sono stati rimessi alla Corte costituzionale non può reputarsi provvedimento meramente ordinatorio per quanto attiene alla questione sulla giurisdizione, essendo stato il giudice delle leggi investito unicamente della diversa questione relativa alla diretta applicabilità dell’art. 36 Cost., al pubblico impiego, questione poi dichiarata infondata e che, non investendo in alcun modo la ritenuta giurisdizione del giudice ordinario, non poteva impedire il passaggio in giudicato sul punto della decisione del primo giudice.

4.3. A tale riguardo va ricordato che questa Corte di cassazione ha più volte statuito che, al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di sentenza o di ordinanza, è decisiva non già la forma adottata ma il suo contenuto (cosiddetto principio della prevalenza della sostanza sulla forma), di modo che allorquando il giudice, ancorchè con provvedimento avente veste formale di ordinanza, abbia, senza definire il giudizio, deciso una o più delle questioni di cui all’art. 279 cod. proc. civ. – in particolare affermando la propria giurisdizione – a detto provvedimento va riconosciuta natura di sentenza non definitiva ai sensi dell’art. 279 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, con l’ulteriore conseguenza che, a norma dell’art. 361 cod. proc. civ., avverso la stessa va fatta riserva di ricorso per cassazione o va proposto ricorso immediato, determinandosi, in difetto, il passaggio in giudicato della decisione, senza che rilevi in contrario che, nella sentenza definitiva, lo stesso giudice abbia poi ribadito la propria giurisdizione (cfr. ex plurimis: Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2005 n. 20470; Cass. 7 aprile 2006 n. 8174).

4.4. Nel caso di specie la Corte territoriale ha ritenuto che il provvedimento ricognitivo della giurisdizione del giudice ordinario aveva solo la forma dell’ordinanza mentre doveva considerarsi una sentenza per il suo contenuto; conclusione questa che – confortata anche dalla sottoscrizione dello stesso provvedimento da parte del presidente e dell’estensore e dalla distinta e propria collocazione, pur all’interno di esso, della questione di giurisdizione e di quella riguardante l’applicazione dell’art. 36 Cost. – si sottrae ad ogni censura in questa sede di legittimità per essere il provvedimento scrutinato sorretto da motivazione congrua, priva di salti logici e rispettosa dei principi applicabili in materia.

4.5. Per concludere sul punto va riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le pretese avanzate in giudizio da Silvio R.F. senza che possa farsi al riguardo una distinzione tra trattamento economico antecedente al 30 giugno 1998 e trattamento successivo, in conformità a quanto affermato di recente dalla giurisprudenza di queste stesse Sezioni Unite che, infatti – in una fattispecie assimilabile sotto molti profili a quella in esame – hanno statuito che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa da un dipendente comunale il quale, assumendo di essere stato legittimamente assegnato a mansioni inferiori rispetto alla qualifica riconosciuta da provvedimenti dell’amministrazione datrice di lavoro emanati prima del 30 giugno 1998, i cui effetti siano perduranti per il periodo successivo, chieda il ripristino delle mansioni di sua spettanza ed il risarcimento del danno. Ed invero, in presenza del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 7, che fissa una proroga della giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di pubblico impiego con riferimento alle “questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro” anteriori al 30 giugno 1998, per temperare il frazionamento delle domande ed evitare che i diritti divenuti esigibili in un certo arco temporale debbano essere fatti valere dinanzi a giudici diversi con competenza ripartita in base all’epoca della loro maturazione, qualora la lesione lamentata dal lavoratore abbia origine da un comportamento del datore di lavoro pubblico che si assume permanentemente illecito, deve farsi riferimento al momento della realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza del comportamento, di modo che, ove tale cessazione intervenga in data successiva al 30 giugno 1998, la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario(Cass., Sez. Un., 9 marzo 2007 n. 5404).

5. I due primi motivi di ricorso vanno pertanto rigettati dovendosi riconoscere la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le domande spiegate dal R..

6. Anche il terzo e quarto motivo del ricorso, con i quali si contesta con diverse argomentazioni l’applicabilità dell’art. 36 Cost., al rapporto di impiego pubblico ora privatizzato, vanno rigettati.

La Corte d’appello di Perugia, nel confermare la sentenza di primo grado, ha affermato che il R. ha svolto mansioni superiori a quelle proprie della qualifica funzionale di inquadramento e che, pertanto, ha diritto al riconoscimento di una retribuzione che tenendo conto, alla strega dell’art. 36 Cost., della qualità del lavoro spiegato sia correlata alle mansioni superiori svolte.

Le conclusioni cui è pervenuto il giudice d’appello – dopo avere evidenziato come il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 52, comma 6, (poi modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25) sia stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva – sono state supportate dalla considerazione che nella giurisprudenza sia ormai principio acquisito la necessità un giusto contemperamento, da perseguirsi attraverso il ricorso alla “giusta retribuzione” ex art. 36 Cost., fra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto anche nel caso che l’utilizzazione del dipendente avvenga in mansioni che siano state irregolarmente acquisite.

6.1. La giurisprudenza amministrativa ha seguito un orientamento volto al diniego dell’applicabilità dell’art. 36 Cost. al pubblico impiego sul presupposto che su detta norma volta al rispetto della “giusta retribuzione” dovessero prevalere gli artt. 97 e 98 Cost., non potendo il rapporto di pubblico impiego essere in alcun modo assimilato ad un rapporto di scambio e dovendosi, anche ai fini del controllo della spesa, rispettare l’esigenza di conservazione di un assetto della pubblica amministrazione rigido e trasparente, espressione della quale è quella della supremazia del parametro della qualifica su quello delle mansioni, sicchè in una siffatta ottica ostavano all’applicabilità dell’art. 36 Cost. pure le norme codicistiche dell’art. 2116 c.c. e art. 2041 c.c. (cfr. per tale indirizzo ex plurimis: Cons. Stato, Sez. 5^, 28 febbraio 2001 n. 1073; Cons. Stato, Sez. 6^, 4 dicembre 2000 n. 6466; Cons. Stato, Sez. 5^, 12 ottobre n. 1438; Cons. Stato, Sez. 6^, 29 settembre 1999 n. 1291).

Nonostante tale indirizzo – secondo cui, come visto, il principio della corrispondenza ex art. 36 Cost. della retribuzione dei lavoratori alla qualità e quantità del lavoro prestato, non può trovare applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza costituzionale – anche di recente ribadito (Cons. Stato, Sez. 6^, 7 giugno 2005 n. 2184;

Cons. Stato, Sez. 6^, 23 gennaio 2004 n. 222), si sono sul punto tuttavia manifestate, in alcune pronunzie dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, significative aperture verso una maggiore tutela del lavoratore essendosi ritenuto: che le differenze retribuitive vanno riconosciute al lavoratore sin dal momento dell’emanazione del D.Lgs. n. 387 del 1998 e non a partire dalla stipulazione dei nuovi contratti collettivi (Cons. Stato, Ad, plen. 28 gennaio 2000 n. 10), e che è consentita la trasposizione di regole privatistiche nell’area del pubblico impiego, sicchè l’art. 2126 c.c., può trovare applicazione anche in un rapporto instauratosi con la pubblica amministrazione, senza il rispetto delle norme che ne regolano la costituzione, con l’effetto che al dipendente di mero fatto della pubblica amministrazione devono essere riconosciute le prestazioni retributive e previdenziali (Cons. Stato, Ad. plen. 29 febbraio 1992 n. 1).

6.2. A diverse conclusioni è pervenuta la giurisprudenza dei giudici della legge per avere, infatti, la Corte costituzionale con numerose pronunzie patrocinato la diretta applicabilità al rapporto di pubblico impiego dei principi dettati dall’art. 36 Cost., specificando al riguardo che detta norma “determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato” a prescindere dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori (Corte Cost. 23 febbraio 1989 n. 57; Corte Cost ord. 26 luglio 1988 n. 908); che “il principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è incompatibile con il diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost.)” (Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236); che il mantenere da parte della pubblica amministrazione l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determina una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost. – perchè non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento” e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2).

6.3. L’estensione della norma costituzionale all’impiego pubblico è condivisa anche dalla dottrina giuslavoristica che evidenzia come – pur essendo a seguito del D.Lgs. n. 165 del 2001 il trattamento economico dell’impiegato disciplinato dalla contrattazione collettiva e pur essendo detta contrattazione con priva di vicoli unilateralmente opposti per fini di controllo della spesa pubblica (quali quelli derivanti dai primi tre commi dell’art. 48 del suddetto decreto) – i suddetti vincoli derivanti da esigenze di bilancio non impediscano comunque la piena operatività, anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall’art. 36 Cost..

Principio questo che per poggiare sulla peculiare corrispettività del rapporto lavorativo – qualificato dalla specifica rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare “una attività contrassegnata dall’implicazione della stessa persona del lavoratore”, il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia – da un lato ha portato autorevole dottrina a sganciare il rapporto giuridico retributivo dal novero dei diritti di credito per inquadrarlo tra i diritti assoluti della persona, e dall’altro ha spinto ad affermare, sulla base di una coessenzialità o di una stretta relazione dei due principi della “sufficienza” e della “proporzionalità” ostativa a qualsiasi rapporto gerarchico tra gli stessi, che l’attenuazione del principio sinallagmatico, integrato nel caso in esame dalla rilevanza della persona umana (che determina una traslazione del datore di lavoro del rischio della inattività del prestatore di lavoro, come in caso di sospensione del rapporto) attestano una dimensione sociale della retribuzione e la sentita esigenza della copertura a livello costituzionale dei diritti inderogabili del lavoratore.

6.4. Le considerazioni svolte forniscono le coordinate per la soluzione della problematica oggetto dell’esame di queste Sezioni Unite. Ed alla stregua di quanto sinora enunciato e proprio in conformità della ricordata giurisprudenza della Corte Costituzionale – in mancanza di ragioni nuove e diverse e per una consequenziale doverosa fedeltà ai precedenti, sulla quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge – deve essere ribadito il principio fissato dai giudici di legittimità secondo il quale, nel pubblico impiego privatizzato, il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25, è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6 ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio. Ne consegue che il principio della retribuzione proporzionato e sufficiente ex art. 36 Cost., è applicabile anche al pubblico impiego senza limitazioni temporali (cfr. al riguardo Cass. 17 aprile 2007 n. 9130 cui adde, da ultimo, Cass. 14 giugno 2007 n. 13877, che precisa anche che l’applicazione dell’art. 36 Cost. non debba però necessariamente tradursi in un rigido automatismo di spettanza al pubblico dipendente del trattamento economico esattamente corrispondente alle mansioni superiori ben potendo risultare diversamente osservato il precetto costituzionale anche mediante la corresponsione di un compenso aggiuntivo rispetto alla qualifica di appartenenza; ed ancora per lo stesso indirizzo: Cass. 14 giugno 2007 n. 13877;

Cass. 8 gennaio 2004 n. 91; Cass. 4 agosto 2004 n. 19444).

6.5. Corollario di quanto sinora esposto è che – stante la valenza generale dei criteri parametrici fissati dalla norma costituzionale in materia di retribuzione – il disposto dell’art. 36 Cost. non può non trovare applicazione anche nelle fattispecie, analoghe a quella in esame, in cui la pretesa del lavoratore alla retribuzione corrispondente allo svolgimento dell’attività prestata riguardi mansioni superiori corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento (cfr. sul punto: Cass. 25 ottobre 2004 n. 20692).

Sul versante fattuale, poi, l’estensione della norma costituzionale nei sensi innanzi precisati richiede in ogni caso che le mansioni assegnate siano in concreto svolte nella loro pienezza, sia per quanto attiene al profilo quantitativo che qualitativo dell’attività spiegata sia per quanto attiene all’esercizio dei poteri ed alle correlative responsabilità attribuite(cfr. al riguardo: Cass. 19 aprile 2007 n, 9328); circostanze queste che ben possono ritenersi provate sulla base dei fatti allegati in causa (ad esempio, lunga durata nello svolgimento delle mansioni, mancata denunzia di inadempimenti o di inesatti assolvimenti degli obblighi derivanti dalle mansioni assegnate) nonchè della condotta processuale della parte datoriale (acquiescenza o mancata contestazione ex art. 416 c.p.c. dei fatti e degli elementi di diritto della domanda di controparte).

6.6 Nè al fine di patrocinare una interpretazione del dato normativo diversa da quella seguita sulla scia della giurisprudenza costituzionale vale prospettare la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del diritto ad un’equa retribuzione ex art. 36 Cost., al lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l’accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perchè, come è stato rimarcato da più parti, il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione dell’organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la rilevanza costituzionale.

7. La particolare importanza della questione di diritto trattata induce queste Sezioni unite ai sensi del disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 1, (nel testo riscritto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12) – nella cui ratio non è affatto estraneo il rafforzamento della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione – ad enunciare il seguente principio di diritto: “In materia di pubblico impiego – come si evince anche dalla lettura del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, art. 56, comma 6, (nel testo sostituito dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 25, così come successivamente modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15) – l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori, anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento, ha diritto, in conformità della giurisprudenza della Corte Costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.. Norma questa che deve, quindi, trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che in relazione all’attività spiegata siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni.

8. Per concludere il ricorso va rigettato per essere la sentenza impugnata supportata da un iter argomentativo in linea con il principio di diritto ora enunciato.

9. Le spese del presente giudizio di Cassazione – tenuto conto della natura della controversia e della rilevanza e complessità delle numerose questioni giuridiche affrontate – vanno compensate tra le parti, ricorrendo giusti motivi.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 03-10-2007) 03-12-2007, n. 25158

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. CICALA Mario – Consigliere

Dott. SCUFFI Massimo – rel. Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA ASIAGO 8, presso lo studio dell’avvocato AURELI STANISLAO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA generale dello STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 156/01 della Commissione tributaria regionale di BOLOGNA, depositata il 16/07/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/10/07 dal Consigliere Dott. Massimo SCUFFI;

udito per il ricorrente l’Avvocato AURELI, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato GUIZZI, dell’Avvocatura dello Stato, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
T.M. impugnava due cartelle esattoriali IRPEF-ILOR-SSNN per gli anni di imposta 1991 e 1992 emesse su avvisi di accertamento divenuti definitivi chiedendone annullamento per difetto di motivazione e – con deduzioni aggiunte – invalidità di notifica degli atti presupposti.

La Commissione tributaria provinciale di Rimini accoglieva il ricorso ma la decisione veniva riformata dalla Commissione regionale di Bologna che – accogliendo l’appello dell’Ufficio – dopo aver precisato che i ruoli erano stati eseguiti in osservanza del disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 14, lett. b – osservava che le cartelle (rectius gli avvisi) erano stati consegnati presso l’abitazione della contribuente a mani della “zia addetta alla casa” e dunque di persona di famiglia in senso ampio che tale qualificatasi ne aveva accettato senza riserve la notificazione.

Dal ché discendeva la legittimità dell’operata iscrizione a ruolo in virtù di accertamenti resisi definitivi per omessa impugnazione.

Ricorre per la cassazione della sentenza il contribuente svolgendo 8 motivi di gravame.

Motivi della decisione
1. Va preliminarmente affrontato il motivo sub “c” con il quale viene denunziata violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2 e art. 22, comma 2 – 3 indicando l’atto d’appello solo l’esistenza dell’autorizzazione ad appellare non allegata agli atti e difettando – nella copia spedita – della certificazione di conformità all’originale.

La duplice censura è priva di pregio perché il provvedimento autorizzazione risulta ritualmente depositato ed allegato agli atti del fascicolo di 2^ grado, fermo restando il principio più volte affermato dal questa Corte secondo cui la produzione della autorizzazione – che costituisce presupposto processuale per l’ammissibilità del gravame – può avvenire in ogni momento del giudizio di impugnazione fino all’udienza di discussione (Cass. 4040/04 e Cass. 12702/04).

Va poi soggiunto che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3 richiamato, per il giudizio di appello, dall’art. 53, che disciplina il deposito nella segreteria della commissione tributaria adita della copia del ricorso notificato mediante consegna o spedizione a mezzo del servizio postale, va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra il documento depositato ed il documento notificato, ma solo la loro effettiva difformità, nella specie né rilevata dal giudice di merito nè mai dedotta dalla parte interessata in quel grado (Cass. 17180/04).

2. Con il motivo iniziale (sub “a”) la contribuente denunzia violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49 e 55, artt. 112 e 329 c.p.c., oltre a vizi di motivazione non avendo i giudici di appello tenuto presente dell’acquiescenza prestata dall’Agenzia delle entrate sul vizio di motivazione rilevato dai giudici di prime cure in via assorbente per cui le cartelle – quand’anche precedute da rituali notifiche degli avvisi di accertamento – restavano comunque nulle per difetto di motivazione. Aggiungeva – in alternativa – (sub “b”)che qualora la sentenza avesse argomentato implicitamente sul punto – restava comunque affetta da omessa motivazione al riguardo.

La deduzione è infondata posto che la Commissione regionale si è espressa compiutamente sul devolutimi ritenendo – in conformità all’appello dell’Ufficio – che le cartelle non erano atti di accertamento ex nova bensì atti applicativi di precedenti avvisi mai impugnati e resisi pertanto definitivi sicché non necessitavano di alcuna motivazione in quanto era da intendersi già conosciuta la presupposta pretesa fiscale poi iscritta a ruolo tramite le anzidette cartelle.

Infatti, a fronte dell’eccepito vizio di motivazione delle cartelle sotto il profilo dell’omessa menzione di qualsiasi indicazione o riferimento da cui fosse consentito al contribuente una verifica dei presupposti della iscrizione a ruolo, l’Amministrazione ha replicato che l’omessa dizione sulla derivazione del titolo a seguito di controllo formale della dichiarazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 ter, dipendeva dal fatto che non quella situazione originavano bensì dalla definitività degli accertamenti così come stabilito dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 14, lett. b.

Nè sostengasi – come contestato sub “e” – che vi sarebbe stata violazione dei principi regolatori del contraddittorio dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi L. n. 241 del 1990, ex art. 3, lett. d del diritto di difesa ex art. 24 Cost. per aver l’Ufficio esplicitato la sua pretesa (e cioè che la emissione della cartella era conseguenza di pregressi avvisi di accertamento definitivi) a processo già avviato per cui al momento dell’instaurazione del giudizio tali cartelle dovevano o ritenersi immotivate. Invero, pur avendo il processo tributario natura impugnatoria, nel senso che deve essere necessariamente introdotto attraverso l’impugnazione di specifici atti, lo stesso ha per oggetto il rapporto obbligatorio tributario ed in tale sede contenziosa va esercitato il diritto di difesa che non risulta nella specie minimamente compromesso vuoi per la natura estremamente elementare dell’atto (quando la cartella di pagamento fa seguito ad un avviso di accertamento divenuto definitivo si esaurisce in una mera intimazione di pagamento della somma dovuta in base all’avviso e non integra un nuovo ed autonomo atto impositivo) vuoi per aver il ricorrente – a fronte delle controdeduzioni dell’ufficio in merito alla sua derivazione – depositato memoria di integrazione dei motivi ivi svolgendo le ulteriori eccezioni qui riproposte sulla nullità della notifica dei presupposti avvisi di accertamento.

3. Il motivo principale (sub “d”) gravità sulla asserita violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 184 bis c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24 nonché della normativa in tema di notificazioni posto che la persona ricevente gli avvisi di accertamento solo occasionalmente si sarebbe trovata in loco per accudire i figli della ricorrente ma non era né convivente né addetta alla casa come erroneamente indicato dall’ufficiale notificatore le cui attestazioni erano assistite da pubblica fede solo per quanto di sua diretta percezione e non per le indicazioni da altri fornitegli o da semplici informazioni assunte.

Anche questa censura è inconsistente alla luce delle insindacabili constatazioni di fatto della Commissione regionale che ha verificato che tali avvisi erano stati ritualmente notificati nell’abitazione del contribuente con consegna a mai di soggetto qualificatosi zia addetta alla casa che in tale qualità li aveva sottoscritti.

Invero in caso di notificazione ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2, la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” sulla base dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica (che fa fede fino a querela di falso di quanto dichiarato avvenuto in sua presenza), incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la veridicità di quelle attestazioni l’onere di fornire la prova contraria ed, in particolare, di allegare e provare l’inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario, comportante una delle qualità su indicate, ovvero la occasionalità della presenza dello stesso consegnatario (Cass. 16164/03).

Circostanze queste asserite ma mai dimostrate dal contribuente.

4. Inconferenti sono poi i motivi sub “f” (violazione del D.P.R. n. 602 del 1873, art. 25, in quanto dalla lettura delle cartelle non sarebbe stato possibile ricostruire l’esattezza dei calcoli operati per la quantificazione degli importi iscritti a ruolo) e sub “g” (violazione del principio del favor rei D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 3, non avendo la Commissione regionale considerato lo ius superveniens in materia sanzionatoria tributaria): il 1^ perché privo di specificità non riportando neppure il contenuto delle cartelle il cui riscontro contabile era piuttosto da rinvenire nei presupposti accertamenti; il 2^ perché egualmente privo di autosufficienza stante l’estrema genericità dell’invocato ricalcolo delle sanzioni tra l’altro mai dedotto in grado di appello quando già era vigente la relativa disciplina.

5. Inammissibile – alla luce delle argomentazioni che precedono – è infine l’ultimo motivo (sub “h”) che lamenta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, basandosi il metodo di accertamento induttivo adottato su criteri del tutto arbitrali e difettando quelle gravi omissioni o false indicazioni sulle scritture contabili che potevano giustificarli.

Trattasi di contestazioni di merito che andavano fatte falere con tempestivo ricorso avverso gli avvisi di accertamento che quei metodi e criteri avevano adottato e che – ovviamente – non possono essere recuperati con l’impugnazione delle cartelle per vizi che non sono propri delle medesime.

6. Il ricorso va conclusivamente rigettato e la ricorrente condannata a rifondere le spese del presente giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
LA SUPREMA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere le spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 1100,00 (di cui Euro 1000,00 per onorario) oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2007.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2007


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 09-10-2007) 02-11-2007, n. 23031

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente di Sezione

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Consigliere

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Consigliere

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Consigliere

Dott. TRIFONE Francesco – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

C.V., G.G., L.C.B., L.G., R.G., V.G., elettivamente domiciliati in Roma, via Portuense 104, presso Antonia De Angelis, rappresentati e difesi dall’avv. DE LUCA Donato giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n. 255/06 del 12 gennaio 2006, depositata il 26 maggio 2006, notificata il 19 marzo 2007;

Udito l’avv. Gianni De Bellis per l’Avvocatura Generale dello Stato e l’avv. Donato De Luca per i controricorrenti;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 9 ottobre 2007 dal Consigliere Dott. Raffaele Botta;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale che ha concluso per il rigetto del ricorso e per la dichiarazione della giurisdizione del giudice amministrativo.

Svolgimento del processo
La controversia origina dalla impugnazione, proposta innanzi al TAR Catania dalle odierne parti controricorrenti in proprio e quali associati al centro Studi Notariato di Catania, avverso la Circolare del 31 maggio 2005 prot. n. 2005/3.0/25079 emessa dall’Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale per la Sicilia, avente ad oggetto “L.R. 26 marzo 2002, n. 2, recante Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2002. Art. 60, (Agevolazioni fiscali). Attività di recupero d’imposta. Direttiva agli Uffici”, nonchè degli atti richiamati nella circolare medesima, emessi dalla Direzione centrale normativa e contenzioso della stessa Agenzia, da ultimo ribaditi con nota del 23 marzo 2005, n. 53667, tutti riguardanti l’interpretazione della legge regionale siciliana indicata nell’oggetto. Con l’impugnazione era dedotta la violazione dell’art. 60 della predetta legge regionale e successive modifiche: tale norma agevolativa, con riferimento agli atti elencati nella L. n. 604 del 1954, art. 1, (tra i quali gli atti di compravendita immobiliare), avrebbe previsto, secondo l’assunto dei ricorrenti e al contrario di quanto si affermava da parte dell’Agenzia, l’applicabilità del beneficio anche agli atti di compravendita diversi da quelli preordinati alla formazione ed all’arrotondamento della proprietà contadina (come originariamente stabilito dalla L. n. 604 del 1954, citato art. 1).

Il TAR Catania, con sentenza n. 1075/05 del 7 giugno 2005, depositata il 28 giugno 2005, ritenuto ammissibile il ricorso e sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo (il cui difetto era stato eccepito dalla costituita Agenzia delle Entrate), accoglieva il ricorso stesso e annullava gli atti impugnati, ritenendo che la norma agevolativa disponesse il beneficio a favore di chiunque ponesse in essere uno degli atti elencati nella L. n. 604 del 1954, art. 1, comma 1, senza che occorresse far riferimento al fine perseguito dagli atti elencati e cioè alla ricomposizione della piccola proprietà contadina.

Avverso tale sentenza, l’Agenzia delle Entrate interponeva appello al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, riproponendo l’eccezione di difetto di giurisdizione e insistendo per l’infondatezza del ricorso originario. L’impugnazione era dichiarata improcedibile dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana per sopravvenuta carenza di interesse, stante l’approvazione di una norma di interpretazione autentica della disposizione oggetto di contestazione, contenuta nella L.R. Sicilia n. 19 del 2005, art. 20, comma 15, che così recitava: “Le agevolazioni di cui alla L.R. 26 marzo 2002, n. 2, art. 60, ed alla L.R. 16 aprile 2003, n. 4, art. 99, si applicano per tutti gli atti traslativi da chiunque posti in essere a partire dal 1 gennaio 2002 fino alla data del 31 dicembre 2006, alla sola condizione che abbiano ad oggetto terreni agricoli secondo gli strumenti urbanistici vigenti alla data di stipula dell’atto e loro pertinenze; il riferimento al primo comma della L. 6 agosto 1954, n. 604, art. 1, vale solo ai fini dell’individuazione delle tipologie di atti agevolati. La presente disposizione costituisce interpretazione autentica della L.R. 26 marzo 2002, n. 2, art. 60”.

L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe con unico motivo, denunciando il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo. Resistono con controricorso, illustrato anche con memoria, i Dott.ri C.V., G.G., L.C.B., L.G., R.G. e V.G..

Motivi della decisione
In via preliminare deve essere, d’ufficio, rilevata l’ammissibilità del ricorso.

La sentenza del Giudice amministrativo, impugnata dall’Agenzia delle Entrate, nonostante formalmente abbia dichiarato l’improcedibilità del ricorso, ha, in effetti, pronunciato sul merito del ricorso stesso, giacchè, essendo stato applicato alla fattispecie lo ius superveniens, tale applicazione si è risolta nel riconoscimento della pretesa dei ricorrenti (avente per oggetto l’eliminazione dell’atto ad essi sfavorevole): siffatta decisione, quindi, presuppone una implicita pronuncia sulla giurisdizione del giudice amministrativo che l’ha emessa, con la conseguenza che la sentenza – in quanto affetta, secondo la tesi dedotta dall’amministrazione ricorrente, da vizi, per essersi pronunciata (sia pur per implicito) su questioni sottratte alla cognizione di qualsiasi giudice, ovvero demandate ad un diverso ordine giurisdizionale – è ricorribile innanzi a queste Sezioni Unite essendo in discussione, senza che vi osti alcuna preclusione, una presunta violazione dei limiti esterni della giurisdizione.

Passando all’esame della questione di giurisdizione, occorre precisare che l’atto oggetto di impugnazione nel giudizio amministrativo è costituito da una circolare interpretativa dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Sicilia, con la quale l’amministrazione, con contestuale invio di una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, aveva interpretato la L.R. Sicilia 26 marzo 2002, n. 2, individuando quali fossero, a suo parere, le condizioni che dovevano sussiste per la concessione delle agevolazioni dalla stessa legge previste.

Per la sua natura e per il suo contenuto (di mera interpretazione di una norma di legge), non potendo esserle riconosciuta alcuna efficacia normativa esterna, la circolare non può essere annoverata fra gli atti generali di imposizione, impugnabili innanzi al giudice amministrativo, in via di azione, o disapplicabili dal giudice tributario od ordinario, in via incidentale. Il che rileva, in primo luogo, sul piano generale, perché le circolari, come è stato affermato dalla dottrina prevalente, non possono nè contenere disposizioni derogative di norme di legge, né essere considerate alla stregua di norme regolamentari vere e proprie, che, come tali vincolano tutti i soggetti dell’ordinamento, essendo dotate di efficacia esclusivamente interna nell’ambito dell’amministrazione all’interno della quale sono emesse; e, in secondo luogo, con particolare riferimento all’ordinamento tributario, il quale come è noto, è soggetto alla riserva di legge. D’altra parte, per quanto concerne la dottrina specialistica, coloro che non concordano con una simile generale impostazione, pervengono, in definitiva, alla medesima conclusione, perché sostengono che l’irrilevanza normativa delle circolari dal punto di vista del sistema tributario significa che le stesse sono inidonee, in quanto contenenti norme interne, ad operare all’esterno dell’ordinamento minore cui appartengono. Secondo i fautori di tale tesi dottrinaria, infatti, questa semplice premessa avrebbe il pregio di ridurre al rango di pseudo problema la questione della non impugnabilità in via autonoma delle circolari: proprio perché rilevanti all’interno di un ordinamento parziale (o sezionale), esse non possono essere prese in considerazione dall’ordinamento generale, cui, invece, appartiene – per definizione – il potere giurisdizionale.

Anche la giurisprudenza ha da tempo espresso analoga opinione sulla inefficacia normativa esterna delle circolari. A quest’ultime, infatti, è stata attribuita la natura di atti meramente interni della pubblica amministrazione, i quali, contenendo istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali o gerarchicamente superiori agli enti o organi periferici o subordinati, esauriscono la loro portata ed efficacia giuridica nei rapporti tra i suddetti organismi ed i loro funzionari. Le circolari amministrative, quindi, non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all’amministrazione, nè acquistare efficacia vincolante per quest’ultima, essendo destinate esclusivamente ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti, senza poter incidere sul rapporto tributario, tenuto anche conto che la materia tributaria è regolata soltanto dalla legge, con esclusione di qualunque potere o facoltà discrezionale dell’amministrazione finanziaria (in questa prospettiva cfr. Cass., Sez. 1^, 25 marzo 1983, n. 2092 e 17 novembre 1995, n. 11931; Cass. Sez. 5^, 10 novembre 2000, n. 14619 e del 14 luglio 2003 n. 11011).

Questi risultati interpretativi vanno condivisi alla stregua delle seguenti considerazioni.

1) La circolare emanata nella materia tributaria non vincola il contribuente, che resta pienamente libero di non adottare un comportamento ad essa uniforme, in piena coerenza con la regola che in un sistema tributario basato essenzialmente sull’auto tassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata (almeno in una prima fase, quella, appunto, della determinazione dell’imposta da corrispondere) direttamente al contribuente.

2) La circolare nemmeno vincola, a ben vedere, gli uffici gerarchicamente sottordinati, ai quali non è vietato di disattenderla (evenienza, questa, che, peraltro, è raro che si verifichi nella pratica), senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall’ufficio (atto impositivo, diniego di rimborso, ecc.) possa essere ritenuto illegittimo “per violazione della circolare”: infatti, se la (interpretazione contenuta nella) circolare è errata, l’atto emanato sarà legittimo perché conforme alla legge, se, invece, la (interpretazione contenuta nella) circolare è corretta, l’atto emanato sarà illegittimo per violazione di legge.

3) La circolare non vincola addirittura la stessa autorità che l’ha emanata, la quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere l’interpretazione adottata. Ciò è tanto vero che si è posto il problema della eventuale tutela del contribuente di fronte al mutamento di indirizzo (interpretativo) adottato dall’amministrazione e si è escluso che tale tutela sia possibile anche sotto il profilo dell’affidamento, stante la evidente collisione che si determinerebbe con il principio – coniugato secondo un diverso lessico, ma riferito ad un unico concetto – di inderogabilità delle norme tributarie, di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, di vincolatezza della funzione di imposizione, di irrinunciabilità del diritto di imposta. Non si può, al riguardo, non concordare con quella autorevole dottrina che sostiene che, ammettere che l’amministrazione, quando esprime opinioni interpretative (ancorché prive di fondamento nella legge), crea vincoli per sè e i Giudici tributari, equivale a riconoscere all’amministrazione stessa un potere normativo che, a tacer d’altro, è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge codificato dall’art. 23 Cost.. Tutt’al più, come è stato pure affermato, potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell’amministrazione di un precedente indirizzo (interpretativo) sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, eventualmente rilevi (o possa esse valutato) ai fini della applicazione delle sanzioni.

4) La circolare non vincola, infine, come già si è detto, il Giudice tributario (e, a maggior ragione, la Corte di Cassazione) dato che per l’annullamento di un atto impositivo emesso sulla base di una interpretazione data dall’amministrazione e ritenuta non conforme alla legge, non dovrà essere disapplicata la circolare, in quanto l’ordinamento affida esclusivamente al Giudice il compito di interpretare la norma (del resto, al Giudice tributario è attribuita, nella materia tributaria, la giurisdizione esclusiva). In tal caso non può non concordarsi con una autorevole dottrina secondo la quale, ammettere l’impugnabilità della circolare interpretativa innanzi al giudice amministrativo – con la possibilità per quest’ultimo di annullarla, peraltro con effetto erga omnes – significherebbe precludere a tutti gli uffici dell’amministrazione finanziaria di accogliere quella interpretazione, con il risultato – contrario ai principi costituzionali – di elevare il Giudice amministrativo al rango di interprete autentico della norma tributaria.

In realtà, la circolare interpretativa esprime, come è stato efficacemente detto, una “dottrina dell’amministrazione”, vale a dire l’opinione di una parte (anche se “forte”) del rapporto tributario, che, peraltro, può essere discussa e disattesa dal giudice tributario. E, qualora il giudizio di quest’ultimo corrisponda al parere espresso dall’amministrazione, caso sarà pur sempre l’interpretazione del giudice che avrà esclusivo valore ed efficacia.

L’irrilevanza, nel senso fin qui spiegato, della circolare interpretativa in materia tributaria è stata, indirettamente, confermata da una recente sentenza della Corte Costituzionale – la n. 191 del 14 giugno 2007 – a proposito di un atto che sembrerebbe avere rispetto alla circolare, un “valore più cogente”, dato il suo carattere “intersoggettivo”, e cioè la risposta dell’Agenzia delle Entrate ad una istanza di interpello L. 27 luglio 2000, n. 212, ex art. 11, (c.d. “Statuto del contribuente”).

La norma, come è noto, prevede che il contribuente possa “inoltrare per iscritto all’amministrazione finanziaria, che risponde entro cento venti giorni, circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse” (art. 11, comma 1): “la risposta dell’amministrazione finanziaria, scritta e motivata, vincola con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza di interpello, e limitatamente al richiedente” (art. 11, comma 2). Orbene, la Corte costituzionale, affermato che “l’istituto dell’interpello del contribuente, regolato dalla L. n. 212 del 2000, art. 11, costituisce lo strumento attraverso il quale si esplica in via generale l’attività consultiva delle agenzie fiscali in ordine all’interpretazione delle disposizioni tributarie”, evidenzia che il parere espresso nella risposta “è vincolante soltanto per l’amministrazione e non anche per il contribuente, il quale resta libero di disattenderlo”: “coerentemente con la natura consultiva dell’attività demandata all’Agenzia delle entrate nella procedura di interpello, l’art. 11, non prevede, invece, alcun obbligo per il contribuente di conformarsi alla risposta dell’amministrazione finanziaria, nè statuisce l’autonoma impugnabilità di detta risposta davanti alle commissioni tributarie (oggetto di impugnazione può essere, eventualmente, solo l’atto con il quale l’amministrazione esercita la potestà impositiva in conformità all’interpretazione data dall’agenzia fiscale nella risposta all’interpello)”: sicchè deve ritenersi che “la risposta all’interpello, resa dall’amministrazione ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 11, deve considerarsi un mero parere, che non integra alcun esercizio di potestà impositiva nei confronti del richiedente”. Conclusione, codesta, che deve essere assunta anche riguardo alla circolare emanata dall’amministrazione.

Alla luce delle considerazioni svolte può, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: “La circolare con la quale l’Agenzia delle Entrate interpreti una norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati perché vi si uniformino, esprime esclusivamente un parere dell’amministrazione non vincolante per il contribuente, e non è, quindi, impugnabile né innanzi al Giudice amministrativo, non essendo un atto generale di imposizione, nè innanzi al giudice tributario, non essendo atto di esercizio di potestà impositiva”. Va, pertanto, dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione con la conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata. La particolarità e complessità della fattispecie giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara il difetto assoluto di giurisdizione. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 ottobre 2007.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2007


Corte dei Conti: nota interpretativa in materia di denunce di danno erariale

Corte dei Conti

Prot. P.G. 9434/2007P del 02 agosto 2007

Nota interpretativa in materia di denunce di danno erariale ai Procuratori regionali presso le Sezioni giurisprudenziali regionali della Corte dei Conti

Leggi: Nota interpretativa danno Erariale – Corte dei Conti 2007


Corte Costituzionale n. 366 del 24.10.2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

– Franco BILE Presidente

– Francesco AMIRANTE Giudice

– Ugo DE SIERVO “

– Paolo MADDALENA “

– Alfio FINOCCHIARO “

– Alfonso QUARANTA “

– Franco GALLO “

– Luigi MAZZELLA “

– Sabino CASSESE “

– Maria Rita SAULLE “

– Giuseppe TESAURO “

– Paolo Maria NAPOLITANO “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f) del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), e dell’art. 26, ultimo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), promossi con ordinanze depositate il 18 settembre 2006 dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, nel giudizio vertente tra Ornella Capra, l’Agenzia delle entrate – Ufficio di Genova ed altri, ed il 23 ottobre 2006 dal Tribunale di Genova, nel giudizio vertente tra Carmelo Torrente, quale procuratore generale in Italia di Ambrogio Bozzo, e la s.p.a. Gest Line, rispettivamente iscritte al n. 312 ed al n. 390 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18 e n. 21, prima serie speciale, dell’anno 2007.

Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 10 ottobre 2007 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

1. – Nel corso di un giudizio tributario – nel quale una contribuente aveva impugnato alcune cartelle di pagamento per IRPEF e TOSAP – promosso nei confronti del Comune di Genova, della Agenzia delle entrate-Ufficio di Genova e della s.p.a. Gest Line, concessionaria del servizio per la riscossione dei tributi, la Commissione tributaria provinciale di Genova, con ordinanza depositata il 18 settembre 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) [quest’ultimo nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche ad esso apportate dal comma 27 dell’art. 37 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248], nella parte in cui, nel caso di notificazione a cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria in base all’iscrizione nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), escludono – in combinato disposto con l’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) – «l’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 142 c.p.c.».

La Commissione rimettente premette, in punto di fatto, che: a) la contribuente chiede la dichiarazione di nullità della notificazione delle cartelle di pagamento impugnate e di prescrizione dei crediti vantati dagli enti convenuti; b) la stessa contribuente deduce di essere residente negli Stati Uniti d’America, di essere iscritta nell’AIRE del Comune di Genova e di aver appreso casualmente, in mancanza di notificazioni od altri avvisi, che, a causa dei debiti tributari risultanti dalle predette cartelle, pendeva procedimento di esecuzione forzata su un immobile di sua proprietà sito in Genova, e che «le notificazioni di legge» erano state eseguite presso un immobile in Genova, da lei precedentemente alienato sin dal 1992; c) la notificazione delle cartelle impugnate era stata eseguita nell’ultima residenza della contribuente nel territorio dello Stato «da tempo venuta meno addirittura con la alienazione dell’immobile di cui si tratta»; d) tale notificazione si era risolta «in un mero deposito alla Casa Comunale non seguito nemmeno dalla spedizione di un avviso con lettera raccomandata» e, pertanto, le cartelle non erano di fatto pervenute a conoscenza della destinataria.

Il giudice a quo riferisce di avere già sollevato, nel corso del medesimo giudizio, «in riferimento agli artt. 1, 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità degli articoli 58, primo e secondo comma (recte: primo comma e secondo periodo del secondo comma), e 60, primo comma, lettere c) ed e), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui regolano le modalità delle notificazioni in materia tributaria nei confronti dei cittadini residenti all’estero (recte: delle predette disposizioni del d.P.R. n. 600 del 1973 in combinato disposto con l’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante «Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito»)».

Lo stesso giudice a quo riferisce altresì che la Corte costituzionale, con l’ordinanza n. 210 del 2006, ha dichiarato la manifesta inammissibilità della suddetta questione, perché l’ordinanza di rimessione non aveva ricompreso fra le norme censurate l’art. 60, primo comma, lettera f), del d.P.R. n. 600 del 1973, il quale, unitamente alla lettera c) dello stesso comma, evidenzia l’intenzione del legislatore di non prendere affatto in considerazione luoghi di notificazione degli atti tributari diversi da quello del domicilio fiscale in un comune dello Stato, stabilendo che alla notificazione degli atti tributari non si applica l’articolo 142 del codice di procedura civile, e cioè proprio la norma che riguarda il caso, oggetto di esame, della notificazione di atti a persona che non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio.

Prendendo atto della motivazione della citata ordinanza della Corte costituzionale, il rimettente, nel riproporre analoga questione di legittimità costituzionale, censura, in aggiunta alle disposizioni già denunciate con la prima ordinanza di rimessione, la lettera f) del primo comma dell’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973. Osserva, al riguardo, che «i requisiti di non manifesta infondatezza della questione» sono stati «implicitamente riconosciuti dalla stessa Corte nella propria decisione, con riferimento ad altra norma da denunciarsi» e precisa che l’esclusione, da parte delle norme censurate, dell’applicabilità dell’art. 142 cod. proc. civ. – norma che, per assicurare l’effettivo buon fine delle notificazioni all’estero, prevede l’applicazione delle convenzioni internazionali o comunque la spedizione di copia dell’atto con raccomandata al destinatario e la consegna di altra copia al pubblico ministero per l’inoltro in via consolare – «evidenzia l’intenzione del legislatore di non prendere in considerazione luoghi di notificazione degli atti tributari diversi da quello del domicilio fiscale in un comune dello Stato». In particolare, il giudice a quo afferma che le norme censurate violano sia il diritto di difesa, perché non garantiscono al destinatario della notificazione l’effettiva conoscenza dell’atto notificato, sia il principio di uguaglianza, perché esse si applicano ingiustificatamente ai soli atti tributari e penalizzano pesantemente il contribuente per il solo fatto di non risiedere nel territorio nazionale.

Il medesimo giudice osserva, in punto di rilevanza, che «solo la caducazione della norma ora denunciata consentirebbe un favorevole accoglimento del ricorso».

2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per l’infondatezza della questione.

Per la difesa erariale, la sollevata questione sarebbe inammissibile: a) per insufficiente descrizione della fattispecie, perché il rimettente ha omesso di indicare sia la data di iscrizione della contribuente nell’AIRE, sia quella di notificazione delle cartelle di pagamento impugnate, con la conseguenza che tali omissioni non consentono alla Corte di verificare l’anteriorità di detta iscrizione rispetto alla notificazione delle cartelle e, quindi, la rilevanza della questione; b) perché la materia si presta ad una pluralità di opzioni normative e ciò non rende possibile «un intervento additivo del giudice delle leggi il quale imponga come costituzionalmente obbligata una determinata disciplina diversa da quella vigente».

Ad avviso della stessa difesa dello Stato, la questione sarebbe infondata, perché: a) la denunciata disparità di trattamento dei cittadini destinatari di notificazioni di atti in materia tributaria residenti all’estero è esclusa sia dalla specificità di detta materia – che, in ragione del dovere dei cittadini di concorrere alle spese pubbliche sancito dall’art. 53 Cost., giustifica la speciale disciplina della notificazione degli atti tributari nel territorio dello Stato ove si è prodotto il reddito –, sia dalla facoltà riconosciuta al cittadino residente all’estero, anche successivamente all’istituzione dell’AIRE, di eleggere domicilio presso una persona od un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale, ai sensi dell’art. 60, primo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973, risultando in tal modo garantita anche al contribuente residente all’estero la conoscibilità degli atti tributari; b) «la ragionevolezza della disciplina delle notificazioni degli atti di imposizione tributaria nella parte in cui prevede che tali notificazioni si eseguano esclusivamente nel territorio italiano» discende dal primo comma dell’art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973 – in forza del quale tutti i soggetti passivi di imposte sui redditi si considerano domiciliati in un comune dello Stato –, comma che non sarebbe stato censurato dal rimettente.

3. – Nel corso di un giudizio di opposizione all’esecuzione ed agli atti esecutivi promosso, ai sensi degli artt. 615 e 617 cod. proc. civ., nei confronti della s.p.a. Gest Line, concessionaria del servizio per la riscossione dei tributi, dal procuratore generale in Italia di un cittadino italiano residente in Santo Domingo, il Tribunale di Genova, con ordinanza del 23 ottobre 2006, ha sollevato – in riferimento agli artt. 1, 3, 24 e 42 della Costituzione – questione di legittimità degli artt. 58, primo e secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f) del d.P.R. n. 600 del 1973 [quest’ultimo nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche ad esso apportate dal comma 27 dell’art. 37 del decreto legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 248 del 2006], nella parte in cui, nel caso di notificazione a cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dal concessionario per la riscossione in base all’iscrizione nell’AIRE, non prevedono che la notificazione sia eseguita mediante la spedizione a mezzo posta al destinatario di una copia dell’atto o, almeno, di un avviso dell’avvenuto deposito dell’atto nella Casa comunale.

Il giudice a quo premette che:

a) l’opponente denuncia la mancata notificazione dell’avviso di vendita e degli atti a questo prodromici, costituiti da cartelle di pagamento;

b) la società convenuta deduce, di contro, la regolare notificazione di detti atti, ai sensi degli artt. 58, 59 e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, disciplinanti la notificazione degli atti in materia tributaria;

c) nella specie, l’avviso di vendita era stato notificato al debitore nel rispetto degli artt. 58, 59 e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, mediante deposito ed affissione presso la Casa comunale di Recco, in data 9 aprile 2005, quando il destinatario della notificazione era residente nella Repubblica Dominicana, come risultava dall’iscrizione, sin dal 12 ottobre 2000, nell’AIRE, e come era noto al notificante, in base alla documentazione allegata all’avviso.

Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente osserva che, in base alle norme denunciate, v’è «una piú che concreta possibilità» che il processo esecutivo abbia inizio senza che l’esecutato ne abbia avuto notizia: infatti, esse dispongono che la notificazione dell’avviso di vendita al cittadino italiano residente all’estero avvenga mediante deposito nella Casa comunale «di un luogo diverso (e potenzialmente remoto […]) rispetto a quello ove si trovano la reale residenza o l’effettivo domicilio del debitore» e, «allo stesso tempo, non prevedono la spedizione a mezzo posta di una copia dell’atto, o almeno di un avviso del deposito dell’atto».

Ad avviso del giudice a quo, tale normativa comporta, pertanto, la violazione:

a) dell’art. 1 Cost., perché «l’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi […] non può essere perseguito a prezzo del sacrificio dei diritti costituzionalmente garantiti del cittadino, a meno di porsi in contrasto con il principio della sovranità popolare»;

b) dell’art. 3 Cost., perché viene a crearsi, in materia di notificazione degli atti, una ingiustificata disparità di trattamento tra cittadini sottoposti all’espropriazione regolata dalle norme del codice di procedura civile (per la quale vigono le norme ordinarie) e quelli sottoposti ad esecuzione esattoriale (per la quale vigono le speciali norme denunciate);

c) dell’art. 24 Cost., perché viene menomata la possibilità del debitore di esercitare il proprio diritto di difesa; d) dell’art. 42 Cost., perché la vendita forzata di un bene del debitore, senza che quest’ultimo abbia previamente avuto conoscenza dell’instaurazione del procedimento esecutivo, lede il diritto di proprietà privata.

Quanto alla rilevanza, il rimettente osserva che, «ove il motivo di opposizione concernente la notificazione delle cartelle dovesse risultare inammissibile ai sensi dell’art. 57 d.P.R. n. 602/73 […], ai fini della decisione diverrebbe […] dirimente la questione concernente la regolarità della notificazione dell’avviso di vendita» e, quindi, la questione concernente la legittimità costituzionale delle disposizioni denunciate, disciplinanti «il compimento dell’atto notificatorio la cui validità è oggetto di contestazione».

4. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l’inammissibilità e, comunque, per l’infondatezza della questione.

In ordine all’inammissibilità, l’Avvocatura erariale rileva l’astrattezza della questione, perché, nel sollevarla, il giudice a quo non si è posto il problema se, nella specie, sia provato (al di là delle generiche asserzioni dell’opponente) che la notifica non abbia raggiunto lo scopo di portare gli atti a conoscenza del debitore.

In ordine all’infondatezza, la difesa dello Stato sostiene che:

a) è inconferente il richiamo all’art. 1 Cost. (cui andrebbe comunque contrapposta la valenza etico-sociale dell’art. 53 Cost.);

b) la difesa in giudizio garantita dall’art. 24 Cost. presuppone che il cittadino abbia fatto uso della “normale diligenza” nella cura delle relazioni giuridiche intersoggettive, specialmente se connesse a doveri stabiliti dalla Costituzione, quale quello sancito dall’art. 53 Cost., mentre nell’ordinanza di rimessione non si precisa, in ordine a detto presupposto, se l’iscrizione della contribuente nell’AIRE sia avvenuta «in data anteriore – non solo alla notifica degli atti esecutivi, sub iudice nella causa principale, ma anche – alla notifica degli atti (stricto sensu, impositivi) a quella presupposti»;

c) la notificazione è stata effettuata nel domicilio fiscale del contribuente, ai sensi della normativa denunciata, la quale è diretta ad agevolare l’amministrazione finanziaria, perché la esonera dall’onere di ricerche al di fuori di tale domicilio, senza che sia in tal modo leso il diritto di difesa del contribuente, il quale può precisare, sia pure nell’àmbito del domicilio fiscale, un proprio indirizzo, ai sensi del quarto comma dell’art. 58 del d.P.R. n. 600 del 1973;

d) è lecito dubitare della correttezza dell’assimilazione operata dal rimettente, ai fini della valutazione della denunciata lesione dell’art. 3 Cost., tra i comuni rapporti intersoggettivi e quelli nei quali venga in rilievo il dovere di «concorrere alle spese pubbliche», ai sensi dell’art. 53 Cost., per i quali trova giustificazione una disciplina specifica;

e) non è pertinente il richiamo all’art. 42 Cost.

Considerato in diritto

1. – La Commissione tributaria provinciale di Genova dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi) [quest’ultimo nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche ad esso apportate dal comma 27 dell’art. 37 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 4 agosto 2006, n. 248], nella parte in cui, nel caso di notificazione di atti tributari a un cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria in base all’iscrizione nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), escludono – in combinato disposto con l’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) – «l’applicazione delle disposizioni contenute nell’art. 142 c.p.c.».

2. – Il Tribunale di Genova dubita, in riferimento agli artt. 1, 3, 24 e 42 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 58, primo e secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f) del d.P.R. n. 600 del 1973 [quest’ultimo nel testo applicabile ratione temporis, anteriore alle modifiche ad esso apportate dal comma 27 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge n. 248 del 2006], nella parte in cui, nel caso di notificazione di atti tributari a un cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dal concessionario per la riscossione in base all’iscrizione nell’AIRE, non prevedono che la notificazione sia eseguita mediante la spedizione a mezzo posta al destinatario di una copia dell’atto o, almeno, di un avviso dell’avvenuto deposito dell’atto nella Casa comunale.

3. – La sostanziale identità delle norme denunciate e delle censure prospettate dai giudici a quibus impone la riunione dei giudizi di legittimità costituzionale, al fine di decidere congiuntamente le sollevate questioni.

4. – Quanto alla questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Genova, il giudice rimettente – chiamato a decidere, previo accertamento della validità della notificazione delle cartelle di pagamento impugnate, sulla prescrizione dei crediti con esse fatti valere – censura le seguenti disposizioni del d.P.R. n. 600 del 1973: a) l’art. 58, primo comma, il quale stabilisce che «Agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato»; b) il secondo periodo del secondo comma dello stesso art. 58, per il quale le persone fisiche non residenti nel territorio dello Stato «hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato»; c) l’art. 60, primo comma, lettera c), secondo cui, «salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario»; d) l’art. 60, primo comma, lettera e), il quale prevede che, quando nel comune del domicilio fiscale «non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente», la notificazione è eseguita mediante deposito di copia dell’atto nella casa comunale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo dello stesso comune e, «ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione»; e) l’art. 60, primo comma, lettera f), in forza del quale «le disposizioni contenute negli articoli 142, 143, 146, 150 e 151 del codice di procedura civile non si applicano»; f) l’ultimo comma dell’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, il quale stabilisce che «Per quanto non è regolato dal presente articolo si applicano le disposizioni dell’articolo 60» del d.P.R. n. 600 del 1973 e, quindi, rende applicabili, nell’ipotesi della notificazione della cartella di pagamento al contribuente residente all’estero – non contemplata dagli altri commi dello stesso art. 26 e in relazione alla quale è stata sollevata la questione –, le censurate lettere c) ed e) del primo comma del richiamato art. 60 e, attraverso queste, anche le altre disposizioni censurate.

La Commissione rimettente lamenta che le denunciate disposizioni escludono, per l’ipotesi in cui la residenza estera sia conoscibile in base alle risultanze anagrafiche, che la notificazione sia eseguita a norma dell’art. 142 cod. proc. civ., secondo il quale:

a) «Salvo quanto disposto nel secondo comma, se il destinatario non ha residenza, dimora o domicilio nello Stato e non vi ha eletto domicilio o costituito un procuratore a norma dell’articolo 77, l’atto è notificato mediante spedizione al destinatario per mezzo della posta con raccomandata e mediante consegna di altra copia al pubblico ministero che ne cura la trasmissione al Ministero degli affari esteri per la consegna alla persona alla quale è diretta» (primo comma);

b) «Le disposizioni di cui al primo comma si applicano soltanto nei casi in cui risulta impossibile eseguire la notificazione in uno dei modi consentiti dalle Convenzioni internazionali e dagli articoli 30 e 75 del decreto del Presidente della Repubblica 5 gennaio 1967, n. 200» (secondo comma).

Ad avviso del giudice a quo, l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 142 cod. proc. civ. si porrebbe in contrasto con gli artt. 24 e 3 Cost., perché pregiudicherebbe l’esercizio del diritto di difesa del destinatario della notificazione, non assicurandogli l’effettiva conoscenza dell’atto e determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra i cittadini residenti all’estero, con residenza conoscibile in base alle risultanze anagrafiche, per i quali la disciplina vigente non garantirebbe l’effettiva conoscenza degli atti tributari, e gli altri destinatari di notificazioni di tali atti, per i quali invece detta conoscenza sarebbe garantita.

4.1. – La difesa erariale ha eccepito, in primo luogo, l’inammissibilità della questione, per insufficiente descrizione della fattispecie, in quanto il rimettente avrebbe omesso di indicare le date di iscrizione della contribuente nell’AIRE e di notificazione delle cartelle di pagamento impugnate, precludendo cosí alla Corte la verifica dell’anteriorità di detta iscrizione rispetto alla notificazione delle cartelle e, quindi, il controllo in ordine alla rilevanza della questione medesima.

L’eccezione non è fondata.

Con riferimento al medesimo giudizio a quo, questa Corte ha, infatti, già rilevato, con l’ordinanza n. 210 del 2006, che il rimettente, affermando che la notificazione delle cartelle è stata regolarmente eseguita nell’ultima residenza nel territorio dello Stato della contribuente mentre la residenza estera di quest’ultima era nota all’Amministrazione (o doveva esser nota con le opportune ricerche anagrafiche), dà per accertata l’anteriorità dell’iscrizione nell’AIRE della stessa contribuente rispetto alla notificazione delle cartelle.

4.2. – La difesa erariale ha eccepito, in secondo luogo, l’inammissibilità della questione, perché la materia si presta ad una pluralità di opzioni normative costituzionalmente legittime e ciò non rende possibile «un intervento additivo del giudice delle leggi il quale imponga come costituzionalmente obbligata una determinata disciplina diversa da quella vigente».

Anche tale eccezione non è fondata.

Il rimettente, infatti, ha chiesto a questa Corte non una pronuncia additiva, ma solo la declaratoria di illegittimità costituzionale del combinato disposto delle norme denunciate, nella parte in cui esclude l’applicabilità dell’art. 142 cod. proc. civ. alle notificazioni di atti tributari a cittadini italiani la cui residenza estera risulti dall’iscrizione all’AIRE. A questa Corte, quindi, si chiede non di operare una scelta fra diverse opzioni normative, ma di rendere applicabile la disposizione generale dell’art. 142 cod. proc. civ., relativa alle notificazioni ai non residenti in Italia, facendo cessare gli effetti della norma speciale che nega l’applicazione di tale articolo con riferimento agli atti tributari.

4.3. – Nel merito, il rimettente afferma che la normativa censurata, non garantendo ai cittadini italiani iscritti nell’AIRE l’effettiva conoscenza degli atti tributari loro notificati, realizza un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto ai residenti in Italia, ai quali detta conoscenza è invece garantita dal fatto che le notificazioni degli atti tributari sono effettuate nel domicilio fiscale, e cioè, ai sensi del denunciato art. 58, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 «nel comune nella cui anagrafe sono iscritte» le persone fisiche contribuenti.

La questione è fondata.

Questa Corte ha affermato che «un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato e, quindi, l’esercizio del suo diritto di difesa» (sentenza n. 360 del 2003; si veda anche la sentenza n. 346 del 1998).

Le norme censurate violano detto limite, perché, equiparando la situazione del contribuente residente all’estero e iscritto nell’AIRE a quella del contribuente che non ha abitazione, ufficio o azienda nel comune del domicilio fiscale, impongono di eseguire le notificazioni a lui destinate solo mediante il deposito di copia dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso di deposito nell’albo dello stesso comune.

In tal modo, esse non garantiscono al notificatario non più residente in Italia l’effettiva conoscenza degli atti a lui destinati, senza che a tale diminuita garanzia corrisponda un apprezzabile interesse dell’amministrazione finanziaria notificante a non subire eccessivi aggravi nell’espletamento della procedura notificatoria.

Le modalità di notificazione previste in via generale dall’art. 142 cod. proc. civ. assicurerebbero, invece, al notificatario l’effettiva conoscenza dell’atto a lui destinato, imponendo all’amministrazione finanziaria di espletare la non troppo gravosa procedura di notifica presso la residenza estera risultante dall’AIRE. L’inapplicabilità di detta disposizione stabilita dalle norme censurate comporta, dunque, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost.

Del resto, proprio al fine di ampliare le possibilità di effettiva conoscenza, da parte del destinatario dell’atto, il legislatore ha successivamente modificato (con norma non applicabile ratione temporis al caso di specie e, quindi, non oggetto di esame nel presente giudizio) il regime della notifica degli atti tributari ai cittadini italiani residenti all’estero.

Infatti, pur mantenendo ferma l’esclusione dell’applicabilità dell’art. 142 cod. proc. civ., il legislatore ha inteso limitare l’inconveniente denunciato dal rimettente, seguendo la diversa via della «spedizione a mezzo di lettera raccomandata con avviso di ricevimento» dell’atto tributario all’«indirizzo estero» che il contribuente ha «facoltà» di comunicare al «competente ufficio locale» (comma 27 dell’art. 37 del decreto-legge n. 223 del 2006, che ha introdotto nel suddetto art. 60, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 la lettera ebis).

In tal modo, nel caso di iscrizione del contribuente nell’AIRE, l’applicazione della disciplina censurata dal rimettente resta circoscritta all’ipotesi in cui il contribuente abbia omesso di indicare al competente ufficio locale l’indirizzo estero per la notificazione degli atti tributari.

5. – Quanto alla questione proposta dal Tribunale di Genova, l’Avvocatura dello Stato ne ha eccepito la manifesta inammissibilità per difetto di motivazione sulla rilevanza.

L’eccezione è fondata.

Oggetto del giudizio a quo è l’opposizione all’esecuzione e agli atti esecutivi e, in particolare, all’avviso di vendita. In punto di rilevanza il Tribunale si limita a osservare che «è dirimente la questione concernente la regolarità della notificazione dell’avviso di vendita», senza precisare se e quale pregiudizio abbia subito il notificatario opponente. Il rimettente non spiega, cioè, perché la notificazione dell’avviso di vendita, eseguita in base alle norme censurate, non abbia raggiunto il suo scopo e abbia menomato il diritto di difesa del ricorrente nel giudizio a quo, nonostante che, nella specie, il contribuente abbia proposto opposizione all’avviso di vendita, dimostrando di avere conoscenza di detto avviso.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 58, primo comma e secondo periodo del secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), e dell’articolo 26, ultimo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nella parte in cui prevede, nel caso di notificazione a cittadino italiano avente all’estero una residenza conoscibile dall’amministrazione finanziaria in base all’iscrizione nell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE), che le disposizioni contenute nell’articolo 142 del codice di procedura civile non si applicano;

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 58, primo e secondo comma, e 60, primo comma, lettere c), e) ed f), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, sollevata, in riferimento agli artt. 1, 3, 24 e 42 della Costituzione, dal Tribunale di Genova con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 ottobre 2007.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2007.


Cass. civ. Sez. I, (ud. 09-07-2007) 10-10-2007, n. 21291

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – rel. Consigliere

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere

Dott. PANZANI Luciano – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

NEW RECORD DI VITANTONIO QUARTO & CO. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA TARO 35, presso l’avvocato ENZO PARINI, rappresentata e difesa dall’Avvocato LUBELLI Vincenzo, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO ITALY MUSIC STORE S.A.S.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 791/03 della Corte d’Appello di bari, depositata il 08/08/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 09/07/2007 dal Consigliere Dott. Ugo Riccardo PANEBIANCO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato ENZO PARINI, con delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto notificato in data 10.10.2001 il Fallimento Italy Music Store s.a.s. (dichiarato il (OMISSIS)) proponeva impugnazione avanti alla Corte d’Appello di Bari avverso la sentenza del Tribunale di Bari del 27.6.2001 che aveva rigettato la domanda di revoca della L. Fall., ex art. 67, avanzata nei confronti della New Record di Vitantonio Quarto & C. s.n.c. in relazione a pagamenti effettuati per l’importo complessivo di L. 57.385.797 in favore di quest’ultima nell’anno antecedente alla dichiarazione di fallimento. Chiedeva l’appellante l’accoglimento della originaria richiesta o, in subordine, la restituzione del minore importo di L. 10.007.320 di cui alle fatture nn. (OMISSIS) rispettivamente del 31.10.1995 e del 30.11.1995 regolarmente quietanzate.

Si costituiva l’appellata che deduceva l’inammissibilità dell’appello per la sua genericità nonchè, in relazione alla domanda proposta in via subordinata, per violazione dell’art. 345 c.p.c..

All’esito del giudizio la Corte d’Appello con sentenza del 25.3- 8.8.2003 accoglieva il gravame per quanto di ragione, condannando l’appellata al pagamento della somma di Euro 5.168,18 (pari a L. 10.007.320) oltre agli interessi legali dalla data dei pagamenti, compensando fra le parti le spese del doppio grado.

Dopo aver confermato il rigetto della domanda principale in quanto non risultava adeguatamente provata, riteneva rituale ed ammissibile quella subordinata basata sulle fatture quietanzate risultanti dal fascicolo di insinuazione al passivo, sostenendo che di tali documenti, anche se non tempestivamente prodotti nel corso del giudizio di primo grado, era consentito l’esame, trattandosi di prove precostituite e non introducendo nel procedimento questioni nuove ma solo una specificazione rispetto alla domanda originaria nell’ambito di quanto già dedotto.

Avverso tale sentenza la New Record di Vitantonio Quarto & C. s.n.c. propone ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura.

La controparte non ha svolto alcuna attività difensiva.

Motivi della decisione
Pregiudizialmente deve rilevarsi che la notifica del ricorso per Cassazione presso lo studio dell’avv. Franco Marino, difensore intimata curatela non costituitasi nel presente giudizio, risulta dalla relata avvenuta in Bari (OMISSIS) a mani dell’”incaricato al ritiro” anzichè in (OMISSIS), indirizzo quest’ultimo indicato nella sentenza impugnata come studio di detto difensore domiciliatario.

Orbene, ritiene il Collegio che in tal caso, anche se eseguita in luogo diverso da quello indicato dal domiciliatario e pur in assenza di alcuna indicazione negli atti processuali, in cui non risulta nemmeno un’eventuale comunicazione all’Ordine degli Avvocati da parte del destinatario, la notifica a mani della persona “addetta al ritiro” deve ritenersi perfettamente valida, dovendosi privilegiare il riferimento personale su quello topografico in quanto, ai fini della notifica dell’impugnazione ai sensi dell’art. 330 c.p.c., l’elezione di domicilio presso lo studio del procuratore assume la mera funzione di indicare la sede dello studio ed è priva di una sua autonoma rilevanza.

Non si ritiene quindi di poter condividere l’opposto orientamento seguito da altra decisione di questa Corte (26844/06) nei cui confronti il Collegio si pone in consapevole contrasto e che ha ritenuto inammissibile il ricorso qualora la notifica nel domicilio del procuratore intimato, non costituito in giudizio, diverso da quello eletto nel giudizio “a quo”, non sia accompagnata dalla documentazione comprovante il nuovo domicilio.

Una tale conclusione può giustificarsi infatti nell’ipotesi in cui la notifica presso il domicilio dichiarato nel giudizio di merito non abbia avuto buon fine, come del resto più volte la giurisprudenza ha affermato (Cass. 14033/05; Cass. 8287/02, Cass. 2740/98) e non già allorchè, come nel caso in esame, abbia avuto invece esito positivo, dovendosi in tal caso, nel quadro di una interpretazione che privilegi, come si è osservato, il riferimento personale rispetto a quello topografico, desumere dal ricevimento dell’atto operato dallo stesso difensore (o dal suo incaricato) la corrispondenza del luogo indicato nella relata con il suo nuovo domicilio. In sostanza, in tal caso è lo stesso difensore domiciliatario a confermare con il ricevimento dell’atto, sia pure attraverso un suo incaricato, attestato dall’ufficiale giudiziario, l’avvenuto mutamento del domicilio nel luogo in cui è avvenuta la notifica (in tal senso del resto Cass. 6098/99).

Il ricorso deve ritenersi quindi ammissibile e deve procedersi pertanto al suo esame.

Con il primo motivo di ricorso la New Record di Vitantonio Quarto & C. s.n.c. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. Lamenta che la Corte d’Appello, disattendendo l’eccezione di inammissibilità, abbia dato ingresso ed accolto una domanda nuova basata sulle due fatture n. (OMISSIS) del 31.10.1995 e n. (OMISSIS) del 30.11.1995 dell’importo complessivo di L. 10.007.320, prodotte nel giudizio di primo grado dopo la scadenza dei termini previsti per tali incombenti, senza peraltro che fossero state indicate nella domanda originaria la quale aveva fatto riferimento ad altre fatture per complessive L. 57.385.797 e non aveva subito nel corso del giudizio di primo grado alcuna riduzione, modificazione od ampliamento. Deduce quindi che erroneamente non era stato considerato che tale successiva domanda contenesse un petitum diverso e fosse basata su una diversa causa petendi.

La censura è fondata.

Diversamente da quanto affermato dalla Corte d’Appello, la richiesta in sede di gravame di una somma ulteriore, basata su distinte fatture rispetto a quella che aveva costituito l’oggetto del giudizio di primo grado, configura senza dubbio una domanda nuova, comportando l’introduzione di un tema d’indagine diverso da quello prospettato in precedenza.

Si tratta infatti di distinte operazioni commerciali, individuate con riferimento ad altrettante distinte fatture ed aventi quindi una “causa petendi” ed un “petitum” diversi rispetto alle operazioni di cui alle fatture fatte valere con l’atto introduttivo del giudizio e non già di un mero superamento dei limiti quantitativi della domanda, superamento che presuppone la stessa “causa petendi” e che si propone come una semplice specificazione della domanda medesima nella quale rimangano fermi i fatti costitutivi (Cass. 26079/05).

Nè rileva che dette successive fatture risultassero già nel fascicolo d’ufficio del giudizio di primo grado a seguito dell’allegazione del fascicolo fallimentare in cui erano depositate in quanto la relativa domanda, anche qualora fosse stata proposta avanti al Tribunale (la circostanza non risulta precisata nella sentenza della Corte d’Appello), in ogni caso sarebbe stata tardiva, come del resto si deduce dalla stessa sentenza impugnata che da atto della tardiva produzione delle nuove fatture.

La novità della domanda in appello e la conseguente violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1, comportano l’accoglimento del primo motivo e l’assorbimento sia del secondo proposto in via subordinata e relativo alla violazione dello stesso art. 345 c.p.c., comma 3, in ragione della tardiva produzione documentale (sulla quale è appena il caso di richiamare la decisione delle Sezioni Unite n. 8203/05 che ha ammesso una tale possibilità solo entro ben determinati limiti) e sia del terzo motivo, riguardante l’elemento soggettivo in tema di revocatoria di cui si è contestata la sussistenza.

L’affermata preclusione in ordine alla domanda nuova proposta in appello determina pertanto la cassazione senza rinvio dell’impugnata sentenza ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, ultima parte.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo anche per quanto riguarda i giudizi di merito.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il primo motivo. Dichiara assorbiti gli altri. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Condanna la curatela al pagamento delle spese processuali che liquida, quanto al giudizio avanti al Tribunale in Euro 800,00 per onorario, Euro 400,00 per diritti ed Euro 200,00 per spese, quanto al giudizio avanti alla Corte d’Appello in Euro 900,00 per onorario, Euro 300,00 per diritti ed Euro 300,00 per spese e quanto al giudizio di legittimità in Euro 1.100,00 per onorario oltre alle spese in Euro 100,00 nonchè, per tutti i giudizi, anche alle spese generali ed agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2007.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2007


Corte Suprema di Cassazione n. 20426 del 28.09.2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente

Dott. RUGGIERO Francesco – Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giandonato – Consigliere

Dott. SCUFFI Massimo – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.V., elettivamente domiciliato in ROMA VIA BASSANO DEL GRAPPA N. 24, presso lo studio dell’Avvocato COSTA MICHELE, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avvocato FRANCESCO COLAIANNI, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AMMINISTRAZIONE DELLE FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 267/01 della Commissione Tributaria Regionale di MILANO, depositata il 15/10/01;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 04/07/07 dal Consigliere Dott. Camilla DI IASI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La Commissione Tributaria di Milano respingeva il ricorso col quale P.V. impugnava avviso di mora recante l’iscrizione a ruolo di soprattasse e pene pecuniarie relative ad Iva per l’anno 1984 affermando l’irritualità della notifica del prodromico avviso di irrogazione sanzioni.

La C.T.R. Lombardia, investita dell’appello del contribuente, lo rigettava, in particolare rilevando che dalla lettura dell’avviso di irrogazione sanzioni risultava accertato dall’ufficiale giudiziario che il contribuente si era trasferito per ignota destinazione e che pertanto correttamente poi l’avviso era stato notificato ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), senza necessità di ulteriori ricerche nè di invio di raccomandata per comunicare il deposito dell’atto presso a casa comunale.

Avverso questa sentenza ricorre per cassazione P.V.;

L’Amministrazione delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate sono rimasti intimati.

Motivi della decisione

Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) nonchè artt. 140 e 148 c.p.c., il ricorrente rileva che l’avviso D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 58 prodromico all’avviso di mora fu depositato presso la Casa Comunale senza invio della raccomandata comunicante l’avvenuto deposito benchè nella specie fosse applicabile l’art. 140 c.p.c. (prevedente tale incombente) e non il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), posto che al momento della notifica il contribuente era residente a (OMISSIS), come testimoniato dallo stesso avviso di mora e da certificato di residenza. Secondo il ricorrente il messo notificatore avrebbe dovrebbe far esplicitamente risultare dalla relata di aver effettuato ricerche presso gli uffici anagrafici del comune per accertare se il contribuente risiedesse ancora in Milano o si fosse trasferito in altro comune, mentre nella specie il messo notificatore si sarebbe limitato ad annotare il trasferimento in luogo ignoto, peraltro a margine dell’atto e non nella relata, senza dare conto del compimento di apposite ricerche. Secondo il ricorrente, inoltre, i giudici di merito avrebbero totalmente ignorato la circostanza che dall’avviso impugnato e dai dati anagrafici il contribuente risultava residente nel comune di Milano e sarebbero incorsi in contraddizione sostenendo che l’ufficiale giudiziario non era tenuto ad effettuare ulteriori ricerche, ma richiamando giurisprudenza di segno opposto.

Col secondo motivo (indicato in ricorso come terzo), deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 58, nonchè omessa pronuncia e insufficiente motivazione, il ricorrente rileva che la C.T.R. avrebbe omesso di pronunziarsi circa la tardività dell’avviso di mora in contestazione, (questione proposta nell’atto introduttivo richiamato nell’atto d’appello) in quanto notificato l’8-3-95 in relazione a violazioni relative all’anno di imposta 1984.

Col terzo ed ultimo motivo (indicato in ricorso come quarto), deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 427 del 1997, artt. 3, 12 e 25, il ricorrente rileva che la sentenza impugnata, confermando in toto la decisione dei primi giudici, avrebbe erroneamente omesso di rideterminare le sanzioni sulla base della, disciplina più favorevole introdotta dal D.Lgs. citato, applicabile retroattivamente in ogni stato e grado del. processo a prescindere da un’espressa richiesta in tal senso.

Le censure esposte sono in parte infondate e in parte inammissibili.

Con riguardo al primo motivo, è innanzitutto da rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la notificazione dell’avviso di accertamento tributario deve essere effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 c.p.c. solo quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perchè questi (o altro possibile consegnatario) non è state rinvenuto in detto indirizzo da dove tuttavia non risulti trasferito, mentre deve essere effettuata applicando la disciplina di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), sostitutivo, per il procedimento tributario, dell’art. 143 c.p.c., quando, come nella specie, il messo notificatore non reperisca il contribuente che, dalle notizie acquisite all’atto della notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto (v. in termini, tra le altre, Cass. n. 10189 del 2003).

Tanto premesso, in ordine alla previa acquisizione di notizie e/o al previo espletamento di ricerche, va evidenziato che nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente essere a tal fine compiute nè con quali espressioni verbali e in quale contesto documentale deve essere espresso il risultato di tali ricerche, purchè emerga chiaramente che le ricerche sono state effettuate, che esse sono attribuibili al messo notificatore e riferibili alla notifica in esame.

Nella specie, esiste un’attestazione, proveniente dal messo notificatore, di trasferimento del notificatario per ignota destinazione, ed è da ritenersi che essa sia il frutto di notizie assunte sul posto dal predetto notificatore, nè risultano contestazioni circa la provenienza e l’occasione della suddetta attestazione. In ogni caso, l’interpretazione del documento contenente l’attestazione del messo notificatore spetta al giudice di merito, al quale spetta altresì la valutazione circa la sufficienza o meno delle ricerche effettuate dal messo notificatore prima di procedere alla notifica ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), valutazione che costituisce giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità (v. Cass. n. 5100 del 1997).

E’ vero che l’attestazione de qua rappresenta il frutto di informazioni assunte dal messo notificatore presso terzi e che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la relata di notificazione di un atto fa fede fino a querela di falso per le attestazioni che riguardano l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente, la constatazione di fatti avvenuti in sua presenza ed il ricevimento delle dichiarazioni resegli, limitatamente al loro contenuto estrinseco, ma fa fede invece fino a prova contraria per tutte le altre attestazioni che non siano frutto della diretta percezione del pubblico ufficiale, bensì, come nella specie, di informazioni da lui assunte o di indicazioni fornitegli da altri (v. tra numerose altre Cass. n. 3403 del 1996 e n. 4590 del 2000), tuttavia è innanzitutto da evidenziare che l’eventuale prova contraria offerta (nella specie, ovviamente, documentale) deve essere valutata dal giudice di merito e che la relativa valutazione è censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione.

In proposito, è in particolare da rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la denuncia di omesso esame di documenti non è riconducibile al vizio di omessa pronuncia, che costituisce error in procedendo, ma al vizio di omessa motivazione su punto decisivo della, controversia e ricorre soltanto nel caso di totale: omessa valutazione di elementi deducibili dal documento, sempre che questi si rivelino decisivi, ossia tali da condurre – secondo una valutazione ed un giudizio che la Corte di cassazione esprime sul piano astratto e in base a criteri di verosimiglianza -ad una decisione diversa da quella adottata dal giudice; di merito (v. Cass. n. 13963 del 2001).

A tale riguardo, è da rilevare che questa Corte ha più volte avuto modo di affermare che il ricorrente che in sede di legittimità denunci l’erronea (o omessa) valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha l’onere, a pena di inammissibilità del motivo di censura, di riprodurre nel ricorso, in osservanza del principio di autosufficienza del medesimo, il documento nella sua integrità (v. tra le altre Cass. n. 15412 del 2004), senza che a tale incombente possa ottemperarsi (come nella specie ha inteso fare il ricorrente), attraverso la produzione nel giudizio di cassazione di copia di tale documento, posto che, a tacer d’altro, secondo la giurisprudenza di questa Corte, per soddisfare il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall’art. 366 c.p.c., n. 3, è indispensabile che dal contesto del ricorso (ossia, solo dalla lettura di tale atto ed escluse l’esame di ogni altro documento, compresa la stessa sentenza impugnata) sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice “a quo” (v. tra le altre Cass. n. 1959 del 2004).

In ogni caso, per quanto concerne il requisito della “decisività” della documentazione prodotta in prova contraria, con particolare riguardo al certificato storico di residenza, è da rilevare che il costante riferimento da parte della giurisprudenza di questa Corte alle notizie assunte dall’ufficiale giudiziario o dal messo notificatore sul posto all’atto della notifica evidenzia che le suddette “notizie” sono intese ad accertare una situazione di fatto, ossia un dato “effettivo” e non formale, perciò prescindente dal riscontro anagrafico, dovendosi presumere che l’indirizzo indicato sull’atto da notificare corrisponda (salvo errore del notificante) al dato anagrafico ufficiale e che, in caso di mancato rinvenimento sul posto del destinatario o di altro possibile consegnatario, al notificatore sia richiesto di accertare, se possibile, mediante ricerche in loco, una situazione di fatto eventualmente non (o ancora non) risultante all’anagrafe.

Giova in proposito rilevare che questa Corte ha avuto modo di affermare che, qualora all’ufficiale giudiziario procedente risulti che il destinatario della notificazione si sia trasferito dal luogo indicato nei registri anagrafici, la notificazione stessa non deve essere eseguita nella forma prevista dall’art. 140 c.p.c. (pena la nullità dell’atto) bensì in quella prevista dall’art. 143 c.p.c., salvo che, a seguito delle ricerche e richieste di informazioni suggerite nel caso concreto dall’ordinaria diligenza, non sia noto, o non avrebbe potuto esser noto, il nuovo luogo di effettiva residenza, dimora o domicilio, giacchè in tal caso la notificazione va invece eseguita (sempre a pena di nullità dell’atto) nell’individuato nuovo luogo di effettiva residenza (v. Cass. n. 993 del 1985). In ordine al secondo (indicato in ricorso come terzo) motivo, è da rilevare che la questione in esso proposta, non trova riscontro nella sentenza impugnata e che lo stesso ricorrente non afferma che detta questione fu (ri)proposta in appello, limitandosi ad affermare che essa fu proposta nel ricorso introduttivo richiamato nell’atto d’appello.

A tale proposito, è sufficiente osservare che, a norma del D.P.R. n. 546 del 1992, art. 56 (che ricalca quasi, letteralmente la formula dell’art. 346 c.p.c.), le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado che non siano “specificamente” riproposte in appello si intendono rinunciate e che nella specie, dalla lettura dell’atto d’appello consentita a questo giudice in relazione alla deduzione di violazione dell’art. 112 c.p.c., non risulta che la questione sia stata in alcun modo proposta, tantomeno “specificamente”.

In ordine al terzo motivo (quarto in ricorso), è sufficiente osservare che questo giudice di legittimità ha avuto più volte modo di affermare che, il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, prevedente l’applicabilità del principio del “favor rei” in tema di sanzioni per illeciti tributar è applicabile anche “ai procedimenti in corso” alla data dell’1 aprile 1998, a condizione che il provvedimento di irrogazione della sanzione non sia divenuto definitivo (v. tra le altre Cass. n. 12678 del 2005) e che nella specie tale condizione non sussiste, posto che in questa sede non risulta impugnato l’avviso di irrogazione di sanzioni, bensì l’avviso di mora, emesso sulla base della definitività del primo e che solo l’accertamento della irritualità della notifica del suddetto avviso di irrogazione delle sanzioni ne avrebbe escluso la definitività. Il ricorso deve essere pertanto rigettato. In difetto di attività difensiva nessuna decisione va assunta in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 4 luglio 2007.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2007

Riferimenti normativi

CPC Art.140

CPC Art.148

DPR 29-09-1973 n. 600, Art. 60


Cass. civ. Sez. I, (ud. 27-03-2007) 20-09-2007, n. 19473

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente

Dott. PLENTEDA Donato – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.G., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE D CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocate LADDAGA TERESA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.M., P.B., V.I., elettivamente domiciliati in ROMA VIA CIPRO 77, presse l’avvocato RUSSILLO GERARDO, che li rappresenta i difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

contro

I.A.C.P. DELLA PROVINCIA DI NAPOLI, C.M., A. F., F.A.M.V., Z.M.A., A.G., A.L., D.G.M., C.D., C.M.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3208/02 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 04/11/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/03/2007 dal Consigliere Dott. Maria Rosaria SAN GIORGIO;

udito per i resistenti l’Avvocato ROBERTO DE FUSCO, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1.- Con atto di citazione notificato il 17 settembre 1997, M. e P.B. e V.I., premesso che, a seguito de terremoto del (OMISSIS), erano deceduti, nel crollo di un fabbricato dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari di (OMISSIS), alcuni loro congiunti, che, all’esito del susseguente procedimento penale, erano stati condannata, per disastro colposo ed omicidio colposo, oltre che alle sanzioni pelali, anche al ristoro dei danni, da liquidarsi in separata sede, lo stesso I.A.C.P. nonchè, tra gli altri, S. G., direttore capo del predetto Ente, e C.M., direttore dei lavori, convennero costoro in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli per ottenere il risarcimento dei danni morali, indicati nella somma di L. 680.000.000. Nella contumacia degli altri convenuti, lo I.A.C.P., costituitosi in giudizio, eccepì la prescrizione del diritto azionato e il difetto di legittimazione degli attori.

2. – Con sentenza del 17 giugno 1999, il giudice unico presso il Tribunale adito condannò in solido il S. ed il C. al pagamento in favore degli attori della somma di L. 625.000.000 circa, dichiarando prescritto il diritto azionato nei confronti dello I.A.C.P. e non provata la legittimazione passiva degli altri convenuti.

La sentenza fu impugnata dal S., il quale lamentò che l’atto introduttivo del giudizio di primo grado era state invalidamente notificato presso l’indirizzo corrispondente alla sua ex casa coniugale, dalla quale egli si era allontanato, a seguito della separazione dalla moglie, da oltre trenta anni, e che, a causa di tale invalida attività notificatoria, egli era rimasto contumace in primo grado e non aveva potuto, pertanto, sollevare la eccezione di prescrizioni: del diritto vantato dagli appellati, i quali, peraltro, ben conoscevano il suo reale domicilio, facilmente evincibile dagli atti del processo penale, e presso il quale gli stessi gli avevano notificato, in data 12 febbraio 2001, precetto e sentenza conclusiva del primo grado del giudizio, senza aver prima compiuto infruttuosamente altre notifiche.

3. – La Corte d’appello di Napoli, con sentenza depositate il 4 novembre 2002, giudicò inammissibile il gravame, osservando che, ai fini della determinazione del luogo ove va eseguita la notificazione di un atto, rileva, nei riguardi del notificante, la residenza anagrafica del destinatario, e non, ove: diversa, quella effettiva, se non conosciuta nè conoscibile con l’ordinaria diligenza dal primo. Nella specie, l’atto di citazione era stato notificato al S. il 17 settembre 1997, all’indirizzo presso il quale egli risultava anagraficamente residente, mediante consegna a mani del portiere. Tale notifica fu ritenuta regolare dalla Corte di merito, alla stregua del rilievo che, per un verso, alla data del 7 ottobre 1999 il S. risultava ancora resi lente presso la casa coniugale; che, per l’altro, la relata dell’ufficiale giudiziario valeva ad indicare il mancato rinvenimento del destinatario e di ogni altra persona idonea ex lege alla ricezione. Rilevò, inoltre, il giudice di seconde cure che il mancato rifiuto da parte del portiere di ricevere l’atto lasciava presumere la consegna al destinatario, tenuto anche conto che se detto portiere, in trenta anni, non gli avessi i recapitato la corrispondenza al suo effettivo domicilio, certamente l’appellante avrebbe provveduto alla variazione anagrafica. Nè assumeva alcun rilievo, secondo la Corte, la circostanza che dagli atti del processo penale emergesse il reale domicilio del S., in quanto gli appellati, non essendosi costituiti parte civile, non avevano partecipato a detto processo, peraltro definito dieci anni addietro, sicchè, prima di intraprendere la causa civile, essi si erano muniti di un certificato di residenza del S., mentre solo dal successivo certificato del 3 gennaio 2001, prodotto dagli appellati, era risultata la nuova residenza dello stesso, presso la quale, pertanto, essi avevano notificato sentenza e precetto. Da ciò conseguiva, secondo la Corte, la tardività dell’appello, risultando decorso il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1. 4. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il S. sulla base di due motivi. Hanno resistito gli intimati con controricorso, illustrato anche da successiva memoria.

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c., e dell’art. 327 cod. proc. civ., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

L’attuale ricorrente, assumendo di non aver avuto conoscenza del processo se non al momento della notificazione della sentenza di primo grado e del pedissequo precetto, aveva interposto appello dopo che era ormai decorso il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza, di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1. Erroneamente la Corte di merito aveva ritenuto applicabile, nella specie, detto termine, e non, stante la mancata conoscenza, da parte dell’appellante, del procedimento di primo grado, la disposizione in deroga contenuta nel comma 2 del cit. art.. La decisione impugnata si era fondata sulla presunzioni di consegna dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado al destinatario da parte del portiere dello stabile sito al (OMISSIS), a mani del quale l’atto stesso era stato notificato, senza che il giudice di seconde cure avesse considerato che tra il portiere e l’attuale ricorrente non poteva esistere un rapporto d;. dipendenza, atteso che da ben trenta anni quest’ultimo risiedeva altrove certamente non aveva con il primo incontri quotidiani, o comunque tali da fare affidamento sulla consegna dell’atto, ricevuto ai sensi dell’art. 139 cod. proc. civ., al destinatario.

2. – Con la seconda doglianza, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 e 44 cod. civ. e art. 139 cod. proc. civ., omesso esame di un punto decisivo della controversia, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Ai fini della determinazione del luogo di residenza del destinatario della notifica, occorre far riferimento alla residenza effettiva, la cui coincidenza con quella anagrafica costituisce un mero indizio, una presunzione semplice superabile sulla base di un qualsivoglia elemento di convincimento idoneo a dimostrare la stabile dimora del soggetto in un diverso luogo. Nella specie, dai documenti esibiti dall’appellante, e, in particolare, dalla corrispondenza (fatture relative alle varie utenze, lettere varie, copia della ordinanza di proscioglimento nel processo penale per disastro colposo ed omicidio colposo, relativo atto di appello, etc.), emergeva che la residenza effettiva dello stesso era alla (OMISSIS), e ciò da oltre trent’anni, da quando, cioè, lo stesso, a seguito della separazione; dalla moglie, aveva lasciato la e usa coniugale, mentre costituiva una mera illazione, che non trovava riscontro neanche in elementi di tipo presuntivo, che il portiere dello stabile sito al (OMISSIS) gli rimettesse la corrispondenza inviata a tale indirizzo. Del resto, anche dai processi civili in corso risultava la effettiva residenza dell’attuale ricorrente, la quale, pertanto, ben avrebbe potuto essere conosciuta dagli appellati usando la ordinaria diligenza. Ed anche la mancata ammissione della prova testimoniale intesa a dimostrare tale effettiva residenza integrava il vizio di motivazione lamentato, essendo stata la relativa richiesta ignorata culla Corte di merito, la quale aveva fondato, invece, la propria decisione sulle denunciate illazioni.

3.1. – I motivi, che possono essere esaminati congruamente, in quanto strettamente connessi sul piano logico-giuridico, sono privi di fondamento.

3.2. – Va premesso che la questione sottoposta all’esame di questa Corte non concerne la validità della notifica eseguita nella residenza effettiva del destinatario dell’atto, non coincidente con quella anagrafica – la cui validità è stata già affermata dalla giurisprudenza di legittimità alla stregua del rilievo del valore meramente dichiarativo delle difformi risultanze anagrafiche (v., tra le altre, Cass. n. 6101 del 2006, n. 5076 del 1999). Si versa, invece, nella ipotesi, speculare alla prima, di notifica eseguita presso la residenza anagrafica del destinatario dell’atto, in realtà dimorante stabilmente altrove.

Con riguardo a detta ipotesi, ove non possa addebitarsi al notificante la inosservanza dell’obbligo di ordinaria diligenza nell’accertamento della effettiva residenza del destinatario della notifica, deve ritenersi correttamente eseguita la notifica presso la residenza ani grafica dello stesso (v. Cass. sentt. n. 16941 del 2003, n. 2230 del 1998, n. 10248 del 1991).

3.3. – Nel caso di specie – in cui, giova sottolinearlo, il giudice di merito ha accertato che alla data del 7 ottobre 1999, cioè in epoca largamente successiva alla notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, risalente al 17 settembre 1997, l’attuò Le ricorrente risultava ancora anagraficamente residente all’indirizzo di (OMISSIS) – detta notifica è da ritenere effettuata validamente, nel rispetto degli adempimenti previsti dal codice di rito. Invero, i notificanti individuarono la residenza del destinatario dell’atto alla stregua delle risultanze del certificalo anagrafico richiesto, come posto in evidenza nella sentenza impugnati, pochi mesi prima della introduzione del giudizio. Nè l’attuale ricorrente, che, pure, assume la conoscenza, da parte degli stessi, della ma effettiva residenza alla (OMISSIS), è stato in grado di dimostrare tale circostanza, ovvero una negligenza degli attuali intimati nell’assumere informazioni al riguardo, non potendosi ritenere elemento di convincimento sul punto il fatto che la residenza effettiva dello stesso S. risultasse dagli atti del processo penale a sto carico, nel quale costoro non si erano costituiti parte civile, rimanendo, pertanto, estranei ad esso, o dalla corrispondenza a lui indirizzata, evidentemente non accessibile ai notificanti.

3.4. – Per converso, corretta, in quanto logicamente e congruamente motivata, deve ritenersi la deduzione della Corte partenopea, che dal tenore testuale della relata di notifica dell’ufficiale giudiziario, recante il riferimento alla consegna a mani del portiere M. N., capace a ricevere e tale qualificatosi per la precaria assenza del destinatario e delle altre persone di cui all’art. 13 c.p.c., ha tratto, tenuto conto del mancato rifiuto del portiere di ricevere l’atto, il convincimento della permanenza di un legame del destinatario dell’atto con il luogo di sua residenza anagrafica, tale da consenti: di essere reso edotto della corrispondenza ivi inoltrata.

Nè, infine, può assumere alcuna rilevanza, al fine di escludere la nescienza incolpevole, da parte degli attuali controricorrenti, del luogo di residenza effettiva del ricorrente, la circostanza della successiva notifica da parte degli stessi a quest’ultimo della sentenza conclusiva del giudizio di primo grado e del relativo precetto, eseguita il 12 gennaio 2001 nel luogo di effettiva residenza del S. ed infatti, come rilevato dal giudice di seconde cure, costoro hanno prodotto in giudizio un certificato anagrafico del 3 gennaio 2001, richiesto, dunque, prudentemente prima di procedere alla notifica di tali nuovi atti, dal quale risultava la nuova residenza dello stesso S..

4. – I suindicati elementi – che danno altresì conto e dell’implicito rigetto, da parte della Corte di merito, delle richiesti istruttorie dell’attuale ricorrente, conducono all’inevitabile risultati del rigetto del ricorso. Le spese, che, in ossequio al principio della soccombenza, vanno poste a carico del ricorrente, sono liquidate come di dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 6.100,00, di cui Euro 6.000,00 per onorari, oltre alle spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile, il 27 marzo 2007.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2007


Cass. civ. Sez. III, (ud. 18-04-2007) 14-09-2007, n. 19218

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIDUCCIA Gaetano – Presidente

Dott. MAZZA Fabio – Consigliere

Dott. TRIFONE Francesco – Est. Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere

Dott. LEVI Giulio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DI PIETRALATA 320, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, difeso dall’avvocato LEPORE RAFFAELE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.F., (eredi) M.M., elettivamente domiciliati in ROMA VIA F CORRIDONI 27 SC D INT 2, presso lo studio dell’avvocato CARLO VENDITTI, difesi dall’avvocato COLUCCI NICOLA, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 490/03 della Corte d’Appello di BARI, terza sezione civile, emessa il 22/01/03, depositata il 30/04/03, R.G. 1362/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/04/07 dal Consigliere Dott. Giulio LEVI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCHIAVON Giovanni, che ha concluso per la inammissibilità e, in subordine, il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con citazione innanzi al pretore di Lucera del 24 settembre 1991 M. e M.F. convenivano in giudizio B.G., in proprio e nella sua qualità di presidente del Motoclub (OMISSIS), per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni, che, a seguito dello svolgimento di una gara motociclistica fuori strada organizzata dal suddetto motoclub, i partecipanti avevano arrecato attraversando i terreni di loro proprietà, piuttosto che percorrere il circuito su strada sterrata.

Nel contraddittorio delle parti, il pretore rigettava la domanda e la sentenza, sull’appello dei soccombenti, era confermata dal tribunale della stessa città.

Questa Suprema Corte, sul ricorso di M. e M.F., con sentenza n. 749 del 2000, cassava la sentenza del tribunale con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Bari perché il gravame fosse deciso in applicazione del principio di diritto secondo cui rientra nell’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 2050 c.c., (responsabilità per l’esercizio di attività pericolose) l’organizzazione di una gara motociclistica su circuito aperto al pubblico.

Il giudizio di rinvio, svoltosi nella contumacia di B.G., era definito dalla Corte d’appello di Bari con la sentenza pubblicata il 30 aprile 2003, che, in accoglimento del gravame avverso la sentenza di primo grado, condannava l’appellato contumace al risarcimento dei danni ed alle spese del doppio grado del giudizio a favore degli appellanti.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso B.G., che ha affidato l’accoglimento dell’impugnazione ad unico motivo.

Hanno resistito con controricorso M.F. e, nella qualità di eredi di M.M., A.M., M.G. e Mo.Ma..

Motivi della decisione
Con l’unico motivo d’impugnazione – deducendo la nullità del procedimento del giudizio di rinvio per violazione delle norme di cui agli artt. 156 e 160 c.p.c., – il ricorrente denuncia di non avere mai avuto conoscenza della riassunzione del processo innanzi alla Corte d’appello di Bari, perchè, essendo stato il relativo atto notificato a persona diversa da quelle elencate nell’art. 139 c.p.c., ed in luogo diverso da quello del suo domicilio o della sua dimora, esso sarebbe nullo.

A tal fine, ha prodotto il certificato storico di residenza rilasciato dal Comune di Foggia, il certificato dell’attuale sua residenza in (OMISSIS) ed il certificato di matrimonio, intendendo con detta documentazione dimostrare che la persona, cui l’atto di riassunzione era stato consegnato e che l’ufficiale giudiziario aveva qualificato come moglie del destinatario, tale non era e che nel luogo ove la notificazione è avvenuta esso istante non era domiciliato né aveva la sua dimora.

I resistenti contrastano la censura e sostengono che la notificazione sarebbe stata effettuata validamente a mani di F.L., che, ancorché indicata come “moglie” del destinatario B., era, invece, la sua convivente nel comune domicilio di via (OMISSIS) in (OMISSIS).

Il motivo è fondato.

Dalla documentazione offerta dal ricorrente in questa sede e dalle stesse ammissioni delle parti resistente risulta che, alla data in cui è stata effettuata la riassunzione del processo innanzi al Giudice del rinvio, il luogo di domicilio o di dimora di B.G. non era alla via (OMISSIS) in (OMISSIS), ove l’atto medesimo risulta notificato mediante consegna a F.L., indicata come moglie del destinatario.

Ne consegue che la notificazione è nulla, sia perchè effettuata in luogo diverso da quello del domicilio di B.G.; sia perché l’atto è stato consegnato a soggetto che è persona diversa da un familiare ivi con lui convivente.

Al riguardo considera, anzitutto, questa Corte che, in tema di notificazioni, nel procedimento disciplinato dagli artt. 138 e 139 c.p.c., che è imperniato sulla consegna diretta della copia dell’atto al destinatario, la consegna della copia a persona che, pur coabitando con il destinatario, non sia a lui legata da rapporto di parentela o non sia addetta alla casa, non è assistita dalla presunzione di consegna al destinatario stesso e non consente il perfezionamento della notifica, che deve ritenersi, quindi nulla, salvo poi a risultare una tale nullità sanabile con la costituzione in giudizio della parte o con la mancata deduzione di essa con l’atto d’impugnazione (ex plurimis Cass., n. 13625/2004; Cass., n. 9658/2000).

Occorre poi, considerare che fra le persone di famiglia (che, se rinvenute nella casa di abitazione del destinatario dell’atto da notificare, sono abilitate a riceverlo, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2) possono comprendersi soltanto i componenti del nucleo familiare in senso stretto e gli altri parenti od affini, non legati da un rapporto di stabile convivenza, purchè la loro presenza in detta casa sia non occasionale (Cass., n. 9658/2000; Cass., n. 3858/92).

Di conseguenza, la notificazione effettuata a mani di persona che si assume essere il c.d. “coniuge di fatto” del destinatario (qualificatasi all’ufficiale giudiziario quale “moglie” del destinatario) e che sia avvenuta in luogo diverso da quello in cui lo stesso destinatario abbia il domicilio o la dimora deve ritenersi nulla.

Nel caso in esame, la notificazione dell’atto di riassunzione del giudizio innanzi al giudice del rinvio effettuata a B.G. a mani di F.L. è nulla e, non essendo stata sanata, comporta, nella nullità del relativo procedimento, la nullità della sentenza impugnata, che deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Bari in altra composizione.

Al Giudice del rinvio è rimessa anche la pronuncia in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità (art. 385 c.p.c., comma 3).

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bari in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2007


Corte Suprema di Cassazione, Sez. III, n. 19218 del 14-09-2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIDUCCIA Gaetano – Presidente

Dott. MAZZA Fabio – Consigliere

Dott. TRIFONE Francesco – Est. Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere

Dott. LEVI Giulio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DI PIETRALATA 320, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, difeso dall’avvocato LEPORE RAFFAELE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.F., (eredi) M.M., elettivamente domiciliati in ROMA VIA F CORRIDONI 27 SC D INT 2, presso lo studio dell’avvocato CARLO VENDITTI, difesi dall’avvocato COLUCCI NICOLA, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 490/03 della Corte d’Appello di BARI, terza sezione civile, emessa il 22/01/03, depositata il 30/04/03, R.G. 1362/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/04/07 dal Consigliere Dott. Giulio LEVI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCHIAVON Giovanni, che ha concluso per la inammissibilità e, in subordine, il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con citazione innanzi al pretore di Lucera del 24 settembre 1991 M. e M.F. convenivano in giudizio B.G., in proprio e nella sua qualità di presidente del Motoclub (OMISSIS), per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni, che, a seguito dello svolgimento di una gara motociclistica fuori strada organizzata dal suddetto motoclub, i partecipanti avevano arrecato attraversando i terreni di loro proprietà, piuttosto che percorrere il circuito su strada sterrata.

Nel contraddittorio delle parti, il pretore rigettava la domanda e la sentenza, sull’appello dei soccombenti, era confermata dal tribunale della stessa città.

Questa Suprema Corte, sul ricorso di M. e M.F., con sentenza n. 749 del 2000, cassava la sentenza del tribunale con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Bari perché il gravame fosse deciso in applicazione del principio di diritto secondo cui rientra nell’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 2050 c.c., (responsabilità per l’esercizio di attività pericolose) l’organizzazione di una gara motociclistica su circuito aperto al pubblico.

Il giudizio di rinvio, svoltosi nella contumacia di B.G., era definito dalla Corte d’appello di Bari con la sentenza pubblicata il 30 aprile 2003, che, in accoglimento del gravame avverso la sentenza di primo grado, condannava l’appellato contumace al risarcimento dei danni ed alle spese del doppio grado del giudizio a favore degli appellanti.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso B.G., che ha affidato l’accoglimento dell’impugnazione ad unico motivo.

Hanno resistito con controricorso M.F. e, nella qualità di eredi di M.M., A.M., M.G. e Mo.Ma..

Motivi della decisione

Con l’unico motivo d’impugnazione – deducendo la nullità del procedimento del giudizio di rinvio per violazione delle norme di cui agli artt. 156 e 160 c.p.c., – il ricorrente denuncia di non avere mai avuto conoscenza della riassunzione del processo innanzi alla Corte d’appello di Bari, perché, essendo stato il relativo atto notificato a persona diversa da quelle elencate nell’art. 139 c.p.c., ed in luogo diverso da quello del suo domicilio o della sua dimora, esso sarebbe nullo.

A tal fine, ha prodotto il certificato storico di residenza rilasciato dal Comune di Foggia, il certificato dell’attuale sua residenza in (OMISSIS) ed il certificato di matrimonio, intendendo con detta documentazione dimostrare che la persona, cui l’atto di riassunzione era stato consegnato e che l’ufficiale giudiziario aveva qualificato come moglie del destinatario, tale non era e che nel luogo ove la notificazione è avvenuta esso istante non era domiciliato né aveva la sua dimora.

I resistenti contrastano la censura e sostengono che la notificazione sarebbe stata effettuata validamente a mani di F.L., che, ancorché indicata come “moglie” del destinatario B., era, invece, la sua convivente nel comune domicilio di via (OMISSIS) in (OMISSIS).

Il motivo è fondato.

Dalla documentazione offerta dal ricorrente in questa sede e dalle stesse ammissioni delle parti resistente risulta che, alla data in cui è stata effettuata la riassunzione del processo innanzi al Giudice del rinvio, il luogo di domicilio o di dimora di B.G. non era alla via (OMISSIS) in (OMISSIS), ove l’atto medesimo risulta notificato mediante consegna a F.L., indicata come moglie del destinatario.

Ne consegue che la notificazione è nulla, sia perché effettuata in luogo diverso da quello del domicilio di B.G.; sia perché l’atto è stato consegnato a soggetto che è persona diversa da un familiare ivi con lui convivente.

Al riguardo considera, anzitutto, questa Corte che, in tema di notificazioni, nel procedimento disciplinato dagli artt. 138 e 139 c.p.c., che è imperniato sulla consegna diretta della copia dell’atto al destinatario, la consegna della copia a persona che, pur coabitando con il destinatario, non sia a lui legata da rapporto di parentela o non sia addetta alla casa, non è assistita dalla presunzione di consegna al destinatario stesso e non consente il perfezionamento della notifica, che deve ritenersi, quindi nulla, salvo poi a risultare una tale nullità sanabile con la costituzione in giudizio della parte o con la mancata deduzione di essa con l’atto d’impugnazione (ex plurimis Cass., n. 13625/2004; Cass., n. 9658/2000).

Occorre poi, considerare che fra le persone di famiglia (che, se rinvenute nella casa di abitazione del destinatario dell’atto da notificare, sono abilitate a riceverlo, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2) possono comprendersi soltanto i componenti del nucleo familiare in senso stretto e gli altri parenti od affini, non legati da un rapporto di stabile convivenza, purché la loro presenza in detta casa sia non occasionale (Cass., n. 9658/2000; Cass., n. 3858/92).

Di conseguenza, la notificazione effettuata a mani di persona che si assume essere il c.d. “coniuge di fatto” del destinatario (qualificatasi all’ufficiale giudiziario quale “moglie” del destinatario) e che sia avvenuta in luogo diverso da quello in cui lo stesso destinatario abbia il domicilio o la dimora deve ritenersi nulla.

Nel caso in esame, la notificazione dell’atto di riassunzione del giudizio innanzi al giudice del rinvio effettuata a B.G. a mani di F.L. è nulla e, non essendo stata sanata, comporta, nella nullità del relativo procedimento, la nullità della sentenza impugnata, che deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Bari in altra composizione.

Al Giudice del rinvio è rimessa anche la pronuncia in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità (art. 385 c.p.c., comma 3).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bari in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2007


Cass. civ. Sez. lavoro, (ud. 17-04-2007) 18-07-2007, n. 15973

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERCURIO Ettore – Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. DE MATTEIS Aldo – rel. Consigliere

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

N.L., elettivamente domiciliato in ROMA VIA LUCREZIO CARO 63, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ZOPPI, rappresentato e difeso dall’avvocato RIMMAUDO Giovanni, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA IV NOVEMBRE 144, rappresentato e difeso dagli avvocati LA PECCERELLA Luigi, LUCIANA ROMEO, giusta procura speciale atto notar CARLO FEDERICO TUCCARI DI ROMA del 29/07/04, REP. 65862;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 514/03 della Corte d’Appello di GENOVA, depositata il 15/07/03 R.G.N. 201/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 17/04/07 dal Consigliere Dott. Aldo DE MATTEIS;

udito l’Avvocato RIMMAUDO GIOVANNI;

udito l’Avvocato ROMEO LUCIANA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il lavoratore N.L. ha subito un incidente stradale il giorno (OMISSIS) mentre alla guida della propria, auto ritornava dal luogo di lavoro alla propria abitazione, entrambi siti nel comune di Massa.

La sua domanda di rendita è stata respinta dal Giudice del lavoro di Massa, il quale ha ritenuto che il nesso di causalità è stato interrotto da una sosta voluttuaria ad un bar sito lungo il medesimo percorso.

La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Genova con sentenza 2/14 luglio 2003 n. 514, che ha posto una duplice distinzione: tra soste necessitate (quali la necessità di un breve riposo durante un lungo percorso o la necessità di soddisfare esigenze fisiologiche) e soste voluttuarie, ed in questo secondo ambito quelle di pochi minuti, insuscettibili di modificare le condizioni di rischio, e quelle di apprezzabile durata e consistenza (come nella specie, circa un’ora), tale da far ritenere che anche la circolazione stradale possa aver avuto una sensibile modifica, sulla base dell’id quod plerumque accidit.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il N., con due motivi.

L’Istituto intimato sì è costituito con controricorso, resistendo, ed ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, sostiene che per la qualificazione dell’infortunio in itinere è determinante solo la circostanza dello spostamento necessitato del lavoratore per raggiungere con il proprio mezzo l’abitazione e il posto di lavoro e viceversa, mentre sarebbe irrilevante una breve sosta effettuata per soddisfare esigenze personali.

Il motivo non è fondato.

II quadro normativo alla cui stregua la controversia deve essere decisa è costituito dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, comma 3, introdotto dal D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 12, che comprende nell’oggetto della assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nell’ambito della nozione di occasione di lavoro, anche l’infortunio in itinere, esclusi i casi di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate; nonché gli infortuni direttamente cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti ed allucinogeni;

infine in caso di guida senza patente.

La stessa disposizione spiega che la interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a causa di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti. La espressa menzione nel testo legislativo, oltre che della deviazione, anche della interruzione, supera i rilievi della dottrina circa la irrilevanza del tempo del tragitto.

E sebbene la norma indicata sia successiva ai fatti di causa, nondimeno essa ne costituisce il criterio normativo per una triplice ragione, in ordine decrescente di pregnanza:

1. perchè la L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 55, lett. u), nel delegare il Governo ad emanare una specifica normativa per la tutela dell’infortunio in itinere, gli ha posto come criterio direttivo il recepimento dei principi giurisprudenziali consolidati in materia, sicché questi costituiscono, nel tempo, benchè sotto diversa fonte normativa, prima giurisprudenziale e poi legislativa, medesimo criterio normativo (Corte cost. ord. 11 gennaio 2005 n. 1);

2. perchè il sistema di tutela infortunistica si è formato attraverso un processo evolutivo nel quale gli interventi del legislatore hanno avuto spesso la funzione di certificare e dare dignità di norma legislativa agli approdi della giurisprudenza ordinaria e costituzionale; particolare esempio di tale processo è proprio la tutela dell’infortunio in itinere, enucleata dalla nozione di occasione di lavoro di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, da una giurisprudenza pretoria (di merito e di legittimità, poi recepita dalla L. n. 144 del 1999, art. 55, lett. u)), la quale, partendo dalla nozione di aggravamento del rischio generico gravante su tutti gli utenti della strada (riassumibile nel catalogo di cui a Cass. 27 maggio 1982 n. 3273), attraverso una elaborazione pluridecennale, è pervenuta alla conclusione che il quid pluris costituente l’aggravamento risiede proprio nella finalità lavoristico (Cass. 19 gennaio 1998 n. 455, cui si è uniformata tutta la giurisprudenza successiva; ex plurimis Cass. 19 febbraio 1998 n. 1751, 27 febbraio 1998 n. 2210, 16 ottobre 1998 n. 10272, 24 ottobre 1998 n. 10582, 3 novembre 1998 n. 11008, 17 maggio 2000 n. 6431).

3. perchè una norma successiva ben può costituire criterio interpretativo che illumina anche il regime precedente (Cass. sez. un. 26 luglio 2004 n. 13967).

La giurisprudenza costituzionale citata, decidendo su una fattispecie di sosta voluttuaria al bar di pochi minuti, ha precisato, con ordinanza interpretativa di rigetto, e facendo riferimento alla giurisprudenza di legittimità, che una breve sosta non integra interruzione (che esclude la copertura assicurativa), ove non modifichi le condizioni di rischio. Tale giurisprudenza, che comporta un ampliamento della tutela dell’infortunio in itinere rispetto al testo normativo, in quanto introduce una limitata tutela della interruzione non necessitata, sub specie di breve sosta, convalida di conformità alla Costituzione la giurisprudenza di questa Corte in materia di infortunio in itinere, è coerente al quadro normativo europeo in tema di interruzione e deviazione dell’iter, e conforta le stesse direttive dell’ Istituto assicuratore. Questo, con le linee guida per la trattazione degli infortuni in itinere del 15 giugno 1998, ha dato ai propri uffici la direttiva che “brevi differimenti della partenza o brevi soste lungo il tragitto (la cui brevità va valutata anche in rapporto alla motivazione dei ritardi) non costituiscono elementi tali da influire negativamente sulla valutazione della compatibilità degli orari”.

La sosta voluttuaria al bar va inquadrata quindi nel rischio elettivo, nell’ambito del percorso, che costituisce la occasione di lavoro, in quanto dovuta a libera scelta del lavoratore, che comporta la permanenza o meno della copertura assicurativa a seconda delle caratteristiche della sosta, e cioè delle due condizioni indicate dalla giurisprudenza costituzionale, e cioè le sue dimensioni temporali e l’aggravamento del rischio.

La giurisprudenza di legittimità si è già espressa in tema di differimento dell’orario di inizio dell’iter, stabilendo che la permanenza del lavoratore sul luogo di lavoro ed alla fine del proprio turno (nella specie, di cinquanta minuti, e motivata da visita al medico di fabbrica e incontro con collega sindacalista per ragioni attinenti al lavoro) non è idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra l’attività lavorativa e l’evento infortunistico (Cass. 18 luglio 2002 n. 10468).

Per la interruzione risulta, a quanto consta, un unico precedente (Cass. 19 aprile 1995 n. 4346), che, nell’affermare la tutela infortunistica anche per il viaggio di ritorno di un artigiano, il cui viaggio di andata sia pacificamente oggetto di tutela, ha ritenuto irrilevante una breve sosta in banca ed una al bar, posti lungo il tragitto.

Per la sosta al bar, occorre tenere presente anche il maggior rigore necessario nel valutare il rischio elettivo nell’infortunio in itinere, che assume una nozione più ampia rispetto all’infortunio che si verifichi nel corso dell’attività lavorativa vera e propria, in quanto comprende comportamenti del lavoratore infortunato di per sè non abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune prudenza (per riferimenti Cass. 18 agosto 2002 n. 12072, Cass. 6 agosto 2003 n. 11885, Cass. 18 marzo 2004 n. 5525, Cass. 3 agosto 2005 n. 16282).

La valutazione delle . circostanze di fatto della interruzione non necessitata è compito del Giudice del merito, il quale potrà adottare criteri quali il tempo della sosta in termini assoluti, o in proporzione alla durata del viaggio, in quanto la interruzione non necessitata non può essere di durata tale da elidere il carattere finalistico che giustifica la tutela dell’infortunio in itinere, o, come indicato dall’istituto assicuratore, delle motivazioni stesse della sosta, avvalendosi delle indicazioni della giurisprudenza nazionale o, ove mancante e quale criterio meramente sussidiario, anche di quella dei Paesi comunitari. Dal criterio di interpretazione costituzionalmente orientata, dal principio di armonizzazione dei sistemi di sicurezza sociale dei Paesi dell’Unione, dalla formazione in corso di uno spazio giurisprudenziale europeo, si può infatti derivare il seguente criterio interpretativo: nella misura in cui la legislazione di un Paese comunitario disciplini in modo specifico un elemento non disciplinato dalla nostra legge nazionale, in conformità a precetti della Costituzione di quel Paese identici a quelli della nostra Costituzione, la disciplina legislativa o giurisprudenziale di quest’altro Paese comunitario (ampiamente riportate da vari Autori e dallo stesso istituto assicuratore) può costituire criterio, certamente sussidiario, per la soluzione di casi non disciplinati nel dettaglio dalla legge italiana.

A questi criteri si è sostanzialmente attenuta la sentenza impugnata laddove ha affermato che le soste voluttuarie di pochi minuti, insuscettibili di modificare le condizioni di rischio, non escludono la tutela dell’infortunio in itinere; ciò a riprova che i principi enunciati dalla corte costituzionale, con rinvio alla giurisprudenza di legittimità, rispondono a valori insiti e diffusi dell’ordinamento, percepiti anche dalla sentenza impugnata. Il primo motivo di ricorso, secondo cui sarebbe determinante solo lo spostamento in occasione di lavoro, ed irrilevanti le circostanze di questo, quali la interruzione non necessitata, non ha fondamento giuridico, alla luce dei principi sopra riportati.

Con il secondo motivo, deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), il ricorrente contesta la valutazione della sentenza impugnata circa la durata della sosta. Rileva che il turno di lavoro è cessato alle ore 21 ed il sinistro, come risulta dal verbale della polizia, si è verificato alle ore 22. Ove si consideri che, finito il turno, il N. si è dovuto recare dal reparto agli spogliatoi per cambiarsi, quindi andare a piedi all’uscita della fabbrica, prendere la vettura dal posteggio e poi compiere il tragitto, la fermata al bar sarebbe stata di breve durata e tale da non modificare il rischio stradale. Contesta altresì la presunzione di aggravamento del rischio su cui si fonda la decisione della Corte, perché al contrario sarebbe notorio che più ci si avvicina all’ora notturna, più il traffico tende a diminuire e non ad aumentare.

Il secondo motivo si risolve in una censura agli accertamenti di fatto della sentenza impugnata, relativi alla durata della sosta ed alle condizioni di rischio. Sul primo punto, la sentenza impugnata ha parlato di circa un’ora; i rilievi del ricorrente sui tempi dello spogliatoio e del verbale della polizia stradale intervenuta, costituiscono elementi di fatto che per la loro genericità non sono tali da inficiare la valutazione della sentenza impugnata. Il ricorrente non deduce di avere indicato al giudice del merito le dimensioni dell’azienda, i tempi di percorrenza a piedi, le distanze chilometriche (tenute presenti le contenute dimensioni spaziali della cittadina di Massa), tutti dati necessari per consentire a questa corte il sindacato sul vizio di motivazione dedotto.

Sul secondo punto, trattasi di valutazione di merito che non appare illogica, considerata l’ora tarda, dopo il tramonto.

Il ricorso deve essere pertanto respinto.

Nulla deve disporsi per le spese del presente giudizio ai sensi dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo anteriore a quello di cui al D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, comma 11, convertito in L. 24 novembre 2003, n. 326, nella specie inapplicabile “ratione temporis”; infatti le limitazioni di reddito per la gratuità del giudizio introdotte da tale ultima norma non sono applicabili ai processi il cui ricorso introduttivo del giudizio sia stato depositato, come nella specie, anteriormente al 2 ottobre 2003 (data di entrata in vigore del predetto decreto legge) (Cass. 1 marzo 2004 n. 4165; Cass. 8 marzo 2004 n. 4657; Cass. 1 giugno 2005 n. 11687;

nello stesso senso, in motivazione, S.U. 24 febbraio 2005 n. 3814).

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Nulla per le spese processuali del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 17 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2007