Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 31-05-2018) 02-10-2018, n. 23891

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28628-2016 proposto da:

RADIO DIMENSIONE SUONO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANTONIO BERTOLONI 1/E, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO RIZZO, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

D.S.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA COLA DI RIENZO 69, presso lo studio dell’avvocato BRUNO DEL VECCHIO, che lo rappresenta e difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4761/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 12/10/2016 R.G.N. 2914/2016.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Rilevato:

1. che con sentenza n. 4761 pubblicata il 12.10.2016, la Corte d’appello di Roma ha respinto il reclamo della società datoriale avverso la sentenza di primo grado, di rigetto dell’opposizione avverso l’ordinanza con cui era stata dichiarata l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato il 24.10.14 al sig. D.S.;

2. che la Corte territoriale ha premesso come il lavoratore avesse diritto ad usufruire dei permessi di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 3, per assistere la madre e la sorella entrambe in condizioni di handicap grave;

3. che la società datoriale aveva contestato al predetto l’utilizzo dei permessi di cui al citato art. 33, concessigli nei giorni 16, 30 settembre e 3 ottobre del 2014, per fini estranei all’assistenza dei parenti disabili;

4. che secondo la Corte di merito, l’assistenza prevista dalla disposizione in esame e a cui sono finalizzati i permessi non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione, ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il predetto non sia in condizioni di compiere autonomamente, dovendosi configurare l’abuso del diritto ove il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall’assistenza, da intendere in senso ampio, in favore del familiare;

5. che in base all’istruttoria svolta non risultavano dimostrati gli addebiti mossi con la lettera di contestazione in quanto il 16.9.14, nell’orario di fruizione del permesso (dalle 18.00 alle 20.00), il D.S. si era recato a fare la spesa che, dopo una sosta presso la propria abitazione, aveva portato a casa della madre, convivente con la sorella, come confermato. dalla teste P., moglie del D.S. e non smentito dalla deposizione dell’agente investigatore;

6. che il 30.9.14, nell’orario di fruizione del permesso (dalle 12.00 alle 13.15), il D.S. si era recato presso uno sportello Postamat e poi dal tabaccaio, e che la documentazione dal medesimo prodotta aveva confermato l’esistenza di libretti di risparmio postale intestati alla madre e alla sorella e, quindi, la plausibilità di operazioni svolte in favore delle stesse;

7. che, infine, il 3.10.14 il D.S., in permesso dalle 17.45 alle 24.00, aveva svolto attività in favore dei parenti disabili recandosi a fare la spesa per essi in norcineria e presso il supermercato, come confermato dalla teste P., ed aveva poi incontrato alle ore 21.00 il suo amico geom. Pi.Ro., unitamente all’arch. D.C., per discutere della perizia tecnica da quest’ultima redatta in relazione al ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. presentato nell’interesse della madre per problemi di infiltrazione nell’appartamento, circostanze confermate dal teste Pi. e dalla perizia tecnica depositata in atti unitamente al ricorso d’urgenza;

8. che peraltro, ha evidenziato la Corte, il procedimento penale a carico del D.S., instaurato su querela della società, era stato archiviato per assenza di specifici profili di responsabilità;

9. che avverso tale sentenza la società datoriale ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui ha resistito con controricorso il lavoratore;

10. che entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., comma 1.

11. che col primo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti;

12. che, in particolare, ha censurato come inesistente o meramente apparente la motivazione adottata nella sentenza impugnata che, in relazione al giorno 16.9.14, ha fatto leva sulla “complessiva istruttoria svolta”, senza indicare elementi di prova specifici da cui potesse desumersi la veridicità della deposizione rese dalla sig.ra P., moglie del D.S.;

13. che ha sottolineato come la documentazione prodotta dal lavoratore non supportasse ed anzi smentisse l’assunto del medesimo sulla finalità delle operazioni svolte presso lo sportello Postamat nell’interesse dei familiari disabili;

14. che, riguardo al giorno 30.9.14, gli elementi di prova raccolti (deposizione degli agenti investigatori) smentivano l’assunto secondo cui la madre del D.S. si sarebbe trovata presso l’abitazione del medesimo con la conseguenza che l’intero orario di permesso sarebbe risultato occupato da altre incombenze (accompagnamento del figlio, spesa, vista alla suocera), risultando del tutto apparente la motivazione sulla avvenuta assistenza fornita in quella giornata, nelle ore di permesso, alla madre e alla sorella;

15. che le medesime censure sono state riproposte dalla società ricorrente, col secondo motivo di ricorso formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729, 2730 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c.;

16. che col terzo motivo di ricorso la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2729 e 2730 c.c. e degli artt. 115, 116 e 230 c.p.c., per l’erronea valutazione di attendibilità dei testimoni P.S. e Pi.Ro., rispettivamente moglie e amico del D.S.;

17. che col quarto motivo la società ha dedotto, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, degli artt. 2697, 2729 e 2730 c.c. e degli artt. 115, 116 e 230 c.p.c.;

18. che ha sostenuto l’erronea applicazione della disposizione in materia di permessi e dei criteri di prova presuntiva ed ha argomentato come, pur dilatando il concetto di assistenza, non potesse considerarsi tale quella posta in essere dal D.S. che, nei tre giorni esaminati, ha di fatto dedicato alla madre e alla sorella disabili una percentuale del tempo di permesso pari a zero;

19. che ha ritenuto non ammissibile che, in relazione all’attività svolta nell’interesse del disabile e che non richieda presenza fisica accanto al medesimo, si addossi a parte datoriale l’onere di provare che quelle attività esulino dalle finalità di cura e assistenza, risultando ciò contrario al principio di vicinanza della prova come sancito dalle Sezioni Unite con sentenze n. 13533 del 2001 e n. 10744 del 2009;

20. che sul primo motivo di ricorso occorre premettere come trovi applicazione alla fattispecie in esame la previsione di cui all’art. 348 ter c.p.c., comma 5, sulla c.d. doppia conforme, trattandosi di giudizio di appello (la medesima regola deve ritenersi operante per il reclamo) introdotto con ricorso depositato dopo il giorno 11 settembre 2012;

21. che pertanto il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54, comma 3, convertito in L. n. 134 del 2012, applicabile alle sentenze pubblicate dal giorno 11 settembre 2012, deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse, (Cass. n. 26774 del 2016; Cass. n. 5528 del 2014);

22. che nel caso di specie tale allegazione manca del tutto sicchè risulta inammissibile il motivo formulato ai sensi del citato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

23. che neanche appare configurabile un vizio di carenza assoluta di motivazione tale da integrare la violazione dell’art. 132 n. 4; le Sezioni Unite di questa Corte (sentenza n. 8053 del 2014) hanno precisato che “la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al ‘minimo costituzionalè del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione”;

24. che, come di recente stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (n. 22232 del 2016), “la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture”, (cfr. anche Cass. n. 12351 del 2017);

25. che tali difetti non sono in alcun modo rinvenibili nella decisione impugnata che ha dato conto della insussistenza dell’addebito contestato al lavoratore attraverso la ricostruzione delle incombenze svolte dal predetto in coincidenza con i permessi goduti e riferibili all’assistenza in favore dei congiunti disabili, assistenza intesa in una accezione ampia, comprensiva del disbrigo di incombenze e pratiche di vario contenuto;

26. che sul secondo motivo di ricorso occorre considerare che, in base all’insegnamento di questa Corte, “il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ex art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione (id est: del processo di sussunzione), rilevando solo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata male applicata, cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007). Sicchè il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti, (Cass. n. 9217 del 2016);

27. che nel caso di specie, la società ricorrente non ha prospettato l’erronea interpretazione di una norma da parte del giudice che ha emesso la sentenza impugnata ma ha mosso censure tutte incentrate sull’errata valutazione delle prove e, in particolare, sulla inidoneità delle deposizioni testimoniali raccolte a dimostrare la finalizzazione dell’attività svolta dal lavoratore nelle ore in cui era in permesso, ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 33, in favore della madre e della sorella disabili;

28. che tali censure attengono con evidenza alla motivazione della sentenza e non sono neanche formulate secondo lo schema legale richiesto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sicchè risultano inammissibili;

29. che ad analoga conclusione deve giungersi quanto al terzo motivo di ricorso che, sebbene formulato come violazione di legge, contiene censure che non sarebbero state ammissibili neanche in base al vecchio testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5;

30. che secondo principi consolidati, l’esame delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sulla attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova, con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, (Cass. n. 17097 del 2010, n. 27464 del 2006, n. 1554 del 2004, n. 11933 del 2003, n. 13910 del 2001);

31. che neppure è fondata la censura di violazione degli artt. 115, 116 c.p.c., che presuppone, come più volte precisato da questa Corte (cfr. Cass. n. 11892 del 2016; Cass. n. 25029 del 2015; Cass. n. 25216 del 2014), il mancato rispetto )-1 delle regole di formazione della prova ed è rinvenibile nell’ipotesi in cui il giudice utilizzi prove non acquisite in atti (art. 115 c.p.c.) o valuti le prove secondo un criterio diverso da quello indicato dall’art. 116 c.p.c., cioè una prova legale secondo prudente apprezzamento o un elemento di prova liberamente valutabile come prova legale o inverta gli oneri di prova;

32. che nessuna di tali situazioni è rappresentata nel motivo di ricorso in esame ove non risulta neanche specificata la dedotta violazione dell’art. 230 c.p.c.;

33. che, in particolare, la Corte d’appello ha addossato al lavoratore l’onere di dimostrare il collegamento delle incombenze svolte durante i permessi con l’assistenza ai parenti disabili ed ha ritenuto assolto tale onere;

34. che neppure può trovare accoglimento il quarto motivo di ricorso atteso che la Corte territoriale non ha interpretato e applicato la L. n. 104 del 1992, art. 33, in difformità rispetto ai principi affermati nella giurisprudenza di legittimità;

35. che secondo l’orientamento di questa Corte, che si condivide e a cui si intende dare continuità, il comportamento del lavoratore subordinato che si avvalga del permesso di cui alla L. n. 104 del 1992, art. 33, non per l’assistenza al familiare, bensì per attendere ad altra attività, integra l’ipotesi di abuso di diritto, giacchè tale condotta si palesa nei confronti del datore di lavoro come lesiva della buona fede, privandolo ingiustamente della prestazione lavorativa in violazione dell’affidamento riposto nel dipendente ed integra, nei confronti dell’Ente di previdenza erogatore del trattamento economico, un’indebita percezione dell’indennità ed uno sviamento dell’intervento assistenziale (Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 4984 del 2014);

36. che è stato parimenti sottolineato il disvalore sociale della condotta del lavoratore che usufruisce, anche solo in parte, di permessi per l’assistenza a portatori di handicap al fine di soddisfare proprie esigenze personali “scaricando il costo di tali esigenze sulla intera collettività, stante che i permessi sono retribuiti in via anticipata dal datore di lavoro, il quale poi viene sollevato dall’ente previdenziale del relativo onere anche ai fini contributivi e costringe il datore di lavoro ad organizzare ad ogni permesso diversamente il lavoro in azienda ed i propri compagni di lavoro, che lo devono sostituire, ad una maggiore penosità della prestazione lavorativa”, (Cass. n. 8784 del 2015);

37. che nel caso di specie la Corte territoriale, con valutazione in fatto non censurabile in questa sede di legittimità, ha escluso la finalizzazione a scopi personali delle ore di permesso di cui il sig. D.S. ha usufruito avendo ricollegato, in base alle prove raccolte, le attività poste in essere dal predetto, come il fare la spesa, l’usare lo sportello Postamat, incontrare il geometra e l’architetto, a specifici interessi ed utilità dei congiunti in tal modo assistiti;

38. che in base a tali premesse, il ricorso risulta inammissibile;

39. che al rigetto del ricorso segue la condanna della società ricorrente, secondo il criterio di soccombenza, alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo;

40. che ricorrono i presupposti di cui al D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012 n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 4.000,00 per compensi professionali, in Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.

Così deciso in Roma, nella udienza camerale, il 31 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2018


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 26-09-2017) 28-09-2018, n. 23620

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7486/2016 R.G. proposto da:

AZIENDA SANITARIA PROVINCIAE DI MESSINA, rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Francesco Vitale, con domicilio eletto in Roma, via Germanico, n. 66; presso lo studio dell’avv. Francesco Consoli Xibilia;

– ricorrente –

contro

DISMED ONLUS, rappresentata e difesa dall’avv. Massimiliano Pantano, con domicilio eletto in Roma, via Pietro da Cortona, n. 8, scala B, presso lo studio dell’avv. Maurilio D’Angelo;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Messina n.96, depositata in data 12 febbraio 2015;

sentita la relazione svolta all’udienza pubblica del 26 settembre 2017 dal consigliere dott. Pietro Campanile;

sentito per la ricorrente l’avv. Vitale;

sentito per la controricorrente l’avv. Pantano;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale dott. FUZIO Riccardo, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 1892 del 2010 il Tribunale di Messina accoglieva l’opposizione proposta dall’AUSL n. (OMISSIS) di Messina avverso il decreto ingiuntivo emesso, ad istanza di Dismed Onlus, relativo al pagamento delle somme (Euro 396.526,95 ed Euro 136.344,80) dovute per le prestazioni rese, rispettivamente, negli anni 2006 e 2007. A tale conclusione il Tribunale perveniva aderendo alla tesi, proposta dall’opponente, secondo cui anche per le prestazioni di natura riabilitativa, come quelle in esame, doveva intendersi operante il sistema della c.d. regressione tariffaria, già applicato, del resto, negli anni precedenti nei confronti della stessa Dismed.

2. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte di appello di Messina, accogliendo il gravame proposto dalla predetta Onlus, ha dichiarato sussistente il credito vantato dall’appellante, così confermando il provvedimento monitorio opposto. In particolare, la corte distrettuale ha affermato che, pur dovendosi ritenere che il D. A. del 17 ottobre 2005 – con il quale si dettavano i “criteri di calcolo del budget per le strutture specialistiche convenzionate relativamente agli anni 2005 e 2006” – si applicasse anche nei confronti del centro ambulatoriale riabilitativo convenzionato, erano da condividere le eccezioni, già proposte in primo grado dalla Dismed, circa l’illegittimità di detto provvedimento.

In particolare, movendo dalla constatazione che il sistema operante per le strutture riabilitative era diverso da quello previsto per le altre convenzioni specialistiche, nel senso che, mentre per queste ultime il budget veniva determinato attraverso la fissazione di un importo massimo da liquidarsi annualmente, per le prime la predeterminazione della spesa avveniva tramite l’assegnazione di “moduli”, vale a dire l’indicazione del tipo e del numero delle prestazioni erogabili, si è ritenuto che, fissando un limite di spesa per le strutture riabilitative, si finiva con l’incidere sulle tariffe, riducendole in maniera illegittima.

3. Per la cassazione di tale decisione l’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina propone ricorso, affidato ad unico ed articolato motivo, illustrato da memoria, cui la Dismed Onlus resiste con controricorso.

Motivi della decisione
1. La ricorrente, denunciando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, violazione dell’art. 37 c.p.c., della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, All. E, nonchè dell’art. 133 cod. proc. amm., lett. c), sostiene che, avendo la corte distrettuale operato un sindacato di legittimità in ordine al provvedimento emesso in relazione alla fissazione del budget nei confronti della Dismed, avrebbe emesso una pronuncia viziata da un evidente difetto di giurisdizione, per aver fatto ricorso alla disapplicazione del suddetto atto amministrativo in un giudizio – nel quale la stessa P.A. rivestiva la qualità di parte – vertente sulla legittimità dell’atto stesso inteso non come antecedente logico del diritto vantato, bensì come suo fondamento.

2. Preliminarmente deve rilevarsi l’inammissibilità del ricorso – eccepita dalla controricorrente, ma, comunque, rilevabile d’ufficio – per mancato rispetto del termine previsto dall’art. 325 c.p.c., comma 2, decorrente, ai sensi del successivo art. 326, dalla notifica della sentenza al procuratore costituito dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina (d’ora in avanti, per brevità, Asp) in data 26 giugno 2015.

La tardività della proposizione dell’impugnazione in esame, invero non contestata – sotto tale profilo – neppure dalla ricorrente, è del tutto palese, per essere stato il procedimento di notificazione del ricorso avviato il 14 marzo 2016, ben oltre il termine di sessanta giorni previsto dalla richiamata norma.

3. Premesso che non può dubitarsi del perfezionamento, in data 26 giugno 2015, della notificazione della sentenza della Corte di appello di Messina oggetto dell’impugnazione in esame, come si desume dalle attestazioni depositate dalla parte controricorrente, e come, del resto, non è contestato neppure dall’Asp, deve rilevarsi come le deduzioni della stessa, intese a dimostrare la nullità di detta notificazione, tale da impedire la decorrenza del termine “breve” previsto dall’art. 325 c.p.c., non siano condivisibili.

3.1. Si sostiene, in primo luogo, che l’indicazione dell’elenco da cui era stato tratto l’indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore della parte, vale a dire l’Albo degli Avvocati del Foro di Messina, non corrisponderebbe ai “pubblici elenchi” previsti dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, art. 4 e art. 16, comma 12, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179.

L’obiezione non coglie nel segno.

Il testè richiamato D.L. n. 179 del 2012, all’art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale”, risulta formulato nei seguenti termini: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.

Tale norma, dunque, imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e a quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE. Non può omettersi di considerare, inoltre, che l’art. 5 della citata L. n. 53 del 1994 espressamente prevede che “.. l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.”.

Vale bene, del resto, richiamare il principio recentemente enunciato da questa Corte (Cass., 11 luglio 2017, n. 17048), secondo cui “in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies (conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012), come modificato dal D.L. n. 90 del 2014 (conv., con modif., dalla L. n. 114 del 2014), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario”.

4. Deve pertanto ritenersi che, essendo stata effettuata nella vigenza del richiamato D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, la notificazione della sentenza impugnata risulta correttamente eseguita – con conseguente decorrenza del termine previsto dall’art. 325 c.p.c. – all’indirizzo di posta elettronica comunicato dal difensore della Dismed al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Messina.

5. Sostiene ancora la ricorrente che la notifica in esame sarebbe inficiata da ulteriori violazioni, quali l’omessa indicazione del codice fiscale della Dismed Onlus e della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

5.1. Tali deduzioni non sono meritevoli di positivo apprezzamento.

Questa Corte ha di recente espresso un orientamento, in tema di notificazione in via telematica, inteso a privilegiare la funzione della stessa, con la conseguenza che il raggiungimento dello scopo della notifica, vale a dire la produzione del risultato della conoscenza dell’atto notificato a mezzo di posta elettronica certificata, priva di significativo rilievo la presenza di meri vizi di natura procedimentale (come, ad esempio, l’estensione.doc in luogo del formato pdf), ove l’erronea applicazione della regola processuale non abbia comportato (ovvero, come nella specie, non sia stata neppure prospettata) una lesione del diritto di difesa, oppure altro pregiudizio per la decisione (Cass., Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665).

6. Nell’ambito di tale indirizzo si è affermato che la mancata indicazione nell’oggetto del messaggio di p.e.c. della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” costituisce mera irregolarità, essendo comunque raggiunto lo scopo della notificazione, avendola il destinatario ricevuta ed avendo mostrato di averne ben compreso il contenuto (Cass., 4 ottobre 2016, n. 19814).

6.1. Quanto all’omessa indicazione del codice fiscale della Dismed, valgano le superiori considerazioni, dovendosi per altro osservare che il principio desumibile dall’art. 156 c.p.c., comma 3, risulta recepito nella stessa L. n. 53 del 1994, che all’art. 11 prevede che la nullità delle notificazioni telematiche incorre qualora siano violate le relative norme (contenute negli articoli precedenti) “e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica”.

7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.200,00, di cui Euro 10.000,00 per compensi, oltre agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dell’art. 13.

Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2018


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 26/09/2017) 28/09/2018, n. 23620

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RORDORF Renato – Primo Presidente f.f. –

Dott. DI PALMA Salvatore – Presidente di Sez. –

Dott. AMOROSO Giovanni – Presidente di Sez. –

Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –

Dott. BIANCHINI Bruno – Consigliere –

Dott. CAMPANILE Pietro – rel. Consigliere –

Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 7486/2016 R.G. proposto da:

AZIENDA SANITARIA PROVINCIAE DI MESSINA, rappresentata e difesa dall’avv. Antonio Francesco Vitale, con domicilio eletto in Roma, via Germanico, n. 66; presso lo studio dell’avv. Francesco Consoli Xibilia;

– ricorrente –

contro

DISMED ONLUS, rappresentata e difesa dall’avv. Massimiliano Pantano, con domicilio eletto in Roma, via Pietro da Cortona, n. 8, scala B, presso lo studio dell’avv. Maurilio D’Angelo;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte di appello di Messina n.96, depositata in data 12 febbraio 2015;

sentita la relazione svolta all’udienza pubblica del 26 settembre 2017 dal consigliere dott. Pietro Campanile;

sentito per la ricorrente l’avv. Vitale;

sentito per la controricorrente l’avv. Pantano;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale dott. FUZIO Riccardo, il quale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 1892 del 2010 il Tribunale di Messina accoglieva l’opposizione proposta dall’AUSL n. (OMISSIS) di Messina avverso il decreto ingiuntivo emesso, ad istanza di Dismed Onlus, relativo al pagamento delle somme (Euro 396.526,95 ed Euro 136.344,80) dovute per le prestazioni rese, rispettivamente, negli anni 2006 e 2007. A tale conclusione il Tribunale perveniva aderendo alla tesi, proposta dall’opponente, secondo cui anche per le prestazioni di natura riabilitativa, come quelle in esame, doveva intendersi operante il sistema della c.d. regressione tariffaria, già applicato, del resto, negli anni precedenti nei confronti della stessa Dismed.

2. Con la decisione indicata in epigrafe la Corte di appello di Messina, accogliendo il gravame proposto dalla predetta Onlus, ha dichiarato sussistente il credito vantato dall’appellante, così confermando il provvedimento monitorio opposto. In particolare, la corte distrettuale ha affermato che, pur dovendosi ritenere che il D. A. del 17 ottobre 2005 – con il quale si dettavano i “criteri di calcolo del budget per le strutture specialistiche convenzionate relativamente agli anni 2005 e 2006” – si applicasse anche nei confronti del centro ambulatoriale riabilitativo convenzionato, erano da condividere le eccezioni, già proposte in primo grado dalla Dismed, circa l’illegittimità di detto provvedimento.

In particolare, movendo dalla constatazione che il sistema operante per le strutture riabilitative era diverso da quello previsto per le altre convenzioni specialistiche, nel senso che, mentre per queste ultime il budget veniva determinato attraverso la fissazione di un importo massimo da liquidarsi annualmente, per le prime la predeterminazione della spesa avveniva tramite l’assegnazione di “moduli”, vale a dire l’indicazione del tipo e del numero delle prestazioni erogabili, si è ritenuto che, fissando un limite di spesa per le strutture riabilitative, si finiva con l’incidere sulle tariffe, riducendole in maniera illegittima.

3. Per la cassazione di tale decisione l’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina propone ricorso, affidato ad unico ed articolato motivo, illustrato da memoria, cui la Dismed Onlus resiste con controricorso.

Motivi della decisione
1. La ricorrente, denunciando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, violazione dell’art. 37 c.p.c., della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, All. E, nonchè dell’art. 133 cod. proc. amm., lett. c), sostiene che, avendo la corte distrettuale operato un sindacato di legittimità in ordine al provvedimento emesso in relazione alla fissazione del budget nei confronti della Dismed, avrebbe emesso una pronuncia viziata da un evidente difetto di giurisdizione, per aver fatto ricorso alla disapplicazione del suddetto atto amministrativo in un giudizio – nel quale la stessa P.A. rivestiva la qualità di parte – vertente sulla legittimità dell’atto stesso inteso non come antecedente logico del diritto vantato, bensì come suo fondamento.

2. Preliminarmente deve rilevarsi l’inammissibilità del ricorso – eccepita dalla controricorrente, ma, comunque, rilevabile d’ufficio – per mancato rispetto del termine previsto dall’art. 325 c.p.c., comma 2, decorrente, ai sensi del successivo art. 326, dalla notifica della sentenza al procuratore costituito dell’Azienda Sanitaria Provinciale di Messina (d’ora in avanti, per brevità, Asp) in data 26 giugno 2015.

La tardività della proposizione dell’impugnazione in esame, invero non contestata – sotto tale profilo – neppure dalla ricorrente, è del tutto palese, per essere stato il procedimento di notificazione del ricorso avviato il 14 marzo 2016, ben oltre il termine di sessanta giorni previsto dalla richiamata norma.

3. Premesso che non può dubitarsi del perfezionamento, in data 26 giugno 2015, della notificazione della sentenza della Corte di appello di Messina oggetto dell’impugnazione in esame, come si desume dalle attestazioni depositate dalla parte controricorrente, e come, del resto, non è contestato neppure dall’Asp, deve rilevarsi come le deduzioni della stessa, intese a dimostrare la nullità di detta notificazione, tale da impedire la decorrenza del termine “breve” previsto dall’art. 325 c.p.c., non siano condivisibili.

3.1. Si sostiene, in primo luogo, che l’indicazione dell’elenco da cui era stato tratto l’indirizzo di posta elettronica certificata del procuratore della parte, vale a dire l’Albo degli Avvocati del Foro di Messina, non corrisponderebbe ai “pubblici elenchi” previsti dalla L. 17 dicembre 2012, n. 221, art. 4 e art. 16, comma 12, di conversione del D.L. 18 ottobre 2012, n. 179.

L’obiezione non coglie nel segno.

Il testè richiamato D.L. n. 179 del 2012, all’art. 16 sexies, introdotto dal D.L. 24 giugno 2014, convertito, con modificazioni, dalla L. 11 agosto 2014, n. 114, e rubricato “Domicilio digitale”, risulta formulato nei seguenti termini: “Salvo quanto previsto dall’art. 366 c.p.c., quando la legge prevede che le notificazioni degli atti in materia civile al difensore siano eseguite, ad istanza di parte, presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario, alla notificazione con le predette modalità può procedersi esclusivamente quando non sia possibile, per causa imputabile al destinatario, la notificazione presso l’indirizzo di posta elettronica certificata, risultante dagli elenchi di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, nonchè dal registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal ministero della giustizia”.

Tale norma, dunque, imponendo alle parti la notificazione dei propri atti presso l’indirizzo p.e.c. risultante dagli elenchi INI PEC di cui al D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, art. 6 bis, ovvero presso il ReGIndE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della giustizia, certamente implica un riferimento all’indirizzo di posta elettronica risultante dagli albi professionali, atteso che, in virtù della prescrizione contenuta nel citato D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, commi 2 bis e 5, al difensore fa capo l’obbligo di comunicare il proprio indirizzo all’ordine di appartenenza e a quest’ultimo è tenuto a inserirlo sia nel registro INI PEC, che nel ReGIndE. Non può omettersi di considerare, inoltre, che l’art. 5 della citata L. n. 53 del 1994 espressamente prevede che “.. l’atto deve essere trasmesso a mezzo posta elettronica certificata all’indirizzo di posta elettronica certificata che il destinatario ha comunicato al proprio ordine, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici.”.

Vale bene, del resto, richiamare il principio recentemente enunciato da questa Corte (Cass., 11 luglio 2017, n. 17048), secondo cui “in materia di notificazioni al difensore, a seguito dell’introduzione del “domicilio digitale”, corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies (conv., con modif., dalla L. n. 221 del 2012), come modificato dal D.L. n. 90 del 2014 (conv., con modif., dalla L. n. 114 del 2014), non è più possibile procedere – ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82 – alle comunicazioni o alle notificazioni presso la cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario ha omesso di eleggere il domicilio nel comune in cui ha sede quest’ultimo, a meno che, oltre a tale omissione, non ricorra altresì la circostanza che l’indirizzo di posta elettronica certificata non sia accessibile per cause imputabili al destinatario”.

4. Deve pertanto ritenersi che, essendo stata effettuata nella vigenza del richiamato D.L. n. 179 del 2012, art. 16 bis, la notificazione della sentenza impugnata risulta correttamente eseguita – con conseguente decorrenza del termine previsto dall’art. 325 c.p.c. – all’indirizzo di posta elettronica comunicato dal difensore della Dismed al Consiglio dell’ordine degli avvocati di Messina.

5. Sostiene ancora la ricorrente che la notifica in esame sarebbe inficiata da ulteriori violazioni, quali l’omessa indicazione del codice fiscale della Dismed Onlus e della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994”.

5.1. Tali deduzioni non sono meritevoli di positivo apprezzamento.

Questa Corte ha di recente espresso un orientamento, in tema di notificazione in via telematica, inteso a privilegiare la funzione della stessa, con la conseguenza che il raggiungimento dello scopo della notifica, vale a dire la produzione del risultato della conoscenza dell’atto notificato a mezzo di posta elettronica certificata, priva di significativo rilievo la presenza di meri vizi di natura procedimentale (come, ad esempio, l’estensione.doc in luogo del formato pdf), ove l’erronea applicazione della regola processuale non abbia comportato (ovvero, come nella specie, non sia stata neppure prospettata) una lesione del diritto di difesa, oppure altro pregiudizio per la decisione (Cass., Sez. U, 18 aprile 2016, n. 7665).

6. Nell’ambito di tale indirizzo si è affermato che la mancata indicazione nell’oggetto del messaggio di p.e.c. della dizione “notificazione ai sensi della L. n. 53 del 1994” costituisce mera irregolarità, essendo comunque raggiunto lo scopo della notificazione, avendola il destinatario ricevuta ed avendo mostrato di averne ben compreso il contenuto (Cass., 4 ottobre 2016, n. 19814).

6.1. Quanto all’omessa indicazione del codice fiscale della Dismed, valgano le superiori considerazioni, dovendosi per altro osservare che il principio desumibile dall’art. 156 c.p.c., comma 3, risulta recepito nella stessa L. n. 53 del 1994, che all’art. 11 prevede che la nullità delle notificazioni telematiche incorre qualora siano violate le relative norme (contenute negli articoli precedenti) “e, comunque, se vi è incertezza sulla persona cui è stata consegnata la copia dell’atto o sulla data della notifica”.

7. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile, con condanna della ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso, e condanna la ricorrente al pagamento delle spese relative al presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.200,00, di cui Euro 10.000,00 per compensi, oltre agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dell’art. 13.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 26 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2018


Corte Costituzionale, 23 luglio 2018, n. 175

Fatto

1.- Con ordinanza del 22 novembre 2016 (reg. ord. n. 59 del 2017), la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, primo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come modificato dall’art. 12 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) e dall’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 26 febbraio 1999, n. 46, e 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione), in riferimento agli artt. 3, primo comma; 24, primo e secondo comma, e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, «nella parte in cui abilita il Concessionario della Riscossione alla notificazione diretta, senza intermediario, mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento, della cartella di pagamento» nonché «nella parte in cui non prevede che la notifica di cartella di pagamento tramite il servizio postale avvenga con l’osservanza dell’art. 7 legge n. 890/82, così come modificato con la legge n. 31 del 2008 di conversione del decreto-legge n. 248/2007».

….

Leggi: Corte Costituzionale, 23 luglio 2018, n. 175


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 26-04-2018) 26-09-2018, n. 22892

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22186/2015 proposto da:

P.P., K.E.D., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE ANGELICO 36-B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SCARDIGLI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato P.P., anche quale difensore di se medesimo, giusta procura notarile in atti;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI FIRENZE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA POLIBIO 15, presso lo studio dell’avvocato LEPORE STUDIO LEGALE, rappresentato e difeso dagli avvocati ANDREA SANSONI, DEBORA PACINI in virtù di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 415/2015 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 10/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26/04/2018 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie depositate da parte ricorrente.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. K.E.D. proponeva opposizione dinanzi al Giudice di Pace di Firenze avverso il verbale di contestazione di una contravvenzione al codice della strada del (OMISSIS) elevato dalla Polizia Municipale di Firenze, notificatogli tramite lettera raccomandata del 29/7/2008 dalla European Municipality Outsourcing, divisione della Nivi Credit S.r.l., lamentando la nullità della notifica del verbale per inesistenza della stessa notifica, la invalidità della comunicazione in quanto il verbale era redatto solo in lingua tedesca, la decorrenza dei termini di legge ai fini della decadenza della potestà impositiva, nonchè, nel merito, la mancata prova della commissione della violazione contestata e l’erroneità dell’importo richiesto a titolo di sanzione.

Il Giudice adito con la sentenza n. 8144/2012 del 10/12/2012 dichiarava il ricorso inammissibile in quanto tardivamente proposto.

Avverso tale sentenza proponeva appello il contravventore con atto di citazione notificato in data 10 giugno 2013 il Tribunale di Firenze con la sentenza n. 415 del 10/2/205 rigettava l’appello, condannando il difensore dell’appellante in proprio al rimborso delle spese del grado.

Osservava il giudice del gravame che il Comune già in primo grado aveva eccepito l’inesistenza della procura alle liti rilasciata dall’ E.D., eccezione che si rivelava fondata.

Infatti, la procura era stata rilasciata su foglio disgiunto dal ricorso originario, privo di elementi di congiunzione e nemmeno allegato in originale, e con un’indicazione del tutto generica che non soddisfaceva il requisito di specificità.

Inoltre in occasione della notifica del ricorso la procura non era stata notificata insieme all’atto di opposizione.

Mancava poi ogni certezza di autografia, in quanto sulla procura prodotta in fotocopia, sul retro, e non nello stesso foglio in cui è contenuto il mandato in senso sostanziale, compare, sempre in fotocopia, una sottoscrizione di un notaio con il sigillo, ma il testo è redatto in lingua tedesca, in contrasto con quanto prescritto all’art. 122 c.p.c., che impone l’utilizzo della lingua italiana nel processo.

Risultava, altresì, che mentre nella parte relativa al mandato alla lite redatta in italiano, era riportata la data del 28/5/2010, la diversa parte contenente una ulteriore parte redatta in tedesco e con firma e timbro notarile, reca la diversa data del 28/1/2011, il che induceva a dubitare circa il fatto che il notaio fosse effettivamente presente al momento della sottoscrizione della procura.

La discrasia tra le date lasciava quindi intendere che la procura non fosse stata autenticata in data certa.

Ne discendeva quindi che la procura andava dichiarata inesistente, con la conseguente condanna dello stesso difensore, quale falsus procurator al rimborso delle spese di appello.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso per cassazione K.E.D. e l’avv. P.P. in proprio sulla base di otto motivi.

Il Comune di Firenze ha resistito con controricorso.

2. Preliminarmente deve essere disattesa la deduzione difensiva dei ricorrenti secondo cui la sentenza gravata sarebbe affetta da nullità in quanto pronunciata ex art. 281 c.p.c., mediante lettura alle parti non presenti.

Si deduce che erroneamente si è fatto riferimento all’art. 281 c.p.c., potendo al più intendersi il richiamo all’art. 281 sexies c.p.c..

Ma anche a voler superare tale profilo, il procedimento, attesa la sua introduzione in primo grado nella vigenza del D.Lgs. n. 150 del 2011, era sottoposto alle norme del processo del lavoro, sicchè la decisione andava adottata a norma dell’art. 429 c.p.c.. Peraltro stante la complessità della vicenda, il giudice avrebbe dovuto riservarsi il termine di sessanta giorni per il successivo deposito della sentenza.

Altro profilo di invalidità consiste nel fatto che la sentenza sia stata resa in assenza delle parti.

Le deduzioni da ritenersi costituire un autonomo motivo di ricorso, in quanto finalizzate a confutare la validità della decisione gravata per errores in procedendo, sono infondate.

In primo luogo si rileva che il giudizio di appello era stato erroneamente introdotto da parte dello stesso appellante con citazione, anzichè con ricorso, come invece imposto dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, nè risulta che sia stato successivamente disposto il mutamento del rito, avendo pertanto correttamente il Tribunale fatto riferimento alla previsione di cui all’art. 281 sexies, come riportato all’ultimo rigo del verbale dell’udienza del 10 febbraio 2015, e come riportato anche nell’intestazione della sentenza impugnata (e ciò anche a voler prescindere dall’affermazione di compatibilità tra la previsione di cui all’art. 281 sexies c.p.c., con le norme del rito del lavoro, cfr. Cass. n. 20820/2014; Cass. n. 13708/2007).

A ciò deve aggiungersi che dal punto di vista procedurale non sussistono significative differenze tra la modalità di decisione della causa ex art. 281 sexies e quanto invece previsto dal novellato art. 429 c.p.c., sicchè anche a voler ravvisare un errore procedurale lo stesso appare del tutto privo di idoneità a determinare pregiudizio al diritto di difesa delle parti.

Insindacabile appare poi la scelta assolutamente discrezionale del giudice di avvalersi della modalità di decisione con pronuncia di sentenza contestuale ex art. 281 sexies c.p.c., non emergendo peraltro che le parti avessero inteso richiedere la concessione dei termini per gli scritti conclusionali, mancando del pari la stessa prospettazione di uno specifico pregiudizio al loro diritto di difesa.

Quanto infine all’avvenuta lettura della sentenza in assenza delle parti, l’allontanamento delle stesse dopo la discussione orale, e nel periodo di tempo intercorso tra la chiusura della discussione e la deliberazione in camera di consiglio, non appare idoneo a precludere la possibilità di pronunciare sentenza ex artt. 281 sexies o 429 c.p.c., in quanto altrimenti opinando l’esercizio del potere decisionale sarebbe rimesso alla arbitraria decisione delle stesse parti di trattenersi o meno in udienza, essendo pertanto escluso che tale condotta possa condizionare il potere del giudice (si veda, sebbene in relazione alla pronunzia di ordinanze, Cass. n. 10539/2007, che proprio in relazione all’ipotesi di ritiro in camera di consiglio, ha escluso che la successiva assenza delle parti in occasione della pronuncia dell’ordinanza imponesse la comunicazione del provvedimento alle parti, ferma restando la piena validità del provvedimento emesso).

3. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c., commi 2 e 3.

Rileva parte ricorrente che il giudice di appello, erroneamente ritenendo che la procura rilasciata dal ricorrente al difensore fosse generica e precisando che non poteva essere superato il mancato riferimento ad uno specifico procedimento, in quanto la procura non risultava essere stata notificata unitamente al ricorso, ha compiuto un’indebita confusione tra la procura speciale di cui all’art. 83 c.p.c., comma 2 e quella invece contemplata dal terzo comma, pervenendo quindi ad erronee conclusioni in punto di determinatezza del suo contenuto.

In primo luogo, rileva il Collegio che non può in alcun modo condividersi l’assunto di parte ricorrente secondo cui il giudice di appello avrebbe confuso tra la procura speciale rilasciata per scrittura privata autenticata, quale quella in esame, con la procura speciale autenticata dallo stesso difensore atteso che in sentenza chiaramente si richiama la natura notarile della procura de qua, essendosi invece svolte le considerazioni in ordine alla assenza di una notifica della procura contestualmente alla notifica del ricorso, al solo fine di dare atto che la riscontrata carenza di determinatezza della procura, di cui si dirà in prosieguo, non poteva nemmeno ritenersi sanata per effetto della congiunzione materiale con l’atto introduttivo del giudizio in occasione della notificazione.

Il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte in tema di procura di cui dell’art. 83 c.p.c., comma 3, lungi dal denotare il convincimento del giudice di merito di trovarsi dinanzi ad una procura siffatta, rispondeva piuttosto all’esigenza di evidenziare le ragioni per le quali nemmeno era possibile superare il difetto di determinatezza della procura, avvalendosi dei criterio che la giurisprudenza di questa Corte ha utilizzato per ovviare, in relazione alla diversa ipotesi di cui al terzo comma della norma in esame, alla mancanza di specifici riferimenti al procedimento per il quale risulti essere stata rilasciata.

Orbene, e tornando alla valutazione compiuta dal giudice di appello circa la genericità della procura de qua, da farsi rientrare, come correttamente sostenuto dalla stessa parte ricorrente nella previsione di cui dell’art. 83 c.p.c., comma 2, va ricordato che il documento de quo, come precisato in sentenza, e come confermato dallo stesso contenuto del ricorso (pag. 7), presenta un’intestazione sia in italiano che in tedesco avente il seguente tenore “Procura speciale alle liti. Nella causa K.E.D. – Comune di Firenze – Prozessvollmacht. In sachen K.E.D. – Comune di Firenze”.

Il testo della procura, anche qui redatto sia in italiano che in tedesco, prevede la delega all’avv. P.P., ma con un rinvio al procedimento di cui sopra, e cioè semplicemente alla causa tra il ricorrente ed il Comune di Firenze.

La sottoscrizione della procura de qua risulta poi essere oggetto di autentica da parte del notatio G.G., con modalità che invece costituiscono oggetto di altri motivi di ricorso.

In relazione a quello invece in esame, la sentenza impugnata ha ritenuto che la dicitura contenuta nell’intestazione della procura, alla quale, come visto faceva rinvio anche il testo della procura, fosse del tutto generica, in quanto si limitava ad indicare solo il nome del conferente e quello della controparte, senza quindi la possibilità di individuare con precisione a quale specifica controversia si riferisse.

Tale conclusione è oggetto della censura del ricorrente che viceversa ritiene che la riportata indicazione soddisfi il requisito di specificità previsto dalla legge.

Il motivo è infondato.

Va, a tal fine ribadito il principio più volte affermato da questa Corte per il quale (cfr. Cass. n. 4864/2007) l’interpretazione della procura al difensore, al fine di individuare l’ambito del mandato conferitogli dalla parte, costituisce valutazione riservata al giudice di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivata (conf. Cass. n. 21924/2006, che ribadisce che l’interpretazione datane dal giudice di merito è contestabile solo per eventuali omissioni ed incongruità argomentative, e non anche mediante la mera denunzia dell’ingiustificatezza del risultato interpretativo raggiunto, prospettante invece un sindacato di merito inammissibile in sede di legittimità; Cass. n. 1419/2011).

La censura formulata si limita nella sostanza unicamente a contestare l’esito dell’interpretazione offerta del documento in esame dal Tribunale, ma senza peritarsi di segnalare le regole ermeneutiche violate e come si sia concretato l’errore interpretativo, di tal che la stessa non può avere seguito in questa sede.

Nè la soluzione raggiunta appare connotata da incongruità o illogicità, dovendosi a tal fine avere riguardo agli approdi ai quali già è pervenuta in passato questa Corte che (cfr. Cass. n. 12486/2000) ha ritenuto che la procura notarile rilasciata con l’espressione ad litem (nella specie con l’espressione in lingua tedesca “gegen ananghing”) senza alcun riferimento specifico alla causa e alle generalità della controparte fosse radicalmente nulla, non potendo valere nè come procura generale, in mancanza di una esplicita volontà manifestata in tal senso, nè come procura speciale, per la carenza di riferimenti ad una specifica controversia, non palesandosi illogica l’affermazione secondo cui il solo riferimento alle parti, in assenza di diversi elementi per stabilire l’autorità giudiziaria da adire o il procedimento da promuovere, consentisse di riferire con certezza la procura alla causa poi successivamente introdotta.

4. Il secondo motivo di ricorso denuncia poi la violazione e falsa applicazione dell’art. 182 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

Assume parte ricorrente che ai sensi della norma invocata, e dovendosi nella specie ravvisare un’ipotesi di nullità della procura (in quanto essendo pacifico il rilascio della procura, la sua genericità ne avrebbe determinato la sola nullità e non anche l’inesistenza), il Tribunale, anche alla luce della novella dell’art. 182 c.p.c., frutto della L. n. 69 del 2009, avrebbe dovuto assegnare alla parte un termine entro il quale sanare la nullità.

Tale omissione determina quindi l’invalidità della decisione impugnata.

Anche tale motivo deve essere disatteso.

Ed, infatti, anche a voler accedere alla più recente opinione di questa Corte che (cfr. Cass. n. 22559/2015) anche in relazione al testo dell’art. 182 c.p.c., comma 2 (nella formulazione, applicabile “ratione temporis”, anteriore alla modifica introdotta dalla L. n. 69 del 2009, art. 46 e quindi a maggior ragione nel caso in esame, sottoposto alla disciplina della norma novellata), ritiene che nel caso di vizio della procura alle liti il giudice è tenuto a promuovere la sanatoria del vizio, assegnando un termine alla parte che non vi abbia già provveduto di sua iniziativa (in senso conforme Cass. S.U. n. 283337/2011; Cass. n. 19169/2014), va richiamato anche quanto precisato da Cass. S.U. n. 4248/2016.

In tale occasione le Sezioni Unite hanno ritenuto che la norma de qua debba essere intesa nel senso che il difetto di rappresentanza processuale ovvero il vizio di invalidità o assenza della procura ad litem possa sì essere sanato in fase di impugnazione, senza che operino le ordinarie preclusioni istruttorie, ma laddove il rilievo del vizio in sede di impugnazione non sia officioso, ma provenga dalla controparte, l’onere di sanatoria del rappresentato sorge immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto, giacchè sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire (conf. Cass. n. 17301/2013, a mente della quale la mancata assegnazione di un termine per la eventuale sanatoria della procura ritenuta invalida non comporta violazione dell’art. 182 c.p.c., se non in caso di diniego a fronte di una esplicita richiesta della parte, che ben può attivarsi per il rilascio di una nuova e valida procura laddove la questione del vizio di quella originaria sia stata oggetto dell’attività defensionale ed istruttoria).

Nel caso in esame, come si rileva dalla lettura della sentenza impugnata, il Comune di Firenze aveva già in primo grado eccepito l’inesistenza-nullità della procura in esame e l’eccezione era stata riproposta anche nel corso dell’udienza di discussione (cfr. pag. 1 della sentenza di appello che riporta la verbalizzazione delle conclusioni e richieste delle parti), sicchè a fronte di tale contestazione non risulta che la parte ricorrente abbia inteso attivarsi per provvedere alla sanatoria del vizio denunciato, nè che abbia chiesto la concessione del termine di cui all’art. 182 c.p.c., con la conseguenza che deve escludersi la fondatezza del motivo in esame.

5. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2702 e 2703 c.c., nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto che non vi fosse certezza circa l’autografia della procura in quanto la stessa risultava prodotta in fotocopia, posto che la sottoscrizione del notaio, con il sigillo, sempre in fotocopia, non risultavano apposti sul medesimo foglio in cui è collocato il mandato.

Si deduce che trattandosi di scrittura privata, ed in mancanza di disconoscimento della sua conformità all’originale, il documento de quo ha valore di piena prova, nemmeno potendo rilevare la circostanza che sì tratti di una fotocopia, in quanto il giudice avrebbe dovuto ordinare al ricorrente l’esibizione dell’originale.

Il quinto motivo denuncia la violazione dell’art. 83 c.p.c., commi 2 e 3, art. 125 c.p.c., comma 2 e art. 2700 c.c., laddove il Tribunale ha ritenuto che fosse dubbia la presenza del notaio all’atto della sottoscrizione del mandato da parte del ricorrente. Infatti, oltre a reiterarsi la necessità di acquisire il documento in originale, la sentenza non si sarebbe avveduta che si trattava di una procura per scrittura privata autenticata da notaio, in relazione alla quale non è necessario che l’autentica della firma debba avvenire nella medesima data della sottoscrizione.

I motivi che possono essere congiuntamente esaminati sono assorbiti per effetto del rigetto del primo e del secondo motivo, altrimenti sono infondati.

6. Il rigetto del primo e del secondo motivo determina poi l’assorbimento del quarto motivo con il quale si denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 122 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che fosse necessario l’utilizzo della lingua italiana anche per la redazione della procura alle liti, e precisamente dell’autenticazione della firma, sostenendosi al contrario che laddove il Tribunale avesse nutrito dei dubbi sul contenuto dell’autentica della sottoscrizione, avrebbe dovuto nominare un interprete per la sua traduzione ex art. 123 c.p.c..

7. Il sesto motivo di ricorso lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3, nella parte in cui il Tribunale, avendo ritenuto che la procura fosse inesistente, ha escluso che la costituzione della controparte possa avere avuto efficacia sanante del vizio della quale è affetta, trascurando altresì che si tratta di ipotesi di nullità suscettibile di sanatoria.

Il motivo è infondato.

Ed, invero, va in primo luogo osservato che come si ricava dalla lettura della sentenza impugnata, il Comune nel costituirsi in primo grado, ebbe immediatamente a rilevare la invalidità della procura alle liti dell’opponente, mostrando in tal modo di non avere inteso con la sua condotta attribuire efficacia sanante alla costituzione in giudizio.

Peraltro deve escludersi che il vizio di invalidità che colpisca la procura alle liti sia suscettibile di sanatoria per effetto della costituzione della controparte.

In tal senso si veda già in passato Cass. n. 16264/2004, secondo cui la questione della nullità dell’atto processuale in quanto compiuto in mancanza di una valida procura ad litem, costituisce una nullità assoluta ed insanabile, principio questo che deve ritenersi confermato anche da Cass. S.U. n. 4248/2016, cit., secondo cui la mancanza del potere di rappresentanza, per vizi anche della procura alle liti, essendo quest’ultima una delle condizioni di esistenza del potere di azione, giustifica il rilievo officioso in sede di legittimità anche se non vi sia stata contestazione nei gradi di merito, fatta salva la sola sanatoria conseguente al deposito di una valida procura, spontaneamente ovvero a seguito di concessione del termine di cui dell’art. 182 c.p.c., comma 2.

8. Il settimo motivo di ricorso lamenta poi la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., comma 1 e art. 94 c.p.c., nella parte in cui il giudice di appello, nel dichiarare l’inesistenza della procura, ha posto le spese di lite relative al giudizio di appello direttamente a carico del difensore dell’opponente.

Si sottolinea che ciò è possibile ex art. 94 c.p.c., solo in presenza di gravi motivi, nella specie non ricorrenti, e che il principio affermato da Cass. S.U. n. 10706/2006, che appunto permette la condanna alle spese dello stesso difensore, non è stato correttamente applicato in quanto non si verte in un’ipotesi di assenza assoluta di procura, ma di svolgimento di attività defensionale sulla base di una procura nulla.

Orbene, rileva il Collegio che nel presente giudizio hanno proposto ricorso congiuntamente ed a mezzo del medesimo difensore sia l’originario opponente che l’avv. P.P., quest’ultimo anche in proprio, ed al fine di contestare con il motivo ora in esame, la correttezza della condanna in proprio al rimborso delle spese del giudizio di appello.

Stante il rigetto dei precedenti motivi, e la conferma della valutazione in termini di invalidità della procura alle liti, ove anche il motivo in esame risultasse fondato, l’esito dell’accoglimento sarebbe quello di determinare lo spostamento del carico delle spese di lite dal P. all’ E.D., e cioè sulla stessa parte rappresentata dal primo (sebbene unitamente all’avv. Scardigli).

Tale situazione denota, ad avviso del Collegio, e con carattere di assoluta evidenza, un conflitto di interessi tra il P. ed il suo assistito, e, relativamente all’avv. Scardigli, tra le posizioni dei due suoi patrocinati.

Una volta quindi riscontrata, tra le parti che hanno conferito mandato al medesimo professionista una situazione di conflitto d’interessi, la quale secondo la giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 20950/2017) può essere non solo attuale, ma anche potenziale, intendendosi come tale quella non riferibile alla astratta eventualità, bensì in stretta correlazione con il concreto rapporto esistente tra le parti i cui interessi risultino suscettibili di contrapposizione, la risoluzione del conflitto non appare suscettibile di poter essere risolta in base al criterio, pur indicato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui (cfr. Cass. n. 14634/2015) la parte che abbia conferito per seconda la procura a quest’ultimo deve ritenersi non costituita in giudizio, perchè un difensore non può assumere il patrocinio di due parti che si trovino o possono trovarsi in posizione di contrasto, ostando a tale soluzione il contestuale conferimento dell’incarico.

Per l’ipotesi di assistenza di due parti in conflitto di interessi, si è poi precisato che (cfr. Cass. n. 21350/2005) è inammissibile la loro costituzione in giudizio a mezzo di uno stesso procuratore, al quale sia stato conferito mandato con un unico atto, e ciò anche in ipotesi di “simultaneus processus”, dato che il difensore non può svolgere contemporaneamente attività difensiva in favore di soggetti portatori di istanze confliggenti, essendo siffatta violazione rilevabile di ufficio, anche in sede di appello, in quanto investe il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, valori costituzionalmente garantiti (sempre per il rilievo d’ufficio del conflitto di interessi, si veda anche Cass. n. 15183/2005).

Inoltre ed avuto riguardo alla posizione del P., va richiamato il principio secondo cui (Cass. n. 13204/2012) l’attività processuale posta in essere da un difensore in conflitto di interesse col proprio assistito è nulla ed il relativo vizio è rilevabile d’ufficio, investendo la validità della procura e, quindi, il diritto di difesa ed il principio del contraddittorio, valori costituzionalmente tutelati.

Tuttavia, va considerato che la situazione di conflitto di interessi non investe l’intero contenuto del ricorso, ma il solo motivo in esame, il cui accoglimento, come detto, riverserebbe i suoi effetti negativamente sulla posizione dell’opponente, sicchè reputa il Collegio che possa farsi applicazione di quanto già in passato affermato dal giudice di legittimità, e cioè che (cfr. Cass. n. 15183/2005), ferma restando l’impossibilità per il difensore di svolgere allegazioni, richieste e deduzioni nei reciproci rapporti a favore di taluno e contro altri, laddove si sia costituito in giudizio per più parti, eventualmente in conflitto tra loro, tuttavia ove ciò accada nel giudizio di impugnazione, ciò non necessariamente comporta la nullità dell’intero atto di gravame, ma solo di quei motivi che contengono censure svolte in maniera tale che il loro accoglimento comporterebbe un vantaggio per uno degli impugnanti a danno dell’altro (conf. Cass. n. 8842/2004, che ha ritenuto che le censure di due dei tre soggetti, difesi dal medesimo difensore, dirette, in sede di legittimità, contro il terzo soggetto non potessero essere prese in considerazione). Ritiene il Collegio di dover dare continuità a tali principi e che per l’effetto il motivo in esame, in quanto affetto da nullità per conflitto di interessi, non possa essere preso in considerazione.

9. L’ottavo motivo denuncia infine la violazione dell’art. 112 c.p.c., in quanto il Tribunale avrebbe rigettato l’appello sulla base di motivi diversi da quelli richiesti dalle parti, motivi che provvede a trascrivere nel motivo in esame.

La doglianza è del tutto priva di fondamento, in quanto non si avvede della circostanza che, avendo il giudice di appello ravvisato l’invalidità della procura alle liti e reputato che tale vizio fosse impeditivo della stessa disamina nel merito dell’opposizione, ha sostanzialmente confermato la valutazione di inammissibilità del giudice di prime cure (che aveva ritenuto che l’opposizione fosse tardiva) sebbene sulla base di una diversa motivazione, ma senza che ciò potesse in ogni caso permettere di accedere alla disamina nel merito dei motivi di opposizione, il che esclude del pari che la sentenza possa essere censurata per la pretesa violazione della previsione di cui all’art. 112 c.p.c..

10. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dei ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso delle spese in favore del Comune di Firenze, come liquidate in dispositivo.

11. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il primo, il secondo, il sesto e l’ottavo motivo di ricorso, dichiara la nullità del settimo motivo, assorbiti i restanti;

Condanna i ricorrenti, in solido tra loro, al rimborso in favore del controricorrente delle spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 745,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 26 aprile 2018.

Depositato in Cancelleria il 26 settembre 2018


Cass. civ., Sez. Unite, Sent., (data ud. 17/07/2018) 24/09/2018, n. 22438

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Primo Presidente –

Dott. PETITTI Stefano – Presidente di Sez. –

Dott. TIRELLI Francesco – Presidente di Sez. –

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Consigliere –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7833-2017 proposto da:

GSA GRUPPO SERVIZI ASSOCIATI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 269, presso lo studio dell’avvocato ROMANO VACCARELLA, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati LUCA DE PAULI, LUCA MAZZEO e LUCA PONTI;

– ricorrente –

contro

EVOLVE CONSORZIO STABILE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PRINCIPESSA CLOTILDE 2, presso lo studio dell’avvocato ANGELO CLARIZIA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato LODOVICO VISONE;

– controricorrente –

EGAS – ENTE PER LA GESTIONE ACCENTRATA DEI SERVIZI CONDIVISI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, CORSO VITTORIO EMANUELE II 284, presso lo studio dell’avvocato CARLO MALINCONICO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato FABIO BALDUCCI ROMANO;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza 975/2017 del CONSIGLIO DI STATO, depositata il 2/03/2017.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/07/2018 dal Consigliere ENZO VINCENTI;

udito il Pubblico Ministero, in persona dell’Avvocato Generale FINOCCHI GHERSI RENATO, che ha concluso per l’estinzione del ricorso;

uditi gli avvocati Gianluca Calderara per delega orale dell’avvocato Luca Mazzeo e Carlo Malinconico.

Svolgimento del processo
1. – Il Consiglio di Stato, con sentenza del 2 marzo 2017, ha accolto l’appello principale proposto da Evolve Consorzio Stabile avverso la sentenza del T.A.R. Friuli Venezia Giulia n. 345/2016 – che, a sua volta, ne aveva rigettato il ricorso per l’annullamento dell’aggiudicazione in favore di GSA-Gruppo Servizi Associati S.p.A. (di seguito anche GSA) della gara di affidamento del servizio di vigilanza continuativo antincendio per tre anni per l’Azienda Ospedaliera (OMISSIS) e l’Istituto (OMISSIS) – e, respinto l’appello incidentale proposto dalla GSA, ha annullato l’aggiudicazione, nonchè disposto il subentro di Evolve nel contratto di appalto, con limitazione dell’inefficacia del contratto attualmente in essere al solo periodo successivo al subentro.

2. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso GSA-Gruppo Servizi Associati S.p.A. sulla base di due motivi, con i quali è dedotta la violazione dei limiti della giurisdizione di legittimità sia in danno dei poteri riservati dalla legge alla P.A., sia in danno del potere legislativo.

Hanno resistito con controricorso Evolve Consorzio Stabile e EGAS-Ente per la Gestione Accentrata dei Servizi Condivisi; quest’ultima ha proposto ricorso incidentale sulla base di tre motivi, con i quali sono dedotte le violazioni già postulate dal ricorrente principale, nonchè viene lamentato il diniego della tutela giurisdizionale.

3. – In data 9 luglio GSA S.p.A. ha depositato atto di rinuncia al ricorso sottoscritto dal proprio legale rappresentante e dai difensori nominati con procura speciale (e apposito mandato anche a rinunciare), notificato agli avvocati dei controricorrenti Evolve ed EGAS.

Motivi della decisione
1. – Alla rituale rinuncia al ricorso per cassazione da parte GSA S.p.A., che non richiede l’accettazione delle controparti per essere produttiva di effetti processuali, segue l’estinzione del giudizio di legittimità introdotto con il medesimo atto di impugnazione.

2. – Il ricorso incidentale di EGAS deve essere dichiarato inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse, in quanto non vi è contestazione sulla circostanza, dedotta nell’atto di rinuncia al ricorso principale, che Evolve e GSA “hanno definito transattivamente” le rispettive “posizioni… che le vedono contrapposte” (da intendersi, quindi, con diretta incidenza sui rapporti sostanziali inter partes), e la stessa EGAS “ha manifestato la propria adesione alla transazione”.

3. – La definizione transattiva della lite, nei termini anzidetti, consente di ritenere sussistenti le ragioni di cui all’art. 92 c.p.c. per compensare interamente tra tutte le parti le spese del giudizio di legittimità.

4. – Il Collegio reputa, tuttavia, di doversi soffermare su una questione di particolare importanza che trova origine proprio dalla proposizione del ricorso principale e di utilizzare, così, il potere, che l’art. 363 c.p.c. assegna alla Corte di Cassazione, di enunciare il principio di diritto nell’interesse della legge; ciò che la declaratoria di estinzione conseguente alla rinuncia al ricorso non impedisce (Cass., S.U., 6 settembre 2010, n. 19051).

5. – Si tratta della questione che investe il profilo della procedibilità, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., del ricorso predisposto in originale telematico e così notificato a mezzo posta elettronica certificata (p.e.c.).

5.1. – Il ricorso di GSA S.p.A. è stato, infatti, redatto in originale telematico e sottoscritto digitalmente, per essere poi, come tale, notificato a mezzo p.e.c..

Ciò risulta non solo dalla copia stampata del messaggio di p.e.c. depositato dalla società ricorrente che indica come gli atti allegati (ricorso, procura e relata di notifica) siano file con estensione “.p7m.” e, dunque, sottoscritti con firma digitale tipo CAdES (cfr. Cass., S.U., 27 aprile 2018, n. 10266), ma, in via dirimente, dalla attestazione di conformità del difensore del controricorrente EGAS S.p.A. relativa al messaggio di p.e.c. ricevuto e della copia degli atti allegati – tra cui, per l’appunto, il ricorso – tutti “firmati digitalmente”.

Del ricorso in originale telematico e sottoscritto digitalmente è stata depositata (nel termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c.) copia analogica informe, non sottoscritta con firma autografa dei difensori, insieme alle copie cartacee del messaggio di p.e.c. e delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna prive dell’attestazione di conformità L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter.

6. – La fattispecie materiale concernente la formazione dell’atto ricorso (nativo digitale e sottoscritto con firma digitale), la sua notificazione (in originale telematico, sottoscritto digitalmente, a mezzo p.e.c.) e il suo deposito presso la cancelleria di questa Corte (in copia analogica dell’originale telematico priva di sottoscrizione autografa dei difensori, unitamente al deposito dei messaggi di p.e.c. riguardanti la notificazione del ricorso in originale telematico e della allegata procura, in copia informatica autenticata con firma digitale, senza che vi sia l’attestazione di conformità) è, dunque, sovrapponibile a quella esaminata da questa Corte con l’ordinanza n. 30918 del 22 dicembre 2017 (pronunciata dalla Sesta Sezione nella composizione stabilita dal par. 4.2. delle tabelle della Corte di Cassazione).

7. – In detta occasione, la ratio decidendi e il principio di diritto che hanno giustificato e sorretto l’esito dell’impugnazione in una declaratoria di improcedibilità del ricorso sono compendiati nella seguente massima ufficiale:

“Il deposito in cancelleria di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo posta elettronica certificata, con attestazione di conformità priva di sottoscrizione autografa del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter,ne comporta l’improcedibilità rilevabile d’ufficio ai sensi dell’art. 369 c.p.c., a nulla rilevando la mancata contestazione della controparte ovvero il deposito di copia del ricorso ritualmente autenticata oltre il termine perentorio di venti giorni dall’ultima notifica, non essendo ammissibile il recupero di una condizione di procedibilità mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso”.

8. – Giova riportare, in sintesi, i passaggi argomentativi dell’ordinanza n. 30918/2017, che segnano in modo chiaro i termini della questione e dell’attuale approdo della giurisprudenza di legittimità:

a) il processo telematico non è stato esteso al giudizio di cassazione, per cui il ricorso per cassazione può essere depositato nella cancelleria della Corte esclusivamente in modalità analogica (cartacea), sebbene ciò non escluda che il ricorrente possa notificare il ricorso (nativo analogico o nativo digitale; nella specie, trattasi di questa seconda ipotesi) con modalità telematiche;

b) il codice dell’amministrazione digitale (c.a.d., D.Lgs. n. 82 del 2005) riconosce un potere di attestazione di conformità di copie analogiche di atti digitali ai pubblici ufficiali a ciò autorizzati (art. 23), là dove un tale potere, nell’ambito del processo civile, è attribuito all’avvocato (così qualificato pubblico ufficiale) ai fini delle notificazioni (L. n. 53 del 1994 e successive modificazioni, artt. 6 e 9, commi 1-bis e 1-ter), concernendo il messaggio di posta elettronica certificata, i suoi allegati (nella specie e segnatamente, ricorso, procura alle liti e relazione di notifica), le ricevute di accettazione e di avvenuta consegna;

c) il deposito di ricorso analogico quale mera copia di quello informatico priva della necessaria attestazione di conformità sottoscritta dal difensore, non è idoneo ad integrare quanto richiesto dall’art. 369 c.p.c., comma 1, ed è quindi improcedibile;

d) in particolare, la sanzione della improcedibilità scatta allorquando sia stata depositata, nel termine di venti giorni dalla notificazione, soltanto una copia non autenticata e non già originale del ricorso (Cass., sez. un., 10 ottobre 1997, n. 9861) e, analogamente, deve ritenersi per il deposito, nel predetto termine, della relazione di notifica ed del relativo messaggio attestante il tempo della notifica dal quale decorre il termine per il deposito in cancelleria (Cass. 19 dicembre 2016, n. 26102, Cass. 28 luglio 2017, n. 18758);

e) l’improcedibilità del ricorso deve essere rilevata d’ufficio senza che sia necessaria un’eccezione della controparte (tra le tante, Cass., 18 settembre 2012, n. 15624 e Cass., 7 febbraio 2017, n. 3132), nè, in contrario, può avere rilievo la non contestazione della controparte in applicazione dell’art. 2719 c.c. (Cass., 1 dicembre 2005, n. 26222; Cass., 18 settembre 2012, n. 15624; Cass., 8 ottobre 2013, n. 22914; Cass., 26 maggio 2015, n. 10784), quale regola che attiene all’ambito probatorio inter partes e non invoca bile là dove si devono effettuare verifiche, come quelle relative alla procedibilità del ricorso, che hanno implicazioni pubblicistiche e non sono nella disponibilità delle parti. Di qui, anche la ragione del mancato richiamo del comma 2 dell’art. 23 del c.a.d. (norma ritenuta omologa al citato art. 2719 c.c.) ad opera della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter;

f) non è consentito il deposito dell’attestazione di conformità del ricorso (e anche della relata di notificazione e dei messaggi di p.e.c.) oltre il termine di venti giorni dall’ultima notificazione, non essendo ammissibile il recupero di una condizione di procedibilità mancante dopo la scadenza del termine per il deposito del ricorso (Cass., 20 gennaio 2015, n. 870 e Cass., 7 febbraio 2017, n. 3132; Cass., S.U., 2 maggio 2017, n. 10648, che, tuttavia, ha escluso l’applicabilità della sanzione dell’improcedibilità quando il documento mancante sia nella disponibilità del giudice perchè prodotto dalla controparte o perchè presente nel fascicolo d’ufficio).

9. – Con la successiva citata sentenza n. 10266/2018, di queste Sezioni Unite, si è ribadito (sebbene, poi, il relativo intervento nomofilattico abbia riguardato una diversa questione, pur sempre attinente al ricorso predisposto in originale telematico) che nel giudizio di cassazione, cui – ad eccezione delle comunicazioni e notificazioni a cura della cancelleria D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16 convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 2012 – non è stato ancora esteso il processo telematico (p.c.t.), è necessario estrarre copie analogiche degli atti digitali ed attestarne la conformità, in virtù del potere appositamente conferito al difensore dalla L. n. 53 del 1994, art. 6 e art. 9, commi 1-bis e 1-ter.

10. – E’ opportuno premettere che non viene qui in discussione la diversa questione della improcedibilità dell’impugnazione in difetto di attestazione di conformità della copia analogica della sentenza notificata con modalità telematiche, di cui all’arresto dell’ordinanza n. 30765 del 22 dicembre 2017 della Sesta Sezione (anche in tale occasione nella composizione stabilita dal par. 4.2. delle tabelle della Corte di Cassazione).

Sebbene possano ravvisarsi punti di contatto, trattasi di fattispecie differente da quella in esame.

11. – Ritengono, invece, le Sezioni Unite che sussistano valide ragioni per rimeditare, sia pure solo in parte, l’orientamento anzidetto, in tema di procedibilità del ricorso per cassazione notificato come documento informatico nativo digitale.

Ragioni che muovono da una prospettiva convergente con l’esigenza di consentire la più ampia espansione, nel perimetro di tenuta del sistema processuale, del diritto fondamentale di azione (e, quindi, anche di impugnazione) e difesa in giudizio (art. 24 Cost.), che guarda come obiettivo al principio dell’effettività della tutela giurisdizionale, alla cui realizzazione coopera, in quanto principio “mezzo”, il giusto processo dalla durata ragionevole (art. 111 Cost.), in una dimensione complessiva di garanzie che rappresentano patrimonio comune di tradizioni giuridiche condivise a livello sovranazionale (art. 47 della Carta di Nizza, art. 19 del Trattato sull’Unione Europea, art. 6 CEDU).

12. – Del resto, l’esigenza anzidetta è già stata coltivata dalle pronunce sopra richiamate (Cass. n. 30918/2017 e Cass., S.U., n. 10266/2018) allorquando – in un contesto quale quello del giudizio di cassazione, in cui l’impianto e lo svolgersi della relativa disciplina processuale è, ancora oggi, ancorato ad una dimensione analogica (ossia cartacea) degli atti e dove, pertanto, non trovano applicazione le regole sul p.c.t. (salva l’eccezione cui sopra si è fatto cenno) – hanno ritenuto ammissibile la formazione digitale del ricorso e il suo deposito in copia analogica autenticata. Atto ed attività processuali che, di certo, non trovano immediata corrispondenza nel paradigma segnato dal combinato disposto dell’art. 365 c.p.c. e art. 369 c.p.c., comma 1, ossia di norme la cui originaria formulazione non è stata mai interessata da modifiche legislative dall’epoca, ormai risalente, della promulgazione del codice di rito.

Ed è evidente che tanto è potuto avvenire tramite una interpretazione evolutiva, in consonanza con il già citato valore (principio) “obiettivo” dell’effettività della tutela giurisdizionale, che, proprio in ambito sovranazionale, ha trovato coerente sponda anche nel principio di “non discriminazione” (quanto agli effetti giuridici) del documento digitale espresso dall’art. 46 del regolamento UE n. 910 del 2014 (eIDAS).

13. – E’, quindi, un terreno già arato e reso fertile quello sul quale si viene ad innestare questo ulteriore intervento nomofilattico, la cui vocazione ancor più “liberale” (Cass., S.U., n. 10648/2017) rimane anch’essa particolarmente attenta ai criteri di ragionevolezza e proporzionalità che devono orientare eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale (art. 6 p. 1 CEDU: tra le altre, Corte EDU, 16 giugno 2015, ric. n. 20485/06 e Corte EDU 15 settembre 2016, ric. n. 32610/07; ma anche, più di recente, seppure con accenti diversi: Cass., S.U., 13 dicembre 2016, n. 25513; Cass., S.U., 29 maggio 2017, n. 13453; Cass., S.U., 7 novembre 2017, n. 26338; Cass., S.U., 16 novembre 2017, n. 27199), trovando rinnovata vitalità nel principio cardine di “strumentalità delle forme” degli atti del processo, siccome prescritte dalla legge non per la realizzazione di un valore in sè o per il perseguimento di un fine proprio ed autonomo, ma in quanto strumento più idoneo per la realizzazione di un certo risultato, il quale si pone come il traguardo che la norma disciplinante la forma dell’atto intende conseguire (cfr. anche Cass., 12 maggio 2016, n. 9772).

E in tale quadro – come messo in risalto ancora dalla citata Cass., S.U., n. 10648/2017 – cooperano, intrecciati tra loro, ulteriori aspetti, “portatori di altrettanti valori interni al sistema”, come: “l’ordinato svolgersi del giudizio di legittimità, con la possibilità di avviare sollecitamente le verifiche di rito; il controllo sulla tempestività dell’impugnazione e sul conseguente formarsi del giudicato; il diritto della parte resistente di far constare i vizi del ricorso; la necessaria proporzionalità tra la sanzione irrimediabile dell’improcedibilità (art. 387 c.p.c.) e la violazione processuale commessa;… la giustizia della decisione (SU 10531/13; 26242/14; 12310/15) quale scopo dell’equo processo”.

Sono, tutti, principi immanenti al “giusto processo”, che non possono essere recessivi rispetto alle forme e alle modalità, contingenti, nei quali il processo stesso viene ad essere configurato in base all’esercizio, ragionevole, della discrezionalità di cui gode il legislatore nel plasmarne gli istituti (tra le molte, Corte cost., sentenze n. 243 del 2014 e n. 216 del 2013).

E tanto non trova deroghe nel caso del processo telematico, sebbene costituisca, oggi e, presumibilmente, ancor più nel prossimo futuro, lo strumento più duttile e funzionale in un’ottica di semplificazione ed efficienza del sistema giudiziario nel suo complesso, come reso palese dai plurimi interventi legislativi di questi ultimi anni, investenti quasi tutti i plessi giurisdizionali.

14. – In questa luce va affermato, anzitutto, il superamento della sanzione dell’improcedibilità del ricorso notificato a mezzo p.e.c. come originale telematico e depositato in copia analogica (unitamente alle copie dei messaggi di p.e.c., della relata di notificazione e della procura) priva di attestazione di conformità L. n. 53 del 1994, ex art. 9 nell’ipotesi (che ricorre nella specie) di deposito della copia notificata del ricorso da parte del controricorrente ritualmente autenticata proprio ai sensi della L. n. 53 del 1994, citato art. 9.

Anche in questo caso, insistere nella sanzione di improcedibilità, nonostante che l’adempimento della controparte abbia consentito l’attivazione della sequenza procedimentale senza ritardi apprezzabili (“l’esame del fascicolo non può aver luogo se non si è atteso il tempo utile per il deposito del controricorso”: così la citata Cass., S.U., n. 10648/2017) e che il documento sia esibito “dalla stessa parte interessata a far constare la violazione processuale” (ancora Cass., S.U., n. 10648/2017), condurrebbe ad un vulnus di quei parametri normativi (art. 6 p. 1 CEDU, ma anche art. 47 della Carta di Nizza e art. 111 Cost.) che impongono di valutare in termini di ragionevolezza e proporzionalità gli impedimenti al pieno dispiegarsi della tutela giurisdizionale, la quale, nella declinazione del “giusto processo”, è presidiata dall’effettività dei mezzi di azione e difesa, che tale è anche nel preservare al giudizio la sua essenziale tensione verso la decisione di merito (tra le altre, Cass., S.U., 11 luglio 2011, n. 15144).

15. – Ma vi sono ragioni ulteriori che consentono di sussumere come ipotesi fisiologica nell’ambito della fattispecie processuale dell’art. 369 c.p.c. anche quella del deposito in copia analogica del ricorso in forma di documento informatico notificato a mezzo p.e.c. in assenza della attestazione di conformità L. n. 53 del 1994, ex art. 9 dando rilievo, questa volta, al mancato disconoscimento, da parte del controricorrente destinatario della notificazione, della conformità di detta copia all’originale telematico, in applicazione del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, comma 2.

Del resto, è l’espresso disposto dell’art. 2, comma 6, del c.a.d., inserito dal D.Lgs. n. 179 del 2016, a rendere manifesto che “le disposizioni del presente Codice si applicano altresì al processo civile, penale, amministrativo, contabile e tributario, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo telematico”. E, peraltro, ad analoghe conclusioni era giunta la giurisprudenza di questa Corte (Cass., 10 novembre 2015, n. 22871) là dove aveva affermato che i principi generali del D.Lgs. n. 82 del 2005 sono resi applicabili al processo civile dal D.L. n. 193 del 2009, art. 4 convertito dalla L. n. 24 del 2010; art. 4 che ha rappresentato, altresì, la base legale per l’adozione, da parte del Ministro della Giustizia, delle “regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione” e ciò proprio “in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82”.

16. – Va, anzitutto, rammentato che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto, in più di un’occasione e già da tempo risalente (Cass., S.U., 2 febbraio 1976, n. 323), che “il deposito nella cancelleria della Corte di Cassazione di una copia informe del ricorso, anzichè, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 1, dell’originale, non determina improcedibilità del ricorso medesimo, qualora non vi siano dubbi sulla conformità all’originale della copia; in tal caso, infatti, viene soddisfatta la finalità, perseguita dalla suddetta norma, di radicare, con il deposito del ricorso, il procedimento di impugnazione, e di consentire alla Corte la preliminare verifica, senza possibilità di contestazioni, sulla regolarità della costituzione del contraddittorio, nonchè sulla sussistenza delle condizioni di ammissibilità e procedibilità dell’impugnazione”.

Tale principio trovò applicazione in un caso in cui il ricorso era stato depositato in copia, con la dichiarazione dell’ufficiale giudiziario attestante l’avvenuta notifica, avendo poi la Corte rilevato che l’originale del ricorso medesimo risultava inserito nel fascicolo del resistente.

Il principio è stato, poi, ribadito da Cass., 26 giugno 2008, n. 17534, ritenendosi procedibile il ricorso in quanto l’unica difformità fra la relativa copia e l’originale del ricorso (quest’ultimo depositato ben oltre il termine di venti giorni e senza che vi fosse stata costituzione dell’intimato con controricorso) era rappresentata dal fatto che la copia non recava la procura, sicchè si trattava di difformità la quale, afferendo ad un atto diverso dal ricorso e materialmente inserito nello stesso documento che conteneva il ricorso medesimo, non determinava alcun dubbio di conformità della copia all’originale.

17. – Il medesimo principio di diritto è stato confermato anche da quelle pronunce (tra le altre, Cass., 1 dicembre 2005, n. 26222; Cass., 18 settembre 2012, n. 15624; Cass., 26 maggio 2015, n. 10784), che hanno, poi, ritenuto di dover dichiarare l’improcedibilità del ricorso depositato soltanto in copia fotostatica, escludendo di poter ravvisare quella necessaria ragionevole certezza della conformità della copia all’originale, in quanto non rinvenuto agli atti e insistendo sulla inderogabilità (assoluta) del termine di venti giorni stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1.

Questi stessi precedenti hanno, altresì, vagliato negativamente la possibilità di fare applicazione del disposto del citato art. 2719 c.c., adducendo quelle stesse ragioni poi riprese dall’ordinanza n. 30918/2017 (e innanzi richiamate) e affermando, quindi, che, nella specie, ciò che occorre garantire è l’accertamento, in capo alla Corte e indisponibile per le parti, dell’esistenza, o meno, di un ricorso redatto nelle forme previste dall’art. 365 c.p.c. e ciò, dunque, “a prescindere dalla mancata espressa contestazione della controparte che, non essendo mai stata in possesso dell’atto originale, non è in grado di valutare la conformità all’originale della fotocopia”.

18. – Prescindendo per ora dal profilo della tempestività del deposito del ricorso (come detto, esaminato sotto una prospettiva di “apertura” dalla sentenza n. 10648/2017 di queste Sezioni Unite), è necessario soffermarsi sulla ragione decisiva che, secondo la richiamata giurisprudenza, porta ad escludere rilevanza alla “non contestazione” del controricorrente.

La certezza della conformità della copia all’originale – che consente “alla Corte la preliminare verifica, senza possibilità di contestazioni, sulla regolarità della costituzione del contraddittorio, nonchè sulla sussistenza delle condizioni di ammissibilità e procedibilità dell’impugnazione” (Cass., S.U., n. 323/1976, citata) – non potrebbe, dunque, essere data dalla mancata contestazione di controparte perchè si tratta di verifica ad essa sottratta (indisponibile), per essere riservata (stante la rilevanza pubblicistica degli interessi) alla Corte di Cassazione; in ogni caso, non essendo la parte in possesso dell’originale del ricorso, la stessa sarebbe impossibilitata ad operare detta valutazione di conformità.

19. – Tuttavia, l’apparato argomentativo che sorregge il consolidato orientamento restrittivo della giurisprudenza di questa Corte, formatosi in ambiente di ricorso analogico (e di norme processuali calibrate su tale forma atto), non risulta altrettanto dirimente, se traguardato sotto la lente dei principi, costituzionali e sovranazionali, sopra ricordati, nell’ipotesi di ricorso nativo digitale e come tale notificato a mezzo p.e.c..

20. – Giova premettere che in tale ipotesi il ricorso dovrà essere il documento informatico originale sottoscritto con firma digitale, conformemente a quanto stabilito dall’art. 20 del c.a.d., quale norma generale (come chiarito sub p. 15) che, nell’attribuire al documento così sottoscritto “l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del Codice civile”, viene, quindi, ad individuare, in armonia con quanto puntualizzato dalla citata sentenza n. 10266/2018 di queste Sezioni Unite, i caratteri del documento informatico, nella specie di natura processuale, in grado di soddisfare il requisito della sottoscrizione di cui all’art. 365 c.p.c. o, comunque, della sottoscrizione dell’atto processuale che, in base alle regole del codice di rito (e, dunque, in base alla legge del processo), si rende necessaria.

A tanto si conforma, quindi, la specifica tecnica dettata, per il p.c.t. nei gradi di merito ai fini del deposito telematico, dall’art. 12 del decreto dirigenziale del 16 aprile 2014 e aggiornato il 28 dicembre 2015 (in forza di quanto consentito dal D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 34).

Sicchè, ai fini del rispetto delle regole tecniche per le notificazioni telematica, eseguite dagli avvocati, dell’atto processuale redatto e sottoscritto in formato digitale, l’art. 19-bis di detto decreto, in attuazione del citato D.M. n. 44 del 2011, art. 18 coerentemente stabilisce, al comma 3, che la notificazione dell’atto processuale da trasmettere telematicamente all’ufficio giudiziario deve riguardare il documento originale informatico (nel formato e secondo le modalità dettate dal precedente comma 1).

Pertanto, là dove lo stesso art. 19-bis, al comma 4, prevede che si applichi l’art. 12 del medesimo decreto “Qualora il documento informatico, di cui ai commi precedenti, sia sottoscritto con forma digitale o firma elettronica qualificata”, non sottintende la facoltà di notificare l’atto processuale in copia informatica e senza firma digitale, bensì individua sul piano tecnico soltanto la regola sul tipo di firma digitale apponibile al documento informatico che tale firma deve possedere (giacchè, ben possono esserci documenti informatici che non sono atti processuali, come, ad es., quelli probatori) e, tra questi, certamente l’atto processuale.

Non può, quindi, sostenersi (come invece affermato da Cass., 28 giugno 2018, n. 17020) che, in ambiente di processo telematico, il deposito in cancelleria deve avvenire in riferimento ad atto nativo originale con firma digitale, mentre la notificazione alla controparte può avere ad oggetto lo “stesso” atto nativo originale privo di firma digitale, poichè si tratterebbe, in realtà, di due atti nativi digitali diversi e non dello stesso unico atto sottoscritto con firma digitale.

Del resto, nel giudizio di cassazione (cui si riferisce il precedente appena richiamato), in cui, non essendo operante il sistema del p.c.t. (salva l’eccezione in precedenza indicata), non è possibile dare prova della notificazione in modalità telematica (come invece previsto dal comma 5 del citato art. 19-bis), ove si accedesse all’interpretazione che ammette la notificazione di un ricorso in originale informatico privo di firma digitale verrebbe, addirittura, a mancare un originale sottoscritto, giacchè a tanto non potrebbe sopperire l’attestazione di conformità della copia analogica del ricorso depositata in luogo dell’originale digitale; attestazione che postula, per l’appunto, che l’originale digitale sia stato, a sua volta, ritualmente sottoscritto.

Di qui, pertanto, la rilevanza del vizio di sottoscrizione digitale dell’atto nativo digitale notificato, che, come detto, è l’originale; vizio che potrebbe determinare la nullità dell’atto, se non fosse possibile aliunde ascriverne la paternità certa, in ragione del principio del raggiungimento dello scopo.

21. – Dunque, l’originale del ricorso nativo digitale – in quanto atto processuale – è unico e per essere valido, alla luce di quanto dispone la legge processuale (che è fonte condizionante, anche in via interpretativa, la portata stessa della disciplina recata dalle disposizioni regolamentari e tecniche sul p.c.t.), deve essere sottoscritto con firma (ovviamente) digitale; l’atto così formato e sottoscritto è, quindi, l’atto che l’avvocato provvede a notificare, a mezzo p.e.c., all’indirizzo p.e.c., risultante da pubblici registri, della controparte.

La parte destinataria della notificazione sarà, quindi, in possesso proprio dell’originale del ricorso notificato, sottoscritto con firma digitale, sicchè sarà posta nella condizione di operare una verifica di conformità all’originale (in suo possesso) della copia analogica del ricorso che è stata già depositata in cancelleria.

22. – Invero, e come del resto è già emerso in precedenza, nel giudizio di cassazione – che vede ancora in fieri l’operatività a regime del sistema p.c.t. (salva l’eccezione di cui si è detto) -, stante l’impossibilità di procedere al deposito telematico del ricorso, la Corte non è affatto in grado di verificare, essa stessa, la conformità all’originale nativo digitale della copia analogica del ricorso depositata.

Di qui, pertanto, l’applicazione della L. n. 53 del 1994, art. 9, commi 1-bis e 1-ter (e successive modificazioni), quali disposizioni che, proprio nell’ipotesi in cui non si possa depositare l’atto processuale originale telematico notificato, affidano alla parte l’onere di attestare la conformità all’originale della copia analogica depositata.

Si tratta di assunzione di responsabilità specifica e suscettibile di sanzioni extraprocessuali (L. n. 53 del 1994, art. 6) e, tuttavia, costituisce pur sempre un affidamento al depositante di ciò che, in ambito di verifica imposta dal combinato disposto dell’art. 365 c.p.c. e art. 369 c.p.c., comma 1, si afferma essere alla parte stessa sottratto e, dunque, indisponibile.

Del resto, come già posto in risalto, nel quadro attuale della disciplina del giudizio di cassazione si è resa necessaria, proprio al fine di consentire il deposito di copia analogica di ricorso notificato come documento nativo digitale, quell’interpretazione evolutiva che è transitata attraverso l’applicazione, come regola (necessitata) per la verifica della procedibilità del ricorso nativo digitale, del citato art. 9, commi 1-bis e 1-ter, ossia di norme che, di certo, non sono state ispirate dalle esigenze proprie, e strutturali, del giudizio di cassazione, bensì da quelle concernenti il sistema del p.c.t. in essere presso gli uffici giudiziari di merito.

Ed è proprio in un siffatto contesto che la regola di verifica della procedibilità del ricorso nativo digitale così notificato – che non risponde al paradigma originario della disciplina del codice di rito deve, quindi, misurarsi con la radicalità della sanzione dell’improcedibilità recata dall’art. 369 c.p.c., secondo quel test di ragionevolezza e proporzionalità che si impone nella configurazione di impedimenti all’accesso alla tutela giurisdizionale nella sua effettività.

23. – Ne consegue che il punto di equilibrio può spostarsi in avanti, tenendo conto (non solo dell’ipotesi considerata al p. 14, ma anche) dello stesso comportamento concludente della parte destinataria della notificazione, che esprime una saldatura concettuale, in termini di affidamento nella verifica della condizione di procedibilità, con la condotta asseverativa imposta al notificante (ciò che, del resto, costituisce orizzonte traguardato anche da Cass., 20 agosto 2018, n. 20818 e da Cass., S.U., 11 settembre 2018, n. 22085).

E questo proprio perchè il destinatario della notificazione è in possesso dell’originale del ricorso in formato digitale e, quindi, è in grado di valutarne appieno la conformità alla copia analogica informe (ossia priva di attestazione L. n. 53 del 1994, ex art. 9) che sia stata tempestivamente depositata (nei venti giorni prescritti dall’art. 369 c.p.c.) dal ricorrente, attestando l’esito di una siffatta verifica tramite il mancato disconoscimento di detta conformità.

Ciò, peraltro, senza determinare, come già rammentato in forza del richiamo a Cass., S.U., n. 10648/2017, “ritardi apprezzabili” nell’attivazione della sequenza procedimentale ed essendo coinvolta, per l’appunto, la “stessa parte interessata a far constare la violazione processuale”.

24. – In tal senso, quindi, trova peculiare valorizzazione l’art. 23, comma 2, del c.a.d., quale norma che, pur non essendo richiamata dalla L. n. 53 del 1994, art. 9, comma 1-bis e 1-ter, è suscettibile di essere applicata (secondo quanto messo in luce al p. 15) in ragione del disposto di cui all’art. 2, comma 6, del c.a.d. (cfr. anche Cass., 2 marzo 2018, n. 4932, sebbene la pronuncia postuli solo in astratto la praticabilità di tale soluzione), in quanto opera – già ora, nel contesto della disciplina del giudizio di legittimità non ancora inserito nel sistema del p.c.t. – da norma di chiusura sul duplice presupposto (anzitutto materiale, prima ancora che giuridico) della impossibilità per la Corte di effettuare la verifica diretta sull’originale nativo digitale e della possibilità, invece, della parte destinataria dell’atto processuale nativo digitale, debitamente sottoscritto con firma digitale, di poterne operare, o meno, il disconoscimento rispetto alla copia analogica che non sia stata autenticata dal difensore autore dell’atto notificato, in quanto in possesso proprio del suo originale.

25. – Peraltro, in armonia con quanto già complessivamente evidenziato, l’art. 23, comma 2, c.a.d. potrà ben trovare applicazione ai fini della prova della tempestività della notificazione, in riferimento al mancato disconoscimento ad opera del controricorrente dei messaggi di p.e.c. e della relata di notifica depositati in copia analogica non autenticata dalla parte ricorrente, così come, del resto, la giurisprudenza di questa Corte ha affermato, in più di un’occasione, in riferimento alla produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia dell’atto processuale spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., in applicazione dell’art. 2719 c.c. (Cass., 27 luglio 2012, n. 13439; Cass., 8 settembre 2017, n. 21003).

26. – Ovviamente, al di là di quelle sopra evidenziate (p.p. 14 e 23), possono darsi ulteriori eventualità nella vicenda processuale che attiene alla procedibilità del ricorso, con l’avvertenza che, ove necessario, occorrerà fare applicazione calibrata del principio (più volte ricordato) di sterilizzazione della sanzione dell’improcedibilità in assenza di “ritardi apprezzabili” nell’attivazione della sequenza procedimentale enunciato da Cass., S.U., n. 10648/2017, attingendo, quanto alla scansione temporale di definizione di detta sequenza, alle indicazioni provenienti da Cass., S.U., 14 gennaio 2008, n. 627 (concernente fattispecie in tema di notificazione a mezzo posta).

Tanto è dato ritenere, anzitutto, in ragione del contesto normativo e materiale, più volte rammentato, nel quale si cala, a tutt’oggi, il ricorso per cassazione notificato come documento informatico nativo digitale e come tale non depositabile nella cancelleria della Corte di Cassazione, per non essere ancora attivato, presso la Cassazione stessa, il sistema del p.c.t..

Contesto, dunque, affatto peculiare e tuttavia intermedio, perchè destinato ad essere superato con l’immissione nel circuito del predetto sistema anche del giudizio di legittimità, come prefigurato dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-bis, comma 6, – convertito, con modificazioni, dalla L. n. 221 del 2012 -, inserito dalla L. n. 228 del 2012.

In questo attuale e particolare ambito occorre, quindi, dare specifico rilievo, nell’ottica sopra delineata, al presupposto, indefettibile, della iniziale tempestività (nei venti giorni stabiliti dall’art. 369 c.p.c.) del deposito del ricorso seppure in copia informe, che come in precedenza evidenziato – ha comunque consentito alla giurisprudenza di questa Corte (per tutte le già citate Cass., S.U., n. 323/1976 e Cass. n. 17534/2008) di dichiarare, una volta acquisita certezza circa la conformità della copia all’originale, procedibile l’impugnazione nonostante l’acquisizione dell’originale oltre il termine anzidetto.

Del pari, il tempestivo deposito della sola copia analogica del ricorso notificato come documento informatico nativo digitale consente di configurare, là dove se ne presenti l’eventualità, una fattispecie a formazione progressiva, che viene ad esaurirsi in un lasso temporale da reputarsi proporzionato e ragionevole.

L’eventualità è riferita ai casi di seguito indicati.

26.1. – Anzitutto, nell’ipotesi in cui il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale depositi tardivamente il controricorso e, comunque, non disconosca la conformità all’originale della copia analogica informe del ricorso (tempestivamente depositata), troverà applicazione lo stesso principio che regola il caso del controricorrente tempestivamente costituitosi e che non abbia operato il disconoscimento ai sensi dell’art. 23, comma 2, del c.a.d..

26.2. – Nell’ipotesi in cui il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale rimanga, invece, solo intimato, il ricorrente potrà depositare, in base all’art. 372 c.p.c. (e senza necessità di notificazione ai sensi del secondo comma dello stesso art. 372), l’asseverazione di conformità all’originale (L. n. 53 del 1994, ex art. 9) della copia analogica informe del ricorso (tempestivamente depositata) sino all’udienza di discussione (art. 379 c.p.c.) o all’adunanza in camera di consiglio (art. 380 bis c.p.c., art. 380 bis c.p.c., comma 1 e art. 380 ter c.p.c.). In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

26.3. – Ove il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale depositi il controricorso e disconosca la conformità all’originale della copia analogica informe del ricorso (tempestivamente depositata), sarà onere del ricorrente, nei termini anzidetti (sino all’udienza pubblica o all’adunanza di camera di consiglio), depositare l’asseverazione di legge di conformità della copia analogica all’originale notificato. In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

26.4. – Nel caso in cui vi siano più destinatari della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale e non tutti depositino controricorso, in assenza di disconoscimento ex art. 23, comma 2, c.a.d., il ricorrente – posto che detto comportamento concludente ex lege impegna solo la parte che lo pone in essere – sarà onerato di depositare (ove abbia già tempestivamente depositato la copia analogica informe del ricorso), nei termini sopra precisati (sino all’udienza pubblica o all’adunanza di camera di consiglio), l’asseverazione di cui alla L. n. 53 del 1994, art. 9. In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

27. – Vanno, quindi, enunciati, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., i seguenti principi di diritto:

“Il deposito in cancelleria, nel termine di venti giorni dall’ultima notifica, di copia analogica del ricorso per cassazione predisposto in originale telematico e notificato a mezzo posta elettronica certificata, senza attestazione di conformità del difensore L. n. 53 del 1994, ex art. 9, commi 1-bis e 1-ter, o con attestazione priva di sottoscrizione autografa, non ne comporta l’improcedibilità ai sensi dell’art. 369 c.p.c. sia nel caso in cui il controricorrente (anche tardivamente costituitosi) depositi copia analogica di detto ricorso autenticata dal proprio difensore, sia in quello in cui, ai sensi del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23, comma 2, non ne abbia disconosciuto la conformità all’originale notificatogli.

Anche ai fini della tempestività della notificazione del ricorso in originale telematico sarà onere del controricorrente disconoscere la conformità agli originali dei messaggi di p.e.c. e della relata di notificazione depositati in copia analogica non autenticata dal ricorrente.

Ove, poi, il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale rimanga solo intimato, il ricorrente potrà depositare, ai sensi dell’art. 372 c.p.c. (e senza necessità di notificazione ai sensi del secondo comma della medesima disposizione), l’asseverazione di conformità all’originale (ex art. 9 della legge n. 53 del 1994) della copia analogica depositata sino all’udienza di discussione (art. 379 c.p.c.) o all’adunanza in camera di consiglio (art. 380 bis c.p.c., art. 380 bis c.p.c., comma 1 e art. 380 ter c.p.c.). In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

Nel caso in cui il destinatario della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale depositi il controricorso e disconosca la conformità all’originale della copia analogica informe del ricorso depositata, sarà onere del ricorrente, nei termini anzidetti (sino all’udienza pubblica o all’adunanza di camera di consiglio), depositare l’asseverazione di legge circa la conformità della copia analogica, tempestivamente depositata, all’originale notificato. In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile.

Nell’ipotesi in cui vi siano più destinatari della notificazione a mezzo p.e.c. del ricorso nativo digitale e non tutti depositino controricorso, il ricorrente – posto che il comportamento concludente ex art. 23, comma 2, c.a.d. impegna solo la parte che lo pone in essere – sarà onerato di depositare, nei termini sopra precisati, l’asseverazione di cui alla L. n. 53 del 1994, art. 9. In difetto, il ricorso sarà dichiarato improcedibile”.

P.Q.M.
dichiara estinto per rinuncia il processo introdotto con il ricorso principale;

dichiara inammissibile il ricorso incidentale;

compensa interamente le spese del giudizio di legittimità tra tutte le parti.

enuncia, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., i principi di diritto di cui al p. 27 della motivazione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 11 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2018


Cass. civ. Sez. VI – 3, Ord., (ud. 13-09-2018) 12-12-2018, n. 32201

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. DE STEFANO Franco – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. VINCENTI Enzo – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19287-2017 proposto da:

G.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MONTE ZEBIO 7, presso lo studio dell’avvocato MARIO PERONE, rappresentato e difeso da se medesimo;

– ricorrente –

contro

M.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato VENERANDA NAZZARO;

– controricorrente –

contro

R.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 163/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 19/01/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 13/09/2018 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

Svolgimento del processo
che:

l’avv. Pietro G. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli M.R. e R.G. chiedendo declaratoria di inefficacia di trasferimento immobiliare. I convenuti furono dichiarati contumaci. Il Tribunale adito accolse la domanda. Avverso detta sentenza propose appello M.R.. Con sentenza di data 19 gennaio 2017 la Corte d’appello di Napoli accolse l’appello, dichiarando nulla la sentenza di primo grado e rimettendo la causa innanzi al Tribunale.

Osservò la corte territoriale che la notifica dell’atto di citazione di primo grado ai sensi dell’art. 140 c.p.c. nei confronti di M.R. era nulla perchè “la cartolina attestante l’avvenuta ricezione dell’atto di citazione (ancorchè per compiuta giacenza) non si appalesa completata in ordine alle modalità della mancata consegna del plico a domicilio (non risulta barrata infatti alcuna delle caselle all’uopo predisposte nella cartolina) e comunque nemmeno sottoscritta dall’addetto della notificazione”.

Ha proposto ricorso per cassazione l’avv. G.P. sulla base di un motivo e resiste con controricorso M.R.. Il relatore ha ravvisato un’ipotesi di manifesta fondatezza del ricorso. Il Presidente ha fissato l’adunanza della Corte e sono seguite le comunicazioni di rito. E’ stata presentata memoria.

Motivi della decisione
che:

con il motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 140 e 149 c.p.c.., della L. n. 890 del 1982, art. 8, ai sensi dell’art. 360c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva il ricorrente che gli adempimenti menzionati dalla decisione impugnata sarebbero stati esigibili nella diversa ipotesi di notifica a mezzo del servizio postale disciplinata dal combinato disposto dell’artt. 149 c.p.c., e della L. n. 890 del 1982, art. 8 (peraltro puntualmente eseguiti in sede di notifica a mezzo posta nei confronti dell’altro convenuto G.R.), ma non nella notifica nelle forme di cui all’art. 140, come avvenuto nel caso di specie, la quale è del tutto regolare.

Il motivo è manifestamente fondato. Nella notificazione nei confronti di destinatario irreperibile, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non occorre che dall’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso l’ufficio comunale, che va allegato all’atto notificato, risulti precisamente documentata l’effettiva consegna della raccomandata, ovvero l’infruttuoso decorso del termine di giacenza presso l’ufficio postale, né, che, in definitiva, detto avviso contenga, a pena di nullità dell’intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto da esso risultare, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso (Cass. 27 febbraio 2012, n. 2959). Nella notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la raccomandata cosiddetta informativa, poiché non tiene luogo dell’atto da notificare, I ma contiene la semplice “notizia” del deposito dell’atto stesso nella casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, sicché occorre per la stessa rispettare solo quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria (Cass. 18 dicembre 2014, n. 26864).

P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Napoli in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2018


TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, sentenza 5 – 13 09 2018, n. 287 DPO

Interessante sentenza del Tar Friuli sui requisiti necessari per il ricoprire il ruolo di Dpo, figura prevista dal regolamento europeo sulla privacy (Gdpr) due concorrenti sulla linea di partenza

Leggi: TAR Friuli Venezia Giulia, sez. I, sentenza 5 – 13 09 2018, n. 287 DPO


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 10/05/2018) 11/09/2018, n. 22075

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 18449-2017 proposto da:

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VAL TELLINA 87, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCA MASSI, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIO CARAMITTI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

UNIVERSITA’ DEGLI STUDI DI FIRENZE, in persona del Rettore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA BUENOS AIRES 5, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO GALLO, rappresentata e difesa dall’avvocato DAVIDE DE GRAZIA, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 639/2017 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 26/05/2017, R. G. N. 257/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/05/2018 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito l’Avvocato MARIO CARAMITTI;

udito l’Avvocato ANDREA SCAFA per delega verbale DAVIDE DE GRAZIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte di Appello di Firenze ha accolto il reclamo L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, proposto dall’Università degli Studi di Firenze avverso la sentenza del locale Tribunale che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva confermato l’ordinanza con la quale era stata dichiarata la nullità del licenziamento intimato il 16 aprile 2015 a C.C. e l’Università era stata condannata a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso le retribuzioni maturate dalla data del recesso.

2. La Corte territoriale, respinta l’eccezione di inammissibilità del gravame, ha premesso che al C. era stato contestato di essersi allontanato dal luogo di lavoro il 30 ottobre 2014, in assenza di autorizzazione e senza attestare l’uscita nel sistema di rilevamento delle presenze. La circostanza era emersa nel corso di altro procedimento disciplinare, avviato in relazione a comportamenti analoghi, ed era stata compiutamente appresa il 7 gennaio 2015, in occasione dell’audizione del dipendente R., il quale aveva confermato quanto già riferito dal responsabile del servizio ed aveva collocato temporalmente l’episodio, fornendo tutti i particolari della vicenda. Il procedimento disciplinare era stato avviato il 22 gennaio 2015, quando ancora non era stato definito l’altro procedimento, all’esito del quale, solo il 9 febbraio 2015, era stata inflitta la sanzione della sospensione dal servizio per mesi 6 con privazione della retribuzione.

3. Il giudice del reclamo ha ritenuto provato il fatto contestato sulla base delle dichiarazioni rese dal collega di lavoro, il quale aveva escluso che l’allontanamento fosse giustificato dalla frequenza di un corso di formazione professionale ed aveva dichiarato che il C. gli aveva riferito di doversi recare in altro quartiere della città di Firenze per ragioni personali.

3. In punto di diritto la Corte fiorentina ha evidenziato che l’illecito doveva essere sussunto nella fattispecie tipizzata dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), che si consuma anche nell’ipotesi in cui venga omessa la registrazione dell’uscita dal luogo di lavoro, perchè ciò determina un’attestazione non veritiera della presenza in servizio. Ha aggiunto che le fattispecie di licenziamento previste dal legislatore sono aggiuntive rispetto a quelle della contrattazione collettiva, le cui clausole, ove difformi, vanno sostituite di diritto ai sensi dell’art. 1339 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Ha ritenuto, infine, che la gravità della condotta, dal punto di vista oggettivo e soggettivo, emergeva dalle plurime sanzioni inflitte per comportamenti analoghi nell’anno 2014, alle quali aveva fatto seguito l’ulteriore sanzione della sospensione per 6 mesi, irrogata il 9 febbraio 2015 e divenuta definitiva per mancata impugnazione da parte del reclamato dell’omessa pronuncia sull’asserita illegittimità della sanzione stessa.

4. Il giudice del reclamo ha anche escluso l’eccepita tardività della contestazione, ritenuta invece dal Tribunale, ed ha evidenziato che, trattandosi di illecito astrattamente idoneo a giustificare il licenziamento, il termine per la contestazione era quello previsto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, e non quello di 20 giorni fissato dal comma 2 della stessa norma. Ha aggiunto che il dies a quo non poteva essere collocato al 19/12/2014, perchè il responsabile del servizio dott. A. non era stato in grado di precisare quando l’episodio si era verificato e i particolari della vicenda erano stati appresi in occasione delle dichiarazioni rese dal R. il 7 gennaio 2015. Prima di questa data l’UPD non poteva dare avvio al procedimento, non essendo in possesso degli estremi di fatto indispensabili per la contestazione dell’addebito.

5. Infine la Corte ha escluso di potere pronunciare sulle ulteriori questioni riproposte nella memoria di costituzione, perchè il reclamato avrebbe dovuto proporre impugnazione incidentale per censurare il capo della sentenza impugnata che aveva rigettato l’eccezione relativa alla carenza di potere del direttore generale e l’omessa pronuncia sulla domanda volta ad ottenere l’annullamento della sanzione inflitta il 9 febbraio 2015.

6. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.C. sulla base di 13 motivi, illustrati da memoria ex art. 378 c.p.c., ai quali l’Università degli Studi di Firenze ha resistito con tempestivo controricorso.

Motivi della decisione
1.1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, “violazione e falsa applicazione della L. 28 giugno 2012, n. 92, art. 1, comma 58 e art. 342 c.p.c.” e, premessa l’applicabilità al reclamo delle norme del codice di rito che disciplinano i requisiti formali dell’atto di appello, rileva che nella fattispecie il gravame doveva essere dichiarato inammissibile, in quanto l’Università non aveva prospettato alcuna diversa ricostruzione dei fatti ed inoltre non aveva precisato ” punto per punto la rilevanza nel giudizio ai fini della decisione di quanto lamentato”.

1.2. La seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, commi 2 e 4, in quanto, ai fini dell’individuazione del termine entro il quale la contestazione deve essere effettuata, rileva solo la sanzione astrattamente prevista per il comportamento ritenuto di rilevanza disciplinare, sicchè ove quest’ultima sia pari o inferiore alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per non più di 10 giorni, il termine è quello indicato nel 20 comma del richiamato art. 55 bis.. Nel caso di specie, pertanto, la Corte territoriale avrebbe dovuto considerare che ai sensi dell’art. 46, comma 3, lett. b) del CCNL per il personale del comparto Università, ove non venga contestata la recidiva, l’allontanamento arbitrario dal servizio è sanzionato con la sospensione non superiore a 10 giorni.

1.3. Con la terza critica il ricorrente si duole, sotto altro profilo, della violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis e rileva che, avuta notizia dell’illecito disciplinare, il datore di lavoro non può ritardare l’avvio del procedimento per svolgere atti istruttori inaudita altera parte. La contestazione, pertanto, andava effettuata entro 20 giorni dalla data di audizione del responsabile del servizio (19 dicembre 2014), il quale aveva riferito l’ulteriore episodio di ingiustificato allontanamento dal luogo di lavoro.

1.4. La violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, comma 4, è dedotta anche con il quarto motivo, con il quale si sostiene che “il termine di 40 giorni per gli atti del procedimento disciplinare non può che intendersi per la sola attività endoprocessuale e non anche per la proposizione a pena di decadenza dell’azione disciplinare”, che va comunque avviata nei 20 giorni dall’acquisizione della notizia. Aggiunge il ricorrente che la questione era stata riproposta con la memoria difensiva, non essendo necessario il ricorso incidentale in quanto il Tribunale aveva ritenuto la tardività della contestazione, sia pure sotto altro profilo.

1.5. Con la quinta critica è dedotta la violazione dell’art. 45 del CCNL per il comparto università nella parte in cui prescrive che “la contestazione deve effettuarsi tempestivamente e comunque non oltre 20 giorni da quando l’ufficio competente è venuto a conoscenza del fatto”. Si sostiene che in caso di contrasto fra norme di legge e norme della contrattazione collettiva deve essere data prevalenza a quella più favorevole per il lavoratore.

1.6. Il sesto motivo denuncia la “violazione e falsa applicazione della L. 30 maggio 1970, n. 300, art. 7, comma 2, e dell’art. 46, comma 5 lett. a del C.C.N.L.”. Rileva il ricorrente che, in caso di allontanamento dal servizio, il contratto collettivo consente il licenziamento con preavviso solo nell’ipotesi di recidiva, che, in quanto elemento costitutivo dell’infrazione, deve essere espressamente contestata. Il giudice del reclamo, pertanto, non poteva fondare il giudizio di proporzionalità sui precedenti disciplinari non richiamati nell’atto di avvio del procedimento.

1.7. Anche la settima censura addebita alla sentenza impugnata di avere violato il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis e l’art. 45 comma 2 del CCNL per il personale del comparto università nel ritenere la legittimità del licenziamento in assenza di previa contestazione della recidiva, dalla quale, invece, non si poteva prescindere sulla base della disciplina dettata dalle parti collettive. Aggiunge il ricorrente che dall’omessa contestazione era derivata una grave lesione del suo diritto di difesa, perchè egli non era stato posto in condizione di replicare sulla rilevanza dei precedenti procedimenti disciplinari.

1.8. Con l’ottavo motivo C.C. insiste nel sostenere che non poteva essere inflitta la sanzione del licenziamento disciplinare perchè la contrattazione collettiva, all’art. 46, comma 5, la prevede solo in caso di recidiva, non valutabile nella fattispecie in quanto non contestata.

1.9. La nona censura denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c. perchè la Corte territoriale, nel valorizzare i precedenti disciplinari del dipendente licenziato, aveva finito per attribuire rilievo alla recidiva, sebbene a ciò l’Università avesse espressamente rinunciato, non proponendo reclamo anche sotto questo profilo.

1.10. Con il decimo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 324 c.p.c. e rileva che erroneamente il giudice d’appello ha ritenuto che si fosse formato giudicato sulla legittimità della sospensione dal servizio inflitta con il provvedimento disciplinare del 9 febbraio 2015. Premette che, una volta disposta la riunione dei ricorsi e applicato il rito speciale, il Tribunale, ai sensi della L. n. 92 del 2012, art. 1, comma 48, non poteva pronunciare sulla domanda volta ad ottenere l’annullamento della sanzione conservativa, sicchè il reclamo incidentale, qualora proposto per far valere l’omessa pronuncia, avrebbe comportato necessariamente la dichiarazione di inammissibilità della domanda stessa. Per dette assorbenti ragioni il giudice del reclamo non poteva valorizzare la precedente sanzione e ritenere integrata la recidiva, posto che sull’illegittimità della sospensione il reclamato aveva insistito anche in sede di appello.

1.11. L’undicesima censura addebita alla sentenza impugnata la violazione dell’art. 2734 c.c. perchè le dichiarazioni, ritenute confessorie, che il C. aveva reso, dovevano essere valutate nella loro completezza e unitarietà e, quindi, non poteva essere valorizzata solo l’ammissione relativa all’allontanamento dal servizio, dovendo tenersi conto anche di quanto affermato in merito alle ragioni dell’allontanamento, in realtà giustificato dalla volontà di partecipare al medesimo corso di formazione frequentato dal collega R.. Aggiunge il ricorrente che l’assenza non era stata determinata da motivi personali nè tantomeno dalla volontà di recarsi presso il Tribunale di Firenze, in quanto la stessa Università aveva riconosciuto che il C. era stato avvertito del rinvio dell’udienza dal suo difensore.

1.12. Con il dodicesimo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., il ricorrente si duole dell’interpretazione data, in violazione dell’art. 12 disp. gen., alle circolari n. 73415 del 5.12.2007 e n. 86800 del 23.12.2008 con le quali l’Università avrebbe esteso anche ai dipendenti impegnati in attività formative l’obbligo di timbrare il cartellino marcatempo in entrata e in uscita. Si sostiene che dette circolari in realtà non prevedono l’obbligo di timbratura e si aggiunge che la partecipazione a corsi di formazione professionale va equiparata alla presenza in servizio, in quanto finalizzata ad accrescere il bagaglio di conoscenze del dipendente.

1.13. Infine con il tredicesimo motivo è denunciata la violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1 bis e del D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3 comma 1 e si sostiene che la Corte territoriale ha applicato retroattivamente la normativa sopravvenuta in corso di causa, destinata a disciplinare i soli illeciti verificatisi dopo l’entrata in vigore del decreto delegato. Il ricorrente richiama la giurisprudenza di questa Corte per sostenere che, contrariamente a quanto asserito dal giudice di merito, doveva essere esclusa la possibilità di un’applicazione retroattiva e che, comunque, il fatto andava valutato quanto alla gravità in tutti i suoi aspetti oggettivi e soggettivi. Dovevano, quindi, essere apprezzate le ragioni per le quali si era verificato l’allontanamento dal posto di lavoro e occorreva anche tener conto del fatto che le modalità della condotta non erano compatibili con un intento fraudolento, in quanto il C. aveva risposto alla chiamata telefonica del responsabile del servizio, era rimasto assente per meno di 2 ore, aveva ammesso di essersi allontanato pur potendo sostenere, ad esempio, di “essersi sentito male in una delle innumerevoli stanze dell’ufficio”.

2. Il primo motivo è inammissibile perchè formulato senza il necessario rispetto dell’onere di specificazione, imposto dall’art. 366 c.p.c..

Occorre premettere che, anche qualora il ricorrente prospetti un error in procedendo, rispetto al quale la Corte di cassazione è giudice del “fatto processuale”, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito presuppone l’ammissibilità della censura ex art. 366 c.p.c., sicchè la parte non è dispensata dall’onere di specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, di indicare in modo egualmente specifico i fatti processuali alla base dell’errore denunciato e di trascrivere nel ricorso gli atti rilevanti (fra le più recenti Cass. nn. 22880/2017, 2771/2017, 11738/2016).

Dal principio di diritto discende che, qualora il ricorrente censuri di erroneità la sentenza impugnata per non avere dichiarato l’inammissibilità dell’appello, le condizioni richieste dall’art. 366 c.p.c., nn. 4 e 6 potranno dirsi sussistenti solo qualora il motivo riporti negli esatti termini il contenuto del gravame e della sentenza di primo grado, indichi con chiarezza le ragioni per le quali l’appello doveva essere ritenuto inammissibile, precisi ed evidenzi le parti dell’impugnazione ritenute non idonee a confutare le argomentazioni addotte dal primo giudice e, quindi, prive del necessario requisito della specificità.

Non è sufficiente, ai fini dell’ammissibilità della censura, che il ricorrente assolva al distinto onere previsto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., n. 4, perchè l’art. 366 c.p.c., come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 5, richiede che al giudice di legittimità vengano forniti tutti gli elementi necessari per avere la completa cognizione della controversia, senza necessità di accedere a fonti esterne, mentre la produzione è finalizzata a permettere l’agevole reperibilità del documento la cui rilevanza è invocata ai fini dell’accoglimento del ricorso (fra le più recenti, sulla non sovrapponibilità dei due requisiti, Cass. 28.9.2016 n. 19048).

3. Il secondo, il sesto, il settimo, l’ottavo, ed il nono motivo possono essere trattati congiuntamente, perchè si fondano tutti sull’asserita applicabilità alla fattispecie della disciplina dettata dalla contrattazione collettiva (art. 46 del CCNL 16.10.2008 per il personale del comparto università che riproduce il codice disciplinare già introdotto dall’art. 45 del CCNL 27.1.2005), che sanziona con la sospensione sino a dieci giorni l’abbandono ingiustificato del servizio (art. 46, comma 3, lett. a), prevedendo che, in caso di recidiva, la sospensione stessa possa essere elevata sino a sei mesi (art. 46, comma 4, lett. a).

I motivi sono infondati alla luce dell’orientamento, ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui “rientra tra le ipotesi di assenza ingiustificata di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55-quater, nel testo, applicabile ratione temporis, vigente già prima delle modifiche introdotte dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, non solo il caso dell’alterazione del sistema di rilevamento delle presenze, ma anche l’allontanamento del lavoratore nel periodo intermedio tra le timbrature di entrata ed uscita, trattandosi di un comportamento fraudolento diretto a fare emergere falsamente la presenza in ufficio.” (Cass. 14.12.2016 n. 25750 e negli stessi termini Cass. n. 17637/2016, Cass. n. 24574/2016).

Con le richiamate pronunce, alle quali il Collegio intende dare continuità, si è osservato che “la registrazione effettuata attraverso l’utilizzo del sistema di rilevazione della presenza sul luogo di lavoro è corretta e non falsa solo se nell’intervallo compreso tra le timbrature in entrata e in uscita il lavoratore è effettivamente presente in ufficio, mentre è falsa e fraudolentemente attestata nei casi in cui miri a far emergere, in contrasto con il vero, che il lavoratore è presente in ufficio dal momento della timbratura in entrata a quello della timbratura in uscita “.

E’ stato evidenziato che utili elementi a conforto di detta esegesi possono desumersi dal D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1, che introducendo nell’art. 55 quater il comma 1 bis, ha precisato che “costituisce falsa attestazione della presenza in servizio qualunque modalità fraudolenta posta in essere, anche avvalendosi di terzi, per far risultare il dipendente in servizio o trarre in inganno l’amministrazione presso la quale il dipendente presta attività lavorativa circa il rispetto dell’orario di lavoro dello stesso”.

La disposizione è stata evidentemente introdotta dal legislatore a fini chiarificatori, per meglio esplicitare un precetto già desumibile dalla disciplina previgente, sicchè deve escludersi che la stessa abbia portata innovativa, posto che il testo originario dell’art. 55 quater non consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del sistema automatico (Cass. n. 24574/2016).

3.1. Dalla ritenuta riconducibilità alla fattispecie legale dell’addebito contestato al ricorrente discende l’infondatezza di tutti i motivi che fanno leva sulla disciplina contrattuale, giacchè, a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2009, quest’ultima è stata sostituita di diritto, ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c., dalla normativa di legge, che sulla stessa prevale D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55, comma 1, , nel testo applicabile ratione temporis.

Questa Corte ha già evidenziato che il legislatore, nell’introdurre fattispecie legali di licenziamento per giusta causa e per giustificato motivo, aggiuntive rispetto a quelle individuate dalla contrattazione collettiva, ha anche affermato con chiarezza la preminenza della disciplina legale rispetto a quella di fonte contrattuale, che, quindi, non può essere più invocata, ove in contrasto con la norma inderogabile di legge (Cass. n. 24574/2016).

Detti principi di diritto sono stati richiamati dalla Corte territoriale a fondamento della decisione e vanno qui ribaditi, perchè il ricorso non prospetta argomenti che possano indurre a rimeditare l’orientamento già espresso, al quale il Collegio intende dare continuità.

4. Una volta esclusa l’applicabilità della disciplina contrattuale e, quindi, che la recidiva debba essere elemento costitutivo dell’illecito, diviene irrilevante l’esame del decimo motivo, giacchè l’error in procedendo denunciato, anche se in ipotesi sussistente, non sarebbe comunque idoneo a giustificare la cassazione della sentenza, avendo la Corte territoriale richiamato a fondamento del giudizio espresso sulla gravità della condotta una pluralità di precedenti disciplinari e non la sola sanzione inflitta con lettera del 9 febbraio 2015.

5. Infondati sono anche il terzo, il quarto ed il quinto motivo, con i quali il C. insiste nel sostenere che la contestazione doveva essere ritenuta tardiva, perchè la notizia era stata appresa dall’ufficio per i procedimenti disciplinari il 19 dicembre 2014 e da detta data doveva decorrere il termine di venti giorni previsto per la contestazione dell’addebito dall’art. 45 del CCNL per il personale del comparto Università e, secondo il ricorrente, anche dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis.

Il quarto motivo prospetta un’interpretazione della norma di legge che si pone in evidente contrasto con il tenore letterale del 4 comma, nella parte in cui precisa che l’ufficio competente per i procedimenti disciplinari “contesta l’addebito al dipendente, lo convoca per il contraddittorio a sua difesa, istruisce e conclude il procedimento secondo quanto previsto nel comma 2, ma, se la sanzione da applicare è più grave di quella di cui al comma 1, primo periodo, con applicazione di termini pari al doppio di quelli ivi stabiliti…”.

La norma è chiara nel riferire il raddoppio a tutti i termini indicati nel comma richiamato e, quindi, non solo a quello fissato per la conclusione del procedimento, ma anche a quello imposto al fine di garantire la tempestività dell’iniziativa disciplinare.

Il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 bis, nel testo antecedente alla modifica recentemente attuata dal D.Lgs. n. 75 del 2017, riserva alla competenza del responsabile della struttura le sole sanzioni disciplinari superiori al rimprovero verbale ed inferiori alla sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per più di dieci giorni, e prevede che in detta ipotesi il procedimento debba essere avviato entro venti giorni dall’acquisizione della notizia e concluso nei sessanta giorni successivi alla contestazione.

Qualora, invece, il procedimento stesso sia di competenza dell’UPD, in considerazione della maggiore complessità degli accertamenti, solitamente connessa alla diversa gravità dell’addebito, entrambi detti termini vengono raddoppiati, sicchè l’ufficio dovrà procedere alla contestazione entro quaranta giorni dalla data di ricezione degli atti o comunque da quella di acquisizione della notizia, e concludere poi il procedimento entro centoventi giorni che, però, in questo caso decorrono, non dalla contestazione, bensì dalla “data di prima acquisizione della notizia dell’infrazione, anche se avvenuta da parte del responsabile della struttura in cui il dipendente lavora”.

La sentenza impugnata è, quindi, fondata su un’interpretazione della normativa corretta e condivisibile, giacchè la Corte territoriale dalla ritenuta riconducibilità della fattispecie all’ipotesi sanzionatoria prevista dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater ha fatto discendere l’applicabilità dei termini stabiliti dal 4 comma dell’art. 55 bis.

5.1. Non può essere invocato il diverso termine previsto dall’art. 45, comma 2, del CCNL 16.10.2008, giacchè anche in relazione alla disciplina del procedimento valgono i principi enunciati al punto 3.1. La normativa inderogabile di legge prevale, infatti, su quella contrattuale, alla quale si sostituisce automaticamente ai sensi degli artt. 1339 e 1419 c.c., richiamati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55, comma 1.

5.2. Il termine di quaranta giorni previsto per la contestazione risulta nella specie rispettato, sia se si assume quale dies a quo la data di audizione del responsabile del servizio dott. A. (19.12.2014), sia se lo si fa decorrere dal 7 gennaio 2015, ossia dal momento in cui il dipendenti R. aveva circostanziato l’episodio, indicando il giorno in cui si era verificato l’illegittimo abbandono del servizio.

A fini di completezza osserva il Collegio che correttamente la Corte territoriale ha escluso che il termine potesse decorrere dalla prima della seconda audizione, giacchè “ai fini della decorrenza del termine perentorio previsto per la conclusione del procedimento disciplinare dall’acquisizione della notizia dell’infrazione (D.Lgs. n. 165 del 2001, ex art. 55-bis, comma 4), in conformità con il principio del giusto procedimento, come inteso dalla Corte cost. (sentenza n. 310 del 5 novembre 2010), assume rilievo esclusivamente il momento in cui tale acquisizione, da parte dell’ufficio competente regolarmente investito del procedimento, riguardi una “notizia di infrazione” di contenuto tale da consentire allo stesso di dare, in modo corretto, l’avvio al procedimento disciplinare, nelle sue tre fasi fondamentali della contestazione dell’addebito, dell’istruttoria e dell’adozione della sanzione…” (Cass. n. 7134/2017 e negli stessi termini Cass. n. 25379/2017 e Cass. n. 6989/2018).

Il principio, sebbene affermato in relazione al termine per la conclusione del procedimento, è applicabile anche qualora venga in rilievo la tempestività della contestazione, poichè quest’ultima può essere ritenuta tardiva solo qualora l’amministrazione rimanga ingiustificatamente inerte e, quindi, non proceda ad avviare il procedimento, pur essendo in possesso degli elementi necessari per il suo valido avvio. Il termine, invece, non può decorrere a fronte di una notizia che, per la sua genericità, non consenta la formulazione dell’incolpazione e richieda accertamenti di carattere preliminare volti ad acquisire i dati necessari per circostanziare l’addebito.

6. L’undicesima e la tredicesima censura, pur denunciando la violazione di norme di legge (art. 2734 c.c., D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1 bis), si risolvono per lo più in una critica all’accertamento di fatto compiuto dalla Corte territoriale e sono, quindi, inammissibili.

E’ utile rammentare al riguardo che il vizio di violazione di norme di diritto consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, ma nei limiti fissati dalla disciplina applicabile ratione temporis. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (fra le più recenti, tra le tante, Cass. 12.9.2016 n. 17921; Cass. 11.1.2016 n. 195; Cass. 30.12.2015 n. 26110).

Nel caso di specie il ricorrente con entrambi i motivi torna a prospettare la tesi difensiva, ritenuta non fondata dal giudice del reclamo, secondo la quale l’allontanamento non sarebbe stato ingiustificato ed arbitrario, perchè finalizzato a consentire la partecipazione ad un corso di formazione. Le giustificazioni fornite dal C. sono state valutate dalla Corte fiorentina, che le ha disattese attribuendo rilievo alla deposizione del teste R. (pag. 4 della motivazione), sicchè la censura si risolve in un’inammissibile sollecitazione di un diverso giudizio di merito, non consentito al giudice di legittimità.

6.1. Il tredicesimo motivo, poi, è infondato nella parte in cui addebita alla sentenza impugnata di avere applicato retroattivamente il D.Lgs. n. 116 del 2016, art. 3, comma 1, poichè, come già evidenziato al punto 3, la disposizione non ha portata innovativa in quanto anche il testo originario dell’art. 55 quater non consentiva di circoscrivere la condotta tipizzata ai soli casi di alterazione/manomissione del sistema automatico.

6.2. Infine non risponde al vero che la Corte territoriale non abbia valutato la gravità della condotta, nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi.

Si deve qui ribadire che, anche in presenza di uno degli illeciti tipizzati dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, va escluso qualsivoglia automatismo nell’irrogazione della sanzione disciplinare (Cass. n. 1351/2016, Cass. n. 18326/2016, Cass. n. 18858/2016, Cass. n. 24574/2016), perchè della norma deve essere fornita un’interpretazione orientata al rispetto dei principi costituzionali. Il Giudice delle leggi, infatti, esaminando diverse disposizioni legislative che prevedevano automatismi espulsivi, ha ritenuto che la privazione di una valutazione di graduazione della sanzione in riferimento al caso concreto vulnera i principi della tutela del lavoro (artt. 4 e 35 Cost.), del buon andamento amministrativo (art. 97 Cost.) e quelli fondamentali di ragionevolezza (art. 3 Cost. Cfr. Corte Cost. n. 971/1988 e Corte Cost. n. 706/1996 in materia di destituzione di diritto; Corte Cost. n. 170/2015 in materia di trasferimento obbligatorio in caso di violazione di specifici doveri da parte dei magistrati).

E’ stato, però, evidenziato anche, in relazione all’assenza ingiustificata, che ” la disposizione normativa cristallizza, dal punto di vista oggettivo, la gravità della sanzione prevedendo ipotesi specifiche di condotte del lavoratore, mentre consente la verifica, caso per caso, della sussistenza dell’elemento intenzionale o colposo, ossia la valutazione se ricorrono elementi che assurgono a “scriminante” della condotta tenuta dal lavoratore tali da configurare una situazione di inesigibilità della prestazione lavorativa.” (Cass. n. 18326/2016).

Nel caso di specie la Corte territoriale, dopo avere escluso, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, la fondatezza delle giustificazioni fornite dal C., ha anche evidenziato che l’addebito contestato, per la sua gravità, era idoneo ad integrare una giusta causa di licenziamento, non solo sulla base della previsione normativa, ma anche perchè la condotta del lavoratore appariva “costellata negli anni di violazioni delle regole relative alla presenza in servizio e alla sua attestazione”.

La pronuncia risulta, pertanto, rispettosa del principio di diritto sopra enunciato.

7. Il dodicesimo motivo è inammissibile, innanzitutto perchè formulato senza il necessario rispetto degli oneri di specificazione e di allegazione di cui all’art. 366 c.p.c., n. 6 e art. 369 c.p.c., n. 4..

Il ricorrente si duole, infatti, dell’interpretazione data dalla Corte territoriale alle circolari n. 73415 del 5.12.2007 e n. 86800 del 23.12.2008, delle quali non riporta nel ricorso il contenuto ed in relazione alle quali non fornisce indicazione alcuna circa le modalità della produzione nel giudizio di merito.

Il motivo, poi, non indica i criteri di ermeneutica contrattuale che il giudice del merito avrebbe violato nel ritenere che con le anzidette circolari fosse stato imposto al dipendente di registrare l’uscita anche in caso di partecipazione ad attività formativa.

In merito occorre evidenziare che nell’impiego pubblico contrattualizzato le circolari con le quali il datore di lavoro disciplina unilateralmente aspetti del rapporto non hanno natura di atti normativi, sicchè la loro interpretazione va condotta nel rispetto delle regole di ermeneutica dettate dagli artt. 1362 c.c. e segg., applicabili anche agli atti unilaterali ex art. 1324 c.c.. Detta interpretazione è censurabile in sede di legittimità solo nell’ipotesi di violazione dei richiamati canoni legali ed a condizione che il ricorrente, oltre a fare esplicito riferimento alle regole ermeneutiche in ipotesi violate, precisi anche in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito se ne sia discostato (cfr. fra le tante Cass. n. 27136/2017).

8. In via conclusiva il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, deve darsi atto della ricorrenza delle condizioni previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000,00 per competenze professionali ed Euro200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali del 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 10 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2018


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 15-05-2018) 11-09-2018, n. 22000

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. SCALISI Antonino – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 15938-2017 proposto da:

E.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO n.36/B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SCARDIGLI, che lo rappresenta e difende unitamente e disgiuntamente all’avvocato PIERO PETROCCHI;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI FIRENZE, C.F. (OMISSIS), in persona del Sindaco e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA piazza Cavour presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dagli avvocati DEBORA PACINI, e ANDREA SANSONI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4340/2016 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 19/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/5/2018 dal Consigliere Dott. ALDO CARRATO.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il Giudice di pace di Firenze, con sentenza n. 3669/2012, dichiarava l’inammissibilità dell’opposizione – per sua ritenuta tardività – proposta ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 22 dal sig. E.P., cittadino tedesco residente in (OMISSIS), avverso un verbale di accertamento per la contestata violazione dell’art. 7 c.d.s. (transito in ZTL senza la necessaria autorizzazione).

Sull’appello formulato dal soccombente ricorrente in primo grado e nella costituzione dell’appellato Comune di Firenze, il Tribunale del capoluogo toscano, con sentenza n. 4340/2016, respingeva il gravame e condannava l’appellante alla rifusione delle spese del grado.

A sostegno della adottata decisione il Tribunale fiorentino ravvisava l’infondatezza dell’appello sul presupposto che, nella fattispecie, l’eseguita notificazione del verbale di accertamento opposto non poteva qualificarsi come inesistente siccome compiuta nel rispetto del regolamento CE n. 1393/2007 ed effettuata ritualmente dal predetto Comune che si era avvalso della società EMO, la quale aveva agito per conto del servizio postale gestito da Poste Italiane al solo fine di curare l’attività di materiale consegna del verbale impugnato per la notifica a mezzo posta.

Avverso l’indicata sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il predetto appellante soccombente, articolato in quattro complessi motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimato Comune di Firenze.

Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto – in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la supposta falsa applicazione del Regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio e la mancata applicazione della Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977 (alla stregua della quale doveva essere notificato, nel caso di specie, l’opposto verbale di accertamento), la cui violazione, per la materia degli atti amministrativi all’estero, avrebbe dovuto comportare l’inesistenza della notificazione per come eseguita, nello specifico, dal Comune di Firenze.

Con il secondo motivo il ricorrente – sempre con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – ha denunciato la violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 15 dello stesso Regolamento CE n. 1393/2007, sul presupposto che – sensi delle citate disposizioni normative e pur nella denegata ipotesi di ravvisata applicabilità di tale Regolamento comunitario – solo gli Stati membri avrebbero potuto avvalersi del servizio postale per effettuare le notificazioni secondo le previste modalità e non anche i privati o gli enti pubblici periferici dotati di autonomia privata, come i Comuni.

Con il terzo motivo il ricorrente ha prospettato – sempre con riguardo all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la violazione e falsa applicazione dell’art. 201 C.d.S. 1992 e dell’art. 10 Cost., comma 1, asserendo che, nella fattispecie, diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale di Firenze, avrebbe dovuto trovare diretta applicazione l’art. 11 della Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977 per le notifiche all’estero in luogo della disposizione di cui al citato art. 201 C.d.S..

Con il quarto ed ultimo motivo il ricorrente ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – l’omesso esame dell’attività notificatoria della Nivi Credit s.r.l. ed il conseguente mancato rilievo dell’illegittimità della stessa siccome non dotata di alcun potere di notifica, nemmeno ai sensi del suddetto Regolamento CE n. 1392/2007.

Si è costituito con controricorso il Comune di Firenze, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Su proposta del relatore, il quale rilevava che tutti i motivi formulati con il ricorso potesse essere ritenuti inammissibili o, in via subordinata, manifestamente infondati in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, nn. 1) e 5), il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio, in prossimità della quale i difensori di entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Rileva il collegio che i primi tre motivi – esaminabili congiuntamente siccome tra loro strettamente connessi – sono infondati, nel mentre l’ultimo si prospetta inammissibile (e comunque, privo di fondamento). Come evincibile dal coacervo delle prime tre censure la difesa della parte ricorrente ha propriamente contestato che, nella fattispecie, ai fini della notificazione del verbale di accertamento originariamente opposto, sarebbe stato necessario – allo scopo di ravvisare la ritualità ed effettiva validità dell’inerente attività notificatoria – far luogo all’applicazione della disciplina (prevista specificamente per la materia degli atti amministrativi) di cui alla Convenzione di Strasburgo 24 novembre 1997 e non di quella contemplata dal Regolamento CE n. 1393/2007 (invece ritenuta legittimamente osservata dal giudice di appello), che – ove fosse stata ritenuta eventualmente applicabile -avrebbe dovuto riferirsi soltanto alle notificazioni di atti intercorrenti tra gli Stati membri, con conseguente inapplicabilità, in ogni caso, delle modalità stabilite dall’art. 201 C.d.S. 1992.

Orbene, confutando le ragioni dell’appello prospettate dall’attuale ricorrente, il Tribunale di Firenze ha – convincentemente e legittimamente escluso – sulla scorta dei pregressi arresti della giurisprudenza di questa Corte (dai quali non si ha motivo per discostarsi) – escluso la sussistenza delle dedotte violazioni, reiterate con i primi tre motivi del ricorso nella presente sede di legittimità.

Infatti, il giudice di appello ha correttamente ritenuto che, nel caso di specie, fosse stata validamente applicata la disciplina delle notificazioni così come prevista dal Regolamento CE n. 1393/2007.

A tal proposito si evidenzia che – come già rimarcato con la sentenza di questa Corte n. 11140/2015 – il Regolamento (CE) n. 1393/2007 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 13 novembre 2007, relativo alla notificazione e alla comunicazione negli Stati membri degli atti giudiziari ed extragiudiziali in materia civile o commerciale, ovvero di “notificazione o comunicazione degli atti”, che abroga il regolamento (CE) n. 1348/2000 del Consiglio, applicabile alla fattispecie, prevede espressamente, al suo art. 14, che ciascuno Stato membro ha facoltà di notificare o comunicare atti giudiziari alle persone residenti in un altro Stato membro direttamente tramite i servizi postali, mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno o mezzo equivalente. Va, poi, precisato che il successivo art. 16 prevede, altresì, che “gli atti extragiudiziali possono essere trasmessi ai fini della notificazione o della comunicazione in un altro Stato membro, a norma delle disposizioni del presente regolamento”: da qui – secondo la pregressa condivisa giurisprudenza di questa Corte – deriva la sostanziale estensione delle norme relative agli altri atti, oggetto delle precedenti previsioni, tra cui appunto l’art. 14.

E’ stato, poi, aggiunto che in virtù del criterio di semplificazione e, soprattutto, di quello di reciproco affidamento degli ordinamenti dei singoli membri dell’Unione, che ispira ormai da tempo più che apprezzabile la legislazione processualcivilistica comunitaria prima ed eurounitaria poi e che comunque pervade anche il Regolamento in esame (secondo quanto si ricava dai primi “considerando” al testo premessi, soprattutto il 7, il 9 e il 15), tale facoltà deve considerarsi posta su di un piano di piena equivalenza o perfetta equipollenza rispetto alle altre (considerando n. 17) ed il suo esercizio non può soffrire, senza violare la lettera e lo spirito della disposizione regolamentare abilitativa, limitazioni di sorta o interpretazioni che ne comportino la sostanziale vinificazione: infatti, il criterio ispiratore è quello della massima reciproca fiducia nell’efficienza e nella sufficienza del semplice servizio postale per la comunicazione o la notificazione degli atti, quando si tratta di rapporti tra due Stati membri. Almeno in quest’ambito, deve allora considerarsi sufficiente – fino a prova del contrario (così garantendosi il diritto del destinatario), nei limiti però in cui la legge dello Stato membro in cui l’attività richiesta si espleta (unica ad applicarsi, per principi generali confermati da tutte le disposizioni procedurali di volta in volta emanate) lo consente – la cura con cui normalmente si esplica quel servizio a fondare il reciproco affidamento sulla funzionalità delle operazioni e sulla loro idoneità ad un’efficace tutela di entrambi i soggetti coinvolti, il mittente e il destinatario dell’atto.

Da tutto ciò consegue che non è allora possibile condizionare la validità della notifica o comunicazione a mezzo posta, collegata dalla nonna comunitaria alla semplice modalità della lettera raccomandata con ricevuta di ritorno, ad un ulteriore requisito, quale l’applicazione, all’estero, di modalità previste da peculiari leggi nazionali in materia di notifiche a mezzo posta: tanto comporterebbe, in sostanza, un non consentito svuotamento della chiara ed univoca facoltà alternativa concessa dall’art. 14 del Regolamento. Andranno, ovviamente, osservate solo le disposizioni dello Stato membro nel quale la comunicazione o notificazione deve essere eseguita, che siano dettate, rispetto alle definizioni usuali di posta raccomandata, in modo speciale per le concrete modalità di esecuzione dei singoli atti previsti dalla legislazione di quello Stato: anche – o se non altro – per l’intuitiva impossibilità di pretendere che un funzionario postale di altro Stato applichi norme di un ordinamento che comunque, sul punto, rimane per lui straniero, quale quello peculiare di altro Stato membro dell’Unione, nella parte eccedente le disposizioni di rango eurounitario immediatamente applicabili.

Correttamente, pertanto, nella specie il Comune di Firenze – in applicazione del Regolamento CE n. 1393/2007 (che si estende sia agli atti giudiziari e che a quelli amministrativi) ha proceduto a notificare ritualmente, a mezzo posta, con le modalità previste dall’art. 201 C.d.S., il verbale di accertamento della violazione amministrativa elevato a carico del ricorrente (cfr. anche Cass. n. 10543/2015), con ciò rimanendo escluse le violazioni dallo stesso dedotte con i primi tre motivi (rimanendo inapplicabile, nella fattispecie, la precedente Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977).

A tal proposito deve aggiungersi che non può aver seguito – e, quindi, va ritenuta infondata – anche l’ulteriore deduzione specificamente prospettata con la seconda censura, per effetto della quale, tutt’al più (secondo la parte ricorrente), la disciplina notificatoria contemplata dal citato Regolamento CE n. 1393/2007 (agli artt. 14 e 15) andrebbe limitata, quanto al suo ambito di applicabilità, ai soli rapporti tra gli Stati membri firmatari.

Come altrettanto legittimamente rilevato dal Tribunale fiorentino siffatta interpretazione risulterebbe illogicamente riduttiva della portata del complesso disposto normativo in questione, essendo conforme alla condivisa dottrina assolutamente prevalente l’affermazione per cui, con riferimento sia all’art. 14 del Regolamento CE 1348/00 che all’art. 14 Reg. CE 1393/07, deve ritenersi che l’espressione ciascuno Stato membro ha facoltà di… ecc. vada intesa come ellissi per gli organi a ciò preposti e legittimati in ciascuno degli Stati membri ad eseguire le attività notificatorie (v. la già citata Cass. n. 10543/2015), che, nel caso di specie, sono state realizzate legittimamente ai sensi dell’art. 201 C.d.S., il cui comma 3 consente di provvedervi anche a mezzo posta secondo, appunto, le norme sulle notificazioni mediante il servizio postale.

Anche l’ultimo motivo denunciato nell’interesse della ricorrente è privo di pregio sul piano giuridico.

Infatti, il giudice di appello non solo non ha affatto omesso di esaminare la ragione del gravame circa la supposta illegittimità della notificazione compiuta a mezzo posta sull’asserito presupposto che fosse stata eseguita da un mero soggetto privato (la EMO), ma ha risolto correttamente la relativa questione giuridica.

Sul punto si è, invero, conformato alla giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 7177/2012 e Cass. n. 462/2017), ad avviso della quale, in tema di sanzioni amministrative per violazioni del codice della strada, la notifica del verbale di accertamento, ai sensi dell’art. 385, comma 3, del regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada avviene mediante invio al destinatario di uno degli originali o di copia autenticata a cura del responsabile dell’ufficio o comando, o da un suo delegato, potendo, tuttavia, essere validamente affidate a soggetti terzi, anche privati, le attività intermedie di natura materiale, relative all’imbustamento ed alla consegna dei plichi al servizio postale. E sulla base di tale principio il Tribunale fiorentino ha accertato la legittimità della notificazione avvenuta a mezzo posta in relazione alla quale la EMO si era limitata a svolgere una mera attività ausiliaria materiale (esecutiva e di semplice postalizzazione), come tale non incidente sull’attività essenziale propriamente notificatoria.

Alla stregua delle argomentazioni complessivamente svolte il ricorso deve, dunque, essere integralmente rigettato, con conseguente condanna del soccombente ricorrente al pagamento, in favore del Comune controricorrente, delle spese della presente fase di legittimità, che si liquidano nei sensi di cui in dispositivo.

Sussistono, inoltre, le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 1, comma 17, della legge n. 228/2012, che ha aggiunto il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1- quater – dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione integralmente rigettata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente Comune di Firenze, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidati in complessivi Euro 700,00, di cui Euro 100,00 per esborsi, oltre contributo forfettario al 15%, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della 6-2 Sezione civile della Corte di cassazione, il 15 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2018


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 29/09/2017) 29/08/2018, n. 21290

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PETITTI Stefano – Presidente –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – rel. Consigliere –

Dott. BERNAZZANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24625/2010 proposto da:

EQUITALIA ETR SPA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA NOMENTANA 403 B/2, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLA FIORINI, rappresentata e difesa dall’avvocato IVANA CARSO;

– ricorrente –

contro

ELEMENTI PREFABBRICATI SRL, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DEL VIGNOLA 5, presso lo studio dell’avvocato LIVIA RANUZZI, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI QUERCIA;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimata –

avverso la sentenza n. 23/2010 della COMM. TRIB. REG. di BARI, depositata il 01/03/2010;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 29/09/2017 dal Consigliere Dott. GUGLIELMO CINQUE.

Svolgimento del processo
che, con la sentenza n. 23/9/10, la Commissione Tributaria Regionale della Puglia ha confermato la pronuncia n. 46/15/2009 della Commissione Tributaria Provinciale di Bari con cui era stato accolto il ricorso proposto dalla Società Elementi Prefabbricati srl avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS), notificata prima dell’1.6.2008, con la quale il Concessionario E. TR spa aveva intimato il pagamento di Euro 165.483,13, comprensiva di interessi e sanzioni, a titolo di recupero somme dovute a seguito di condono L. n. 289 del 2008, ex art. 9 (anno di imposta 2003), e a titolo di IRPEF, ritenute ed accessori su redditi di lavoro dipendente, IRAP e IVA, a seguito della liquidazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, delle dichiarazioni e modello unico anno 2005;

che, avverso tale decisione, ha proposto ricorso per cassazione l’Equitalia ETR spa affidato a cinque motivi;

che la Società Elementi Prefabbricati srl ha resistito con controricorso; che l’Agenzia delle Entrate non ha svolto attività difensiva;

che il PG non ha formulato richieste.

Motivi della decisione
che, con il ricorso per cassazione, si censura: 1) la violazione e falsa applicazione del D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4 ter, conv. in L. n. 31 del 2008 e della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere erroneamente la CTR ritenuto la sovrapponibilità dei vizi della mancata sottoscrizione della cartella con quello della omessa indicazione del nominativo del responsabile del procedimento, quando invece si trattava di due problematiche diverse risolte in modo differente dalla giurisprudenza di legittimità; 2) la violazione e falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 2, lett. a), D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 e del D.M. 28 giugno 1999, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere erroneamente la CTR considerato necessaria la sottoscrizione della cartella quando, invece, il modello ministeriale non prevede la sottoscrizione dell’esattore, essendo sufficiente la intestazione per verificarne la provenienza e gli altri requisiti; 3) la violazione e falsa applicazione del D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4 ter, convertito in L. n. 31 del 2008, L. n. 241 del 1990, art. 5, comma 2 e della L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, perchè, diversamente da quanto affermato dai giudici di secondo grado, la mancata indicazione del responsabile del procedimento non integrava (secondo la disciplina previgente alla L. n. 31 del 2008, citato art. 36, comma 4 ter) un vizio invalidante della cartella perchè, in tale ipotesi, il responsabile andava individuato nel dirigente dell’unità organizzativa preposta al procedimento e, giammai, la omissione avrebbe determinato, sotto il profilo sanzionatorio, la comminatoria di annullamento; 4) la nullità della sentenza emessa in violazione dell’art. 112 c.p.c., per omessa pronuncia sull’eccezione proposta da Equitalia circa l’applicabilità del disposto di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 5, comma 2 e di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 octies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4; 5) la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 2, D.M. 28 giugno 1999 e della L. n. 212 del 2000, art. 7. comma 2, lett. a), in relazione al disposto di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, cpc, per non essere stato ritenuto dalla CTR che la cartella di pagamento, redatta conformemente al modello approvato con D.M. 28 giugno 1999, in base all’art. 25 citato, non prevedeva nè la sottoscrizione, nè l’indicazione del responsabile del procedimento nè, infine, la sanzione di annullamento in ipotesi di omissione di detti requisiti;

che i motivi sono fondati;

che, effettivamente, in relazione alla cartella di pagamento opposta, notificata anteriormente al 1 giugno 2008, la CTR ha valutato in modo congiunto due questioni (quella relativa alla omessa sottoscrizione della cartella e quella concernente l’assenza di indicazione del responsabile del procedimento) la cui trattazione, invece, richiedeva un esame specifico dei relativi vizi;

che, quanto alla doglianza relativa alla omessa sottoscrizione della cartella (motivi 2 e 5), deve richiamarsi il principio di legittimità secondo cui, in tema di riscossione delle imposte, la mancanza della sottoscrizione della cartella di pagamento da parte del funzionario competente non comporta l’invalidità dell’atto, quando non è in dubbio la riferibilità di questo all’Autorità da cui promana, giacchè l’autografia della sottoscrizione è elemento essenziale dell’atto amministrativo nei soli casi in cui sia prevista dalla legge, mentre, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, la cartella va predisposta secondo il modello approvato con decreto del Ministero competente, che non prevede la sottoscrizione dell’esattore ma solo la sua intestazione (cfr. Cass. 30.12.2015 n. 26053; Cass. 27.7.2012 n. 13461);

che, con riferimento alle censure concernenti la mancata indicazione del responsabile del procedimento (motivi 1 e 3), la giurisprudenza di questa Corte è consolidata nel ritenere che la cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1 giugno 2008, non è affetta da nullità, atteso che il D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 4 ter (convertito dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31) ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, riferite ai ruoli consegnati a decorrere dalla predetta data, norma ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 58 del 28.1.2009 (Cass. 31.5.2013 n. 13747; Cass. 15.2.2013 n. 3754; Cass. 21.3.2012 n. 4516);

che la CTR, nel caso di specie, con la impugnata sentenza non si è attenuta ai suddetti principi, cui in questa sede si intende dare seguito, e ha omesso di pronunziarsi sulla eccezione sollevata da Equitalia ETR spa (motivo 4 del presente ricorso) in ordine alla applicabilità del disposto di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 5, comma 2 e di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 21 octies;

che, pertanto, la sentenza va cassata con rinvio alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in diversa composizione, che procederà a nuovo esame attenendosi ai principi sopra indicati e provvedendo, altresì, anche alla determinazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa la sentenza e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale della Puglia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 29 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2018


Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro del comparto FUNZIONI LOCALI-2016-2018

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Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 17-05-2018) 27-07-2018, n. 19958

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 25810/2011 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

– ricorrente –

contro

C.P.E., rappresentata e difesa dagli avv. Emanuele Coglitore e Luigi Manzi, elettivamente domiciliata presso il secondo in Roma alla via Confalonieri n.5;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 76/36/10 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione 36, del 10/5/2010, depositata il 23/7/2010 e non notificata;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 17 maggio 2018 dal Consigliere Andreina Giudicepietro.

Svolgimento del processo
CHE:

1. l’Agenzia delle Entrate ricorre con due motivi contro C.P.E. per la cassazione della sentenza n. 76/36/10 della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione 36, del 10/5/2010, depositata il 23/7/2010 e non notificata, che ha rigettato l’appello dell’Ufficio, in controversia concernente l’impugnativa della cartella di pagamento per IRPEF ed ILOR dell’anno 1995, oltre interessi e sanzioni;

2. con la sentenza impugnata, la C.T.R. della Lombardia confermava la sentenza di primo grado, ritenendo che la cartella di pagamento fosse nulla, perché emessa a seguito di avviso di accertamento che non risultava ritualmente notificato;

in ordine alla notifica dell’avviso di accertamento, quale atto prodromico rispetto alla cartella di pagamento, riteneva la C.T.R. che l’Ufficio avesse depositato “un atto recante una incompleta relata di notifica, dalla quale non risultano in alcun modo compiute le formalità imposte dalla legge processuale nel caso di notifica ex art. 140 c.p.c.”;

3. a seguito del ricorso dell’Agenzia delle Entrate, la contribuente si costituisce, resistendo con controricorso;

4. il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 17 maggio 2018, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c. e art. 380 bis 1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Motivi della decisione
CHE:

1.1. preliminarmente va affrontata la questione relativa alla nullità dell’intero giudizio per la violazione del litisconsorzio necessario nei confronti del coniuge (non evocato in giudizio), eccepita dalla controricorrente per la prima volta in questa sede, ma rilevabile anche d’ufficio, ove sussistente;

in caso di dichiarazione congiunta dei coniugi si è detto che la “moglie codichiarante è legittimata ad impugnare autonomamente l’avviso di accertamento notificato al marito, ancorché divenuto definitivo nei confronti di quest’ultimo (anche per intervenuto giudicato), proponendo ricorso avverso la cartella di pagamento, atteso che, pur non essendo necessario, affinché ne insorga la responsabilità, che le sia notificato l’avviso di accertamento, il suo diritto di difesa non può essere pregiudicato ed, in virtù della regola generale di cui all’art. 1306 c.c., il giudicato intervenuto tra l’Amministrazione finanziaria ed uno dei debitori solidali non ha effetto contro l’altro debitore solidale” (Cass. ord. n. 462/18; cfr. anche Sez. 5, Sentenza n. 23553 del 18/11/2015, Rv. 637429 – 01);

non vi è, quindi, ab origine una situazione di litisconsorzio necessario tra i coniugi, che, in quanto coobbligati solidali nei confronti del fisco, hanno singolarmente la legittimazione ad agire per la contestazione della pretesa tributaria;

inoltre, si è anche chiarito che il giudizio “si riferisce a soggetti diversi ed a rapporti tributari che, seppur distinti, e pertanto concettualmente non indissolubili, sono coinvolti in un titolo impositivo unico… Ne discende che, tra le cause concernenti i diversi contribuenti va riscontrato quel vincolo di collegamento determinato dalla dipendenza di comune fattore, che, in presenza di “simulaneus processus” nel pregresso grado del giudizio, comporta, in applicazione della previsione dell’art. 331 c.p.c., l’obbligo dell’integrazione del contraddittorio nel giudizio di impugnazione” (Cass. sent. n. 1225/07);

dai principi sopra richiamati, si evince che, nel caso di dichiarazione congiunta, si determina tra i coniugi una situazione di litisconsorzio processuale necessario nei giudizi di impugnazione, solo nel caso in cui l’atto impositivo sia stato impugnato congiuntamente da entrambi;

nel caso di specie, in cui la sig. C. ha proposto un’autonoma impugnativa avverso gli atti di accertamento tributario, non si ravvisa neanche una violazione del litisconsorzio processuale;

1.2. passando all’esame del primo motivo, l’Agenzia ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) e dell’art. 140 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in ordine all’individuazione dei presupposti per il ricorso all’una o all’altra modalità di notifica;

secondo la ricorrente, il giudice di appello avrebbe errato nel ritenere necessario il ricorso alla notifica nelle modalità di cui all’art. 140 c.p.c., previste in caso di temporanea assenza del destinatario, in quanto la notifica dell’atto impositivo era stata correttamente eseguita ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e);

con il secondo motivo, la ricorrente denuncia l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, su di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, perché il giudice di appello non avrebbe adeguatamente spiegato le ragioni per le quali non ha tenuto conto degli accertamenti effettuati dal messo notificatore, come risultanti dalle attestazioni apposte sull’avviso di accertamento;

1.3. i motivi sono connessi e vanno esaminati congiuntamente, sono fondati e vanno accolti;

ed invero, “in tema di notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi, prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, la notificazione deve essere effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 c.p.c. solo quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o ogni altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, mentre deve essere effettuata applicando la disciplina di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) quando il messo notificatore non reperisca il contribuente, che, dalle notizie acquisite all’atto della notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto. Con riferimento alla previa acquisizione di notizie e/o al previo espletamento delle ricerche, va evidenziato che nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente essere a tal fine compiute né con quali espressioni verbali ed in quale contesto documentale deve essere espresso il risultato di tali ricerche, purché emerga chiaramente che le ricerche sono state effettuate, che sono attribuibili al messo notificatore e riferibili alla notifica in esame” (Cass. sent n. 20425/07);

secondo la Corte, quindi, la notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c. solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e) quando il notificatore non reperisca il contribuente perché trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale (cfr. Cass. n. 6788/2017);

la questione assume particolare rilievo in relazione alla circostanza che, per le ipotesi di c.d. irreperibilità relativa, la notifica si perfeziona con il compimento delle attività stabilite dall’art. 140 c.p.c., occorrendo, oltre al deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve eseguirsi ed all’affissione dell’avviso di deposito alla porta dell’abitazione o ufficio o azienda del destinatario, anche la comunicazione con raccomandata A.R. dell’avvenuto deposito nella casa comunale dell’atto e il ricevimento della raccomandata informativa, ovvero il decorso del termine di dieci giorni dalla spedizione della detta raccomandata;

per converso, alle ipotesi di c.d. irreperibilità assoluta, relative al trasferimento del contribuente in comune diverso da quello in cui il contribuente aveva il domicilio fiscale, la medesima disposizione sopra ricordata richiede, accanto al deposito dell’atto nella casa comunale, l’affissione dell’avviso nell’albo e il decorso del termine di otto giorni dalla data di affissione;

questa Corte, affrontando il tema delle modalità che il messo notificatore o ufficiale giudiziario devono seguire per attivare in modo rituale il meccanismo notificatorio di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) in caso di irreperibilità assoluta, ha ritenuto che il messo notificatore, prima di procedere alla notifica, deve effettuare nel Comune del domicilio fiscale del contribuente le ricerche volte a verificare la sussistenza dei presupposti per operare la scelta, tra le due citate possibili opzioni, del procedimento notificatorio, onde accertare che il mancato rinvenimento del destinatario dell’atto sia dovuto ad irreperibilità relativa ovvero ad irreperibilità assoluta in quanto nel Comune, già sede del domicilio fiscale, il contribuente non ha più né abitazione, né ufficio o azienda e, quindi, mancano dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto (Cass. n. 6911/2017, Cass. n. 4502/201);

con riferimento alla previa acquisizione di notizie, e/o al previo espletamento delle ricerche, va evidenziato che “nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente essere a tal fine compiute, né con quali espressioni verbali ed in quale contesto documentale deve essere espresso il risultato di tali ricerche, purché emerga chiaramente che le ricerche sono state effettuate, che sono attribuibili al messo notificatore e riferibili alla notifica in esame (cfr. Cass. sent n. 20425/07 citata);

a tali principi non si è conformato il giudice di appello, che non ha adeguatamente spiegato le ragioni per le quali non ha tenuto conto degli accertamenti effettuati dal messo notificatore (le informazioni raccolte dal custode dello stabile ove era ubicato il domicilio fiscale del contribuente circa il trasferimento di quest’ultimo in una località non nota e le indagini anagrafiche, dalle quali non risultava il trasferimento in altro indirizzo del comune), al fine di verificare la correttezza del ricorso alla notifica di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e);

in particolare, le attestazioni del pubblico ufficiale apposte sull’avviso di accertamento, costituiscono atto pubblico ai sensi degli artt. 2699 c.c. e ss. e fanno piena prova (fino a querela di falso) della ricezione delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza;

tale prova non è inficiata dai certificati anagrafici che, attestando formalmente la persistente residenza in loco del destinatario della notifica, palesano solo la divergenza tra i formali dati anagrafici e quanto constato in loco ed in punto di fatto dal pubblico ufficiale;

1.4. sulla base di tali considerazioni, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, per l’esame delle ulteriori questioni di merito oggetto dell’impugnativa della contribuente ed anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.T.R. della Lombardia, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 17 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2018


CTR Lombardia: Sentenza n. 2479 del 29 maggio 2018

Leggi: CTR lombardia Sentenza n. 2479 del 29 maggio 2018


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 08-03-2018) 04-07-2018, n. 17514

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. BOGHETICH Elena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 2754-2017 proposto da:

N.G., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’ avvocato MARIANO BRUNO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CLP SVILUPPO INDUSTRIALE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BARNABA TORTOLINI N.13, presso lo studio dell’avvocato ALDO FERRARI, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO MUTARELLI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2213/2016 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 11/07/2016 r.g.n. 201/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/03/2018 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso il rigetto del ricorso.

udito l’Avvocato FABRIZIO DE MARSI per delega Avvocato BRUNO MARIANO;

udito l’Avvocato MATTEO MARIA MUTARELLI, per delega Avvocato FRANCESCO MUTARELLI.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza dell’11.7.2016 la Corte d’appello di Napoli ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima sede che ha dichiarato legittimo il licenziamento intimato a N.G., dipendente della società CLP Sviluppo Industriale s.p.a. con mansioni di autista di pullman riservati al noleggio privato, per aver svolto altra attività di lavoro, nella specie direzione delle operazioni di parcheggio (con coordinamento del personale ivi addetto e riscossione dei pagamenti da parte dei clienti) nell’area privata di sosta (OMISSIS), durante i lunghi periodi di assenza per malattia (oltre 100 giorni nel periodo marzo-luglio 2013) e per infortunio in itinere (dal 7.8. al 14.10.2013), per giunta senza l’adozione delle prescrizioni imposte dal medico curante (collare cervicale) e per numerose ore consecutive.

2. La Corte territoriale, ritenuto pacifica l’adibizione del N. al settore del noleggio privato, ha preliminarmente ritenuto il procedimento di intimazione della sanzione rispettoso della procedura dettata dalla L. n. 300 del 1970, art. 7, non potendosi applicare il R.D. n. 148 del 1931 riservato al settore dei trasporti pubblici, e, nel merito, ha ritenuto sorretto da giusta causa il provvedimento espulsivo, proporzionato alla grave condotta di mala fede e di slealtà tenuta dal lavoratore che aveva adottato – durante il periodo di assenza per malattia e per infortunio – un comportamento incompatibile con lo stato morboso rivelatosi, di fatto, insussistente e, comunque, un comportamento tale da compromettere e ritardare (in considerazione delle circostanze soggettive ed oggettive in cui l’attività si era svolta) il recupero della forma fisica e delle energie necessarie.

3. Il N. ha proposto ricorso per cassazione avverso tale sentenza affidato a tre motivi. La società ha depositato controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione del R.D. n. 148 del 1931 e della L. n. 1054 del 1960, artt. 1 – 4, (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) avendo, la Corte distrettuale, trascurato che il R.D. n 148 del 1931, in quanto integrato e modificato dalla L. n. 1054 del 1960, si applica altresì al settore del noleggio privato con conseguente esclusione del potere di licenziare per casi di simulazione di malattia, necessità di preventiva istruttoria ed accesso agli atti nonchè deliberazione del Consiglio di disciplina al fine di irrogare validamente una sanzione. La circostanza, inoltre, dell’adibizione del N. al settore del noleggio privato era citata “velatamente” nel ricorso introduttivo del giudizio proposto dalla società e, pertanto, non poteva ritenersi allegazione specifica tale da richiedere una contestazione da parte del lavoratore.

2. – Con il secondo motivo si lamenta violazione falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5, art. 2119 c.c. nonchè error in procedendo e vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5) non avendo, la Corte, adeguatamente valutato la scarsa gravità della condotta tenuta dal lavoratore che si è limitato a dirigere altri addetti ai lavori (di parcheggio delle autovetture) e ad omettere l’uso del collare cervicale, senza che sia stata acquisita prova medica ed inconfutabile del peggioramento dello stato di salute. La Corte territoriale non ha tenuto conto di tutte le circostanze nelle quali i fatti sono stati commessi e, soprattutto, ha erroneamente valutato il grado e l’intensità dell’elemento intenzionale nonchè la proporzionalità senza giungere ad un accertamento inequivocabile della reale lesione dell’elemento fiduciario.

3. Con il terzo motivo si denuncia violazione falsa applicazione degli artt. 1175, 1375, 1455, 2104, 2106 e 2119 c.c., L. n. 604 del 1966, art. 5, L. n. 300 del 1970, art. 7, R.D. n. 148 del 1931 nonchè error in procedendo e vizio di motivazione (ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5) non avendo, la Corte territoriale nonchè il Tribunale in primo grado, effettuato una compiuta analisi della condotta inadempiente con riguardo alle mansioni assegnate al lavoratore. Il N., addetto alla guida di mezzi privati e pubblici, aveva usufruito di giorni di malattia per un diagnosticato “trauma cranico e stato confusionale transitorio, cervicalgia da contraccolpo” riportati a seguito di un incidente stradale e in tali giorni non si è posto nuovamente alla guida di automezzi nè ha esercitato una vera e propria attività lavorativa, limitandosi semplicemente ad impartire direttive ai dipendenti di un parcheggio di auto appartenente all’azienda di famiglia, attività che non richiedeva alcun dispendio di energie nè arrecava repentaglio allo stato di salute (circostanza, in ogni caso, che doveva essere accertata tramite una consulenza medica).

4. Il primo motivo di ricorso è, in parte, inammissibile e, in parte, infondato.

Inammissibile ove, rilevando la generica allegazione – da parte della società – delle mansioni disimpegnate dal N., viola il principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione, secondo cui parte ricorrente avrebbe dovuto, quantomeno, trascrivere nel ricorso il contenuto (o un estratto significativo) del ricorso introduttivo del giudizio proposto dalla società stessa, fornendo al contempo alla Corte elementi sicuri per consentirne l’individuazione e il reperimento negli atti processuali, potendosi solo così ritenere assolto il duplice onere, rispettivamente previsto a presidio del suddetto principio dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224; Cass. SU 11 aprile 2012, n. 5698; Cass. SU 3 novembre 2011, n. 22726). La carenza si evince vieppiù chiaramente a fronte del tenore testuale della sentenza impugnata che ha rilevato come “nonostante l’eccezione formulata specificamente sul punto (adibizione del N. al settore del noleggio privato piuttosto che al servizio di trasporto pubblico) dalla CLP già in primo grado, nulla la difesa dell’appellante ha articolato o provato sul punto” (pag. 4 della sentenza).

Il ricorso è, inoltre, infondato posto che la L. 22 settembre 1960, n. 1054 – come tutte le altre novelle normative successive al R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, come correttamente rilevato dalla sentenza impugnata – ha esteso la disciplina dettata dal R.D. n. 148 del 1931 al personale adibito a pubblici servizi di linea (esercitati direttamente da enti pubblici, ovvero dati in concessione), nel caso di specie di linea extraurbana, come si evince chiaramente dal tenore testuale e dalla lettura sistematica degli strumenti normativi in oggetto. La disciplina richiamata dal ricorrente si pone, anzi, nel segno contrario rispetto a quello prospettato dal ricorrente avendo previsto per le aziende di modeste dimensioni al di sotto dei 26 dipendenti, l’operatività, in materia disciplinare degli autoferrotranvieri, del regime privatistico, dimostrando chiaramente la tendenza, sempre più accentuata con gli interventi legislativi successivi a quello evocato dal ricorrente, di avvicinare la regolamentazione degli autoferrotranvieri al regime privatistico, tendenza che questa Corte, con autorevoli interventi, non ha mancato di sottolineare ed avallare ove si sia riscontrata la necessità di integrare o sostituire i singoli istituti dettati dal Regio decreto in quanto incompatibili con il sistema in generale, “tenuto conto del progressivo avvicinamento del sistema dei trasporti pubblici e del relativo rapporto di lavoro al regime privatistico, della contrattualizzazione del pubblico impiego e, soprattutto, dell’immanenza nel nostro ordinamento giuridico, con riferimento al rapporto di lavoro, di principi fondamentali anche di livello comunitario che devono presiedere nell’esegesi delle norme disciplinanti qualsiasi rapporto di lavoro” (Cass. Sez. U. n. 15540 del 2016).

5. Il secondo e il terzo motivo di ricorso, attenendo tutti al processo di sussunzione della fattispecie concreta nella nozione legale di giusta causa, possono essere trattati congiuntamente, e sono infondati.

In tema di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità tra addebito e recesso, rileva ogni condotta che, per la sua gravità, possa scuotere la fiducia del datore di lavoro e far ritenere la continuazione del rapporto pregiudizievole agli scopi aziendali, essendo determinante, in tal senso, la potenziale influenza del comportamento del lavoratore, suscettibile, per le concrete modalità e il contesto di riferimento, di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento, denotando scarsa inclinazione all’attuazione degli obblighi in conformità a diligenza, buona fede e correttezza; spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva, non sulla base di una valutazione astratta dell’addebito, ma tenendo conto di ogni aspetto concreto del fatto, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico della sua gravità, rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi rilievo alla configurazione delle mancanze operata dalla contrattazione collettiva, all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla durata dello stesso, all’assenza di pregresse sanzioni, alla natura e alla tipologia del rapporto medesimo (cfr. Cass. 13.2.2012 n. 2013 e, precedentemente, in senso analogo, tra le tante, Cass. 21.6.2011 n. 13574; Cass. 7.4.2011 n. 7948; Cass. 2.3.2011 n. 5095; Cass. 18.2.2011 n. 4060). In particolare, la giusta causa di licenziamento è nozione legale ed il giudice non è vincolato dalle previsioni del contratto collettivo onde lo stesso può ritenere la sussistenza della giusta causa per un grave inadempimento o per un grave comportamento del lavoratore contrario alle norme della comune etica o del comune vivere civile ove tale grave inadempimento o tale grave comportamento, secondo un apprezzamento di fatto non sindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato, abbia fatto venire meno il rapporto fiduciario tra datore di lavoro e lavoratore e, per altro verso, può escludere altresì che il comportamento del lavoratore costituisca di fatto una giusta causa, pur essendo qualificato tale dal contratto collettivo, in considerazione delle circostanze concrete che lo hanno caratterizzato (cfr. Cass 4060/2011 cit.).

Come questa Corte ha più volte affermato e va qui ribadito, “in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo, il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione all’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice del merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che l’inadempimento, ove provato dal datore di lavoro in assolvimento dell’onere su di lui incombente L. n. 604 del 1966, ex art. 5, deve essere valutato tenendo conto della specificazione in senso accentuativo a tutela del lavoratore rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicchè l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata solamente in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria – durante il periodo di preavviso – del rapporto” (v. Cass. 14.1.2003 n. 444, Cass. 25.2.2005 n. 3994, Cass. 16.5.2006 n. 11430, Cass. 24.7.2006 n. 16864, Cass. 10.12.2007 n. 25743, Cass. 22.3.2010 n. 6848, Cass. 21.6.2011 n. 13574).

Nella fattispecie, la Corte di merito ha rilevato che: doveva ritenersi (a seguito di applicazione del principio di non contestazione, oltre che dal copioso materiale probatorio e fotografico fornito dal datore di lavoro) provata “l’attività di gestione attiva del parcheggio del lido (OMISSIS) da parte del lavoratore che è stato osservato intento nell’attività per numerose ore consecutive nei giorni indicati in contestazione (100 giorni nel periodo marzo-luglio 2013 nonchè assenza continuativa dal 7.8 al 14.10.2013) e che è stato poi fotografato in pose di evidente attività, orientata all’indicazione dei luoghi e delle modalità di parcheggio ai clienti” (pag. 7 della sentenza impugnata); “la frequenza settimanale delle osservazioni (da parte dell’agenzia investigativa incaricata dal datore di lavoro) e la costante presenza dell’appellante inducono a ritenere che si trattasse di attività svolta con regolarità praticamente quotidiana.. con posture certamente non riposanti anche perchè mantenute per ore e sotto il calore del sole pieno” (pag. 8); le azioni compiute dal N. “apparivano ictu oculi incompatibili con la denunziata infermità o comunque sicuramente idonei a ritardare se non a compromettere il recupero della forma fisica e delle energie necessarie. Il lavoratore è stato osservato per ore gestire le attività di parcheggio dei clienti, rilasciare scontrini, restare in piedi sotto il sole a dare indicazioni sia presso il lido che presso il parcheggio; in un’occasione era stato anche fotografato mentre armeggiava con la realizzazione di un manufatto di legno; in un’occasione, in data 1.9.2013, era stato visto e fotografato intento nelle solite attività, senza avere indosso il prescritto collare protettivo; l’insieme di tali condotte denotava una buona efficienza fisica, con particolare riferimento all’apparato osteoarticolare e risultavano del poco compatibili con la effettiva sussistenza dell’affezione che aveva dato luogo alla sua prolungata assenza” (pag. 10 della sentenza impugnata).

Tale motivazione, incentrata su tutti gli elementi oggettivi e soggettivi emersi, risulta conforme ai principi sopra richiamati, nonchè congrua e priva di vizi logici e resiste alle censure del ricorrente.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato e le spese del presente giudizio di legittimità seguono il criterio della soccombenza dettato dall’art. 91 c.p.c..

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 8 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 4 luglio 2018