Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 14-05-2021) 14-07-2021, n. 20017

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sui ricorso iscritto al n. 14042/15 R.G. proposto da:

P.S., rappresentata e difesa, giusta procura in calce al ricorso, dall’avv. Giuseppe Martino, con domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Domenico Martino, in Roma, alla via Vittorio Veneto, n. 7;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, alla via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

e nei confronti di:

EQUITALIA CENTRO S.P.A., in persona del legale rappresentante;

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria dell’Abruzzo n. 1342/07/14 depositata in data 4 dicembre 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 maggio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. P.S. propose appello avverso la sentenza n. 209/4/14, pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti che aveva rigettato il ricorso proposto dalla stessa contribuente avverso la comunicazione di Equitalia Centro s.p.a. n. (OMISSIS) del (OMISSIS) di avvio dell’attività di riscossione delle somme relative all’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate ai fini del recupero di maggiore IRPEF in relazione all’anno d’imposta 2007.

A sostegno dell’impugnazione la contribuente eccepì il vizio di motivazione della sentenza di primo grado con riguardo alla statuizione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e la erroneità della pronuncia nella parte in cui aveva ritenuto rituale la notifica dell’avviso di accertamento.

2. La Commissione tributaria regionale dell’Abruzzo respinse il gravame.

Precisato, preliminarmente, che l’impugnazione aveva ad oggetto sia la comunicazione di Equitalia Centro s.p.a. sia l’avviso di accertamento, ritenne infondato il motivo di appello con cui la contribuente aveva dedotto l’irritualità della notifica dell’avviso di accertamento, effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 dell’anno 2011 alla contrada (OMISSIS) di (OMISSIS), per presunta violazione delle formalità prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. d).

In particolare, i giudici di appello osservarono che tale ultima disposizione, a seguito della modifica operata dal D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. a), n. 2, convertito dalla L. n. 122 del 2010, disponendo che doveva farsi con “apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate” l’elezione di domicilio “presso una persona o un ufficio nel Comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti o degli avvisi che lo riguardano”, costituiva ipotesi del tutto diversa dal caso in esame che concerneva l’elezione di domicilio fatta dalla contribuente in un Comune ((OMISSIS)) diverso da quello di residenza ((OMISSIS)). Al caso in esame, secondo i giudici di merito, doveva applicarsi al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, sicchè per gli uffici finanziari la dichiarazione contenuta nel Mod. 730 era vincolante ai fini dell’individuazione del domicilio fiscale del contribuente cui fare riferimento per la notifica degli atti impositivi, in conformità al principio enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza n. 1484 del 1998.

Disatteso, infine, il terzo motivo di appello, con il quale era stata denunciata la violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, confermarono la sentenza di primo grado laddove aveva ritenuto che la notifica dell’avviso di accertamento fosse stata validamente effettuata presso il domicilio fiscale indicato dalla contribuente nella dichiarazione Mod. 730 dell’anno 2011, con conseguente inammissibilità dell’impugnazione per tardività della stessa che si ripercuoteva anche sulla impugnazione della comunicazione di Equitalia Centro s.p.a..

3. Contro la suddetta decisione d’appello P.S. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

La contribuente in prossimità dell’adunanza camerale ha depositato memoria ex art. 380-bis 1. c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo – rubricato: Violazione e/o erronea applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 60 e 58, dell’art. 24 Cost., nonchè dell’art. 47 c.c., anche in relazione alla L. n. 212 del 2000, art. 6, nonchè di ogni altra norma e principio in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli atti impositivi tributari la ricorrente sostiene che il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4, accorda al contribuente la facoltà di eleggere un domicilio speciale limitatamente ad “atti, contratti, denunzie e dichiarazioni”, come reso palese dallo specifico riferimento alle “parti”, ossia a coloro che nella stipula di atti e contratti intendono, per quel determinato affare, analogamente alla previsione di cui all’art. 47 c.c., comma 1, che le comunicazioni e le notifiche vengano loro effettuate in quel luogo; tale facoltà, secondo la ricorrente, è prevista in deroga al domicilio generale, fiscale, coincidente con la residenza anagrafica, citato art. 58, ex comma 2.

Aggiunge che tale conclusione è suffragata dallo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, che non richiama l’art. 58, e che detta una disciplina, del tutto autonoma, applicabile alle notificazioni degli avvisi di accertamento e degli atti tributari impositivi, riconoscendo, alla lett. d), al contribuente la facoltà di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel Comune del proprio domicilio fiscale e stabilendo, nel secondo periodo della medesima lett. d), la modalità di esercizio dell’anzidetta facoltà.

Secondo la prospettazione difensiva di parte ricorrente, ulteriori elementi esegetici che corroborano tale interpretazione si rinvengono nell’intervento legislativo operato con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, art. 38, comma 4, lett. a), convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, con il quale, stralciando ogni riferimento alla dichiarazione annuale dei redditi, si è inteso sancire la prevalenza del criterio dell’effettiva residenza e privare di effetti – ai fini della notificazione degli avvisi di accertamento e degli atti tributari impositivi – il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi; il termine “dichiarazioni” contenuto nel citato art. 58, comma 4, non può essere inteso nel senso di “dichiarazioni dei redditi”, ma piuttosto nel senso di dichiarazioni che rendono le parti in seno a determinati atti pubblici o privati – ovvero con specifici atti separati.

La norma cui occorre fare riferimento ai fini della notificazione degli avvisi di accertamento, aggiunge la ricorrente, è costituita dal citato art. 60, che deve essere coordinato con la L. n. 212 del 2000, art. 6, secondo cui occorre sempre assicurare l’effettività della conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui notificati.

Contesta, quindi, alla C.T.R. di avere erroneamente ritenuto applicabile il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, senza tenere conto delle allegazioni fattuali svolte dalle quali emergeva che alla data di notifica dell’avviso di accertamento, avvenuta in data (OMISSIS) a mezzo posta per compiuta giacenza con immissione dell’avviso in cassetta in data (OMISSIS), risultava iscritta all’anagrafe del Comune di (OMISSIS) ed era effettivamente residente in tale città, il che aveva comportato che l’atto impositivo non era entrato nella sua sfera di conoscibilità.

2. Con il secondo motivo si deduce violazione e/o erronea applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 6, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè dell’art. 24 Cost., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Richiamata la sentenza n. 216 del 6 luglio 2004 della Corte Costituzionale, che ha affermato che la L. n. 212 del 2000, art. 6, rappresenta una chiave di lettura della legislazione tributaria, la contribuente afferma che uno dei principi espressi da tale disposizione normativa è quello dell’effettività della conoscenza legale, da parte del contribuente, degli atti tributari destinati ad essere notificati, principio che porta a ritenere che la notifica eseguita a mezzo posta perfezionatasi con la compiuta giacenza nel domicilio indicato nella dichiarazione reddituale non possa considerarsi entrata nella sfera di conoscibilità del contribuente.

3. Con il terzo motivo, censurando la decisione impugnata per omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), lamenta che i giudici di appello hanno del tutto trascurato che la presunta notificazione dell’avviso di accertamento è avvenuta con modalità tali che il medesimo atto, oltre a non essere pervenuto a conoscenza della contribuente, neppure è entrato nella sua sfera di conoscibilità, trattandosi di notificazione effettuata a mezzo posta per compiuta giacenza ed in luogo diverso da quello di residenza o di domicilio. Assume che se i giudici di appello avessero tenuto conto di tali fatti rilevanti e decisivi, l’esito del giudizio sarebbe stato diverso.

4. I primi tre motivi, strettamente connessi perchè vertenti sulla medesima questione, possono essere trattati congiuntamente e sono infondati.

4.1. Occorre premettere che la notificazione, le cui modalità sono stabilite normativamente, ha la funzione di portare a conoscenza del destinatario il contenuto di un determinato atto, effetto questo che riveste particolare rilievo in ambito tributario laddove la notificazione concerne un atto che contiene una pretesa impositiva.

La procedura di notifica, che è regolata da diverse disposizioni normative con riguardo a tutte le categorie di atti tributari, va necessariamente coordinata con il principio generale dettato dalla L. n. 212 del 2000, art. 6 (cd. Statuto del contribuente), a tenore del quale l’amministrazione finanziaria deve, in linea generale, assicurare l’effettiva conoscenza, da parte del contribuente, degli atti a lui destinati, e ciò nel rispetto dei canoni di collaborazione, cooperazione e buona fede a cui devono essere improntati i rapporti tra l’Amministrazione finanziaria ed il contribuente.

Questa Corte, al riguardo, ha già affermato che, prima che il contribuente abbia conoscenza degli atti che incidono sulla sua posizione debitoria o creditoria nei confronti del Fisco, gli atti stessi non possono produrre effetti (Cass., sez. 5, 30/03/2001, n. 4760; Cass., sez. U, 5/10/2004, n. 19854, con riguardo alla sanatoria dei possibili vizi della notificazione e dei suoi effetti). Si è, in particolare spiegato (Cass., sez. 5, 16/03/2011, n. 6113), che “è vero che, con la locuzione “effettiva conoscenza”, il legislatore non ha inteso garantire al contribuente l’assoluta certezza della conoscenza, avendo la disciplina della notificazione da sempre legato ad essa la conoscibilità legale, così come palesato, nello specifico, dalla previsione di chiusura del citato art. 6, comma 1, secondo cui “restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari”. E tuttavia resta inteso – come osservato in dottrina – che non coglierebbe il significato della previsione concludere che essa, facendo salve le disposizioni sulla notificazione, si riferisce esclusivamente agli atti per i quali il legislatore non prevede il procedimento notificatorio sebbene una mera comunicazione. In sostanza, la corretta esegesi dell’art. 6, comma 1, resta nel senso che esso intende assicurare l’effettiva conoscenza di tutti gli atti destinati al contribuente, ancorchè restino ferme le disposizioni in materia di notifica. Tale voluta solennità equivale a dire che lo statuto ha inteso affermare che a tutti gli atti dell’amministrazione destinati al contribuente (finanche, quindi, a quelli notificati) deve essere garantito un grado di conoscibilità il più elevato possibile”.

In questo senso, d’altro canto, si è mossa anche la Corte costituzionale la quale, con la sentenza n. 360 del 2003, ha dichiarato illegittimo il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., nella parte in cui prevedeva che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, avessero effetto ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, con la precisazione che “un limite inderogabile alla discrezionalità del legislatore nella disciplina delle notificazioni è rappresentato dall’esigenza di garantire al notificatario l’effettiva possibilità di una tempestiva conoscenza dell’atto notificato e, quindi, l’esercizio del suo diritto di difesa”.

4.2. Fatta questa premessa, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), stabilisce che, “salvo il caso di consegna dell’atto o dell’avviso in mani proprie, la notificazione deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” e lo stesso D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 1, a sua volta, dopo avere stabilito che agli effetti dell’applicazione delle imposte sui redditi ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato, prevede, al comma 2, che le persone fisiche residenti nel territorio dello Stato “hanno il domicilio fiscale nel comune nella cui anagrafe sono iscritte”, mentre quelle non residenti “hanno il domicilio fiscale nel comune in cui si è prodotto il reddito o, se il reddito è prodotto in più comuni, nel comune in cui si è prodotto il reddito più elevato”.

Anche se, in linea generale, ai fini della notificazione si deve avere riguardo alle risultanze anagrafiche che riguardano il contribuente destinatario dell’atto, non può sottacersi che lo stesso art. 60, comma 3, alla cui stregua “le variazioni e le modificazioni di indirizzo risultanti dai registri anagrafici “hanno effetto” ai fini delle notificazioni, dal trentesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica”, non può condurre a ritenere che l’Ufficio finanziario sia onerato, prima di notificare un atto al contribuente, del controllo, mediante una verifica sui registri anagrafici, dell’attualità dell’indicazione della residenza contenuta nella dichiarazione dei redditi, nè che detta indicazione sia priva di effetti ai fini della notifica degli atti tributari.

Tale conclusione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 14/12/2016, n. 25680), renderebbe del tutto priva di scopo l’indicazione della residenza nella dichiarazione dei redditi, prevista dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, comma 4 (che recita: “negli atti, contratti, denunzie e dichiarazioni che vengono presentate agli uffici finanziari deve essere indicato il comune di domicilio fiscale delle parti, con la precisazione dell’indirizzo solo ove espressamente richiesto”) e, soprattutto, non si porrebbe in linea con l’univoco indirizzo di questa Corte secondo cui l’indicazione, nella dichiarazione dei redditi, della propria residenza, o, comunque, di un domicilio diverso da quello di residenza, deve essere effettuata in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve conformare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario (Cass., sez. 5, 10/05/2013, n. 11170; Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 29/11/2013, n. 26715, nella quale ultima si legge che “ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio o sede fiscale ed un determinato rappresentante legale, non corrisponde l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto”).

Le considerazioni esposte impongono dunque di tenere nettamente distinta l’ipotesi del cambio di residenza da quella di una originaria difformità tra la residenza anagrafica e quella indicata nella dichiarazione dei redditi. Infatti, in quest’ultimo caso, questa Corte ha ripetutamente ribadito la validità della notifica effettuata presso il domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, e ciò anche quando il perfezionamento della notifica sia avvenuto tramite il meccanismo della compiuta giacenza dell’atto, nonostante tale indicazione sia difforme rispetto alle risultanze anagrafiche (Cass., sez. 6-5, 21/07/2015, n. 15258; Cass., sez. 5, 14/12/2016, n. 25680; Cass., sez. 6-5, 10/04/2018, n. 8747; Cass., sez. 5, 15/05/2019, n. 12905; Cass., sez. 6-5, 10/10/2019, n. 25450).

Nelle pronunce da ultimo richiamate, si è evidenziato, da un lato, che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, la competenza territoriale dell’ufficio accertatore è determinata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 31, con riferimento al domicilio fiscale indicato dal contribuente, la cui variazione, comunicata nella dichiarazione annuale dei redditi, costituisce pertanto atto idoneo a rendere noto all’Amministrazione il nuovo domicilio non solo ai fini delle notificazioni, ma anche ai fini della legittimazione a procedere, che spetta all’ufficio nella cui circoscrizione il contribuente ha indicato il nuovo domicilio” e, dall’altro, che “tale ius variandi dev’essere peraltro esercitato in buona fede, nel rispetto del principio dell’affidamento che deve informare la condotta di entrambi i soggetti del rapporto tributario: pertanto, il contribuente che abbia indicato nella propria denuncia dei redditi il domicilio fiscale in un luogo diverso da quello precedente, non può invocare detta difformità, sfruttando a suo vantaggio anche un eventuale errore, al fine di eccepire, sotto il profilo dell’incompetenza per territorio, l’invalidità dell’atto di accertamento compiuto dall’ufficio finanziario del domicilio da lui stesso dichiarato” (Cass., sez. 5, 10/03/2006, n. 5358; Cass., sez. 5, 10/05/2013, n. 11170; Cass., sez. L, 21/12/2015, n. 25680).

In sostanza, proprio in coerenza con i principi a cui si ispira la L. n. 212 del 2000, che, all’art. 10, sancisce che i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria “sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”, deve ritenersi corretta una notificazione effettuata presso un recapito coincidente con quello palesato dal contribuente all’amministrazione, anche se diverso da quello risultante dai pubblici registri anagrafici.

4.3. Alla luce del quadro normativo sopra delineato e della lettura delle medesime disposizioni normative operata da questa Corte, non è utile invocare la modifica dell’art. 60, comma 1, lett. d), introdotta dal D.L. n. 78 del 2010, art. 38, comma 4, lett. a), n. 2, convertito dalla L. n. 122 del 2010, che ha eliminato la facoltà di far dipendere l’elezione di domicilio espressamente dalla dichiarazione dei redditi annuale, facendola dipendere da apposita comunicazione effettuata al Comune a mezzo di lettera raccomandata con avviso di accertamento ovvero in via telematica con modalità stabilite con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle entrate.

Infatti, la disposizione invocata, come modificata, riguardante la facoltà riconosciuta al contribuente di eleggere domicilio presso una persona o un ufficio nel comune del proprio domicilio fiscale per la notificazione degli atti che lo riguardano, ha solo diversamente disciplinato tale facoltà, escludendo che essa debba risultare espressamente dalla dichiarazione dei redditi e richiedendo apposita comunicazione effettuata al competente ufficio a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

4.4. Come accertato dai giudici di merito e non contestato dalla ricorrente, nella dichiarazione dei redditi Mod. 730 presentata per l’anno in contestazione, il domicilio indicato era quello di (OMISSIS) in (OMISSIS), presso il quale l’Agenzia delle entrate ha effettuato la notifica dell’avviso di accertamento che ha preceduto la comunicazione di avvio dell’attività di riscossione da parte di Equitalia Centro s.p.a.

Pertanto, nel caso in esame, il domicilio indicato in dichiarazione costituiva l’unico recapito conosciuto dall’Amministrazione per procedere alla notifica dell’atto impositivo, cosicchè tale indicazione, in difetto di diversa comunicazione, da parte della contribuente, effettuata con le modalità prescritte dal D.P.R. n. 600 del 1973, richiamato art. 60, comma 1, lett. d), non può che equivalere ad elezione di domicilio all’indirizzo indicato in dichiarazione.

L’elezione di domicilio effettuata dalla contribuente nella dichiarazione per l’anno 2008 si è perfezionata in epoca anteriore alla entrata in vigore della novella di cui al D.L. n. 78 del 2010, e, pertanto, essa era pienamente efficace e produttiva di effetti al momento della notificazione dell’atto impositivo, avvenuta il 26 ottobre 2012, ed imponeva all’Amministrazione finanziaria di eseguire la notifica presso l’indirizzo indicato in dichiarazione, a nulla rilevando che a quella data la contribuente risultasse ancora iscritta all’anagrafe del Comune di (OMISSIS), alla via (OMISSIS).

5. Con il quarto motivo – rubricato: violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, e del L. n. 241 del 1990, art. 21-septies – rilevabilità d’ufficio della nullità assoluta ovvero dell’inesistenza giuridica dell’avviso di accertamento (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – la contribuente, dopo avere fatto riferimento alla sentenza n. 37 del 25 febbraio 2015, della Corte Costituzionale, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, convertito dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, art. 1, comma 1, evidenzia che per effetto di tale declaratoria di incostituzionalità sono illegittimi i ripetuti conferimenti, da parte dell’Agenzia delle entrate, di incarichi dirigenziali ai funzionari delle Agenzie delle entrate senza il ricorso alla procedura del concorso pubblico.

Poiché, nel caso di specie, l’avviso di accertamento era stato sottoscritto, su delega del Direttore provinciale, C.R., dal Capo Ufficio F.A.B., il quale era intervenuto ad adiuvandum per sostenere le ragioni dell’Agenzia delle entrate nel giudizio di appello proposto innanzi al Consiglio di Stato, nell’ambito del quale era stata sollevata la questione di legittimità costituzionale, ritenuta fondata con la suddetta sentenza n. 37/2015, doveva dichiararsi l’inesistenza giuridica ovvero la nullità assoluta dell’impugnato avviso di accertamento.

5.1. La censura è inammissibile.

5.2. Come statuito dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 22810 del 2015, “per le ipotesi di nullità dell’atto tributario, di qualsiasi natura esse siano, compresa, quindi, quella di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 3, opera il principio generale di conversione in mezzi di gravame. Le forme di invalidità dell’atto tributario, ove anche dal legislatore indicate sotto il nomen di nullità, non sono rilevabili d’ufficio, nè possono essere fatte valere per la prima volta nel giudizio di cassazione (Cass., sez. 5, 16/02/2015, n. 18448). La conversione delle ipotesi di nullità in mezzi di gravame avverso l’atto fiscale è una conseguenza della struttura del processo tributario, che vede la contestazione della pretesa fiscale suscettibile di essere prospettata solo attraverso specifici motivi di impugnazione dell’atto che la esprime.

Il giudizio tributario, difatti, è caratterizzato da un meccanismo di instaurazione di tipo impugnatorio circoscritto alla verifica della legittimita della pretesa effettivamente avanzata con l’atto impugnato alla stregua dei presupposti di fatto e di diritto in esso indicati, e avente un oggetto rigidamente delimitato dalle contestazioni mosse dal contribuente con i motivi specificamente dedotti nel ricorso introduttivo di primo grado (cfr. per tutte Cass., sez. 5, 5/12/2014, n. 25756)”.

Nella fattispecie la nullità, qui prospettata dalla parte ricorrente, per come emerge dalla stessa descrizione dello svolgimento del processo evincibile dal ricorso, non era stata eccepita quale motivo di ricorso avverso gli avvisi di accertamento, sicchè ogni indagine sulla stessa è preclusa in sede di legittimità.

6. In conclusione, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al rimborso, in favore della Agenzia delle entrate, delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano come in dispositivo.

Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite con riguardo ad Equitalia Centro s.p.a., essendo questa rimasta intimata.

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 10-03-2021) 14-07-2021, n. 20074

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – rel. Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20766/2016 proposto da:

G.E., elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE TRASTEVERE 244, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO FASSARI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Z.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FOLENGO TEOFILO, 49, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARINACI, rappresentato e difeso dall’avvocato WALTER FALCONIERI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 555/2016 della CORTE D’APPELLO di LECCE, depositata il 07/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 10/03/2021 dal Consigliere Dott. ELISA PICARONI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che chiede di respingere il proposto ricorso.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’appello di Lecce, con la sentenza n. 555 del 2016, pubblicata il 7 giugno 2016 e notificata il 16 giugno 2016, ha rigettato l’appello proposto da G.E. avverso la sentenza del Tribunale di Lecce – sezione distaccata di Nardò n. 510 del 2010, e nei confronti di Z.D..

1.1. Il Tribunale aveva dichiarato inammissibile l’opposizione proposta dalla G., ai sensi dell’art. 650 c.p.c., avverso il decreto ingiuntivo che le intimava di pagare la somma di Euro 11.745,39 in favore dello Z..

2. La Corte d’appello ha confermato la decisione, sul rilievo che la notificazione del decreto ingiuntivo era stata eseguita correttamente in data 18 aprile 2008, presso la residenza anagrafica della G., con le forme di cui all’art. 140 c.p.c., con la compiuta giacenza in data 17 maggio 2007 (recte 2008); che eventuali contestazioni delle risultanze della relazione di notificazione avrebbero dovuto formare oggetto di querela di falso; che non erano ravvisabili situazioni di impedimento oggettivo – riconducibili al caso fortuito o alla forza maggiore – della conoscenza dell’atto da parte della destinataria, che, pertanto, l’opposizione al decreto ingiuntivo notificata in data 29 luglio 2008 era tardiva.

3. G.E. ricorre per la cassazione della sentenza sulla base di quattro motivi, ai quali resiste Z.D. con controricorso. Il Pubblico mistero ha concluso per il rigetto del ricorso. La ricorrente ha depositato memoria in prossimità della Camera di consiglio.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo è denunciata violazione dell’art. 140 c.p.c., perché l’avviso di ricevimento non era completo, essendo stata omessa dall’agente postale l’indicazione relativa alla verifica in loco della solo temporanea assenza della destinataria dal luogo di residenza.

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione dell’art. 148 c.p.c. e art. 2700 c.c., per censurare l’affermazione della Corte d’appello, secondo cui le risultanze della relazione di notificazione avrebbero dovuto essere contestate con la querela di falso. In realtà, nella specie non v’erano attestazioni di cui contestare la veridicità, in quanto, come già evidenziato con il primo motivo, l’avviso di ricevimento non recava alcuna attestazione. L’agente postale si era limitato a dichiarare di avere applicato il procedimento notificatorio previsto dall’art. 140 c.p.c., senza altra indicazione.

3. Con il terzo motivo è denunciato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, omesso esame del fatti decisivo rappresentato dalla mancata indicazione della spedizione della raccomandata di avviso dell’avvenuta notificazione del decreto ingiuntivo, nonché del mancato svolgimento delle verifiche sulla irreperibilità della destinataria e della relativa attestazione.

4. Con il quarto motivo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, omessa pronuncia sulla esistenza del nesso tra la mancata tempestiva conoscenza dell’atto oggetto di notificazione e l’irregolarità della notificazione.

5. Il ricorso è fondato con riferimento ai motivi primo e terzo, con assorbimento dei rimanenti.

5.1. In premessa si rileva che, diversamente da quanto prospettato nelle conclusioni scritte del Pubblico ministero, la parte ricorrente non è incorsa nella violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, per non avere trascritto l’avviso di ricevimento nel corpo del ricorso.

Come evidenziato nella memoria di parte ricorrente, il ricorso indica specificamente e localizza i documenti sui quali sono fondate le doglianze, e quindi assolve l’onere richiamato (ex plurimis, Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726; più di recente, Cass. 11/01/2016, n. 195).

6. In materia di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., secondo l’orientamento consolidato di questa Corte – a partire da Sezioni Unite n. 458 del 2005 – ai fini del perfezionamento della notifica effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., non è sufficiente l’allegazione dell’avvenuta spedizione dell’avviso di ricevimento della raccomandata con cui il destinatario viene notiziato dell’avvenuto deposito di copia dell’atto nella casa del comune in cui la notificazione deve avere luogo, ma è necessario che dall’avviso di ricevimento e dalle annotazioni che l’agente postale appone su di esso quando lo restituisce al mittente, si possa ricavare che l’atto è pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario.

In tal senso, si trova affermato che l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso a casa comunale deve recare l’annotazione, da parte dell’agente postale, dell’accesso presso il domicilio del destinatario e delle ragioni della mancata consegna, non essendo sufficiente la sola indicazione del deposito del plico presso l’ufficio postale (Cass. 30/01/2019, n. 2683, che ha confermato la nullità della notifica di un ricorso introduttivo di primo grado in quanto l’avviso di ricevimento della raccomandata informativa, pur allegato all’atto, non risultava compilato nella parte relativa alla mancata consegna del plico al domicilio).

Secondo altre pronunce, invece, non occorre che dall’avviso di ricevimento della raccomandata informativa risulti precisamente documentata l’effettiva consegna della raccomandata, ovvero l’infruttuoso decorso del termine di giacenza presso l’ufficio postale, né che l’avviso contenga, a pena di nullità dell’intero procedimento notificatorio, tutte le annotazioni prescritte in caso di notificazione effettuata a mezzo del servizio postale, dovendo piuttosto da esso risultare, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 3 del 2010, il trasferimento, il decesso del destinatario o altro fatto impeditivo (non della conoscenza effettiva, ma) della conoscibilità dell’avviso stesso (Cass. 12/12/2018, n. 32201; Cass. 27/02/2012, n. 2959).

E’ stato ulteriormente affermato che, in tema di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la raccomandata cosiddetta informativa, poiché non tiene luogo dell’atto da notificare, ma contiene la semplice “notizia” del deposito dell’atto stesso nella casa comunale, non è soggetta alle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, sicché occorre per la stessa rispettare solo quanto prescritto dal regolamento postale per la raccomandata ordinaria (Cass. 18/12/2014, n. 26864, che ha escluso che la mancata specificazione, sull’avviso di ricevimento, della qualità del consegnatario e della situazione di convivenza o meno con il destinatario determinasse la nullità della notificazione).

7. Nella fattispecie in oggetto, dall’esame degli atti, consentito ed anzi dovuto a fronte della deduzione di error in procedendo (per tutte, Cass. 30/07/2016, n. 16164), risulta che la raccomandata con avviso di ricevimento è stata spedita ma non anche “recapitata” alla destinataria, prima della restituzione al mittente per compiuta giacenza.

E se, certamente, dell’avvenuta spedizione fa fede fino a querela di falso l’attestazione contenuta sull’avviso stesso recante l’indicazione del cronologico, della data di spedizione, del nome della destinataria e del luogo di destinazione, diversamente è a dirsi con riferimento all’esito della spedizione che è rimasto ignoto, poiché l’avviso non reca alcuna indicazione riguardo alle ragioni della mancata consegna della raccomandata.

Il procedimento di notificazione ex art. 140 c.p.c., non può pertanto ritenersi completato – anche nella prospettiva meno formalista, che esige comunque che dall’avviso risulti il trasferimento, il decesso del destinatario o “altro fatto impeditivo” della conoscibilità dell’avviso stesso – e la notifica del decreto ingiuntivo è nulla, con le conseguenti implicazioni in ordine all’ammissibilità dell’opposizione ex art. 650 c.p.c..

8. Nei limiti precisati sussistono i vizi di violazione dell’art. 140 c.p.c. e di omesso esame dell’avviso di ricevimento denunciati con i motivi primo e terzo, il cui accoglimento assorbe i rimanenti motivi ed impone la cassazione della sentenza impugnata con rinvio al giudice designato in dispositivo, il quale procederà ad un nuovo esame della domanda, provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo ed il terzo motivo di ricorso, assorbiti i rimanenti, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Lecce, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, a seguito di riconvocazione, il 5 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 luglio 2021


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 10/02/2021) 23/06/2021, n. 17968

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10227/2019 proposto da:

GENERALI PREFABBRICATI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLE MEDAGLIE D’ORO 113, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA MARIA CONSUELO SANGUEDOLCE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNI RONDINI;

– ricorrenti –

contro

UNIPOLSAI ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SABOTINO 46, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FERRONI, che lo rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 277/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 22/01/2019.

Svolgimento del processo
Con ricorso del 17 aprile 2015, UnipolSai chiedeva al Tribunale di Bologna di emettere ingiunzione di pagamento nei confronti di Generali Prefabbricati S.p.A. per essere stata escussa, ad opera di RFI S.p.A. sulla base di una polizza fideiussoria rilasciata nell’interesse di una associazione temporanea di imprese, con a capo la società mandataria (OMISSIS) (dichiarata fallita dal Tribunale di Milano con sentenza del 17 febbraio 2005) e della mandante, Generali Prefabbricati.

Il decreto ingiuntivo emesso il 29 aprile 2015 veniva notificato a Generali Prefabbricati S.p.A., dai difensori di UnipolSai Ass.ni, a mezzo PEC, ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3 bis, in data 12 giugno 2015, mentre il 16 ottobre 2015, era data esecutorietà al decreto ai sensi dell’art. 647 c.p.c. e, conseguentemente, in data 14 settembre 2016, UnipolSai notificava all’atto di precetto.

Con atto di citazione, portato per la notifica il 22 settembre 2016, Generali Prefabbricati proponeva opposizione ai sensi dell’art. 650 c.p.c. deducendo, preliminarmente, di non aver avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo, per caso fortuito o forza maggiore, legittimante l’impugnazione tardiva e ciò in quanto la mail PEC di notifica del ricorso del decreto monitorio era finita nella cartella della “posta indesiderata” della propria casella PEC (spam) ed era stata eliminata dall’impiegata preposta, senza apertura e lettura della busta, per timore di danni al sistema informatico aziendale. Nel merito contestava la esistenza del credito.

Si costituiva l’opposta UnipolSai chiedendo, preliminarmente, dichiararsi l’inammissibilità dell’opposizione tardiva per mancanza dei presupposti previsti all’art. 650 c.p.c. e, nel merito, il rigetto.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza dell’11 maggio 2018, emessa ai sensi dell’art. 281 sexies c.p.c., dichiarava inammissibile l’opposizione tardiva, compensando le spese tra le parti.

Secondo il Tribunale la notificazione effettuata dai difensori di UnipolSai possedeva i requisiti di validità previsti dal citato art. 3 bis, con la conseguenza che si doveva considerare perfezionata per il destinatario nel momento in cui era stata generata la ricevuta di avvenuta consegna. Non sussisterebbero i presupposti della mancata conoscenza incolpevole, per caso fortuito o forza maggiore, non ricorrendo l’ipotesi di circostanza “assolutamente ostativa e meramente oggettiva, avulsa dalla volontà umana”, atteso che l’elemento determinante era rappresentato dalla scelta volontaria della persona preposta, di cestinare la PEC per evitare un presunto rischio per il sistema informatico.

Avverso tale decisione proponeva appello la società Generali Prefabbricati S.p.A.. Si costituiva UnipolSai Ass.ni insistendo per il rigetto del gravame.

La Corte d’Appello di Bologna, con sentenza del 22 gennaio 2019, facendo propria la motivazione adottata dal Tribunale, rigettava l’impugnazione condannando parte appellante al pagamento delle spese di lite.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione Generali Prefabbricati S.p.A. affidandosi a motivi. Resiste con controricorso UnipolSai Ass.ni S.p.A..

La trattazione del ricorso è stata fissata in udienza pubblica, ma il Collegio ha proceduto in Camera di consiglio ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, convertito con L. n. 176 del 2020, in mancanza di richiesta di discussione orale, con adozione della presente decisione in forma di sentenza in ragione della modalità di trattazione già fissata. Il Procuratore generale ha formulato le sue conclusioni motivate ritualmente comunicate alle parti insistendo per il rigetto del ricorso. Le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
Con il primo motivo si lamenta l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, già oggetto di discussione fra le parti, stante la mancata ammissione di mezzi di prova orali sull’esercizio della dovuta diligenza nel controllo della Posta Elettronica Certificata in ingresso e nell’installazione di sistemi di protezione antivirus sulla propria rete informatica. In particolare, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si deduce che la Corte non avrebbe considerato il fatto decisivo che aveva impedito la conoscenza effettiva del decreto ingiuntivo nei termini riferiti dalla dipendente, segretaria della azienda, T.M. la quale aveva precisato che nella giornata di venerdì 12 giugno 2015 era sola in ufficio ed era la prima volta che riceveva una notifica di un atto giudiziario a mezzo PEC, ricordando che in precedenza un virus informatico aveva messo in crisi il software aziendale. Tali circostanze rilevanti e non contestate sarebbero state oggetto di richiesta di prova testimoniale erroneamente disattesa.

Il motivo è inammissibile per una pluralità di ragioni.

In primo luogo, la ricorrente omette di dedurre e documentare di avere formulato uno specifico motivo di appello al fine di sollecitare l’ammissione delle prove articolate in primo grado e che sarebbero state disattese dal Tribunale.

In secondo luogo, la censura è dedotta ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, quale omessa considerazione di un fatto storico, rappresentato dalle circostanze poste a sostegno della opposizione tardiva (nello specifico, profili istruttori). Tale doglianza è inammissibile in presenza di una doppia conforme atteso il divieto contenuto dell’art. 348 ter c.p.c., comma 5 e non avendo parte ricorrente precisato che la decisione di secondo grado sarebbe fondata su elementi fattuali diversi rispetto a quella del Tribunale.

In terzo luogo, con il ricorso si lamenta sostanzialmente la mancata ammissione della prova, facendo riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 5, ma tale ipotesi esula del tutto dalla fattispecie richiamata che, come si è detto, riguarda la mancata considerazione di un fatto storico.

Infine, la censura è dedotta in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, mancando di trascrivere il tenore delle prove orali che la ricorrente avrebbe voluto fossero ammesse, sì da impedire ogni valutazione circa la loro rilevanza e decisività.

Quando il ricorso si fonda su documenti, il ricorrente ha l’onere di “indicarli in modo specifico” nel ricorso, a pena di inammissibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6).

“Indicarli in modo specifico” vuol dire, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte:

(a) trascriverne il contenuto, oppure riassumerlo in modo esaustivo;

(b) indicare in quale fase processuale siano stati prodotti;

(c) indicare a quale fascicolo siano allegati, e con quale indicizzazione (in tal senso, ex multis, Sez. 6-3, Sentenza n. 19048 del 28/09/2016; Sez. 5, Sentenza n. 14784 del 15/07/2015; Sez. U, Sentenza n. 16887 del 05/07/2013; Sez. L, Sentenza n. 2966 del 07/02/2011).

Principio ribadito da ultimo dalle Sezioni Unite secondo cui sono inammissibili, per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (Sez. U., Sentenza n. 34469 del 27/12/2019, Rv. 656488 – 01).

La ricorrente ha omesso di assecondare tutti gli oneri richiesti, non avendo trascritto il contenuto dei capitoli di prova, non avendo individuato la fase processuale della tempestiva richiesta e non avendo precisato di avere reiterato in appello tale istanza, omettendo di allegare e localizzare all’interno del fascicolo di legittimità gli atti richiamati.

Con il secondo motivo si deduce la violazione degli art. 647 e 650 c.p.c.. La Corte di appello di Bologna non avrebbe considerato che l’addetta alla ricezione della P.E.C., già a conoscenza di una precedente aggressione virale del sistema informatico della ricorrente, era stata costretta ad eliminare la notificazione via P.E.C. del decreto ingiuntivo non opposto, al solo fine di evitare il ripetersi di una simile dannosa situazione. Tale inevitabilità della scelta dell’addetta alla ricezione P.E.C. integrava gli estremi di quella forza maggiore che avrebbe consentito di giustificare l’opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c..

La censura è infondata atteso che l’argomentazione non consente di giustificare l’omesso controllo della posta qualificata da parte dell’addetta alla ricezione, in presenza di una determinata PEC, smistata dal sistema interno fra la posta elettronica indesiderata e contrassegnata come spam.

I programmi di posta elettronica non sono in grado di individuare, con esattezza, i messaggi da qualificarsi come spam, e – pertanto – rientra nella diligenza ordinaria dell’addetto alla ricezione della posta elettronica il controllo anche della cartella della posta indesiderata, atteso che in tale cartella ben possono essere automaticamente inseriti messaggi provenienti da mittenti sicuri e attendibili e non contenenti alcun allegato pregiudizievole per il destinatario.

Le suddette cautele di attenzione sono note a chi opera professionalmente quale recettore dei messaggi di posta elettronica, strumento di notificazione telematica che ormai appartiene al know how di ogni operatore commerciale – e per lui, dei suoi ausiliari – stante la sua diffusione e il suo valore di comunicazione idonea a produrre effetti giuridici.

In materia questa Corte si è già pronunciata, affermando che il titolare dell’account di posta elettronica certificata ha il dovere di controllare prudentemente tutta la posta in arrivo, ivi compresa quella considerata dal programma gestionale utilizzato come “posta indesiderata” (Cass. n. 7752 del 2020 e Cass. Sez. L. 21-05-2018, n. 12451; Cass. civ. Sez. I, 03-01-2017, n. 31; Cass. civ. Sez. VI-1, 07-07-2016, n. 13917).

Come rilevato da questa Corte (Cass. n. 3965 del 2020) del D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, art. 20 (“regolamento concernente le regole tecniche per l’adozione nel processo civile e nel processo penale, delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in attuazione dei principi previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. B2, e successive modificazioni, ai sensi del D.L. 29 dicembre 2009, n. 193, art. 4, commi 1 e 2, convertito nella L. 22 febbraio 2010, n. 24”), disciplina i “requisiti della casella di P.E.C. del soggetto abilitato esterno”, imponendo a costui una serie di obblighi finalizzati a garantire il corretto funzionamento della casella di P.E.C. e, quindi, la regolare ricezione dei messaggi di posta elettronica; in particolare, il “soggetto abilitato esterno”, cioè, nel caso che ci occupa, il difensore della parte privata, ai sensi dell’art. 2, comma 1, lett. 3 R.G. 25467/2018 m) del D.M. n. 44 del 2011: a) “è tenuto a dotare il terminale informatico utilizzato di software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio in arrivo e in partenza e di software antispam idoneo a prevenire la trasmissione di messaggi di posta elettronica indesiderati” (comma 2); b) “è tenuto a conservare, con ogni mezzo idoneo, le ricevute di avvenuta consegna dei messaggi trasmessi al dominio giustizia” (comma 3); c) è tenuto a munirsi di una casella di posta elettronica certificata che “deve disporre di uno spazio disco minimo definito nelle specifiche tecniche di cui all’art. 34” (comma 4); d) “è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare l’effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione” (comma 5).

Nel caso di specie ciò avrebbe consentito di isolare la mali ritenuta sospetta e porla in cd quarantena ovvero di eseguire la scansione manuale del file in questione, azionando il prescritto “software idoneo a verificare l’assenza di virus informatici per ogni messaggio”.

Come rilevato dai giudici di merito, tali considerazioni appaiono particolarmente pregnanti se riferite al caso concreto in cui il messaggio era espressamente riferito alla L. n. 53 del 1994, la cui rilevanza è nota a chi professionalmente può essere destinatario di comunicazione a mezzo P.E.C..

Le considerazioni oggetto della memoria non superano quanto detto, dovendosi escludersi – per quanto sopra argomentato – che l’addetta alla ricezione P.E.C. non potesse in alcun modo adottare un comportamento alternativo a quello della mera ed immediata eliminazione del messaggio P.E.C. nel cestino, una volta classificato dal computer come spam.

Rimangono assorbiti i restanti motivi che sono stati dedotti “subordinatamente alla ipotesi di accoglimento dei motivi” precedenti. La ricorrente, nella parte finale del ricorso (pagine da 25 a 35), riproduce i motivi di opposizione che, in ragione della pronunzia di inammissibilità dell’opposizione tardiva, non erano stati presi in esame in sede di merito e che vengono reiterati per l’ipotesi di favorevole decisione da parte della Corte di legittimità ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Tali considerazioni riguardano rispettivamente:

– il difetto di legittimazione passiva di Generali Prefabbricati S.p.A;

– l’infondatezza dell’azione di regresso e conseguente insussistenza del debito;

– la circostanza che la polizza sarebbe sottoscritta in nome proprio dalla sola S.p.A. (OMISSIS), che resterebbe l’unica obbligata con conseguente estraneità della S.p.A. Generali prefabbricati dalla solidarietà prospettata nel ricorso monitorio;

– il mandato con rappresentanza non si estenderebbe alla stipula della polizza fideiussoria prospettandosi, al più, ed in via subordinata, una responsabilità solidale pro quota;

– l’eccezione di prescrizione relativamente agli interessi legali con riferimento alla parte della pretesa più risalente rispetto al termine di cinque anni previsto all’art. 2948 c.c..

Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 3800,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 giugno 2021


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 07-04-2021) 21-06-2021, n. 24280

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMMINO Matilde – Presidente –

Dott. DE SANTIS Anna Maria – Consigliere –

Dott. BORSELLINO Maria D. – rel. Consigliere –

Dott. CIANFROCCA Pierluigi – Consigliere –

Dott. SARACO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

I.K., nato in (OMISSIS);

avverso l’ordinanza resa dal Tribunale di L’Aquila il 31 dicembre 2020;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MARIA DANIELA BORSELLINO;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. CUOMO Luigi, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

lette le conclusioni dell’avv. Pasquale Cardillo Cupo che ha insistito nel motivo di ricorso, osservando che la difesa ha documentato per tabulas l’impossibilità tecnica di partecipare all’udienza da remoto.

Svolgimento del processo
1.Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di L’Aquila sezione del riesame ha confermato l’ordinanza resa dal GIP del Tribunale di Avezzano il 6 novembre 2020 con cui è stata applicata nei confronti di I.K. la misura cautelare degli arresti domiciliari nella qualità di indagato in ordine ad una rapina impropria e del delitto previsto dall’art. 617 quater c.p..

Si addebita all’indagato di essersi impossessato di un’autovettura Lamborghini sottraendola dall’interno di un piazzale recintato e di avere usato violenza contro la persona offesa nel tentativo di darsi alla fuga, venendo arrestato nella flagranza del reato.

2.Avverso la detta sentenza ricorre l’indagato deducendo:

2.1 violazione del D.L. n. 137 del 2020, art. 23 comma 5 e dell’art. 309 c.p.p., comma 8 poichè l’ordinanza pronunciata dal GIP è nulla in quanto l’udienza è stata tenuta in assenza di contraddittorio, nonostante la difesa abbia più volte chiesto di parteciparvi in modalità videoconferenza, così come indicato nel decreto di fissazione.

In particolare il difensore deduce che il 24 dicembre 2020 è stato comunicato il decreto di fissazione udienza in cui era indicata la data del 31 dicembre 2020 e l’avviso al difensore che l’udienza sarebbe stata celebrata mediante collegamento audiovisivo. La difesa ha più volte inoltrato il proprio indirizzo al recapito PEC indicato, ma l’indirizzo non è risultato valido; il difensore ha contattato telefonicamente la cancelleria del tribunale per comunicare la propria intenzione di partecipare all’udienza, ma non ha ottenuto nessuna risposta e l’udienza è stata celebrata in sua assenza.

Nell’ordinanza impugnata si legge che il difensore, pur ritualmente avvisato, non è comparso, ma si tratta di un’affermazione inesatta poichè il difensore non è stato posto in condizioni di comunicare la propria intenzione di partecipare all’udienza e, pur ritualmente avvisato, non ha avuto la possibilità di prendervi parte e il provvedimento assunto deve ritenersi nullo.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile perché manifestamente infondato.

Dall’esame degli atti allegati al ricorso e di quelli presenti nel fascicolo, il cui esame è consentito per la natura dell’eccezione dedotta, emerge che il difensore è stato ritualmente avvisato che per partecipare all’udienza avrebbe dovuto inviare almeno 48 ore prima dell’udienza il proprio recapito all’indirizzo caratterizzato nella parte iniziale dalla dicitura “sez.1…” per consentire alla cancelleria di contattarlo.

Il difensore ha invece inviato, peraltro solo 24 ore prima dell’udienza, la richiesta all’indirizzo sbagliato, caratterizzato dalla dicitura “sezione 1…” e non a quello indicato dalla cancelleria e riportato nell’avviso di fissazione. Tale divergenza tra i due indirizzi emerge ictu oculi dal confronto tra il decreto di fissazione dell’udienza e l’avviso di mancato recapito della comunicazione del difensore, allegato al ricorso, in cui viene attestato che la comunicazione era diretta ad indirizzo inesistente.

E’ evidente che la conseguente mancata partecipazione del difensore all’udienza di convalida a causa dell’erronea indicazione dell’indirizzo della cancelleria nella missiva con cui chiedeva di partecipare a distanza ricade esclusivamente sulla responsabilità del difensore che, ai sensi dell’art. 182 c.p.p. non può dolersi della nullità cagionata per l’omesso contraddittorio, avendola lui stesso provocata.

L’inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma che si reputa congruo fissare in Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000 in favore della Cassa delle Ammende.

Così deciso in Roma, il 7 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 giugno 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 10/03/2021) 17/06/2021, n. 17289

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. GALATI Vincenzo – rel. Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso iscritto al n. 7332 del ruolo generale dell’anno 2015 proposto da:

B.M., rappresentato e difeso, in virtù di procura in calce al ricorso, dall’Avv. Domenico Siciliano, presso il cui studio in Roma, Via Gramsci, 14 è elettivamente domiciliato;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore;

Riscossione Sicilia Spa;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 2636/34/14 della Commissione tributaria regionale della Sicilia – sez. di Catania depositata in data 18.09.2014;

udita nella camera di consiglio del 10.3.2021 la relazione svolta dal consigliere Vincenzo Galati.

Svolgimento del processo
Con la sentenza indicata la CTR della Sicilia ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate e, in riforma della sentenza della Commissione tributaria provinciale di Palermo, ha rigettato l’originario ricorso proposto dal contribuente avverso una cartella di pagamento relativa ad IRPEF, IRAP ed IVA e conseguenti addizionali per l’anno 2005.

Il ricorso è stato accolto in primo grado per l’assenza di prova della notifica della cartella da parte del concessionario della riscossione stante la mancata produzione della relata di notifica.

La CTR ha accolto l’appello dell’Agenzia affermando la validità della notifica della cartella avvenuta il (OMISSIS) mediante consegna a mani del destinatario sottolineando, altresì, che, comunque, l’atto aveva raggiunto lo scopo, per come confermato dall’avvenuta proposizione dell’opposizione.

In ogni caso, secondo la ricostruzione dei giudici di appello, anche la notifica dell’avviso di accertamento era stata regolare, trattandosi di plico ritirato il (OMISSIS) dalla moglie del destinatario dell’atto appositamente delegata.

L’irretrattabilità di tale atto, non oggetto di impugnazione, rendeva inammissibile qualsiasi ulteriore motivo di opposizione.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione B.M. affidandolo a cinque motivi.

L’Agenzia si è costituita al solo fine di partecipare all’eventuale udienza di discussione.

Riscossione Sicilia Spa è intimata.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso il contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., nonchè del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per non essere stato dichiarato inammissibile l’appello dell’Agenzia.

Nel corso del giudizio di primo grado il contribuente ha eccepito la mancata notifica dell’avviso di accertamento e, a fronte della produzione in giudizio della relata e del frontespizio dello stesso avviso, asseritamente notificato in data (OMISSIS), ha contestato la mancata produzione dell’atto notificato.

In tal modo è stato impossibile comprendere a quale atto fosse riferibile la relata prodotta.

Secondo alcuni stralci della sentenza di primo grado riportati in ricorso la Commissione tributaria provinciale ha accolto il rilievo.

Neppure in grado di appello è avvenuta detta integrale produzione documentale, sicchè la CTR ha errato nel non rilevare l’inammissibilità del gravame.

2. Il secondo motivo censura la sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè dell’art. 115 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

Ribadisce, a tale proposito, la mancata produzione integrale dell’avviso di accertamento notificato e la circostanza che, alla luce della produzione del solo frontespizio dell’atto, può ritenersi eseguita la sola notifica della prima pagina dello stesso.

3. Con il terzo motivo viene dedotta omessa motivazione su un punto decisivo della controversia a norma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

In particolare, l’illustrazione del motivo si sofferma nuovamente sulla mancata analisi dell’omessa produzione in giudizio di copia integrale dell’avviso di accertamento, circostanza che, laddove esaminata, avrebbe comportato la constatazione che nessun procedimento notificatorio si è mai perfezionato.

4. Con il quarto motivo il contribuente deduce violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis, nonchè della L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

Qualora la notifica dell’avviso fosse stata eseguita in data (OMISSIS) a mani di delegato del destinatario, l’agente postale avrebbe dovuto dare notizia allo stesso dell’avvenuta notificazione a mezzo lettera raccomandata.

Adempimento che nel caso di specie non è stato eseguito.

5. Con il quinto motivo viene dedotta violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, essendo inesistente la notifica della cartella esattoriale per mancata compilazione della relata di notifica sulla cartella medesima, atto ritenuto indispensabile allo scopo di verificare che l’adempimento compiuto da colui che ha posto in essere l’atto sia qualificabile, appunto, come attività che abbia legalmente portato l’atto nella sfera di conoscenza del destinatario.

6. Infondato il primo motivo di ricorso.

La mancata produzione in appello dell’avviso di accertamento, per come descritta dal ricorso del contribuente, non determina certamente l’inammissibilità dell’impugnazione per difetto di interesse.

Semmai, laddove fosse requisito indispensabile quello omesso, la carenza del relativo adempimento potrebbe, ipoteticamente, determinare l’infondatezza nel merito del motivo.

Attraverso una lettura comprensiva dell’accoglimento del rilievo relativo alla mancata allegazione di copia integrale dell’atto notificato, il ricorrente non sostiene che tale statuizione non sia stata impugnata dall’Agenzia, ma che non sia stata fornita quella prova che egli ritiene indispensabile per neutralizzare l’eccezione difensiva.

Ciò non determina la formazione di alcun giudicato interno per inammissibilità del gravame, ma, si ripete, qualora fosse indispensabile la produzione non effettuata, la sua infondatezza nel merito.

Il motivo, per come formulato, pertanto, deve essere disatteso.

7. Il secondo ed il terzo motivo possono essere esaminati congiuntamente e sono, anch’essi, infondati.

Entrambi prendono le mosse da un assunto errato in diritto, ossia che sia a carico della parte notificante che produce l’avviso di ricevimento relativo alla notificazione di un determinato atto l’onere di produrre anche la copia dell’atto notificato in maniera tale che emerga la prova della certa riferibilità dell’avviso di ricevimento all’atto prodotto.

Questa Corte, con orientamento qui condiviso, ha affermato che “in tema di notifica della cartella di pagamento mediante raccomandata, la consegna del plico al domicilio del destinatario risultante dall’avviso di ricevimento fa presumere, ai sensi dell’art. 1335 c.c., in conformità al principio di cd. vicinanza della prova, la conoscenza dell’atto da parte del destinatario, il quale, ove deduca che il plico non conteneva alcun atto o che lo stesso era diverso da quello che si assume spedito, è onerato della relativa prova” (Cass. sez. 5, 22 giugno 2018, n. 16528).

La ragione di tale orientamento risiede nel fatto che, una volta effettuata la consegna del plico per la spedizione, esso fuoriesce dalla sfera di conoscibilità del mittente, e perviene in quella del destinatario, il quale può dunque dimostrare che al momento del ricevimento il plico era privo di contenuto (o ne aveva uno diverso).

Nello stesso senso Cass. sez. 3, 22 ottobre 2013, n. 23920, mentre è recessivo il diverso orientamento secondo cui “nel caso di notifica della cartella di pagamento mediante l’invio diretto di una busta chiusa raccomandata postale, è onere del mittente il plico raccomandato fornire la dimostrazione del suo esatto contenuto, allorchè risulti solo la cartolina di ricevimento ed il destinatario contesti il contenuto della busta medesima (nella specie, sull’assunto che essa contenesse il bollettino di versamento, ma non il corpo della cartella)” (Cass. sez. 5, 30 luglio 2013, n. 18252; Cass. sez. 5, 12 maggio 2015, n. 9533, non massimata).

Ulteriormente, di recente, è stato ribadito che “nel caso di contestazione dell’atto comunicato a mezzo raccomandata, la prova dell’arrivo di questa fa presumere, ex art. 1335 c.c., l’invio e la conoscenza dell’atto, spettando al destinatario, in conformità al principio di “vicinanza della prova”, l’onere eventuale di dimostrare che il plico non conteneva l’avviso. Tale presunzione, però, opera per la sola ipotesi di una busta che contenga un unico atto, mentre ove il mittente affermi di averne inserito più di uno e il destinatario contesti tale circostanza, grava sul mittente l’onere di provare l’intervenuta notifica e, quindi, il fatto che tutti gli atti fossero contenuti nel plico, in quanto, secondo l’”id quod plerumque accidit”, ad ogni atto da comunicare corrisponde una singola spedizione” (Cass. sez. 5, 26 novembre 2019, n. 30787).

8. Infondato il quarto motivo.

Nel caso di specie, non si verte in tema di notifica dell’atto attraverso l’ausilio dell’ufficiale giudiziario e, dunque, non trovano applicazione le disposizioni di cui alla L. n. 890 del 1982.

Sul punto si richiama la granitica giurisprudenza di legittimità secondo cui “in tema di notificazioni a mezzo posta, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato, ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14, l’avviso di accertamento o liquidazione senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla legge citata attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c. Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato nella impossibilità senza sua colpa di prenderne cognizione” (Cass. sez. 5, 15 luglio 2016, n. 14501).

9. Il quinto motivo è, anch’esso, infondato per plurime ragioni.

La mancata compilazione della relata di notifica sulla cartella recapitata alla contribuente non costituisce omissione che determina alcun vizio della notifica (Cass. sez. 5, 12 febbraio 2020, n. 17354 in motivazione; in senso conforme Cass. 23 maggio 2018, n. 12750 e Cass. sez. 6-5, 5 maggio 2017, n. 11134).

Nel caso di specie la relata di notifica è stata prodotta in giudizio e la CTR ne ha desunto che l’adempimento è stato effettuato in data 9.11.2009 a mani del destinatario.

In ogni caso, va assicurata continuità all’orientamento costante della giurisprudenza di legittimità secondo cui “la tempestiva e rituale opposizione ha l’effetto di sanare ogni irregolarità della notifica dell’atto, in quanto ne dimostra il raggiungimento dello scopo”.

Nel caso di specie la contribuente ha potuto proporre opposizione tempestiva.

A ciò si aggiunga che la sanatoria di cui all’art. 156 c.p.c., comma 3, trova applicazione anche in relazione alla nullità della notifica di atti non processuali quali la cartella di pagamento con l’unico limite che non sia intervenuta la decadenza dal potere di accertamento (sul punto si veda Cass. sez. 5, 12 dicembre 2018, n. 708 in fattispecie assolutamente identica e con ampi richiami alle pagg. 2 e 3 a precedenti conformi).

10. Da quanto esposto consegue il rigetto complessivo del ricorso. Nessuna statuizione deve essere assunta sulle spese, essendosi costituita l’Agenzia per la sola partecipazione alla eventuale udienza di discussione e Riscossione Sicilia Spa è rimasta intimata.

Sussistono i presupposti per l’applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso;

nulla sulle spese;

Da atto dei presupposti processuali per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato, se dovuto, del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2021

 


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 03-02-2021) 14-06-2021, n. 16746

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14585-2018 proposto da:

DON CARLO SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE TITO LABIENO N 118, presso lo studio dell’avvocato FILIPPO GIAMPAOLO, rappresentato e difeso dall’avvocato ATTILIO DE PASQUALE;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TIBULLO 10, presso lo studio dell’avvocato MARIA VITTORIA PIACENTE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO CRISTOFARO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 414/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO, depositata il 27/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 03/02/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Svolgimento del processo
Che:

1.La Don Carlo Srl ricorre, affidandosi ad un unico motivo, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Catanzaro che aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta avverso la pronuncia del Tribunale di Cosenza con la quale:

a. era stata accolta la domanda spiegata da C.A. che, proprietaria di tre fondi siti in (OMISSIS), concessi in locazione ad uso commerciale alla società odierna ricorrente, aveva chiesto la sua condanna alla esecuzione dei lavori necessari per la riapertura della finestra sita nel vano bagno di un locale facente parte della complessiva proprietà locata ed il pagamento delle somme dovute per i canoni insoluti, oltre che le spese tributarie ed il risarcimento dei vari danni subiti;

b. era stata parzialmente accolta la domanda riconvenzionale spiegata dalla società odierna ricorrente, con la dichiarazione di nullità delle clausole contrattuali che escludevano la produzione degli interessi sulle somme versate a titolo di deposito cauzionale, respingendola per il resto e condannando la società alla rifusione delle spese di lite.

1.1.Per ciò che interessa in questa sede, la Corte territoriale ha dichiarato inammissibile l’appello ritenendolo tardivo, in quanto proposto oltre il termine “breve” di trenta giorni, decorrenti dalla notifica della sentenza a mezzo PEC, notifica della quale la società aveva eccepito la nullità, assumendo che sulla “relata”, nonostante la diversa notazione sulla copia stampata, non era stata apposta la firma digitale dell’avvocato notificante e che, in via residuale, doveva applicarsi il termine “lungo” di cui all’art. 327 c.p.c..

2. La parte intimata ha resistito con controricorso.

3. La trattazione del ricorso è stata fissata ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
Che:

1. Con unico articolato motivo, la società ricorrente deduce, ex art. 360 co 1 n. 3 c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 3 bis e 11 della L. 53/1994 e degli artt. 125,148 e 156 c.p.c..

1.1. Assume, al riguardo:

a. che in data 31.5.2017 era stato trasmesso dal difensore della controparte un messaggio di posta elettronica certificata contenente la comunicazione P.E.C. per la notificazione della sentenza del Tribunale di Cosenza, a cui erano allegati i file della relata di notifica in formato nativo digitale e della copia informatica per immagine di essa, senza alcuna attestazione di conformità;

b. al file della relata di notifica ed a tutti gli altri file allegati al messaggio di PEC, nonostante la diversa notazione riportata sulla copia analogica per stampa prodotta dalla difesa della controparte, non veniva apposta la firma digitale dell’avvocato notificante;

c. il suddetto file della relata di notifica veniva allegato con estensione pdf semplice e non con estensione “p7m” o “pdf” oppure “pdf” ma con eventuale aggiunta del suffisso “signed” al nome del file tanto da presentarlo come “nomefile-signed-pdf”: assume che, pur condivisibile la recente pronuncia di questa Corte relativa alla validità delle firme digitali CAdES e PAdES ritenute equivalenti a quelle previste dalla normativa in vigore (richiama, al riguardo, Cass. SU 10266/2018), affinché il file di notifica potesse considerarsi validamente sottoscritto, doveva ritenersi però necessaria almeno una di tali firme digitali, del tutto assenti nel caso di specie.

1.2. Contesta, in buona sostanza, la statuizione della Corte territoriale che aveva ritenuto che la mancanza della firma digitale del difensore nella relata di notificazione non rilevasse ai fini della validità di essa; ed assume che tale orientamento si poneva in contrasto con quanto predicato dall’art. 125 c.p.c., secondo il quale tutti gli atti di parte dovevano essere sottoscritti dal difensore. 2. In via preliminare, il Collegio rileva la violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto parte ricorrente non ha “localizzato”, nel presente giudizio di legittimità e con riferimento specifico agli atti prodotti, la relata di notificazione della sentenza di primo grado di cui si discute.

2.1. Nemmeno ha dedotto di voler fare riferimento alla presenza di tali atti nel fascicolo d’ufficio della corte territoriale oppure in quello del giudizio di appello della controparte (in questo secondo caso o presente nel fascicolo de quo o prodotto dalla resistente) (cfr, sulla specifica questione, Cass. Sez. Un. 22726/2011).

3. Ma tanto premesso, la censura se fosse esaminabile sarebbe infondata.

3.1. Lo stesso appellante, infatti, pur rilevando l’assenza della firma digitale del difensore notificante, ha affermato che la copia stampata della relata di notifica riportava “la diversa annotazione” senza alcuna specificazione in ordine alle caratteristiche di essa: al riguardo, si osserva che questa Corte ha avuto modo di chiarire che in tema di notificazione a mezzo posta elettronica certificata (PEC), “la mancanza, nella relata, della firma digitale dell’avvocato notificante non è causa d’inesistenza dell’atto, potendo la stessa essere riscontrata attraverso altri elementi di individuazione dell’esecutore della notifica, come la riconducibilità della persona del difensore menzionato nella relata alla persona munita di procura speciale per la proposizione del ricorso, essendosi comunque raggiunti la conoscenza dell’atto e, dunque, lo scopo legale della notifica (cfr. Cass. 6518/2017).

3.2. Ed è stato chiarito, in motivazione (cfr. pag. 3 della sentenza citata), che “la notificazione a mezzo PEC è un documento diretto inequivocabilmente dalla casella PEC dell’avvocato del ricorrente a quella del difensore avversario, senza che abbia limitato i diritti difensivi della parte ricevente. Infatti, questa Corte ha stabilito che il difetto della firma non è causa di inesistenza dell’atto, ed ha anzi affermato la surrogabilità di quella prescrizione attraverso altri elementi capaci di far individuare l’esecutore di esso (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10272 del 2015)”.

3.3. Orbene, nella specie, nella notificazione effettuata a mezzo PEC la mancata firma digitale della relata non lascia alcun dubbio sulla riconducibilità alla persona del difensore, attraverso la sua indicazione e l’accostamento di quel nominativo alla persona munita ritualmente della procura speciale.

3.4. Del resto, questa Corte ha affermato che “l’irritualità della notificazione di un atto a mezzo di posta elettronica certificata non ne comporta la nullità se la consegna telematica (nella specie, in “estensione.doc”, anzichè “formato.pdf”) ha comunque prodotto il risultato della sua conoscenza e determinato così il raggiungimento dello scopo legale” (cfr. Cass. Sez. U 7665/2016 ed, in termini, Cass. 3805/2018).

3.5. Nè può ritenersi utile, per una diversa decisione, l’argomento, di tenore “letterale”, portato dal riferimento all’art. 125 c.p.c. e, dunque, alla inclusione della notifica fra gli atti processuali di parte che necessitano della sottoscrizione del difensore, in quanto, da una parte, il richiamo appare improprio non potendosi considerare tale (e cioè ” atto processuale”) il prodotto dell’esercizio della funzione notificatoria del difensore, e, dall’altra, il Collegio ritiene che comunque, l’elencazione della norma richiamata sia tassativa, e non possa essere estesa ai documenti che fanno parte di un procedimento, con più passaggi, come quello per via telematica per il quale è sufficiente che venga attestata la conformità all’originale dell’atto da notificare (cfr. Cass. 26102/2016).

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

5. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma del comma Ibis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente alle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2300,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della terza sezione civile della Corte di Cassazione, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 giugno 2021


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 10-03-2021) 09-06-2021, n. 16183

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – rel. Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35659-2019 proposto da:

AMA – AZIENDA MUNICIPALE AMBIENTE SPA ROMA, in persona dell’Amministratore Unico pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CALDERON DE LA BARCA, 87, presso lo studio dell’avvocato FABIO LITTA, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato STEFANO SCICOLONE;

– ricorrente –

contro

C.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CARLO DOSSI, n. 45, presso lo studio dell’avvocato MARIA ELISABETTA TABOSSI, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 2432/5/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DEL LAZIO, depositata il 17/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non partecipata del 10/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. ESPOSITO ANTONIO FRANCESCO.

Svolgimento del processo
che:

Con sentenza in data 17 aprile 2019 la Commissione tributaria regionale del Lazio confermava la decisione di primo grado che aveva accolto il ricorso proposto da C.A. contro la cartella di pagamento relativa a Tari per l’anno 2011, emessa a seguito del mancato pagamento del presupposto avviso di accertamento. Rilevava la CTR, in conformità della statuizione del primo giudice, la nullità della notifica dell’atto presupposto, con conseguente invalidità derivata della successiva cartella. Ciò in quanto, non essendo stato l’atto consegnato personalmente al destinatario, l’agente postale avrebbe dovuto effettuare l’adempimento previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, il quale dispone che se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario dell’avvenuta notifica a mezzo di lettera raccomandata.

Avverso la suddetta pronuncia AMA – Azienda Municipale Ambiente S.p.A. Roma – ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

Resiste con controricorso la contribuente.

L’Agenzia delle entrate – Riscossione è rimasta intimata. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c. risulta regolarmente costituito il contraddittorio. La controricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

Preliminarmente va disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dalla controricorrente, posto che l’atto di impugnazione contiene tutti gli elementi necessari a porre questa Corte in grado di avere piena cognizione della controversia.

Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 161, per non avere la CTR considerato che tale disposizione normativa attribuiva agli enti locali, per i tributi di propria competenza, la facoltà di notificare al contribuente, anche a mezzo posta con raccomandata con avviso di ricevimento, gli atti impositivi. Pertanto, poiché, nella fattispecie, l’ente creditore si era avvalso di tale facoltà, trovavano applicazione le norme del servizio postale ordinario e non la L. n. 890 del 1982, art. 7, come erroneamente ritenuto dal giudice di appello.

La censura è fondata.

Secondo l’orientamento espresso da questa Corte, cui il Collegio intende dare continuità, “In tema di notifica diretta degli atti impositivi, eseguita a mezzo posta dall’Amministrazione senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario, in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario, la notificazione si intende eseguita decorsi dieci giorni dalla data del rilascio dell’avviso di giacenza e di deposito presso l’Ufficio Postale (o dalla data di spedizione dell’avviso di giacenza, nel caso in cui l’agente postale, sebbene non tenuto, vi abbia provveduto), trovando applicazione in detto procedimento semplificato, posto a tutela delle preminenti ragioni del fisco, il regolamento sul servizio postale ordinario che non prevede la comunicazione di avvenuta notifica, avendo peraltro Corte Cost. n. 175 del 2018 ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1 (nel rilievo che il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque assicurato dalla facoltà per il contribuente di richiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove dimostri, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, di non aver avuto conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile) (Cass. n. 10131 del 2020).

La sentenza impugnata, ritenendo invalida la notifica dell’avviso di accertamento presupposto della cartella di pagamento impugnata, effettuata sulla base della normativa del servizio postale ordinario, poiché non era stata inviata la successiva raccomandata prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, non si è uniformata al principio di diritto sopra richiamato.

Resta assorbito il secondo motivo di ricorso, con il quale si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e dell’art. 1335 c.c..

Sulla base di tali considerazioni, idonee a superare i rilievi difensivi svolti dalla controricorrente anche in memoria, in accoglimento del primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, la quale provvederà anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso e dichiara assorbito il secondo; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2021


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 11-12-2020) 28-05-2021, n. 15002

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. ORICCHIO Antonio – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22354/2016 proposto da:

G.R., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANDREA VESALIO 22, presso lo studio dell’avvocato ALFREDO IRTI, rappresentato e difeso dagli avvocati SALVATORE LIUZZO, VALERIA LEONE;

– ricorrenti –

contro

C.C., S.R.A.C., S.V.M.A., C.R., C.L., C.N., S.M., elettivamente domiciliate in Catania, via Pantano n. 70, presso lo studio dell’avv.to ANGELA PATRIZIA GIUCA, che li rappresenta e difende;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1437/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 24/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 11/12/2020 dal Consigliere Dott. LUCA VARRONE.

Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Catania accoglieva la domanda proposta da G.R. e dichiarava risolto il contratto preliminare stipulato il 9 ottobre 2003 tra C.A. e R.G., quali promittenti venditori, e G.R., quale promissario acquirente, per inadempimento dei promittenti venditori; condannava gli eredi di C.A. e gli eredi di R.G., ciascuno in proporzione alla propria quota ereditaria, al pagamento in favore della controparte della somma di Euro 72.303,96 corrispondente al doppio della caparra confirmatoria versata dal G..

2. C.N., C., R. e L., eredi di C.A., e S.R.A.C., S.V.M.A. e S.M., eredi di R.G. – che nel costituirsi in giudizio avevano proposto domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto con conseguente richiesta di riconoscimento del diritto al trattenimento della caparra proponevano appello avverso la suddetta sentenza.

3. La Corte d’Appello di Catania, in accoglimento dell’impugnazione rigettava le domande formulate da G.R. e in accoglimento delle domande riconvenzionali formulate dai convenuti dichiarava la risoluzione del contratto preliminare del 9 ottobre 2003 per il legittimo recesso della parte promittente venditrice determinato dall’inadempimento della parte promissaria acquirente, G.R. e il diritto della parte promittente venditrice alla ritenzione della caparra confirmatoria ricevuta.

2. La Corte d’Appello rigettava preliminarmente le eccezioni pregiudiziali circa l’avvenuta estinzione del giudizio per mancata riassunzione in quanto la notificazione dell’atto unitamente al decreto di fissazione dell’udienza era stata effettuata sia agli eredi di C. che a quelli di R.. Anche l’eccezione di tardività della notifica dell’appello doveva ritenersi superata stante la tempestività di quello proposto dai litisconsorti necessari.

Nel merito la Corte d’Appello riteneva che il contratto preliminare stipulato tra le parti, alla stregua dei criteri interpretativi di cui agli artt. da 1362 a 1365 c.c., non aveva ad oggetto un terreno edificabile. Nel contratto preliminare, infatti, i promittenti venditori si impegnavano a vendere un lotto di terreno, senza ulteriore specificazione, anzi dal contratto risultava che le parti concordemente accettavano la soppressione delle parole “non agricolo”. Tale eliminazione, a prescindere dall’iniziativa dell’una o dell’altra parte, era stata accettata da entrambe ed evidenziava in maniera incontrovertibile che l’oggetto del contratto era rappresentato da un terreno, senza ulteriore specificazione di una determinata qualità.

Doveva, dunque, affermarsi che l’edificabilità del lotto non faceva parte della qualità del bene oggetto del contratto promesso dalla parte venditrice. Tale conclusione era confermata anche in applicazione del principio di interpretazione del contratto secondo buona fede come canone di reciproca lealtà di condotta tra le parti. La circostanza che l’edificabilità del terreno non costituisse una qualità promessa della parte venditrice emergeva dal fatto che il terreno in questione, pur eventualmente ricadente in zona c4 e non anche in zona vincolata, era comunque inedificabile per la sua conformazione planimetrica. Ciò era emerso dalla consulenza tecnica e, pertanto, il terreno per le sue dimensioni, a prescindere dal mutamento della destinazione urbanistica, era in concreto inedificabile e di conseguenza era contrario al principio di buona fede invocare l’inadempimento della parte promittente venditrice per non aver dichiarato l’esistenza di un vincolo di inedificabilità a seguito dell’approvazione di una variante al programma di fabbricazione vigente, nonostante l’espressa volontà di acquistare un terreno, di fatto inedificabile, a prescindere dal vincolo imposto.

Secondo la Corte d’Appello il disinteresse del promissario acquirente all’edificabilità o meno del lotto era dimostrato anche dal fatto di aver ritenuto sufficiente l’allegazione di un certificato di destinazione urbanistica rilasciato circa 10 mesi prima della stipulazione del contratto. Peraltro, dal contenuto del contratto non poteva evincersi l’esistenza di un presupposto tenuto presente da entrambi i contraenti nella formazione del loro consenso e condizionante l’esistenza e il permanere del vincolo negoziale, anzi la cancellazione delle parole non agricolo rendeva evidente l’insussistenza di tale presupposto.

Il G. non aveva, peraltro, fornito la prova dell’esternazione alla controparte dello scopo di voler comprare il terreno per edificare. L’allegazione di un certificato di destinazione urbanistica che non riproduceva la reale qualità del terreno non poteva da sola essere espressione di una garanzia del venditore relativa alle destinazione edificatoria del terreno oggetto del preliminare. Al contrario da quanto era emerso doveva dedursi che i promittenti venditori si erano impegnati a vendere un terreno senza ulteriore qualità e il G. si era impegnato ad acquistare il lotto in questione a prescindere dalla sua edificabilità, risultando dunque irrilevante ai fini della decisione la consapevolezza o meno dei venditori del mutamento della destinazione urbanistica del bene avvenuta già prima della stipulazione dell’atto.

In ogni caso il vincolo imposto all’immobile con deliberazione del consiglio comunale n. 33 del 10 aprile 2003 non poteva qualificarsi come onere non apparente gravante sull’immobile, secondo la previsione dell’art. 1479 c.c. e non era conseguentemente invocabile dal compratore come fonte di responsabilità della controparte che non l’aveva dichiarato nel contratto. Con la suddetta Delibera l’area in questione era stata classificata come parco naturalistico e dunque inedificabile in applicazione delle misure di salvaguardia. La deliberazione di adozione del piano regolatore e del programma di fabbricazione, atto collegiale esprimente la volontà definitiva dell’ente pubblico, conferiva agli strumenti edilizi un’efficacia immediata sia pur limitata.

In conseguenza dell’adozione degli stessi secondo la Corte d’appello divenivano operanti le cosiddette misure di salvaguardia le quali conferivano ai sindaci dei Comuni il potere-dovere di sospendere ogni decisione sulle domande di concessione o autorizzazione edilizia in contrasto con il programma adottato. L’affissione nell’albo pretorio delle deliberazioni comunali effettuata nei modi e termini di legge costituiva una forma di pubblicità legale di per sè esaustiva ai fini della presunzione assoluta di piena conoscenza erga omnes allorquando tali atti non fossero direttamente riferibili a soggetti determinati. Peraltro, la mancanza di una garanzia sulla destinazione edificatoria del suolo e l’allegazione di un certificato risalente nel tempo imponevano al compratore di indagare sulla qualità del suolo. Infine, era possibile rilevare di ufficio la non apparenza del vizio anche senza allegazione della parte risultando la stessa dagli atti.

3. G.R. ha proposto ricorso per cassazione avverso la suddetta sentenza sulla base di tre motivi.

4. C.N., C., R. e L., eredi di C.A., e S.R.A.C., S.V.M.A. e S.M., eredi di R.G., si sono costituiti con controricorso.

5. Entrambe le parti, con memoria depositata in prossimità dell’udienza, hanno insistito nelle rispettive richieste.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1362 e 1363 c.c., in materia di interpretazione dei contratti e dei principi regolatori dei criteri di ermeneutica contrattuale. Violazione dei criteri di interpretazione soggettiva del contratto diretti all’accertamento della comune volontà delle parti. Violazione del criterio di interpretazione secondo il tenore letterale del contratto.

La censura ha ad oggetto la violazione dei criteri di ermeneutica contrattuale e, in particolare, di quello che richiede al giudice di compiere una valutazione complessiva di tutte il contenuto dell’accordo in ogni sua parte. Anche solo in base alla complessiva disamina letterale del contratto preliminare del 9 ottobre 2003 emergerebbe che aveva ad oggetto un lotto di terreno dalle specifiche caratteristiche edificatorie. In tal senso secondo il ricorrente deporrebbe anche la circostanza fondamentale della allegazione al preliminare del certificato di destinazione urbanistica del terreno contenente l’espressa descrizione delle specifiche caratteristiche e qualità edificatorie del fondo oggetto di contestazione, documento che era stato sottoscritto da tutti i contraenti, così da costituire parte integrante e sostanziale del contratto preliminare.

Anche l’entità del prezzo convenuto in Euro 72.303,96 era in linea con il valore di mercato di un terreno edificabile anche tenuto conto dell’estensione del lotto di appena 2464 mq.

Pertanto, l’eliminazione delle parole “non agricolo” dal contratto, alla luce delle caratteristiche oggettive promesse dai venditori in ordine al bene oggetto del preliminare, dimostrerebbe che la suddetta indicazione era superflua.

Nel contratto preliminare,di cui faceva parte integrante anche il certificato di destinazione urbanistica del terreno, era fin dall’inizio esattamente specificata ed indicata in maniera chiara ed incontrovertibile la sua edificabilità. In forza di una corretta applicazione dei criteri di interpretazione soggettiva del contratto la Corte d’Appello di Catania avrebbe dovuto condividere quanto ritenuto dal Tribunale a fondamento della propria decisione, rilevando l’inadempimento dei promittenti venditori ed il diritto del G. di ottenere il recesso del preliminare e il pagamento del doppio della caparra confirmatoria a causa del sopravvenuto accertamento dell’inesistenza della qualità edificatoria del fondo a causa del vincolo posto dagli organi competenti in data antecedente la stipula del contratto.

2. Il secondo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 1366 c.c., in materia di interpretazione dei contratti – Violazione del criterio di interpretazione oggettiva del contratto secondo il principio di buona fede. Omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, consapevolezza dei promittenti venditori dell’esistenza del vincolo.

Anche il secondo motivo attiene alla violazione dei canoni di interpretazione del contratto, questa volta con riferimento al principio di buona fede di cui all’art. 1366 c.c., evidenziato dalla Corte d’Appello ma di fatto erroneamente applicato. Tale canone di interpretazione permea anche la fase di formazione del contratto. Nel caso di specie i promittenti venditori avevano allegato e sottoscritto un certificato di destinazione urbanistica che apparentemente riportava le caratteristiche edificatoria del terreno oggetto di vendita. In atti vi era però specifica prova documentale del fatto che alla data di stipula del preliminare i promittenti venditori avevano piena consapevolezza che la potenzialità edificatoria riportata nel certificato di destinazione urbanistica era venuta meno per effetto del vincolo di inedificabilità assoluta apposto al terreno con provvedimento del 10 aprile 2003. Infatti, i promittenti venditori avevano proposto ricorso al Tar di Catania contro il diniego a realizzare dei manufatti sul citato terreno in conseguenza dell’intervenuto vincolo di inedificabilità. In atti vi erano, dunque, specifici riscontri documentali della malafede dei promittenti venditori che nel corso del giudizio avevano negato di essere a conoscenza dell’esistenza del vincolo e che anzi ne avevano addirittura negato l’esistenza.

Secondo il ricorrente la Corte d’Appello si sarebbe soffermata unicamente sulla condotta del promissario acquirente quando avrebbe dovuto valutare la condotta di entrambe le parti anche in relazione al principio contrattuale della buona fede, quale obbligo di lealtà, di solidarietà, correttezza e collaborazione previsto dalla legge per ogni parte contrattuale.

La malafede dei promittenti venditori avrebbe determinato il G. a fare affidamento su quanto certificato circa la sussistenza delle qualità edificatoria del terreno che si obbligava ad acquistare senza procedere ad ulteriori accertamenti al riguardo se non al momento della stipula del definitivo allorquando era emersa la situazione diversa del bene.

Neanche rileverebbe la sostanziale inedificabilità del terreno per la sua conformazione come risulterebbe provato proprio dalla condotta dei venditori che avevano tentato di attuare un’iniziativa edificatoria che il Comune aveva negato solo per l’apposizione del vincolo e non per l’obbligo di staccarsi dal confine. La questione della consapevolezza da parte dei promittenti venditori dell’esistenza del vincolo di inedificabilità rappresentava un fatto decisivo per il giudizio oggetto di specifica discussione tra le parti.

2.1 Il primo e il secondo motivo di ricorso, che stante la loro evidente connessione possono essere trattati congiuntamente, sono in parte inammissibili, in parte infondati.

Nell’ipotesi in cui con il ricorso per cassazione sia contestata l’interpretazione attribuita dal giudice di merito al contratto intercorso tra le parti, infatti, le relative censure, per essere esaminabili, non possono risolversi nella mera contrapposizione tra la volontà dei contraenti così come ritenuta dal ricorrente e quella invece accertata dalla sentenza impugnata, ma debbono essere proposte o sotto il profilo della mancata osservanza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, delle norme che fissano i criteri ermeneutici di cui agli artt. 1362 ss. c.c. ovvero, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore ratione temporis, del vizio di motivazione consistito nell’omesso esame di un fatto decisivo, a condizione, però, che, in ossequio al principio dell’onere di specificità del motivo, tali censure siano accompagnate dalla trascrizione, nel corpo del ricorso, almeno nella stesura che ne consenta la piena comprensione, delle clausole asseritamente individuative dell’effettiva volontà delle parti, al fine di consentire alla Corte di cassazione di valutarne la fondatezza senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte: ciò che, nel caso di specie, non è accaduto. I ricorrenti, infatti, non hanno provveduto alla trascrizione del contenuto del contratto nella misura minima necessaria a consentirne la comprensione. L’interpretazione di un atto negoziale, del resto, è un tipico accertamento in fatto riservato al giudice di merito, normalmente incensurabile in sede di legittimità, salvo che, come accennato, nelle ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo e oggetto di discussione tra le parti, alla stregua del c.d. “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nella formulazione attualmente vigente, ovvero, ancora, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, previsti dagli artt. 1362 c.c. e segg. (Cass. n. 14355 del 2016, in motiv.). Il sindacato di legittimità può avere, quindi, ad oggetto solamente l’individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto (Cass. n. 23701 del 2016). Pertanto, al fine di riscontrare l’esistenza dei denunciati errori di diritto o vizi di ragionamento, non basta che il ricorrente faccia, com’è accaduto nel caso di specie, un astratto richiamo alle regole di cui agli artt. 1362 c.c. e segg., occorrendo, invece, che specifichi, per un verso, i canoni in concreto inosservati e, per altro verso, il punto e il modo in cui il giudice di merito si sia da essi discostato (Cass. n. 7472 del 2011; più di recente, Cass. n. 27136 del 2017). Ne consegue l’inammissibilità del motivo di ricorso che, come quelli in esame, pur denunciando la violazione delle norme ermeneutiche o il vizio di motivazione, si risolva, in realtà, nella mera proposta di una interpretazione diversa rispetto a quella adottata dal giudice di merito (Cass. n. 24539 del 2009), così come è inammissibile ogni critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca nella sola prospettazione di una diversa valutazione ricostruttiva degli stessi elementi di fatto da quegli esaminati (Cass. n. 2465 del 2015, in motiv.). In effetti, per sottrarsi al sindacato di legittimità sotto i profili di censura dell’ermeneutica contrattuale, quella data dal giudice al contratto non dev’essere l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto, ma solo una delle possibili e plausibili interpretazioni, per cui, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni (plausibili), non è consentito alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. 16254 del 2012; conf., più di recente, Cass. 27136 del 2017).

Nella specie, la Corte d’Appello ha affermato che la promessa di vendita stipulata tra le parti non aveva ad oggetto un terreno edificabile, evidenziando che nell’ambito della trattativa per la stipula del contratto le parti si erano accordate per la cancellazione dal testo dell’espressione “non agricolo”. Tale circostanza, non contestata, evidenzia che, nell’ambito dell’accordo negoziale, l’aspetto dell’edificabilità del terreno era stato esplicitamente considerato, tanto da determinare l’esigenza di precisare che il terreno era promesso in vendita a prescindere dalla sua edificabilità.

D’altra parte, il contenuto del contratto non è riportato e il ricorrente non indica nessun’altro elemento, non valutato dalla Corte d’Appello, da cui ricavare che il bene promesso in vendita fosse un terreno con la specifica qualità della sua edificabilità. L’allegazione del certificato di destinazione urbanistica, oltre ad essere anch’essa considerata nella motivazione della Corte d’Appello, rientra tra le attività ordinarie nell’ambito della stipula dei contratti preliminari di compravendita di beni immobili e il fatto che il suddetto certificato non fosse aggiornato non è sufficiente a supportare una diversa interpretazione della volontà negoziale di segno contrario a quella esplicitata nel testo dai contraenti.

In conclusione, deve ribadirsi che il sindacato di legittimità può avere ad oggetto non già la ricostruzione della volontà delle parti bensì solamente la individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di verificare se sia incorso in vizi del ragionamento o in errore di diritto. Nella specie nessun canone di interpretazione negoziale risulta violato, compreso quello della buona fede, posto che, come si è detto, la cancellazione della dicitura “non agricolo” è segno di un comportamento delle parti che hanno ritenuto di escludere l’edificabilità del terreno dal vincolo contrattuale.

Una volta ricostruita la volontà negoziale rispetto all’oggetto del contratto perdono di consistenza tutte le restanti censure attinenti alla edificabilità in concreto del suolo e alla consapevolezza dei promittenti venditori del cambio di destinazione del terreno.

3. Il terzo motivo di ricorso è così rubricato: violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1373, 1385, 1453, 1498, 1490 e 1497 c.c., in materia di recesso unilaterale e caparra confirmatoria, vizi della cosa. Violazione degli artt. 99, 112, 342 c.p.c., in merito alla corrispondenza tra chiesto e pronunciato, e alla specifica proposizione dei motivi di appello e alla rilevabilità d’ufficio dell’eccezioni.

Il ricorrente richiama la giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di chiarire che il promissario acquirente non può avvalersi della disciplina relativa alla garanzia dei vizi della cosa venduta o di quella di cui all’art. 1497 c.c., relativa alla garanzia per mancanza di qualità della cosa venduta le quali presuppongono la conclusione del contratto definitivo e sono estranee al contratto preliminare che ha ad oggetto un facere e non un dare.

Sarebbe dunque illogica l’affermazione secondo la quale il vincolo di inedificabilità era assistito da una presunzione legale di conoscenza erga omnes e, dunque, privo del requisito normativo della non apparenza.

Il ricorrente evidenzia che l’apposizione di un vincolo assoluto di inedificabilità sui singoli terreni ricompresi in una zona deve essere qualificato come un atto direttamente riferibile a soggetti determinati dunque esclusi dalla presunzione di conoscenza. Ma in ogni caso, anche a prescindere da tale considerazione, la questione dell’apparenza del vizio non era mai stata introdotta in giudizio in primo grado e neppure in appello tanto che la Corte aveva ritenuto necessario motivare sulla rilevabilità d’ufficio. Ne consegue che la Corte avrebbe erroneamente qualificato la domanda del G. come azione di garanzia ex art. 1489 c.c., subordinando l’azione all’apparenza del vizio mentre il G. aveva agito unicamente per dichiarare legittimo il recesso dall’impegno preliminare di vendita per inadempimento del venditore, non potendo questi trasferire un terreno con le caratteristiche edificatoria promesse. Secondo il ricorrente dunque vi sarebbe un duplice errore sia circa la rilevanza dell’apparenza del vizio sia sulla sua rilevabilità d’ufficio.

3.1 Il terzo motivo è infondato.

La Corte d’Appello ha individuato l’oggetto del contratto per stabilire se vi fosse stato un inadempimento da parte dei promittenti venditori che potesse giustificare il recesso del G. e la restituzione del doppio della caparra o se l’inadempimento dovesse essere a lui attribuito con diritto di C.A. e R.G. a trattenere la caparra. Come si è detto con riferimento ai primi due motivi, la Corte d’Appello ha ritenuto che l’edificabilità del terreno fosse stata volutamente esclusa dall’oggetto del contratto.

Peraltro, la Corte d’Appello ha correttamente richiamato l’orientamento consolidato di questa Corte secondo il quale “i vincoli paesaggistici, inseriti nelle previsioni del piano regolatore generale, una volta approvati e pubblicati nelle forme previste hanno valore di prescrizione di ordine generale a contenuto normativo con efficacia “erga omnes”, come tale assistita da una presunzione legale di conoscenza assoluta da parte dei destinatari, sicchè i vincoli in tal modo imposti, a differenza di quelli inseriti con specifici provvedimenti amministrativi a carattere particolare, non possono qualificarsi come oneri non apparenti gravanti sull’immobile, secondo l’art. 1489 c.c. e non sono, conseguentemente, invoca bili dal compratore come fonte di responsabilità del venditore, che non li abbia eventualmente dichiarati nel contratto” (Sez. 2, Sent. n. 14289 del 2018; Sez. 2, Sent. n. 2737 del 2012).

Da un lato, quindi, il vincolo di inedificabilità costituiva un “onere apparente”, in quanto i limiti posti dall’amministrazione comunale non erano contenuti in singoli atti intercorsi fra il Comune e i proprietari dei terreni, ma erano ricavabili dai piani urbanistici e, pertanto, conoscibili a tutti e, dall’altro, alla luce dell’interpretazione dell’intero contratto condotta dalla Corte d’Appello secondo i criteri sopra indicati, doveva escludersi l’affidamento del promittente acquirente circa l’edificabilità del terreno dato che si era deciso di escludere la dicitura “non agricolo” dal contratto.

Deve ribadirsi pertanto che nella vendita di cosa gravata da oneri o da diritti di godimento di terzi, la conoscibilità del vincolo urbanistico gravante sulla cosa, idonea ad escludere la responsabilità del venditore ex art. 1489 c.c., deve essere valutata in concreto, alla luce della natura del vincolo medesimo e della possibilità per l’acquirente di avvertire la necessità di compiere una verifica e che deve escludersi la possibilità per il promissario acquirente di richiedere la risoluzione del contratto quale conseguenza automatica della presenza di un vincolo sul bene dovendo verificarsi i presupposti della risoluzione ai sensi dell’art. 1489 c.c..

4. Il ricorso è rigettato.

5. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

6. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5200 di cui 200 per esborsi;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 11 dicembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 23/02/2021) 27/05/2021, n. 14745

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 19493/14 R.G. proposto da:

P.M., rappresentata e difesa, come da delega a margine del ricorso, dagli avv.ti Stefano Modenesi e Antonio Tomassini, con domicilio eletto presso il loro studio, DLA Piper Studio Legale Tributario Associato, in Roma, via dei Due Macelli, n. 66;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio eletto in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia n. 510/38/14 depositata in data 29 gennaio 2014;

udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 23 febbraio 2021 dal Consigliere Dott.ssa Pasqualina Anna Piera Condello.

Svolgimento del processo
che:

1. Con distinti ricorsi P.M. impugnò gli avvisi di accertamento, per gli anni d’imposta 2006 e 2007, con i quali l’Agenzia delle entrate aveva rideterminato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e 5, il reddito dichiarato sulla base degli indici di cui al D.M. 10 settembre 1992, tabella allegata, ed in particolare, assumendo a riferimento l’acquisto (avvenuto nel 2007) di una autovettura Jaguar, del valore di Euro 80.000,00.

2. La Commissione tributaria provinciale di Varese, previa riunione dei ricorsi, li rigettò con sentenza che venne impugnata dalla contribuente dinanzi alla Commissione tributaria regionale che, con la pronuncia in questa sede impugnata, rigettò il gravame.

Osservò, in particolare, che la notificazione degli atti impositivi era avvenuta a mezzo posta, nel rispetto delle disposizioni normative, e che la determinazione del reddito era avvenuta sulla base dell’applicazione del redditometro, procedura che dispensava l’Amministrazione finanziaria dal fornire ulteriori elementi indici di maggiore capacità contributiva oltre quelli individuati dallo stesso redditometro. Dando atto che la contribuente, nel corso dell’anno 2007, aveva acquistato un’automobile Jaguar, affrontando una spesa di Euro 80.000,00, accertò che era rimasto non dimostrato l’assunto difensivo secondo cui le somme per far fronte a tale spesa provenivano da donazioni del marito, il quale, sottoposto ad autonomo accertamento, non aveva fatto alcun riferimento alle elargizioni addotte a giustificazione dalla moglie.

3. La contribuente ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza d’appello, affidandosi a sette motivi.

L’Agenzia delle entrate resiste mediante controricorso.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo la ricorrente solleva questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione agli artt. 23, 24 e 53 Cost., laddove tali disposizioni non prevedono alcun limite al potere regolamentare riconosciuto all’Amministrazione finanziaria.

Deduce a sostegno della questione che le norme in esame delegano l’Amministrazione finanziaria alla elaborazione di uno strumento accertativo che, poggiando su presunzioni, non può rappresentare il solo presupposto per procedere alla rettifica dei redditi del contribuente e che si pone un problema di compatibilità del menzionato art. 38 e del D.M. 10 settembre 1992, rispetto alla riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., che risulterebbe violata dall’attribuzione all’Amministrazione finanziaria di poteri normativi idonei ad incidere sulla base imponibile dei contribuenti.

Poichè, secondo lo stesso disposto del citato art. 38, gli unici mezzi di prova contraria di cui il contribuente può avvalersi rispetto all’accertamento sintetico sono a) il fatto che il maggior reddito sinteticamente accertato sia costituito da redditi esenti o b) il fatto che il maggior reddito sinteticamente accertato sia costituito da redditi assoggettati a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, ad avviso della ricorrente, risulta evidente il contrasto sia con l’art. 24 Cost., sia con l’art. 53 Cost..

Aggiunge che l’introduzione dell’accertamento sintetico ha comportato una discrasia tra indici di spesa in esso non contemplati ed indici di spesa in esso contemplati, dal momento che ai primi corrisponde una presunzione semplice, mentre ai secondi soltanto una presunzione legale, a fronte della quale il contribuente non ha modo di tutelarsi con adeguati strumenti costituzionalmente tutelati.

1.1. La questione di legittimità costituzionale, sebbene rilevante ai fini del presente giudizio, è manifestamente infondata.

1.2. La Corte Costituzionale, con la ordinanza n. 297 del 13 luglio 2004, depositata il 28 luglio 2004, con riguardo alla dedotta violazione del principio di riserva di legge, si è già pronunciata per la infondatezza della questione, richiamando la costante giurisprudenza costituzionale secondo cui tale riserva va intesa in senso relativo, ponendo al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (v. sentenze n. 7 del 2001, n. 215 del 1998 e n. 111 del 1997); ha, in particolare, affermato che “è stata rispettata la riserva di legge relativa, in quanto l’art. 38 stabilisce che il regolamento deve prendere in considerazione elementi e circostanze di fatto certi e fissa delle linee direttive a cui si deve attenere l’accertamento compiuto tramite regolamento perchè lo stesso sia valido (deve scostarsi di almeno un quarto da quanto dichiarato per almeno due periodi di imposta), con salvezza della prova contraria del contribuente..”, precisando, altresì, che “nessuna norma costituzionale o di legge stabilisce che in materia tributaria i regolamenti debbano essere adottati con regolamento governativo ai sensi della L. n. 400 del 1988, art. 17, con la conseguenza che nessun vulnus costituzionale può ravvisarsi nella scelta di un regolamento del Ministro delle finanze, senza considerare che la norma da ultimo citata, nel fare un elenco delle materie che devono essere disciplinate con il regolamento, non fa menzione della materia tributaria”.

Questa Corte, peraltro, ha già avuto modo di precisare che i decreti ministeriali assolvono ad una funzione meramente accertativa e probatoria e non hanno natura sostanziale poichè non contengono norme per la determinazione del reddito (Cass., sez. 5, 19/04/2013, n. 9539). Il che esclude, alla radice, l’ipotizzata lesione dell’art. 23 Cost., che riserva alla legge la facoltà d’imporre (per quanto qui interessa) prestazioni patrimoniali (Cass., sez. 5, 24/04/2018, n. 10037).

La Corte Costituzionale, con la pronuncia sopra richiamata, ha parimenti escluso la violazione dell’art. 53 Cost., confermando quanto già statuito con la precedente ordinanza n. 283 del 23 luglio 1987, con la quale si è osservato che, sebbene l’accertamento previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, sia fondato su presunzioni, esso è ancorato ad elementi che debbono essere rigorosamente dimostrati e che sono idonei a costituire fonte sicura di rilevamento della capacità contributiva.

Anche la violazione dell’art. 24 è stata disattesa con la ordinanza n. 283 del 1987, poichè nessun limite è posto dalla normativa alla prova della insussistenza degli elementi e circostanze di fatto sui quali si basa l’accertamento induttivo.

D’altro canto, l’insussistenza di limitazioni del diritto di difesa e dei poteri probatori in capo a chi è sottoposto a verifica fiscale trova evidente riscontro nel costante orientamento di questa Corte secondo cui l’accertamento del reddito con metodo sintetico non impedisce al contribuente di dimostrare, attraverso idonea documentazione, oltre che il maggior reddito determinato o determinabile sinteticamente è costituito in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo di imposta, anche che, più in generale, il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cass., sez. 5, 19/10/2016, n. 21142; Cass., sez. 5, 19/04/2013, n. 9539; Cass., sez. 5, 24/04/2018, n. 10037; Cass., sez. 5, 18/04/2019, n. 10919).

2. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere i giudici di appello affermato che l’accertamento sintetico dispensa l’Ufficio dal fornire altri elementi indici di maggiore capacità contributiva, oltre quelli individuati dal redditometro stesso.

La ricorrente sostiene che la ricostruzione presuntiva realizzata dall’Ufficio non presenta i requisiti della gravità, precisione e concordanza e che, al di là del dato esibito con riguardo all’autovettura, nessuna circostanza sarebbe stata addotta dall’Amministrazione finanziaria che possa confermare le risultanze della verifica.

Sottolinea, pure, che in primo ed in secondo grado aveva prodotto documentazione – non vagliata dai giudici di appello – comprovante che l’acquisto dell’autovettura era avvenuto grazie all’intervento del marito, C.C., che aveva emesso un assegno circolare di Euro 15.000,00, nonchè grazie all’accensione di un finanziamento per un importo di Euro 41.177,38, che prevedeva rate di circa Euro 700,00 mensili, e che il marito le versava ogni mese circa Euro 1.000,00 con i quali sosteneva le spese personali, fra le quali la rata del finanziamento.

3. Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., del D.M. 10 settembre 1992, e violazione del principio del contraddittorio, lamentando che l’accertamento nei suoi confronti non è stato preceduto da un contraddittorio, nonostante lo stesso legislatore abbia introdotto, con il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito dalla L. 30 luglio 2010, n. 122, specifici correttivi allo strumento presuntivo dell’accertamento sintetico, imponendo all’Amministrazione finanziaria una analisi più approfondita della posizione fiscale del contribuente.

4. Con il quarto motivo – rubricato: “omessa pronuncia – Nullità della sentenza o del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Della violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42” – lamenta che i giudici di secondo grado hanno omesso di esaminare l’eccezione con la quale era stato dedotto il vizio di motivazione dell’atto impositivo che non dava conto delle ragioni per le quali erano state disattese le contestazioni sollevate dalla contribuente.

5. Con il quinto motivo – rubricato: Omessa pronuncia – Violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, e degli artt. 100 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Della violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42 – ripropone la doglianza fatta valere con il quarto motivo per il caso in cui il vizio di omessa pronuncia venga ritenuto rientrante tra i motivi di impugnazione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6. Con il sesto motivo denuncia omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio (violazione del principio del contraddittorio ai fini dell’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e ss., e del D.M. 10 settembre 1992, sotto il profilo della motivazione dell’atto impositivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 42), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e reitera la doglianza esposta con il quarto ed il quinto motivo per il caso che la si ritenga rientrante nel vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

7. Con il settimo motivo la ricorrente censura la sentenza per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e della L. n. 890 del 1982, art. 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nella parte in cui i giudici regionali hanno respinto l’eccezione di inesistenza della notificazione, pacificamente avvenuta a mezzo posta, per mancanza di relata di notifica, deducendo che la proposizione dell’impugnazione non comporta sanatoria del vizio per raggiungimento dello scopo, dal momento che lo scopo della notificazione non è quello di “provocare” l’impugnazione del provvedimento impositivo, bensì di perfezionarne la formazione.

8. Il terzo motivo, che deve essere esaminato con priorità, è infondato.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno invero affermato (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823) che: “Differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica previsione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Le Sezioni Unite hanno evidenziato, appunto, come, nella normativa tributaria nazionale, in relazione ai tributi non armonizzati, non si rinviene alcuna disposizione espressa che sancisca in via generale l’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale, al di fuori di precise disposizioni che tale contraddittorio prescrivono, peraltro a condizioni e con modalità ed effetti differenti, in rapporto a singole ben specifiche ipotesi, quale D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 7 (come modificato dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, convertito in L. n. 122 del 2010), in tema di accertamento sintetico.

Nella specie, si verte in ipotesi di accertamento sintetico per gli anni d’imposta 2006 e 2007, in relazione ai quali non opera la modifica normativa di cui al D.L. n. 78 del 2010, convertito dalla L. n. 122 del 2010.

Infatti, il D.L. 31 maggio 2010, n. 78, ha disposto (con l’art. 22, comma 1), con specifica norma di diritto transitorio, che le modifiche operano in relazione agli “accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del presente decreto” e quindi la norma ha effetto dal periodo d’imposta 2009 (cfr. Cass., sez. 6-5, 6/10/2014, n. 21041; Cass., sez. 6-5, 6/11/2015, n. 22746; Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283).

La sentenza della C.T.R. è pertanto conforme ai suddetti principi di diritto.

9. Il quarto motivo è infondato.

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass., sez. 1, 13/10/2017, n. 24155; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 6-1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 5, 2/04/2020, n. 7662).

La Commissione tributaria regionale, nel rigettare l’appello della contribuente e nel confermare l’accertamento, ha implicitamente disatteso l’eccezione di nullità dell’atto impositivo per carenza di motivazione, sollevata dalla contribuente.

10. Il quinto ed il sesto motivo, che possono essere scrutinati congiuntamente perchè connessi, sono parimenti infondati.

10.1. Sebbene i giudici regionali non si siano espressamente pronunciati sulla presunta nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, la mancanza di motivazione su questione di diritto e non di fatto deve ritenersi irrilevante, ai fini della cassazione della sentenza, qualora il giudice del merito sia comunque pervenuto ad un’esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame. In tal caso, la Corte di cassazione, in ragione della funzione nomofilattica ad essa affidata dall’ordinamento, nonchè dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., comma 2, ha il potere, in una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., di correggere la motivazione anche a fronte di un error in procedendo, quale la motivazione omessa, mediante l’enunciazione delle ragioni che giustificano in diritto la decisione assunta, anche quando si tratti dell’implicito rigetto della domanda perchè erroneamente ritenuta assorbita, sempre che si tratti di questione che non richieda ulteriori accertamenti in fatto (Cass., sez. U, 2/02/2017, n. 2731).

10.2. Va, al riguardo, ribadito (cfr. Cass., sez. 5, 31/03/2017, n. 8378; Cass., sez. 5, 1/12/2020, n. 27401) che “In tema di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, è valido l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente L. n. 212 del 2000, ex art. 12, comma 7, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo”.

La C.T.R. ha correttamente ritenuto che l’avviso di accertamento era idoneamente motivato, dal momento che l’Ufficio deve solo indicare gli elementi indicatori di reddito e lo scostamento derivatone rispetto al reddito dichiarato, ben potendo la parte contribuente fornire la prova contraria anche nel corso del giudizio.

11. Anche il settimo motivo va rigettato.

A partire dal 15 maggio 1998, data di entrata in vigore della L. n. 146 del 1998, art. 20, (che ha modificato la L. n. 890 del 1982, art. 14), gli uffici finanziari possono procedere alla notificazione a mezzo posta ed in modo diretto degli avvisi e degli atti che per legge vanno notificati al contribuente. Pertanto, quando l’Ufficio si sia avvalso di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982 (in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, concernono esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c.).

Ne deriva che non va redatta alcuna relata di notifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass., sez. 5, 4/07/2014, n. 15315; Cass., sez. 5, 15/07/2016, n. 14501; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642), senza che si renda, peraltro, necessario l’invio della raccomandata al destinatario (Sez. 5, Sentenza n. 8293 del 04/04/2018).

Nella sentenza qui impugnata si afferma che la notifica degli atti impositivi è avvenuta a mezzo posta e che “ha seguito tutto il dettato della normativa al riguardo”, cosicchè l’accertamento in fatto svolto dal giudice di merito non può essere sindacato in sede di legittimità.

Peraltro, l’eventuale invalidità della notifica dell’avviso di accertamento deve intendersi comunque sanata, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo ove detto vizio non abbia pregiudicato il diritto di difesa del contribuente, situazione che si realizza nell’ipotesi in cui, come nel caso di specie, il medesimo abbia tempestivamente impugnato l’atto contestandone il contenuto (Cass., sez. 5, 9/05/2018, n. 11043; Cass., sez. 6-5, 12/07/2017, n. 17198).

12. Il secondo motivo del ricorso è inammissibile.

Per costante orientamento di questa Corte (cfr. tra le altre Cass., sez. 10/08/2016, n. 16912), in tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dal D.M. 10 settembre e D.M. 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicchè è legittimo l’accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore.

Si è, in particolare, chiarito, con principio del tutto condivisibile, (Cass., sez. 6-5, 26/01/2016, n. 1332) che “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, qualora l’ufficio determini sinteticamente il reddito complessivo netto in relazione alla spesa per incrementi patrimoniali ed il contribuente deduca che tale spesa sia il frutto di liberalità, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, applicabile ratione temporis, la relativa prova deve essere fornita dal contribuente con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi ma anche l’entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall’accertamento”; con la ulteriore precisazione (Cass., sez. 6-5, 10/07/2018, n. 18097) che “in tema di accertamento sintetico, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, comma 6, non è sufficiente la dimostrazione, da parte del contribuente, della disponibilità di redditi ulteriori rispetto a quelli dichiarati, in quanto, pur non essendo esplicitamente richiesta la prova che tali redditi sono stati utilizzati per coprire le spese contestate, deve essere fornita quella delle circostanze sintomatiche del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere” e che “in tema di accertamento sintetico del reddito, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 6, ove il contribuente deduca che la spesa sia il frutto di liberalità o di altra provenienza, la relativa prova deve essere fornita con la produzione di documenti, dai quali emerga non solo la disponibilità all’interno del nucleo familiare di tali redditi, ma anche l’entità degli stessi e la durata del possesso in capo al contribuente interessato dall’accertamento, pur non essendo lo stesso tenuto, altresì, a dimostrare l’impiego di detti redditi per l’effettuazione delle spese contestate, attesa la fungibilità delle diverse fonti di provvista economica” (Cass., sez. 6-5, 28/03/2018, n. 7757).

La C.T.R., dopo avere rilevato che la contribuente ha acquistato un’automobile Jaguar, affrontando una spesa di Euro 80.000,00, a fronte di un reddito dichiarato nello stesso periodo di Euro 7.700,00, ha escluso, con accertamento di fatto, che la contribuente, sulla quale gravava l’onere di dimostrare che i proventi utilizzati per far fronte a detta spesa derivavano da redditi esenti o da donazioni o da altre entrate non reddituali, avesse fornito idonea prova documentale che l’acquisto fosse stato effettuato con elargizioni provenienti dal coniuge.

L’apprezzamento svolto dai giudici di merito non può essere rimesso in discussione in sede di legittimità.

Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, nel quale le censure alla pronuncia di merito devono trovare collocazione entro un elenco tassativo di motivi, in quanto la Corte di cassazione non è mai giudice del fatto in senso sostanziale ed esercita un controllo sulla legalità e logicità della decisione che non consente di riesaminare e di valutare autonomamente il merito della causa. Ne consegue che la parte non può limitarsi a censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendovi la propria diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione degli accertamenti di fatto compiuti (Cass., sez. 1, 6/03/2019, n. 6519; Cass., sez. 5, 28/11/2014, n. 25332), senza considerare le ragioni offerte dal giudice d’appello, poichè in tal modo la censura si risolve, in sostanza, nella proposizione di un “non motivo”, come tale inammissibile ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4 (Cass., sez. 1, 24/09/2018, n. 22478; Cass., sez. 3, 31/08/2015, n. 17330).

13. In conclusione, il ricorso va rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 maggio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 26-02-2021) 26-05-2021, n. 14579

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – rel. Consigliere –

Dott. MANCINI Laura – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 5408/2014 R.G. proposto da:

RI.BO. GOMMA DI /RIVELINI/ A. & C. SAS, (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avv. ANDREA BODRITO, dall’Avv. Prof. GIANNI MARONGIU dell’Avv. Prof. FRANCESCO D’AYALA VALVA, elettivamente domiciliato presso quest’ultimo in Roma, al Viale Parioli, 43;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SUD SPA, (C.F. (OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avv. DONATO PASCUCCI, elettivamente domiciliato presso lo studio dell’Avv. ALESSANDRA ZAMBRINO, in Roma, Via delle Tre Madonne, 18;

– controricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, elettivamente domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, 12;

– resistente –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania, n. 206/29/13, depositata il 16 luglio 2013.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 febbraio 2021 dal Consigliere Relatore Filippo D’Aquino.

Svolgimento del processo
CHE:

La società ricorrente RI.BO GOMMA DI /RIVELLINI/ A. & C. SAS ha impugnato una cartella di pagamento, relativa al periodo di imposta dell’esercizio 2005, la cui iscrizione a ruolo era avvenuta a titolo provvisorio a termini del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15, nella formulazione pro tempore, stante la pendenza del giudizio di primo grado avverso l’atto impositivo con cui si accertava l’indebito utilizzo di crediti di imposta.

La CTP di Caserta ha dichiarato inammissibile il ricorso in quanto tardivo e la CTR della Campania, con sentenza in data 16 luglio 2013, ha rigettato l’appello della società contribuente. Ha ritenuto corretta la notificazione della cartella di pagamento presso la sede legale della contribuente sita in (OMISSIS) (CE), Via (OMISSIS), costituente anche “domicilio fiscale”, effettuata per irreperibilità del destinatario alla data del 7 aprile 2009, il cui termine doveva ritenersi decorso alla data di proposizione del ricorso (19 ottobre 2009). Ha, inoltre, ritenuto il giudice di appello che a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), è sufficiente l’affissione dell’avviso all’albo comunale, senza invio della raccomandata, con conseguente irrilevanza della notificazione eseguita a termini dell’art. 145 c.p.c.. Ha, poi, ritenuto irrilevante la mancanza di invito al contribuente a fornire chiarimenti, trattandosi di procedura automatizzata. Ha, infine, ritenuto legittima l’iscrizione a ruolo dell’intera somma anzichè per il solo 50% a termini del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, essendo – a seguito del rigetto in primo grado del ricorso avverso l’atto impositivo – il potere di riscossione fondato sull’atto di recupero ai sensi della L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1, comma 422.

Propone ricorso per cassazione parte contribuente affidato a quattro motivi, cui resiste con controricorso il concessionario della riscossione; l’ente impositore si è costituito ai soli fini della partecipazione all’eventuale udienza di discussione.

Motivi della decisione
CHE:

1.1 – Con il primo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, (senza ulteriore specificazione in relazione al suddetto comma), violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c), e dell’art. 145 c.p.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto di far decorrere il termine per l’impugnazione della cartella dalla notificazione alla società presso la sede legale e non dalla notificazione al legale rappresentante. Deduce la società ricorrente che la notificazione si sarebbe dovuta eseguire presso la sede effettiva, quale luogo dove si svolge l’attività di direzione, risultando la stessa in luogo diverso da quello ritenuto dalla CTR. Deduce, sotto un secondo profilo, che il procedimento notificatorio di cui al D.P.R. cit., art. 60, comma 1, lett. e), non potrebbe ritenersi concluso per effetto della mera affissione, ma richiederebbe necessariamente la ricezione della raccomandata informativa, in assenza della quale il procedimento non potrebbe ritenersi perfezionato.

1.2 – Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto storico decisivo, per non avere esaminato la sentenza impugnata la legittimità della notificazione avvenuta al legale rappresentante presso la propria residenza anagrafica, deducendo ulteriormente il ricorrente violazione dell’art. 145 c.p.c..

1.3 – Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, per avere il giudice di appello escluso la rilevanza del mancato invio della comunicazione di irregolarità, osservando che tale atto prodromico può essere omesso solo in caso di iscrizioni a ruolo derivanti da liquidazione di imposte, laddove nel caso di specie sussisterebbe il requisito dell’incertezza sull’oggetto dell’accertamento.

1.4 – Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto legittima l’iscrizione dell’intera somma in quanto derivante dall’indebito utilizzo di un credito di imposta. Deduce parte ricorrente come l’iscrizione sia avvenuta a titolo provvisorio per l’intera somma, laddove la norma in epigrafe, secondo la formulazione pro tempore, così come anche l’atto di recupero, non legittimerebbero l’iscrizione integrale delle somme.

2 – Deve preliminarmente rilevarsi che nel caso di specie l’Agenzia delle Entrate Riscossione, quale successore ope legis di Equitalia, D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, ex art. 1, conv.. in L. 1 dicembre 2016, n. 225, non si è costituita in giudizio, per cui il processo prosegue tra le parti originarie ai sensi dell’art. 111 c.p.c. (Cass., Sez. V, 28 dicembre 2018, n. 33639).

3.1 – Quanto al primo profilo, si evidenzia come la questione del diverso luogo (sede effettiva o principale dell’impresa) in cui si sarebbe dovuta eseguire la notificazione non risulta trattata nella sentenza impugnata; nè il ricorrente offre elementi per ritenere che la questione sia stata affrontata nel ricorso introduttivo, così non assolvendo all’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito e di indicare in quale atto del giudizio di merito lo abbia fatto (Cass., Sez. VI, 13 dicembre 2019, n. 32804), nè avendo – infine – illustrato gli elementi in fatto da cui si trarrebbe la prova di una diversa sede effettiva (o principale) dell’impresa. 3.2 – Il primo motivo è, in ogni caso, infondato, posto che non è stato censurato l’accertamento in fatto, compiuto dal giudice del merito, secondo cui il luogo che coincide con la sede legale costituisce domicilio fiscale del contribuente, luogo che prevale su diverse indicazioni di domicilio per effetto del principio di affidamento dell’Amministrazione finanziaria, la quale non è tenuta a controllare l’esattezza del domicilio eletto (Cass., Sez. VI, 25 maggio 2020, n. 9567; Cass., Sez. V, 21 febbraio 2020, n. 4675; Cass., Sez. VI, 10 ottobre 2019, n. 25450; Cass., Sez. VI 26 giugno 2019, n. 17198; Cass., Sez. V, 14 dicembre 2016, n. 25680; Cass., Sez. VI, 21 luglio 2015, n. 15258). L’orientamento è conforme al principio secondo cui è onere del contribuente indicare all’ufficio tributario il proprio domicilio fiscale e tenere detto ufficio costantemente informato delle eventuali variazioni – come in caso di fallimento prevede la L. Fall., art. 49, nei confronti dell’organo concorsuale – non potendosi addossare all’Amministrazione l’onere di ricercare il contribuente fuori dall’ultimo domicilio noto e legittimandola, pertanto, in caso di inadempimento del contribuente, a eseguire la notificazione nella forma semplificata di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, lett. e), (Cass., Sez. V, 11 maggio 2018, n. 11504).

3.3 – Il motivo è, ulteriormente, infondato, quanto alla dedotta necessità dell’invio della raccomandata informativa in caso di notificazione effettuata a termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), essendo costante la giurisprudenza di questa Corte nell’affermare la ritualità della notificazione, ove il messo notificatore abbia eseguito le opportune ricerche nell’ambito del Comune di domicilio fiscale (circostanza non oggetto di specifica censura) e non abbia rinvenuto l’ufficio o l’azienda del contribuente, ancorchè vi sia stato il mero deposito dell’atto nella casa comunale e l’affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune (Cass., Sez. V, 12 febbraio 2020, n. 3378; Cass., Sez. V, 28 febbraio 2019, n. 5902; Cass., Sez. V, 27 novembre 2006, n. 25095; Cass., Sez. V, 23 giugno 2003, n. 9922). Orientamento conforme al principio secondo cui è onere del contribuente comunicare all’Amministrazione finanziaria gli spostamenti del domicilio fiscale dichiarato.

4 – Il rigetto del primo motivo comporta l’inammissibilità degli ulteriori motivi, aventi ad oggetto le autonome ragioni della decisione attinenti alle ulteriori questioni decise, risultando stabilizzata la decisione per effetto del passaggio in cosa giudicata della prima ratio decidendi.

Le spese sono regolate dalla soccombenza e liquidate come da dispositivo in relazione alla parte controricorrente – non anche per l’ente impositore, che non ha svolto difese scritte – oltre al raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.
La Corte, rigetta il primo motivo, dichiara inammissibili gli ulteriori motivi; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, che liquida in complessivi Euro 6.500,00, oltre alle spese forfetarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 e agli accessori di legge; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 26 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 26 maggio 2021


Cass. civ., Sez. lavoro, Sent., (data ud. 10/02/2021) 24/05/2021, n. 14199

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRIA Lucia – Presidente –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

Dott. BELLE’ Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6037/2019 proposto da:

COMUNE DI PAGANI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PASUBIO n. 4, presso lo studio dell’avvocato LUCILLA FORTE, rappresentato e difeso dall’avvocato SILVIA MASTRANGELO;

– ricorrente principale – controricorrente incidentale –

contro

N.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA NOMENTANA n. 222, presso lo studio dell’avvocato VALERIO SANTURRO, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIO ALFANO;

– controricorrente – ricorrente incidentale –

contro

avverso la sentenza n. 707/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO R.G.N. 496/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10/02/2021 dal Consigliere Dott. ANNALISA DI PAOLANTONIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GIACALONE Giovanni, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi;

udito l’Avvocato MARIO ALFANO.

Svolgimento del processo
1. La Corte d’Appello di Salerno ha respinto il reclamo proposto, L. n. 92 del 2012, ex art. 1, comma 58, dal Comune di Pagani avverso la sentenza del Tribunale di Nocera Inferiore che, all’esito del giudizio di opposizione, aveva accolto il ricorso di N.M. e, revocata l’ordinanza emessa in fase sommaria, aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato dal Comune il 12 agosto 2016 e condannato l’ente locale a reintegrare il lavoratore nel posto in precedenza occupato ed a corrispondere allo stesso l’indennità risarcitoria quantificata in Euro 15.947,10.

2. La Corte territoriale ha premesso in punto di fatto che al N. era stato contestato l’illecito disciplinare tipizzato dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a), nonchè dalla disposizione di eguale contenuto dettata dall’art. 59, comma 9, n. 2 del CCNL per il personale del comparto funzioni locali, per avere “in modo reiterato attestato falsamente la propria presenza in servizio nei giorni e negli orari in cui si tratteneva all’esterno del luogo di lavoro pur risultando regolarmente in servizio”. Ha aggiunto che in quelle occasioni il N. era stato visto all’esterno del cimitero comunale, al quale era assegnato, con indosso dei cartelli di cartone, che recavano impresse scritte di protesta per le condizioni di lavoro, a detta del dipendente ingiuste e lesive della salute.

3. In diritto ha osservato che l’illecito disciplinare contestato richiede una condotta fraudolenta oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro circa la presenza in servizio e, pertanto, nella fattispecie lo stesso non risultava integrato, perchè al contrario il N. aveva reso volutamente visibile la propria condotta di protesta, cercando di attirare l’attenzione dei passanti e della stessa amministrazione, la quale ne era la destinataria.

Ha aggiunto che anche in presenza di tutti gli elementi costitutivi dell’illecito tipizzato, in ragione del divieto di automatismi espulsivi, il giudice è tenuto ad effettuare il giudizio di proporzionalità ed a tener conto della portata oggettiva e soggettiva dei fatti contestati. Nel caso di specie la condotta non poteva giustificare la sanzione del licenziamento perchè: il lavoratore non aveva inteso ingannare l’ente sulla sua presenza in servizio; le proteste avevano avuto una durata limitata ogni volta a pochi minuti; non era emerso che il dipendente si fosse sottratto a specifici ordini o avesse omesso di attendere alle incombenze demandategli; non si trattava di una reiterazione degli episodi contestati come recidiva, bensì di un comportamento critico assunto nei confronti dell’amministrazione da dipendente pacificamente attivo anche sul versante sindacale.

4. La Corte salernitana ha respinto anche il reclamo proposto in via incidentale dal N. per censurare la statuizione di compensazione delle spese del giudizio di primo grado e, richiamate le sentenze della Corte Costituzionale nn. 77 e 190 del 2018, ha ritenuto che la pronuncia fosse condivisibile alla luce “della peculiarità e della controvertibilità della questione trattata, interessata anche da pronunce chiarificatrici della Suprema Corte intervenute in corso di causa”. Per le medesime ragioni, oltre che per la soccombenza reciproca, ha compensato anche le spese del giudizio di reclamo.

5. Per la cassazione della sentenza il Comune di Pagani ha proposto ricorso sulla base di due motivi, ai quali ha replicato N.M., che ha notificato controricorso, con ricorso incidentale affidato ad un’unica censura.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente principale denuncia, ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 “omesso esame e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia; violazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, comma 1, lett. a); violazione dei principi di cui al codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni approvato con D.P.R. n. 60 del 2013” e sostiene, in sintesi, che integra giusta causa di licenziamento ogni ipotesi di falsa attestazione della presenza in servizio se compiuta con modalità fraudolente, a prescindere dalla durata temporale dell’assenza. Rileva che il N. aveva utilizzato il badge allontanandosi dal luogo di lavoro e, pertanto, non poteva la Corte territoriale ritenere illegittima la sanzione, tanto più che la condotta era stata pacificamente provata attraverso la produzione documentale. Richiama gli obblighi di correttezza e buona fede ed aggiunge che la Corte territoriale ha anche errato nell’escludere la contestata la recidiva. Infine addebita al giudice del reclamo di avere posto a fondamento della decisione argomenti non fondati sulle risultanze di causa.

2. La seconda censura denuncia “violazione dell’art. 112 c.p.c., e omessa motivazione su un punto decisivo della controversia ” in relazione al rigetto della richiesta di sospensione dell’esecutività della sentenza del Tribunale, inserito solo nel dispositivo e non motivato.

3. Il ricorso incidentale, affidato ad un unico motivo, addebita alla Corte territoriale di avere violato gli artt. 91 e 92 c.p.c., nel compensare erroneamente le spese di entrambi gradi del giudizio di merito in difetto delle “gravi ed eccezionali ragioni” richieste dalla Corte costituzionale con la sentenza additiva n. 77/2018.

4. Il ricorso principale è inammissibile in tutte le sue articolazioni.

Da tempo questa Corte, nell’interpretare il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), ha affermato che la condotta di rilievo disciplinare se, da un lato, non richiede un’attività materiale di alterazione o manomissione del sistema di rilevamento delle presenze in servizio, dall’altro deve essere oggettivamente idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, sicchè anche l’allontanamento dall’ufficio, non accompagnato dalla necessaria timbratura, integra una modalità fraudolenta, diretta a rappresentare una situazione apparente diversa da quella reale (Cass. n. 17367/2016 e Cass. n. 25750/2016).

La disposizione normativa è stata, inoltre, interpretata alla luce dello sfavore manifestato dalla giurisprudenza costituzionale rispetto agli automatismi espulsivi e, pertanto, si è valorizzato il richiamo testuale all’art. 2106 c.c., per limitare l’imperatività assoluta espressa dalla norma al rapporto fra legge e contratto collettivo e per affermare che l’esercizio del potere datoriale resta comunque sindacabile da parte del giudice quanto alla necessaria proporzionalità della sanzione espulsiva (si rimanda alla giurisprudenza richiamata da Corte Cost. n. 123/2020 che, valorizzando questa interpretazione costituzionalmente orientata, ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 55 quater, prospettata dal Tribunale di Vibo Valentia).

Ai richiamati principi di diritto, condivisi dal Collegio e qui ribaditi, si è correttamente attenuta la Corte territoriale che, come evidenziato nello storico di lite, ha fondato la decisione su una duplice ratio decidendi perchè ha innanzitutto escluso che la condotta fosse sussumibile nell’illecito tipizzato dal legislatore, in quanto non idonea ad indurre in errore il datore di lavoro, destinatario principale della protesta platealmente inscenata. Ha, poi, ritenuto i profili oggettivi (non si era verificato un reale allontanamento e le manifestazioni di protesta avevano avuto durata ogni volta di pochi minuti) e soggettivi della condotta, tali da non giustificare la sanzione espulsiva irrogata.

4.1. Il primo motivo del ricorso principale, che insiste sulla tassatività delle ipotesi di licenziamento previste dal richiamato art. 55 quater, non si confronta con l’orientamento consolidato della giurisprudenza di questa Corte, non coglie pienamente il decisum della sentenza impugnata ed inoltre, per dimostrare l’erroneità della pronuncia, fa leva su argomenti di fatto, non di diritto, che finiscono per sollecitare un giudizio di merito, non consentito al giudice di legittimità.

E’ ius receptum il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie normativa astratta e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di una errata ricostruzione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione, nei limiti fissati dalla normativa processuale succedutasi nel tempo. Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è, dunque, segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. fra le più recenti Cass. n. 26033/2020; Cass. n. 3340/2019; Cass. n. 640/2019; Cass. n. 24155/2017).

In tema di licenziamento, poi, questa Corte, dopo avere affermato che la nozione legale di giusta causa richiede di essere specificata in sede interpretativa, ha precisato che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito (cfr. fra le tante Cass. n. 7426/2018; Cass. n. 10017/2016; Cass. n. 6498/2012; Cass. n. 5095/2011).

Quest’ultima evenienza ricorre nella fattispecie perchè, come già detto, la Corte territoriale si è attenuta ai principi di diritto enunciati da questa Corte in tema di interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), di giusta causa e di proporzionalità della sanzione e gli argomenti sviluppati nel ricorso principale finiscono tutti per prospettare una diversa lettura delle risultanze di causa.

Le censure mosse alla ricostruzione dei fatti esulano dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. S.U. n. 34476/2019 che rinvia a Cass. S.U. n. 8053/2014, Cass. S.U. n. 9558/2018, Cass. S.U. n. 33679/2018) che assegna rilievo solo all’omesso esame di un fatto decisivo, al quale non può essere ricondotta la mancata o l’errata valutazione di una risultanza istruttoria quando il fatto storico sia stato comunque apprezzato dal giudice del merito.

5. Parimenti inammissibile è il secondo motivo del ricorso principale perchè il vizio di omessa pronuncia è ravvisabile solo qualora il giudice ometta di statuire sulla domanda o su eccezioni di merito, mentre non può essere denunciato nel caso in cui la questione non esaminata rilevi unicamente sul piano processuale (Cass. n. 10422/2019; Cass. n. 25154/2018; Cass. n. 6174/2018).

Va aggiunto che il potere di sospensione dell’efficacia della sentenza reclamata, da esercitare in presenza di “gravi motivi”, è finalizzato ad impedire che la decisione gravata, che appare ingiusta ad una delibazione sommaria, produca effetti nelle more del giudizio di appello, esponendo ad un pregiudizio patrimoniale la parte soccombente (Cass. n. 4060/20005). Il provvedimento di sospensione è per definizione temporaneo ed è destinato ad esaurirsi con la sentenza definitiva del giudizio d’impugnazione sicchè il giudice d’appello, nei casi in cui all’udienza di discussione definisca la causa, non è tenuto a provvedere sulla richiesta di sospensione con un’autonoma statuizione della sentenza che definisce il giudizio di impugnazione, perchè quest’ultima, per il suo carattere sostitutivo, assorbe interamente l’efficacia di quella di primo grado (Cass. n. 19708/2015).

6. Merita, invece, accoglimento il ricorso incidentale.

Occorre premettere che la Corte Costituzionale con sentenza n. 77 del 19 aprile 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 92 c.p.c., comma 2, come modificato dal D.L. n. 132 del 2014, art. 13, “nella parte in cui non prevede che il giudice possa compensare le spese tra le parti, parzialmente o per intero, anche qualora sussistano altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni”. Nella motivazione della pronuncia la Corte ha precisato che le ipotesi illegittimamente non considerate dal legislatore devono rivestire il carattere di gravità ed eccezionalità al pari di quelle tipizzate, ossia l’assoluta novità della questione trattata ed il mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, che “hanno carattere paradigmatico e svolgono una funzione parametrica ed esplicativa della clausola generale” (punto 16 della pronuncia).

Questa Corte ha già affermato che, poichè gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità di una norma retroagiscono alla data di introduzione nell’ordinamento del testo di legge dichiarato costituzionalmente illegittimo, la valutazione sulla fondatezza o meno del ricorso, con il quale è denunciata la violazione dell’art. 92 c.p.c., deve tener conto della “situazione normativa determinata dalla pronuncia di incostituzionalità, essendo irrilevante che la decisione impugnata o la stessa proposizione del ricorso siano anteriori alla pronuncia del giudice delle leggi” (Cass. n. 4360/2019).

I medesimi principi valgono per il giudizio di appello, qualora nello stesso venga impugnato il regolamento delle spese disposto dalla sentenza gravata, e, quindi, nella fattispecie la Corte territoriale, nel decidere il reclamo incidentale, era tenuta ad applicare l’art. 92 c.p.c., nel testo risultante dalla pronuncia additiva resa dalla Corte Costituzionale, non rilevando la data di pubblicazione della sentenza del Tribunale (4 aprile 2018).

6.1. Ciò premesso, deve essere ribadito l’orientamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui le gravi ed eccezionali ragioni, al pari di ogni altra clausola generale, devono essere specificate dal giudice di merito in via interpretativa ed il giudizio, in quanto fondato su norme giuridiche, è censurabile in sede di legittimità (Cass. n. 9977/2019; Cass. n. 23059/2018) e la Corte di Cassazione ha il potere di rilevare l’erroneità o l’illogicità del parametro utilizzato.

Nel caso di specie la sentenza additiva della Corte Costituzionale ha sottolineato la funzione parametrica ed il carattere paradigmatico delle fattispecie tipizzate, esplicative della causa generale, alle quali, all’evidenza, non possono essere equiparate “la peculiarità e la controvertibilità della questione”. Va aggiunto che “le pronunce chiarificatrici” rese da questa Corte sull’interpretazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 55 quater, lett. a), hanno richiamato principi già affermati, quanto al divieto di automatismi espulsivi, da Cass. n. 1351 del 26 gennaio 2016, la cui motivazione è riferibile a tutte le ipotesi previste dalla norma di legge, sicchè già al momento dell’instaurazione del giudizio di primo grado la questione era priva del carattere di assoluta novità che può giustificare la pronuncia di compensazione.

6.2. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata limitatamente al regolamento delle spese e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con la condanna del Comune di Pagani al pagamento, in favore di N.M., delle spese processuali di tutti i gradi e le fasi del giudizio, liquidate come da dispositivo, che vanno distratte in favore dell’Avv. Mario Alfano, dichiaratosi antistatario.

Al riguardo ritiene il Collegio che l’art. 384 c.p.c., debba essere interpretato alla luce del principio di economia processuale e di ragionevole durata del processo, di cui all’art. 111 Cost., che impone di non trasferire una causa dall’uno all’altro giudice, quando il giudice rinviante potrebbe da sè solo svolgere le attività richieste al giudice cui la causa è rinviata.

Va anche osservato che in tema di spese processuali l’art. 385 c.p.c., comma 2, accorda ampi poteri alla Corte e le consente di accertare e liquidare non solo le spese del giudizio di legittimità, ma anche quelle dei gradi di merito, quando la sentenza impugnata sia cassata senza rinvio, sicchè sarebbe del tutto illogico imporre il giudizio di rinvio, al solo fine di provvedere ad una liquidazione che, in quanto ancorata a parametri di legge, ben può essere direttamente compiuta dal giudice di legittimità (Cass. n. 1761/2014 e Cass. n. 211/2016).

7. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, deve darsi atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dal ricorrente principale.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso incidentale e dichiara inammissibile il ricorso principale. Cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso ed al motivo accolto e decidendo nel merito condanna il Comune di Pagani a rifondere a N.M. le spese di entrambi i gradi del giudizio di merito, con distrazione in favore del procuratore antistatario Avv. Mario Alfano, liquidate quanto al primo grado (fase sommaria e giudizio di opposizione) in complessivi Euro 200,00 per esborsi ed Euro 7.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge; quanto al reclamo in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 4.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Condanna il Comune di Pagani al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge, da distrarre in favore del procuratore antistatario Avv. Mario Alfano.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del cit. art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 10 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 21-01-2021) 04-05-2021, n. 11605

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

Dott. MARTORELLI Raffaele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2340-2017 proposto da:

D.V.M.R., elettivamente domiciliata in ROMA, Piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di Cassazione rappresentata e difesa dall’avvocato ALFREDO LUPO;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA 91, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI BEATRICE, rappresentata e difesa dall’avvocato FRANCESCO AMODIO;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5474/2016 della COMM. TRIB. REG. CAMPANIA, depositata il 13/06/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 21/01/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO.

Svolgimento del processo
1. D.V.M.R. impugnava la cartella di pagamento notificata dalla società Equitalia Servizi di riscossione s.p.a. per somme dovute a titolo di registro relativo al provvedimento su lodo arbitrale emesso dal tribunale di Napoli nell’anno 2001, eccependo la prescrizione della pretesa tributaria. La CTP di Napoli respingeva il ricorso.

Proposto appello dalla contribuente, la CTR della Campania lo respingeva sul rilievo che intervenuta che il termine prescrizionale decennale era stato interrotto dalla notifica dell’avviso di liquidazione del 15 ottobre 2003, nel termine triennale prescritto dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 76, con la conseguente reiezione dell’eccezione di decadenza pure sollevata dalla contribuente. In particolare, la CTR affermava che: – l’avviso di liquidazione non era stato impugnato rendendo così definitiva la pretesa tributaria; – che dalla data del 6 dicembre 2003, ovvero decorso il termine di sessanta giorni dalla notifica del predetto atto, iniziava a decorrere la prescrizione decennale citato D.P.R., ex art. 78; – che l’ufficio aveva effettuato l’iscrizione a ruolo in data 17 ottobre 2013 che aveva nuovamente interrotto il termine prescrizionale; – che divenuto definitivo l’avviso prodromico, la successiva cartella non costituisce nuovo atto impositivo per cui è sindacabile solo per vizi propri che, nella specie, non erano stati eccepiti, avendo la ricorrente opposto l’atto solo censurando l’esercizio della potestà accertativa.

D.V.M.R. chiede sulla base di tre motivi, illustrati nelle memorie difensive, la cassazione della sentenza n. 5474/2016/ depositata il 13 giugno 2016.

La società concessionaria e l’Agenzia delle Entrate resistono con controricorso.

Motivi della decisione
2. Con il primo motivo, la contribuente denuncia violazione e falsa applicazione del T.U. Registro D.P.R. n. 131 del 1986, artt. 76 e 78, nonchè dell’art. 2953 c.c., per avere la CTR ritenuto applicabile alla fattispecie il termine decennale di prescrizione di cui al citato art. 78, in rubrica, ancorchè questa Corte a sezioni unite – con la sentenza n. 23397/2016 – abbia statuito che la mancata contestazione del titolo determina la decadenza dalla possibilità di proporre l’impugnazione, producendo l’effetto della irretrattabilità del credito senza determinare anche l’effetto della c. conversione del termine di prescrizione breve in quello ordinario.

Assume al riguardo che il disposto di cui al citato art. 78, stabilisce che il termine prescrizionale decennale riguarda solo le imposte definitivamente accertate, il che implica che il termine lungo si applica solo per effetto del conseguente accertamento in via definitiva dell’imposta, attraverso l’adozione di un provvedimento giurisdizionale che ne abbia accertato in via definitiva la legittimità dell’atto impositivo.

2. Con la seconda e terza censura, si deduce la violazione dell’art. 2943 c.c., in relazione al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 79, laddove la CTR della Campania ha ritenuto che l’iscrizione a ruolo della cartella produca l’effetto di interrompere i termini di prescrizione, individuando il dies a quo del primo termine prescrizionale in quello di scadenza del sessantesimo giorno per l’impugnazione dell’avviso di liquidazione e non in quello di notifica del primo atto ((OMISSIS)).

Sostenendo altresì che la CTR avrebbe dovuto considerare il giorno della notifica della cartella ((OMISSIS)) e non quello della sua iscrizione a ruolo, ai fini del calcolo del termine decennale, decorrente, ad avviso della contribuente, dalla data della notifica dell’avviso di liquidazione ((OMISSIS)) con la conseguenza che nemmeno l’iscrizione a ruolo della cartella avrebbe interrotto il termine prescrizionale ormai compiuto.

5. La prima censura è destituita di fondamento.

Come ribadito dalle S.U. n. 23397/2016 richiamate dalla medesima ricorrente, “la scadenza del termine – pacificamente perentorio – per proporre opposizione a cartella di pagamento di cui al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 24, comma 5, pur determinando la decadenza dalla possibilità di proporre impugnazione, produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito contributivo senza determinare anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve (nella specie, quinquennale secondo la L. n. 335 del 1995, art. 3, commi 9 e 10) in quello ordinario (decennale), ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale ultima disposizione, infatti, si applica soltanto nelle ipotesi in cui intervenga un titolo giudiziale divenuto definitivo, mentre la suddetta cartella, avendo natura di atto amministrativo, è priva dell’attitudine ad acquistare efficacia di giudicato”; è di applicazione generale il principio secondo il quale la scadenza del termine perentorio stabilito per opporsi o impugnare un atto di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva produce soltanto l’effetto sostanziale della irretrattabilità del credito ma non determina anche l’effetto della c.d. “conversione” del termine di prescrizione breve eventualmente previsto in quello ordinario decennale, ai sensi dell’art. 2953 c.c.. Tale principio, pertanto, si applica con riguardo a tutti gli atti – comunque denominati – di riscossione mediante ruolo o comunque di riscossione coattiva di crediti degli enti previdenziali ovvero di crediti relativi ad entrate dello Stato, tributarie ed extratributarie, nonchè di crediti delle Regioni, delle Province, dei Comuni e degli altri Enti locali nonchè delle sanzioni amministrative per la violazione di norme tributarie o amministrative e così via. Con la conseguenza che, qualora per i relativi crediti sia prevista una prescrizione (sostanziale) più breve di quella ordinaria, la sola scadenza del termine concesso al debitore per proporre l’opposizione, non consente di fare applicazione dell’art. 2953 c.c., tranne che in presenza di un titolo giudiziale divenuto definitivo”.

Nel caso in esame, il termine prescrizionale previsto per l’imposta di registro è quello decennale di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78.

In tema IRPEF, IVA, IRAP ed imposta di registro, il credito erariale per la loro riscossione si prescrive nell’ordinario termine decennale assumendo rilievo, quanto all’imposta di registro, l’espresso disposto di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, e, quanto alle altre imposte dirette, l’assenza di un’espressa previsione, con conseguente applicabilità dell’art. 2946 c.c., non potendosi applicarsi il termine quinquennale previsto dall’art. 2948 c.c., comma 1, n. 4 “per tutto ciò che deve pagarsi periodicamente ad anno o in termini più brevi”, in quanto l’obbligazione tributaria, pur consistendo in una prestazione a cadenza annuale, ha carattere autonomo ed unitario ed il pagamento non è mai legato ai precedenti bensì risente di nuove ed autonome valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti impositivi (Cass. n. 12740/2020; Cass. n. 33266 del 2019; Cass. n. 32308 del 2019).

In particolare, poi, questa Corte ha ribadito che in tema di imposta di registro, una volta divenuto definitivo l’avviso di rettifica e liquidazione per mancata impugnazione, ai fini della riscossione del credito opera unicamente il termine decennale di prescrizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, non trovando applicazione nè il termine triennale di decadenza previsto dal detto decreto, art. 76, concernente l’esercizio del potere impositivo, nè il termine di decadenza contemplato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, in quanto l’imposta di registro non è ricompresa tra i tributi ai quali fa riferimento il D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 23 (che ha esteso le disposizioni di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 15, comma 1, quanto all’iscrizione a ruolo a titolo provvisorio, e art. 25, comma 1, quanto ai termini di decadenza, solo all’IVA; v. Cass. n. 27698/2020; Cass., 11 maggio 2018, n. 11555; Cass., 30 giugno 2016, n. 13418; Cass., 24 settembre 2014, n. 20153; Cass., 9 luglio 2014, n. 15619; Cass., 6 giugno 2014, n. 12748; Cass., 2 dicembre 2013, n. 27028) Accertata la definitività dell’avviso di liquidazione, alcuna rilevanza può assumere l’eventuale notifica del primo atto tributario oltre il termine triennale prescritto dal citato art. 76, doglianza che avrebbe dovuto essere proposta con l’impugnazione dell’atto medesimo.

6. Meritano accoglimento le ultime due censure.

Secondo l’orientamento consolidato di questa Corte “In tema di imposta di registro, il decorso del termine prescrizionale decennale per la riscossione dell’imposta definitivamente accertata, previsto dal D.P.R. n. 131 del 1986, art. 78, non può ritenersi interrotto dalla sola formazione del ruolo da parte dell’Amministrazione finanziaria, atteso che, ai sensi dell’art. 2943 c.c., u.c., la prescrizione dei diritti è interrotta solo da un atto che valga a costituire in mora il debitore e, quindi, avente carattere recettizio, mentre l’iscrizione a ruolo di un tributo resta un atto interno dell’amministrazione(Cass. n. 14301/2009; sulla natura della iscrizione a ruolo v. Cass. n. 315/2014; Cass. n. 23261/2020).

Anche Cass. sez. V, n. 17248 del 2017, non ha mancato di specificare che, in materia di riscossione delle imposte, la prova della notificazione della cartella esattoriale è atto idoneo ad interrompere la prescrizione del credito tributario.

L’art. 2943 c.c., comma 2, prevede che la prescrizione è interrotta da ogni atto che valga a costituire in mora il debitore: per effetto dell’interruzione, decorre un ulteriore periodo di prescrizione; dunque, la notifica della cartella di pagamento o dell’accertamento esecutivo o di altri atti emessi sia dall’ente creditore che dall’Agente della riscossione, ove si intima il pagamento degli importi, interrompono la prescrizione.

Pertanto, nella fattispecie, la prescrizione – già interrotta dalla notifica dell’avviso di liquidazione – decorre dalla data in cui l’avviso è stato notificato. Il nuovo atto interruttivo da considerare non è certamente l’iscrizione a ruolo, bensì la consegna della cartella all’ufficiale postale per la notifica, data che nè dal ricorso nè dalla sentenza impugnata è dato evincere All’accoglimento del secondo e del terzo motivo segue la cassazione della sentenza impugnata con rinvio degli atti alla CTR della Campania, in diversa composizione, per il riesame della controversia (in particolare, per accertare l’eventuale estinzione del credito alla luce dell’eccepita prescrizione, considerando il dies a quo ed il dies a quem indicati in sentenza).

P.Q.M.
Accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, respinto il primo; cassa la sentenza impugnata e rimette gli atti alla CTR della Campania, in diversa composizione, per il riesame della controversia nonchè per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della quinta sezione civile Corte di Cassazione in ROMA, tenuta da remoto, il 21 gennaio 2021.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 18-11-2020) 23-04-2021, n. 10860

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2975-2013 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente-

contro

A.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TACITO 41, presso lo studio dell’avvocato PEZZALI PAOLA, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente-

avverso la sentenza n. 145/2012 della COMM. TRIB. REG. TOSCANA SEZ. DIST. di LIVORNO, depositata il 05/06/2012;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/11/2020 dal Consigliere Dott. VENEGONI ANDREA;

lette le conclusioni scritte del pubblico ministero in persona del sostituto procuratore generale Dott. SALZANO FRANCESCO che ha chiesto in rigetto del ricorso, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
Che:

Il contribuente A.G. impugnava davanti alla CTP di Livorno l’avviso di accertamento relativo ad irpef, irap ed iva per l’anno 2004 deducendo che esso conteneva un vizio che ne minava la motivazione, in quanto nell’avviso relativo a tale anno vi erano alcune pagine che si riferivano, in realtà, all’anno 2002 e viceversa.

La CTP accoglieva il ricorso e la CTR rigettava l’appello dell’ufficio.

Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’ufficio sulla base di due motivi.

Si costituisce il contribuente con controricorso.

In vista dell’udienza odierna, il PG ha depositato conclusioni scritte.

Motivi della decisione
Che:

Con il primo motivo l’ufficio deduce insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La CTR non ha motivato sufficientemente sul motivo per cui ha escluso che l’atto avesse raggiunto il suo scopo, e quindi sulla sanatoria del vizio materiale dell’atto.

Il contribuente ha eccepito l’inammissibilità del motivo sotto tre profili.

Con il secondo motivo deduce in subordine violazione dell’art. 137 c.p.c., comma 2 e art. 148 c.p.c., nonché del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, e conseguente violazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 42 e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

La CTR ha errato nel fare riferimento alla copia notificata al contribuente anziché all’originale esibito dall’ufficio in giudizio.

Anche in relazione a tale motivo, il contribuente in controricorso eccepisce l’inammissibilità.

Il ricorso, che può essere esaminato unitariamente attesa la stretta connessione tra i due motivi, è infondato, e ciò determina che le eccezioni di inammissibilità possano considerarsi superate.

Le questioni dedotte dall’ufficio in appello, infatti, devono essere considerate nel complesso della motivazione della sentenza impugnata.

Letta unitariamente, la motivazione significa in maniera chiara che il vizio da cui era pacificamente affetto l’avviso di accertamento in questione era talmente radicale da privare il contribuente della possibilità di predisporre un’adeguata difesa, e ciò ha integrato una situazione non sanabile dall’affermato raggiungimento dello scopo.

Ora, senza poter entrare in questa sede nei profili di merito e fattuali della vicenda, se il dedotto vizio della sentenza consiste – come in effetti consiste – nella motivazione su un aspetto molto specifico dell’argomentare, e cioè la negazione del fatto che l’atto abbia comunque raggiunto il suo scopo, non si può ritenere che tale motivazione sia mancata o sia stata insufficiente, pur tenendo conto del fatto che il vizio è valutabile nella formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5 anteriore alla riforma del 2012 (la sentenza è stata depositata nel giugno 2012).

La CTR ha, infatti, ritenuto che il vizio, che non è contestato, per le sue caratteristiche fattuali fosse tale da escludere la possibile sanatoria per raggiungimento dello scopo. La motivazione sulla mancata sanatoria va, quindi, ricollegata a quella parte che descrive le caratteristiche del vizio stesso, ed in tal senso non può ritenersi insufficiente.

Né può addossarsi al contribuente l’onere di procedere egli stesso alla ricostruzione dell’atto, anche se le circostanze concrete lo permettessero, essendo onere dell’amministrazione predisporre e portare a conoscenza del contribuente un atto completo.

Tra l’altro, in tema di carente motivazione dell’atto impositivo, cioè di vizi di contenuto dello stesso, questa Corte (sez. V n. 21997 del 2014) ha avuto modo di affermare:

In tema di accertamento tributario, l’insufficienza motivazionale dell’atto impositivo, che ne giustifica l’annullamento, non esclude che il contribuente possa difendersi nel merito, deducendo, mediante l’impugnazione, anche vizi di merito, poiché tale difetto non può essere sanato, ex art. 156 c.p.c., per raggiungimento dello scopo in quanto l’atto ha la funzione di garantire una difesa certa anche con riferimento alla delimitazione del “thema decidendum”.

In senso analogo, di recente, anche sez. V, n. 4070 del 2020, secondo cui:

non è consentito all’amministrazione di sopperire con integrazioni in sede processuale alle lacune dell’avviso di liquidazione per difetto di motivazione (ex plurimis: Cass., Sez. 5, 31 gennaio 2018, n.. 2382; Cass., Sez. 6, 21 maggio 2018, n. 12400; Cass., Sez, 5, 12 ottobre 2018, n. 25450; Cass., Sez. 5, 24 maggio 2019, n. 14185). Dunque, la “sanatoria” giudiziale non solleva dal difetto di motivazione degli atti impugnati.

Ancora, sez. V n. 16772 del 2017 ha ritenuto che se l’avviso è incompleto perché manca la sola indicazione dell’aliquota, ma è noto l’imponibile e si discute di imposte ad aliquota proporzionale (ires), questa sola mancanza non rende l’avviso nullo perché si tratta di effettuare una mera operazione matematica, ma la conclusione è diversa se le mancanze sono plurime e più rilevanti, come nel caso di specie.

Da questo principio il collegio ritiene che tra le mancanze più rilevanti, che secondo anche quest’ultima sentenza, almeno implicitamente, possono dar luogo a nullità dell’atto, vi sia certamente la mancanza di alcune pagine, con dati essenziali dell’accertamento, specie in un’imposta progressiva, come l’irpef di cui si discute nel caso di specie.

Questo è affermato esplicitamente da sez. V, n. 9196 del 2011, da cui in particolare, si ricava che l’omessa indicazione dell’aliquota in un’imposta progressiva, anche se l’accertamento unitario riguarda pure imposte con aliquota proporzionale, è idonea a determinare il vizio dell’atto.

Il tutto, sul presupposto che la versione di riferimento dell’atto impositivo sia quella notificata al contribuente.

L’avviso di accertamento è, infatti, per sua natura, atto di natura sostanziale, con il quale l’amministrazione porta a conoscenza del contribuente la pretesa tributaria. In quanto tale, l’avviso di accertamento, allo stesso tempo, circoscrive anche la pretesa tributaria e determina, infine, il campo entro il quale il contribuente potrà e dovrà esercitare la propria difesa.

Sulla base di ciò, affermare che, nel contrasto tra copia notificata ed originale in possesso dell’ufficio, sia quest’ultimo a prevalere, significa adottare un’interpretazione che può tradursi in una lesione del diritto di difesa del contribuente stesso.

E’ vero che questa Corte a sezioni unite (Sez. un. 18121 del 2016) ha affermato, in tema di notifiche, la prevalenza dell’originale sulla copia, ma nella specie non si discute di un atto processuale, quanto del contenuto dell’atto sostanziale, il quale, come già ricordato dalla giurisprudenza sopra citata (sez. V, n. 21997 del 2014) ha anche la funzione di delimitare il thema decidendum della futura controversia.

Il ricorso deve, pertanto, essere respinto.

Le spese seguono la soccombenza. Sono, pertanto, a carico del ricorrente ufficio e, considerato il valore della causa, si liquidano in Euro 3.500 oltre accessori di legge.

Si dà, poi, atto della non debenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, essendo soccombente l’amministrazione pubblica, la quale prenota a debito, anzichè versare, il contributo suddetto (come confermato da sez. V, n. 23878 del 2020).

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 3.500 oltre accessori.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 18 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2021


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 23-02-2021) 15-04-2021, n. 10012

La Suprema corte con sentenza sentenza n. 10012 del 15 aprile 2021 si è pronunciata in tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale, secondo le previsioni della Legge n. 890/1982, qualora l’atto notificato non venga consegnato al destinatario:

  • per rifiuto a riceverlo;
  • per temporanea assenza del destinatario stesso;
  • per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Primo Presidente f.f. –
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente di Sez. –
Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –
Dott. DORONZO Adriana – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6199/2014 proposto da:

F.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIUSEPPE FERRARI 4, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO BOTTI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SUD S.P.A., UFFICIO PROVINCIALE DI CASERTA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 334/46/2013 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE di NAPOLI, depositata il 08/10/2013.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 23/02/2021 dal Consigliere Dott. ENRICO MANZON;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, il quale chiede alla Corte che venga rigettato il primo motivo del ricorso ed accolti il secondo ed il terzo.

Svolgimento del processo
1. F.A., destinataria della notifica di una cartella di pagamento per IRPEF 2006-2007, derivante da avvisi di accertamento, avversava l’atto esattivo con ricorso alla Commissione tributaria provinciale di (OMISSIS), lamentando la mancata rituale notifica di detti atti impositivi prodromici e quindi l’inesistenza del titolo esecutivo (iscrizione a ruolo) legittimante la minacciata esecuzione esattoriale.

2. L’Agenzia delle entrate, ufficio locale, costituendosi eccepiva che la procedura notificatoria di detti avvisi di accertamento, in precaria assenza della contribuente dal proprio domicilio, doveva di contro considerarsi ritualmente perfezionata secondo le previsioni di legge. Si costituiva altresì l’agente della riscossione eccependo la propria carenza di legittimazione passiva.

3. La CTP rigettava il ricorso, rilevando che la F. non aveva assolto all’onere di impugnare anche nel merito gli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata.

4. Il gravame interposto dalla contribuente veniva rigettato dalla Commissione tributaria regionale della Campania. Il giudice tributario di appello fondava la propria decisione sia sull’affermazione della ritualità della procedura notificatoria degli avvisi di accertamento sia, come il primo giudice, sull’affermazione dell’onere di impugnazione degli stessi anche nei profili di merito.

5. Avverso la decisione di secondo grado ha proposto ricorso per cassazione la F. deducendo tre motivi.

6. Resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate.

7. La Quinta Sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 21714 dell’8 ottobre 2020, ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite al fine di risolvere il contrasto sulla questione, posta con il secondo motivo, di quale sia il modo per assolvere l’onere di provare il perfezionamento di una procedura notificatoria di un atto impositivo mediante l’impiego diretto del servizio postale nel caso della temporanea assenza del notificatario (c.d. “irreperibilità relativa”) ed in particolare se possa considerarsi sufficiente la prova della spedizione della raccomandata informativa (CAD) ovvero se sia invece necessario il deposito dell’avviso di ricevimento di tale raccomandata.

Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Motivi della decisione
1. Il terzo motivo del ricorso va esaminato in via pregiudiziale.

Come del resto puntualmente rilevato nell’ordinanza interlocutoria, la sentenza impugnata esprime infatti due distinte ed autonome rationes decidendi, l’una, censurata per differenti profili con il primo ed il secondo motivo di ricorso, relativa alla ritualità della procedura notificatoria degli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata; l’altra, appunto censurata con il terzo motivo del ricorso, relativa all’onere di impugnare, contestualmente all’atto esattivo, tali atti impositivi -necessariamente – anche per ragioni attinenti il merito delle pretese creditorie fiscali in essi contenute.

Orbene, l’eventuale rigetto di quest’ultima censura implicherebbe l’inammissibilità delle prime due, secondo il consolidato principio di diritto che “Qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa” (Cass., n. 2108 del 14/02/2012, Rv. 621882 – 01; conforme, da ultimo, Cass., n. 11493 del 11/05/2018, Rv. 648023 – 01).

Appare quindi evidente la necessità di trattazione pregiudiziale del terzo motivo del ricorso.

Ciò posto, tale censura è fondata.

Va infatti ribadito che “In materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poichè tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa” (v. ex pluribus, da ultimo, Cass., 1144/2018, in consolidamento di Cass., Sez U., 5791/2008).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte è dunque senz’altro consentito al contribuente impugnare una cartella esattoriale al fine esclusivo di far valere la mancata/irrituale notificazione dell’atto impositivo prodromico alla medesima, senza contestualmente aggredire l’atto stesso sotto altri profili di invalidità formale ovvero per la sua infondatezza nel merito, non sussistendo dunque alcun onere processuale della parte ricorrente al riguardo.

Su tale punto decisionale, avendo affermato il contrario, la sentenza della CTR campana è da ritenersi pertanto illegittima e meritevole di cassazione.

Ne consegue che possono quindi essere affrontati i primi due motivi del ricorso che, come detto, riguardano le modalità di notificazione degli avvisi di accertamento costituenti il presupposto della cartella di pagamento impugnata.

2. Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente si duole della violazione degli artt. 99, 112, c.p.c., D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè della violazione/falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, poichè la CTR ha ritenuto la legittimità della notifica a mezzo posta degli avvisi di accertamento in questione effettuata direttamente da parte dell’Agenzia delle entrate e quindi senza l’intervento dell’ufficiale giudiziario ovvero del messo speciale notificatore.

La censura è manifestamente infondata.

Sul punto de quo infatti la sentenza impugnata – pronunciandosi espressamente nei limiti dell’oggetto processuale delimitato dalle parti, con conseguente evidente inconsistenza dei dedotti profili processuali del mezzo – risulta aver fatto piana applicazione del chiaro ed inequivoco testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 14, il quale appunto prevede che “La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente deve avvenire con l’impiego di plico sigillato e può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari, nonchè, ove ciò risulti impossibile, a cura degli ufficiali giudiziari, dei messi comunali ovvero dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria, secondo le modalità previste dalla presente legge. Sono fatti salvi i disposti di cui del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 26, 45 e segg. e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, nonchè le altre modalità di notifica previste dalle norme relative alle singole leggi di imposta. Qualora i messi comunali e i messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria si avvalgano del sistema di notifica a mezzo posta, il compenso loro spettante ai sensi della L. 10 maggio 1976, n. 249, art. 4, comma 1, è ridotto della metà”.

Dunque la “notifica diretta” a mezzo posta da parte delle agenzie fiscali è, univocamente ed espressamente, consentita dalla legge, il che del resto è riscontrato dalla costante giurisprudenza di questa Corte (ex pluribus, Cass., 34007/2019, 1207/2014, 15284/2008), essendo peraltro evidente che trattasi di una disposizione legislativa speciale rispetto a quella del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e del c.p.c. da esso richiamate, sicchè prevale su quest’ultime in base al canone interpretativo lex specialis derogat generali.

3. Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 99, 112, c.p.c., nonchè la violazione della L. n. 890 del 1982, art. 8 e la violazione/falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., poichè la CTR ha sancito la ritualità della notifica degli atti impositivi prodromici alla cartella di pagamento impugnata.

In particolare, per un verso, si duole dell’omessa pronuncia sulla sua eccezione di invalidità della procedura notificatoria di detti atti fondata sulla mancata prova della spedizione della “raccomandata informativa” di avvenuto deposito degli atti notificandi (CAD) -la ricezione dei quali ab origine nega e che ha posto quale, esclusivo, motivo di impugnazione della cartella esattoriale- non avendo l’agenzia fiscale prodotto in giudizio l’avviso di ricevimento prescritto, quale forma necessaria della raccomandata stessa, dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, che quindi, per altro verso, assume violato, unitamente al principio generale codicistico sull’attribuzione processuale dell’onere probatorio.

Il profilo processuale della censura deve ritenersi infondato, posto che, pur vero che la CTR campana non si è espressamente pronunciata sull’eccezione, devoluta in appello, in oggetto, risulta tuttavia chiaro che di un rigetto implicito si tratti.

Può pertanto al riguardo limitarsi a dare seguito al principio di diritto che “Non ricorre il vizio di omessa pronuncia, nonostante la mancata decisione su un punto specifico, quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto sul medesimo” (v. in tal senso, tra le molte, Cass. n. 29191 del 06/12/2017, Rv. 646290 01).

La censura tuttavia può comunque essere esaminata sotto il dedotto profilo di violazione/falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, art. 2697 c.c., secondo il consolidato principio di diritto che “Non ricorre il vizio di mancata pronuncia su una eccezione di merito sollevata in appello qualora essa, anche se non espressamente esaminata, risulti incompatibile con la statuizione di accoglimento della pretesa dell’attore, deponendo per l’implicita pronunzia di rigetto dell’eccezione medesima, sicchè il relativo mancato esame può farsi valere non già quale omessa pronunzia, e, dunque, violazione di una norma sul procedimento (art. 112 c.p.c.), bensì come violazione di legge e difetto di motivazione, in modo da portare il controllo di legittimità sulla conformità a legge della decisione implicita e sulla decisività del punto non preso in considerazione” (cfr. Cass., 24953/2020, 14486/2004).

Ciò posto, come detto, la ricorrente afferma di non avere mai ricevuto la notifica degli atti impositivi prodromici alla cartella esattoriale impugnata ed in particolare, trattandosi pacificamente di notifica “postale diretta” non perfezionatasi con la consegna del plico raccomandato a causa della sua temporanea assenza, di non aver mai ricevuto la “raccomandata informativa” dell’avvenuto deposito degli atti notificandi presso l’ufficio postale (CAD) così come prescritto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, seconda parte; afferma altresì che era onere processuale dell’agenzia fiscale provare il contrario (solo) mediante la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della (seconda) raccomandata contenente detto avviso, non essendo, pacificamente, ciò avvenuto, poichè l’Ente impositore si è limitato a produrre giudizialmente soltanto l’avviso di ricevimento della “prima raccomandata” (quella contenente l’avviso di accertamento notificando), con l’attestazione dell’agente postale della temporanea assenza della destinataria e dell’avvenuta spedizione della “seconda raccomandata” prescritta dalla specifica disposizione legislativa appena citata.

4. La Sezione Quinta civile con la citata ordinanza interlocutoria sottopone dunque alla valutazione delle Sezioni Unite la questione che afferma oggetto di contrasto giurisprudenziale interno alla giurisprudenza di legittimità – se sia sufficiente per il giudizio di rituale perfezionamento della procedura notificatoria in esame la prova offerta dall’Agenzia delle entrate (primo avviso di ricevimento con dette attestazioni) oppure necessario, anche ed essenzialmente, che il notificante depositi l’avviso di ricevimento della “raccomandata informativa” (CAD).

In effetti, come puntualmente evidenziato dalla Sezione rimettente, si registra un’ evoluzione, piuttosto evidente, della giurisprudenza di questa Corte in ordine a tale questione giuridica.

5. Con un primo orientamento, più risalentemente consolidato, si è infatti costantemente affermato che, al fine della prova del perfezionamento della notifica postale “diretta” in caso di assenza temporanea del destinatario, è sufficiente che l’Ente impositore notificante produca in giudizio l’avviso di ricevimento della raccomandata contenente l’atto notificando con l’attestazione di spedizione della CAD (in questo senso, Cass., 2638/2019, 13833/2018, 26945-6242-4043/2017).

Tale orientamento – essenzialmente – si fonda sul dato letterale della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4 (nella versione applicabile ratione temporis ossia dopo la modifica operata dal D.L. n. 35 del 2005, art. 2, ma prima delle modificazioni successivamente operate con la L. n. 205 del 2017, art. 1 e con la L. n. 145 del 2018, art. 1), secondo il quale “La notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2 ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore”, peraltro strettamente collegata/coordinata con la previsione di cui al comma 2, u.p., della disposizione legislativa stessa, secondo il quale, tra i contenuti dell’avviso di ricevimento della CAD, deve esserci obbligatoriamente “l’avvertimento che la notificazione si ha comunque per eseguita trascorsi dieci giorni dalla data del deposito (dell’atto noticando presso l’ufficio postale, n.d.r).

In altri termini dalla (doppia) previsione in ordine all’”effetto perfezionativo” della procedura notificatoria de qua, tale giurisprudenza ha tratto il convincimento che a provarne il presupposto fattuale sia appunto sufficiente la, puntuale e specifica, attestazione di spedizione della CAD contenuta nel “primo” avviso di ricevimento riguardante non la CAD stessa, bensì l’atto notificando.

Così si è ritrovato il punto di equilibrio nel bilanciamento degli interessi del notificante e del notificatario, dunque, in ultima analisi, tra “conoscenza legale” (conoscibilità) e “conoscenza effettiva” dell’atto notificando.

6. Tuttavia, a partire dalla ordinanza della medesima Sezione. Quinta civile n. 5077 del 21 febbraio 2019, secondo un diverso orientamento, al verificarsi della fattispecie concreta in esame (notifica a mezzo posta/assenza temporanea del destinatario ovvero di persone idonee alla ricezione dell’atto notificando), per considerare perfezionata la procedura notificatoria è invece necessario verificare in concreto l’avvenuta ricezione della CAD ed a tal fine il notificante è processualmente onerato della produzione del relativo avviso di ricevimento (nello stesso senso, cfr. Cass., 16601/2019, 6363-21714-23921-25140-26078/2020; successive difformi, Cass., 3307033257/2019, che si richiamano all’altro indirizzo ermeneutico).

Tale divergente indirizzo, diffusamente argomentato nella citata pronuncia della Sezione tributaria che lo ha avviato, si confronta con la letteralità della disposizione legislativa applicabile, in particolare con la “previsione di effetto” di cui al comma 4, ma ne dà una diversa connotazione giuridica, qualificando tale effetto normativo come “provvisorio” e sospensivamente condizionato a detta verifica, da effettuare giudizialmente, sull’avviso di ricevimento della “seconda raccomandata”.

La necessarietà di tale verifica e dell’onere probatorio correlativo viene fondata sull’interpretazione costituzionalmente orientata e sistematica del dato normativo stesso, a sostegno della quale pone le pronuncie della Corte costituzionale n. 346 del 1998, proprio sulla L. n. 890 del 1982, art. 8 e L. n. 10 del 2010, sulla notificazione ex art. 140 c.p.c..

7. Ritiene il Collegio che debba darsi seguito a questo secondo – più recentemente consolidatosi – orientamento giurisprudenziale.

Non è infatti dubbio che nel sistema della notificazione postale, in caso di mancata consegna del plico contenente l’atto notificando, la comunicazione di avvenuto deposito abbia un ruolo essenziale al fine di garantire la conoscibilità, intesa come possibilità di conoscenza effettiva, dell’atto notificando stesso.

La mera prova della spedizione di tale comunicazione non può dunque considerarsi quale fattispecie giuridica conformativa del fondamento profondo del dictum imperativo del giudice delle leggi (la citata C. Cost. 346/1998), con il quale si è dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’originaria formulazione della L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, nella parte in cui non prevedeva che, nella fattispecie concreta in esame ed in quelle assimilabili (rifiuto di ricezione di firma del registro di consegna; assenza di persone idonee al ritiro) non venisse appunto data la comunicazione stessa e che lo fosse con una “raccomandata con avviso di ricevimento”.

In particolare alla previsione di questa, particolare e rafforzata, forma di “postalizzazione” della notifica non può assegnarsi un significato pleonasticamente ridondante, ma piuttosto una pregnante direttiva anche ermeneutica – della Corte costituzionale, peraltro, pur a rilevante distanza di tempo, positivamente normativizzata con il D.L. n. 35 del 2005, citato art. 2.

D’altro canto, come giustamente sottolineato nella pronuncia “capofila” del nuovo indirizzo interpretativo, tale disciplina adeguatrice – su questo specifico segmento della procedura notificatoria – si differenzia nettamente da quella dell’art. 139 c.p.c., comma 4, ovvero della L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., disciplinanti i casi di consegna dell’atto notificando a persona diversa dal destinatario e che in tal caso prevedono che venga spedita a quest’ultimo una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto medesimo.

Tale, significativa, differenziazione normativa ha un senso evidente, posto che nei casi di consegna a “persona diversa” vi può essere una ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, trattandosi di persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) che hanno con lo stesso un rapporto che il legislatore riconosce come astrattamente idoneo a questo fine ed è per questo che ha prescelto una forma di comunicazione dell’avvenuta consegna garantita, ma semplificata.

Diversamente nel caso della L. n. 890 del 1982, art. 8 (e dell’art. 140 c.p.c.), non si realizza alcuna consegna, ma solo il deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (ovvero nella notifica codicistica presso la Casa comunale).

Ed è per tale, essenziale ragione, che la legge, con maggiore rigore, prevede che di tale adempimento venga data comunicazione dall’agente notificatore al destinatario, del tutto ignaro della notifica, secondo due distinte e concorrenti modalità: l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) ed appunto la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Peraltro, riprendendo il filo dell’interpretazione costituzionalmente orientata che si va illustrando, in detta sentenza della Corte costituzionale vi è tuttavia in nuce un ulteriore argomento che va valorizzato, consistente nella comparazione della procedura notificatoria in questione con quella, pur sempre basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), disciplinata all’art. 140 c.p.c., tra le modalità delle notifiche curate direttamente dall’ufficiale giudiziario. Ed in effetti il pendant logico-giuridico tra le due procedure notificatorie, a causa della loro evidente analogia, risulta piuttosto chiaro e porta senz’altro ad utilizzare la seconda (art. 140 c.p.c.) quale tertium comparationis, secondo una consolidata tecnica di valutazione delle questioni di costituzionalità, sotto il profilo della ragionevolezza.

Di conseguenza viene inevitabilmente in considerazione un’ altra successiva pronuncia di illegittimità costituzionale (C. Cost., sent. n. 3/2010) appunto dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede(va) il perfezionamento della notifica non effettuata a causa di “irreperibilità o rifiuto di ricevere” del destinatario (e delle persone addette alla casa) sul presupposto della sola spedizione della “raccomandata informativa” dell’avvenuto deposito dell’atto notificando (presso la Casa comunale), invece che con il ricevimento della stessa ovvero con il decorso di 10 giorni dalla sua spedizione.

Orbene, risulta consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, nel caso di notifica, anche di atti impositivi tributari, da parte dell’ufficiale giudiziario ai sensi di detta disposizione del codice di rito, che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio deve essere data, appunto, mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della “raccomandata informativa” (cfr. Cass., n. 25985 del 10/12/2014, Rv. 633554 – 01; n. 21132 del 02/10/2009, Rv. 609852 – 01; per la cartella di pagamento, anche a seguito di C. Cost. 258/2012, cfr. altresì Cass., n. 9782/2018; v. per argomenti nello stesso senso Cass., Sez. U., 627/2008).

Pur nella diversità delle due modalità notificatorie in parte qua ossia in relazione alla spedizione della CAD – quella codicistica attuata dall’ufficiale giudiziario con il concorso dell’agente postale, quella postale attuata esclusivamente da quest’ultimo – non può che ravvisarsi un’unica ratio legis che è quella – profondamente fondata sui principi costituzionali di azione e difesa (art. 24, Cost.) e di parità delle parti del processo (art. 111 Cost., comma 2) – di dare al notificatario una ragionevole possibilità di conoscenza della pendenza della notifica di un atto impositivo o comunque di quelli previsti dalla L. n. 890 del 1982, art. 1 (atti giudiziari civili, amministrativi e penali).

Solo in questi termini può dunque trovarsi quel punto di equilibrio tra le esigenze del notificante e quelle del notificatario, peraltro trattandosi di un onere probatorio processuale tutt’affatto vessatorio e problematico, consistendo nel deposito di un atto facilmente acquisibile da parte del soggetto attivo del sub-procedimento.

Va quindi affermato che solo dall’esame concreto di tale atto il giudice del merito e, qualora si tratti di atto processuale, (se del caso) anche il giudice di legittimità, può desumere la “sorte” della spedizione della “raccomandata informativa”, quindi, in ultima analisi, esprimere un ragionevole e fondato – giudizio sulla sua ricezione, effettiva o almeno “legale” (intesa come facoltà di conoscere l’avviso spedito e quindi tramite lo stesso l’atto non potuto notificare), della raccomandata medesima da parte del destinatario.

In termini generali bisogna dunque ritenere che la produzione dell’avviso di ricevimento della CAD costituisce l’indefettibile prova di un presupposto implicito dell’effetto di perfezionamento della procedura notificatoria secondo le citate previsioni della L. n. 890 del 1982, art. 8, commi 4 e 2, che, qualora ritenuta giudizialmente raggiunta, trasforma tale effetto da “provvisorio” a “definitivo”.

Il che corrisponde alla configurazione strutturale, perfettamente aderente al dettato normativo de quo, di una fattispecie sub-procedimentale a formazione progressiva, secondo un’interpretazione conforme a Costituzione nei richiamati principi.

8. In conclusione sul punto, va formulato il seguente principio di diritto:

“In tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite il servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per temporanea assenza del destinatario stesso ovvero per assenza/inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento della procedura notificatoria può essere data dal notificante esclusivamente mediante la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima”.

Essendo del tutto pacifico che nel caso in esame la notificante Agenzia delle entrate non ha assolto all’onere probatorio in questione in tali termini configurato, devono pertanto affermarsi fondate sia l’eccezione di invalidità della notificazione degli avvisi di accertamento prodromici alla cartella esattoriale impugnata sia la correlata eccezione di invalidità consequenziale di tale atto della riscossione; quindi in ultima analisi deve sancirsi la fondatezza del profilo della censura in oggetto che le ripropone in forma di critica alla difforme pronuncia, ancorchè implicita, del giudice tributario di appello.

9. In conclusione, vanno accolti il secondo ed il terzo motivo del ricorso, va rigettato il primo, la sentenza impugnata va cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, decidendo nel merito deve essere accolto il ricorso introduttivo della lite.

Tenuto conto della complessità delle questioni trattate in particolare in relazione al secondo motivo, le spese del processo possono essere compensate.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo ed il terzo motivo del ricorso, rigetta il primo motivo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso introduttivo della lite; compensa integralmente le spese tra le parti.

Si dà atto che il presente provvedimento è sottoscritto dal solo Presidente per impedimento dell’estensore per le disposizioni restrittive della circolazione nel territorio nazionale per l’emergenza epidemiologica Covid-19.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2021


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 09-02-2021) 07-04-2021, n. 9292

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRECO Antonio – Presidente –

Dott. MOCCI Mauro – Consigliere –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 37752-2019 proposto da:

A.P.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GAETANO DE BONIS;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 220/1/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della BASILICATA, depositata il 30/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 09/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MICHELE CATALDI.

Svolgimento del processo
che:

1. A.P.A. ha proposto ricorso, dinnanzi la Commissione tributaria provinciale di Potenza, avverso l’avviso d’accertamento emesso dall’Agenzia delle entrate nei suoi confronti, relativamente all’anno d’imposta 2008, in materia di Irpef, ed avverso la relativa iscrizione a ruolo, assumendo di essere venuto a conoscenza dell’atto impositivo solo a seguito dell’acquisizione di copia dell’estratto di ruolo ed eccependo l’inesistenza e la nullità della notifica dello stesso accertamento.

L’adita CTP ha rigettato il ricorso.

2. Il contribuente ha allora proposto appello dinnanzi la Commissione tributaria regionale della Basilicata, che lo ha respinto con la sentenza n. 220/01/2019, depositata il 30 aprile 2019, ritenendo che la notifica dell’avviso di accertamento al contribuente fosse ritualmente avvenuta il 20 ottobre 2012, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), tramite messo notificatore, il quale aveva provveduto al deposito dell’atto presso la casa comunale ed alla successiva affissione dell’avvenuto deposito all’albo comunale.

Il ricorso a tale procedura di notificazione dell’atto impositivo, secondo la CTR, era legittimo, in quanto sebbene dal certificato anagrafico acquisito agli atti il contribuente risultasse, al momento della notifica, residente nel medesimo indirizzo menzionato nella relata del messo, tuttavia il 21 luglio 2012 un precedente tentativo di notifica, a mezzo posta, allo stesso destinatario e presso la medesima residenza anagrafica, non si era perfezionato, in conseguenza dell’irreperibilità del destinatario, come risultava dalla compilazione del relativo avviso di ricevimento, nel quale era barrata la voce “per irreperibilità del destinatario”, nel riquadro “mancata consegna del plico a domicilio”.

Pertanto la CTR, ritenuta regolare la notifica dell’accertamento, ha considerato tardivo ed inammissibile il ricorso del contribuente nei confronti dell’accertamento presupposto ed ha rigettato l’appello.

3. Il contribuente ha quindi proposto ricorso, affidato a due motivi, per la cassazione della sentenza impugnata.

L’Agenzia delle Entrate è rimasta intimata.

La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..

Motivi della decisione
che:

1. Per motivi di ordine logico, appare opportuno trattare anticipatamente il secondo motivo, per la sua potenziale capacità assorbente.

Con il secondo motivo, infatti, il contribuente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, denuncia l’omessa pronuncia in ordine al motivo d’appello “inteso a rilevare la violazione e la falsa applicazione della L. n. 265 del 1999, art. 10, nonché della L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 158”.

Secondo il ricorrente, la CTR non si sarebbe pronunciata in ordine alla sua eccezione di inesistenza giuridica della notificazione in considerazione della carenza di legittimazione dell’agente notificatore il quale, rivestendo la qualifica di messo notificatore, ma non quella di messo comunale, avrebbe potuto legittimamente notificare esclusivamente atti di accertamento dei tributi locali e comunque atti provenienti dal Comune di appartenenza.

Il motivo è infondato.

Invero, a differenza di quanto sostenuto nel ricorso, l’affermazione della legittimazione legale dell’agente notificatore, rispetto allo specifico atto da notificare, costituisce un necessario antecedente logico e giuridico di ogni verifica e pronuncia in ordine alla validità della specie di notifica concretamente effettuata dallo stesso operatore. Infatti, come questa Corte ha avuto occasione già di chiarire, “L’inesistenza della notificazione del ricorso per cassazione è configurabile, in base ai principi di strumentalità delle forme degli atti processuali e del giusto processo, oltre che in caso di totale mancanza materiale dell’atto, nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, svolta da un soggetto qualificato, dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi, “ex lege”, eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa.” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 14916 del 20/07/2016).

Pertanto, l’ipotetico accoglimento dell’eccezione che l’attività di notificazione non fosse stata svolta da un soggetto qualificato e dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, avrebbe avuto come necessaria conseguenza l’inesistenza della notifica sub iudice, a prescindere dalle forme nelle quali la fase di consegna si è realizzata, che sarebbe stato superfluo valutare. Dunque, valutando esistente e valida la notifica in relazione alle modalità con le quali si è compiuta la fase di consegna dell’atto, la CTR ha implicitamente, ma necessariamente, affermato la legittimazione dell’agente notificatore e, quindi, implicitamente rigettato il motivo dell’appello del contribuente che la negava, in coerenza con l’adottato dispositivo di totale rigetto dell’impugnazione.

In questo senso si è infatti espressa più volte questa Corte, affermando che non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass. Sez. 2 -, Ordinanza n. 20718 del 13/08/2018; Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 15255 del 04/06/2019); ovvero quando la decisione adottata, in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, non occorrendo una specifica argomentazione in proposito, per cui è sufficiente quella motivazione che fornisce una spiegazione logica ed adeguata della decisione adottata, evidenziando le prove ritenute idonee a suffragarla, ovvero la carenza di esse, senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 7662 del 02/04/2020; Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 2153 del 30/01/2020).

2. Con il primo motivo il contribuente, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, denuncia la violazione e la falsa applicazione “del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), (…) Violazione della fattispecie astratta di accesso alla procedura di notificazione per irreperibilità assoluta”.

Va premesso che il ricorrente riproduce nel corpo del ricorso – dopo averne indicato l’avvenuta produzione nel merito, del resto confermata dalla stessa sentenza d’appello – la copia della relata della notifica del 20 ottobre 2012, eseguita dal messo notificatore del Comune di Potenza, e la copia della parte anteriore dell’avviso di ricevimento di precedente notifica, a mezzo posta, allo stesso destinatario ed al medesimo indirizzo, datata 26 luglio 2012 e recante l’attestazione della mancata consegna del plico per irreperibilità del destinatario.

Tanto premesso, il contribuente censura la decisione della CTR per aver ritenuto la notifica, eseguita dal messo sul presupposto dell’irreperibilità assoluta del destinatario e con le forme previste per tale fattispecie, valida pur in assenza della menzione, nella relata, di qualsiasi attività di ricerca del consegnatario effettuata presso la residenza anagrafica di quest’ultimo (la cui corrispondenza con quella indicata nella relata trova conferma nel certificato riprodotto nello stesso ricorso e prodotto nel giudizio di merito, come risulta dalla sentenza impugnata).

Non era sufficiente, aggiunge il ricorrente, ad escludere la necessità delle predette ricerche, la circostanza che, nel precedente tentativo di notifica a mezzo posta, il destinatario fosse irreperibile presso il medesimo luogo di residenza, trattandosi di altra fattispecie di notificazione, disciplinata diversamente e mai perfezionatasi.

Il motivo è fondato.

Recita il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e): “La notificazione degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente è eseguita secondo le norme stabilite dagli artt. 137 e ss. c.p.c., con le seguenti modifiche: (…) e) quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, l’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c., in busta chiusa e sigillata, si affigge nell’albo del comune e la notificazione, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, si ha per eseguita nell’ottavo giorno successivo a quello di affissione;”.

Come questa Corte ha già chiarito, “La notificazione ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), è ritualmente eseguita solo nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il messo notificatore deve svolgere nell’ambito del Comune di domicilio fiscale, in esso non rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente. Solo in questi casi la notificazione è ritualmente effettuata mediante deposito dell’atto nella casa comunale e affissione dell’avviso di deposito nell’albo del Comune senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con ricevuta di ritorno, nè di ulteriori ricerche al di fuori del detto Comune.” (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 3378 del 12/02/2020).

Sempre riguardo alla necessità dell’accertamento dell’irreperibilità assoluta, presso la residenza anagrafica del contribuente destinatario, si è detto che “La notificazione di un avviso o altro atto impositivo viene svolta nelle forme di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), nel caso in cui il contribuente, che ne è destinatario, risulti trasferito in luogo sconosciuto. In tale ipotesi, il messo notificatore, svolte le ricerche nel Comune in cui si trova il domicilio fiscale del contribuente per verificare l’eventuale mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso Comune e accertata la sua irreperibilità presso la residenza anagrafica, procede alla notifica, effettuando il deposito nella casa comunale e inviando la raccomandata informativa, con avviso di ricevimento, ex art. 140 c.p.c., la cui produzione in giudizio costituisce prova dell’avvenuto perfezionamento della notificazione.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 4657 del 21/02/2020).

Era stato del resto già ribadito che “In tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più nè l’abitazione né l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale.” (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 2877 del 07/02/2018, ex plurimis). Pertanto, “Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto.” (Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 24107 del 28/11/2016).

Quanto poi alla specie delle ricerche che l’agente notificatore deve compiere, ed alla conseguente indicazione nella relata, è stato precisato che “In tema di notifica degli atti impositivi, la cd. irreperibilità assoluta del destinatario che ne consente il compimento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), presuppone che nel Comune, già sede del domicilio fiscale dello stesso, il contribuente non abbia più abitazione, ufficio o azienda e, quindi, manchino dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto: peraltro, il tipo di ricerche a tal fine demandato al notificatore non è indicato da alcuna norma, neppure quanto alle espressioni con le quali debba esserne documentato l’esito nella relata, purché dalla stessa se ne evinca con chiarezza l’effettivo compimento.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19958 del 27/07/2018). Tanto premesso, l’esame della relata della notifica del 20 ottobre 2012, eseguita dal messo notificatore, non contiene alcuna menzione di ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non avesse più nè l’abitazione nè l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale. In particolare, la relata non riferisce di alcuna ricerca relativa all’irreperibilità assoluta del destinatario presso la residenza anagrafica di quest’ultimo nel medesimo Comune, menzionata nello stesso atto e corrispondente a quella certificata. Non risulta, quindi, che il messo abbia constatato in loco ed in punto di fatto l’eventuale divergenza dai dati anagrafici che, attestavano formalmente la persistente residenza in loco del destinatario della notifica (cfr. (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19958 del 27/07/2018, cit., in motivazione).

Tale inerzia totale (per come rilevabile dalla relata) del notificatore, in ordine alle ricerche indispensabili ai fini della legittima configurazione dell’irreperibilità assoluta, presupposto della notifica D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e), determina la nullità di quest’ultima.

Non può, invero, ritenersi altrimenti che le ricerche propedeutiche alla constatazione dell’irreperibilità assoluta, ai fini della validità della notifica eseguita ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), nel caso di specie non fossero necessarie perché allo stesso destinatario, al medesimo indirizzo, non era stato possibile effettuare, diversi mesi prima, la notifica a mezzo posta per irreperibilità.

Infatti, questa Corte ha già avuto occasione di rilevare che “ai fini della legittimità del ricorso alle forme previste dall’art. 143 c.p.c., non è sufficiente il vano tentativo di eseguire la notifica all’indirizzo indicato (…)” (Cass. 12/12/2017, n. 29671).

E, del resto, l’irreperibilità annotata, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 9, sul predetto avviso di ricevimento, quale indicazione del motivo del mancato recapito e della restituzione dell’invio al mittente in raccomandazione, non risulta a sua volta preceduta da alcuna ricerca. Nè, comunque, potrebbe ritenersi diligente, da parte del mittente, la limitazione aprioristica delle ricerche alla mera presa d’atto del mancato buon fine di un tentativo di notifica di parecchi mesi antecedente a quello poi effettuato nelle forme dirette agli irreperibili in senso assoluto.

Va quindi accolto il primo motivo e va pertanto cassata la sentenza impugnata, con rinvio al giudice a quo per ogni necessario accertamento in fatto e per le questioni rimaste assorbite dalla decisione cassata.

P.Q.M.
Accoglie il primo motivo e rigetta il secondo;

cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Basilicata, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 aprile 2021