Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 24-02-2021) 02-04-2021, n. 12780

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANCUSO Luigi Fabrizio – Presidente –

Dott. BONI Monica – rel. Consigliere –

Dott. DI GIURO Gaetano – Consigliere –

Dott. CENTONZE Alessandro – Consigliere –

Dott. CAIRO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

R.A., nato a (OMISSIS);

avverso l’ordinanza del 14/10/2020 del TRIB. SORVEGLIANZA di CATANIA;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MONICA BONI;

lette/sue le conclusioni del PG Dr. Cocomello Assunta, che ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

Svolgimento del processo
1. Con ordinanza emessa in data 14 ottobre 2020 il Tribunale di sorveglianza di Catania rigettava la domanda, proposta da R.A., volta ad ottenere l’ammissione alla misura alternativa dell’affidamento in prova al servizio sociale.

A fondamento della decisione il Tribunale ha osservato che il provvedimento emesso in data 1 luglio 2020 non costituisce una duplicazione della precedente ordinanza dello stesso Tribunale di sorveglianza in quanto, pur riguardando lo stesso titolo, esecutivo, nell’ordine di carcerazione sospeso per errore la pena era stata fatta decorrere dal 30 dicembre 2014, anziché dal 30 dicembre 2015, per cui l’anno di differenza deve ancora essere espiato.

2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l’interessato a mezzo del difensore avv.to Mario Luciano Brancato, il quale ha dedotto:

a) vizio di motivazione per avere il Tribunale di sorveglianza respinto l’opposizione avverso la precedente ordinanza dell’1 luglio 2020 di ammissione del ricorrente all’affidamento in prova per espiare il residuo pena di un anno, relativo alla condanna inflittagli con sentenza del G.i.p. del Tribunale di Messina del 16 marzo 2016, non espiata in precedenza a seguito dell’ordine di esecuzione del 5 aprile 2016 della Procura della Repubblica di Messina per un errore di calcolo, sebbene la pena fosse stata dichiarata estinta con provvedimento del 6 giugno 2018 che non era stata impugnata dalla Procura procedente, divenendo definitiva. La motivazione è del tutto insufficiente rispetto alle doglianze già esposte con l’opposizione e non tiene conto che il divieto di bis in idem è riferibile anche alle decisioni assunte in fase esecutiva.

b) violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 179 c.p.p., comma 1 in quanto l’udienza camerale era stata celebrata senza la presenza obbligatoria del difensore di fiducia, avv.to Alfio Grasso, che non aveva ricevuto l’avviso di fissazione dell’udienza stessa, sebbene giek, designato in precedenza e destinatario della notificazione dei provvedimento dell’1 luglio 2020.

3. Con requisitoria scritta il Procuratore Generale, Dott.ssa Assunta Cocomello, ha chiesto l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata per la fondatezza del secondo motivo di ricorso.

Motivi della decisione
Il ricorso è fondato e va dunque accolto.

1. Il secondo motivo di ricorso assume valore dirimente ed assorbente rispetto alla ulteriore doglianze di cui al primo motivo. Risulta dalla documentazione agli atti, resa accessibile a questo giudice di legittimità per la natura processuale della questione dedotta, che l’avv.to Alfio Grasso del foro di Catania con studio professionale in (OMISSIS), designato difensore di fiducia del R., non aveva ricevuto la notificazione dell’avviso di fissazione dell’udienza camerale del 14 ottobre 2020, in quanto l’atto era stato inoltrato a mezzo posta elettronica ad altro legale omonimo, avente però studio in (OMISSIS), con indirizzo pec (OMISSIS), diverso da quello del legale designato difensore di fiducia, che è “(OMISSIS)”. La notificazione dunque era stata compiuta nei confronti di un avvocato reperibile ad un diverso indirizzo, sia in senso fisico quale recapito professionale, sia in senso telematico ai fini dell’impiego della posta elettronica certificata senza che chi aveva ricevuto l’avviso avesse un qualsiasi collegamento professionale con il condannato che aveva rivolto la propria richiesta al Tribunale di sorveglianza. L’udienza si era poi celebrata alla presenza di un difensore d’ufficio prontamente reperito.

2. La trattazione del procedimento in assenza del difensore di fiducia ha pregiudicato l’effettività dell’esercizio del diritto di difesa da parte del legale prescelto dal condannato. Tanto è causa di nullità assoluta degli atti processuali e dell’ordinanza impugnata, secondo quanto già affermato anche dalle Sezioni Unite di questa Corte, per le quali “L’omesso avviso dell’udienza al difensore di fiducia tempestivamente nominato dall’imputato o dal condannato, integra una nullità assoluta ai sensi dell’art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 179 c.p.p., comma 1, quando di esso è obbligatoria la presenza, a nulla rilevando che la notifica sia stata effettuata al difensore d’ufficio e che in udienza sia stato presente un sostituto nominato ex art. 97 c.p.p., comma 4, (In motivazione, la Suprema Corte ha, in particolare, evidenziato che ove, in presenza di una rituale e tempestiva nomina fiduciaria effettuata dall’interessato, il giudice proceda irritualmente alla designazione di un difensore d’ufficio, viene ad essere leso il diritto dell’imputato “ad avere un difensore di sua scelta”, riconosciuto dall’art. 6, comma 3 lett. c), della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo)” (Sez. U, n. 24630 del 26/03/2015, Maritan, Rv. 263598).

Ne discende l’annullamento del provvedimento impugnato con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Catania che dovrà pronunciarsi previa instaurazione rituale del contraddittorio con la difesa del condannato.

P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Catania.

Così deciso in Roma, il 24 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 aprile 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 26-11-2020) 24-02-2021, n. 4987

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. PERRINO Angelina M. – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. CHIESI Gian A. – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10610-2017 proposto da:

RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. – AGENTE DELLA RISCOSSIONE PER LE PROVINCE SICILIANE, in persona del legale rappresentante p.t. (C.F. (OMISSIS)), rapp. e dif., in virtù di procura speciale in calce al ricorso, dall’AVV. SABRINA LIPARI, unitamente alla quale è dom.ta ope legis presso la CANCELLERIA della CORTE DI CASSAZIONE;

– ricorrente –

contro

P.G., elett.te dom.to in SIRACUSA, alla Via MONS. S. GOZZO, n. 5/D, presso lo studio del Dott. ROBERTO ZAPPALA;

– intimato –

nonché:

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore p.t., legale rappresentante, dom.to in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI, n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rapp. e dif.;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3520/16/16 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della REGIONE SICILIANA, sez. st. di SIRACUSA, depositata l’11/10/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 26/11/2020 dal Consigliere Dott. GIAN ANDREA CHIESI.

Svolgimento del processo
che P.G. impugnò, innanzi alla C.T.P. di Siracusa, 42 cartelle di pagamento;

che l’adita Commissione, con sentenza 379/04/13, dichiarato in via preliminare il difetto di giurisdizione rispetto alle cartelle di pagamento relative a carichi contributivi I.N.P.S. ed a sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada, rigettò, con rifermento alle residue cartelle – recanti carichi tributari – il ricorso del contribuente;

che tale decisione fu appellata da P.G. innanzi alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. st. di Siracusa, la quale, con sentenza 3520/16/16, depositata l’11.10.2016, accolse il ricorso rilevando – per quanto in questa sede ancora interessa – come, relativamente alle cartelle di pagamento notificate a mani del portiere dello stabile di residenza del contribuente, l’Ufficio non avesse dato prova di avere provveduto all’invio, al P., dell’avviso di avvenuta consegna della notifica a mani del portiere a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento, così violando l’art. 139 c.p.c., comma 4;

che avverso tale decisione la RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. ha quindi proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi; si è costituita, con controricorso di tenore adesivo, l’AGENZIA DELLE ENTRATE, mentre è rimasto intimato il P..

Motivi della decisione
che con il primo motivo parte ricorrente lamenta (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e dell’art. 139 c.p.c., per avere la C.T.R. ritenuto nulla la notifica delle cartelle di pagamento concernenti i carichi tributari, per difettare la prova dell’avvenuto inoltro, al contribuente, della comunicazione di cui al dell’art. 139 cit., comma 4, mediante raccomandata con avviso di ricevimento;

che il motivo è fondato;

che l’art. 139 c.p.c. prevede, ai suoi commi 3 e 4, che “in mancanza delle persone indicate nel comma precedente” e, cioè, del destinatario di persona, oppure di una persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda (purché non minore di quattordici anni o non palesemente incapace) – “la copia è consegnata al portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda…”: nel qual caso, “il portiere…deve sottoscrivere una ricevuta, e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”;

che la norma, dunque, non dissimilmente da quanto previsto dall’art. 660 c.p.c., u.c., prescrive – a pena di nullità della notifica (cfr., da ultimo, Cass., Sez. U, 31.7.2017, n. 18992, Rv. 645134-01) – la mera spedizione dell’avviso in questione, senza che sia necessaria, altresì, la prova della sua ricezione da parte del destinatario: tant’è che il tempo di perfezionamento della notifica stessa si identifica con quello della consegna dell’atto alla persona comunque inserita nella sfera di conoscibilità del destinatario (e non con quello della ricezione dell’avviso da parte del destinatario), sia pure stavolta latamente intesa, siccome identificata in base ora ai rapporti giuridici nascenti dal portierato in un fabbricato per civili abitazioni ed agli obblighi in capo al portiere in favore dei singoli occupanti, ora a quei rapporti non più giuridici, ma comunque di solidarietà sociale, che si presume si intrattengano, se non con i vicini, almeno e se non altro col vicino che liberamente e spontaneamente accetti di ricevere la copia dell’atto per curarne poi la materiale consegna (cfr., da ultimo, Cass., Sez. U, 31.7.2017, n. 18992, Rv. 645134-01, cit.);

che, nel ritenere al contrario necessario, ai fini della validità della notifica delle cartelle di pagamento in questione, l’avvenuto inoltro, al P., della comunicazione di cui all’art. 139 c.p.c., comma 4, mediante raccomandata con avviso di ricevimento, la C.T.R. ha dunque disatteso tali principi;

che con il secondo motivo parte ricorrente si duole (in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), della violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la C.T.R. esteso la propria cognizione alla validità (nella specie, negata) della notifica di sette cartelle di pagamento, diverse da quelle portanti carichi tributari, nonostante la questione fosse coperta dal giudicato interno formatosi sul difetto di giurisdizione dichiarato, rispetto ad esse, dalla C.T.P.;

che il motivo è inammissibile;

che dalla motivazione della sentenza impugnata non è dato comprendere a quali cartelle di pagamento faccia riferimento la C.T.R., allorchè afferma che “l’ufficio…non ha prodotto le (relative) recate di notifica”; nè, a ben vedere, parte ricorrente ha trascritto, ai fini della specificità del motivo di ricorso (cfr. l’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), l’atto di appello del P., così precludendo al Collegio di valutare (a) se effettivamente sulla questione di giurisdizione si era formato il dedotto giudicato interno, nonchè (b) a quali cartelle era conseguentemente limitato l’effetto devolutivo dell’appello e, infine, (c) se quelle in questione erano cartelle rientranti o meno tra quelle ancora soggette alla giurisdizione della giudice tributario (arg. da Sez. 1, 2.2.2017, n. 2771, Rv. 643715-01); che l’accoglimento del primo motivo di ricorso determina la cassazione della impugnata decisione e rinvio alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. dist. di Siracusa, in diversa composizione, anche ai fini della liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, con conseguente assorbimento del terzo mezzo di gravame, con il quale parte ricorrente si è doluta della erronea ripartizione dell’onere delle spese di lite, in primo come in secondo grado, in quanto la relativa censura è diretta contro una statuizione che, per il suo carattere accessorio, è destinata ad essere travolta dall’annullamento che viene disposto della sentenza impugnata, a seguito del quale la liquidazione delle spese delle precorse fasi del giudizio va effettuata dal giudice di rinvio, tenendo conto dell’esito finale del giudizio (Cass., Sez. 6-2, 6.2.2017, n. 3069, Rv. 642575-01).

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il secondo ed assorbito il terzo. Per l’effetto, cassa la gravata sentenza e rinvia alla C.T.R. della Regione Siciliana, sez. st. di Siracusa, in diversa composizione, affinché si attenga ai principi che precedono e liquidi, altresì, le spese del presente giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Civile Tributaria, il 26 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2021


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 10/11/2020) 23/02/2021, n. 4920

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25755/2018 proposto da:

Z.L., + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dall’avvocato FATIMA CILLO, ed elettivamente domiciliati presso lo studio della medesima in Cervinara via Sirio n. 10, pec: nicola.valente.avvecatiavellinopec.it;

– ricorrenti –

contro

VODAFONE ITALIA SPA, (già VODAFONE OMNITEL BV), in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLA LIMATOLA, e ALESSANDRO LIMATOLA, ed elettivamente domiciliato in ROMA, presso lo studio dei medesimi in VIA NOMENTANA 257, pec: notifiche.limatolaavvocati.it;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 259/2018 del TRIBUNALE di AVELLINO, depositata il 12/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/11/2020 dal Consigliere Dott. ANNA MOSCARINI.

Svolgimento del processo
che:

1. Il di Pace di Cervinara, con sentenza n. 338 del 2016, pronunciando su cause riunite proposte da vari soggetti titolari di utenze telefoniche Vodafone nei confronti del gestore per i disservizi verificatisi nel (OMISSIS) tra il (OMISSIS) in conseguenza di fortissime nevicate abbattutesi sulla zona, con sentenza n. 16 del 24/6/2016, accolse le domande ritenendo che le interruzioni ingiustificate e senza preavviso costituissero fonte di responsabilità, in assenza di prova, da parte dell’operatore telefonico, di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, danno che, a fronte di un evento costituito da un disservizio dovuto a fatto atmosferico eccezionale, si era concretizzato nel non essersi il gestore attivato tempestivamente per ripristinare il servizio. Il giudice riconobbe agli attori delle somme che liquidò in via equitativa.

Vodafone propose appello rappresentando che il non esatto adempimento della prestazione era dipeso da impossibilità derivante da causa a sè non imputabile ed in particolare dalle reiterate e prolungate interruzioni dell’energia elettrica causate dalle eccezionali avverse condizioni atmosferiche dovute a nevicate abnormi.

2. Il Tribunale di Avellino, con sentenza n. 259 del 12/2/2018, ha accolto la tesi dell’appellante ritenendo esistente una ipotesi di sopravvenuta impossibilità della prestazione, ai sensi dell’art. 1256 c.c., dovuta ad eventi di forza maggiore talmente gravi da trovare ampio risalto nelle testate giornalistiche e nei mezzi di informazione e da richiedere l’intervento della Protezione Civile. Tali eventi, connotati da imprevedibilità, eccezionalità e gravità, avevano interrotto il nesso eziologico tra l’evento ed il danno sofferto dalla clientela, anche alla luce della previsione contenuta nelle condizioni generali di contratto, di una clausola di esonero da responsabilità del gestore per i casi in cui il servizio non fosse erogabile per motivi di forza maggiore. Anche l’espressa accettazione da parte degli utenti di tale clausola corroborava la tesi dell’esonero del gestore da responsabilità ai sensi dell’art. 1218 c.c..

3. Avverso la sentenza, che ha altresì posto a carico degli utenti le spese del doppio grado, Z.L. ed altri hanno proposto ricorso per cassazione sulla base di quattro motivi. Ha resistito la Vodafone con controricorso.

4. La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Il Collegio ritiene necessario esaminare prioritariamente una questione preliminare afferente alla validità della comunicazione di cancelleria -relativa alla presente adunanza – al legale difensore dei ricorrenti. Il difensore domiciliatario avvocato Fatima Cillo ha indicato nel ricorso il proprio codice fiscale ai sensi dell’art. 125 c.p.c., sicchè si era domiciliata automaticamente nel proprio indirizzo di PEC figurante obbligatoriamente nel Reginde. Sicchè, come era necessario a norma del combinato disposto dell’art. 366 c.p.c., u.c. e art. 136 c.p.c., comma 2, la Cancelleria ha proceduto all’individuazione della PEC dello stesso difensore nel Reginde (fatima.cilio.avvocatiavellinopec.it) ed ha eseguito presso la relativa casella la comunicazione dell’avviso di fissazione dell’adunanza. La comunicazione dell’avviso, tuttavia, è stata rifiutata dalla relativa casella di PEC dell’Avvocato Cillo (la Cancelleria ha attestato che la PEC è tornata sempre negativa) e la Cancelleria (peraltro dopo avere inutilmente tentato di telefonare allo studio dell’avvocato, con il risultato che il numero dava sempre occupato) ha proceduto ad eseguire la comunicazione a mezzo posta, ma essa è risultata tardiva, cioè si è perfezionata l’8 ottobre 2020 e, dunque, senza l’osservanza del termine a difesa rispetto all’odierna adunanza.

Ritiene il Collegio, peraltro, che detto ulteriore adempimento di cancelleria, di fronte al rifiuto della prima tempestiva comunicazione da parte della casella di PEC del detto difensore, non risultava necessario, in quanto la comunicazione inviata e non andata a buon fine nella PEC del Reginde dell’Avvocato Cillo si deve ritenere non perfezionata per fatto imputabile al legale, inerente allo stato di detta casella di PEC, e dunque equivalente ad un rifiuto della stessa.

A supporto di tale conclusione si pone la giurisprudenza di questa Corte relativa alla necessaria “non imputabilità” al difensore dell’esito negativo della comunicazione alla sua casella di PEC (si vedano: Cass., 6-3, n. 3164 dell’11/2/2020: “La notificazione di un atto eseguita ad un soggetto, obbligato per legge a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata si ha per perfezionata con la ricevuta con cui l’operatore attesta di aver rinvenuto la casella Pec del destinatario “piena”, da considerarsi equiparata alla ricevuta di avvenuta consegna, in quanto il mancato inserimento nella casella di posta per saturazione della capienza rappresenta un evento imputabile al destinatario, per l’inadeguata gestione dello spazio per l’archiviazione e la ricezione di nuovi messaggi”; Cass., 6-5, n. 3965 del 18/2/2020: “la mancata consegna all’avvocato della comunicazione o notificazione inviatagli a mezzo posta elettronica certificata produce effetti diversi a seconda che gli sia o meno imputabile: nel primo caso le notificazioni/comunicazioni saranno eseguite esclusivamente mediante deposito in cancelleria; nel secondo attraverso l’utilizzo delle forme ordinarie previste dal codice di rito”).

La tardività della comunicazione a mezzo posta, dunque, non essendo dovuta tale ulteriore comunicazione è rimasta irrilevante.

Il Collegio rileva, inoltre, che nel ricorso l’Avvocato Pillo, che non aveva indicato la propria PEC, ma, come s’è detto, aveva indicato il proprio codice fiscale, così rendendola individuabile nel Reginde, si era domiciliata in (OMISSIS) ed aveva inoltre, senza però indicare di volervisi domiciliare, espressamente dichiarato “per le comunicazioni i seguenti recapiti”, facendo riferimento ad una PEC riferibile ad altro avvocato e ad un fax. Poichè detto avvocato, le cui generalità emergevano appunto solo dalla PEC, non risultava nè in procura nè come domiciliatario, il Collegio ritiene di doversi interrogare sul se l’unico difensore esercente in questa sede il ministero, cioè l’Avvocato Cillo, abbia inteso indicare come proprio domicilio la PEC di quell’altro difensore e, in caso di risposta positiva, sul se tale ipotetica domiciliazione si potesse ritenere idonea.

Il Collegio rileva che l’indicazione mancava e che, di fronte al chiaro tenore del già richiamato combinato disposto dell’art. 366, u.c. e soprattutto art. 136, comma 2, là dove si fa riferimento alla trasmissione del biglietto di cancelleria relativo alle comunicazione “a mezzo posta elettronica certificata, nel rispetto della normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici”, se quell’indicazione vi fosse stata sarebbe stata inefficace.

Poichè l’ordinamento prevede che l’individuazione del difensore destinatario della comunicazione di cancelleria avvenga automaticamente, cioè al di là della indicazione espressa della PEC, attraverso la ricerca nell’apposito registro, si deve ritenere che una domiciliazione presso PEC di un difensore diverso da quello che esercita il ministero difensivo possa avvenire solo se a tale difensore si attribuisca la qualifica di domiciliatario, mentre si deve escludere che il difensore esercente il patrocinio possa indicare per le comunicazioni la PEC di altro soggetto, pur esercente la professione di avvocato, senza qualificarlo come domiciliatario. Se non sia indicato, come nel caso di specie, il conferimento della qualità di domiciliatario, sebbene agli effetti digitali, la mera indicazione di una PEC riferibile ad un avvocato diverso da quello esercente il patrocinio con la mera dichiarazione di voler ricevere ad essa le comunicazioni, si risolve in una sorta di legittimazione dell’unico difensore ad indicare una PEC diversa da quella a lui riferibile secondo gli appositi registri e ciò senza una chiara assunzione di responsabilità qual è quella sottesa ad una dichiarazione di domiciliazione.

Il Collegio ritiene, dunque, che nulla osti alla trattazione.

2. Parte resistente ha pregiudizialmente sollevato l’eccezione di inammissibilità del ricorso per inesistenza o nullità della procura speciale per difetto dello ius postulandi assumendo che, pur risultando la procura speciale spillata all’originale del ricorso, non vi sarebbe traccia della suddetta procura nella copia notificata del ricorso, non essendo sufficiente l’attestazione dell’ufficiale giudiziario della conformità della copia all’originale.

L’eccezione è infondata in quanto è da preferire l’orientamento più recente della giurisprudenza di questa Corte secondo il quale “La mancata trascrizione, sulla copia del ricorso per cassazione notificato, degli estremi della procura speciale conferita dal ricorrente al difensore, non determina l’inammissibilità del ricorso ove la procura sia stata rilasciata con dichiarazione a margine, o in calce al ricorso, in quanto in tal caso l’intimato, con il deposito del ricorso in cancelleria, è posto in grado di verificare l’anteriorità del rilascio della procura rispetto alla notificazione dell’atto di impugnazione (Cass., L, n. 16540 del 19/7/2006)”.

3. Parte resistente ha altresì sollevato un’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di autosufficienza ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 6, assumendo la mescolanza di elementi di fatto e di diritto, l’assenza di indicazione degli atti processuali su cui il ricorso si fonda, etc. 3.1. L’eccezione è certamente fondata quanto meno con riguardo al primo motivo di ricorso con il quale si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 74 disp. att. c.p.c., u.c., art. 87 disp. att., artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 5. Si assume che il Tribunale abbia basato la sentenza su una serie di documenti che non erano stati regolarmente depositati e che non avrebbero dovuto essere presi in considerazione, avendo la Vodafone solo tardivamente ottenuto di ricostruire il proprio fascicolo in spregio alle normative vigenti.

Il motivo è inammissibile per difetto del requisito della indicazione specifica degli atti fondanti ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto non pone questa Corte in condizioni di esaminare la censura, essendosi omesso di indicare gli atti processuali nei quali i ricorrenti abbiano trattato la questione nei gradi di merito, nonchè di indicare i verbali dai quali poter desumere la tardività della richiesta e perfino il fatto storico – negato da parte resistente – dell’avvenuta ricostruzione del fascicolo di parte.

4. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1256, 2697 c.c., assumendo che la sentenza impugnata abbia illegittimamente ritenuto esistente la causa di forza maggiore anzichè argomentare nel senso, dai ricorrenti auspicato, dell’inconfigurabilità di una causa sopravvenuta di impossibilità della prestazione non potendo una nevicata in zona montana costituire, in pieno inverno, un evento atmosferico eccezionale. Nel caso di specie l’impossibilità assoluta della prestazione non sarebbe stata dimostrata dalla Vodafone e l’effetto estintivo dell’obbligazione avrebbe dovuto coincidere con un fatto totalmente estraneo alla sfera di controllo dell’operatore. Il Tribunale non avrebbe neppure ottemperato al principio di riparto dell’onere probatorio perchè avrebbe automaticamente desunto l’impossibilità sopravvenuta della prestazione dalla eccezionale nevicata verificatasi nella valle.

5. Con il terzo motivo di ricorso – omessa pronunzia e violazione degli artt. 1218, 1710, 1176 c.c. e art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 – i ricorrenti censurano la sentenza per non aver motivato sulla diligenza o meno della condotta tenuta dall’operatore telefonico nel momento in cui venne a conoscenza dell’interruzione. Assumono che l’operatore, una volta venuto a conoscenza dell’evento interruttivo, avrebbe dovuto comunicare tempestivamente al cliente l’impossibilità di eseguire la prestazione adottando provvedimenti atti a contenere i danni.

6. I due motivi possono essere trattati congiuntamente per ragioni di connessione e sono entrambi inammissibili in quanto volti a sollecitare questa Corte ad un riesame dei fatti e delle prove e perchè non correlati alla ratio decidendi. L’impugnata sentenza ha, infatti, ragionato facendo riferimento all’impossibilità sopravvenuta della prestazione, alla diligenza tenuta dall’operatore e al factum principis che ha impedito il pieno ripristino di un servizio comunque erogato anche in situazione emergenziale, sia pur in modo non ottimale.

I ricorrenti, anzichè aggredire adeguatamente la ratio decidendi, si limitano a sostenere che il Tribunale abbia errato nel non presumere la colpa dell’operatore come argomentato da questa Corte con sentenza Cass., 3 n. 11914 del 10/6/2016, con la quale si è affermato che, in relazione ai rapporti contrattuali concernenti le utenze telefoniche, i doveri di diligenza e buona fede nell’esecuzione del contratto impongono all’impresa esercente servizi di telefonia di comunicare tempestivamente al proprio cliente l’impossibilità di eseguire la prestazione e di adottare gli opportuni provvedimenti al fine del contenimento dei danni.

La sentenza impugnata, come si è illustrato, ha dato atto della presenza di una causa di forza maggiore e dell’assenza di colpa in capo all’operatore telefonico che, pur sorpreso da un evento eccezionale, fece in modo di garantire nei limiti del possibile il funzionamento del servizio. Questa specifica ratio decidendi non è espressamente impugnata sicchè da ciò si trae conferma della inammissibilità del motivo.

6. Con il quarto motivo di ricorso – violazione e falsa applicazione degli artt. 1226 e 2059 c.c. e art. 112 c.p.c. – i ricorrenti censurano il capo di sentenza che ha ritenuto i danni neppure provati nell’an e nel quantum assumendo che la quantificazione avrebbe dovuto essere compiuta, come fatto dal giudice di prime cure, sulla base di presunzioni fondate su nozioni di comune esperienza.

5.1 Il motivo resta assorbito per la sorte dei precedenti e comunque sarebbe stato, se scrutinabile, infondato in quanto, sia per il danno patrimoniale sia per quello non patrimoniale, l’attore avrebbe dovuto fornire ed allegare la prova degli elementi costitutivi del medesimo e cioè sia del danno sia del nesso causale, non potendosi ovviare a tale onere nè nel caso di liquidazione equitativa (Cass., 26/2/2003 n. 2874) nè nel caso specifico del contratto di utenza telefonica rispetto al quale la giurisprudenza di questa Corte ha già richiesto in modo espresso la prova del danno, non potendo, dall’esistenza e dall’entità del disservizio, trarsi in via presuntiva la dimostrazione dell’effettivo verificarsi di un pregiudizio risarcibile (Cass., 3, n. 27609 del 29/10/2019).

6. Il Collegio rileva, inoltre, che il presente ricorso presenta la medesima struttura di altro ricorso proposto dallo stesso difensore e deciso con l’ordinanza n. 31921 del 2018, sostanzialmente con considerazioni non dissimili da quelle che qui si sono enunciate.

7. Conclusivamente il ricorso va rigettato ed i ricorrenti condannati a pagare le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo. Si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, del cd. “raddoppio” del contributo unificato, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 1800 (oltre Euro 200 per esborsi), più accessori di legge e spese generali al 15%. Si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 10 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2021


Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 09/11/2020) 10/02/2021, n. 3318

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9497-2018 proposto da:

FTS DI F.R. & C SNC, rappresentata e difesa da MASSIMO CECCANTI;

– ricorrenti –

e contro

PREFETTURA UTG ALESSANDRIA, AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (OMISSIS);

– intimati-

avverso la sentenza n. 831/2017 del TRIBUNALE di ALESSANDRIA, depositata il 13/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 09/11/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCA FIECCONI.

Svolgimento del processo
che:

1. Con ricorso notificato il 12/3/2018, avverso la sentenza n. 831/2017 del Tribunale di Alessandria, pubblicata in data 13/9/2017 e non notificata, la “F.T.S. Di F.R. & C. s.n.c.” propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. La Prefettura – U.T.G. di Alessandria e l’Agenzia delle Entrate – Riscossione (già Equitalia Nord s.p.a.), intimate, non hanno svolto difese in questa sede.

2. La società qui ricorrente “F.T.S. Di F.R. & C. s.n.c.” deduce di avere ricevuto un verbale di accertamento della violazione del C.d.S. dalla Polizia Stradale di Alessandria, avverso il quale essa aveva proposto ricorso per via gerarchica interna al Prefetto di Alessandria ex art. 203 C.d.S., senza tuttavia ricevere regolare notificazione dell’ingiunzione che è seguita dal rigetto di quel procedimento. Equitalia Nord s.p.a., difatti, aveva notificato alla società una cartella esattoriale intimando il pagamento del credito sotteso al verbale di contravvenzione. Talchè, avverso la cartella, la società proponeva opposizione, cd. “recuperatoria”, ai sensi dell’art. 205 C.d.S., dinanzi al Giudice di Pace di Alessandria, deducendo di non aver mai ricevuto l’atto presupposto, vale a dire l’ordinanza ingiunzione prefettizia, posto che la cartella notificata faceva riferimento solo al rigetto del ricorso da parte del Prefetto; instava, dunque, per l’annullamento della cartella esattoriale per insussistenza del titolo per l’iscrizione a ruolo della sanzione, essendo mancata la notifica dell’ordinanza del Prefetto con cui avrebbe dovuto essere definito il ricorso gerarchico interno de quo. Il GdP rigettava l’opposizione.

3. Avverso la sentenza, l’opponente ha proposto gravame dinanzi al Tribunale di Alessandria che rigettava l’appello ritenendo che la Prefettura avesse provato la rituale notifica dell’ordinanza ingiunzione, in specie, producendo in primo grado copia dell’avviso di ricevimento della raccomandata ordinaria A.R. che, presumibilmente, conteneva il titolo in discussione assumendo che, pertanto, sarebbe stato onere dell’appellante fornire prova del suo reale contenuto, che in tesi era riferito alla nota, a firma del commissario capo, con la quale era stato reso noto il rigetto del ricorso gerarchico proposto avverso il verbale di accertamento.

Inoltre, il Tribunale ha rilevato che le considerazioni svolte dall’appellante in ordine alla correttezza formale del procedimento notificatorio attengono ad una eventuale nullità della notifica, comunque sanabile per raggiungimento dello scopo.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo si denuncia la “Nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 82 c.p.c., comma 3, art. 166 c.p.c., art. 171 c.p.c., comma 3, art. 182 c.p.c., comma 2 e art. 91 c.p.c., comma 1 (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)”. La società ricorrente adduce che Equitalia Nord s.p.a. ha partecipato al giudizio dinanzi al Tribunale “con patrocinio della delegata L.P. e del Dott. Z.G.P.” che non esercitavano, nè esercitano, la professione di avvocato, in violazione dell’art. 82 c.p.c., comma 3, per cui “davanti al tribunale e alla corte d’appello le parti debbono stare in giudizio col ministero di un procuratore legalmente esercente”. Pertanto, Equitalia sarebbe rimasta a tutti gli effetti contumace nel giudizio di secondo grado, non avendo provveduto il Tribunale a sanare tale vizio di costituzione, nè a dichiararne la contumacia ex art. 171 c.p.c., comma 3.

1.1. Il motivo è inammissibile per manifesta infondatezza. Nel caso in questione la denunciata violazione riguarda la condanna alle spese ricevuta dal ricorrente ed è relativa a una difesa in tesi espletata in assenza di regolare mandato alle liti, tale da far ritenere contumace la parte così rappresentata, e non involge una denuncia riguardo all’erronea quantificazione delle spese di lite. Sul punto va osservato che Equitalia, nell’espletamento delle proprie difese, per regola generale, può avvalersi di propri dipendenti delegati, che possono stare in giudizio personalmente (D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, art. 1, comma 8; D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 11, comma 2). Sul punto, anche da ultimo, si sono espresse le Sezioni Unite di questa Corte sancendo che per l’Agenzia delle Entrate-Riscossione, pur potendo avvalersi in specifici casi dell’Avvocatura dello Stato nonchè degli avvocati del libero foro, resta impregiudicata la sua generale facoltà di avvalersi anche di propri dipendenti innanzi al tribunale e al giudice di pace (Cass., Sez. U, Sentenza n. 30008 del 19/11/2019).

2. Con il secondo motivo si deduce la “Violazione e/o falsa applicazione del D.M. giustizia n. 55 del 2014 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3)” ove sono state liquidate le spese di lite, per ciascuna delle convenute (Prefettura e Agenzia delle Entrate), nella misura Euro 1.618,00, nonostante il valore della controversia fosse di Euro 583,00 e quindi in misura eccedente rispetto ai parametri massimi indicati nel D.M. giustizia n. 55 del 2014, applicabile ratione temporis, per una controversia rientrante nello scaglione di valore che va da Euro 0,01 a Euro 1.100,00.

2.1. Il motivo è fondato. Le spese di lite sono state liquidate con parametri eccessivi rispetto ai massimi tabellari. In assenza di una nota spese, anche applicando gli aumenti di cui al D.M. n. 55 del 2014, art. 4 la somma complessiva massima (per tutte le fasi) è pari a Euro 1.172,00 per le controversie di valore non superiore a Euro 1.100,00. Sul punto, poi, deve precisarsi che in ordine ai compensi professionali dell’avvocato riconosciuti a dipendenti della pubblica amministrazione privi di tale qualità, la Legge di stabilità 2012 e, in particolare, la L. 12 novembre 2011, n. 183, art. 4, comma 42, titolato “Liquidazione di spese processuali”, che ha introdotto l’art. 152-bis disp. att. c.p.c., prevede una riduzione del 20 per cento degli onorari di avvocati ivi previsti (…)”. La giurisprudenza di legittimità, di recente (Cass., Sez. L -, Ordinanza n. 19034 del 16/7/2019; Sez. L -, Sentenza n. 9878 del 9/4/2019), ha esteso l’applicabilità del citato art. 152-bis disp. att. c.p.c. anche ai giudizi per prestazioni assistenziali in cui l’Inps si avvalga della difesa diretta D.L. n. 203 del 2005, ex art. 10, comma 6, in quanto le due disposizioni sono accomunate dalla finalità di migliorare il coordinamento e la gestione del contenzioso da parte delle amministrazioni nei gradi di merito, affidando l’attività di difesa nei giudizi in modo sistematico a propri dipendenti. Alla luce della ratio sottesa a tale estensione, deve ritenersi che la disposizione di cui all’art. 152-bis cit. debba applicarsi anche ai dipendenti delegati dall’Agenzia dell’Entrate-Riscossione alla sua rappresentanza e difesa in giudizio, talchè – nel presente procedimento – gli onorari di difesa a favore dei dipendenti patrocinanti l’ente della riscossione avrebbero dovuto essere tutt’al più ridotti nella misura del 20% rispetto agli onorari di avvocato, e non certamente aumentati.

3. Con il terzo motivo si denuncia la “Nullità della sentenza per omessa motivazione (ovvero motivazione apparente), nonchè violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per aver ritenuto che, in virtù del fatto che sull’avviso di ricevimento della raccomandata ordinaria AR inviata alla società era indicato “(OMISSIS)” si dovesse presumere che il contenuto fosse riferito alla l’ordinanza ingiunzione identificata a mezzo del numero di protocollo, fino a prova contraria incombente Alla parte opponente. Si adduce di avere fornito prova contraria, producendo non solo la busta citata, ma anche il suo contenuto, ossia la nota del 7 aprile 2010, a firma del commissario capo, con la quale era stato reso noto il rigetto del ricorso gerarchico proposto avverso il verbale di accertamento presupposto. Pertanto, il giudice avrebbe violato l’art. 115 c.p.c. per non aver tenuto nella giusta considerazione tale documentazione, nonchè l’art. 116 c.p.c. che gli impone di valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, salvo che la legge disponga altrimenti. E, nel caso di specie, la legge descrive esattamente gli atti e i documenti che devono sorreggere la prova di un’avvenuta notificazione: l’art. 204 C.d.S., comma 2 e art. 201 C.d.S., comma 3, in combinato disposto con la L. n. 890 del 1982, art. 3 prevedono che l’ordinanza ingiunzione venga “notificata” e non meramente “comunicata”, nonchè le formalità specifiche da osservare ove tale notifica avvenga a mezzo del servizio postale. In aggiunta, si deduce che l’annotazione “(OMISSIS)” apposta sulla presunta “notificazione” dell’ordinanza ingiunzione (non solo non corrispondeva al numero di protocollo dell’ordinanza ingiunzione (che avrebbe dovuto essere “(OMISSIS)”), ma era stata inserita nella sezione dedicata all’indirizzo del mittente e, dunque, era indicativa di una aggiunta postuma.

4. Con il quarto motivo si censura la “Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 115, 116 e 156 c.p.c., nonchè falsa applicazione dell’art. 204 C.d.S., comma 2 e art. 201 C.d.S., comma 3, e della L. n. 890 del 1982, art. 3 ovvero nullità della sentenza in quanto sorretta da motivazione apparente (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4)” in quanto la raccomandata ricevuta rappresenterebbe una “comunicazione” piuttosto che una rituale “notificazione” e, dunque, neppure potrebbe ritenersi che la sua nullità possa essere sanata ex art. 156 c.p.c. In ogni caso, non sarebbe comunque dimostrato che avesse raggiunto il suo scopo; difatti, con l’opposizione al GdP la società non avrebbe affatto impugnato l’ordinanza ingiunzione, bensì la cartella esattoriale emessa da Equitalia, in quanto unico atto del quale aveva avuto effettiva conoscenza.

5. Con il terzo e quarto motivo il ricorrente prospetta anche il vizio di motivazione apparente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 senza, tuttavia, confrontarsi con la giurisprudenza di questa Corte in tema di opposizione a cartella esattoriale, per quanto si dirà in seguito. Tanto dedotto, la ricorrente conclude che, in difetto di rituale notificazione dell’ordinanza ingiunzione, l’obbligazione pecuniaria si sarebbe estinta e, di conseguenza, la cartella esattoriale risulterebbe invalida.

5.1. Il terzo ed il quarto motivo sono trattati congiuntamente in quanto intimamente connessi: essi sono entrambi inammissibili per difetto di interesse del ricorrente a far valere detto vizio, ex art. 100 c.p.c..

5.2. Il giudice, senza nulla aggiungere in riferimento al caso concreto, si è attestato sulla giurisprudenza consolidata (Cass., Sez. U -, Sentenza n. 22080 del 22/9/2017; Sez. 3 -, Sentenza n. 16282 del 4/8/2016; Sez. 1, Sentenza n. 9180 del 20/4/2006), in base alla quale l’opposizione alla cartella esattoriale può avere funzione recuperatoria e, pertanto, consente all’interessato di recuperare il mezzo di tutela previsto dalla legge avverso l’atto presupposto solo allorchè la cartella sia stata effettivamente il primo atto attraverso cui l’interessato è venuto a conoscenza della pretesa sanzionatoria. Sotto questo profilo, la rituale notificazione a mezzo del servizio postale del verbale di accertamento della violazione amministrativa e della conseguente ordinanza – ingiunzione, ai sensi della L. 24 novembre 1981, n. 689, artt. 14 e 18 attestata dai rispettivi avvisi di ricevimento, implica la conoscenza legale di tali atti in capo al destinatario, dovendosi, pertanto, escludere che spetti al mittente l’onere di fornire la prova anche del contenuto del plico notificato (Sez. 2, Sentenza n. 13259 del 26/07/2012).

5.3. Va tuttavia preliminarmente osservato che, proprio perchè l’azione ha valore recuperatorio, nella formulazione della censura si omette di indicare la ragione per cui l’atto di accertamento dell’infrazione al Codice della Strada, per quanto notificato con un contenuto diverso da quello indicato nel frontespizio dal mittente, sarebbe illegittimo e da contestare nel merito, nonostante il rigetto del ricorso amministrativo interno (fatto del tutto pacifico). Ed invero anche di recente, il giudice di legittimità ha avuto modo di precisare che “Il destinatario di una cartella di pagamento emessa in base ad un verbale di accertamento per violazioni al codice della strada, che si assume regolarmente notificato, ove proponga opposizione, invocando l’annullamento della cartella quale conseguenza della omissione, invalidità assoluta ovvero inesistenza della notificazione del verbale presupposto, non può che limitarsi a denunciare il vizio invalidante detta notifica, non potendo fare valere in tal sede anche vizi che attengono al merito della pretesa sanzionatoria, la cui allegazione è, al contrario, necessaria qualora sia proposta un’opposizione, riconducibile al cit. D.Lgs. n. 150, art. 6 a cartella di pagamento fondata su un’ordinanza ingiunzione che si assuma illegittimamente notificata, giacchè l’emissione di siffatta ordinanza implica che il verbale di accertamento presupposto sia stato legittimamente contestato o notificato al trasgressore il quale, perciò, ha avuto cognizione anche degli aspetti attinenti al merito dell’esercitata pretesa sanzionatoria (Cass., Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 11789 del 6/5/2019).

5.4. Tale omessa deduzione non consente di ritenere ammissibile la proposta opposizione.

5.5. Alla stregua di quanto sopra, deve affermarsi il seguente principio: “in caso di opposizione alla cartella esattoriale per omessa regolare notifica dell’ordinanza ingiunzione, riguardante una sanzione amministrativa irrogata, proposta in via recuperatoria (nel senso indicato da SU 22080 del 22/9/2017), è onere del ricorrente che ha proposto ricorso gerarchico interno avverso l’accertamento dell’infrazione amministrativa notificata, dedurrei non solo l’omessa regolare notifica dell’atto costituente la premessa dell’emissione della cartella esattoriale (appunto, della ordinanza ingiunzione), ma anche il motivo di illegittimità dell’illecito contestato”.

6. Conclusivamente, il primo, il terzo e il quarto motivo di ricorso vanno dichiarati inammissibili. Il ricorso merita, invece, accoglimento in relazione al secondo motivo; per l’effetto, cassa la sentenza con rinvio al Tribunale di Alessandria, in persona di diverso magistrato, anche per le spese di questa fase processuale.

P.Q.M.
La Corte, dichiara inammissibili il primo, il terzo e il quarto motivo; in accoglimento del ricorso quanto al secondo motivo, cassa la sentenza, con rinvio al Tribunale di Alessandria, in persona di diverso magistrato, anche per le spese di questa fase processuale.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione terza civile, il 9 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 10 febbraio 2021


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 23-09-2020) 08-02-2021, n. 2972

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano P. – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23652-2016 proposto da:

AZIENDA MULTISERVIZI E IGIENE URBANA TARANTO S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE DELLA VITTORIA 10/B, presso lo studio dell’avvocato ANNAMARIA DE NICOLO, rappresentata e difesa dall’avvocato MATTEO MALANDRINO;

– ricorrenti –

contro

L.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BASENTO 37, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PIZZUTI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 142/2016 della CORTE D’APPELLO DI LECCE SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, depositata il 30/05/2016 R.G.N. 819/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/09/2020 dal Consigliere Dott. MATILDE LORITO;

il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MATERA MARCELLO, ha depositato conclusioni scritte.

Svolgimento del processo
CHE:

Il Tribunale di Taranto respingeva le domande proposte da L.E. nei confronti della AMIU s.p.a. volte a conseguire l’inquadramento nel livello Quadri, o in subordina nel livello VIII o ancora nel livello VII per aver espletato mansioni superiori rispetto a quelle di formale appartenenza, del livello VI. Detta pronunzia veniva parzialmente riformata dalla Corte d’Appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto che accertava il diritto della lavoratrice all’inquadramento nel livello VIII del c.c.n.l. Servizi Ambientali del 30/6/2008 a far tempo dal gennaio 2011 e condannava la società al pagamento delle differenze retributive maturate con decorrenza dalla stessa data.

La Corte di merito perveniva a tali approdi all’esito dello scrutinio delle acquisizioni probatorie che avevano chiaramente mostrato lo svolgimento da parte ricorrente, di quella immediata collaborazione con la direzione aziendale richiesta dalla dec1aratoria professionale del superiore livello rivendicato.

Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la s.p.a. AMIU sulla base di due motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Sono state depositate memorie da entrambe le parti ex art. 380 bis c.p.c. Il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
CHE:

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. e dell’art. 16 c.c.n.l. dei servizi ambientali 30/6/2008 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 ed omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di effettuare ogni indagine in relazione allo svolgimento di un periodo superiore a tre mesi di effettivo servizio ai fini dell’accertamento della superiore qualifica rivendicata.

Si osserva che nel giudizio di merito la società aveva prodotto fogli presenza relativi all’anno (OMISSIS) dai quali si desumeva che la dipendente era stata assente per i mesi di (OMISSIS), essendo presente al lavoro per un numero di 67 giornate lavorative.

La totale omissione dell’esame circa la durata del periodo di svolgimento di asserite mansioni superiori, discusso fra le parti, integrava un evidente difetto di motivazione oltre che una violazione della disposizione contrattualcollettiva di cui all’art. 16, alla cui stregua l’assegnazione di un superiore livello di inquadramento diviene definitiva dopo un periodo di tre mesi di effettivo servizio.

2. Il motivo palesa plurimi, concorrenti profili di inammissibilità.

In violazione del principio di specificità che governa il ricorso per cassazione, consacrato dall’art. 366 c.p.c., nn. 3, 4 e 6 la società ricorrente ha omesso di indicare tempi e modi di formulazione della eccezione relativa alla mancanza dei requisiti previsti dalla contrattazione collettiva per l’accertamento del diritto alla qualifica superiore, in relazione al mancato svolgimento nell’anno (OMISSIS) di almeno tre mesi di lavoro, essendosi limitata a dedurre di aver prodotto la relativa documentazione.

Tuttavia, secondo insegnamento di questa Corte, i dati fattuali, interessanti sotto diverso profilo la domanda attrice, devono tutti essere esplicitati in modo esaustivo o in quanto fondativi del diritto fatto valere in giudizio o in quanto volti ad introdurre nel giudizio stesso circostanze di mera rilevanza istruttoria, non potendosi negare la necessaria circolarità, per quanto attiene al rito del lavoro, tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova; circolarità attestata dal combinato disposto dell’art. 414 c.p.c., nn. 4 e 5 e dall’art. 416 c.p.c., comma 3, (cfr. al riguardo Cass. 17/4/2002 n. 5526 Cass. S.U. 17/6/2004 n. 11353, Cass. 4/10/2013 n. 22738).

E’ opportuno sul punto evidenziare, con riferimento ai fatti sui quali si fonda la domanda attrice, come la contestazione – per evitare ricadute pregiudizievoli per il convenuto – non possa essere generica, non possa cioè concretizzarsi in formule di stile, in espressioni apodittiche o in asserzioni meramente negative, ma debba essere invece puntuale, circostanziata, dettagliata ed onnicomprensiva di tutte le circostanze in relazione alle quali viene chiesta l’ammissione della prova.

Non è invero priva di significato l’espressione “in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione”, inclusa nell’incipit dell’art. 416 c.p.c., comma 3 (“Nella stessa memoria il convenuto deve prendere posizione, in maniera precisa e non limitata ad una generica contestazione, circa i fatti affermati dall’attore a fondamento della domanda”).

Nello specifico, si impone l’evidenza della carenza di enunciazione di tempi e modi nei quali il fatto costitutivo del diritto vantato dalla attrice, esplicitato in modo esaustivo con riferimento allo svolgimento delle mansioni superiori in relazione al periodo prescritto dalla legge e dai contratti collettivi, sarebbe stato oggetto di specifica contestazione – da parte datoriale così come della rituale produzione del relativo corredo documentale, al quale si fa riferimento in sede di ricorso per cassazione (vedi per tutte Cass. 1/8/2008 n. 21032).

Nell’ottica descritta, in assenza di qualsivoglia riferimento contenuto nella pronuncia impugnata alle suesposte difese (memoria depositata in primo grado ed in sede di gravame), la censura deve ritenersi affetta da irredimibile inammissibilità.

3. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2103, 1362, 1363 c.c. e dell’art. 16 c.c.n.l. dei servizi ambientali 30/6/2008 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Ci si duole che la Corte di merito abbia riconosciuto il livello di inquadramento VIII oggetto di rivendicazione, senza tener conto dei principi invalsi nella giurisprudenza della Suprema Corte secondo cui nell’interpretazione di un contratto collettivo, in particolare aziendale, ai fini della classificazione del personale ha rilievo preminente la considerazione degli specifici profili professionali, rispetto alle declaratorie contenenti la definizione astratta dei livelli di professionalità.

I giudici del gravame si sarebbero limitati a richiamare la sola declaratoria del livello oggetto di riconoscimento, omettendo ogni doverosa considerazione circa i profili esemplificativi enunciati dalla disposizione di riferimento.

4. La censura è priva di pregio.

Occorre premettere, per un corretto iter motivazionale, che, momento ineludibile del giudizio volto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore subordinato, è il cd. percorso trifasico.

Detto procedimento logico-giuridico, secondo l’insegnamento di questa Corte, si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, nell’individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda, essendo sindacabile in sede di legittimità qualora la pronuncia abbia respinto la domanda senza dare esplicitamente conto delle predette fasi (cfr. ex aliis, Cass. 27/9/2010 n. 20272, Cass. 28/4/2015 n. 8589, Cass. 22/11/2019 n. 30580).

Sempre secondo i condivisi dicta di questa Corte (vedi Cass. 27/9/2016 n. 18943) l’osservanza del cd. criterio “trifasico”, da cui non si può prescindere nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore, non richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale, ove risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni.

Nello specifico, deve rimarcarsi come la Corte di merito abbia addotto una serie di argomentazioni idonee a confermare la ricorrenza degli elementi dalla medesima ricorrente posti a fondamento del diritto azionato, che inducono a ritenere percorso il paradigma motivazionale enucleato dalla giurisprudenza di legittimità ai fini qui considerati.

La Corte distrettuale ha innanzitutto fatto richiamo al livello VI in godimento, riservato ai lavoratori che svolgono mansioni comportanti facoltà di decisione e autonomia operativa limitate agli obiettivi di appartenenza.

Ha inoltre rimarcato come dalle acquisizioni probatorie, anche di natura documentale, si fosse imposta l’evidenza che la ricorrente, quantomeno dal (OMISSIS), aveva adempiuto alle mansioni a lei ascritte in totale autonomia, selezionando gli aspetti da privilegiare in relazione alle questioni da risolvere. La Co4rte ha inoltre considerato la varietà delle materie in relazione alle quali era richiesta la consulenza della lavoratrice – (studio della normativa in tema di servizi di igiene urbana e di flussi finanziari, dei profili di responsabilità penale di enti e Società, predisposizione di bandi di gara, della materia disciplinare…) e la diretta interlocuzione della stessa con la direzione sulle descritte rilevanti tematiche.

Ha quindi, congruamente concluso come non aderente alle previsioni del c.c.n.l. di settore l’attribuzione all’appellante del livello VI, considerato che i contenuti di ricerca e di studio elaborati dalla dipendente erano di fatto, integralmente recepiti dalla direzione, così realizzandosi quel requisito coessenziale alla qualifica del VIII, del potere di incidere sulle scelte aziendali proprio della attività svolta.

La struttura logico-giuridica che innerva l’impugnata sentenza, risponde dunque, ai canoni che definiscono una corretta sussunzione della fattispecie nell’archetipo normativo di riferimento, non assumendo valenza decisiva la denunciata omissione di ogni riferimento da parte della Corte di merito, ai profili professionali corrispondenti alla declaratoria contrattuale relativa al livello rivendicato, considerata la natura esemplificativa degli stessi.

Va precisato al riguardo che la figura di “responsabile dell’ufficio contenzioso” corrispondente alla attività espletata dalla ricorrente, si poneva come in termini di atipicità rispetto al settore “raccolta rifiuti” entro il quale operava, sicchè gli approdi ai quali è pervenuta la Corte di merito non possono ritenersi in contrasto con la giurisprudenza di legittimità citata dalla ricorrente, secondo cui le parti collettive classificano il personale sulla base di specifiche figure professiofiali dei singoli settori produttivi, ordinandole su scala gerarchica, e successivamente elaborano le declaratorie astratte, allo scopo di consentire l’inquadramento di figure professionali atipiche o nuove (vedi Cass. 23/2/2016 n. 3547).

5. Non può, poi, sottacersi che comunque le critiche articolate dalla difesa della ricorrente non hanno il tono proprio di una censura di legittimità.

Esse; sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di norme legge e di disposizioni di contratto collettivo, degradano in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione (cfr. Cass., Sez. Un., 17/12/2019 n. 33373).

Con riferimento alle tipologie di controversie sovrapponibili a quella oggetto del presente vaglio, è consolidato l’insegnamento di questa Corte secondo cui l’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell’inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, una volta rispettato – così come nella specie – costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito ed è insindacabile, in sede di legittimità, se sorretto da congrua motivazione (vedi Cass. 30/10/2008 n. 26234, Cass. 31/12/2009 n. 28284, Cass. 28/4/2015 n. 8589).

Discende quindi, da quanto sinora detto, che sotto tutti i profili delineati, la sentenza impugnata si sottrae alle formulate censure.

Il ricorso va, pertanto, respinto.

La regolazione delle spese inerenti al presente giudizio, segue il regime della soccombenza, nella misura in dispositivo liquidata.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di legittimità liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2021


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 03-11-2020) 05-02-2021, n. 2866

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CURZIO Pietro – Primo Presidente –
Dott. RAIMONDI Guido – Presidente di sez. –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di sez. –
Dott. D’ANTONIO Enrica – Consigliere –
Dott. ORICCHIO Antonio – rel. Consigliere –
Dott. ACIERNO Maria – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 4450-2016 proposto da:
W.C., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE ANGELICO 36-B, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SCARDIGLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PIERO PETROCCHI;
– ricorrente –
contro
COMUNE DI FIRENZE, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati DEBORA PACINI, ed ANDREA SANSONI;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
avverso la sentenza n. 2587/2015 del TRIBUNALE di FIRENZE, depositata il 14/07/2015;
Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/11/2020 dal Consigliere Dott. ANTONIO ORICCHIO;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI CARMELO, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso incidentale e cassazione senza rinvio della decisione impugnata;
udito l’Avvocato Massimo Scardigli.
Svolgimento del processo
1.-1 cittadino tedesco W.C. proponeva, con ricorso innanzi al Giudice di Pace di Firenze, opposizione a verbale di contravvenzione al Codice della Strada, per transito senza autorizzazione in zona a traffico limitato, elevato dalla Polizia Municipale di quella Città.
Nella fattispecie l’infrazione era stata contestata al cittadino straniero ricorrente tramite invio di lettera raccomandata (da parte, più specificamente, della European Municipality Outsourcing, divisione della Nivi Credit S.r.l.).
Con la detta proposta opposizione venivano dedotti vari vizi di invalidità del verbale e fra essi, in particolare e per quanto oggi rileva, il vizio di nullità per inesistenza della notifica del verbale stesso.
All’esito del giudizio svolto in contraddittorio con l’evocato Comune di Firenze, che resisteva instando per il rigetto del ricorso, l’adito Giudice di prime cure rigettava l’opposizione.
Di seguito il Tribunale di Firenze, con sentenza del 14 luglio 2015, dichiarava inammissibile l’appello interposto dall’originario opponente. Più in particolare con tale ultima sentenza si affermava che, quand’anche fossero state violate – in occasione della notifica del verbale de quo le formalità di notifica imposte dalla Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977, poichè la notifica risultava effettuata a mezzo del servizio postale in conformità della legislazione nazionale, ciò avrebbe integrato un motivo di nullità e non di inesistenza della notificazione stessa con conseguente sanatoria della nullità per l’avvenuto raggiungimento dello scopo ovvero della conoscenza dell’atto e, quindi, della tardività ed inammissibilità dell’opposizione proposta solo il 21 aprile 2011 ben oltre il termine di legge decorrente dalla notifica, in data 22 luglio 2010, del verbale di contravvenzione.
La sentenza del Giudice di appello veniva, quindi, gravata dal cittadino tedesco con ricorso per cassazione fondato su quattro ordini di motivi e resistito da Comune di Firenze, che – oltre a chiedere il rigetto dell’avverso atto – proponeva ricorso incidentale affidato a due ordini di motivi.
2.- La Sezione Seconda civile di questa Corte, con ordinanza 30 settembre 2019, n. 24382, ha rimesso gli atti al primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite di questione ritenuta di rilevante portata nomofilattica.
E, tanto, sollevando perplessità in ordine al precedente arresto giurisprudenziale della stessa Seconda sezione (Sentenze n. ri 22000 e 22001 del 2018), in base al quale per la notifica a cittadino straniero tedesco del verbale di contestazione dell’infrazione stradale quale atto propedeutico all’emissione dell’ordinanza di irrogazione della sanzione amministrativa vera e propria, poteva trovare applicazione la possibilità di notifica a mezzo di servizio postale consentita dal Regolamento (CE) n. 1393/2007 per gli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale, nonchè ex art. 16 del Regolamento stesso per gli atti stragiudiziali.
La questione oggi posta con la ordinanza di rimessione concerne il significato da attribuirsi alla materia “amministrativa” in relazione alla notificazione di atti e, in ispecie, di verbale di contravvenzione a norma del Codice della strada.
Più in particolare e per quanto rileva viene rimessa a queste Sezioni Unite la questione intesa a chiarire se, in tema di notifica di verbale di accertamento di violazione amministrativa a persona residente in altro stato membro dell’Unione Europea e segnatamente nella Repubblica Federale di Germania, quale sia il significato da attribuirsi alla materia “amministrativa”. Tanto per il dirimente profilo che gli atti afferenti a tale materia risultano esclusi dall’ambito di applicazione del regolamento (CE) n. 1393/2007, che disciplina la notificazione dei soli atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile e commerciale, sancendo esclusivamente per tali ultimi la possibilità della notifica a mezzo del servizio postale.
Più specificamente, ancora, la questione sottoposta al vaglio di queste Sezioni Unite è direttamente rapportabile alla conseguente valutazione come nulla (e sanabile) ovvero come inesistente (ed insanabile) la notifica del verbale di accertamento di infrazione stradale a mezzo del servizio postale a cittadino tedesco.
Le parti hanno depositato memorie.
Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo del ricorso principale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 142 c.p.c., comma 2 e dell’art. 10 Cost., comma 1 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
2.- Con il secondo motivo del ricorso medesimo si censura l’impugnata sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
3.- Con il terzo motivo del ricorso stesso si lamenta la violazione e falsa applicazione del combinato disposto dell’art. 6 e art. 11, comma 2 della Convenzione di Strasburgo del 24/11/1977, dell’art. 201 C.d.S., comma 1 e del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
4.- Con il quarto ed ultimo motivo del ricorso principale viene prospettata la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
5.- Con il primo motivo del ricorso incidentale si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 83 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c..
Viene, in particolare, svolta questione conseguente alla svolta eccezione di inammissibilità dell’appello per nullità e/o inesistenza della procura alle del difensore del cittadino tedesco.
6.- Con il secondo motivo del ricorso incidentale si denuncia la violazione e falsa applicazione del R.D.L. 15 ottobre 1925, n. 1796, art. 1 nonchè degli artt. 83 e 122 c.p.c. e degli artt. 72 e 74 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.
7.- Il Collegio ritiene di dover procedere all’immediato esame del ricorso incidentale e dei due suoi motivi, che – in quanto fra loro connessi- possono trattarsi congiuntamente.
Tanto in virtù del carattere dirimente di questione sollevata col detto mezzo.
Il ricorso incidentale, pur se proveniente da parte totalmente vittoriosa nel giudizio di merito, deve ritenersi investire questione, come detto dirimente, in presenza di “attualità di interesse ovvero nell’ipotesi di fondatezza del ricorso principale” (e ciò alla stregua del consolidato orientamento giurisprudenziale di queste stesse Sezioni: Cass. civ. S.U. n. ri 5456/2009, 23318/2009 e 7381/2013).
Con gli esposti motivi il ricorso incidentale tende – ai fini della corretta decisione della controversia- a riportare l’attenzione sulla questione della inammissibilità dell’appello oggetto di rituale svolta eccezione.
La inammissibilità viene prospettata con riguardo ad un duplice profilo: la inesistenza della procura conferita al difensore per il giudizio; la nullità della stessa in quanto utilizzata in violazione del R.D.L. 15 ottobre 1925, art. 1.
Le censure erano state sollevate con riguardo alla dedotta assoluta genericità della procura speciale rilasciata con atto per “Notaio H. del 18.2.2010”.
Le censure medesime (non esaminate dal Giudice di appello che riteneva, sotto altro aspetto, la inammissibilità del gravame innanzi ad esso interposto) sono entrambe fondate e comportano l’accoglimento del ricorso incidentale, il quale -come già innanzi accennato- investe così profilo preliminare e dirimente del presente giudizio in ragione, per converso, della necessità della pronuncia sulla questione di rilevante portata nomofilattica conseguente al ricorso principale.
La procura rilasciata al difensore del cittadino tedesco risulta conferita in totale assenza del riferimento alla procedura per la quale è stata rilasciata.
La mancata e pur dovuta indicazione del procedimento giudiziale per il quale veniva rilasciata la procura de qua non permette, quindi, di individuare la specifica finalità della stessa.
Tale procura si pone così in contrasto con la norma di cui all’art. 83 c.p.c. e con i conseguenti principi di diritto che impongono lo specifico collegamento tra l’atto stesso ed il soggetto destinatario e la capacità dell’atto di far individuare la finalità per la quale lo stesso è stato generato.
Tale aspetto è, peraltro, non di poco conto tanto più che risulta in atti dedotto come “la procura speciale “Notaio H.” del 12.8.2010″ di cui si discute, proprio in ragione della sua genericità, è stata ex adverso utilizzata in una pluralità di giudizi di merito” ovvero in cinque processi di appello innanzi al Tribunale di Firenze, specificamente indicati nel ricorso incidentale.
La medesima procura risulta, per di più, rilasciata in violazione dell’art. 1 R.D.L. cit. in quanto la pretesa autenticazione della firma del mandante risulta redatta non in lingua italiana e, pertanto, deve aversi per non avvenuta o nulla.
Al riguardo non può che richiamarsi il noto e condiviso principio, già enunciato da questa Corte, per cui “la procura speciale alle liti rilasciata all’estero, sia pur esente dall’onere di legalizzazione da parte dell’autorità consolare italiana, nonché dalla cd. “apostille”, in conformità alla Convenzione dell’Aja del 5 ottobre 1961, ovvero ad apposita convenzione bilaterale, è nulla, agli effetti della L. n. 218 del 1995, art. 12 ove non sia allegata la sua traduzione e quella relativa all’attività certificativa svolta dal notaio afferente all’attestazione che la firma è stata apposta in sua presenza da persona di cui egli abbia accertato l’identità, applicandosi agli atti prodromici al processo il principio generale della traduzione in lingua italiana a mezzo di esperto” (Cass. civ., Sez. Sesta-2, 4 aprile 2018, n. 8174, nonché -in precedenza e conformemente- Cass. n. 11165/2015).
Peraltro, a fronte delle sollevate eccezioni e contestazioni sulla validità della rilasciata procura, nulla ha tempestivamente e validamente controdedotto ed allegato la parte odierna ricorrente principale quanto all’eccepito difetto di rappresentanza.
In proposito non possono che rammentarsi i consolidati principi ripetutamente enunciati in occasione di plurimi precedenti, in punto, avutisi su analoghe fattispecie inerenti contravvenzioni al codice della strada contestate dal Comune di Firenze a cittadini stranieri tedeschi.
Giova, all’uopo, ribadire che in tema di difetto di rappresentanza processuale ed a differenza dell’ipotesi di art. 182 c.p.c. (quando è il giudice che rilevi d’ufficio tale difetto con obbligo di promuovere la sanatoria previa assegnazione alla parte un termine di carattere perentorio, senza il limite delle preclusioni derivanti) da decadenze di carattere processuale) “nel diverso caso – come quello in ipotesi – in cui detto vizio sia stato tempestivamente eccepito da una parte, l’opportuna documentazione -in eventuale sanatoria- va prodotta immediatamente, non essendovi necessità di assegnare un termine, che non sia motivatamente richiesto o, comunque, assegnato dal giudice, giacché sul rilievo di parte l’avversario è chiamato a contraddire. (In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha ritenuto che la nullità della procura alle liti, fosse divenuta insanabile poichè, nonostante il convenuto avesse sollevato la relativa questione, l’attore non aveva spontaneamente depositato la necessaria documentazione nel prosieguo del processo di merito, essendosi egli limitato a discutere di altri diversi profili giuridici)” (ex plurimis: Cass. civ., Sez. Sesta-2, Ord. 4 ottobre 2018, n. 24212, nonché successivamente, Cass. n. 22892/2018, tutte conformemente sulla scia dell’insegnamento di Cass. civ. S.U. n. 4248/2016).
I motivi del ricorso incidentale sono, quindi, fondati e comportano conseguentemente la relativa inammissibilità dell’appello.
8.- Alla stregua di tutto quanto innanzi esposto, affermato e ritenuto il ricorso incidentale deve essere accolto con conseguente assorbimento del ricorso principale e cassazione, per effetto degli accolti motivi, dell’impugnata sentenza, che va cassata senza rinvio per improcedibilità dell’appello.
9.- Deve, poi, procedersi alla risoluzione della questione di rilevante portata nomofilattica sottoposta al vaglio di queste Sezioni che implica, per la rilevanza della stessa, pronuncia ai sensi dell’art. 384 c.p.c. sul rilevato profilo.
Questo attiene alla possibilità o meno del ricorso alla notificazione a mezzo posta del verbale di contravvenzione. Il tutto, a sua volta, in dipendenza della sussumibilità o meno della fattispecie (sanzione amministrava) nell’ambito della materia civile o commerciale. E tanto in quanto ove intesa, quella stessa fattispecie, rientrante nella “materia amministrativa” sarebbe stato necessario il ricorso all’attività di assistenza per la notificazione dell’Autorità centrale dello Stato di residenza del medesimo cittadino, attività viceversa non necessaria nell’ipotesi di atto in materia civile e commerciale.
Nei citati pregressi arresti giurisprudenziali del 2018 si era ritenuto che il Regolamento U.E. n. 1393/2007 del 13.11.2007, relativo alla notificazione degli atti giudiziari ed extra-giudiziari in materia civile e commerciale consentiva, in relazione a verbale di sanzione ammnistrativa a cittadino germanico, il ricorso al procedimento di notificazione a mezzo posta.
A tale considerazione la citata giurisprudenza era pervenuta anche in conseguenza della argomentazione, per cui – anche in base all’art. 16 del Regolamento stesso – una volta ampliata anche agli atti stragiudiziali la possibilità della notifica prevista per gli atti propriamente giudiziari doveva ritenersi il verbale di contestazione atto propedeutico all’ordinanza d’irrogazione della sanzione ammnistrativa e, quindi, stragiudiziale e notificabile a mezzo posta. Sotto altro aspetto veniva, inoltre, sottolineato (nella stessa citata Cass. n. 22000/2018) come era possibile “avvalersi direttamente del servizio postale…dovendosi osservare le sole disposizioni dello Stato membro di destinazione dettate in modo speciale per la concreta esecuzione di singoli atti previsti dalla sua legislazione”.
Senonché l’art. 1 del citato Regolamento U.E. del 2007 esclude espressamente dal suo ambito di applicazione la materia “fiscale, doganale ed amministrativa”.
Il verbale di accertamento di sanzione al Codice della Strada, in quanto atto rientrante nell’esercizio di pubblici poteri rientra, quindi, nell’ambito di materia amministrativa e, come tale, la notifica della sua impugnazione esula in maniera manifesta dal campo- di applicazione del Regolamento n. 1393/2007, poiché non rientrante nella materia civile o commerciale (e neppure potendosi configurare il carattere “stragiudiziale” della notifica del verbale stesso).
Ciò posto, in primis, deve poi rilevarsi che la Convenzione di Strasburgo del 24 novembre 1977, ratificata nel nostro ordinamento con la L. 21 marzo 1983, n. 149, detta la disciplina per la notifica dei documenti in materia ammnistrativa e prevede, in via generale all’art. 11, anche la notificazione diretta a mezzo del servizio postale per tale tipo di documenti.
Tuttavia, tale generale previsione non può, nell’ipotesi per cui è giudizio, trovare applicazione giacché la Repubblica Federale di Germania – avvalendosi di apposita prevista riserva – ha escluso la possibilità di notifica per i detti documenti a mezzo del servizio postale nei confronti dei propri cittadini residenti.
Deve, quindi, affermarsi il principio per cui la notifica del verbale di sanzione ammnistrativa a cittadino tedesco non poteva essere notificato direttamente a mezzo del servizio postale.
La notificazione per tale tipo di atto effettuata nei confronti di quel cittadino a senza la prevista (art. 2 Convenzione di Strasburgo) assistenza della Autorità centrale dello Stato di residenza e destinazione comporta la nullità della notificazione.
Tale nullità deve, poi, essere valutata ai sensi della legge del paese dal quale la notificazione è svolta e, quindi, secondo la legge italiana. In tal senso la notifica di cui alla fattispecie in giudizio non può che essere ritenuta nulla e non inesistente con conseguente sua sanabilità in assenza di tempestiva apposita eccezione.
Inoltre, ed in senso ancor più decisivo la nullità, nella concreta fattispecie in esame, deve ritenersi sanata in dipendenza della tardività (come innanzi specificamente già rilevato) del ricorso rispetto alla effettiva conoscenza del verbale notificato e non tempestivamente impugnato con conseguente mancata tempestività della eccezione di nullità della notificazione e, quindi, sanatoria della stessa.
10.- Le spese devono essere compensate in virtù della oggettiva controvertibilità e della novità delle questioni sottoposte a giudizio.
P.Q.M.
LA CORTE accoglie il ricorso incidentale, dichiara assorbito il ricorso principale, cassa senza rinvio la sentenza impugnata per improcedibilità dell’appello ed enuncia il principio di diritto di cui in motivazione. Spese compensate.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte Suprema di Cassazione, il 3 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 22/10/2020) 26/01/2021, n. 1555

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 35857/2019 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elett.te domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

P.V., rapp.to e difeso dai Dott. Michele Morganti e Raffaele Marangoni, presso cui elett.te domicilia in Prato, alla via Baldinucci n. 41;

– intimato –

avverso la sentenza n. 712/10/19 della Commissione Tributaria -Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, depositata in data 24/4/2019, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22 ottobre 2020 dalla Dott.ssa Milena d’Orfano;

udito per la ricorrente l’avv. Chiappiniello Giovanni che ha chiesto l’accoglimento; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giacalone Giovanni che ha concluso per l’accoglimento.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 712/10/19, depositata il 24 aprile 2019, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 455/1/17 della CTP di Livorno, con compensazione delle spese di lite.

Il giudice di appello, a conferma della decisione di primo grado, concludeva per il rigetto del gravame rilevando:

a) che il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento, emesso il (OMISSIS) e notificato in data (OMISSIS), con cui, a seguito della definitività di altro avviso di accertamento per un maggior reddito di impresa per l’anno 2013 emesso a carico della società ICLOS s.r.l., premessa la ristretta base azionaria, si imputava a P.V., socio al 24,5%, un maggior reddito di capitale in proporzione della quota di partecipazione agli utili;

b) che la Commissione di primo grado aveva accolto il ricorso, articolato su vari motivi formali e di merito, ritenendo fondata l’eccezione preliminare relativa alla carenza di valida sottoscrizione dell’avviso impugnato che, ritenuta l’inapplicabilità delle formalità di cui al Codice dell’Amministrazione Digitale, come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, non recava firma autografa bensì digitale e risultava notificato in copia cartacea anzichè a mezzo PEC;

c) che tale decisione era condivisibile, con assorbimento degli ulteriori motivi, in quanto: la firma a stampa ai sensi della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, era ammissibile solo per gli accertamenti emessi a seguito di procedure automatizzate; l’apposizione di una firma digitale ad un avviso di accertamento notificato prima del 27-1-2018 era causa di nullità dell’atto per difetto di sottoscrizione; solo per gli atti notificati a decorrere dall’1-7-2017 la combinazione firma digitale/notifica a mezzo PEC consentiva il rispetto della procedura informatica della normativa vigente ratione temporis.

2. Avverso la sentenza di appello l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, notificato a mezzo PEC il 19 novembre 2019, affidato a due motivi, e depositato memoria ex art. 378 c.p.c; il contribuente rimaneva intimato.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo l’Agenzia censura la sentenza impugnata denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, degli artt. 2 e 23 CAD, della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che le norme del Codice dell’Amministrazione Digitale vanno ritenute applicabili anche alle funzioni istituzionali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, applicabilità esclusa, ai sensi dell’art. 2 suddetto codice, comma 6, come modificato, a decorrere dal 14 settembre 2016, dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), solo per le “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”, da intendersi per quelle attività di controllo fiscale svolte dall’Agenzia e dalla Guardia di Finanza rappresentata dagli accessi, ispezioni e verifiche sulla cui base vengono emessi gli avvisi di accertamento; interpretazione confermata dall’ulteriore modifica dell’art. 2, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, che, mediante l’aggiunta del comma 6 bis, rendeva esplicita tale applicazione. Si rilevava altresì che la copia cartacea notificata al contribuente presentava l’attestazione di conformità prevista dall’art. 23 CAD. 2. con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, dell’art. 23 CAD, dell’art. 137 c.p.c., commi 2 e 3, e dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che la possibilità di notificare a mezzo PEC anche gli atti impositivi era stata- introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017, con l’inserimento del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 7, sicchè prima di tale data l’Agenzia aveva correttamente proceduto all’invio della copia analogica munita di attestazione di conformità e che, in ogni caso, ogni eventuale nullità della notifica doveva ritenersi sanata per il raggiungimento dello scopo, allorchè il contribuente era comunque venuto a conoscenza dell’atto.

3. Il primo motivo è meritevole di accoglimento.

3.1 Questione controversa è la legittimità degli atti impositivi emessi dall’Agenzia delle Entrate in formato elettronico, e sottoscritti con firma digitale, nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6 (cd CAD – Codice dell’Amministrazione digitale), come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, sino alle ulteriori modifiche apportate allo stesso art. 2, comma 6, con l’aggiunta altresì del comma 6-bis, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. d) ed e), entrato in vigore dal 27 gennaio 2018.

Dalla ritenuta inapplicabilità del CAD, e quindi delle disposizioni in tema di firma digitale, la sentenza gravata ha fatto derivare la nullità dell’avviso di accertamento sottoscritto digitalmente per difetto di sottoscrizione.

3.2 Si pone, ai fini del decidere, la questione interpretativa dell’art. 2 CAD, comma 6, prima parte, nel testo vigente nel periodo dal 14 settembre 2016 al 26 gennaio 2018, secondo cui: “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, di ordine e sicurezza pubblica, difesa e sicurezza nazionale, polizia giudiziaria e polizia economico-finanziaria e consultazioni elettorali” L’Agenzia ricorrente ritiene che nella limitazione di cui alla suindicata disposizione non vadano inclusi gli avvisi di accertamento che pertanto, a decorrere dal 14 settembre 2016, sarebbero stati legittimamente emessi con la forma del documento informatico e sottoscritti con firma digitale.

Va premesso che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo e-IDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici.

Ai sensi dell’art. 40 CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. 13 novembre 2014.

Posto che la regola generale è divenuta il ricorso ai documenti informatici, e le limitazioni l’eccezione, l’interpretazione dell’art. 2 CAD, comma 6, ratione temporis vigente, proposta dall’Agenzia delle Entrate merita di essere condivisa sulla base di una serie di valutazioni ermeneutiche sia di tipo letterale che sistematico.

Rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.

La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.

In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonchè di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza.

Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni.

Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed agli artt. 54 e ss le rettifiche e gli accertamenti.

Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

3.3 Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbè non essere munito di firma digitale, sicchè l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

Non da ultimo va evidenziato che l’interpretazione contraria proposta dalla CTR si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi.

La modifica apportata al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6, con l’inserimento del comma 6 che ha introdotto la possibilità della notifica a mezzo PEC degli avvisi di accertamento, tende ad una implementazione dell’utilizzo dei documenti informatici.

L’art. 2 CAD, comma 6-bis, aggiunto dal D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. e), ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” e rimette ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.

Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.

4. Alla ritenuta applicabilità del CAD consegue l’accoglimento del secondo motivo, relativo alla legittimità della notifica di una copia analogica conforme ad un documento informatico.

4.1 Ai sensi dell’art. 23 CAD “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

Nella specie risulta incontestato, e comunque provato, che l’atto impositivo notificato in copia cartacea presentava l’attestazione di conformità all’originale e tanto è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017).

Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta.

Si ricorda che la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi è stata introdotta solo a decorrere dall’1 luglio 2017, a seguito dell’aggiunta al D.P.R. n. 600 del 1973, dell’art. 60, comma 6, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6; l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità.

4.2 Si aggiunga che risulta agli atti che l’atto sia comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario: trova pertanto applicazione il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo. (Vedi tra le tante Cass. SU n. 7665 del 2016; n. 27561 e n. 24568 del 2018) 5. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R. della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione, che procederà all’esame degli ulteriori motivi di ricorso, ed anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, rinvia per l’ulteriore esame, e anche per le spese, alla C.T.R della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 22/10/2020) 26/01/2021, n. 1557

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 9772/2020 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elett.te domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

C.M., rapp.to e difeso dal Dott. Michele Morganti presso cui elett.te domicilia in Prato, alla via Baldinucci n. 41;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1185/10/19 della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, depositata in data 29/7/2019, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22 ottobre 2020 dalla Dott.ssa Milena d’Oriano;

udito per la ricorrente l’avv. Chiappiniello Giovanni che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Giacalone che ha concluso per l’accoglimento.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 1185/10/19, depositata il 29 luglio 2019, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 454/1/17 della Commissione Tributaria Provinciale di Livorno, con compensazione delle spese di lite.

Il giudice di appello, a conferma della decisione di primo grado, concludeva per il rigetto del gravame rilevando:

a) che il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento, notificato in data 15-11-16, con cui, a seguito della definitività di altro avviso di accertamento per un maggior reddito di impresa per l’anno 2013 emesso a carico della società ICLOS s.r.l., premessa la ristretta base azionaria, si imputava a C.M., socio al 51%, un maggior reddito di capitale in proporzione della sua quota di partecipazione agli utili;

b) che la Commissione di primo grado aveva accolto il ricorso, articolato su vari motivi formali e di merito, ritenendo fondata l’eccezione preliminare relativa alla carenza di valida sottoscrizione dell’avviso impugnato che, ritenuta l’inapplicabilità delle formalità di cui al Codice dell’Amministrazione Digitale, come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, non recava firma autografa bensì digitale e risultava notificato in copia cartacea anzichè a mezzo PEC;

c) che tale decisione era condivisibile, con assorbimento degli ulteriori motivi, in quanto: la firma a stampa ai sensi della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, era ammissibile solo per gli accertamenti emessi a seguito di procedure automatizzate; l’apposizione di una firma digitale ad un avviso di accertamento notificato prima del 27-1-2018 era causa di nullità dell’atto per difetto di sottoscrizione; solo per gli atti notificati a decorrere dall’1-7-2017 la combinazione firma digitale/notifica a mezzo PEC consentiva il rispetto della procedura informatica della normativa vigente ratione temporis.

2. Avverso la sentenza di appello l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, notificato a mezzo PEC il (OMISSIS), affidato ad un unico motivo, e depositato memoria ex art. 378 c.p.c.; il contribuente rimaneva intimato.

Motivi della decisione
1. Con unico motivo l’Agenzia censura la sentenza impugnata denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, degli artt. 23 e 2 CAD, quest’ultimo come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), e con l’aggiunta ad opera dell’art. 2, lett. e), al D.Lgs. n. 217 del 2017, del comma 6-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che le norme del Codice dell’Amministrazione Digitale vanno ritenute applicabili anche alle funzioni istituzionali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, applicabilità esclusa, ai sensi dell’art. 2 suddetto codice, comma 6, come modificato, a decorrere dal 14 settembre 2016, dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), solo per le “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”, da intendersi per quelle attività di controllo fiscale svolte dall’Agenzia e dalla Guardia di Finanza rappresentata dagli accessi, ispezioni e verifiche sulla cui base vengono emessi gli avvisi di accertamento; che tale interpretazione è confermata dall’ulteriore modifica dell’art. 2 ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, che, mediante l’aggiunta del comma 6 bis, rendeva esplicita tale applicazione; che la copia cartacea notificata al contribuente presentava l’attestazione di conformità prevista dall’art. 23 CAD; che la possibilità di notificare a mezzo PEC anche gli atti impositivi era stata introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017 con l’inserimento del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 7, sicchè prima di tale data l’Agenzia aveva correttamente proceduto all’invio della copia analogica munita di attestazione di conformità.

2. L’unico motivo è meritevole di accoglimento.

2.1 Questione controversa è la legittimità degli atti impositivi emessi dall’Agenzia delle Entrate in formato elettronico, e sottoscritti con firma digitale, nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6 (cd CAD – Codice dell’Amministrazione digitale), come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, sino alle ulteriori modifiche apportate allo stesso art. 2, comma 6, con l’aggiunta altresì del comma 6-bis, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. d) ed e), entrato in vigore dal 27 gennaio 2018.

Dalla ritenuta inapplicabilità del CAD, e quindi delle disposizioni in tema di firma digitale, la sentenza gravata ha fatto derivare la nullità dell’avviso di accertamento sottoscritto digitalmente per difetto di sottoscrizione.

2.2 Si pone, ai fini del decidere, la questione interpretativa dell’art. 2 CAD, comma 6, prima parte, nel testo vigente nel periodo dal 14 settembre 2016 al 26 gennaio 2018, secondo cui: “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, di ordine e sicurezza pubblica, difesa e sicurezza nazionale, polizia giudiziaria e polizia economico-finanziaria e consultazioni elettorali”.

L’Agenzia ricorrente ritiene che nella limitazione di cui alla suindicata disposizione non vadano inclusi gli avvisi di accertamento che pertanto, a decorrere dal 14 settembre 2016, sarebbero stati legittimamente emessi con la forma del documento informatico e sottoscritti con firma digitale.

Va premesso che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrazione, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo e-IDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici.

Ai sensi dell’art. 40 CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. del 13 novembre 2014.

Posto che la regola generale è divenuta il ricorso ai documenti informatici, e le limitazioni l’eccezione, l’interpretazione dell’art. 2 CAD, comma 6, ratione temporis vigente, proposta dall’Agenzia delle Entrate merita di essere condivisa sulla base di una serie di valutazioni ermeneutiche sia di tipo letterale che sistematico.

Rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.

La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.

In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonchè di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza.

Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni.

Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed all’art. 54 e ss le rettifiche e gli accertamenti.

Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

2.3 Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicchè l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

Non da ultimo va evidenziato che l’interpretazione contraria proposta dalla CTR si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi.

La modifica apportata al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6, con l’inserimento del comma 6 che ha introdotto la possibilità della notifica a mezzo PEC degli avvisi di accertamento, tende ad una implementazione dell’utilizzo dei documenti informatici.

Il comma 6-bis, aggiunto all’art. 2 CAD, dal D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. e), ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” e rimette ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.

Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.

3. Alla ritenuta applicabilità del CAD consegue la legittimità della notifica di una copia analogica conforme ad un documento informatico.

3.1 Ai sensi dell’art. 23 CAD “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

Nella specie risulta incontestato, e comunque provato, che l’atto impositivo notificato in copia cartacea presentava l’attestazione di conformità all’originale e tanto è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017).

Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta.

Si ricorda che la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi è stata introdotta solo a decorrere dall’1 luglio 2017, a seguito dell’aggiunta al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, del comma 6, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6; l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità.

3.2 Si aggiunga che risulta agli atti che l’atto sia comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario: trova pertanto applicazione il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo. (Vedi tra le tante Cass. SU n. 7665 del 2016; n. 27561 e n. 24568 del 2018).

4. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R. della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione, che procederà all’esame degli ulteriori motivi di ricorso, ed anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte:

accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, rinvia per l’ulteriore esame, e anche per le spese, alla C.T.R della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 26 gennaio 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 22/10/2020) 21/01/2021, n. 1150

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 35888/2019 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore p.t., elett.te domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

C.S., rapp.to e difeso dai Dott. Michele Morganti e Raffaele Marangoni, presso cui elett.te domicilia in Prato, alla via Baldinucci n. 41;

– intimato –

avverso la sentenza n. 713/10/19 della Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, depositata in data 24/4/2019, non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22 ottobre 2020 dalla Dott.ssa Milena d’Oriano;

udito per la ricorrente l’avv. Chiappiniello Giovanni che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Giovanni Giacalone che ha concluso per l’accoglimento.

Svolgimento del processo
1. Con sentenza n. 713/10/19, depositata il 24 aprile 2019, non notificata, la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, sez. distaccata di Livorno, rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza n. 456/1/17 della CTP di Livorno, con compensazione delle spese di lite.

Il giudice di appello, a conferma della decisione di primo grado, concludeva per il rigetto del gravame rilevando:

a) che il giudizio aveva ad oggetto l’impugnazione di un avviso di accertamento, emesso il 3-11-16 e notificato in data 15-11-16, con cui, a seguito della definitività di altro avviso di accertamento per un maggior reddito di impresa per l’anno 2013 emesso a carico della società ICLOS s.r.l., premessa la ristretta base azionaria, si imputava a C.S., socio al 24,5%, un maggior reddito di capitale in proporzione della quota di partecipazione agli utili;

b) che la Commissione di primo grado aveva accolto il ricorso, articolato su vari motivi formali e di merito, ritenendo fondata l’eccezione preliminare relativa alla carenza di valida sottoscrizione dell’avviso impugnato che, ritenuta l’inapplicabilità delle formalità di cui al Codice dell’Amministrazione Digitale, come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, non recava firma autografa bensì digitale e risultava notificato in copia cartacea anzichè a mezzo PEC;

c) che tale decisione era condivisibile, con assorbimento degli ulteriori motivi, in quanto: la firma a stampa ai sensi della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, era ammissibile solo per gli accertamenti emessi a seguito di procedure automatizzate; l’apposizione di una firma digitale ad un avviso di accertamento notificato prima del 27-1-2018 era causa di nullità dell’atto per difetto di sottoscrizione; solo per gli atti notificati a decorrere dall’1-7-2017 la combinazione firma digitale/notifica a mezzo PEC consentiva il rispetto della procedura informatica della normativa vigente ratione temporis.

2. Avverso la sentenza di appello l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, notificato a mezzo PEC il 19 novembre 2019, affidato a due motivi, e depositato memoria ex art. 378 c.p.c.; il contribuente rimaneva intimato.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo l’Agenzia censura la sentenza impugnata denunciando violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, degli artt. 2 e 23 del CAD, della L. n. 311 del 2014, art. 1, comma 375, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che le norme del Codice dell’Amministrazione Digitale vanno ritenute applicabili anche alle funzioni istituzionali di accertamento dell’Agenzia delle Entrate, applicabilità esclusa, ai sensi del suddetto codice, art. 2, comma 6, come modificato, a decorrere dal 14 settembre 2016, dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), solo per le “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”, da intendersi per quelle attività di controllo fiscale svolte dall’Agenzia e dalla Guardia di Finanza rappresentata dagli accessi, ispezioni e verifiche sulla cui base vengono emessi gli avvisi di accertamento; interpretazione confermata dall’ulteriore modifica dell’art. 2, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, che, mediante l’aggiunta del comma 6 bis, rendeva esplicita tale applicazione. Si rilevava altresì che la copia cartacea notificata al contribuente presentava l’attestazione di conformità prevista dall’art. 23 del CAD. 2. con il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, dell’art. 23 CAD, dell’art. 137 c.p.c., commi 2 e 3, e dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, rilevando che la possibilità di notificare a mezzo PEC anche gli atti impositivi era stata introdotta solo a decorrere dal 1 luglio 2017, con l’inserimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 7, sicchè prima di tale data l’Agenzia aveva correttamente proceduto all’invio della copia analogica munita di attestazione di conformità e che, in ogni caso, ogni eventuale nullità della notifica doveva ritenersi sanata per il raggiungimento dello scopo, allorchè il contribuente era” comunque venuto a conoscenza dell’atto.

3. Il primo motivo è meritevole di accoglimento.

3.1 Questione controversa è la legittimità degli atti impositivi emessi dall’Agenzia delle Entrate in formato elettronico, e sottoscritti con firma digitale, nel periodo di vigenza del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 2, comma 6, (cd CAD – Codice dell’Amministrazione digitale), come modificato dal D.Lgs. n. 179 del 2016, art. 2, comma 1, lett. c), entrato in vigore a decorrere dal 14 settembre 2016, sino alle ulteriori modifiche apportate allo stesso art. 2, comma 6, con l’aggiunta altresì del comma 6-bis, ad opera del D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. d) ed e), entrato in vigore dal 27 gennaio 2018.

Dalla ritenuta inapplicabilità del CAD, e quindi delle disposizioni in tema di firma digitale, la sentenza gravata ha fatto derivare la nullità dell’avviso di accertamento sottoscritto digitalmente per difetto di sottoscrizione.

3.2 Si pone, ai fini del decidere, la questione interpretativa dell’art. 2 del CAD, comma 6, prima parte, nel testo vigente nel periodo dal 14 settembre 2016 al 26 gennaio 2018, secondo cui: “Le disposizioni del presente Codice non si applicano limitatamente all’esercizio delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, di ordine e sicurezza pubblica, difesa e sicurezza nazionale, polizia giudiziaria e polizia economico-finanziaria e consultazioni elettorali” L’Agenzia ricorrente ritiene che nella limitazione di cui alla suindicata disposizione non vadano inclusi gli avvisi di accertamento che pertanto, a decorrere dal 14 settembre 2016, sarebbero stati legittimamente emessi con la forma del documento informatico e sottoscritti con firma digitale.

Va premesso che la normativa in tema di digitalizzazione della pubblica amministrativa, anche in conseguenza degli obblighi di adeguamento al Regolamento comunitario noto con l’acronimo e-IDAS, entrato in vigore direttamente in tutti gli Stati Membri UE, senza necessità di atti di recepimento, il 17 settembre 2014, e divenuto applicabile a decorrere dal 1 luglio 2016, impone ormai come regola generale l’adozione dei documenti informatici, residuando ad eccezione il mantenimento dei documenti analogici.

Ai sensi dell’art. 40 del CAD, le pubbliche amministrazioni formano gli originali dei propri documenti con mezzi informatici secondo le regole tecniche fissate dal D.P.C.M. del 13-11-2014.

Posto che la regola generale è divenuta il ricorso ai documenti informatici, e le limitazioni l’eccezione, l’interpretazione dell’art. 2 del CAD, comma 6, ratione temporis vigente, proposta dall’Agenzia delle Entrate merita di essere condivisa sulla base di una serie di valutazioni ermeneutiche sia di tipo letterale che sistematico.

Rileva, innanzitutto, sul piano terminologico che gli atti impositivi non rientrano tra gli atti emessi “nell’esercizio” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, a cui sono certamente riconducibili gli atti adottati in occasione di indagini e verifiche ispettive propedeutiche all’esercizio del potere di accertamento e di irrogazione di sanzioni, bensì tra gli atti eventualmente emessi “all’esito” delle attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale, attività che potrebbero anche concludersi con un esito favorevole per il contribuente, e quindi senza l’emissione di un atto impositivo.

La distinzione tra l’attività accertativa e quella preliminare di verifica e controllo risulta poi immanente nella normativa fiscale vigente.

In tema di imposte dirette, la definizione in termini distintivi è presente già nella rubrica del titolo quarto del D.P.R. n. 600 del 1973, denominato “Accertamento e controllo”; le attività di controllo sono autonomamente regolate agli artt. 32 e 33 dello stesso decreto, si realizzano attraverso accessi, ispezioni e verifiche, inviti a comparire e richieste di documentazione che richiedono una diretta interlocuzione con il contribuente, prevedono la cooperazione della Guardia di Finanza nonchè di qualsiasi altro soggetto pubblico incaricato istituzionalmente di svolgere attività ispettive o di vigilanza.

Prerogativa esclusiva dell’Amministrazione finanziaria è invece l’adozione degli atti impositivi, di cui agli artt. 36-bis, 36-ter, 38, 39 ecc., che hanno ad oggetto la liquidazione delle imposte o delle maggiori imposte e delle eventuali sanzioni.

Anche il D.P.R. n. 633 del 1972, in tema di IVA, regola separatamente all’art. 52 gli accessi, ispezioni e verifiche ed agli artt. 54 e ss. le rettifiche e gli accertamenti.

Lo Statuto del contribuente, in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, all’art. 12, comma 7, conferma la distinzione delle due attività imponendo, a pena di illegittimità dell’atto impositivo emesso “ante tempus”, l’osservanza di un termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento, decorrente dal rilascio al soggetto nei cui confronti sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni.

3.3 Correttamente la ratio dell’esclusione degli atti propedeutici all’esercizio del potere di accertamento è stata rinvenuta nel fatto che nell’ambito di tali attività di verifica si impone la partecipazione del contribuente che potrebbe non essere munito di firma digitale, sicchè l’applicazione del CAD determinerebbe un aggravio dei suoi diritti di difesa ed un ostacolo al rapporto di collaborazione che dovrebbe sempre ispirare tali incombenti.

Non da ultimo va evidenziato che l’interpretazione contraria proposta dalla CTR si porrebbe in disarmonia con la volontà del legislatore come manifestata negli interventi normativi successivi.

La modifica apportata al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6, con l’inserimento del comma 6 che ha introdotto la possibilità della notifica a mezzo PEC degli avvisi di accertamento, tende ad una implementazione dell’utilizzo dei documenti informatici.

Il comma 6-bis, aggiunto all’art. 2 del CAD dal D.Lgs. n. 217 del 2017, art. 2, lett. e), ne sancisce espressamente l’applicabilità “agli atti di liquidazione, rettifica, accertamento e di irrogazione delle sanzioni di natura tributaria” e rimette ad un successivo decreto l’adozione delle modalità e dei termini per l’applicazione anche alle “attività e funzioni ispettive e di controllo fiscale”.

Seppure non si voglia attribuire a tale ultima disposizione la natura di norma di interpretazione autentica con portata retroattiva, è indubbio che da essa non può che trarne conferma l’impostazione esegetica che distingue l’attività di accertamento da quella di controllo fiscale.

4. Alla ritenuta applicabilità del CAD consegue l’accoglimento del secondo motivo, relativo alla legittimità della notifica di una copia analogica conforme ad un documento informatico.

4.1 Ai sensi dell’art. 23 del CAD “Le copie su supporto analogico di documento informatico, anche sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale in tutte le sue componenti è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato”.

Nella specie risulta incontestato, e comunque provato, che l’atto impositivo notificato in copia cartacea presentava l’attestazione di conformità all’originale e tanto è sufficiente a dimostrare l’avvenuta sottoscrizione dell’atto ed a conferirgli un valore probatorio equiparato all’originale informatico (in tema di sentenze sottoscritte digitalmente vedi Cass. n. 15074 del 2017).

Non sussistendo alcun indispensabile o necessario collegamento tra documento informatico e notifica a mezzo PEC, nulla impedisce che una copia analogica di un documento informatico conforme all’originale venga notificata secondo le regole ordinarie della notifica a mezzo posta.

Si ricorda che la possibilità di una notifica a mezzo PEC per gli atti impositivi è stata introdotta solo a decorrere dall’1 luglio 2017, a seguito del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, aggiunta del comma 6, ad opera del D.L. n. 193 del 2016, art. 7-quater, comma 6; l’Agenzia ricorrente, non potendo utilizzare la notifica a mezzo PEC prima di tale data, ha correttamente proceduto alla notifica ordinaria di una copia analogica dell’atto informatico, munita della prescritta attestazione di conformità.

4.2 Si aggiunga che risulta agli atti che l’atto sia comunque giunto della sfera di conoscibilità del destinatario: trova pertanto applicazione il principio consolidato secondo cui, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 3, ove l’atto, malgrado l’irritualità della notifica, sia venuto a conoscenza del destinatario, la nullità non può essere dichiarata per il raggiungimento dello scopo. (Vedi tra le tante Cass. SU n. 7665 del 2016; n. 27561 e n. 24568 del 2018) 5. Per tutto quanto sopra esposto, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla C.T.R. della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione, che procederà all’esame degli ulteriori motivi di ricorso, ed anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte, accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, rinvia per l’ulteriore esame, e anche per le spese, alla C.T.R della Toscana, sez. distaccata di Livorno, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 22 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 gennaio 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 10/09/2020) 07/12/2020, n. 27976

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso proposto da:

Metaflor Srl in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, giusta procura speciale stesa a margine del ricorso, dall’Avv.to Paolo Vitiello, che ha indicato recapito PEC, ed elettivamente domiciliata presso lo studio del difensore, alla via G. Bruno n. 1/3 in Lugo (RA), domicilio presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, Roma;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ex lege, dall’Avvocatura Generale dello Stato, ed elettivamente domiciliata presso i suoi uffici, alla via dei Portoghesi n. 12 in Roma;

– controricorrente –

Avverso la sentenza n. 254, pronunciata dalla Commissione Tributaria Regionale della Basilicata il 27.6.2013 e pubblicata il 5.7.2013;

ascoltata, in camera di consiglio, la relazione svolta dal Consigliere Paolo Di Marzio;

la Corte osserva.

Svolgimento del processo
l’Agenzia delle Entrate notificava alla Srl Metaflor la quale aveva dichiarato, in relazione all’anno 2006, perdite nell’ammontare di Euro 4.427,00, l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), con il quale rettificava il reddito ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, nell’ammontare di Euro 371.368,00, in particolare in considerazione del possesso di immobilizzazioni per un valore di 3.094.737,00 Euro. La società aveva invero domandato all’Ente impositore la disapplicazione dell’indicata normativa antielusiva relativa alle c.d. società di comodo, ma l’Agenzia delle Entrate aveva respinto la richiesta ritenendo insussistenti i presupposti per il suo accoglimento.

La Srl Metaflor impugnava l’avviso di accertamento notificatole innanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Matera, evidenziando che la società non svolgeva attività produttiva da diversi anni, essendo stata aggredita dai creditori, che avevano anche conseguito il pignoramento di beni strumentali e terreni. In conseguenza era stata posta in liquidazione per atto di notaio nell’ottobre 2002, ed aveva ceduto in comodato i beni aziendali per evitarne il deterioramento.

La CTP accoglieva il ricorso della contribuente, ritenendo che “la società contribuente non era in grado di svolgere qualsiasi attività in pendenza di numerose procedure esecutive immobiliari” (sent. CTR, p. 2).

Avverso la decisione adottata dalla CTP proponeva appello l’Ente impositore innanzi alla Commissione Tributaria Regionale della Basilicata, sostenendo che dovesse trovare applicazione la normativa dettata per le società di comodo, perchè la contribuente era in condizione di produrre reddito ed aveva invece preferito, con scelta volontaria e discrezionale, cedere in comodato gratuito i suoi beni, ed in ogni caso non aveva fornito la prova, che su di essa incombeva, di non essere in condizione di produrre profitti. La CTR riteneva effettivamente non essere stata fornita dalla società la prova dell’impossibilità di conseguire profitti per ragioni obiettive nell’anno 2006 e, stimando correttamente applicati dall’Agenzia delle Entrate i criteri legali di quantificazione del reddito, accoglieva il ricorso proposto dall’Ente impositore ed affermava pertanto la validità ed efficacia dell’avviso di accertamento notificato alla società.

Avverso la decisione adottata dalla CTR della Basilicata ha proposto ricorso per cassazione la Srl Metaflor, affidandosi a due motivi di ricorso. Resiste mediante controricorso l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione
Preliminarmente occorre esaminare la contestazione di inammissibilità del ricorso per cassazione, proposta dalla controricorrente Agenzia delle Entrate per essere stato notificato “direttamente all’Ufficio periferico e non al direttore dell’Agenzia delle Entrate” (controric., p. 7). In proposito, integrando quanto già affermato dal Giudice di legittimità, può indicarsi il principio di diritto secondo cui “la notifica del ricorso per cassazione può essere effettuata dal contribuente, alternativamente, presso la sede centrale dell’Agenzia o presso i suoi uffici periferici, in tal senso orientando l’interpretazione sia il carattere unitario della stessa Agenzia delle Entrate, sia il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità, sia il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato” (cfr. Cass. sez. V, 14.1.2015, n. 441, Cass. SU, 14.2.2006, nn. 3116 e 3118). Merita ancora di essere segnalato, peraltro, come questa Corte abbia già avuto occasione di affermare anche il principio secondo cui “nel processo tributario la nullità della notificazione del ricorso introduttivo (ovvero dell’atto di gravame) è sanata con efficacia retroattiva dalla costituzione della parte resistente od appellata, anche quando sia avvenuta al solo fine di eccepire la suddetta nullità”, Cass. sez. V, 4.4.2008, n. 8777.

1.1. – Mediante il suo primo motivo di ricorso la contribuente contesta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 734 del 1994, art. 30, commi 1, 4, e 4-bis, in cui è incorsa l’impugnata CTR, per aver ritenuto applicabile alla fattispecie la normativa in materia di società non operative, trascurando che in relazione alla Srl Metaflor sussistevano le condizioni per la disapplicazione della normativa, che era stata pure esplicitamente richiesta dalla contribuente.

1.2. – Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente censura, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della impugnata sentenza pronunciata dalla CTR della Basilicata a causa della contraddittorietà della motivazione e, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, critica il vizio di motivazione, in cui è incorsa la CTR in conseguenza della “omessa valutazione del materiale probatorio” (ric., p. 8).

2.1. – Con il suo primo motivo di impugnazione la società censura la violazione di legge in cui sarebbe incorsa la CTR per aver erroneamente ritenuto applicabile nel caso di specie la normativa sulle c.d. società di comodo, che deve invece essere disapplicata, e procedendo in conseguenza ad un’erronea stima del reddito presuntivamente conseguito dalla società e posto a fondamento dell’avviso di accertamento. La Srl Metaflor, infatti, nell’anno 2006, non era in condizione di operare, essendo stata posta da anni in liquidazione perchè aggredita dalle azioni esecutive dei creditori, i quali avevano anche conseguito il pignoramento di una pluralità di beni aziendali. Il compito del liquidatore, osserva la contribuente, non è quello di provvedere all’esercizio dell’attività d’impresa, bensì di salvaguardare il valore del patrimonio aziendale, ed in conseguenza appare corretta la scelta di affidare i beni aziendali in comodato gratuito, al fine di evitarne il deterioramento, “non essendovi prova alcuna che la stessa nelle condizioni in cui si trovava avrebbe potuto trovare le risorse per gestire autonomamente l’azienda” (ric., p. 8). Secondo la ricorrente, poi, la società non avrebbe comunque potuto accedere all’esclusione dall’applicazione della normativa antielusiva prevista dalla L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1-sexies, non potendo essere assoggettata ad alcuna procedura concorsuale essendo un imprenditore agricolo.

Le riassunte contestazioni introdotte dalla contribuente risultano mal proposte. La normativa antielusiva in questione non prevede che sia l’Ente impositore a dover dimostrare la capacità della supposta società di comodo di svolgere attività produttiva, bensì che la società debba fornire la prova di non essere in grado di svolgerla. In proposito la società si limita a richiamare l’esistenza di sequestri di beni facenti parte del patrimonio sociale, ma non ha cura di indicare specificamente quali fossero i beni sottoposti a procedura esecutiva, e neppure indica il loro valore rispettivamente al complessivo patrimonio dell’impresa, indicato come pari al rilevante importo di oltre tre milioni di Euro.

La società afferma, poi, che non avrebbe potuto accedere alla disapplicazione della normativa antielusiva ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 1-sexies, non potendo essere ammessa ad alcuna procedura concorsuale perchè imprenditore agricolo. Anche in questo caso, però, la società non ha cura di indicare in quali atti processuali si rinvenga la prova che, pur essendo organizzata in forma di società a responsabilità limitata, non fosse assoggettabile a procedura concorsuale, dato peraltro contestato dall’Agenzia delle Entrate (controric., p. 9), senza che la contribuente abbia ritenuto neppure di replicare mediante memoria.

Il primo motivo di ricorso deve essere pertanto rigettato.

2.2. – Mediante il secondo motivo di ricorso la contribuente contesta la nullità della sentenza per essere incorsa in una motivazione contraddittoria, nonchè il vizio di motivazione, per avere la CTR travisato il rilievo del materiale probatorio acquisito in atti.

La censura non appare fondata.

La società sostiene che, nel corso della procedura liquidatoria la società non si trovava in un “periodo normale di operatività”, con la conseguenza che non poteva ritenersi applicabile la normativa antielusiva, ai sensi della circolare del Ministero delle finanze n. 48 del 1997. Ribadisce quindi che, in conseguenza di procedure esecutive mobiliari, aveva subito il pignoramento di propri beni mobili, ma neppure allega quali essi fossero, nè tantomeno chiarisce come abbia provato che, in conseguenza degli atti esecutivi, la sua attività produttiva fosse rimasta preclusa. La contribuente ripete, inoltre, che l’attività liquidatoria non è volta alla produzione, bensì alla conservazione del valore dei beni aziendali.

Occorre in proposito, ricordati e condivisi gli approdi già raggiunti dalla giurisprudenza di legittimità in materia, cfr. Cass. sez. V, 20.4.2018, n. 9852, esprimere il principio secondo cui “la disapplicazione della normativa antie-lusiva consegue alla dimostrazione da parte dell’impresa dell’impossibilità oggettiva di esercitare l’attività produttiva e conseguire in tal modo proventi, ai sensi della L. n. 724 del 1994, art. 30, comma 4-bis, e pertanto non trova applicazione nel caso in cui la mancata percezione di proventi dipenda da una scelta volontaria dell’imprenditore, quale è quella di cedere in comodato d’uso gratuito i beni aziendali”. Appare del resto non chiarito e non comprensibile perchè i beni aziendali, ritenuti improduttivi fin quando sono rimasti nella disponibilità della società, abbiano potuto essere ceduti in comodato a diverso soggetto proprio perchè li utilizzasse nello svolgimento dell’attività produttiva, conseguendo un reddito che, però, non era in grado di assicurare alcun provento alla società in liquidazione. La carenza nell’indicazione di elementi fattuali da parte della società non consente di valutare l’applicabilità della invocata normativa secondaria, neppure indicando la ricorrente da quando abbia avuto decorso l’attività liquidatoria, e dovendo anche tenersi conto che proprio la invocata Circolare del Ministero delle Finanze, n. 48 del 1997, prevede che debba essere “considerato periodo di normale svolgimento dell’attività anche quello in cui la società ha affittato o concesso in usufrutto l’unica azienda posseduta”.

Le valutazioni espresse dal giudice impugnato, il quale ha ritenuto che “la società contribuente nel periodo d’imposta 2006 era in condizione di svolgere l’attività, ma invece di rendere produttiva l’azienda agricola ha stipulato un “contratto di comodato” per la gestione della stessa, che, stante l’entità dei beni materiali del valore di Euro 3.094.737,00, consentiva al comodatario di percepire un sicuro reddito dallo sfruttamento dei fattori produttivi dell’azienda ceduta”, non avendo la contribuente fornito prove “riguardo all’impossibilità di trarne profitto” (sent. CTR, p. 3), ed avendone il giudice dell’appello desunto che non risultasse provata la sussistenza dei presupposti di legge perchè alla Srl Metaflor fosse consentito sottrarsi all’applicazione della normativa antielusiva, non risultano contraddittorie ed appaiono pure fondate in base alle risultanze di causa.

Anche il secondo motivo di ricorso introdotto dalla società dev’essere perciò respinto.

Il ricorso introdotto dalla Srl Metaflor in liquidazione deve essere pertanto rigettato. Le spese di lite seguono l’ordinario criterio della soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto dalla Metaflor Srl in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente Agenzia delle Entrate, delle spese di lite del presente giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 10 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 7 dicembre 2020


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 17/09/2020) 01/12/2020, n. 27400

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

Dott. VECCHIO Massimo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 34553-2018 proposto da:

COMUNE DI SANDRIGO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI GRACCHI 318, presso lo studio dell’avvocato SCIUBBA LORENZO, rappresentato e difeso dall’avvocato MOLLO RUGGERO;

– ricorrente –

contro

T.R., elettivamente domiciliato in ROMA, Piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato ZUCCOLLO MAURIZIO;

– controricorrenti –

avverso l’ordinanza n. 22865/2018 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE di ROMA, depositata il 26/09/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/09/2020 dal Consigliere Dott. STALLA GIACOMO MARIA;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. DE MATTEIS che ha chiesto rigettarsi il ricorso. Conseguenze di legge;

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
p. 1.1 Il Comune di Sandrigo (VI) propone ricorso per revocazione, ex art. 391-bis c.p.c. e art. 395 c.p.c., n. 4), dell’ordinanza della sesta sezione civile-tributaria n. 22865 del 26 settembre 2018, con la quale questa Corte di Cassazione ha ritenuto tardivo il ricorso per cassazione dal Comune proposto – nei confronti del contribuente T.R. per il recupero dell’Ici 2009 non versata – avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale Veneto n. 1092/5/2016 del 12 ottobre 2016. Ciò perchè tale ricorso per cassazione era stato consegnato per la notifica il 10 aprile 2017 e, dunque, oltre la scadenza (12 febbraio 2017) del termine ‘brevè di impugnazione, la cui applicazione nella specie conseguiva alla notificazione della sentenza di appello – direttamente al Comune – in data 14 dicembre 2016 (come da ricevuta di consegna e timbro di protocollo dell’ufficio ricevente, in atti).

Contrariamente a tale assunto, la notificazione in questione non era idonea a far decorrere il termine breve di impugnazione, dal momento che il Comune aveva partecipato al giudizio di appello, non in proprio, ma con il patrocinio di un professionista di fiducia, Dott. B.M., presso il cui studio in Bologna aveva eletto domicilio D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17.

La Corte di Cassazione, travisando la situazione di fatto, non si era dunque avveduta di quest’ultima elezione di domicilio, con conseguente inidoneità della notificazione della sentenza direttamente all’amministrazione comunale a fare nella specie decorrere il termine breve di impugnazione.

p. 1.2 Per l’ipotesi di accoglimento dell’istanza di revocazione e conseguente apertura della fase rescissoria del procedimento, il Comune ripropone in questa sede l’originario motivo di ricorso per cassazione, così esposto: – violazione e falsa applicazione – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – del D.L. n. 102 del 2013, art. 2, comma 5-ter conv. in L. n. 124 del 2013; D.L. n. 70 del 2011, art. 7, comma 2-bis, conv. in L. n. 106 del 2011; D.L. n. 201 del 2011, art. 13, comma 14 e 14-bis conv. in L. n. 214 del 2011; D.L. n. 216 del 2011, art. 29, comma 8, conv. in L. n. 14 del 2012; D.M. 26 luglio 2012, art. 5. Per avere la Commissione Tributaria Regionale erroneamente attribuito efficacia retroattiva quinquennale all’istanza del contribuente di assegnazione all’immobile in sua proprietà – fatto oggetto dell’avviso di recupero Ici 2009 opposto – della categoria catastale di ruralità A6 o D10, nonostante che tale efficacia fosse dalla legge riconosciuta unicamente alle istanze presentate all’agenzia delle entrate entro il 30 settembre 2012, mentre nel caso di specie tale domanda era stata presentata soltanto in data 21 febbraio 2014.

Resiste il contribuente con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

p. 2. L’istanza di revocazione è fondata.

Essa si basa sul rilievo secondo cui la Corte di Cassazione avrebbe nella specie applicato il termine breve ex artt. 325-326 c.p.c. facendolo decorrere dalla notificazione della sentenza di appello direttamente presso gli uffici comunali, nonostante che il Comune impositore avesse partecipato al giudizio di merito, ed ivi eletto domicilio, tramite un proprio difensore esterno. Sennonchè, in tanto sarebbe stato applicabile il termine breve di impugnazione, in quanto la notificazione della sentenza di appello fosse regolarmente avvenuta, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, presso il domicilio eletto, e non direttamente presso gli uffici comunali.

Si osserva nel ricorso per revocazione: “si è convinti che nel pronunciare l’ordinanza di cui si chiede la revocazione tale rilevante circostanza sia sfuggita: infatti se la Corte Suprema di Cassazione avesse preso atto della costituzione del Comune nel giudizio di appello a mezzo del Dott. M.B. e la relativa elezione di domicilio presso il suo studio, certamente non avrebbe ritenuto la consegna della sentenza direttamente all’ufficio tributi del Comune significativa ai fini della decorrenza del termine breve di cui all’art. 325 c.p.c.”.

Ebbene, nella peculiarità della fattispecie, si ritiene che l’errore così prospettato dal ricorrente abbia in effetti natura revocatoria ex art. 395 c.p.c., n. 4).

Occorre partire dal dato normativo secondo cui “vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita, e tanto nell’uno quanto nell’altro caso se il fatto non costituì un punto controverso sul quale la sentenza ebbe a pronunciare”.

L’errore revocatorio deve dunque cadere – per regola generale, valevole anche nel caso di revocazione di sentenze di legittimità ex artt. 391-bis e 391-ter c.p.c., recettivi di quanto stabilito dalla Corte Costituzionale con le sentenze nn. 17/1986 e 36/1991 – su un ‘fattò; esso si concreta in una falsa percezione della realtà, a sua volta indotta da una ‘svistà di natura percettiva e sensoriale.

Proprio per tale sua natura, questa falsa percezione della realtà – che nel procedimento di cassazione concerne necessariamente i soli atti interni al giudizio di legittimità, ossia quelli che la corte esamina direttamente nell’ambito del motivo di ricorso o delle questioni rilevabili d’ufficio: Cass. 4456/15, ord. – deve emergere in maniera oggettiva ed immediata dal solo raffronto tra la realtà fattuale e la realtà rappresentata in sentenza; e ciò con riguardo tanto a fatti materiali (o storici, o empirici) di natura sostanziale, quanto agli eventi del processo.

Nel caso in esame l’ordinanza della corte di cassazione ricostruisce (esattamente) le modalità dell’avvenuta notificazione della sentenza di appello presso un impiegato comunale (“corredata del timbro dell’ufficio accettante e del numero di protocollo dell’amministrazione comunale, nonchè della sigla dell’impiegato addetto alla ricezione”), senza tuttavia menzionare il dato di fatto (pacifico in atti) che il Comune avesse partecipato al giudizio di merito con il ministero di un difensore ‘esternò, presso il quale aveva eletto domicilio.

Che non si sia trattato dell’esito di una determinata valutazione giuridica (di certo irrilevante ai fini revocatori ex art. 395 c.p.c., n. 4, cit.) si desume dal fatto che l’affermazione di idoneità della notifica di specie a far decorrere il termine breve di impugnazione fa seguito, nell’ordinanza in questione, alla esclusiva considerazione delle sue modalità di esecuzione presso l’ente comunale (come sè questo fosse rimasto contumace nei gradi di merito, ovvero vi avesse partecipato con un difensore interno e domicilio presso l’ente stesso), non anche dell’essenziale elemento (prettamente fattuale) dell’avvenuta domiciliazione presso un difensore esterno.

Elemento fattuale, quest’ultimo, la cui omissione ha indotto una rappresentazione della realtà processuale frontalmente difforme dal vero.

Ulteriore conferma di ciò deriva dal fatto che la conclusione alla quale è giunta l’ordinanza in esame viene confortata (quanto ad idoneità della notificazione all’ente ad ingenerare in questo la conoscenza legale della sentenza di appello e, di conseguenza, a far decorrere il termine breve di impugnazione) dalla citazione del precedente di cui in Cass.ord.10851/18, che appunto concerneva proprio un caso, erroneamente assimilato al presente, di mancata costituzione del Comune nei gradi di merito.

Anche il richiamo a questo precedente di legittimità, in altri termini, induce a ritenere che la pronuncia di tardività del ricorso per cassazione sia logicamente derivata proprio dal mancato rilievo delle ‘verè modalità di costituzione in giudizio e domiciliazione del Comune nei gradi di merito (profilo, questo, rimasto del resto del tutto estraneo al contraddittorio delle parti).

Pacifica è l’incidenza decisoria di tale mancato rilievo, stante l’inidoneità della notifica in oggetto (non conforme alla disciplina degli artt. 285 e 170 c.p.c., nè integrante consegna a mani D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 17, in quanto non eseguita nei confronti di soggetto legale rappresentante dell’ente) a far decorrere il termine breve ex art. 325 c.p.c..

p. 3. Accedendo dunque alla fase rescissoria del giudizio, si ritiene che il ricorso per cassazione del Comune debba trovare accoglimento sotto il dedotto profilo della violazione normativa.

Non vi sono ragioni per discostarsi da quanto stabilito da Cass. SSUU n. 18565/09, secondo cui (in motiv.): “in tema di imposta comunale sugli immobili (ICI), l’immobile che sia stato iscritto nel catasto fabbricati come rurale, con l’attribuzione della relativa categoria (A/6 o D/10), in conseguenza della riconosciuta ricorrenza dei requisiti previsti dal D.L. n. 557 del 1993, art. 9, conv. con L. n. 133 del 1994, e successive modificazioni, non è soggetto all’imposta ai sensi del combinato disposto del D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1-bis, convertito con modificazioni dalla L. n. 14 del 2009, e del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 2, comma 1, lett. a). L’attribuzione all’immobile di una diversa categoria catastale deve essere impugnata specificamente dal contribuente che pretenda la non soggezione all’imposta per la ritenuta ruralità del fabbricato, restando altrimenti quest’ultimo assoggettato ad ICI: allo stesso modo il Comune dovrà impugnare l’attribuzione della categoria catastale A/6 o D/10 al fine di potere legittimamente pretendere l’assoggettamento del fabbricato all’imposta”. A tale orientamento hanno fatto seguito innumerevoli pronunce di legittimità (tra cui, Cass. nn. 7102/10; 8845/10; 20001/11; 19872/12; 5167/14), successivamente confermate – nel senso della ininfluenza dello svolgimento o meno, nel fabbricato, di attività diretta alla manipolazione o alla trasformazione di prodotti agricoli, rilevando unicamente il suo classamento – tra le altre, da Cass. n. 16737/15 e da Cass. n. 7930/16.

Va altresì osservato come quanto stabilito dalle SSUU nella sentenza cit. si sia fatto carico anche dei profili di jus superveniens riconducibili all’emanazione sia del D.L. n. 557 del 1993, art. 9, comma 3-bis dell’art. 9 conv. in L. n. 133 del 1994, come introdotto dal D.L. n. 159 del 2007, art. 42-bis conv. in L. n. 222 del 2007; sia del D.L. n. 207 del 2008, art. 23, comma 1-bis conv. in L. n. 14 del 2009.

Con la conseguenza che nemmeno in base a questa normativa – salva l’ipotesi di mancato accatastamento – è dato al giudice tributario di accertare in concreto, incidentalmente, il carattere rurale del fabbricato di cui si sostenga l’esenzione da Ici.

La stessa conclusione va, infine, riaffermata (così Cass. 7930/16 cit. ed innumerevoli altre) pur alla luce dell’ulteriore jus superveniens (D.L. n. 70 frl 2011, conv. in L. n. 106 del 2011; D.L. n. 201 del 2011 conv. in L. n. 214 del 2011; D.L. n. 102 del 2013 conv. in L. n. 124 del 2013) che ha attribuito al contribuente la facoltà di presentazione di domanda di variazione catastale per l’attribuzione delle categorie di ruralità A/6 e D/10, con effetto per il quinquennio antecedente.

Si tratta infatti di disposizioni che rafforzano l’orientamento esegetico già adottato dalle SSUU nel 2009, in quanto disciplinano le modalità (di variazione-annotazione) attraverso le quali è possibile pervenire alla classificazione della ruralità dei fabbricati, anche retroattivamente, onde beneficiare dell’esenzione Ici; sulla base di una procedura ad hoc che non avrebbe avuto ragion d’essere qualora la natura esonerativa della ruralità fosse dipesa dal solo fatto di essere gli immobili concretamente strumentali all’attività agricola, a prescindere dalla loro classificazion catastale conforme.

Tutto ciò posto, l’efficacia retroattiva quinquennale dell’attribuzione di ruralità ai sensi della citata normativa sopravvenuta (2011/2006) concerne le istanze autocertificate a tal fine presentate, come disposto dal D.M. Finanze 26 luglio 2012, art. 2, comma 2 “entro e non oltre il 30 settembre 2012”; ferma restando la possibilità di ottenere anche successivamente la variazione catastale di ruralità con le ordinarie procedure classificatorie Docfa (D.M., comma 6, cit.), ma senza l’effetto retroattivo subordinato all’osservanza delle formalità di cui alla citata disciplina speciale.

La sentenza di appello va dunque cassata con rinvio alla CTR del Veneto che, in diversa composizione, applicherà tali principi alla fattispecie in oggetto.

Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del presente procedimento.

P.Q.M.
La Corte Revoca l’ordinanza della corte di cassazione n. 22865/18;

Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione Tributaria Regionale del Veneto in diversa composizione, anche per le spese.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 17 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 1 dicembre 2020

 


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 30-06-2020) 21-10-2020, n. 22985

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10583-2017 proposto da:

L.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. FILIBERTO 166, presso lo studio degli avvocati ANTONIO CORVASCE, SOFIA PASQUINO, che la rappresentano e difendono;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12;

– controricorrente – avverso la sentenza n. 4628/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/10/2016 R.G.N. 4202/2013.

Svolgimento del processo
CHE:

1. L.A., dipendente del Ministero della Giustizia addetta alla cancelleria Gip del Tribunale di Roma, ha prestato servizio dal 2001 al 2005, sulla base di un orario giornaliero dalle 8 alle 15,12, per cinque giorni la settimana, rinunciando, con il consenso dell’Amministrazione, alla pausa pranzo;

la L., non avendo percepito in tale periodo i buoni pasto giornalieri, ha agito giudizialmente per ottenere il pagamento del controvalore pecuniario, oltre al risarcimento del danno, con domanda che è stata respinta dal Tribunale di Roma, la cui sentenza è stata poi confermata dalla Corte d’Appello della medesima città;

la Corte d’Appello affermava che l’art. 4 del CCNL di riferimento condizionava il riconoscimento del buono pasto all’effettuazione della pausa pranzo, cui invece la ricorrente aveva rinunciato;

d’altra parte, aggiungeva la Corte, la circolare ministeriale del 10.2.1998, nel riconoscere la possibilità del dipendente di rinunciare alla pausa, ma con mantenimento del diritto al buono pasto, si riferiva al caso di recupero in soli due giorni delle ore non effettuate nella sesta giornata settimanale, con orario di lavoro di nove ore e restava subordinato ad esigenze di servizio;

nel caso di specie nulla era risultato in ordine alla ricorrenza di ragioni organizzative di interesse dell’Amministrazione nell’accogliere la domanda della L. di rinuncia alla pausa pranzo e dunque, al di là del fatto che la circolare non poteva rivestire effetti normativi, comunque non ricorrevano neppure i presupposti da essa indicati;

2. la L. ha proposto ricorso per cassazione con tre motivi, resistiti da controricorso del Ministero.

Motivi della decisione
CHE:

con il primo motivo la ricorrente afferma la violazione del D.P.R. n. 3 del 1957, L. n. 724 del 1994, art. 22, D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8, L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11, L. n. 334 del 1997, art. 3, comma 1, D.Lgs. n. 29 del 1996, art. 52 della Circolare 10 febbraio 1998 ed inoltre dell’Accordo Sindacale 30.4.1996, integrato dall’Accordo 12.12.1996, nonchè dell’art. 19, comma 4 CCNL (orario di lavoro) e dell’art. 7, comma 1 CCNL 12.1.1996;

1.1 il motivo è infondato;

come è noto, il diritto alla fruizione dei buoni pasto ha natura assistenziale e non retributiva, finalizzata ad alleviare, in mancanza di un servizio mensa, il disagio di chi sia costretto, in ragione dell’orario di lavoro osservato, a mangiare fuori casa (Cass. 28 novembre 2019, n. 31137; Cass. 8 agosto 2012, n. 14290);

esso, data tale natura, dipende strettamente dalle previsioni delle norme o della contrattazione collettiva che ne consentano il riconoscimento;

in particolare, qualora di regola esso sia riconnesso ad una pausa, destinata al pasto, il sorgere del diritto dipende dal fatto che quella pausa sia in concreto fruita;

le norme primarie (L. n. 334 del 1997, art. 3, comma 1, e L. n. 550 del 1995, art. 2, comma 11) si limitano del resto a rinviare, per le regole di attribuzione dei buoni pasto, ad appositi accordi collettivi;

nel caso di specie i presupposti del diritto sono fissati dall’art. 4, comma 2, dell’accordo collettivo sul riconoscimento dei buoni pasto, secondo cui “il buono pasto viene attribuito per la singola giornata lavorativa nella quale il dipendente effettua un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la relativa pausa prevista dall’art. 19, comma 4, del CCNL, all’interno della quale va consumato il pasto”;

l’art. 19, comma 4, del CCNL del 1995, ivi richiamato, stabilisce a propria volta che “dopo massimo sei ore continuative di lavoro deve essere prevista una pausa che comunque non può essere inferiore ai 30 minuti”, previsione sostanzialmente analoga a quella dell’art. 7, comma 1, CCNL 1996 cui fa parimenti riferimento il motivo di ricorso;

questa Corte, interpretando norme di formulazione sostanzialmente identica a quelle appena evidenziate, seppure in relazione all’area dirigenziale, ha in effetti ritenuto che “in materia di trattamento economico del personale del comparto Ministeri, il cosiddetto buono pasto non è, salva diversa disposizione, elemento della retribuzione “normale”, ma agevolazione di carattere assistenziale collegata al rapporto di lavoro da un nesso meramente occasionale”, la quale quindi “spetta solo ove ricorrano i presupposti di cui all’art. 4 dell’accordo di comparto del personale appartenente alle qualifiche dirigenziali del 30 aprile 1996, che ne prevede l’attribuzione ai dipendenti con orario settimanale articolato su cinque giorni o turnazioni di almeno otto ore, per le singole giornate lavorative in cui il lavoratore effettui un orario di lavoro ordinario superiore alle sei ore, con la pausa all’interno della quale va consumato il pasto, dovendosi interpretare la regola collettiva nel senso che l’effettuazione della pausa pranzo è condizione di riconoscimento del buono pasto” (Cass. 14290/2012 cit.);

nel caso di specie è pacifico che la pausa pranzo non sia stata fruita, per rinuncia ad essa della lavoratrice, evidentemente al fine di poter terminare anticipatamente, nel primo pomeriggio, la prestazione di lavoro;

pertanto, in mancanza di pause, non sono integrati gli estremi cui la disciplina collettiva subordina il diritto alla prestazione;

1.2 il motivo, nella parte in cui denuncia la “violazione e/o falsa applicazione della Circolare 10 febbraio 1998” è invece inammissibile;

è noto infatti che le circolari non sono fonte del diritto ma semplici presupposti chiarificatori della posizione espressa dalla P.A. su un dato oggetto (Cass. 12 gennaio 2016, n. 280; Cass. 14 dicembre 2012, n. 23042; Cass. 27 gennaio 2014, n. 1577; Cass. 6 aprile 2011, n. 7889), sicchè la loro ipotetica violazione non è denunciabile in cassazione sotto il profilo (art. 360 c.p.c., n. 3) della violazione o falsa applicazione di norme di diritto (Cass. 10 agosto 2015, n. 16644; Cass. 30 maggio 2005, n. 11449), nè la censura è stata fatta come violazione dei criteri ermeneutici (art. 1362 ss. c.c.) relativi ad atti unilaterali (amministrativi nella specie);

1.3 nè ha rilievo la veridicità o meno della rinuncia della L. ai buoni pasto, da essa negata, in quanto è sufficiente che vi sia stata rinuncia alle pause, quale elemento necessario al riconoscimento del diritto;

quanto poi all’argomento sviluppato dalla ricorrente secondo cui l’articolazione dell’orario, nel pubblico impiego, non potrebbe mai basarsi su esigenze personali del lavoratore, esso non muta le conclusioni da assumere;

è indubbio infatti che la P.A. possa negare il consenso alla rinuncia alla pausa pranzo, se ciò entri in contrasto con le proprie esigenze di servizio, ma ciò non significa che una tale articolazione oraria, se derivante da richiesta del lavoratore, non risalga ad un’autonoma decisione di quest’ultimo della quale, se l’effetto sia quello di far venire meno uno dei presupposti per la fruizione dei buono pasto, lo stesso non possa lamentarsi nei riguardi del proprio datore di lavoro;

non può poi affermarsi la coincidenza della rinuncia alla pausa concomitante con l’esigenza di un servizio ininterrotto, di cui alla Circolare, con il consenso ad una rinuncia alla pausa prospettata dal dipendente e cui la P.A. si limiti a consentire, in quanto in quest’ultimo caso non vi è la ineludibile esigenza amministrativa di un servizio ininterrotto, ma solo l’accettazione di esso come tale, per avallare la domanda del dipendente;

1.4 altra questione è se l’organizzazione oraria comunque definita risulti eventualmente in contrasto con la disciplina sui riposi e le pause, tra cui le norme, citate dalla ricorrente nel motivo, di cui alla L. n. 724 del 1994, art. 22 e D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8;

ciò tuttavia potrebbe avere rilievo non sul diritto a percepire i buoni pasto, che dipende dal verificarsi dei corrispondenti e specifici presupposti, ma semmai rispetto ad eventuali danni, anche alla persona, che dovessero essere derivati dall’indebita modalità di organizzazione del lavoro, ma non è questo l’oggetto del contendere quale impostato in causa;

2. il secondo motivo afferma, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218 e 1223 c.c., sostenendo che alla ricorrente sarebbe spettato il risarcimento del danno per equivalente derivante da inadempimento della controparte;

l’inadempimento, anche in tale motivo, è identificato nel rifiuto di corrispondere i buoni pasto, ma è evidente l’insostenibilità dell’assunto, in quanto se i buoni pasto non erano dovuti, tale inadempimento non può esservi, mentre del tutto evanescente e non meglio specificato risulta, nei tratti concreti ulteriori rispetto ad un inadempimento che in sè non vi è stato, il richiamo, parimenti contenuto nel motivo, ai principi di buona fede e correttezza;

il terzo motivo è dedicato infine alla denuncia di violazione e/o falsa applicazione del combinato disposto degli artt. 2697 c.c. e 115 e 414 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3) oltre che all’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5);

nel corpo del motivo si censura in realtà esclusivamente il fatto che i giudici di appello non abbiano ammesso le prove pur articolate nel ricorso di primo grado e sulle quali la ricorrente aveva insistito anche con l’atto di appello;

il motivo è del tutto generico, non indicando neppure il contenuto di tali prove, sicchè ne è palese l’inammissibilità;

3. al rigetto del ricorso segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale, il 30 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 21 ottobre 2020


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 13-07-2020) 19-10-2020, n. 22668

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. LORITO Matilde – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. DE MARINIS Nicola – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19765/2017 proposto da:

D.B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, V. CARLO MIRABELLO 11, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE PIO TORCICOLLO, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO PARATO;

– ricorrente –

contro

FERROVIE DEL SUD-EST E SERVIZI AUTOMOBILISTICI S.R.L., SOCIETA’ CON SOCIO UNICO, SOGGETTA ALL’ATTIVITA’ DI DIREZIONE E COORDINAMENTO DI FERROVIE DELLO STATO ITALIANE S.P.A., SUCCEDUTA EX LEGE ALLA “GESTIONE COMMISSARIALE GOVERNATIVA PER LE FERROVIE DEL SUD EST”, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A STOPPANI 34, presso lo studio dell’avvocato CARLO MOLAIOLI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3001/2017 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/02/2017 r.g.n. 2582/2013.

Svolgimento del processo
che, con sentenza del 7 febbraio 2017, la Corte d’Appello di Lecce confermava la decisione resa dal Tribunale di Lecce e rigettava le domande proposte da D.B.A. nei confronti di Ferrovie del Sud-Est e Servizi Automobilistici S.r.l., domande aventi ad oggetto la declaratoria dell’obbligo della Società datrice di adibire il D.B. esclusivamente alle mansioni di sua competenza quale “operatore di scambi cabina” e non, come la stessa Società aveva disposto, con apposito ordine di servizio, a quelle, inferiori e quindi dequalificanti, precedentemente svolte di “operatore di manutenzione” e di corrispondergli la retribuzione prevista contrattualmente per la qualifica di appartenenza ivi comprese le somme arretrate non corrisposte dalla data di maturazione del diritto, l’accertamento dell’illegittimità nonchè del carattere persecutorio e vessatorio del comportamento della Società concretatisi nel demansionamento e, a fronte del rifiuto opposto dal D.B. a tale impiego, nella reiterata irrogazione di sanzioni disciplinare, la sua conseguente configurabilità in termini di mobbing, incidente in senso pregiudizievole sullo stato di salute psico-fisico del D.B. e la condanna della Società al risarcimento del danno biologico, professionale, esistenziale e morale, da liquidarsi anche in via equitativa;

che la decisione della Corte territoriale discende dall’aver questa ritenuto legittimo l’impiego del D.B. in mansioni inferiori a quelle proprie della qualifica di appartenenza dovendo ammettersi, anche alla luce dei richiamati principi giurisprudenziali, una tale flessibilità, tenuto conto del ridotto periodo di tempo di adibizione ad esse, in assoluto e nell’arco della singola giornata lavorativa, irrilevante a tale stregua la questione dell’ammissibilità di tale flessibilità alla luce della disciplina collettiva, formalmente legittima l’irrogazione di sanzioni disciplinari, dovendosi ritenere le previsioni sul punto recate dal R.D. n. 148 del 1931, compatibili con la regolamentazione privatistica del rapporto di lavoro degli autoferrotranvieri e, perciò, estranee all’abrogazione del R.D. n. 148 del 1931, disposta dalla L. n. 662 del 1996, art. 2, comma 9 e rinunziate e comunque infondate le domande risarcitorie connesse al presunto demansionamento ed alla violazione dell’art. 2087 c.c.;

che per la cassazione di tale decisione ricorre il V., affidando l’impugnazione ad un unico motivo, cui resiste, con controricorso, la Società;

che il ricorrente ha poi presentato memoria.

Motivi della decisione
che, con l’unico motivo, il ricorrente, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. e del CCNL 27.11.2000 per il Trasporto Pubblico Locale in una con il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, lamenta la non conformità a diritto della pronunzia della Corte territoriale per essere l’impiego promiscuo del ricorrente in compiti propri della qualifica inferiore in precedenza rivestita escluso sul piano legislativo e contrattuale e conseguentemente l’illegittimità del disconoscimento dell’idoneità lesiva dell’integrità psico-fisica del lavoratore della condotta della Società, viceversa qualificabile come mobbing e fonte di danno risarcibile, domanda questa a sua volta erroneamente considerata rinunziata e disattesa dalla Corte territoriale;

che il motivo esposto si rivela infondato, ritenendo questo Collegio di dover dare continuità all’orientamento accolto da questa Corte e puntualmente richiamato nella motivazione dell’impugnata sentenza per cui “il lavoratore può essere adibito, per motivate esigenze aziendali, anche a compiti inferiori, se marginali rispetto a quelli propri del suo livello” (cfr., da ultimo, Cass. Sez. Lav., ord, 31 agosto 2018, n. 21515), in base al quale la flessibilità data dall’impiego del lavoratore in mansioni promiscue si rivela di per sè legittimo, mentre non trova ostacolo nella disciplina contrattuale di settore ai sensi dell’art. 2 del CCNL 27.11.2000, la cui interpretazione in termini di legittimazione della “flessibilità in uso” in quanto autorizzata da precedenti accordi collettivi pur dichiarati superati fatta propria dalla Corte territoriale non risulta adeguatamente confutata dal ricorrente, conseguendone, secondo quanto statuito dalla Corte territoriale l’inconfigurabilità nella specie di condotte illegittime della Società idonee a fondare pretese risarcitorie, di cui, comunque, inammissibilmente, per difetto di autosufficienza, stante la mancata trascrizione o allegazione di documentazione comprovante la circostanza, si contesta l’intervenuta rinunzia contestualmente affermata dalla Corte territoriale;

– che il ricorso va, dunque, rigettato;

– che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.250,00 per compensi, oltre spese generali al 15% ed altri accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2020


Cass. civ. Sez. VI – 2, Ord., (ud. 16-09-2020) 14-10-2020, n. 22136

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17647-2019 proposto da:

ALIGRA’ DI B.S. & C. S.N.C., B.S. E C.R., rappresentati e difesi dall’Avvocato CHIERICATI ROSA ed elettivamente domiciliata presso la Cancelleria della Corte di cassazione, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MONTE DEI PASCHI DI SIENA S.P.A.;

– intimata –

avverso la SENTENZA n. 2936/2018 della CORTE D’APPELLO DI BOLOGNA, depositata il 27/11/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 16/9/2020 dal Consigliere DONGIACOMO GIUSEPPE.

Svolgimento del processo
La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello che la Aligrà di B.S.fano & C. s.n.c. nonchè B.S. e C.R. avevano proposto nei confronti della sentenza con la quale, il 10/10/2017, il tribunale aveva dichiarato l’inammissibilità dell’opposizione dagli stessi a suo tempo proposta avverso il decreto ingiuntivo pronunciato nei loro confronti su ricorso della Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a..

La corte, in particolare, ha condiviso il giudizio del tribunale secondo il quale l’opposizione, in quanto proposta con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto ma oltre le ore 21, si era perfezionata, a norma degli del D.L. n. 179 del 2012, art. 16 septies e art. 147 c.p.c., alle ore 7 del giorno successivo, vale a dire il quarantunesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo, ed era, quindi, tardiva e, come tale, inammissibile.

La Aligrà di B.S. & C. s.n.c. nonchè B.S. e C.R., con ricorso notificato il 27/5/2019, hanno chiesto, per un motivo, la cassazione della sentenza.

La Banca Monte dei Paschi di Siena s.p.a. è rimasta intimata.

Motivi della decisione
1.Con l’unico motivo che hanno articolato, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione del D.Lgs. n. 179 del 2012, art. 16-septies, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che l’opposizione proposta dagli ingiunti con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto ma oltre le ore 21, era tardiva, laddove, al contrario, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 75 del 2019, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies lì dove prevedeva che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta, l’opposizione in esame, sebbene spedita oltre le ore 21 del quarantesimo giorno successivo alla notificazione del decreto ingiuntivo opposto, deve essere ritenuta tempestiva.

2. Il motivo è fondato.

3. Il D.L. n. 179 del 2012, art. 16-quater, comma 3, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, dispone, in effetti, che la notifica eseguita con modalità telematica a mezzo di posta elettronica certificata “si perfeziona, per il soggetto notificante, nel momento in cui viene generata la ricevuta di accettazione prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 1, e, per il destinatario, nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna prevista dal D.P.R. 11 febbraio 2005, n. 68, art. 6, comma 2”.

4. Il citato d.L. n. 179, art. 16-septies ha aggiunto che la notificazione eseguita con modalità telematica è assoggettata alla norma prevista dall’art. 147 c.p.c. (secondo il quale, nella vigente formulazione, le notificazioni non possono farsi prima delle ore 7 e dopo le ore 21) e che tale notifica, quando è eseguita dopo le ore 21, si considera perfezionata alle ore 7 del giorno successivo.

5. Ora, la Corte costituzionale, con sentenza n. 75 del 2019, in merito alle notifiche eseguite con modalità telematiche, ha “dichiarato costituzionalmente illegittimo – per violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. – il D.L. n. 179 del 2012, art. 16-septies (conv., con modif., in L. n. 221 del 2012), inserito dal D.L. n. 90 del 2014, art. 45-bis, comma 2, lett. b), (conv., con modif., in L. n. 114 del 2014), nella parte in cui prevede che la notifica eseguita con modalità telematiche la cui ricevuta di accettazione è generata dopo le ore 21 ed entro le ore 24 si perfeziona per il notificante alle ore 7 del giorno successivo, anzichè al momento di generazione della predetta ricevuta”.

6. In effetti, la fictio iuris relativa al differimento al giorno seguente degli effetti della notifica eseguita dal mittente tra le ore 21 e le ore 24, è giustificata nei confronti del destinatario, poichè il divieto di notifica telematica dopo le ore 21, previsto dalla prima parte dell’art. 16 septies, tramite il rinvio all’art. 147 c.p.c., mira a tutelare il suo diritto al riposo in una fascia oraria (dalle 21 alle 24) nella quale egli sarebbe altrimenti costretto a continuare a controllare la casella di posta elettronica.

7. Nei confronti del mittente, al contrario, il medesimo differimento comporta un irragionevole vulnus al pieno esercizio del diritto di difesa (segnatamente, nella fruizione completa dei termini per l’esercizio dell’azione in giudizio, anche nella sua essenziale declinazione di diritto ad impugnare), poichè gli impedisce di utilizzare appieno il termine utile per approntare la propria difesa – che, nel caso di impugnazione, scade (ai sensi dell’art. 155 c.p.c.) allo spirare della mezzanotte dell’ultimo giorno – senza che ciò sia funzionale alla tutela del diritto al riposo del destinatario e nonostante che il mezzo tecnologico lo consenta.

8. Inoltre, la restrizione delle potenzialità (accettazione e consegna sino alla mezzanotte) che caratterizzano e diversificano il sistema tecnologico telematico rispetto al sistema tradizionale di notificazione legato “all’apertura degli uffici” è intrinsecamente irrazionale, venendo a recidere l’affidamento che lo stesso legislatore ha ingenerato nel notificante immettendo il sistema telematico nel circuito del processo.

9. La reductio ad legitimitatem della disposizione si realizza con l’applicazione della regola generale di scissione soggettiva degli effetti della notificazione anche alla notifica effettuata con modalità telematiche con la conseguenza, in particolare, che, nei confronti del mittente, la notificazione richiesta ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 3, si perfeziona, ove la ricevuta di accettazione sia rilasciata entro le ore 24, il giorno stesso in cui è eseguita (Cass. n. 4712 del 2020; Cass. n. 12050 del 2020).

10. La corte d’appello, quindi, lì dove ha ritenuto che l’opposizione, in quanto proposta con atto di citazione notificato in via telematica nel quarantesimo giorno dalla notifica del decreto ingiuntivo opposto ma oltre le ore 21, era tardiva perchè perfezionatasi anche nei confronti del mittente alle ore 7 del giorno successivo, non si è, evidentemente, attenuta alla conclusione sopra esposta.

11. La sentenza impugnata dev’essere, quindi, cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Bologna che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte così provvede: accoglie il ricorso e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla corte d’appello di Bologna che, in differente composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile – 2, il 16 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2020


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 12/12/2019) 09/10/2020, n. 21797

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANZON Enrico – Presidente –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. NOCELLA Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 6430/2015 R.G. proposto da:

B.G., C.F. (OMISSIS), res. in (OMISSIS), rapp.to e difeso, giusta procura a margine del ricorso, dall’avv. Gian Mario Fattacciu del Foro di Cagliari e dall’avv. Stefania Saraceni del Foro di Roma, presso il cui studio in Roma, Via Ugo Bartolomei n. 23 è elett. dom.to;

– ricorrente –

Contro

Agenzia delle Entrate, C.F. (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Sardegna n. 246/04/14, depositata il 14 luglio 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12 dicembre dal Cons. Luigi Nocella.

Svolgimento del processo
Con distinti ricorsi, B.G., titolare di impresa operante nel settore edilizio, impugnava innanzi alla CTP di Cagliari gli avvisi di accertamento NN. (OMISSIS) e (OMISSIS), con i quali l’Agenzia delle Entrate di Cagliari (OMISSIS), sulla scorta dell’elaborazione mediante studi di settore, aveva recuperato a tassazione IVA, IRPEF, addizionali ed IRAP, rispettivamente per gli anni 2003 e 2004, applicando le relative sanzioni, avendo accertato per il primo un maggior ricavo di Euro 20.573,00 e per il secondo un maggior reddito di Euro 55.950,00.

La CTP di Cagliari, riuniti i ricorsi, con sentenza N. 194/01/2011, respingeva il primo e dichiarava inammissibile il secondo, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21 omettendo ogni valutazione delle censure di merito.

Su appello del contribuente, che deduceva la nullità della notifica dell’avviso di accertamento e la connessa tempestività del proprio ricorso per ottenere l’esame delle censure di merito contro l’avviso impugnato, la CTR, con la sentenza oggetto del presente giudizio, ha confermato integralmente la statuizione del primo Giudice, in relazione all’annualità 2004, mentre l’annualità 2003 era stata nelle more definita stragiudizialmente tra le parti. In particolare i Giudici d’appello così ricostruivano la vicenda notificatoria oggetto del gravame: “a) l’Ufficio delle Entrate di Cagliari (OMISSIS) aveva notificato al B. in data 7 maggio 2009…invito al contraddittorio con il quale lo informava che i compensi dichiarati per l’anno 2004 risultavano non compatibili con gli appositi studi di settore… omissis…. Si era svolto, quindi, il contraddittorio al termine del quale…le parti non erano addivenute ad un accordo.

b) L’Ufficio in data 21 novembre 2009 aveva notificato a mezzo del servizio postale l’avviso di accertamento n. (OMISSIS);

c) l’ufficio postale aveva certificato con apposita relata…la consegna dell’atto a mani della madre convivente…omissis…l’ufficiale postale notificatore attestava altresì…l’avvenuta trasmissione in data 23 novembre 2009 della raccomandata di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c.;

d) B.G. in data 10 febbraio 2010 propose ricorso alla CTP di Cagliari mentre il 20 gennaio 2010 aveva presentato una istanza di accertamento per adesione, dopo avere però già ricevuto regolare invito al contraddittorio.

Alla stregua di tale ricostruzione dei fatti, la CTR ha condiviso in toto la pronuncia appellata, poichè l’istanza di accertamento per adesione era inefficace, D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 6, comma 2 a sospendere i termini per l’impugnazione, essendo stata preceduta da invito al (e svolgimento del) contraddittorio in fase amministrativa, e quindi ha ritenuto il ricorso prima facie tardivo. Alla luce delle censure dell’appellante che proponevano la questione della validità della notifica dell’avviso per carenza della relata, ha affermato che, pur a voler ritenere l’esistenza di un vizio della notifica (comunque escluso per avere la CTR affermato che detta relata fosse “esattamente individuabile”), si tratterebbe comunque non già di inesistenza, bensì di nullità, essendo ben individuati luogo e persona che aveva ricevuto l’atto, comunque da escludere stante la particolare procedura di notifica a mezzo del servizio postale, per la quale, secondo orientamento costante di legittimità, la relata non è necessaria, essendo sostituita dalle attestazioni dell’ufficiale postale, aventi valore di fede privilegiata fino a querela di falso. Nella specie questi “ha annotato la trasmissione della raccomandata secondo le indicazioni di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 4 con le specificazioni ivi previste”; sicchè “nessuna altra relata di notifica all’infuori di quella costituita dall’avviso di ricevimento può (o deve) essere compilata essa contiene tutte le indicazioni necessarie ed indispensabili prescritte dalla normativa che consentono il collegamento con l’ufficio emittente, mentre il momento di perfezionamento della notificazione viene individuato, per il destinatario, nella data di ricevimento dell’atto attestata dall’avviso…”.

Il contribuente ha proposto ricorso per cassazione sulla base di unico motivo.

L’Agenzia intimata si è costituita previa rituale notificazione di controricorso.

Nella camera di consiglio del 12 dicembre 2019 la Corte, udita la relazione del Cons. Nocella, ha deciso la causa.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il B. denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 137 segg. c.p.c., poichè la CTR non avrebbe considerato che, nel caso di notificazione a mezzo del servizio postale, la L. n. 890 del 1982, art. 14 pur consentendo la notifica diretta degli atti tributari direttamente da parte dell’Ufficio che li emette, fa rinvio al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 che escluderebbe tale forma di notifica per gli avvisi di accertamento, che necessiterebbe pur sempre dell’intermediazione di un soggetto abilitato alla notifica.

Il motivo è infondato.

Come affermato dal ricorrente, la L. n. 890 del 1982, art. 14 consente in via generale la notifica diretta degli atti dell’Amm.ne Finanziaria mediante ricorso diretto, cioè senza l’intervento di ufficiali giudiziari o messi notificatori, al servizio postale; diversamente invece da quanto sostenuto dal ricorrente, la stessa norma non deroga a tale principio per la notifica degli avvisi di accertamento (cfr. da ultimo Cass. sez.V ord. 19.12.2019 n. 34007), ma “fa salve” le disposizioni del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 nel senso che, ove ritengano opportuno, le medesime Amministrazioni possono avvalersi dell’intermediazione dei soggetti esterni ad esse ed abilitati alla notificazione degli atti giudiziari. Ne consegue che le disposizioni che prescrivono la compilazione della relata di notifica sull’originale e sulla copia dell’atto notificato (L. n. 890 del 1982, art. 3) si applicano esclusivamente nei casi di notifica a mezzo di soggetto notificatore terzo (come del resto esplicitato dalla formulazione letterale del precetto, che si riferisce direttamente agli adempimenti dell’ufficiale giudiziario), non già ai casi di notifica diretta ai sensi dell’art. 14, nei quali si applicano direttamente le norme relative alle modalità di trasmissione dei plichi raccomandati descritte dalle norme disciplinanti il servizio postale, che non prevedono la estensione della relata; ed in tal senso si è già pronunciata questa Corte (cfr. Cass. sez. V 4.07.2014 n. 15315; Cass. sez. V 15.07.2016 n. 14501; Cass. sez. V 14.11.2019 n. 29642).

Riscontrata quindi la legittimità, anche per gli atti impositivi, del ricorso alla notificazione diretta da parte dell’Ufficio Finanziario, ne consegue l’irrilevanza della mancata compilazione della relata, i cui requisiti sono sostituiti dalle attestazioni dell’agente postale sull’avviso di ricevimento circa le attività compiute, tra le quali, anche nel caso di specie, l’invio della comunicazione di avvenuta notifica; sicchè questa deve ritenersi avvenuta in data 21.11.2009, con la consegna alla madre convivente nel domicilio del contribuente, ed il ricorso da questi proposto contro l’avviso soltanto il 10 febbraio 2010 deve ritenersi ampiamente tardivo.

L’infondatezza dell’unico motivo comporta il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al rimborso in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del presente giudizio, nella misura liquidata in dispositivo.

Va dato atto altresì che sussistono le condizioni processuali per determinare, a carico della ricorrente soccombente, l’obbligo di versamento del contributo unificato in misura doppia rispetto a quella già versata con l’iscrizione a ruolo.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso in favore dell’Agenzia delle Entrate delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 4.100,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti in solido, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale dello stesso art. 13, ex comma 1 bis se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 ottobre 2020