Cass. civ., Sez. III, Ord., (data ud. 02/07/2021) 14/12/2021, n. 39970

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23301-2018 proposto da:

FALLIMENTO R.R., FALLIMENTO (OMISSIS) SNC, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO CARNUCCIO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

UNIONE BANCHE ITALIANE SPA, (GIA’ BANCA CARIME SPA), elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 2, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE GRILLO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 561/2017 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 22/09/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/07/2021 dal Consigliere Dott. PAOLO PORRECA.

Svolgimento del processo
Che:

la Banca Carime s.p.a. si opponeva al precetto notificatole dalla curatela del Fallimento (OMISSIS) s.n.c., deducendo che il legittimato passivo del titolo giudiziale oggetto dell’intimazione era la s.p.a. Carical;

il Tribunale accoglieva l’opposizione con pronuncia riformata dalla Corte di appello secondo cui, in particolare, il giudice di prime cure aveva dato atto della diversità dei soggetti sociali, tra cui vi era stata cessione di ramo di azienda, senza accertare che il rapporto sotteso al titolo fosse stato ricompreso nella stessa “traslatio” laddove, al contempo, non poteva evincersi alcun giudicato opposto, sul punto, dalla decisione azionata come titolo, atteso che in quel giudizio non vi era stata cognizione specifica al riguardo, nè poteva ipotizzarsi una non contestazione in prime cure, in cui la società coinvolta era rimasta contumace, nè alcunchè in appello, dichiarato solo in rito inammissibile;

avverso la decisione di secondo grado ricorre per cassazione l’amministrazione fallimentare articolando tre motivi;

resiste con controricorso UBI Banca s.p.a. quale incorporante Banca Carime.

Motivi della decisione
Che:

con il primo e secondo motivo, suscettibile di sintesi per strettissima connessione, si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 616, c.p.c., nel testo “ratione temporis” applicabile, comma 2, poichè la decisione del Tribunale era inappellabile e dunque impugnabile solo con ricorso straordinario per cassazione, con conseguente intervenuto giudicato di cui era stato quindi omesso il rilievo;

con il terzo motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c., art. 2909 c.c., D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 58 poichè la Corte territoriale avrebbe errato mancando di considerare che nella decisione azionata quale titolo s’indicava la Carime quale successore della Carical, mentre la Corte territoriale aveva affermato una mancata prova dell’inclusione del rapporto obbligatorio in questione nella cessione del ramo di azienda tra le due società senza, però, che tale documento fosse acquisito agli atti del giudizio “a quo”, mentre l’interpretazione extratestuale del titolo esecutivò sarebbe stata possibile solo in base alla documentazione ritualmente acquisita nel correlato processo;

Rilevato che:

nel controricorso si è eccepita la tardività del ricorso per cassazione in quanto la sentenza impugnata risulta essere stata notificata via p.e.c. al domiciliatario in appello oltre che al “dominus” difensore, ai fini di decorrenza del termine breve, infine spirato;

l’eccezione, afferente peraltro a profilo rilevabile d’ufficio, è fondata;

osserva il Collegio che la notifica via p.e.c. della sentenza di appello, risultante agli atti del controricorrente, rispetto alla quale è decorso invano termine per impugnare in questa sede, è stata effettuata in tale forma nonostante un’elezione di domicilio fisico in capo all’avvocato Silvio Dattola, destinatario come detto della notifica telematica;

questa Corte ha chiarito che:

a) a seguito dell’introduzione del c.d. domicilio digitale (corrispondente all’indirizzo p.e.c. che ciascun avvocato ha indicato al Consiglio dell’Ordine di appartenenza, previsto dal D.L. n. 179 del 201, art. 16 sexies convertito dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, convertito dalla L. n. 114 del 2014), la notificazione va eseguita all’indirizzo p.e.c. del difensore costituito, pur non indicato negli atti dal difensore medesimo, sicchè è nulla la notificazione effettuata (ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82) presso la Cancelleria dell’ufficio giudiziario innanzi al quale pende la lite, anche se il destinatario abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede quest’ultimo;

b) tale principio deve trovare certamente applicazione nei casi in cui il destinatario della notificazione abbia omesso di eleggere il domicilio nel Comune in cui ha sede l’ufficio giudiziario dinanzi a cui pende la lite (con la conseguente necessità. di ricorrere, per tale ipotesi, alla notificazione presso il c.d. domicilio digitale del destinatario), mentre non spiega efficacia nei casi in cui la Cancelleria del giudice dinanzi a cui pende la lite, lungi dal rilevare quale riferimento per il caso di omessa elezione di domicilio nel Comune di detto giudice (ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 82), rappresenti il luogo di espressa identificazione elettiva del domicilio dell’interessato, dovendo escludersi che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte d’individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico – anche la Cancelleria dell’ufficio giudiziario – come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati (Cass., 29/01/2020, n. 1982);

resta inteso che qualora vi sia stata indicazione della domiciliazione digitale, non circoscritta alle sole comunicazioni, le notifiche, al fine di far decorre il termine breve, devono avvenire necessariamente in tale luogo telematico (Cass., 01/06/2020, n. 10355);

questo quadro ha portato a concludere che il domicilio digitale può essere utilizzato per la notificazione in questione, anche se non elide la prerogativa processuale di eleggere domicilio fisico, sicchè le due opzioni concorrono (Cass., 11/02/2021, n. 3557);

in tal caso, la parte aveva solo eletto domiciliazione fisica, ma la domiciliazione digitale, pur non impedendo l’utilizzo della prima, restava, per volontà dell’ordinamento, una delle due possibilità ai fini in discussione;

nèdiscende la ritualità della notifica della sentenza qui gravata, nei sensi eccepiti dalla controricorrente, con conseguente sua idoneità all’attivazione del termine breve di impugnazione e tardività dell’odierno ricorso;

spese secondo soccombenza;

raddoppio c.u. se dovuto.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali di parte controricorrente liquidate in Euro 4.100,00 oltre a Euro 200,00 per esborsi, 15% di spese forfettarie, e accessori legali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 2 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 14 dicembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 08/09/2021) 23/11/2021, n. 36215

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STALLA Giacomo M. – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. CIRESE Marina – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20953/2016 proposto da:

Equitalia Servizi Di Riscossione Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, Piazza Cavour presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Fuschino Mario;

– ricorrente –

contro

Eta Estrusione Tecnologie Avanzate Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma V. Panama 74 presso lo studio dell’avvocato Iacobelli Gianni Emilio, rappresentato e difeso dall’avvocato Nebbia Giuseppe;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Equitalia Servizi Di Riscossione Spa, Data pubblicazione 23/11/2021 – intimata –

avverso la sentenza n. 112/2016 della COMM. TRIB. REG. MOLISE, depositata il 23/02/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 08/09/2021 dal consigliere Dott. MARINA CIRESE.

Svolgimento del processo
Estrusione Tecnologie Avanzate s.p.a. proponeva ricorso avverso l’iscrizione ipotecaria effettuata dall’Agente della Riscossione Equitalia Polis s.p.a. su beni di proprietà della società a fronte di un credito pari ad Euro 8.055.353,97, deducendo la nullità dell’atto per inesistenza della notifica, essendo stato l’avviso comunicato a mezzo raccomandata e non già con le forme previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60.

La CTP di Isernia con sentenza in data 29.12.2011 accoglieva il ricorso dichiarando l’inesistenza dell’atto, atteso che la notifica non era stata effettuata ritualmente, in assenza di relata di notifica, e rigettava la richiesta di condanna ex art. 96 c.p.c..

Interposto appello avverso detta pronuncia da parte di Equitalia Polis s.p.a., all’esito del giudizio in cui la società contribuente proponeva ricorso incidentale, la CTR del Molise, con sentenza in data 23.2.2016, rigettava entrambi gli appelli ritenendo che la notifica dell’iscrizione ipotecaria potesse avvenire solo mediante le forme di cui agli artt. 137 e ss. c.p.c. e che il comportamento dell’Agente della Riscossione non potesse essere connotato da colpa grave.

Avverso detta pronuncia proponeva ricorso per cassazione articolato in due motivi l’Agente per la riscossione. Parte intimata resisteva con controricorso e proponeva altresì ricorso incidentale articolato in due motivi.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso principale, rubricato “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60”, parte ricorrente deduceva l’erroneità della sentenza impugnata per aver ritenuto inesistente la notifica dell’avviso di iscrizione ipotecaria, in quanto atto non direttamente notificabile dall’Agente per la riscossione a mezzo del servizio postale secondo la procedura di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60.

2. Con il secondo motivo di ricorso principale rubricato “Violazione e falsa applicazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’art. 156 c.p.c., comma 3”, parte ricorrente deduceva che erroneamente la sentenza impugnata aveva ritenuto la notifica inesistente invece che nulla, con conseguente impossibilità di applicare l’art. 156 c.p.c., comma 3.

Va rilevato preliminarmente che la società contribuente nel controricorso ha rappresentato che l’ipoteca per cui è processo è stata integralmente cancellata da Equitalia Polis in data (OMISSIS) a seguito di diffida stragiudiziale del (OMISSIS), concludendo pertanto che sarebbe venuto meno l’interesse di Equitalia al ricorso ex art. 100 c.p.c. Ritiene tuttavia il Collegio che, a prescindere dalla circostanza che nel fascicolo d’ufficio non vi è alcun documento che attesti l’avvenuta cancellazione dell’ipoteca, permane in capo all’odierno ricorrente l’interesse ad impugnare.

Il principio contenuto nell’art. 100 c.p.c., secondo il quale per proporre una domanda o per resistere ad essa è necessario avervi interesse, si applica anche al giudizio di impugnazione, in cui l’interesse ad impugnare una data sentenza o un capo di essa va desunto dall’utilità giuridica che dall’eventuale accoglimento del gravame possa derivare alla parte che lo propone e non può consistere nella sola correzione della motivazione della sentenza impugnata ovvero di una sua parte (Cassazione civile sez. II, 05/02/2020, n. 2670; Conforme a Cass. 27 gennaio 2012 n. 1236). Non è pertanto sufficiente l’esistenza di un mero interesse astratto ad una più corretta soluzione di una questione giuridica, non avente riflessi sulla decisione adottata e che non spieghi alcuna influenza in relazione alle domande o eccezioni proposte (Cass. Sez. U, Sentenza n. 12637 del 19/05/2008; Cass. Civ. Sez. Lav., 23.5.2008, n. 13373).

Nella specie l’avvenuta cancellazione dell’iscrizione ipotecaria non fa di per sè venir meno l’interesse del concessionario per la riscossione all’accertamento della legittimità dell’iscrizione ipotecaria, tanto più in presenza di una domanda risarcitoria della controparte che si assume basata proprio sulla contestazione di questa legittimità anche con riguardo alla fase dell’iscrizione.

Passando quindi ad esaminare il ricorso principale, il primo motivo è fondato.

La Suprema Corte – con sentenza della Sezione tributaria n. 16949/2014 – ha ribadito che la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica, rispondendo tale soluzione alla previsione di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, che prescrive altresì l’onere per il concessionario di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione di notifica o l’avviso di ricevimento, con l’obbligo di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione (vedi Cass. n. 9240/2019).

Quando il predetto ufficio si avvale di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598/2010; n. 911/2012; n. 19771/2013; 22151 del 2013; n. 16949/2014; n. 14146/2014; Cass. n. 3254/2016; 7184/2016; Cass. n. 10232/2016; n. 12083 del 2016 Cass. n. 14501/2016, Cass. n. 1304/2017; n. 704/2017; n. 19795 e n. 14501/2017; n. 8293/2018 v. anche Corte costituzionale del 23 luglio 2018 n. 175 che, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito – ha affermato la legittimità della notificazione diretta, da parte dell’agente della riscossione, della cartella di pagamento mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento).

Da tale impostazione, la stessa Corte fa discendere la conseguenza che, in tutti i casi di notifica postale diretta di un atto tributario, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento, e quindi in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico; l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione della notifica, anche laddove eseguita mediante consegna a persona diversa dal diretto interessato, ma comunque abilitata alla ricezione per conto di questi, si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal consegnatario.

Tale principio reiteratamente affermato da questa Corte con riguardo alla notifica delle cartelle esattoriali, si è ritenuto applicabile anche alla notifica degli avvisi di iscrizione ipotecaria (Cass. n. 21663 del 2015), alla cui stregua detta notifica può essere effettuata anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento.

Ciò, in quanto il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, prevede una modalità di notifica integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva di soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di una apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantire, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario dell’atto. Tanto trova implicita conferma nel citato art. 26, penultimo comma, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’Amministrazione (vedi Cass., Sez. 5, n. 17248/17).

Il secondo motivo del ricorso principale è assorbito.

Passando alla disamina del ricorso incidentale, lo stesso si articola in due motivi.

3. Con il primo motivo, rubricato “In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c.”, la società contribuente censurava la sentenza impugnata che negava la sussistenza dei presupposti ex art. 96 c.p.c., comma 2, atteso che l’agente della riscossione ha proceduto all’iscrizione dell’ipoteca in assenza di efficacia del titolo che era stato sospeso ed ha resistito nel processo per colpa grave.

4. Con il secondo motivo, rubricato “In relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546, del 1992, art. 15, degli art. 91 e 92 c.p.c. nonchè del D.M. Giustizia n. 55 del 2014, la società contribuente deduceva che la CTR ha errato nel compensare le spese di lite nella misura del 50% ed ha errato nell’applicazione della tabella dei compensi.

Il primo motivo è infondato.

Parte ricorrente assume la violazione dell’art. 96 c.p.c. in quanto sussisterebbe la colpa grave dell’agente della riscossione nell’iscrivere l’ipoteca, per 16 milioni di Euro, nonostante la sospensione giudiziale della cartella prodromica, e nel resistere in giudizio senza provvedere (se non in data 27 Febbraio 2012 a seguito di ulteriore diffida stragiudiziale) alla cancellazione dell’iscrizione ipotecaria stessa. Tale comportamento avrebbe causato gravissimi e documentati danni alla società che si era vista negare vari finanziamenti bancari proprio per iscrizione pregiudizievole.

Va ritenuto tuttavia che, come recentemente affermato da questa Corte (Cass., Sez. 3, n. 23661/20), l’iscrizione di ipoteca, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 77, sugli immobili del debitore e dei coobbligati al pagamento dell’imposta, non è riconducibile all’ipoteca legale prevista dall’art. 2817 c.c., nè è ad essa assimilabile, mancando un preesistente atto negoziale il cui adempimento il legislatore abbia inteso garantire; essa, peraltro, neppure può accostarsi all’ipoteca giudiziale disciplinata dall’art. 2818 c.c., con lo scopo di rafforzare l’adempimento di una generica obbligazione pecuniaria ed avente titolo in un provvedimento del giudice, in quanto quella in esame si fonda su di un provvedimento amministrativo” (Cass. 7/03/2016, n. 4464; v. anche Cass., ord., 20/12/2017, n. 30569).

Secondo la giurisprudenza di legittimità, l’iscrizione ipotecaria prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77, non costituisce atto dell’espropriazione forzata ma va riferita ad una procedura alternativa all’esecuzione forzata vera e propria (Cass., S.U.., 18/09/2019) ed è atto solo preordinato all’esecuzione, avente funzione di garanzia e di cautela (Cass. 30/05/2018, n. 13618).

Ne consegue l’inapplicabilità dell’art. 96 c.p.c., comma 2, che fa espresso riferimento al caso in cui il giudice accerta l’inesistenza del diritto per cui è iscritta ipoteca giudiziale oppure è iniziata o compiuta l’esecuzione forzata.

Il secondo motivo di ricorso incidentale è assorbito dall’accoglimento del primo motivo del ricorso principale.

In conclusione, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, assorbito il secondo motivo e rigettato il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo, la sentenza impugnata va cassata con rinvio alla CTR del Molise, in diversa composizione, per la disamina delle altre questioni di legittimità della cartella ed a cui demanda altresì la regolamentazione delle spese di lite.

P.Q.M.
La Corte, in accoglimento del primo motivo di ricorso principale, assorbito il secondo, rigettato il primo motivo del ricorso incidentale, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto con rinvio alla CTR del Molise, in diversa composizione, cui demanda altresì la regolamentazione delle spese di lite;

dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, del doppio contributo unificato D.P.R. n. 115 del 2002, ex art. 13, comma 1 quater.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella adunanza camerale effettuata da remoto, il 8 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 novembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/06/2021) 19/11/2021, n. 35641

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 4796/2015 R.G. proposto da:

P.A., in proprio e in qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, rappresentato e difeso, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Emanuele Coglitore e dall’avv. Mariagrazia Bruzzone, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3429/20/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia depositata in data 25 giugno 2014;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 giugno 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva accolto il ricorso presentato da P.A., in proprio e quale legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, avverso l’avviso di accertamento con il quale era stato rideterminato, con metodo induttivo, il reddito di impresa, per l’anno d’imposta 2006.

2. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza in epigrafe indicata, accolse l’impugnazione dell’Ufficio finanziario.

Osservò, in particolare, che:

a) risultava accertata la partecipazione del contribuente nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, quantomeno come legale rappresentante di fatto e sulla base del regime di responsabilità per le obbligazioni, previsto dall’art. 38 c.c.;

b) nessuna prova era stata fornita, per far ritenere la sua estraneità all’attività associativa, in ordine alla cessazione dell’attività ed alla cancellazione della associazione;

c) la notifica dell’avviso di accertamento era valida perchè legittimamente effettuata a mezzo servizio postale, con l’espletamento di tutte le formalità previste;

d) il riferimento dell’avviso di accertamento ad altri atti doveva ritenersi rituale, poichè ne era riprodotto il contenuto essenziale;

e) era rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione l’avvio del contraddittorio preventivo con il contribuente, in presenza di elementi utili e sufficienti, a propria disposizione, per l’accertamento della violazione contestata;

f) l’accertamento risultava legittimamente effettuato “in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno 2006 rispetto ai parametri di mercato”; mentre appariva “del tutto artefatto l’assunto della perdita dell’archivio contabile per lavori di demolizione eseguiti nella struttura e senza che alcuno dei responsabili avesse provveduto alla salvaguardia della documentazione”;

g) le operazioni di sponsorizzazione descritte nell’avviso impugnato erano state poste in essere al solo scopo di consentire alle imprese intestatarie delle fatture di beneficiare della deducibilità dei costi relativi, ai fini delle imposte dirette e dell’Irap, nonchè di detrarre la relativa I.V.A.;

e) a fronte di dichiarazione omessa per l’anno d’imposta in contestazione, l’Ufficio aveva determinato ricavi per operazioni inesistenti nella misura contestata, basandosi su presunzioni gravi, precise e concordanti rispetto alle quali nessuna prova contraria aveva fornito il contribuente.

3. Contro la suddetta decisione d’appello ha proposto ricorso per cassazione P.A., con cinque motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate, ritualmente intimata, ha depositato “atto di costituzione”.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e della L. n. 4 del 1929, art. 24, anche in relazione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, ed agli artt. 3, 53 e 97 Cost..

Lamenta che per il periodo d’imposta 2006 la fase istruttoria si era esaurita nell’invio di un questionario e nella successiva emissione dell’avviso di accertamento, in assenza di preventiva consegna di un verbale di chiusura delle operazioni di controllo, in contrasto con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, che, al paragrafo 2, stabilisce il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento che possa arrecarle pregiudizio.

Sostiene, altresì, che non si pone in sintonia con il diritto dell’Unione una interpretazione che escluda l’applicabilità della L. n. 212 del 2000, rt. 12, comma 7, ai procedimenti di verifica “a tavolino” e che i giudici di appello sarebbero incorsi nei censurati vizi laddove hanno ritenuto insussistente la violazione del diritto al contraddittorio endoprocedimentale, perchè, ove fosse stato consegnato un processo verbale di chiusura delle indagini da parte degli organi di controllo, avrebbe potuto prospettare, prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano meramente pretestuose.

Con la memoria ex art. 378 c.p.c., il ricorrente, nell’insistere per l’accoglimento del mezzo di ricorso, prendendo le mosse dalla sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 24823 del 9 dicembre 2015, ha dedotto che l’avviso di accertamento afferisce anche all’I.V.A. e che, per quanto concerne la pretesa ai fini Ires e Irap, l’ordinamento interno deve comunque rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione Europea, con la conseguenza che l’interpretazione fornita dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite che giunge a limitare la piena tutela del diritto al contraddittorio preventivo, in dipendenza della natura non armonizzata dei tributi pretesi, implica una irragionevole disparità di trattamento, contraria al divieto delle cd. “discriminazioni a rovescio”, ossia “situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, e delle sue imprese, che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto Europeo”; ha, quindi, sollecitato una rimeditazione della questione, previa, se del caso, rimessione al vaglio delle Sezioni Unite.

2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55.

Fin dal ricorso introduttivo aveva eccepito l’illegittimità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, in quanto venivano richiamati atti non allegati e non conosciuti, neppure prodotti nel corso del giudizio di merito da parte dell’Agenzia delle entrate, ma i giudici di appello avevano assunto apoditticamente che il riferimento ad altri atti doveva ritenersi rituale, perchè ne era stato riprodotto il contenuto essenziale.

Evidenzia pure che, in violazione dell’art. 2697 c.c., i giudici di merito avevano accolto il gravame, ritenendo fondata nel merito la pretesa impositiva ed assolto l’onere probatorio da parte dell’Ufficio finanziario, senza tenere conto della mancata produzione in giudizio, da parte dell’Agenzia delle entrate, dei documenti oggetto di contestazione e, tra questi, delle fatture richiamate dalla stessa sentenza impugnata. In tal modo, i giudici regionali, ad avviso del ricorrente, avevano finito per avallare un’inferenza presuntiva non basata su fatti certi, in contrasto con l’art. 2727 c.c., che esige la ricorrenza di un “fatto noto” per fondare la prova per presunzioni.

Ad avviso del ricorrente era altresì ravvisabile la violazione dell’art. 2697 c.c., perchè si era ritenuto che l’onere di provare l’estraneità all’attività dell’associazione incombesse sul contribuente e perchè si era affermato che era emersa la sua partecipazione nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, nonostante l’assoluta mancanza di prove.

3. Con il terzo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando che i giudici di appello hanno omesso di pronunciarsi sul motivo, dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con il quale era stata eccepita l’illegittimità dell’atto impositivo in quanto rivolto ad ente non più esistente, nonostante l’Agenzia delle entrate fosse a conoscenza dell’intervenuta cessazione dell’attività, nonchè sull’ulteriore motivo di intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva per il periodo d’imposta 2005. Nessun riferimento era, peraltro, contenuto in sentenza con riguardo all’altro motivo con il quale era stato contestato che l’associazione, essendo sportiva dilettantistica, aveva scelto il regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991.

4. Con il quarto motivo il contribuente deduce la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, nonchè dell’art. 137 c.p.c..

Rileva che nel giudizio di merito aveva eccepito la giuridica inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento, poichè mancava nella specie ogni intermediazione dell’agente di notificazione tra l’autore dell’atto ed il suo destinatario, ferma restando l’inoperatività della sanatoria del vizio di notificazione, stante l’intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva al momento della proposizione del ricorso.

5. Con il quinto motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e art. 11, comma 2, nonchè dell’art. 75 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – ribadisce che in secondo grado aveva preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello, in quanto non sottoscritto dal direttore dell’Ufficio, ma dal Capo Team ( C.A.) senza produzione di delega; inoltre aveva prodotto estratto del sito internet dell’Agenzia delle entrate dal quale non risultava che la predetta persona rivestisse la qualifica dirigenziale.

6. Il primo motivo è infondato.

6.1. Occorre premettere, in primo luogo, che nella vicenda in esame l’Amministrazione finanziaria non ha compiuto una verifica fiscale presso l’Associazione Calcio Mottese. L’avviso di accertamento, come sottolineato dallo stesso ricorrente, è stato adottato all’esito dell’invio di un questionario, sicchè la ripresa fiscale è riconducibile ad una ipotesi di accertamento cd. “a tavolino”, rispetto al quale è legittimo, anche ai fini del contraddittorio (in particolare per le imposte dirette), che il primo atto portato alla conoscenza del contribuente sia lo stesso avviso (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823).

Già da tale fatto deriva l’insussistenza di un obbligo generalizzato di redazione del processo verbale di constatazione, conclusione che questa Corte, del resto, ha ripetutamente ribadito, sottolineando che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione (Cass., sez. 5, 27/04/2018, n. 16546; Cass., sez. 5, 8/05/2019, n. 12094).

In ogni caso, non ha rilievo il richiamo alla L. n. 4 del 1929, art. 24, che, secondo la prospettazione del ricorrente, imporrebbe sempre l’adozione di un processo verbale con il quale siano contestate le violazioni finanziarie, avendo questa Corte precisato che “in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di I.V.A.), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. n. 4 del 1929, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento” (Cass., sez. 5, 11/12/2013, n. 27711; Cass., sez. 5, 29/12/2017, n. 31120), con la conseguenza che la redazione di un processo verbale di constatazione non è necessaria per rendere legittimo un successivo avviso di accertamento perchè è in esso che si esterna ciò che si è constatato.

6.2. E’ insegnamento di questa Corte che “Le garanzie procedimentali di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 6 e art. 12, comma 7, trovano applicazione solo al processo verbale di constatazione redatto a chiusura di operazioni di verifica condotte dagli organi dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali e non anche alle verifiche svolte a tavolino, ovvero senza accesso ai locali anzidetti” (Cass., sez. 6-5, 8/02/2017, n. 3408; Cass., sez. 5, 12/02/2014, n. 3142; Cass., sez. 6-5, 13/06/2014, n. 13588, la quale richiama la sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 18184 del 2013; Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823), ossia esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ciò, peraltro, indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non abbia comportato constatazione di violazioni.

6.3. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823 del 2015, hanno chiarito che “differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Sulla specifica questione la giurisprudenza di questa Corte non registra sentenze dissonanti, tanto che la pronuncia delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015 è stata seguita da molte altre conformi (ex multis, Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283; Cass., sez. 6-5, 25/01/2017, n. 1969; Cass., sez. 65, 14/03/2018, n. 6219; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. 6-5, 29/10/2018, n. 27421; Cass., sez. 5, 8/10/2020, n. 21695; Cass., sez. 5, 6/05/2021, n. 11913; Cass., sez. 5, 15/07/2021, n. 20157).

6.4. Ciò posto, vanno disattesi i dubbi sollevati dai ricorrenti in ordine alla legittimità della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (come interpretato dalla su menzionata decisione delle Sezioni unite n. 24823/2015), per contrasto con la normativa comunitaria ed i principi sanciti dalla Carta costituzionale.

Invero, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza citata (n. 24823 del 2015), il dato testuale della L. n. 212 del 2000, detto art. 12, comma 7, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole “verifiche in loco”, è da ritenersi “non irragionevole”, in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”.

Siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica (“in loco” e “a tavolino”), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza della ipotizzata incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720). Con riferimento all’art. 3 Cost., deve parimenti escludersi una questione di costituzionalità, per la duplicità di trattamento giuridico tra “tributi armonizzati” e “tributi non armonizzati”, atteso che, come viene evidenziato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contraddittorio procedimentale.

Del resto, poichè il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’I.V.A., non può ritenersi che una soluzione in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia I.V.A., diversa da quella espressa per i tributi diretti, crei un vulnus al principio di non discriminazione sul versante comunitario, nè a quello della ragionevolezza sul piano interno (cfr. Corte di Giustizia, 17 marzo 2007, causa C-35/05; Cass., sez. 5, 27/09/2013, n. 22132; Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720).

6.5. Tale assetto risulta, dunque, coerente sia con i principi costituzionali che con la normativa comunitaria che risulta garantita in ambito giurisdizionale attraverso la cd. “prova di resistenza” di cui al principio indicato dalle Sezioni unite con la decisione n. 24823 del 2015, attraverso la verifica delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato ed ancora che “l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (in senso conforme, anche Cass., sez. 6-5, 18/03/2016, n. 5502).

Non si ravvisano, dunque, ragioni per discostarsi dai principi sopra enunciati e per rimettere nuovamente la questione all’esame delle Sezioni Unite.

6.6. Nel caso di specie, alla stregua di quanto sopra esposto, il contraddittorio endoprocedimentale invocato non trova applicazione quanto alle imposte dirette, dal momento che non risulta dalla lettura del ricorso e della sentenza che sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale dell’Associazione.

In relazione alla ripresa I.V.A., a cui pure si riferisce l’avviso di accertamento, l’obbligo del contraddittorio in linea di principio sussiste, ma questo Collegio deve rilevare che il contribuente non ha assolto correttamente alla c.d. prova di resistenza, in quanto, pur richiamando in ricorso le censure svolte con il ricorso introduttivo, ha omesso di indicare le specifiche circostanze che avrebbero rappresentato se fosse stato promosso dall’Ufficio il contraddittorio nei suoi confronti.

Avendo piuttosto il contribuente genericamente affermato che se gli fosse stato consegnato un processo verbale a chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo avrebbe potuto prospettare, sin dalla fase istruttoria e prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano pretestuose, deve escludersi che lo stesso abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbero potuto far valere, sicchè, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, (Cass., sez. 5, 23/01/2020, n. 1505; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. un., n. 24823 del 2015, cit.), la sentenza impugnata va esente dalle censure ad essa rivolte.

7. Infondato è il terzo motivo, che va esaminato con priorità perchè concernente un error in procedendo, in quanto gli specifici motivi di gravame formulati nel giudizio di merito (illegittimità dell’atto impositivo perchè rivolto ad ente non più esistente, decadenza dell’Amministrazione dall’esercizio della funzione impositiva per l’anno d’imposta 2005, assoggettamento dell’Associazione Sportiva dilettantistica al regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991), sui quali la C.T.R. non si è espressamente pronunciata, devono intendersi implicitamente disattesi dai giudici di appello.

Non ricorre, infatti, il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto. (Cass., sez. 6 – 1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191).

8. Anche il quarto motivo deve essere respinto.

8.1. Dalla illustrazione della censura emerge che, nel caso di specie, la notifica è avvenuta direttamente a mezzo del servizio postale.

Costituisce ormai principio consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta dell’atto impositivo, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (ex multis, Cass., sez. 5, 4/04/2018, n. 8293) e, pertanto, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l’avviso di accertamento senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890 attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c..

Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto, pervenuto all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (cfr. Cass., sez. 5, 6/06/2012, n. 9111).

8.2. La L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, modificando la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, ha aggiunto, per quanto qui interessa, la previsione che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente “può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982. A decorrere, pertanto, dal 15 maggio 1998 (data di entrata in vigore della citata L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere “direttamente” alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale (Cass., sez. 5, 10/06/2008, n. 15284). Ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata. In caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto, il regolamento postale (nel caso di specie, la circolare n. 70/2001 oggetto: poste – condizioni generali del servizio postale – D.M. 9 aprile 2001, su g.u. n. 95 del 24.4.2001), contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limita a prevedere, all’art. 32, che, per gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate), “in caso di assenza all’indirizzo indicato, il destinatario e le altre persone abilitate a ricevere l’invio” possono “ritirarlo presso l’ufficio postale di distribuzione, entro i termini di giacenza previsti dall’art. 49”.

8.3. Come chiarito da questa Corte, “in tema di notificazione dell’atto impositivo effettuata a mezzo posta direttamente dall’Ufficio finanziario, al fine di garantire il bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, deve farsi applicazione in via analogica della regola dettata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore, decorrendo da tale momento il termine per l’impugnazione dell’atto notificato” (Cass., sez. 6- 5, 2/02/2016, n. 2047), in quanto il regolamento del servizio di recapito non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza (Cass., sez. 5, 28/05/2020, n. 10131; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642).

La Corte costituzionale, con la sentenza del 23 settembre 1998, n. 346, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui non prevedeche, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento. Tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale riguarda la diversa modalità di notificazione a mezzo posta curata dall’Ufficiale Giudiziario, alla quale si applica la disciplina di cui alla L. n. 890 del 1982, compreso la norma in oggetto (Cass., sez. 5, 28/07/2010, n. 17598, che ha confermato la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva ritenuto valida la notifica dell’invito al contraddittorio endoprocedimentale ai fini dell’accertamento con adesione del D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, effettuata con raccomandata, non ritirata presso l’ufficio postale, senza che ad essa fosse seguito l’invio della raccomandata informativa previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, così come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1998).

Il differente iter notificatorio si spiega con la diversità delle fattispecie poste a confronto, comportando la notifica diretta a mezzo del servizio postale un procedimento più agile e semplificato, a tutela delle ragioni del fisco di preminente interesse pubblico. Come evidenziato di recente dalla Corte costituzionale (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175, che ha ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, nonostante la mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica – CAN – e l’inapplicabilità della L. n. 890 del 1982, art. 7, come modificato con la L. n. 31 del 2008), il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque garantito dal fatto che colui, che assuma in concreto la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile, può chiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove comprovi, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, la sussistenza di detta situazione.

8.4. La C.T.R., concludendo che la notifica degli avvisi di accertamento, effettuata a mezzo del servizio postale è valida perchè sono state espletate tutte le formalità previste, non è incorsa nelle denunciate violazioni di legge.

9. Il quinto motivo è infondato.

9.1. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio, nelle controversie di competenza delle commissioni tributarie, all’ufficio del Ministero delle finanze – oggi ufficio locale dell’agenzia fiscale- nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore (Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 6338) o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi per ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze (Cass., sez. 5, 28/05/2008, n. 13908; Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 3058), senza necessità di speciale procura.

Qualora non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, le questioni relative agli effettivi poteri del firmatario dell’appello si possono porre solo in chiave di non appartenenza del firmatario all’ufficio appellante o di usurpazione di tali poteri, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà.

9.2. Tale interpretazione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138) è conforme al principio di effettività della tutela giurisdizionale, più volte richiamato anche dalla Corte costituzionale – oltre che da questa suprema Corte (Cass., Sez. U, 14/02/2006, nn. 3116 e 3118; Cass., sez. 5, 25/10/2006, n. 22889)- che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità.

Questa Corte ha, altresì, affermato che la legittimazione processuale dell’Ufficio locale trova fondamento nella disciplina regolatrice della materia, costituita dal D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 2, che ha istituito le Agenzie Fiscali, rimandando allo Statuto la fissazione dei principi generali relativi all’organizzazione ed al funzionamento dell’Agenzia e nello Statuto e, poi, nel Regolamento di amministrazione delle Agenzie delle Entrate, che hanno stabilito che gli Uffici locali dell’Agenzia corrispondono ai preesistenti Uffici delle Entrate e che agli Uffici locali sono attribuite le funzioni operative ed, in particolare, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso; la legittimazione dell’Ufficio locale trae fondamento dalla norma statutaria delegata – Reg., art. 5, comma 1 -, esistente per effetto della norma delegante D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1.

Deve, quindi, ritenersi ammissibile l’atto d’appello proposto dal competente ufficio dell’agenzia delle entrate, recante in calce la firma di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, non essendo a tal fine necessaria l’esibizione della delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado (Cass., sez. 5, 21/03/2014, n. 6691; Cass., sez. 6-5, 26/07/2016, n. 15470; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27570; Cass., sez. 5, 31/01/2019, n. 2901; Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138).

9.3. Nel caso di specie, il ricorrente ha eccepito che il Capo Team che ha sottoscritto l’atto di appello non rivestisse la qualifica di dirigente, ma, poichè non è in contestazione l’appartenenza del sottoscrittore all’Ufficio finanziario, la doglianza, in applicazione dei principi su esposti, va respinta.

10. Il secondo motivo è infondato in relazione a tutti i profili di doglianza denunciati.

10.1. Il ricorrente contesta che la C.T.R., ritenendo del tutto legittima la ripresa a tassazione operata per l’anno 2006, non abbia fatto buon governo dei criteri dettati in materia di ripartizione dell’onere della prova, nè delle norme che regolano la prova presuntiva.

Giova, sul punto, precisare che, in ipotesi quale quella di specie di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, i poteri accertativi dell’Ufficio trovano fondamento e disciplina non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nella diversa previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 (accertamento d’ufficio). A tal fine l’Ufficio, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, determina il reddito complessivo del contribuente, con facoltà di ricorso a presunzioni c.d. “supersemplici”, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (da ultimo, Cass., sez. 5, 20/01/2017, n. 1506; Cass., sez. 5, 16/07/2020, n. 15167; Cass., sez. 5, 4/02/2021, n. 2581).

Le argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata non si pongono in contrasto con il principio di diritto innanzi richiamato, dal momento che, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte dell’Associazione sportiva, i giudici di appello hanno ritenuto del tutto corretta la rideterminazione induttiva dei ricavi operata dall’Amministrazione finanziaria, in mancanza di prova dell’esistenza di costi relativi all’attività commerciale, non fornita dal contribuente sul quale gravava il relativo onere, e della assenza di riscontri che potessero supportare l’assunto della perdita dell’archivio contabile in occasione dei lavori di demolizione eseguiti nella struttura.

10.2. La Commissione regionale ha, inoltre, ritenuto provata la partecipazione del ricorrente nelle vicende operative dell’Associazione sportiva non riconosciuta e, quindi, sussistente una sua responsabilità quale legale rappresentante di fatto; l’apprezzamento in fatto svolto dai giudici regionali, non censurato sotto il profilo motivazionale, non può essere rimesso in discussione in questa sede, non essendo ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., che è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 3, 29/05/2018, n. 13395).

10.3. Peraltro, le censure svolte, anche laddove si assume una presunta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., sono sostanzialmente volte a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale rispetto a quella operata dalla C.T.R., non consentita in questa sede. Occorre, sul punto, rammentare che la censura in ordine al corretto utilizzo del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità o contraddittorietà del ragionamento decisorio (Cass., sez. 1, 26/02/2020, n. 5279), sicchè, sotto tale profilo, la doglianza in esame è inammissibile perchè si risolve in una valutazione alternativa degli indizi e del materiale probatorio, in assenza di specifiche deduzioni circa fatti di cui sia stato omesso l’esame e che valgano ad evidenziare l’irrazionalità delle valutazioni espresse nella sentenza impugnata.

11. Conclusivamente, il ricorso va rigettato.

Nulla deve disporsi in merito alle spese di lite, in assenza di attività difensiva della Agenzia delle entrate.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 25/06/2021) 19/11/2021, n. 35640

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – rel. Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 4795/2015 R.G. proposto da:

P.A., in proprio e in qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, e M.G., in proprio e nella qualità di ex legale rappresentante della Associazione Calcio Mottese, rappresentati e difesi, in virtù di procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Emanuele Coglitore e dall’avv. Mariagrazia Bruzzone, con domicilio eletto presso il primo in Roma, via Federico Confalonieri, n. 5;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 3428/20/14 della Commissione tributaria regionale della Lombardia depositata in data 25 giugno 2014;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 giugno 2021 dal Consigliere Pasqualina Anna Piera Condello;

lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate propose appello avverso la sentenza pronunciata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano che aveva accolto i ricorsi riuniti presentati da P.A. e M.G., in proprio e quali legali rappresentanti della Associazione Calcio Mottese, avverso gli avvisi di accertamento con i quali era stato rideterminato, con metodo induttivo, il reddito di impresa, per l’anno d’imposta 2005, considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007.

2. La Commissione tributaria regionale, con la sentenza in epigrafe indicata, accolse l’impugnazione.

Osservò, in particolare, che:

a) risultava accertata la partecipazione dei contribuenti nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, quantomeno come legali rappresentanti di fatto e sulla base del regime di responsabilità per le obbligazioni, previsto dall’art. 38 c.c.;

b) nessuna prova era stata fornita, per far ritenere la estraneità dei contribuenti all’attività associativa, in ordine alla cessazione dell’attività ed alla cancellazione della associazione;

c) la notifica degli avvisi di accertamento era valida perchè legittimamente effettuata a mezzo servizio postale, con l’espletamento di tutte le formalità previste;

d) il riferimento dell’avviso di accertamento ad altri atti doveva ritenersi rituale, poichè ne era riprodotto il contenuto essenziale;

e) era rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione l’avvio del contraddittorio preventivo con il contribuente, in presenza di elementi utili e sufficienti, a propria disposizione, per l’accertamento della violazione contestata;

f) l’accertamento risultava “legittimamente effettuato in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno in questione rispetto ai parametri di mercato, mentre appariva del tutto artefatto l’assunto della perdita dell’archivio contabile per lavori di demolizione eseguiti nella struttura e senza che alcuno dei responsabili avesse provveduto alla custodia della documentazione”;

g) le operazioni di sponsorizzazione descritte nell’avviso impugnato erano state poste in essere al solo scopo di consentire alle imprese intestatarie delle fatture di beneficiare della deducibilità dei costi relativi, ai fini delle imposte dirette e dell’Irap, nonchè di detrarre la relativa I.V.A.;

e) a fronte di dichiarazione omessa per l’anno d’imposta in contestazione, l’Ufficio aveva determinato ricavi per operazioni inesistenti nella misura contestata, basandosi su presunzioni gravi, precise e concordanti rispetto alle quali nessuna prova contraria avevano fornito i contribuenti.

3. Contro la suddetta decisione d’appello hanno proposto ricorso per cassazione P.A. e M.G., con sei motivi, ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

L’Agenzia delle entrate, ritualmente intimata, ha depositato “atto di costituzione” al solo fine di partecipare all’udienza di discussione.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo i contribuenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, e della L. n. 4 del 1929, art. 24, anche in relazione alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, art. 41, ed agli artt. 3, 53 e 97 Cost..

Lamentano che per il periodo d’imposta 2005 la fase istruttoria si era esaurita nell’invio di un questionario e nella successiva emissione degli avvisi di accertamento, in assenza di preventiva consegna di un verbale di chiusura delle operazioni di controllo, in contrasto con il diritto dell’Unione Europea, e che un’interpretazione che escluda l’applicabilità del citato art. 12, comma 7, ai procedimenti di verifica cd. “a tavolino” non si pone in sintonia con i principi comunitari.

Con la memoria ex art. 378 c.p.c., i ricorrenti, nell’insistere per l’accoglimento del mezzo di ricorso, prendendo le mosse dalla sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 24823 del 9 dicembre 2015, hanno dedotto che l’avviso di accertamento afferisce anche all’I.V.A. e che, per quanto concerne la pretesa ai fini Ires e Irap, l’ordinamento interno deve comunque rispettare i diritti fondamentali garantiti dall’Unione Europea, con la conseguenza che l’interpretazione fornita dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite che giunge a limitare la piena tutela del diritto al contraddittorio preventivo, in dipendenza della natura non armonizzata dei tributi pretesi, implica una irragionevole disparità di trattamento, contraria al divieto delle cd. “discriminazioni a rovescio”, ossia “situazioni di disparità in danno dei cittadini di uno Stato membro, e delle sue imprese, che si verificano come effetto indiretto dell’applicazione del diritto Europeo”; hanno, quindi, sollecitato una rimeditazione della questione, previa, se del caso, rimessione al vaglio delle Sezioni Unite.

2. Con il secondo motivo i ricorrenti deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., della L. n. 212 del 2000, art. 7, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 e art. 42, comma 2, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55 e art. 56, comma 5, nonchè dell’art. 112 c.p.c..

Pur avendo fin dal ricorso introduttivo eccepito l’illegittimità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, in quanto venivano richiamati atti non allegati e non conosciuti, ed in particolare le fatture asseritamente emesse e rinvenute presso la L.D.V. s.r.l. e presso l’impresa individuale Doratura Metalli di S.G., riconducibili agli anni d’imposta 2006 e 2007, i giudici di appello avevano assunto apoditticamente che il riferimento, contenuto nell’atto impositivo, ad altri atti doveva ritenersi rituale, perchè ne era stato riprodotto il contenuto essenziale.

Si dolgono, inoltre, che, in violazione dell’art. 2697 c.c., neppure la C.T.R. ha attribuito rilevanza alla mancata produzione in giudizio, da parte dell’Agenzia delle entrate, delle fatture rinvenute nel corso degli accessi mirati nei confronti della L.D.V. s.r.l. e della impresa individuale Doratura Metalli di S.G.; piuttosto, modificando la motivazione dell’avviso di accertamento, i giudici di appello erano giunti ad affermare che l’accertamento risultava legittimamente effettuato “in presenza della sproporzione delle fatture emesse nell’anno in questione” (ossia nel 2005), sebbene nell’atto impositivo si facesse riferimento a fatture che avrebbero “concorso alla determinazione della base imponibile ai fini delle II.DD e IVA per gli anni d’imposta 2006 e 2007” – la cui esistenza era sempre stata contestata – non tenendo conto che il reddito d’impresa asseritamente “conseguito” nel 2005 era stato determinato “considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007” ed avallando un’inferenza presuntiva non basata su fatti certi, in contrasto con l’art. 2727 c.c., che esige la ricorrenza di un “fatto noto” per fondare la prova per presunzioni.

3. Con il terzo motivo i contribuenti censurano la decisione impugnata per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nella parte in cui i giudici di secondo grado hanno affermato che era emersa la loro partecipazione nelle vicende operative della associazione non riconosciuta, pur a fronte della prova, fornita nel giudizio di merito, della cessazione dell’attività dell’Associazione, intervenuta in data 31 maggio 2011, come da comunicazione inoltrata all’Agenzia delle entrate ed all’Ufficio Siae competente.

4. Con il quarto motivo denunciano la violazione dell’art. 112 c.p.c., lamentando che i giudici di appello avrebbero omesso di pronunciarsi sul motivo, dedotto nel ricorso introduttivo di primo grado, con il quale era stata eccepita l’illegittimità dell’atto impositivo in quanto rivolto ad ente non più esistente, nonchè sull’ulteriore motivo di intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva per il periodo d’imposta 2005. Nessun riferimento, secondo i ricorrenti, era peraltro contenuto in sentenza con riguardo all’altro motivo con il quale era stato contestato che l’associazione, essendo sportiva dilettantistica, aveva scelto il regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991.

5. Con il quinto motivo deducono violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, nonchè dell’art. 137 c.p.c..

Nel giudizio di merito avevano eccepito la giuridica inesistenza della notificazione dell’avviso di accertamento, ferma restando l’inoperatività della sanatoria del vizio di notificazione, stante l’intervenuta decadenza dall’esercizio della funzione impositiva al momento della proposizione del ricorso, nel gennaio 2012.

6. Con il sesto motivo – rubricato: violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53 e art. 11, comma 2, nonchè dell’art. 75 c.p.c., comma 3, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – ribadiscono che in secondo grado avevano preliminarmente eccepito l’inammissibilità dell’appello, in quanto non sottoscritto dal direttore dell’Ufficio, ma dal Capo Team ( C.A.) senza produzione di delega; inoltre, avevano prodotto estratto del sito internet dell’Agenzia delle entrate dal quale non risultava che la predetta persona rivestisse la qualifica dirigenziale.

7. Il primo motivo è infondato.

7.1. Occorre premettere, in primo luogo, che nella vicenda in esame l’Amministrazione finanziaria non ha compiuto una verifica fiscale presso l’Associazione Calcio Mottese. L’avviso di accertamento, come sottolineato dagli stessi ricorrenti, è stato adottato all’esito dell’invio di un questionario, sicchè la ripresa fiscale è riconducibile ad una ipotesi di accertamento cd. “a tavolino”, rispetto al quale è legittimo, anche ai fini del contraddittorio (in particolare per le imposte dirette), che il primo atto portato alla conoscenza del contribuente sia lo stesso avviso (Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823).

Già da tale fatto deriva l’insussistenza di un obbligo generalizzato di redazione del processo verbale di constatazione, conclusione che questa Corte, del resto, ha ripetutamente ribadito, sottolineando che l’attività di controllo dell’Amministrazione finanziaria non deve necessariamente concludersi con la redazione di un processo verbale di constatazione (Cass., sez. 5, 27/04/2018, n. 16546; Cass., sez. 5, 8/05/2019, n. 12094).

In ogni caso, non ha rilievo il richiamo alla L. n. 4 del 1929, art. 24, che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, imporrebbe sempre l’adozione di un processo verbale con il quale siano contestate le violazioni finanziarie, avendo questa Corte precisato che “in tema di violazione di norme finanziarie (nella specie, in materia di IVA), il processo verbale di constatazione, redatto dagli organi accertatori in occasione di verifiche presso il contribuente e previsto dalla L. n. 4 del 1929, art. 24, non deve necessariamente contenere le contestazioni, potendo avere una molteplicità di contenuti, valutativi o meramente ricognitivi di fatti o di dichiarazioni, che, per la libera valutazione dell’amministrazione finanziaria prima e dell’autorità giudiziaria poi, possono comunque dare luogo alla emissione di avvisi di accertamento” (Cass., sez. 5, 11/12/2013, n. 27711; Cass., sez. 5, 29/12/2017, n. 31120), con la conseguenza che la redazione di un processo verbale di constatazione non è necessaria per rendere legittimo un successivo avviso di accertamento perchè è in esso che si esterna ciò che si è constatato.

7.2. E’ insegnamento di questa Corte che “Le garanzie procedimentali di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 6 e art. 12, comma 7, trovano applicazione solo al processo verbale di constatazione redatto a chiusura di operazioni di verifica condotte dagli organi dell’Amministrazione finanziaria nei locali destinati all’esercizio di attività commerciali, industriali, agricole, artistiche o professionali e non anche alle verifiche svolte a tavolino, ovvero senza accesso ai locali anzidetti” (Cass., sez. 6-5, 8/02/2017, n. 3408; Cass., sez. 5, 12/02/2014, n. 3142; Cass., sez. 6-5, 13/06/2014, n. 13588, la quale richiama la sentenza a Sezioni Unite di questa Corte n. 18184 del 2013; Cass., sez. U, 9/12/2015, n. 24823), ossia esclusivamente in relazione agli accertamenti conseguenti ad accessi, ispezioni e verifiche fiscali effettuate nei locali ove si esercita l’attività imprenditoriale o professionale del contribuente; ciò, peraltro, indipendentemente dal fatto che l’operazione abbia o non abbia comportato constatazione di violazioni.

7.3. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 24823 del 2015, hanno chiarito che “differentemente dal diritto dell’Unione Europea, il diritto nazionale, allo stato della legislazione, non pone in capo all’Amministrazione fiscale che si accinga ad adottare un provvedimento lesivo dei diritti del contribuente, in assenza di specifica prescrizione, un generalizzato obbligo di contraddittorio endoprocedimentale, comportante, in caso di violazione, l’invalidità dell’atto. Ne consegue che, in tema di tributi “non armonizzati”, l’obbligo dell’Amministrazione di attivare il contraddittorio endoprocedimentale, pena l’invalidità dell’atto, sussiste esclusivamente in relazione alle ipotesi, per le quali siffatto obbligo risulti specificamente sancito; mentre in tema di tributi “armonizzati”, avendo luogo la diretta applicazione del diritto dell’Unione, la violazione dell’obbligo del contraddittorio endoprocedimentale da parte dell’Amministrazione comporta in ogni caso, anche in campo tributario, l’invalidità dell’atto, purchè, in giudizio, il contribuente assolva l’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che l’opposizione di dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto”.

Sulla specifica questione la giurisprudenza di questa Corte non registra sentenze dissonanti, tanto che la pronuncia delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015 è stata seguita da molte altre conformi (ex multis, Cass., sez. 6-5, 31/05/2016, n. 11283; Cass., sez. 6-5, 25/01/2017, n. 1969; Cass., sez. 65, 14/03/2018, n. 6219; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. 6-5, 29/10/2018, n. 27421; Cass., sez. 5, 8/10/2020, n. 21695; Cass., sez. 5, 6/05/2021, n. 11913; Cass., sez. 5, 15/07/2021, n. 20157).

7.4. Ciò posto, vanno disattesi i dubbi sollevati dai ricorrenti in ordine alla legittimità della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, (come interpretato dalla su menzionata decisione delle Sezioni unite n. 24823 del 2015), per contrasto con la normativa comunitaria ed i principi sanciti dalla Carta costituzionale.

Invero, come evidenziato dalle Sezioni Unite nella sentenza citata (n. 24823 del 2015), il dato testuale della L. n. 212 del 2000, detto art. 12, comma 7, univocamente tendente alla limitazione della garanzia del contraddittorio procedimentale alle sole “verifiche in loco”, è da ritenersi “non irragionevole”, in quanto giustificato dalla peculiarità stessa di tali verifiche, “caratterizzate dall’autoritativa intromissione dell’Amministrazione nei luoghi di pertinenza del contribuente alla diretta ricerca di elementi valutativi a lui sfavorevoli; peculiarità che giustifica, quale controbilanciamento, il contraddittorio al fine di correggere, adeguare e chiarire, nell’interesse del contribuente e della stessa Amministrazione, gli elementi acquisiti presso i locali aziendali”.

Siffatta peculiarità, differenziando le due ipotesi di verifica (“in loco” e “a tavolino”), giustifica e rende non irragionevole il differente trattamento normativo delle stesse, con conseguente manifesta infondatezza della ipotizzata incostituzionalità della norma con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. (Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720) Con riferimento all’art. 3 Cost., deve parimenti escludersi una questione di costituzionalità, per la duplicità di trattamento giuridico tra “tributi armonizzati” e “tributi non armonizzati”, atteso che, come viene evidenziato dalla richiamata sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 2015, l’assimilazione tra i due trattamenti è preclusa in presenza di un quadro normativo univocamente interpretabile nel senso dell’inesistenza, in campo tributario, di una clausola generale di contraddittorio procedimentale.

Del resto, poichè il sistema di tassazione diretta, nel suo complesso, non ha alcun rapporto con quello dell’I.V.A., non può ritenersi che una soluzione in tema di contraddittorio endoprocedimentale in materia I.V.A., diversa da quella espressa per i tributi diretti, crei un vulnus al principio di non discriminazione sul versante comunitario, nè a quello della ragionevolezza sul piano interno (cfr. Corte di Giustizia, 17 marzo 2007, causa C-35/05; Cass., sez. 5, 27/09/2013, n. 22132; Cass., sez. 5, 14/04/2021, n. 9720).

7.5. Tale assetto risulta, dunque, coerente sia con i principi costituzionali che con la normativa comunitaria che risulta garantita in ambito giurisdizionale attraverso la cd. “prova di resistenza” di cui al principio indicato dalle Sezioni unite con la decisione n. 24823 del 2015, attraverso la verifica delle ragioni che il contribuente avrebbe potuto far valere se il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato ed ancora che “l’opposizione di dette ragioni si riveli non puramente pretestuosa e tale da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede e al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto” (in senso conforme, anche Cass., sez. 6-5, 18/03/2016, n. 5502). Non si ravvisano, dunque, ragioni per discostarsi dai principi sopra enunciati e per rimettere nuovamente la questione all’esame delle Sezioni Unite.

7.6. Nel caso di specie, alla stregua di quanto sopra esposto, il contraddittorio endoprocedimentale invocato non trova applicazione quanto alle imposte dirette, dal momento che non risulta dalla lettura del ricorso e della sentenza che sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività imprenditoriale dell’Associazione.

In relazione alla ripresa I.V.A., a cui pure si riferisce l’avviso di accertamento, l’obbligo del contraddittorio in linea di principio sussiste, ma questo Collegio deve rilevare che i contribuenti non hanno assolto correttamente alla c.d. prova di resistenza, in quanto, pur richiamando in ricorso le censure svolte con il ricorso introduttivo, hanno omesso di indicare le specifiche circostanze che avrebbero rappresentato se fosse stato promosso dall’Ufficio il contraddittorio nei loro confronti.

Avendo piuttosto i contribuenti genericamente affermato che se fosse stato loro consegnato un processo verbale a chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo avrebbero potuto prospettare, sin dalla fase istruttoria e prima dell’emissione del provvedimento impositivo, ragioni che non si appalesavano pretestuose, deve escludersi che essi abbiano assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbero potuto far valere, sicchè, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, (Cass., sez. 5, 23/01/2020, n. 1505; Cass., sez. 6-5, 27/07/2018, n. 20036; Cass., sez. un., n. 24823 del 2015, cit.), la sentenza impugnata va esente dalle censure ad essa rivolte.

8. Infondato è il quarto motivo, che va esaminato con priorità perchè concernente un error in procedendo, in quanto gli specifici motivi di gravame formulati nel giudizio di merito (illegittimità dell’atto impositivo perchè rivolto ad ente non più esistente, decadenza dell’Amministrazione dall’esercizio della funzione impositiva per l’anno d’imposta 2005, assoggettamento dell’Associazione Sportiva dilettantistica al regime fiscale forfettario della L. n. 398 del 1991), sui quali la C.T.R. non si è espressamente pronunciata, devono intendersi implicitamente disattesi dai giudici di appello.

Non ricorre, infatti, il vizio di omessa pronuncia di una sentenza di appello quando, pur non essendovi un’espressa statuizione da parte del giudice in ordine ad un motivo di impugnazione, tuttavia la decisione adottata comporti necessariamente la reiezione di tale motivo, dovendosi ritenere che tale vizio sussista solo nel caso in cui sia stata completamente omessa una decisione su di un punto che si palesi indispensabile per la soluzione del caso concreto. (Cass., sez. 6 – 1, 4/06/2019, n. 15255; Cass., sez. 2, 13/08/2018, n. 20718; Cass., sez. 5, 6/12/2017, n. 29191).

9. Anche il quinto motivo deve essere respinto.

9.1. Dalla illustrazione della censura emerge che, nel caso di specie, la notifica è avvenuta direttamente a mezzo del servizio postale.

Costituisce ormai principio consolidato di questa Corte quello secondo cui, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta dell’atto impositivo, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (ex multis, Cass., sez. 5, 4/04/2018, n. 8293) e, pertanto, la disciplina relativa alla raccomandata con avviso di ricevimento, mediante la quale può essere notificato l’avviso di accertamento senza intermediazione dell’ufficiale giudiziario, è quella dettata dalle disposizioni concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, in quanto le disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890 attengono esclusivamente alla notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 140 c.p.c..

Ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico e l’atto, pervenuto all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (cfr. Cass., sez. 5, 6/06/2012, n. 9111).

9.2. La L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, modificando la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, ha aggiunto, per quanto qui interessa, la previsione che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente “può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982.

A decorrere, pertanto, dal 15 maggio 1998 (data di entrata in vigore della citata L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere “direttamente” alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale (Cass., sez. 5, 10/06/2008, n. 15284). Ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando, ovviamente, quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata. In caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto, il regolamento postale (nel caso di specie, la Circolare n. 70 del 2001 oggetto: poste – condizioni generali del servizio postale – D.M. 9 aprile 2001 su G.U. n. 95 del 24.4.2001), contenente la disciplina del servizio postale ordinario, si limita a prevedere, all’art. 32, che, per gli “invii a firma” (tra cui le raccomandate), “in caso di assenza all’indirizzo indicato, il destinatario e le altre persone abilitate a ricevere l’invio” possono “ritirarlo presso l’ufficio postale di distribuzione, entro i termini di giacenza previsti dall’art. 49”.

9.3. Come chiarito da questa Corte, “in tema di notificazione dell’atto impositivo effettuata a mezzo posta direttamente dall’Ufficio finanziario, al fine di garantire il bilanciamento tra l’interesse del notificante e quello del notificatario, deve farsi applicazione in via analogica della regola dettata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di rilascio dell’avviso di giacenza, ovvero dalla data del ritiro del piego, se anteriore, decorrendo da tale momento il termine per l’impugnazione dell’atto notificato” (Cass., sez. 6- 5, 2/02/2016, n. 2047), in quanto il regolamento del servizio di recapito non prevede la spedizione di una raccomandata contenente l’avviso di giacenza (Cass., sez. 5, 28/05/2020, n. 10131; Cass., sez. 5, 14/11/2019, n. 29642).

La Corte costituzionale, con la sentenza del 23 settembre 1998, n. 346, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8, nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento. Tuttavia, la sentenza della Corte Costituzionale riguarda la diversa modalità di notificazione a mezzo posta curata dall’Ufficiale Giudiziario, alla quale si applica la disciplina di cui alla L. n. 890 del 1982, compreso la norma in oggetto (Cass., sez. 5, 28/07/2010, n. 17598, che ha confermato la sentenza della Commissione Tributaria regionale che aveva ritenuto valida la notifica dell’invito al contraddittorio endoprocedimentale ai fini dell’accertamento con adesione D.Lgs. n. 218 del 1997, ex art. 5, effettuata con raccomandata, non ritirata presso l’ufficio postale, senza che ad essa fosse seguito l’invio della raccomandata informativa previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, così come modificato a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 346 del 1998).

Il differente iter notificatorio si spiega con la diversità delle fattispecie poste a confronto, comportando la notifica diretta a mezzo del servizio postale un procedimento più agile e semplificato, a tutela delle ragioni del fisco di preminente interesse pubblico. Come evidenziato dalla Corte costituzionale (Corte Cost. 23 luglio 2018, n. 175, che ha ritenuto legittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, nonostante la mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica – CAN – e l’inapplicabilità della L. n. 890 del 1982, art. 7, come modificato con la L. n. 31 del 2008), il ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati è comunque garantito dal fatto che colui che assuma in concreto la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile, può chiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove comprovi, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, la sussistenza di detta situazione. 9.4. La C.T.R., concludendo che la notifica degli avvisi di accertamento, effettuata a mezzo del servizio postale è valida perchè sono state espletate tutte le formalità previste, non è incorsa nelle denunciate violazioni di legge.

10. Il sesto motivo è infondato.

10.1. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, riconoscono la qualità di parte processuale e conferiscono la capacità di stare in giudizio, nelle controversie di competenza delle commissioni tributarie, all’ufficio del Ministero delle finanze – oggi ufficio locale dell’agenzia fiscale – nei cui confronti è proposto il ricorso, organicamente rappresentato dal direttore (Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 6338) o da altra persona preposta al reparto competente, da intendersi per ciò stesso delegata in via generale a sostituire il direttore nelle specifiche competenze (Cass., sez. 5, 28/05/2008, n. 13908; Cass., sez. 5, 8/02/2008, n. 3058), senza necessità di speciale procura.

Qualora non sia contestata la provenienza dell’atto d’appello dall’ufficio competente, le questioni relative agli effettivi poteri del firmatario dell’appello si possono porre solo in chiave di non appartenenza del firmatario all’ufficio appellante o di usurpazione di tali poteri, dovendosi altrimenti presumere che l’atto provenga dall’ufficio e ne esprima la volontà.

10.2. Tale interpretazione, come chiarito da questa Corte (Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138) è conforme al principio di effettività della tutela giurisdizionale, più volte richiamato anche dalla Corte costituzionale – oltre che da questa suprema Corte (Cass., sez. U, 14/02/2006, n. 3116 e Cass. n. 3118 del 2006; Cass., sez. 5, 25/10/2006, n. 22889) – che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità.

Questa Corte ha, altresì, affermato che la legittimazione processuale dell’Ufficio locale trova fondamento nella disciplina regolatrice della materia, costituita dal D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 66, comma 2, che ha istituito le Agenzie Fiscali, rimandando allo Statuto la fissazione dei principi generali relativi all’organizzazione ed al funzionamento dell’Agenzia e nello Statuto e, poi, nel Regolamento di amministrazione delle Agenzie delle Entrate, che hanno stabilito che gli Uffici locali dell’Agenzia corrispondono ai preesistenti Uffici delle Entrate e che agli Uffici locali sono attribuite le funzioni operative ed, in particolare, la gestione dei tributi, l’accertamento, la riscossione e la trattazione del contenzioso; la legittimazione dell’Ufficio locale trae fondamento dalla norma statutaria delegata – Reg., art. 5, comma 1 -, esistente per effetto della norma delegante D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 57, comma 1.

Deve, quindi, ritenersi ammissibile l’atto d’appello proposto dal competente ufficio dell’agenzia delle entrate, recante in calce la firma di un funzionario che sottoscrive in luogo del direttore titolare, non essendo a tal fine necessaria l’esibizione della delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, l’usurpazione del potere d’impugnare la sentenza di primo grado (Cass., sez. 5, 21/03/2014, n. 6691; Cass., sez. 6-5, 26/07/2016, n. 15470; Cass., sez. 5, 30/10/2018, n. 27570; Cass., sez. 5, 31/01/2019, n. 2901; Cass., sez. 5, 25/01/2019, n. 2138).

10.3. Nel caso di specie, i ricorrenti hanno eccepito che il Capo Team che ha sottoscritto l’atto di appello non rivestisse la qualifica di dirigente, ma, poichè non è in contestazione l’appartenenza del sottoscrittore all’Ufficio finanziario, la doglianza, in applicazione dei principi su esposti, va respinta.

11. Il secondo motivo è infondato in relazione a tutti i profili di doglianza denunciati.

11.1. Il requisito formale della motivazione dell’atto impositivo di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 7, deve ritenersi assolto anche attraverso la motivazione per relationem alle risultanze dell’indagine condotta dai verificatori (pacifica è la giurisprudenza di questa Corte in ordine alla piena legittimità di tale forma di motivazione: ex multis Cass., sez. 5, 5/04/2013, n. 8399; Cass., sez. 5, 5/02/2009, n. 2749).

In via generale, l’obbligo dell’Amministrazione di allegare tutti gli atti citati nell’avviso (L. n. 212 del 2000, art. 7) va inteso in necessaria correlazione con la finalità “integrativa” delle ragioni che, per l’Amministrazione emittente, sorreggono l’atto impositivo, secondo quanto dispone la L. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3. Il contribuente ha, infatti, diritto di conoscere tutti gli atti richiamati nell’avviso per integrare la motivazione, ma non anche gli eventuali altri atti il cui contenuto sia (quantomeno nella parte rilevante) già riportato nell’avviso o che siano in esso meramente menzionati, ove la motivazione sia già sufficiente (e la loro menzione abbia, pertanto, mero valore “narrativo”): ne deriva che, in caso di impugnazione dell’avviso sotto tale profilo, non basta per il contribuente dimostrare l’esistenza di atti a lui sconosciuti cui quello impositivo faccia riferimento, occorrendo, invece, la prova che almeno una parte del contenuto di quegli atti, non riportata nell’avviso impugnato, sia necessaria ad integrarne la motivazione (v. Cass., sez. 5, 18/12/2009, n. 26683).

11.2 n giudice d’appello ha dunque correttamente affermato, in base ad un accertamento in fatto che i ricorrenti non hanno specificamente censurato sotto il profilo del vizio di motivazione, che gli avvisi erano adeguatamente motivati, e ciò perchè contenevano, come emerge dall’avviso di accertamento riprodotto dagli stessi contribuenti nel ricorso per cassazione in omaggio al principio di autosufficienza, il riferimento al processo verbale di constatazione del 29 aprile 2011, peraltro notificato anche ad P.A., ed agli accessi mirati del 21 aprile 2011 e del 19 aprile 2011 eseguiti nei confronti delle società L.D.V. s.r.l. e della impresa individuale Doratura Metalli di S.G.. Tanto bastava, infatti, a giustificare l’azione di recupero di maggiore imposta ed a porre l’Associazione sportiva dilettantistica ed il legale rappresentante in grado di apprestare le proprie difese, sia limitandosi alla mera negazione dei fatti costitutivi della pretesa, sia contrastando gli atti impositivi mediante acquisizione di eventuale ulteriore documentazione idonea a smentire le risultanze della verifica.

11.3. Peraltro, la questione relativa all’esistenza della motivazione dell’atto impositivo, quale requisito formale di validità dell’avviso di accertamento (L. n. 212 del 2000, art. 7), va nettamente distinta da quella attinente, invece, alla indicazione ed alla effettiva sussistenza di elementi dimostrativi dei fatti costitutivi della pretesa tributaria (cfr. Cass., sez. 5, 1/08/2000, n. 10052), indicazione che non è richiesta – come dianzi osservato – quale elemento costitutivo della validità dell’atto e che rimane disciplinata dalle regole processuali proprie della istruzione probatoria, le quali trovano applicazione nello svolgimento dell’eventuale giudizio introdotto dal contribuente per ottenerne l’annullamento.

La produzione in giudizio delle fatture emesse dall’Associazione Calcio Mottese e rinvenute nel corso degli accessi mirati di cui si è detto ricade, quindi, nell’ambito degli oneri probatori e non dei requisiti di validità dell’atto impositivo.

11.4. Sotto tale ultimo profilo, i ricorrenti contestano che la C.T.R., ritenendo del tutto legittima la ripresa a tassazione operata per l’anno 2005, non abbiano fatto buon governo dei criteri dettati in materia di ripartizione dell’onere della prova, nè delle norme che regolano la prova presuntiva.

Giova, sul punto, precisare che, in ipotesi quale quella di specie di mancata presentazione della dichiarazione dei redditi, i poteri accertativi dell’Ufficio trovano fondamento e disciplina non già nell’art. 38 (accertamento sintetico) o nell’art. 39 (accertamento induttivo), bensì nella diversa previsione di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 (accertamento d’ufficio). A tal fine l’Ufficio, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o venuti a sua conoscenza, determina il reddito complessivo del contribuente, con facoltà di ricorso a presunzioni c.d. “supersemplici”, anche prive, cioè, dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, che comportano l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, il quale può fornire elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o che è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’Ufficio (da ultimo, Cass., sez. 5, 20/01/2017, n. 1506; Cass., sez. 5, 16/07/2020, n. 15167; Cass., sez. 5, 4/02/2021, n. 2581).

Le argomentazioni poste a sostegno della decisione impugnata non si pongono in contrasto con il principio di diritto innanzi richiamato, dal momento che, a fronte della mancata presentazione della dichiarazione dei redditi da parte dell’Associazione sportiva, i giudici di appello hanno ritenuto del tutto corretta la rideterminazione induttiva dei ricavi operata dall’Amministrazione finanziaria, ottenuta considerando il valore medio dei ricavi accertati negli anni d’imposta 2006 e 2007, in mancanza di prova dell’esistenza di costi relativi all’attività commerciale, non fornita dalle parti contribuenti sulle quali gravava il relativo onere, e della assenza di riscontri che potessero supportare l’assunto della perdita dell’archivio contabile in occasione dei lavori di demolizione eseguiti nella struttura.

La sentenza non incorre, pertanto, nelle violazioni denunciate con il mezzo in esame.

12. Anche il terzo motivo va disatteso.

12.1. La Commissione regionale ha ritenuto provata la partecipazione dei ricorrenti nelle vicende operative dell’Associazione sportiva non riconosciuta e, quindi, sussistente una responsabilità degli odierni ricorrenti quali legali rappresentanti di fatto; in difetto di prova contraria, non offerta dai ricorrenti, l’apprezzamento in fatto svolto dai giudici regionali, non censurato sotto il profilo motivazionale, non può essere rimesso in discussione in questa sede, non essendo ravvisabile la denunciata violazione dell’art. 2697 c.c., che è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti, sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass., sez. 3, 29/05/2018, n. 13395).

12.2. Peraltro, le censure svolte, anche laddove si assume una presunta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., sono sostanzialmente volte a sollecitare una diversa ricostruzione fattuale rispetto a quella operata dalla C.T.R., non consentita in questa sede. Occorre, sul punto, rammentare che la censura in ordine al corretto utilizzo del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve far emergere l’assoluta illogicità o contraddittorietà del ragionamento decisorio (Cass., sez. 1, 26/02/2020, n. 5279), sicchè, sotto tale profilo, la doglianza in esame è inammissibile perchè si risolve in una valutazione alternativa degli indizi e del materiale probatorio, in assenza di specifiche deduzioni circa fatti di cui sia stato omesso l’esame e che valgano ad evidenziare l’irrazionalità delle valutazioni espresse nella sentenza impugnata.

13. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.

Nulla deve disporsi in merito alle spese del giudizio di legittimità in assenza di attività difensiva della Agenzia delle entrate.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 novembre 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 23-03-2021) 11-11-2021, n. 33285

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina – M. –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – Consigliere –

Dott. ANTEZZA F. – rel. est. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 9568/2015 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi n. 12, domicilia;

– ricorrente –

contro

F.E., (C.F.: (OMISSIS)), nato a (OMISSIS), rappresentato e difeso dall’Avv. Cristina Flaccomio, con domicilio eletto presso il citato difensore (con studio in Roma, via G. La Farina n. 6);

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale per l’Umbria n. 625/01/2014), pronunciata il 23 settembre 2014 e depositata il 13 ottobre 2014;

udita la relazione svolta nell’adunanza camerale del 23 marzo 2021 dal Consigliere Fabio Antezza.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle Entrate (“A.E.”) ricorre, con due motivi, per la cassazione della sentenza, indicata in epigrafe, di rigetto dell’appello dalla stessa proposto avverso la sentenza n. 93/01/2013, emessa dalla CTP di Terni, che aveva accolto l’impugnazione dell’avviso di accertamento IVA, IRPEF e IRAP, per l’anno 2006.

2. Il Giudice di primo grado, in particolare, dichiarò nullo l’atto impositivo, emesso anche all’esito di un accesso domiciliare nel corso del quale fu rinvenuta documentazione bancaria fonte di successive indagini finanziarie, per la violazione del termine dilatorio di sessanta giorni di cui alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, (c.d. “statuto dei diritti del contribuente”), con conseguente assorbimento delle altre questioni ed eccezioni.

3. La CTR, con la sentenza oggetto di attuale impugnazione, rigettò l’appello dell’A.E. confermando la statuizione impugnata.

Nel dettaglio, sempre per quanto emerge dalla sentenza impugnata e dagli atti di parte, il Giudice d’appello ritenne violato il contraddittorio endoprocedimentale, sotto il profilo del rispetto del termine dilatorio di cui innanzi, in quanto, a fronte di un PVC consegnato al contribuente il 24 ottobre 2011 all’esito anche di accesso domiciliare, l’avviso di accertamento fu sottoscritto (emanato) il 21 dicembre 2011, quindi ante tempus ed in assenza di particolare e motivata urgenza.

Diversamente da quanto prospettato dall’A.E., la Commissione ritenne difatti ininfluente, ai fini del rispetto del termine in oggetto, che nella specie la notificazione dell’atto impositivo fosse avvenuta oltre il sessantesimo giorno dal rilascio del PVC (in particolare, il 28 dicembre 2011) ed escluse la sussistenza di un caso di particolare e motivata urgenza, non potendosi identificare esso nella mera imminente scadenza del termine decadenziale con riferimento all’adozione dell’avviso di accertamento (perché non annoverabile tra gli eventi imprevedibili).

4. Come premesso, avverso la sentenza di secondo grado l’A.E. ha proposto ricorso fondato su due motivi, sostenuto da memoria, ed il contribuente si è difeso con controricorso (sostenuto da memorie), con il quale prospetta anche profili di “inammissibilità e/o improcedibilità del ricorso” oltre che inammissibilità dei singoli motivi.

Motivi della decisione
1. Priorità logico-giuridica ha la disamina della questione pregiudiziale di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3.

L’eccezione è inconferente in ragione della esposizione sommaria dei fatti di causa che, anche per ragioni di specificità in termini di “autosufficienza”, ha necessitato della riproduzione, nelle loro parti essenziali, tanto della relazione di notificazione dell’avviso di accertamento quanto della sentenza impugnata, ed in merito al prospettato passaggio in giudicato della sentenza di primo grado.

1.1. Infondata è altresì l’eccezione di giudicato della sentenza di primo grado.

Il contribuente, in sostanza, deduce l’inammissibilità dell’appello, alla quale conseguirebbe il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado, in forza del mancato deposito della fotocopia della ricevuta di spedizione del ricorso in appello per raccomandata a mezzo del servizio postale, in violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 e art. 16, comma 3, (applicabili al processo d’appello anche in forza dell’art. 53, medesimo D.Lgs.). L’appellante, in particolare, a detta dello stesso controricorrente, avrebbe depositato, nei termini di cui al citato art. 22, solo la fotocopia del relativo avviso di ricevimento (pag. 5 del controricorso).

Il rilievo non è pertinente anche se, differentemente da quanto prospettato dal ricorrente, con riferimento ad esso non si pone, nella specie, questione d’inammissibilità, potendo questa Corte comunque rilevare d’ufficio una causa d’inammissibilità dell’appello che il Giudice di merito non abbia riscontrato, con conseguente cassazione senza rinvio della sentenza di secondo grado, non potendosi riconoscere al gravame inammissibilmente spiegato alcuna efficacia conservativa del processo di impugnazione (ex plurimis, limitando i riferimenti solo alle statuizioni più recenti: Cass. sez. 2, 19/10/2018, n. 26525, Rv. 650843-01; Cass. sez. 1, 07/07/2017, n. 16863, Rv. 644842-01).

Come emerge dagli atti processuali, conoscibili da questa Corte in ragione della natura processuale della questione in esame, oltre che dal ricorso e dal controricorso (comprese le depositate memorie), nella specie trattasi di notificazione diretta eseguita da “messo notificatore speciale” ( F.D.) dell’A.E. a mezzo posta, L. n. 890 del 1982, ex art. 14 (sulla legittimità costituzionale del citato art. 14 si vedano, in termini generali, Corte Cost., n. 104 del 2019 e Corte Cost., n. 2 del 2020; per l’utilizzabilità del procedimento di notificazione diretta anche con riferimento al ricorso in appello innanzi alle CTR, si vedano, ex plurimis: Cass. sez. 5, 13/07/2016, n. 14273, Rv. 640538-01; Cass. sez. 5, 30/12/2015, n. 26053, Rv. 638459-01; Cass. sez. 5, 18/11/2011, n. 24245, Rv. 620276-01).

Nella specie, la relata apposta dal messo attesta, facente piena prova fino a querela di falso (Cass. sez. 5, 13/02/2008, n. 3433, Rv. 601914-01), la notificazione a mezzo del servizio postale in data 25 novembre 2013. A ciò deve aggiungersi, peraltro, che l’avviso di ricevimento, depositato già in sede di merito e, come esplicitato dallo stesso controricorrente, nei termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 oltre ad indicare la detta data di spedizione in forma manoscritta (quindi giuridicamente irrilevante per i presenti fini), reca il timbro postale relativo alla consegna del plico a familiare convivente del destinatario (con successiva emissione della CAN) indicante la data del successivo 26 novembre 2013.

Sicché, in relazione alla sentenza di primo grado depositata il 7 maggio 2013 (per quanto emerge da ricorso e controricorso), il rispetto dei termini per impugnare (considerato anche il periodo di sospensione feriale) nella specie emerge in forza di plurime circostanze.

Esso, difatti, risulta in forza dell’attestazione di cui alla relata del messo autorizzato dall’A.E. (cfr. Cass. n. sez. 5, 13/02/2008, n. 601914-01), in quanto recante la data del 25 novembre 2013, ma anche dalla data di ricezione del plico emergente dall’avviso di ricevimento (depositato nei termini di cui al citato art. 22), perchè certificata dall’agente postale come avvenuta il 26 novembre 2013 (conformemente a quanto statuito, ex plurimis, da Cass. Sez. U, 29/05/2017, n. 13452, Rv. 644364-03, e, tra le successive conformi, da Cass. sez. 6-5, 11/05/2018, n. 11559, Rv. 648380-01, oltre che da Cass. sez. 5, 08/10/2020, n. 21683, in motivazione, la quale, riprendendo le argomentazioni di cui alle citate Sezioni Unite, ribadisce la necessità che la produzione di copia dell’avviso di ricevimento avvenga, a pena di inammissibilità, nei termini di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22 per la costituzione del ricorrente).

2. Nel merito (cassatorio) il ricorso è infondato.

3. Con i due motivi di ricorso, suscettibili di trattazione congiunta in ragione della connessione delle questioni inerenti i relativi oggetti, si deducono, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e/o falsa applicazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nonchè (motivo n. 1) del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42.

Ci si duole (motivo n. 1), in sostanza, dell’interpretazione data dalla CTR alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, nel senso per cui l’emanazione del provvedimento impositivo, alla quale si riferisce il termine dilatorio in oggetto, coinciderebbe con l’emissione dell’atto e, quindi, con la sua sottoscrizione, e non con la sua successiva notificazione. Per l’A.E., in sintesi, l’atto sottoscritto e non notificato (e, con esso, la pretesa erariale) non avrebbe data certa; esso, in termini maggiormente categorici, non potrebbe considerarsi atto “perfetto”.

In subordine, per l’ipotesi di infondatezza della censura di cui innanzi, con il motivo n. 2 la ricorrente prospetta una rivisitazione dell’approdo costituito da Cass. Sez. U, 29/07/2013, n. 18184, Rv. 627474-01, ravvisante, quale ipotesi di nullità del provvedimento impositivo, l’omesso rispetto del termine dilatorio, qualora lo si legga nel senso dell’irrilevanza, ai fini di essa, della prova che “la mancata partecipazione al procedimento del contribuente avrebbe portato alla enunciazione di un atto diverso (in ulteriore subordine, si sollecita questione pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia ex art. 267 TFUE).

Le prospettazioni di cui innanzi sono argomentate in ragione di principi costituzionali (collaborazione, buona fede, buon andamento e imparzialità dell’attività amministrativa), in forza di statuizioni della Corte di giustizia (Corte giust., sentenza 3 luglio 2014, in cause riunite C-129/13 e C-130/13) nonchè, a dire della ricorrente, dall’ordinanza interlocutoria di questa Corte n. 156 del 9 luglio 2014.

3.1. I motivi in esame sono infondati anche se ammissibili, differentemente da quanto prospettato dal controricorrente che, invece, difendendosi in ordine al motivo n. 1 di ricorso, inammissibilmente, mira sostanzialmente a sindacare, con controricorso, la decisione d’appello per non aver rilevato una presunta novità della domanda tradottasi in motivo d’appello che, peraltro, neanche prospetta di aver dedotto in secondo grado. La risoluzione della questione di cui alla seconda doglianza, invece, al momento della decisione da parte della CTR (e finanche al momento della proposizione del ricorso per cassazione) era ancora in fieri nella giurisprudenza di legittimità, con conseguente non operatività, nella specie, dell’art. 360 bis c.p.c..

3.2. Nel merito cassatorio, occorre muovere da Cass. Sez. U, 29/07/2013, n. 18184, Rv. 627474-01, per la quale l’inosservanza del termine dilatorio di sessanta giorni per l’emanazione dell’avviso di accertamento determina di per sè, salvo che ricorrano specifiche ragioni di urgenza, l’illegittimità dell’atto impositivo emesso ante tempus. Ciò in quanto trattasi di termine posto a garanzia del pieno dispiegarsi del contraddittorio procedimentale, il quale costituisce primaria espressione dei principi, di derivazione costituzionale, di collaborazione e buona fede tra amministrazione e contribuente ed è diretto al migliore e più efficace esercizio della potestà impositiva. Il vizio invalidante, come chiarito dalle Sezioni Unite, non consiste nella mera omessa enunciazione nell’atto dei motivi di urgenza che ne hanno determinato l’emissione anticipata bensì nell’effettiva assenza di detto requisito (esonerativo dall’osservanza del termine), la cui ricorrenza, nella concreta fattispecie e all’epoca di tale emissione, deve essere provata dall’ufficio.

Successivamente, Cass. Sez. U., 09/12/2015, n. 24823 ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto, purchè il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicchè esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito. Non sussiste, poi, alcun obbligo di contraddittorio endoprocedimentale per gli accertamenti ai fini Irpeg ed Irap, assoggettati esclusivamente alla normativa nazionale, vertendosi in ambito di indagini cd. “a tavolino” (e sempre che, nella specie si sia effettivamente trattato di tale tipo di indagini).

3.3. Premesso il quadro normativo di riferimento, in merito all’ambito di operatività del termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, anche in rapporto alla c.d. “prova di resistenza”, il collegio ritiene di dare continuità ai principi di recente sanciti e ribaditi da questa Corte (ex plurimis: Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 701, Rv. 652456-01, Cass. sez. 5, 15/01/2019, n. 702, in motivazione, e Cass. sez. 5, 11/09/2019, n. 22644, Rv. 655048-01), alla luce di una lettura dei citati approdi delle Sezioni Unite nel quadro costituzionale ed Eurounitario di riferimento e, quindi, in applicazione dei due principi cardine del diritto comunitario regolanti il diritto fondamentale al contraddittorio endoprocedimentale (con conseguente insussistenza dei presupposti del rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia sollecitato dalla ricorrente). Tali sono il principio di equivalenza, in virtù del quale le modalità previste per l’applicazione del tributo armonizzato non devono essere meno favorevoli di quelle che riguardano analoghi procedimenti amministrativi per tributi di natura interna, ed il principio di effettività, non dovendo la disciplina nazionale rendere in concreto impossibile o eccessivamente difficile l’esercizio dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione, derivandone che il contribuente deve essere posto nelle condizioni di esercitare il contraddittorio (si vedano: CGUE 18 dicembre 2008 C-349/07 Sopropè – Organizagoes de Calgado Lda contro Fazenda Pública; CGUE 3 luglio 2014 C-129 e 130/13 Kamino International Logistics BV e Da tema Hellmann Worldwide Logistics BV contro Staatssecretaris van Financien, p. 75; CGUE 8 marzo 2017, Euro Park Service C-14/16 p. 36, in materia di rimborsi; CGUE 9 novembre 2017, Ispas C-298/16 p.p. 30,31, resa proprio sull’IVA; CGUE 20 dicembre 2017, Preqù Italia srl C-276/16, p. 45 sul diritto al contraddittorio in materia doganale).

3.4. Orbene, proprio dando continuità ai principi giurisprudenziali sopra esposti, ai fini dell’interpretazione dell’art. 12, comma 7, in oggetto questa Corte ha osservato, in primo luogo, che la norma non a caso non distingue tra tributi armonizzati e non. In via generale, infatti, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, è già stata operata dal legislatore una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio, attraverso la comminatoria espressa di nullità dell’atto impositivo nel caso di mancato rispetto del termine dilatorio di 60 giorni per consentire al contribuente l’interlocuzione con l’Amministrazione finanziaria, a far data dalla conclusione delle operazioni di controllo.

Tale disciplina nazionale, quindi, già a monte, ingloba la “prova di resistenza”, nel pieno rispetto della giurisprudenza della CGUE (Kamino, cit., p. 80; Sopropè, cit., p. 37).

Siffatta interpretazione è al tempo stesso rispettosa anche dei principi generali dell’ordinamento giuridico nazionale civile, amministrativo e tributario, secondo cui la regola della strumentalità delle forme, ai fini del rispetto del contraddittorio, viene meno in presenza di un’espressa sanzione di nullità comminata dalla legge per la violazione in questione.

In secondo luogo, coerentemente con quanto precede, è stato evidenziato da questa Corte, con le statuizioni innanzi già citate, che l’operatività della “prova di resistenza”, di cui alle citate Sezioni Unite del 2015, non può che essere circoscritta al caso di assenza di un’espressa previsione del legislatore nazionale di nullità per violazione del contraddittorio. Solo in assenza di un’espressa sanzione di nullità introdotta dal legislatore per il caso di violazione del contraddittorio, vi può difatti essere spazio per il giudice affinchè possa operare una valutazione ex post, caso per caso, sull’intervenuto rispetto del contraddittorio o meno.

A quanto innanzi si è aggiunta, quale ulteriore logica conseguenza, che, anche per i tributi armonizzati, scatta la prova di resistenza ai fini del contraddittorio endoprocedimentale nel solo caso in cui la normativa interna non preveda la sanzione della nullità.

Specularmente, ove il legislatore già preveda tale sanzione non opera il riferimento alla prova di resistenza.

In conclusione, ai fini delle imposte armonizzate, la prova di resistenza non opera nelle tre ipotesi in cui nei confronti del contribuente sia stato effettuato un accesso, un’ispezione o una verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, dovendosi applicare solo nel caso di verifiche a tavolino.

Ne consegue in definitiva che la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, effettua, nel triplice caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, una valutazione ex ante in merito al rispetto del contraddittorio già operata dal legislatore, attraverso la previsione espressa di una nullità per mancato rispetto del termine dilatorio che già, a monte, ingloba la “prova di resistenza”, sia con riferimento ai tributi armonizzati che in ordine a quelli non armonizzati (non effettuando la norma alcuna distinzione in merito alle conseguenze sanzionatorie).

Sicchè, anche per i tributi armonizzati, tra i quali, come nella specie, l’IVA, scatta la prova di resistenza, ai fini della verifica del rispetto del contraddittorio endoprocedimentale, solo nel caso di mancata previsione da parte della normativa interna della sanzione della nullità, invece prevista dal citato art. 12, comma 7, per l’ipotesi della violazione del termine dilatorio.

3.5. L’applicazione alla fattispecie concreta dei principi di cui innanzi implica che correttamente la CTR ha ritenuto operante il termine dilatorio di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, quindi non necessaria la prova di resistenza (anche per l’IVA), trattandosi di provvedimento impositivo, avviso di accertamento IVA (tributo armonizzato), IRPEF e IRAP (tributi non armonizzati), emesso all’esito di accesso domiciliare.

Parimenti infondata è la censura che si incentra sull’interpretazione del riferimento che il citato comma 7 fa all’emanazione dell’atto ante tempus, in continuità all’orientamento di legittimità attualmente consolidatosi ed in linea con il descritto quadro normativo di riferimento (in forza del consapevole superamento del precedente difforme costituito da Cass. sez. 5, 09/07/2014, n. 15648, Rv. 632232-01).

L’atto impositivo sottoscritto dal funzionario dell’ufficio in data anteriore alla scadenza del termine di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, ancorchè, come nella specie, notificato successivamente alla sua scadenza, è difatti illegittimo, atteso che la norma tende a garantire il contraddittorio procedimentale consentendo al contribuente di far valere le sue ragioni quando l’atto impositivo è ancora in fieri, integrando, viceversa, la notificazione una mera condizione di efficacia dell’atto amministrativo ormai perfetto e, quindi, già emanato (in termini si vedano anche Cass. sez. 5, 31/07/2018, n. 20267, Rv. 650151-01; Cass. sez. 6-5, 12/07/2017, n. 17202, Rv. 644932-01; Cass. sez. 6-5, 07/03/2016, n. 5361, in motivazione; Cass. sez. 6-5, 28/05/2015, n. 11088, in motivazione).

3.6. La lettura del citato art. 12, comma 7, innanzi evidenziata, emergente tanto delle ripercorse Sezioni unite del 2015 quanto dall’ulteriore sintetizzata elaborazione di questa Corte, implica, in questa sede, per la rilevanza con riferimento alla fattispecie, il necessario superamento di quanto statuito da Cass. sez. 5, 26/11/2014, n. 633378-01.

Per tale ultima decisione (comunque antecedente agli approdi di legittimità innanzi riportati), “in tema di contenzioso tributario, deve considerarsi inammissibile per carenza d’interesse concreto del ricorrente la censura relativa al mancato rispetto del termine di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, qualora, in caso di avviso di accertamento emanato prima, ma notificato successivamente alla sua scadenza, il contribuente non abbia formulato alcuna osservazione nei sessanta giorni successivi al rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte degli organi di controllo, attesa l’assenza di un effettivo pregiudizio all’esercizio dei mezzi di tutela accordati dalla legge e, cioè, della possibilità di far valere le proprie ragioni nella fase amministrativa dell’accertamento” (cfr., massima ufficiale).

Da un lato, difatti, tale statuizione implicitamente accede all’orientamento, ora prevalente, consolidato ed in questa sede ribadito, per il quale rileva, ai fini del rispetto del termine dilatorio, il momento dell’emissione del provvedimento inteso in termini di sottoscrizione di esso.

Per altro verso, però, la detta decisione, facendo derivare l’inammissibilità (per carenza d’interesse) della censura relativa alla violazione del citato art. 12, comma 7, dalla mancata formulazione di osservazioni nel termine dilatorio, non si mostra in linea con il suesposto orientamento, pacifico, per il quale, in caso di accesso, ispezione o verifica nei locali destinati all’esercizio dell’attività, il mero non rispetto del termine dilatorio implica nullità, cosi reintroducendo la c.d. “prova di resistenza”.

4. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato con compensazione delle spese del presente giudizio di legittimità, anche in ragione del descritto consolidarsi degli orientamenti oggetto delle questioni prospettate dalla ricorrente.

P.Q.M.
rigetta il ricorso, spese compensate.

Così deciso in Roma, il 23 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2021


Cass. civ. Sez. lavoro, Ord., (ud. 23-06-2021) 09-11-2021, n. 32950

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – rel. Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 10354-2015 proposto da:

D.S.G., G.G. e G.P., nella qualità di eredi di G.D., e da S.D.R., tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA ALBERICO II n. 4, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO BORGIA, rappresentati e difesi dagli avvocati ANDREA LO CASTRO e CONCETTA BOSURGI;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI MESSINA, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato ope legis in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ARTURO MERLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 505/2014 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 10/04/2014 R.G.N. 264/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 23/06/2021 dal Consigliere Dott. DI PAOLANTONIO ANNALISA.

Svolgimento del processo
CHE:

1. la Corte d’Appello di Messina ha respinto l’appello di S.D.R. e di G.D., entrambi direttori di sezione amministrativa inquadrati nell’area D posizione economica D3, avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato la domanda, proposta nei confronti del Comune di Messina, di pagamento della retribuzione di posizione e di risultato prevista dal CCNL 31.3.1999 e dal CCNL 22.1.2004 per i dipendenti del comparto regioni autonomie locali in favore dei titolari di posizione organizzativa di alta professionalità;

2. la Corte territoriale, richiamata la disciplina contrattuale, ha evidenziato che gli appellanti ne avevano invocato l’applicazione sostenendo di aver svolto attività comportanti funzioni di direzione di unità organizzative di particolare complessità, caratterizzate da elevato grado di autonomia gestionale e, pertanto, riconducibili alla previsione del CCNL 31 marzo 1999, art. 8, lett. a), per il personale del comparto autonomie locali;

3. il giudice d’appello ha accertato, in punto di fatto, che in realtà l’ente nel periodo in discussione non aveva ancora completato l’iter procedimentale previsto dalla contrattazione collettiva per l’istituzione delle posizioni organizzative ed ha aggiunto, richiamando giurisprudenza di questa Corte, che il diritto soggettivo può sorgere solo alle condizioni previste dal c.c.n.l. e quindi, prima dell’istituzione e del conferimento formale, il dipendente non può domandare né la retribuzione di risultato e di posizione né il risarcimento del danno da perdita di chances;

4. per la cassazione della sentenza hanno proposto ricorso S.D.R. e gli eredi di G.D. sulla base di due motivi, illustrati da memoria, ai quali ha resistito con controricorso il Comune di Messina.

Motivi della decisione
CHE:

1. il ricorso denuncia, con il primo motivo, violazione ed errata del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, dell’art. 36 Cost., del CCNL 31 marzo 1999, artt. 8 e 9, del CCNL 22 gennaio 2004, art. 10, perché ha errato la Corte territoriale nel ritenere che la domanda dovesse essere respinta per il solo fatto che non fossero state ultimate le procedure previste dalla contrattazione collettiva in relazione alla istituzione ed al conferimento delle posizioni organizzative;

1.1. i ricorrenti, sulla premessa dell’applicabilità alla fattispecie del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52 e dell’art. 36 Cost., sostengono di avere agito per ottenere la retribuzione adeguata alla qualità e quantità del lavoro prestato e di avere invocato i CCNL succedutisi nel tempo solo come parametro di riferimento per la quantificazione del compenso aggiuntivo, che andava riconosciuto, a prescindere dal conferimento dell’incarico con atto formale, in ragione della maggiore complessità dell’attività prestata e della più incisiva responsabilità che dalla stessa derivava;

2. la seconda censura, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, addebita al giudice d’appello l’omesso esame circa un fatto decisivo della controversia oggetto di discussione tra le parti nonché la violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost., comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU;

2.1. assumono i ricorrenti che la Corte territoriale ha del tutto omesso di considerare che l’iter amministrativo era stato già avviato e si trovava in una fase avanzata in quanto l’ente, oltre a deliberare l’istituzione delle posizioni organizzative, aveva anche individuato i criteri generali per la valutazione ed aveva istituito il Nucleo di valutazione;

3. il primo motivo di ricorso è infondato;

questa Corte ha più volte affermato (cfr. fra le tante Cass. nn. 15902/2018; 4890/2018; 28085/2017; 12724/2017; 12556/2017; 14591/2016; 2550/2015; 11198/2015) che il diritto del pubblico dipendente a percepire l’indennità di posizione sorge solo se la P.A. datrice di lavoro ha istituito la relativa posizione, perchè l’istituzione rientra nell’attività organizzativa dell’Amministrazione la quale deve tener conto delle proprie esigenze e soprattutto dei vincoli di bilancio, che, altrimenti, non risulterebbero rispettati laddove si dovesse pervenire all’affermazione di un obbligo indiscriminato;

3.1. è stato precisato anche che l’esclusiva rilevanza da attribuire all’atto costitutivo delle posizioni organizzative, adottato discrezionalmente, comporta che è da escludere che prima dell’adozione di tale atto sia configurabile un danno da perdita di chance per il dipendente che assuma l’elevata probabilità di essere destinatario dell’incarico e l’irrilevanza, ai suddetti fini, di eventuali atti preparatori endoprocedimentali nonché dell’espletamento di fatto di mansioni assimilabili a quelle della posizione non istituita;

3.2. i richiamati principi sono stati affermati da Cass. n. 11198/2015 e da Cass. n. 15902/2018 anche in relazione alla disciplina dettata dal CCNL 31.3.1999 di revisione del sistema di classificazione del personale per il comparto delle regioni e delle autonomie locali e si è evidenziato, in continuità con quanto già statuito da Cass. S.U. n. 16540/2008, che l’apparente diversità di formulazione delle disposizioni contrattuali rispetto a quelle relative ad altri comparti non legittima conclusioni diverse, in quanto le esigenze di servizio sono comunque valorizzate nell’art. 9, che subordina l’istituzione delle posizioni organizzate all’attuazione dei principi di razionalizzazione previsti dal D.Lgs. n. 29 del 1993 (all’epoca vigente), alla ridefinizione delle strutture e delle dotazioni organiche dell’ente, all’istituzione e attivazione dei servizi di controllo interno o dei nuclei di valutazione;

3.3. correttamente, pertanto, la Corte territoriale, all’esito dell’accertamento di fatto non censurabile in questa sede, ha escluso la fondatezza della domanda sul rilievo che la pretesa si riferiva alle funzioni esercitate in un arco temporale in cui non esisteva alcuna posizione organizzativa formalmente istituita dal Comune di Messina, perché l’iter era stato solo avviato dall’ente ed era ancora in corso, in ragione della complessità degli adempimenti e delle scelte organizzative da compiere;

3.4. i ricorrenti non prospettano argomenti che possano indurre il Collegio a rimeditare l’orientamento già espresso ed erroneamente richiamano il principio di diritto affermato da Cass. n. 8148/2018 che si riferisce a fattispecie non assimilabile a quella oggetto di causa perchè in quel caso faceva difetto solo il conferimento formale dell’incarico e le posizioni organizzative erano state formalmente istituite dall’ente, che aveva portato a compimento tutte le procedure, anche quelle inerenti la graduazione degli incarichi, necessario presupposto per l’attribuzione della retribuzione di posizione e di risultato;

4. il secondo motivo è inammissibile, sia perché la censura esula dai limiti del riformulato art. 360 c.p.c., n. 5, come interpretato da Cass. S.U. n. 8053/2014, sia in quanto le argomentazioni svolte sono prive della necessaria specifica attinenza al decisum;

la Corte territoriale, infatti, non ha omesso di considerare che l’iter era già stato avviato (pag. 3 della motivazione) bensì ha ritenuto la circostanza non decisiva alla luce dell’orientamento sopra richiamato, alla stregua del quale il diritto soggettivo può sorgere solo una volta ultimate le procedure ed istituite formalmente le posizioni, senza che possano assumere rilevanza “atti preparatori endoprocedimentali” (pag. 5 della motivazione);

5. in via conclusiva il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

6. ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, come modificato dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, si deve dare atto, ai fini e per gli effetti precisati da Cass. S.U. n. 4315/2020, della ricorrenza delle condizioni processuali previste dalla legge per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto dai ricorrenti.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per competenze professionali, oltre al rimborso spese generali del 15% ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 23 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2021


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 13-07-2021) 18-10-2021, n. 28573

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – rel. Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4052/2020 proposto da:

Repubblica Federativa del Brasile, in persona dell’Avvocato Generale dell’Unione pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Ventiquattro Maggio n. 43, presso lo studio dell’avvocato Giardina Andrea, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Bernava Andrea, Curcuruto Monica, Martuccelli Silvio, giusta procura speciale per Notaio J.A. di (OMISSIS);

– ricorrente –

contro

Fallimento (OMISSIS) S.p.a., in persona del curatore avv. S.S., elettivamente domiciliato in Roma, Viale di Villa Grazioli n. 20, presso lo studio dell’avvocato Albanese Ginammi Lorenzo, rappresentata e difesa dall’avvocato Cesare Fabio, giusta procura in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

Repubblica Federativa del Brasile, in persona dell’Avvocato Generale dell’Unione pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via Ventiquattro Maggio n. 43, presso lo studio dell’avvocato Giardina Andrea, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati Bernava Andrea, Curcuruto Monica, Martuccelli Silvio, giusta procura speciale per Notaio J.A. di (OMISSIS);

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2744/2019 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, pubblicata il 19/11/2019;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/07/2021 dal cons. Dott. LAMORGESE ANTONIO PIETRO;

lette le conclusioni scritte, ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 bis, conv. in L. n. 176 del 2020, del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDECCHIA GIOVANNI BATTISTA, che chiede l’accoglimento del ricorso principale ed il rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Il Tribunale di Arezzo, sezione distaccata di Montevarchi, su ricorso della (OMISSIS) Spa (poi fallita), emetteva decreto ingiuntivo n. 47/2012 che ordinava alla Repubblica Federativa del Brasile (RFB) di pagare il residuo importo di Euro 246.771.392,40, a titolo di corrispettivo dell’incarico di progettazione del collegamento ferroviario (TAV) tra (OMISSIS), commissionato alla (OMISSIS) dalla Valec Engenharia Construcoes e Ferrovias S.a. (impresa statale cui era delegato lo sviluppo dell’infrastruttura ferroviaria brasiliana), per il quale la RFB rivestiva la posizione di garante.

La RFB proponeva ricorso ex art. 188 disp. att. c.p.c. (dichiarato inammissibile dal tribunale in data 18 gennaio 2013) per fare dichiarare inefficace il decreto ingiuntivo per inesistenza della notifica e, contemporaneamente, in pendenza dell’esecuzione presso terzi iniziata ai suoi danni, proponeva opposizione che veniva dichiarata inammissibile perchè tardiva: il tribunale riteneva valida la notifica del decreto con sentenza n. 1454/2017, impugnata da RFB dinanzi alla Corte d’appello di Firenze che, con sentenza del 19 novembre 2019, nel contraddittorio con il Fallimento (OMISSIS), dichiarava nulla la notifica del decreto e ammissibile l’opposizione della RFB ex art. 650 c.p.c., ma la rigettava nel merito confermando il decreto opposto.

La Corte territoriale, dichiarando inammissibile il primo motivo di appello con cui RFB aveva censurato la mancata dichiarazione di inesistenza della notificazione del decreto, osservava che l’unico mezzo per far valere l’inesistenza della notificazione fosse quello di cui all’art. 188 disp. att. c.p.c. (peraltro già dichiarato inammissibile dal Tribunale in altro procedimento) e non la proposta opposizione a decreto ingiuntivo; che la notifica del decreto non era valida (diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice) nè inesistente ma nulla, in quanto l’atto era comunque pervenuto a un soggetto (Ministero della giustizia brasiliano) ricollegabile alla destinataria RFB, la quale, venutane a conoscenza tardivamente, poteva proporre opposizione ex art. 650 c.p.c.: in particolare, la notifica era stata effettuata a mezzo dell’ufficiale giudiziario tramite corriere internazionale all’autorità consolare italiana in Brasile che lo aveva trasmesso al Ministero della giustizia brasiliano che aveva rimesso la richiesta al Tribunale Superiore di giustizia, il quale, tuttavia, aveva rifiutato l’autorizzazione, ai sensi dell’art. 2 del Trattato del 17 ottobre 1989, ratificato dall’Italia con L. n. 336 del 18 agosto 1993, relativo all’assistenza giudiziaria ed al riconoscimento ed esecuzione delle sentenze in materia civile tra la Repubblica italiana e la Repubblica federativa del Brasile; infine, la Corte dichiarava assorbito il secondo motivo di gravame di RFB e rigettava il terzo, in relazione al quale giudicava la RFB responsabile in via sussidiaria per le obbligazioni inadempiute da Valec, ai sensi dell’art. 37, comma 6 Costituzione brasiliana, e corretta la quantificazione del compenso dovuto; rigettava l’eccezione di giudicato formulata dal Fallimento (OMISSIS) sul presupposto (secondo l’eccipiente) che la fondatezza della pretesa creditoria risultasse da altri decreti ingiuntivi: il n. 314/2011 (nei confronti di RFB, quale garante, per l’importo di Euro 15.000.000,00) e il n. 123/2009 (nei confronti di Valec per l’importo di Euro 246.771.392,40).

Avverso questa sentenza ricorrono per cassazione, in via principale, la RFB con tre motivi e, in via incidentale, il Fallimento (OMISSIS) con due motivi.

Il ricorso è stato esaminato in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, secondo la disciplina dettata dal D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, inserito dalla Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176.

Il P.G. ha depositato requisitoria scritta e le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo, la ricorrente principale RFB denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 188 disp. att. c.p.c., artt. 644 e 645 c.p.c., artt. 4, 15, 16 e 18 del citato Trattato del 17 ottobre 1989, ratificato ed eseguito con L. n. 336 del 1993, e omessa motivazione su un fatto decisivo costituente oggetto del giudizio, per avere dichiarato inammissibile il motivo di appello con cui RFB aveva censurato la mancata declaratoria di inesistenza della notificazione del decreto ingiuntivo n. 47/2012 (che la RFB sosteneva essere stata) effettuata senza rispettare le formalità previste dal Trattato sull’assistenza giudiziaria, il riconoscimento e l’esecuzione delle sentenze in materia civile tra la Repubblica italiana e la Repubblica federativa del Brasile, cioè dall’ufficiale giudiziario a mezzo posta. La Corte avrebbe erroneamente ritenuto che l’unico mezzo per far valere l’inesistenza della notificazione fosse quello di cui all’art. 188 disp. att. c.p.c., mentre era certamente ammessa anche l’azione ordinaria (come quella proposta) per far dichiarare l’inesistenza della notificazione e, di conseguenza, l’inefficacia del decreto.

2.- Il motivo è fondato.

3.- Preliminarmente, si osserva che la Corte territoriale, pur avendo dichiarato inammissibile il motivo di appello di RFB volto a far dichiarare l’inesistenza della notifica e, dunque, l’inefficacia del decreto ingiuntivo n. 47/2012, ha comunque esaminato nel merito la questione della esistenza e validità della notifica del decreto che ha ritenuto nulla (e non inesistente) e ciò le ha consentito coerentemente – ma erroneamente – di ritenere ammissibile l’azione (qualificata in termini) di opposizione tardiva, sulla quale ha deciso nel merito rigettandola.

La censura formulata da RFB è, in realtà, volta chiaramente a contestare la sentenza impugnata nella parte decisiva concernente la valutazione di (esistenza e) nullità della notifica del decreto che è all’origine della valutazione di ammissibilità (e infondatezza) dell’opposizione tardiva di RFB ex art. 650 c.p.c.: in tal senso la censura è fondata per quanto si dirà, benchè indirizzata anche a una ratio (inerente alla dichiarazione di inammissibilità del primo motivo di appello) non decisiva, come si è detto.

3.1.- Peraltro, l’affermazione contenuta nella sentenza impugnata (a pag. 9), secondo cui “l’ipotesi di inesistenza della notifica può ricevere tutela solo ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.c. ((mezzo) già proposto e respinto dal primo giudice, così residuando la sola tutela in via ordinaria) e non con il ricorso all’opposizione a d.i.”, risulta astratta e dunque erronea, la Corte di merito non considerando che l’azione di RFB era volta prioritariamente (con il primo motivo di appello) a dedurre in via ordinaria anche, e soprattutto, l’inesistenza della notifica del decreto.

E’ noto che la mancanza o inesistenza giuridica della notificazione del decreto ingiuntivo possono essere fatte valere, oltre che con il ricorso per la dichiarazione di inefficacia del provvedimento ex art. 188 disp. att. c.p.c., anche in via ordinaria (u.c. stessa disposizione) e con lo strumento dell’opposizione all’esecuzione che si fondi su titolo costituito dal decreto medesimo, diversamente da quanto accade nei casi di notifica nulla o irregolare, nei quali l’inefficacia deve essere fatta valere con l’opposizione tardiva, ai sensi dell’art. 650 c.p.c. (cfr. Cass. n. 5231 e 12870 del 1993, n. 9287 del 1997, n. 11498 del 2000, n. 17478 del 2011, n. 1509 del 2019, n. 9050 del 2020): infatti la notificazione del decreto ingiuntivo comunque effettuata, anche se nulla, è indice della volontà del creditore di avvalersi del decreto stesso, escludendo ogni presunzione di abbandono del titolo, ciò che costituisce il fondamento della previsione d’inefficacia di cui all’art. 644 c.p.c. (cfr. Cass. n. 11498 del 2000, n. 22959 del 2007, n. 17478 del 2011, n. 1509 del 2019).

3.2.- Nè rileva che, nella specie, RFB abbia contestualmente proposto anche ulteriori ragioni difensive (condensate negli altri motivi del ricorso per cassazione), cumulando con l’azione per la dichiarazione di inefficacia del decreto ingiuntivo per inesistenza della notifica quella di opposizione a decreto ingiuntivo, al fine di contestare nel merito la fondatezza della pretesa creditoria di (OMISSIS) e di provocare l’annullamento o la revoca del decreto nell’ipotesi in cui si fosse ritenuta la notifica non inesistente.

Ne consegue che, se e una volta giudicata inesistente la notifica del (e inefficace il) decreto, si verifica il consolidamento della presunzione di abbandono del titolo che preclude l’esame della fondatezza della pretesa creditoria azionata in via monitoria, diversamente da quanto accade nel caso di nullità o irregolarità della notifica che, facendo escludere quella presunzione, onera l’ingiunto di proporre opposizione tardiva, fornendo la prova di non avere avuto tempestiva conoscenza del decreto ingiuntivo, con l’effetto di consentire, in caso positivo, l’esame della causa nel merito.

Le due ipotesi devono essere tenute distinte, non potendosi – al fine di consentire l’esame del merito della pretesa creditoria anche nel caso di notificazione mancata o giuridicamente assente – utilmente richiamare (come invece in Cass. n. 11229 del 2021, al p. 4.3.1 della motivazione) il principio secondo cui l’opposizione proposta al fine di eccepire l’inefficacia del decreto non esime il giudice dal decidere non solo sulla proposta eccezione di inefficacia del titolo, ma anche sulla fondatezza della pretesa creditoria già azionata in via monitoria (cfr. Cass. n. 3908 del 2016, cui adde n. 8955 e 21050 del 2006), essendo tale principio riferito al ben diverso caso di avvenuta notificazione del decreto ingiuntivo oltre i termini di legge. A tal fine, è significativo che il rimedio dell’opposizione a decreto ex art. 650 c.p.c. o in via ordinaria nel termine prefissato dal provvedimento notificato (cfr. Cass. n. 3783 del 1995, n. 67 del 2002) è ritenuto applicabile anche alla notificazione del decreto ingiuntivo fuori termine (cfr. Cass. n. 8126 del 2010, n. 19239 del 2004), ipotesi che, come nel caso della notificazione nulla o irregolare, postula la pendenza della lite che è realizzata dalla notifica del decreto (art. 643 c.p.c.): comune a tali casi – diversamente da quanto accade se la notifica è inesistente – è che il ricorso per ingiunzione è qualificabile come domanda giudiziale, idonea a costituire il rapporto processuale, sebbene per iniziativa della parte convenuta che si difende anche nel merito, con la conseguenza che è compito del giudice adito provvedere, oltre che sull’eccezione di inefficacia del decreto, anche sulla fondatezza della pretesa azionata nel procedimento monitorio (cfr. Cass. n. 14910 del 2013).

4.- Venendo ad esaminare la questione di fondo inerente alla notifica del decreto ingiuntivo da parte di (OMISSIS), è utile riportare i passi salienti della sentenza impugnata (pag. 10-11): “La comunicazione al Ministero della giustizia brasiliano, da questo poi rimessa al Tribunale Superiore di giustizia, anche se attinge un organo avente palese collegamento con lo Stato brasiliano, non ne importa la notifica al medesimo che, per essere completata secondo le modalità previste dal Trattato, doveva essere successivamente soggetta a commissione rogatoria, come lo fu; ma la medesima doveva essere completata con l’autorizzazione alla notifica da parte dell’autorità giudiziaria incaricata, ovvero del Tribunale Superiore della Giustizia, secondo la normativa dello Stato richiesto, come previsto dall’art. 15, comma 1 del Trattato, ove si afferma “Per l’esecuzione della commissione rogatoria, si applicherà la legge della parte richiesta”. Come è pacifico e documentato – prosegue la Corte fiorentina – tale autorizzazione fu rifiutata ai sensi dell’art. 2 del medesimo Trattato, così oggettivamente escludendosi la conoscenza dell’ingiunzione da parte della Repubblica Federativa del Brasile proprio a causa del mancato completamento della procedura. In altri termini, la notifica dell’ingiunzione è pervenuta a soggetto (Ministero della giustizia brasiliano) ricollegabile al destinatario (RFB), ma non al medesimo: è dunque nulla e non inesistente”. Per queste ragioni la Corte ha affermato che “la sentenza (del Tribunale di Arezzo) va dunque riformata laddove assume la correttezza della notifica in quanto effettuata presso il Ministero della Giustizia brasiliano che, seppure ricollegabile allo Stato brasiliano quale suo organo e competente alla ricezione della richiesta di notifica, non era peraltro legittimato a ricevere la notifica, che in effetti non fu eseguita nei confronti della Repubblica Federativa del Brasile”.

Di conseguenza, ritenendo trattarsi di notifica nulla e non inesistente, la Corte fiorentina ha concluso che la RFB, venuta successivamente a conoscenza dell’ingiunzione, era legittimata a proporre opposizione tardiva ex art. 650 c.p.c. e ha deciso la causa nel merito nel senso della fondatezza della pretesa creditoria del Fallimento (OMISSIS). Questa conclusione, come si è anticipato, non è condivisibile.

4.1.- La nozione di inesistenza della notificazione di un atto giudiziario è configurabile “nei casi di totale mancanza materiale dell’atto, nonchè nelle sole ipotesi in cui venga posta in essere un’attività priva degli elementi costitutivi essenziali idonei a rendere riconoscibile un atto qualificabile come notificazione, ricadendo ogni altra ipotesi di difformità dal modello legale nella categoria della nullità. Tali elementi consistono: a) nell’attività di trasmissione, che deve essere svolta da un soggetto qualificato e dotato, in base alla legge, della possibilità giuridica di compiere detta attività, in modo da poter ritenere esistente e individuabile il potere esercitato; b) nella fase di consegna, intesa in senso lato come raggiungimento di uno qualsiasi degli esiti positivi della notificazione previsti dall’ordinamento (in virtù dei quali, cioè, la stessa debba comunque considerarsi ex lege eseguita), restando, pertanto, esclusi soltanto i casi in cui l’atto venga restituito puramente e semplicemente al mittente, così da dover reputare la notificazione meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (Cass. SU n. 14916 del 2016, n. 29729 del 2019).

La Corte di merito ha affermato che la notificazione della citazione “fu effettuata per la via diplomatica, con invio all’autorità consolare (italiana in Brasile) che trasmetteva l’atto all’autorità centrale (brasiliana, cioè al Ministero della giustizia brasiliano)” (pag. 9).

Sebbene il Trattato italo-brasiliano del 17 ottobre 1989, sull’assistenza giudiziaria in materia civile, preveda l’invio delle comunicazioni e della documentazione “per il tramite delle rispettive Autorità centrali” (art. 4, comma 1) – che avrebbe richiesto l’inoltro dell’atto all’Autorità centrale italiana, cioè al Ministero della giustizia italiano (art. 3 del Trattato), per la successiva trasmissione all’autorità brasiliana competente -, la Corte territoriale ha ritenuto non rilevante la mancanza di tale fase (v. pag. 9 della sentenza impugnata). Per avvalorare tale affermazione (nonostante in un precedente si sia ritenuta inesistente la notifica mediante corriere internazionale, in presenza di convenzione internazionale che preveda specifiche modalità per l’esecuzione delle notificazioni all’estero di atti giudiziari, cfr. Cass. n. 11966 del 2003), si potrebbe considerare che l’atto, seppur impropriamente trasmesso direttamente tramite corriere all’autorità consolare italiana, è comunque pervenuto all’Autorità centrale brasiliana (Ministero della giustizia) per il tramite dell’autorità consolare italiana (cui sono riconosciuti dal D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, art. 30, poteri specifici in materia di notificazioni e rogatorie), risultando, in tal modo, realizzata “la trasmissione (…) per via diplomatica” che è ugualmente ammessa dal Trattato, a norma dell’art. 4, comma 2.

4.2.- Il Collegio reputa comunque decisiva la questione se la notificazione del decreto da parte di (OMISSIS) abbia avuto esito positivo nella fase della “consegna”, in particolare se la stessa possa “considerarsi ex lege eseguita” oppure “meramente tentata ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa” (cfr. SU del 2016 citata). A tal fine, si deve considerare che “l’art. 142 c.p.c., in tema di notificazione a persona non residente, nè dimorante, nè domiciliata nella Repubblica, attribuisce il valore di fonte primaria alle convenzioni internazionali, in difetto delle quali è dato ricorso alla disciplina codicistica interna” (Cass. SU n. 14570 del 2007, n. 11966 del 2003). Le convenzioni internazionali costituiscono fonti di obblighi internazionali vincolanti per lo stesso legislatore (ex art. 117 Cost., comma 1), idonee a conformare il modello legale di notificazione, anche in relazione a suoi scopi.

Nella fattispecie, fonte primaria è il Trattato italo-brasiliano del 1989, alla luce del quale si deve valutare il modo in cui si atteggia, nella fattispecie, il principio che esclude l’inesistenza della notificazione nei casi in cui la consegna dell’atto avvenga a persona ed in luogo comunque riferibili al destinatario (RFB).

Per quanto interessa, è utile riportare le principali disposizioni del suddetto Trattato rilevanti nella specie: l’art. 1 prevede che “ciascuna Parte presta all’altra Parte, su richiesta, assistenza per l’esecuzione degli atti e delle procedure giudiziarie (…), in particolare provvedendo alla notificazione degli atti (…)” e “riconosce e dichiara esecutive (…) le sentenze emesse in materia civile dalle Autorità Giudiziarie dell’altra Parte” (commi 1 e 2); l’art. 2 (rubricato “Rifiuto dell’assistenza, del riconoscimento e dell’esecuzione”) prevede che “L’assistenza giudiziaria nonchè il riconoscimento e l’esecuzione degli atti e delle sentenze saranno negati se sono contrari all’ordine pubblico della Parte richiesta”; l’art. 15 prevede che per la “Esecuzione delle Commissioni Rogatorie” “si applicherà la legge della Parte richiesta” (comma 1); l’art. 16 (“Documenti comprovanti la notificazione di atti”) dispone che “La prova della notificazione dell’atto giudiziario è data da una ricevuta firmata dalla persona che ha ricevuto l’atto ovvero da un attestato dell’autorità competente, entrambi redatti nella forma prevista dalla legge della Parte richiesta. Se la persona alla quale è destinato l’atto da notificare rifiuta di riceverlo, la prova è data da una dichiarazione sottoscritta dall’Ufficiale Giudiziario competente nella quale è fatta menzione del luogo, della data della consegna e della identità della persona cui l’atto è stato consegnato”.

Nella specie, la Corte territoriale ha ritenuto la notifica esistente per essere l’atto comunque pervenuto a un soggetto (il Ministero della giustizia brasiliano) avente un collegamento con la RFB – ma non valida (quindi nulla), a causa dell’esito negativo della commissione rogatoria, a seguito del rifiuto di autorizzazione da parte del Tribunale Superiore di giustizia e, di conseguenza, ammissibile l’opposizione tardiva di RFB. Tuttavia, proprio con riferimento alla notifica di atti giudiziari in Brasile, questa Corte ha ritenuto che la ricezione dell’atto da parte della sola autorità centrale brasiliana (Ministero federale della giustizia) comporta che la notifica debba considerarsi come non avvenuta, cioè che l’atto non è stato notificato al destinatario (cfr. Cass. n. 19839 del 2009), occorrendo pur sempre che siano depositati, a norma degli artt. 4 e 16 del Trattato in esame, la ricevuta firmata dall’effettivo destinatario e l’attestato del funzionario brasiliano competente, previsti dall’art. 16, comma 1, da cui si ricava l’avvenuta consegna del piego o l’eventuale rifiuto di riceverlo.

L’organo individuato nel Trattato come “autorità centrale” (il Ministero della giustizia brasiliano) non coincide con il destinatario della notifica che è la RFB che è rimasta estranea alla procedura notificatoria.

La stessa Corte fiorentina ha affermato che “il Ministero della giustizia (…) non era peraltro legittimato a ricevere la notifica, che in effetti non fu eseguita nei confronti della Repubblica Federativa del Brasile” ed ha escluso che quest’ultima abbia avuto conoscenza dell’ingiunzione “proprio a causa del mancato completamento della procedura” (pag. 9-10), la quale era soggetta a commissione rogatoria conclusasi, secondo la normativa dello Stato richiesto ex art. 15 comma 1 del Trattato, con il diniego di autorizzazione da parte del Tribunale Superiore della Giustizia, in data 1 febbraio 2013.

Seguendo l’opposta linea di pensiero, dovrebbe ravvisarsi nell’inoltro diretto degli atti giudiziari a qualunque organismo statale una modalità riconoscibile come notificazione alla RFB, con l’effetto di aggirare le disposizioni del Trattato che costituiscono fonte normativa primaria in materia, le quali prevedono forme tipiche e non surrogabili di notificazione tra i due Stati (l’art. 1 del Trattato stabilisce che ciascuna parte presta all’altra “assistenza (…) in particolare provvedendo alla notificazione degli atti” e l’art. 2 consente il rifiuto dell’assistenza giudiziaria e dell’esecuzione degli atti e delle sentenze in caso di contrasto con l’ordine pubblico della parte richiesta).

Si deve concludere che la notificazione del decreto è stata meramente tentata da (OMISSIS) ma non compiuta, cioè, in definitiva, omessa e quindi – come rilevato anche dal Procuratore Generale giuridicamente inesistente, esorbitando completamente dallo schema legale degli atti di notificazione, come conformato dalla convenzione applicabile, difettando l’elemento essenziale della consegna dell’atto al destinatario.

5.- La dichiarazione di inesistenza della notifica del decreto non è impedita dal provvedimento di rigetto o inammissibilità di precedente istanza proposta ai sensi dell’art. 188 disp. att. c.p.c., che è privo del requisito della definitività ed avendo il debitore proposto nei modi ordinari, come consentito, la domanda volta a far dichiarare inesistente la notificazione del decreto ingiuntivo e quest’ultimo inefficace (cfr. Cass. n. 5239 del 2018, n. 12614 del 2014).

6.- In conseguenza dell’accoglimento del primo motivo, sono assorbiti gli altri due motivi del ricorso principale di RFB, entrambi diretti a contestare la fondatezza nel merito della pretesa creditoria di (OMISSIS) (per diversi profili: il secondo motivo riguardando la questione della responsabilità sussidiaria di RFB, il terzo quella della debenza del corrispettivo, stante la mancanza del contratto formale), il cui esame (per le ragioni dette sub 3.2) è precluso per non essere il decreto stato notificato, risultando esso inefficace e, in tal senso, fondata l’azione di accertamento di RFB. 7.- Sono assorbiti anche i due motivi del ricorso incidentale del Fallimento (OMISSIS): il primo denuncia violazione del giudicato sull’accertamento della responsabilità sussidiaria di RFB per i debiti contratti da Valec nei confronti di (OMISSIS), per effetto dei decreti ingiuntivi n. 314/2011 (che aveva ingiunto a RFB, quale garante di Valec, il pagamento di Euro 15.000.000,00) e n. 123/2009 (che aveva ingiunto a Valec il pagamento di Euro 246.771.392,40); il secondo motivo denuncia omessa pronuncia sulla eccezione di giudicato nei confronti di RFB, quale garante, in relazione al decreto n. 123/2009 (cd. Valec) non opposto dal debitore principale. Ed infatti, a prescindere dal fatto che gli ipotizzati giudicati, qualora fondati, farebbero venir meno (in tutto o in parte) l’interesse del creditore (OMISSIS) verso la pretesa azionata con il decreto n. 47/2012, avversato in questa sede da RFB, vale il medesimo rilievo già esposto (sub 3.2 e 6): l’inesistenza della notificazione (e conseguente inefficacia) del suddetto decreto, che è oggetto dell’azione ordinaria di accertamento proposta da RFB, preclude l’esame delle questioni inerenti alla fondatezza nel merito della pretesa creditoria racchiusa nel decreto, tra le quali è compresa quella inerente al giudicato che integra pur sempre una questione di merito.

8.- In conclusione, in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, la sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, anche per le spese della presente fase.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso principale di RFB e dichiara assorbiti gli altri motivi del medesimo ricorso e il ricorso incidentale; in relazione al motivo accolto, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Firenze, in diversa composizione, anche per le spese.

Così deciso in Roma, il 13 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2021


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 30-03-2021) 07-10-2021, n. 27270

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 33651/2018 proposto da:

Z.R., in qualità di erede di T.A., rappresentato e difeso dall’avv.to FELICE DE SIMONE, domiciliato presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione;

– ricorrente –

contro

GENERALI ASSICURAZIONI SPA, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO CHINOTTO 1, presso lo studio dell’avvocato STEFANO CARNEVALE, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

contro

C.S.;

– intimato –

contro

C.A., rappresentato e difeso dall’avv.to Giuseppe Colavita, giusta procura speciale in atti domiciliato in Roma, presso la cancelleria civile della Corte di Cassazione;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

avverso la sentenza n. 4340/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 25/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30/03/2021 dal Consigliere Dott. ANTONELLA DI FLORIO.

Svolgimento del processo
1. Z.R., in qualità di erede di T.A., ricorre, affidandosi a due motivi illustrati anche da memoria, per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Napoli, che – riformando la pronuncia con la quale il Tribunale aveva rigettato la domanda di risarcimento dei danni derivanti dal sinistro stradale occorso nel (OMISSIS) e causato dalla collisione fra due motoveicoli, condotti rispettivamente dal T. e da C.A. (collisione dalla quale erano derivate lesioni personali ad entrambi), ritenendo insufficiente la prova raggiunta sulla dinamica del sinistro – aveva riconosciuto il concorso di colpa nella causazione dell’evento fra i conducenti di entrambi i motoveicoli coinvolti ed aveva liquidato la somma a ciascuno spettante, respingendo, tuttavia, la domanda nei confronti della Generali Ass.ni Spa (già Alleanza Toro Spa) in qualità di impresa designata dal FGVS (evocata in giudizio L. n. 669 del 1969, ex art. 19, lett. b), per mancanza di prova della scopertura assicurativa di entrambi i veicoli.

2. Hanno resistito sia C.A., spiegando anche ricorso incidentale sulla scorta di due motivi, sia la compagnia Generali Ass.ni Spa con controricorso.

3. Entrambi hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo il ricorrente principale, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2733 e 2697 c.c. e degli art. 115 e 116 c.p.c..

1.1. Lamenta che la Corte d’Appello aveva violato l’art. 116 c.p.c., in quanto aveva fatto prevalere il proprio libero convincimento sulle emergenze processuali, fondate sulle prove legali raccolte, quali l’interrogatorio formale deferito alla controparte (dal quale emergeva, in termini confessori, l’assenza di copertura assicurativa del motoveicolo da lui condotto), e le prove testimoniali assunte che avevano confermato la medesima circostanza.

1.2. Deduce, altresì, la violazione dell’art. 115 c.p.c., in quanto la decisione aveva omesso di considerare che la parte convenuta aveva spiegato una difesa del tutto generica sulla circostanza relativa alla scopertura assicurativa, proponendo solo nella comparsa conclusionale una eccezione più argomentata ma, comunque, tardiva.

1.3. Si duole, inoltre, della violazione dell’art. 2697 c.c., comma 2, secondo il quale chi eccepisce l’inefficacia dei fatti dedotti deve provare quelli su cui l’eccezione si fonda: tale principio, in thesi, era rimasto del tutto inosservato dalla Corte, tanto più che si trattava di una situazione caratterizzata dalla “vicinanza della prova”, visto che la compagnia di assicurazioni avrebbe certamente ed agevolmente potuto compiere indagini sull’esistenza della copertura assicurativa dei due motoveicoli.

1.4. Lamenta, infine, che non era stata assegnata alcuna valenza al fatto che la Compagnia aveva spiegato azione di rivalsa nei confronti dello stesso C., rendendo una motivazione, pertanto, del tutto contraddittoria.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente si duole inoltre, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio in quanto la Corte territoriale non aveva tenuto conto né delle risultanze della prova testimoniale (dalla quale era emersa la scopertura assicurativa del mezzo), né delle dichiarazioni confessorie rese in sede di interrogatorio formale dall’odierno controricorrente, né della condotta processuale delle parti in relazione alla mancata tempestiva contestazione della scopertura assicurativa.

3. Con il ricorso incidentale proposto da C.A., preceduto dalla espressa adesione ai motivi prospettati nel ricorso principale, vengono dedotte due censure, contenenti argomentazioni ad esso sovrapponibili.

3.1. Con la prima, infatti, si lamenta ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame delle risultanze istruttorie e delle prove testimoniali con violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 116 c.p.c., comma 1 e dell’art. 2967 c.c..

3.2. Con la seconda si deduce, ex art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, error in iudicando ed error in procedendo, con violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 115 c.p.c. e art. 116 c.p.c., comma 1 e della L. n. 990 del 1969, art. 19, lett. b).

4. Deve preliminarmente respingersi l’eccezione sollevata dalla compagnia di assicurazione in relazione al difetto di notifica del ricorso principale e di quello incidentale: si assume, al riguardo, che la notifica a mezzo PEC di entrambi i ricorsi sarebbe priva dell’indicazione dell’elenco da cui era stato estratto l’indirizzo PEC del destinatario, come previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter.

Da ciò deriverebbe, in thesi, la nullità della notifica ed il passaggio in giudicato della sentenza impugnata.

4.1. Il rilievo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di affermare la prevalenza del principio del raggiungimento dello scopo degli atti processuali, in ragione del quale va esclusa l’efficacia invalidante della mancata indicazione, nella relata di notifica, dell’elenco pubblico – tra quelli previsti dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 ter, da cui è stato estratto l’indirizzo di posta elettronica del destinatario (cfr. Cass. Sez. U., 7665/2016; Cass. 6079/2017, 30927/2018).

4.2. E’ stato specificamente affermato, al riguardo, che “le Sezioni Unite di questa Corte, valorizzando l’introduzione del cd. “domicilio digitale”, hanno ritenuto valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-bis, atteso che, proprio in virtù di tale disposizione, il difensore è obbligato a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è a sua volta obbligato ad inserirlo sia nei registri INI-PEC, sia nel ReGIndE, che sono, per l’appunto, pubblici elenchi” (Cass. Sez. U., 23620/2018). Numerose pronunce hanno poi ribadito la piena legittimità di notifiche eseguite presso l’indirizzo PEC risultante dall’indice nazionale degli indirizzi di Posta Elettronica Certificata (INI-PEC) istituito dal Ministero dello Sviluppo Economico, espressamente incluso fra i pubblici elenchi del D.L. n. 179 del 2012, ex art. 16-ter (ex multis Cass. 9893/2019), ribadendo espressamente “il principio, enunciato dalle S.U. n. 23620/2018 (ma, nello stesso senso, già Cass. n. 30139/2017), per cui “in materia di notificazioni al difensore, in seguito all’introduzione del “domicilio digitale”, previsto dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16 sexies, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, conv. con modif. dalla L. n. 114 del 2014, è valida la notificazione al difensore eseguita presso l’indirizzo PEC risultante dall’albo professionale di appartenenza, in quanto corrispondente a quello inserito nel pubblico elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6 bis, atteso che il difensore è obbligato, ai sensi di quest’ultima disposizione, a darne comunicazione al proprio ordine e quest’ultimo è obbligato ad inserirlo sia nei registri INI PEC, sia nel ReGindE, di cui al D.M. 21 febbraio 2011, n. 44, gestito dal Ministero della Giustizia” (Cass. 29749/2019)” (cfr. Cass. 20039/2020 in motivazione).

5. Passando all’esame congiunto, per la sostanziale sovrapponibilità, del ricorso principale e di quello incidentale, il Collegio ritiene che essi siano entrambi infondati.

5.1. La motivazione della Corte territoriale, infatti, pur sintetica in quanto sommariamente riferita alla circostanza che gli attori non avevano affatto fornito la prova della scopertura assicurativa della quale erano onerati, “nemmeno attraverso la prova orale da ognuno indicata” (cfr. pag. 12 della sentenza impugnata), resiste a tutte le critiche prospettate.

5.2. Per ragioni di antecedenza logica deve essere preliminarmente esaminato il secondo motivo del ricorso principale, che risulta inammissibile.

5.3. Infatti, la critica, ricondotta al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, denuncia l’omesso esame di tutto il materiale probatorio raccolto lamentando che la Corte “avrebbe omesso di considerare il fatto decisivo per cui risulta dagli atti, dalle risultanze istruttorie e dalle mancate contestazioni di controparte che i veicoli coinvolti nel sinistro fossero entrambi privi di copertura assicurativa” (cfr. pag. 17 u. cpv. del ricorso): in tal modo, la doglianza si risolve in una critica generica della intera motivazione (non più consentita), non essendo stato indicato quale fosse il fatto storico, principale o secondario, e decisivo per una diversa soluzione della controversia, che la Corte avrebbe omesso di considerare per giungere alla motivazione resa.

5.4. Per il resto, in relazione ai motivi prospettati in entrambi i ricorsi, si osserva preliminarmente come le censure in essi contenute non contengano la contestazione di una errata ripartizione degli oneri probatori fra le parti: ed anzi, il ricorrente principale lamenta, in relazione al primo motivo, “una valutazione imprudente della prova” che si risolverebbe in una interpretazione arbitraria del giudice (cfr. pag. 13 terzo cpv. del ricorso principale), mentre il ricorrente incidentale dà perfino atto di essere consapevole che “la prova della scopertura assicurativa incombe in capo al danneggiato” (cfr. pag. 16 secondo cpv. del suo ricorso) anche se può essere affidata a presunzioni, soprattutto nel caso in cui non sia intervenuta alcuna autorità e non siano stati redatti i relativi verbali.

5.5. Pertanto, pacifico, in relazione al caso di specie, che la scopertura assicurativa rappresenti l’elemento costitutivo della domanda di garanzia spiegata nei confronti della compagnia designata dal FGVS, anche se si tratta di una prova negativa (cfr. in termini Cass. 384/2007; Cass. 14854/2013 e, più specificamente Cass. 26991/2017), le censure proposte, lungi dal denunciare alcuna effettiva violazione del paradigma dell’art. 2697 c.c., nonché di quello dell’art. 116 c.p.c., si limitano a lamentare unicamente una pretesa erronea valutazione di risultanze probatorie.

5.6. Preliminarmente, non è inutile rimarcare come la violazione dell’art. 2697 c.c., si configuri nel caso in cui il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni (cfr. Sez. U., Sentenza n. 16598 del 05/08/2016): in buona sostanza, il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (Cass. 11892/2016).

6. Nel caso di specie, i ricorrenti errano nel ritenere che nell’istruttoria siano state raccolte “prove legali”, in quanto il compendio probatorio è costituito dalle prove testimoniali assunte e dall’interrogatorio formale deferito ad una parte che era (ed è) litisconsorte necessario della compagnia di assicurazione evocata in giudizio dall’altra (L. n. 990 del 1969, ex art. 23, applicabile ratione temporis, norma successivamente trasposta nel D.Lgs. n. 209 del 2005, art. 291, comma 4), qualità che, ex art. 2733 c.c., comma 2, preclude di assegnare valore di prova legale alla confessione su fatti che riguardino entrambi, visto che la norma testé richiamata, in tali casi, rimette esplicitamente al libero apprezzamento del giudice la valutazione delle dichiarazioni rese.

7. Per il resto, le censure si risolvono in una critica alla motivazione.

Vale solo la pena di rilevare, al riguardo, che l’esame della prova testimoniale è rimessa all’insindacabile funzione valutativa del giudice di merito, essendo fondata sul principio del libero convincimento; che la circostanza, apparentemente contraddittoria, rappresentata dall’azione di rivalsa spiegata dalla compagnia, non configura una condotta processuale significativa e significante, volta a dimostrare l’ammissione della scopertura assicurativa contestata, in quanto essa era ragionevolmente imposta da un comportamento difensivo prudenziale; infine, il principio di “vicinanza della prova” è stato invocato in modo talmente generico da risultare recessivo rispetto a tutte le altre argomentazioni prospettate, anche in ragione della circostanza opposta dalla compagnia di assicurazione, concernente l’assenza, all’epoca dei fatti (2003), di un sistema informatico tale da consentire una agevole verifica della copertura assicurativa dei veicoli interessati.

8. Pertanto, il Collegio ritiene che la Corte territoriale sia pervenuta ad una valutazione delle emergenze istruttorie che, pur con motivazione sintetica, mostra di essersi attenuta alla ripartizione degli oneri probatori affermati dalla giurisprudenza di legittimità sopra richiamata, tanto da poter essere considerata al di sopra della sufficienza costituzionale: essa, infatti, può essere agevolmente ricondotta alle ragioni sopra illustrate che rendono entrambi i ricorsi – principale ed incidentale – infondati.

9. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

10. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti principale ed incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello cui sono tenuti per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuti.

P.Q.M.
La Corte;

rigetta il ricorso principale e quello incidentale.

Condanna il ricorrente principale e quello incidentale, in solido, alle spese del giudizio di legittimità in favore della parte controricorrente, spese che liquida in Euro 2900,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e rimborso forfettario spese generali nella misura di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello cui è tenuto per il ricorso proposto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 30 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 ottobre 2021


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 07-05-2021) 29-09-2021, n. 26308

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCRIMA Antonietta – rel. Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18053/2019 proposto da:

Avv. D.C., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso da sè medesimo;

– ricorrente –

e contro

SPEZIA RISORSE SPA, COMUNE di LA SPEZIA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 99/2019 del TRIBUNALE di LA SPEZIA, depositata il 11/02/2019;

1335 udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 7/05/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIETTA SCRIMA.

Svolgimento del processo
Con ricorso della L. n. 689 del 1981, ex art. 22, D.C. propose, dinanzi al Giudice di pace di La Spezia, opposizione avverso l’ingiunzione di pagamento n. prot. 1148/2442 del 14 gennaio 2013, emessa da Spezia Risorse S.p.a. per l’importo di Euro 502,57, relativa a verbali di infrazione del C.d.S., lamentando l’inesistenza della notifica, il vizio di motivazione, la violazione dell’art. 112 c.p.c., l’inutilizzabilità dell’ingiunzione fiscale per la riscossione di sanzioni amministrative, la carenza di potere del concessionario e l’illegittimità della maggiorazione semestrale e chiedendo “nel merito, in via principale, accertare e dichiarare la nullità, l’annullabilità, l’illegittimità e/o comunque (l’inefficacia) dell’ingiunzione di pagamento de qua per i motivi suesposti; nel merito, in subordine, accertare e dichiarare la nullità, l’annullabilità, l’illegittimità e/o comunque (l’inefficacia) dell’ingiunzione di pagamento de qua, relativamente alla sanzione L. n. 689 del 1981, ex art. 27; con vittoria di spese, diritti, onorari ed accessori di legge”.

Si costituì Spezia Risorse S.p.a. che chiese il rigetto dell’opposizione e la chiamata, in causa dell’ente creditore, Comune di La Spezia, che si costituì e chiese, a sua volta, il rigetto della domanda.

Il Giudice adito, con sentenza n. 420/2013, pubblicata il 23 settembre 2013, rigettò la domanda avanzata con l’opposizione.

Avverso tale decisione il D. propose appello, cui resistettero entrambi gli appellati.

Il Tribunale di La Spezia, con sentenza n. 99/2019, pubblicata in data 11 febbraio 2019, rigettò il gravame e condannò l’appellante alle spese di quel grado del giudizio.

Avverso la sentenza del Tribunale D.C. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di cinque motivi.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo è così rubricato: “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del disposto di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 2, lett. d) ed e) e artt. 19 e 24, nonché degli artt. 101 e 115 c.p.c. – omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della carenza di potere del concessionario”.

Con tale mezzo il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui il Tribunale ha ritenuto tardivamente proposte le doglianze relative alla carenza di potere, del concessionario per incompetenza e alla decadenza della ingiunzione di pagamento, per essere state introdotte soltanto con la comparsa conclusionale di secondo grado, sul rilievo che trattavasi di motivi ulteriori di invalidità dell’atto opposto la cui deduzione integrava domanda nuova, inammissibile per mutamento della causa petendi.

Ad avviso del ricorrente si tratterebbe, invece, di eccezioni o mere difese, sempre deducibili e rilevabili anche d’ufficio.

1.1. Il motivo è infondato, in quanto, essendo stato introdotto in primo grado un rimedio impugnatorio, non era possibile già nel prosieguo del primo grado introdurre nuovi motivi a sostegno dell’opposizione e a maggior ragione ciò non era più possibile con la comparsa conclusionale in appello, come correttamente affermato dal Tribunale.

Questa Corte ha peraltro ha già avuto occasione di precisare che l’opposizione all’ingiunzione fiscale integra una domanda diretta all’accertamento dell’illegittimità della pretesa fatta valere con l’ingiunzione stessa, rispetto alla quale l’opponente assume la veste di attore. Ne consegue che il mutamento, in grado di appello, della ragione addotta a sostegno dell’indicata illegittimità configura non un’eccezione nuova – proponibile ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2 – bensì una modificazione della causa petendi e, quindi, dell’originaria domanda, soggetta alla preclusione di cui del citato art. 345, comma 1 (Cass., ord., 4/12/2018 n. 31256, relativa proprio ad una fattispecie inerente alla riscossione di una sanzione amministrativa irrogata per la violazione del C.d.S.), nè quelle dedotte nella comparsa conclusionale in appello possono qualificarsi, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, quali mere difese, sicché avrebbero dovuto, comunque, essere tempestivamente e ritualmente sollevate.

1.2. Va pure rilevato che la sentenza è motivata e che i vizi motivazionali indicati in rubrica, oltre a non essere sussistenti nella specie, neppure risultano indicati nell’illustrazione del mezzo.

2. Con il secondo motivo, rubricato “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26… del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e art. 149 c.p.c.. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto delle nullità – inesistenza della notifica”, il ricorrente lamenta che il Tribunale abbia ritenuto la legittimità della notifica a mezzo posta, pur in. assenza della compilazione della relata di notifica, trascurando, ad avviso del D., di tener conto del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 26 e 60.

2.1. Il motivo è inammissibile in quanto non si correla con la motivazione specificamente enunciata sul punto dal Tribunale, che ha pure richiamato espressamente al riguardo pertinenti precedenti giurisprudenziali (v. sentenza impugnata p. 2-3).

Inoltre, l’illustrazione del motivo si articola anche con considerazioni che suppongono la conoscenza del tenore della notificazione in questione che non viene testualmente riportata nè del relativo atto sono fornite le indicazioni specifiche ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

2.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

3. Con il terzo motivo, rubricato “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione alla violazione della L. n. 212 del 2000, art. 7 (Statuto del contribuente), il D.Lgs. n. 241 del 1990, art. 3, comma 3, sulla “Motivazione del provvedimento”, quale rubrica aggiunta dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 21. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della motivazione per relationem della ingiunzione di pagamento” (così testualmente), il ricorrente censura la sentenza impugnata laddove il Tribunale ha ritenuto che la motivazione per relationem sia da ritenersi valida e sufficiente, contenendo l’ingiunzione quantomeno gli estremi dei verbali che sarebbero stati notificati, dei quali il ricorrente deduce, invece, di averne contestato la notificazione, e sostiene che gli estremi dei verbali non contenenti neppure la violazione contestata né il luogo e il tempo della stessa, ancorché fossero stati richiamati, non avrebbero permesso di integrare la motivazione richiesta all’atto amministrativo, non essendo stati né allegati o riprodotti; assume; infine, che “l’adeguata motivazione dell’atto impositivo deve esserci intesa in un rapporto di relazione con il diritto di difesa del contribuente che deve essere posto in condizione tale da esercitare pienamente il proprio diritto di difesa”.

3.1. Il motivo è inammissibile.

Ed invero le censure proposte sono del tutto generiche in quanto non viene riportato quando e i quali esatti termini la prospettazione di quanto dedotto in ricorso sia stata fatta valere nel giudizio di merito e tanto in violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6.

A quanto precede va aggiunto che il ricorrente neppure ha criticato le specifiche argomentazioni volte dal Tribunale, in particolare con riferimento all’avvenuta notificazione dei verbali al contravventore, come accertato dal primo Giudice con statuizione non specificamente contestata dall’appellante, e con riferimento alla ritenuta insussistenza del vizio di motivazione della sentenza appellata, dovendosi presumere la conoscenza in capo al ricorrente dei verbali presupposti richiamati nell’atto impugnato, stante l’avvenuta notificazione degli stessi e considerato che, anche a prescindere dalla previa notifica, la menzione degli estremi dei verbali consentiva al D. l’esercizio del diritto all’accesso degli stessi (v. sentenza impugnata, p. 3 e 4).

3.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2.

4. Il quarto motivo è così, rubricato; “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione del R.D. n. 639 del 1910, artt. 2 e 3, L. n. 689 del 1981, art. 27, richiamato dall’art. 206 C.d.S.. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della validità del procedimento di cui al R.D. n. 639 del 1910”.

Con il mezzo all’esame il ricorrente censura l’affermazione del Giudice del merito secondo cui anche i Comuni possono avvalersi della riscossione di cui all’ingiunzione fiscale anche per il tramite di agenti di riscossione. Ad avviso del D., invece, le società locali di accertamento e riscossione delle entrate, anche nel caso rispecchino il modello speciale previsto dal D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52, comma 5, lett. b), non sarebbero legittimate a procedere alla riscossione dei proventi derivanti da violazione del C.d.S. mediante ingiunzione di cui al R.D. n. 639 del 1910.

4.1. Il motivo è infondato.

Il ricorrente neppure si cura di mettere in discussione il pertinente precedente di legittimità richiamato dal Tribunale.

Comunque, l’affermazione del Tribunale che viene in questa sede contestata e secondo cui ben può il concessionario per la riscossione di emettere l’ingiunzione di cui a R.D. n. 639 del 1910, è del tutto corretta al luce del consolidato orientamento della giurisprudenza, che il Collegio condivide e al quale va data continuità in questa sede, secondo cui ai fini del recupero delle somme dovute a titolo di sanzione amministrativa per violazione delle norme del C.d.S., i Comuni possono avvalersi della procedura di riscossione coattiva tramite ingiunzione, di cui al R.D. n. 639 del 1910, anche affidando il relativo servizio ai concessionari, iscritti all’albo di cui al D.Lgs. n. 44 del 1997, art. 53, essendo tale affidamento consentito dal D.L. n. 209 del 2002, art. 4, comma 2 sexies, del quale non è intervenuta l’abrogazione – pure inizialmente disposta dal D.L. n. 70 del 2011, art. 7, comma 2, conv. con mod. nella L. n. 106 del 2011 – non essendo entrate in vigore le disposizioni cui essa era subordinata (Cass., ord., 28/09/2017, n. 22710; v., in senso conforme, Cass. 21/03/2019, n. 8039 e Cass., ord., 20/02/2020, n. 4501).

4.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

5. Con il quinto motivo si deduce “Violazione ex art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione alla violazione de(…) (ll’) L. n. 689 del 1981, art. 27. Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), quanto alla motivazione apparente, perplessa ed incomprensibile sul punto della maggiorazione del di(e)ci per cento semestrale”.

Il ricorrente censura l’affermazione del Tribunale secondo cui la maggiorazione del dieci per cento semestrale è legittima quale sanzione aggiuntiva da ritardo” senza null’altro affermare in relazione alle doglianze sollevate al riguardo.

Ad avviso del ricorrente, tale maggiorazione non sarebbe invece dovuta, in quanto la L. n. 689 del 1981, art. 27, riguarderebbe il caso in cui sia stata omessa un’ordinanza o una sentenza “di cui non vi è prova o notizia”.

5.1. Il motivo è infondato. Ed infatti il richiamo alla L. n. 689 del 1981, art. 27, operato dall’art. 206 C.d.S., è integrale; pertanto, la tesi del ricorrente non può essere in alcun modo condivisa, evidenziandosi che, pur non rinvenendosi precedenti specifici sul punto, l’affermazione del Tribunale trova implicita conferma nella giurisprudenza richiamata da quello stesso Giudice ed in quella successiva, che si è espressa in senso conforme, pur se taluni arresti si riferiscono a cartella di pagamento, in quanto i principi ivi affermati ben possono essere applicati al caso di specie. Si fa al riguardo riferimento a Cass., ord., 23/03/2021, n. 8116, secondo cui in materia di sanzioni amministrative (nella specie per violazioni stradali), la maggiorazione del dieci per cento semestrale, della L. n. 689 del 1981, ex art. 27, per il caso di ritardo nel pagamento della somma dovuta, ha natura di sanzione aggiuntiva, che sorge dal momento in cui diviene esigibile la sanzione principale sicchè è legittima l’iscrizione a ruolo, e l’emissione della relativa cartella esattoriale, per un importo che includa, oltre a quanto dovuto per la sanzione principale, anche l’aumento derivante dalla sanzione aggiuntiva (v. anche Cass. 20/10/2016, n. 21259, alla cui esaustiva motivazione si rinvia, e Cass. 1/02/2016, n. 1884).

5.2. In relazione ai vizi motivazionali pure indicati nella rubrica del mezzo all’esame, va ribadito, anche in questa sede, quanto già rilevato al p. 1.2..

6. Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

7. Non vi è luogo a provvedere per le spese del giudizio di cassazione, non avendo gli intimati svolto attività difensiva in questa sede.

8. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del, gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello eventualmente dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 7 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 29 settembre 2021


Cass. civ. Sez. VI – 5, Ord., (ud. 28-04-2021) 27-09-2021, n. 26099

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. CAPOZZI Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28333-2019 proposto da:

BUSINESS FOR FUN SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, V. ELEONORA D’ARBOREA 30, presso lo studio dell’avvocato BERNARDO CARTONI, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1004/15/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE della LOMBARDIA, depositata il 06/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 28/04/2021 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE CAPOZZI.

Svolgimento del processo
che la s.r.l. “BUSINNES FOR FUN” propone ricorso per cassazione nei confronti di una sentenza CTR Lombardia, di rigetto dell’appello proposto avverso una decisione CTP Milano, che aveva dichiarato inammissibile il suo ricorso per omessa produzione degli originali delle tre cartelle di pagamento impugnate; in particolare, la CTR ha ritenuto che la notifica delle tre cartelle di pagamento impugnate, avvenuta a mezzo PEC, era rituale, in quanto le firme digitali di tipo CAdES e di tipo PAdES, pur se con le differenti estensioni “p7m” e “pdf”, erano entrambe validi ed efficaci; ha ritenuto comunque tardivo il ricorso proposto dalla società contribuente; ha ritenuto manifestamente infondata l’eccezione d’incostituzionalità della previsione di un compenso per la riscossione; ha infine ritenuto tardiva l’eccezione di non conformità all’originale delle copie cartacee degli atti prodotti, siccome sollevata solo in appello.

Motivi della decisione
che il ricorso è affidato ad un unico motivo, con il quale la società ricorrente prospetta violazione e falsa applicazione D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, comma 1, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 2, D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 20, comma 1-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto erroneamente la sentenza impugnata aveva affermato che la PEC, con la quale le tre cartelle le erano state notificate, aveva il crisma dell’autenticità, sebbene i files contenenti le cartelle avessero un’estensione “pdf” e non “p7m”; al contrario, l’allegato al messaggio PEC, riproduttivo delle cartelle esattoriali notificate, doveva rappresentare un vero e proprio documento informatico, dotato di firma digitale, si da dover essere generato in formato “p7m”, estensione che rappresentava la c.d. busta crittografica, contenente al suo interno il documento originale, l’evidenza informatica della firma e la chiave per la sua verifica; pertanto la notifica delle tre cartelle, di cui era causa, era da qualificare come giuridicamente inesistente, con la conseguenza che il ricorso di essa società non era tardivo; quanto rappresentato dalla CTR non era condivisibile, avendo essa fatto riferimento ad una sentenza della Cassazione non applicabile alla specie in esame, siccome riferita alla notifica con modalità telematiche degli atti del processo, mentre, nella specie, trattavasi della notifica di cartelle di pagamento, che erano atti amministrativi di natura impositiva, per i quali la riproduzione in formato pdf non era idonea a garantire le esigenze di sicurezza, integrità ed immodificabilità del documento, che potevano assicurare solo i files con estensione “p7m”;

che l’Agenzia delle entrate riscossione (ADER) si è costituita con controricorso;

che l’unico motivo di ricorso proposto dalla società ricorrente è infondato;

che correttamente la CTR ha ritenuto che le tre cartelle di pagamento impugnate fossero state ritualmente notificate alla società ricorrente a mezzo PEC, atteso che, per la validità di detta notifica, non era necessario che i documenti trasmessi avessero estensione “p7m”, essendo sufficiente che essi avessero estensione “pdf”;

che invero la giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. SS. UU. n. 10266 del 2018) ha escluso la sussistenza dell’obbligo esclusivo di usare la firma digitale in formato CADES, nel quale il file generato si presenta con l’estensione finale “p7m”, rispetto alla firma digitale in formato PADES, nel quale il file sottoscritto mantiene il comune aspetto “nomefile.pdf”, atteso che anche la busta crittografica generata con la firma PADES contiene pur sempre il documento, le evidenze informatiche ed i prescritti certificati, si che anche tale ultimo formato offre tutte le garanzie e consente di effettuare le verifiche del caso, anche secondo il diritto Euro unitario, non essendo ravvisabili elementi obiettivi, in dottrina e prassi, tali da far ritenere che solo la firma in formato CADES offra garanzie di autenticità, laddove il diritto dell’UE e la normativa vigente nel nostro paese certificano l’equivalenza delle due firme digitali, egualmente ammesse dall’ordinamento, sia pure con le differenti estensioni “p7m” e “pdf”;

che, in ogni caso, l’eventuale irritualità della notificazione di un atto a mezzo PEC non ne comporta la nullità, se la consegna dello stesso ha comunque prodotto, come nella specie in esame, il risultato della sua conoscenza, ben potendosi applicare alla specie l’istituto della sanatoria per raggiungimento dello scopo, di cui all’art. 156 c.p.c. (cfr. Cass. n. 23620 del 2018); invero, la natura sostanziale e non processuale delle cartelle di pagamento non esclude l’applicabilità alla notifica delle stesse delle norme dettate in materia processuale, essendo tali ultime norme espressamente richiamate nella disciplina tributaria qualificabile come “amministrativa”; e il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 5, concernente la notifica delle cartelle di pagamento, rinvia al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, in materia di notifica degli avvisi di accertamento; e quest’ultimo articolo rinvia alle norme sulle notificazioni nel processo civile, ivi compresa la norma di cui sopra citata, art. 156 c.p.c. (cfr. Cass. n. 6417 del 2019);

che è pertanto da ritenere che la CTR abbia fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziale vigenti in materia di notifiche di cartelle di pagamento a mezzo PEC;

che il ricorso in esame va pertanto respinto, con condanna della società ricorrente al pagamento delle spese processuali, quantificate come in dispositivo;

che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso proposto dalla società contribuente e la condanna al pagamento delle spese processuali, quantificate in complessivi Euro 5.200,00, oltre agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 28 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2021


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 24/11/2020) 12/08/2021, n. 22752

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PERRINO Angelina Maria – Presidente –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. MELE Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23563-2012 proposto da:

EVICAR SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE G. MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO MISIANI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARCO DE BENEDICTIS;

– ricorrente –

contro

AGENZIA ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE (OMISSIS) – AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

EQUITALIA SRT;

– intimata –

Avverso la sentenza n. 116/2011 della COMM. TRIB. REG. della LOMBARDIA, depositata il 20/07/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/11/2020 dal Consigliere Dott. FRANCESCO MELE. Per la cassazione della sentenza della commissione tributaria regionale della Lombardia n. 116/49/2011, depositata il 20/07/2011.

Udita la relazione della causa svolte nelle camere di consiglio del 10 dicembre 2020 e del 24 maggio 2021 dal relatore, cons. Francesco Mele.

Svolgimento del processo

che:

– Evicar srl proponeva separati ricorsi avverso avvisi di accertamento relativi a IRPEF, IRAP ed IVA per l’anno d’imposta 2002 – traenti origine da un PVC della Guardia di Finanza.

– Nel contraddittorio tra le parti, la commissione tributaria provinciale di Cremona rigettava i ricorsi, previamente riuniti, con sentenza che era gravata di appello da parte della società contribuente.

– La commissione tributaria regionale rigettava l’appello.

– Per la cassazione della predetta sentenza la contribuente propone ricorso affidato a tre motivi, al quale resiste, con controricorso, l’Agenzia delle Entrate.

Motivi della decisione

che:

– La ricorrente ha depositato in data 27.11.2019 istanza con cui- dopo avere premesso di trovarsi in fase di esecuzione di concordato preventivo omologato- ha chiesto rinviarsi la trattazione del giudizio, a ragione dell’ivi rappresentato imminente pagamento della obbligazione tributaria per cui è causa, nella misura prevista dalla proposta di concordato preventivo, il che avrebbe comportato la cessazione della materia del contendere; allegava nota del Commissario liquidatore, con acclusa istanza autorizzativa di rinuncia al ricorso, e contenente la precisazione che il pagamento del credito vantato dalla Agenzia delle Entrate non avrebbe potuto avere luogo prima del 15 dicembre 2019: da qui la necessità di differire la trattazione della causa.

– Preso atto di quanto precede e rilevata la evidente opportunità, il collegio ha disposto che la causa venisse rinviata a nuovo ruolo.

– La causa è stata poi trattata all’adunanza camerale del 24.11.2020. – Successivamente all’adunanza parte contribuente ha depositato istanza di cessazione della materia del contendere, veniva disposta rituale riconvocazione del collegio per il 24 maggio 2021. – All’esito della odierna camera di consiglio così fissata, il collegio osserva che risultano versati in atti i modelli F24 attestanti avvenuti pagamenti relativi agli atti impositivi per cui è causa.

– Considerato che non sussiste una perfetta coincidenza tra i versamenti effettuati e gli importi portati negli atti impositivi, va, comunque, rilevata la sopravvenuta carenza di interesse della contribuente -che ha dedotto, appunto, la cessazione della materia del contendere- alla prosecuzione del giudizio con conseguente inammissibilità del ricorso.

– Spese compensate.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile per sopravvenuta carenza di interesse.

Spese compensate.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 24 novembre 2020, il 24 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2021


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 13-07-2021) 30-07-2021, n. 21970

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SPIRITO Angelo – Primo Presidente f.f. –

Dott. DE CHIARA Carlo – Presidente di Sez. –

Dott. ACIERNO Maria – Presidente di Sez. –

Dott. GIUSTI Alberto – Consigliere –

Dott. COSENTINO Antonello – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. NAZZICONE Loredana – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6178-2019 proposto da:

M.A., ME.TI., elettivamente domiciliati in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dagli avvocati NICOLA SCOTTI GALLETTA, MARCO SCOTTI GALLETTA ed ANTONIO SCOTTI GALLETTA;

– ricorrenti –

contro

ZINCONIA S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEL CORSO 504, presso lo studio dell’avvocato NICOLA IELPO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

F.S., B.D.O.J.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 2/2019 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI SEZIONE DISTACCATA DI SASSARI, depositata il 07/01/2019;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/07/2021 dal Consigliere Dott. LOREDANA NAZZICONE;

lette le conclusioni scritte Sostituto Procuratore Generale Dott. DE RENZIS Luisa, la quale chiede che le Sezioni Unite accolgano il primo motivo di ricorso, con assorbimento delle restanti censure.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 18 marzo 2008, la Spinone s.r.l. chiese l’accertamento della simulazione o, in subordine, la revoca ex art. 2901 c.c. di due successivi contratti di compravendita, conclusi l’uno in data 11 aprile 2005 e l’altro il 15 aprile 2005, aventi ad oggetto il medesimo immobile, il primo stipulato tra i venditori Me.Ti. ed M.A. e l’acquirente F.S., ed il secondo tra quest’ultima e B.D.O.J..

Il Tribunale di Tempio Pausania accolse la domanda di simulazione assoluta dei due contratti di compravendita.

Con sentenza del 7 gennaio 2019, n. 2, la Corte d’appello di Cagliari, sezione di Sassari, adita dai soccombenti, ha respinto l’impugnazione.

La corte territoriale ha ritenuto, per quanto ancora rileva, che non fosse inesistente, nè nullo l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, proposto dalla Spinone s.r.l., rappresentata dall’amministratrice unica D.P.C., sebbene tale società fosse stata cancellata dal registro delle imprese sin dal 23 luglio 2004, a seguito di fusione per incorporazione nella Zinconia s.r.l., e ciò per un duplice argomento: perchè la fusione comporta, a norma dell’art. 2504-bis c.c., una mera vicenda evolutivo-modificativa del medesimo soggetto, che permane e conserva la propria identità, pur in un diverso assetto organizzativo; perchè, in ogni caso, l’incorporante si è costituita all’udienza del 6 maggio 2011 innanzi al Tribunale, ratificando l’operato dell’amministratrice della incorporata, donde l’efficacia sanante degli atti compiuti dal falsus procurator.

Nel merito, ha ritenuto infondato sia il motivo concernente la simulazione dell’intero contratto di compravendita del bene immobile, sebbene in comproprietà con la M., non debitrice della società istante, sia il motivo sull’esistenza di idonei elementi a prova della simulazione.

Avverso questa sentenza i soccombenti hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.

Si difende con controricorso la Zinconia s.r.l..

Proposta la trattazione presso la Sezione VI-3, con ipotizzato rigetto del primo motivo di ricorso per la permanenza in vita del soggetto incorporato, su istanza dei ricorrenti la causa è stata rimessa dal Primo Presidente alle Sezioni unite con decreto del 25 settembre 2020, essendosi riscontrato un contrasto di giurisprudenza, con riguardo alla legittimazione processuale della società incorporata cancellata dal registro delle imprese.

Il Procuratore generale ha chiesto l’accoglimento del primo motivo, con assorbimento degli altri due.

Entrambe le parti hanno depositato la memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
I. – I motivi.

I motivi del ricorso possono essere come di seguito riassunti:

1) violazione o falsa applicazione dell’art. 1722 c.c., comma 1, n. 4, e art. 2495 c.c., comma 2, nonchè dell’art. 83 c.p.c., art. 163 c.p.c., comma 3, nn. 2 e 4, e art. 164 c.p.c., in quanto, essendo stata cancellata la Spinone s.r.l. dal registro delle imprese per incorporazione ed essendosi, quindi, estinta, il suo ex amministratore unico, ormai decaduto dalla carica, non avrebbe potuto agire in giudizio per conto della società, nè rilasciare la procura al difensore, ma il giudizio avrebbe dovuto essere, semmai, proposto dalla società incorporante, cui il diritto di credito si è trasferito a seguito della fusione; invece, la sentenza di primo grado è stata resa nei confronti della Spinone s.r.l. ed i ricorrenti solo nell’eseguire le visure camerali, in vista dell’atto di appello, si sono avveduti della cancellazione della società dal registro delle imprese sin dal 23 luglio 2004, a seguito di fusione per incorporazione nella Zinconia s.r.l.. In definitiva, l’atto di citazione e l’intero procedimento sono inesistenti o, in subordine, viziati da nullità assoluta, in quanto la vocatio in ius proviene da soggetto inesistente; nè la corte d’appello avrebbe potuto ritenere sanato il rapporto processuale mediante la costituzione in giudizio della Zinconia s.r.l. in primo grado;

2) in via subordinata, violazione e falsa applicazione dell’art. 1413 c.c. e art. 100 c.p.c., oltre ad omesso esame di fatto decisivo, non avendo la sentenza impugnata considerato la circostanza della comproprietà dell’immobile in capo alla M., non in comunione dei beni con il Me., e della quale la società attrice non era creditrice, onde al più si sarebbe potuta dichiarare la simulazione del contratto solo per la quota del 50%;

3) sempre in via subordinata, falsa applicazione degli artt. 1414 e 2729 c.c., oltre ad omesso esame di fatto decisivo, quanto alla prova della simulazione, che non avrebbe potuto essere dichiarata sulla base degli insufficienti elementi presuntivi in atti.

II. – La “sorte” della società incorporata o fusa.

Gli argomenti esposti dalla corte del merito impongono di ricostruire i profili societari delle operazioni c.d. straordinarie, ed in particolare della fusione.

1. – Le operazioni sociali straordinarie.

1.1. – Le modificazioni che possono interessare il soggetto collettivo e la sua attività, pur nella permanenza dei soci e dell’intrapresa economica sul mercato, sono varie e di diversa intensità, da minima a massima.

Ci si vuol riferire a quelle varie operazioni che, usualmente di competenza dell’assemblea straordinaria, ma a volte anche degli amministratori, comportano un profilo di riorganizzazione dell’impresa e, dunque, ricevono una disciplina ad hoc, atta a renderla giuridicamente più agile ed economicamente meno onerosa, riducendo i costi di transazione.

Si va dal mutamento della denominazione, la quale lascia sussistere il medesimo soggetto, sia pure diversamente nominato; alla cessione e all’affitto di azienda o di ramo d’azienda, ove muta il gestore della stessa, senza modificazione nè soggettiva del concedente, nè oggettiva dell’azienda come universitas facti, quale complesso dei beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa (art. 2555 c.c.), arrestandosi l’efficacia della vicenda modificativa al solo trasferimento della proprietà o godimento dell’azienda (art. 2556 c.c.); alla trasformazione, la quale del pari, sebbene sotto un’altra forma, lascia permanere l’ente nella sua originaria identità; sino alla fusione ed alla scissione, in cui, al contrario, almeno in alcuni casi e per taluni dei soggetti partecipanti (società incorporate, società fuse, società scissa che assegni l’intero suo patrimonio a più società), il mutamento è radicale, con la scomparsa di essi dalla scena giuridica, allo stesso modo dello scioglimento e della liquidazione della società, seguite dalla cancellazione dal registro delle imprese.

1.2. – Pertanto, è stato da tempo chiarito che il mutamento della denominazione sociale configura una modificazione dell’atto costitutivo (Cass. 28 giugno 1997, n. 5798), ma non determina l’estinzione dell’ente e la nascita di un nuovo diverso soggetto giuridico, comportando solo l’incidenza su di un aspetto organizzativo della società (fra le tante, Cass. 29 dicembre 2004, n. 24089); del pari, si è precisato che, in caso di trasferimento della sede sociale all’estero, un mutamento di identità non potrebbe essere ricollegato al contemporaneo cambiamento della denominazione sociale, che non fa venir meno la “continuità” giuridica della società (Cass. 28 settembre 2005, n. 18944).

Nelle società di persone, parimenti, il mutamento della ragione sociale per effetto della sostituzione del socio, come accade per l’unico socio accomandatario ex art. 2314 c.c., determina esclusivamente una modificazione dell’atto costitutivo, ma non la nascita o il mutamento della società in un soggetto giuridico diverso, onde essa non si estingue, nè sorge una diversa società (Cass. 29 luglio 2008, n. 20558; Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826, sia pure massimata, erroneamente, con riguardo alla medesimezza del soggetto nella trasformazione; Cass. 13 aprile 1989, n. 1781; con qualche episodica incertezza: cfr. Cass. 2 luglio 2004, n. 12150, in tema di contenzioso tributario).

Gli stessi principi sono sottesi ad altre decisioni, pur rese in una prospettiva diversa, quale la tutela della denominazione in presenza del mutamento dell’oggetto sociale (Cass. 13 marzo 2014, n. 5931) ed a fronte della prospettata perdita dell’avviamento dovuta al mutamento del nome (Cass. 17 luglio 2007, n. 15950).

1.3. – La cessione di azienda è, del pari, evento che non tocca l’identità soggettiva del cedente e del cessionario, provvedendo agli artt. 2558 c.c. e ss. unicamente a regolamentare il subentro nei contratti, diritti ed obblighi aziendali e fermo restando, sul piano processuale, il regime della successione a titolo particolare nel diritto controverso, laddove ne ricorrano gli estremi: come tale, essa è presupposta nelle pronunce rese in materia (per tutte, Cass., sez. un., 28 febbraio 2017, n. 5054; v., fra le altre, Cass. 10 dicembre 2019, n. 32134).

1.4. – Nella trasformazione – ove il cambiamento organizzativo è più intenso, trattandosi di modificare il tipo sociale o, addirittura, di trascorrere da una struttura societaria ad un’altra che non sia tale, e viceversa – resta che l’operazione comporta soltanto il mutamento formale dell’organizzazione societaria già esistente, non la creazione di un nuovo ente che si distingue dal vecchio, sicchè l’ente trasformato, quand’anche consegua la personalità giuridica di cui prima era sprovvisto (o al converso la perda), non si estingue per rinascere sotto altra forma, nè dà luogo ad un nuovo centro d’imputazione di rapporti giuridici, ma sopravvive alla vicenda modificativa, senza soluzione di continuità e senza perdere la sua identità soggettiva; il patrimonio (mobile ed immobile) della società trasformata resta di proprietà della medesima società, che non cambia, pur nella sua nuova veste e denominazione (v. Cass. 3 agosto 1988, n. 4815).

Tutte le successive decisioni hanno confermato tale principio: osservandosi, ad esempio, che la trasformazione della società in nome collettivo in società in accomandita semplice comporta soltanto il mutamento formale di un’organizzazione societaria già esistente, senza la creazione di un nuovo soggetto distinto da quello originario, onde non incide sui rapporti sostanziali e processuali che al soggetto fanno capo (Cass. 25 marzo 1992, n. 3713).

Lo stesso si reputa nelle ipotesi di trasformazione da società personale a società di capitali (Cass. 12 novembre 2003, n. 17066; Cass. 4 novembre 1998, n. 11077), da società per azioni a s.r.l (Cass. 3 gennaio 2002, n. 26; Cass. 23 aprile 2001, n. 5963), da s.r.l. a società per azioni (Cass. 13 settembre 2002, n. 13434), e così via.

Sino a ribadire costantemente che la trasformazione di una società in un altro dei tipi previsti dalla legge non si traduce nell’estinzione del soggetto e nella correlativa creazione di uno diverso, ma configura una vicenda meramente evolutivo-modificativa del medesimo soggetto (cfr., e plurimis, Cass., sez. un., 31 ottobre 2007, n. 23019; nonchè es. Cass. 19 maggio 2016, n. 10332; Cass. 20 giugno 2011, n. 13467; Cass. 14 dicembre 2006, n. 26826; Cass. 13 settembre 2002, n. 13434; Cass. 23 aprile 2001, n. 5963, ed altre).

1.5. – Lo scioglimento della società, con la sua cancellazione dal registro delle imprese – per esplicito dettato normativo, all’evidenza volto a superare il regime di “diritto vivente” della permanenza in vita sino all’esaurimento di tutti i rapporti pendenti – comporta, invece, l’estinzione della società (art. 2495 c.c.), con subentro dei soci a mò di successori universali per le eventuali sopravvenienze o sopravvivenze non contemplate nel bilancio di liquidazione (Cass., sez. un., 22 febbraio 2010, n. 4060 e Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070, 6071, 6072).

2. – Il fenomeno della fusione di società.

Con tali fenomeni deve essere, a questo punto, confrontata la fusione di società.

Ai sensi dell’art. 2501 c.c., la fusione si attua mediante la costituzione di una nuova società o mediante l’incorporazione in una società di una o più altre.

La peculiarità dell’operazione, analogamente alla scissione, sta nella prosecuzione dei soci nell’attività d’impresa mediante una diversa struttura organizzativa, una volta, evidentemente, venuto meno l’interesse, l’utilità o la possibilità di perseguirla con la società dapprima partecipata.

Sebbene i soci e i patrimoni dei conferenti restino sempre i medesimi che, a suo tempo, avevano concorso all’originario progetto economico mediante la costituzione della primigenia società, si ha che, in seguito, il perseguimento delle finalità economico-patrimonial-finanziarie, nell’esercizio dell’autonomia negoziale garantita dall’art. 41 Cost., avrà indotto ad una riorganizzazione di quella intrapresa, ancora più radicale rispetto ad altre, sopra prospettate.

Diversa certamente la situazione si presenta, dunque, in paragone a quella del mero scioglimento della società: dove l’entità economica viene liquidata e cessa di operare sul mercato, senza nessun subentro di un altro soggetto o la continuazione dell’impresa.

Non si può disconoscere pertanto che – al contrario che nello scioglimento e liquidazione della società – con la fusione l’operazione economica abbia il significato opposto: non l’uscita dal mercato, ma la permanenza dei soci sul medesimo, sia pure in forme diverse.

E, tuttavia, occorre pur ragionare se la società originaria – sia essa liquidata, incorporata o fusa – a seguito della cancellazione dal registro delle imprese si estingua come organizzazione e come soggetto dell’ordinamento giuridico, oppure no.

A riguardo dell’operazione di fusione, un certo disorientamento si è creato all’interno della Corte, donde la rimessione alle Sezioni unite. La ricerca del superamento delle incertezze, a fronte di soluzioni non sistematiche, è particolarmente auspicabile, considerando che la questione può involgere non soltanto ogni tipo di giudizio in cui sia parte una società, ma che anche altri settori dell’ordinamento, diversi dal diritto societario, sono suscettibili di seguire la stessa disciplina (cfr. es. art. 42-bis c.c., in tema di fusione e scissione di associazioni e fondazioni).

2.1. – La tesi della natura evolutivo-modificativa con sopravvivenza della società incorporata o fusa.

2.1.1. – E’ stata affermata, poco dopo l’entrata in vigore della riforma introdotta dal D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, la tesi secondo cui, ai sensi del nuovo art. 2504-bis c.c., la fusione tra società non determina, nelle ipotesi di fusione per incorporazione, l’estinzione della società incorporata, nè crea un nuovo soggetto di diritto nell’ipotesi di fusione paritaria, ma attua l’unificazione mediante l’integrazione reciproca delle società partecipanti alla fusione, risolvendosi in una vicenda meramente evolutivo-modificativa dello stesso soggetto giuridico, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo.

Si tratta della nota ordinanza Cass., sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637, la quale ha così escluso che la fusione per incorporazione determini l’interruzione del processo ai sensi dell’art. 300 c.p.c..

Per vero, dall’intera motivazione dell’ordinanza, resa in sede di regolamento di giurisdizione (su contratto d’appalto di servizi di biglietteria e distribuzione pubblicitaria, relativo alle manifestazioni promosse dalla Fondazione Accademia di Santa Cecilia, e che dichiarò la giurisdizione del giudice amministrativo) – procedimento in cui la ricorrente aveva chiesto fosse dichiarata, ai sensi dell’art. 300 c.p.c., l’interruzione del processo di cassazione, in conseguenza della fusione per incorporazione della società stessa in altra società azionaria – emerge trattarsi di un’affermazione ad abundantiam, secondaria sia quanto al capo specifico, sia nel contesto della complessiva decisione.

In sostanza, la corte ha affermato dapprima il principio di diritto, secondo cui l’estinzione della società, ricorrente per cassazione, dopo il ricorso non determina l’interruzione del giudizio, dominato ormai dall’impulso d’ufficio; e, poi, ha smentito anche l’esistenza della premessa minore, aggiungendo che l’incorporazione non aveva prodotto l’estinzione della società incorporata, con conseguente disapplicazione radicale dell’istituto della interruzione del processo.

Se pure, pertanto, l’affermazione sulla mancata estinzione del soggetto incorporato non integri propriamente un obiter dictum quale passaggio della decisione estraneo al thema decidendum – dal momento che è almeno dubbio se, nel sillogismo giudiziario, volto in tal caso alla pronuncia processuale di interruzione del giudizio, debba costituire primario antecedente logico il presupposto di diritto (l’interruzione del processo non si applica in cassazione) o quello di fatto (la società non era estinta) – resta che l’affermazione non era necessitata.

2.1.2. – La tesi è stata, da allora, seguita da plurime decisioni, le quali hanno fatto proprio il pedissequo richiamo alla “vicenda meramente evolutivo-modificativa”, con esclusione dell’effetto successorio ed estintivo.

Si tratta di pronunce che, per lo più, hanno inteso risolvere questioni processuali, senza indagare le sottese tematiche societarie, ma guidate dal non celato fine di evitare aggravio di incombenti per le parti, ritardi nel processo o formalismi, reputati dal collegio privi di valore a tutela di posizioni od interessi sostanziali e, quindi, vitandi.

Così, quanto alla posizione processuale attiva della parte, alla società incorporata è stato attribuito il potere di impugnazione (fra le altre, cfr. Cass. 16 settembre 2016, n. 18188, che ha riformato la sentenza della corte di appello, la quale aveva dichiarato inammissibile l’impugnazione proposta da società già cancellata dal registro delle imprese per fusione).

Con riguardo alla posizione processuale passiva, numerose pronunce hanno affermato che la società incorporata o fusa possa essere convenuta in giudizio.

Al riguardo, peraltro, una decisione (Cass., sez. un., 17 settembre 2010, n. 19698) non attiene alla fusione post riforma, ma a quella anteriormente perfezionatasi. Essa si occupa di una vicenda processuale in cui sia l’atto di citazione, sia l’appello erano stati notificati alla società incorporata, nonostante la precedente iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione, concludendo per la radicale nullità “sia della vocatio in ius che della notifica dell’atto di citazione, dirette nei confronti di un soggetto non più esistente”, reputate “radicalmente nulle, non essendo stata tale nullità, rilevabile d’ufficio, neppure sanata dalla costituzione in giudizio del soggetto incorporante. Ne consegue l’inesistenza delle sentenze di primo e di secondo grado”. Dunque, la decisione non costituisce precedente, ai fini della questione in esame, in quanto attiene a vicenda ante riforma del 2003, pur avendo reputato necessario confutare, in presenza di estinzione, l’effetto interruttivo del processo a seguito di fusione.

Quanto all’essere la società incorporata destinataria dell’atto di impugnazione, una sentenza di poco posteriore alle citate Sezioni unite del 2006 ritenne ammissibile il ricorso per cassazione, in presenza della notificazione alla società parte del giudizio di merito, ma ormai incorporata in altra prima della notificazione del ricorso (Cass. 23 giugno 2006, n. 14526). La sentenza richiama due precedenti, in tema di mutamento dei soci e di trasformazione (Cass. 13 agosto 2004, n. 15737; Cass. 29 dicembre 2004, n. 24089), assimilando tali fenomeni, per vero diversi, alla fusione; inoltre, come questa Corte ha già rilevato (v. Cass. 15 febbraio 2013, n. 3820), la pronuncia espressamente intese solo tutelare l’affidamento dell’impugnante nella sopravvivenza della società estinta.

La successiva sentenza delle Sezioni unite del 14 settembre 2010, n. 19509 ha affermato, ancora però in una fusione anteriore al 2004, che la società incorporata si estingue, e, ciò nonostante, non è nullo l’atto d’appello indirizzato alla società estinta e notificato presso il procuratore costituito nel giudizio di primo grado, enunciando il principio per cui l’impugnazione è valida, se l’impugnante non abbia avuto notizia dell’evento modificatore della capacità della giuridica mediante la notificazione dello stesso; l’accento, qui, è posto sull’affidamento dell’altra parte processuale.

Nello stesso filone si iscrivono – stavolta con riguardo al testo come modificato nel 2003 – le ordinanze del 18 novembre 2014, n. 24498 e del 12 febbraio 2019, n. 4042, le quali hanno reputato ammissibile l’appello proposto nei confronti della società incorporata.

Altre recenti sentenze richiamano il principio dell’effetto c.d. evolutivo-modificativo, quando, però, ciò non sarebbe stato necessario: l’una, in quanto non occorreva negare l’estinzione dell’incorporata, per reputare che, a seguito della fusione, si abbia la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato o incorporante, essendo ciò il lineare portato della disposizione ex art. 2504-bis c.c. (Cass. 16 maggio 2017, n. 12119); l’altra, avendo invero reputato ammissibile il ricorso per cassazione da parte di società che aveva, sì, deliberato la fusione per incorporazione prima del ricorso, ma a quel momento non era stata ancora cancellata dal registro delle imprese, evento occorso solo dopo la notificazione del ricorso (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32208); la terza, perchè reputa collegati fra di loro in modo necessario due concetti, che in realtà non lo sono, quando afferma che “L’art. 2501 c.c., proprio perchè nulla prevede in termini di estinzione della società incorporata, induce a ritenere che la società incorporante, in quanto centro unitario di imputazione dei rapporti preesistenti, cioè di tutte le posizioni attive e passive già facenti capo all’incorporata, abbia anche la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l’attività della seconda”, ai soli fini della diversa questione dell’attribuzione alla società incorporante della qualifica di responsabile dell’inquinamento ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 253, Codice dell’ambiente (Cass. 10 dicembre 2019, n. 32142).

Non possono rinvenirsi dei precedenti, invece, in quelle pronunce in materia tributaria (cfr. Cass. 4 marzo 2021, n. 5953; Cass. 23 luglio 2020, n. 15757; Cass. 17 luglio 2019, n. 19222), dove vigono, a quei fini, i principi della neutralità e della simmetria fiscale della fusione e della scissione di società (artt. 172 e 173 t.u.i.r.), i quali perseguono l’obiettivo di evitare che si pervenga alla incorporazione di società inattive a fini elusivi e alla fusione di “scatole vuote” o piene solo di perdite da portare “in dote” all’incorporante, esigendosi che la società abbia una residua efficienza, nell’ambito della c.d. disciplina dell’abuso del diritto o elusione fiscale di cui al L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis, inserito dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1.

2.2. – La tesi dell’estinzione con effetto devolutivo-successorio.

Di contro, una pluralità di decisioni ha mostrato una certa difficoltà a seguire la tesi opposta, distaccandosene gradualmente.

Di recente, così, si è enunciato il principio (Cass. 19 maggio 2020, n. 9137) secondo cui, ove la società sia incorporata in altra, la legittimazione attiva all’impugnazione spetta alla società incorporante.

Altra di poco anteriore decisione (Cass. 2 marzo 2020, n. 5640, non massimata) conclude per l’inammissibilità della domanda proposta dalla società incorporata, in quanto reputa legittimata all’azione la sola società incorporante; peraltro, in motivazione contiene un richiamo al dictum delle Sezioni unite del 2006, in concreto disatteso.

Già in precedenza, si era cominciato ad affermare che solo la società incorporante, non l’incorporata estinta per incorporazione, possa essere la destinataria dell’atto di impugnazione: premesso che il nuovo art. 2504-bis c.c. ha sancito il subentro in tutti i rapporti preesistenti anche processuali “all’evidente fine di evitare irragionevoli interruzioni del giudizio, contrarie, peraltro, ai principi del giusto processo”, essa ha confermato la sentenza di merito, che aveva dichiarato inammissibile l’appello proposto contro società già incorporata in altra (Cass. 15 febbraio 2013, n. 3820).

Nello stesso senso ha ragionato una successiva decisione, la quale ha ritenuto necessaria destinataria dell’impugnazione, in quanto esclusiva legittimata processuale passiva, la società incorporante, e non la incorporata, soggetto non più esistente a seguito della fusione: perchè l’art. 2504-bis c.c. prevede “la legittimazione attiva e passiva della prima come soggetto che prosegue l’attività della seconda, non già la permanenza in vita della società incorporata fino alla cessazione dei rapporti che la riguardano, che implicherebbe anche una anomala e non prevista prorogatio sine die dei suoi organi rappresentativi” (Cass. 24 maggio 2019, n. 14177, pur richiamando, in motivazione, precedenti di orientamento vario ed ancora il tema dell’affidamento dell’altra parte del processo).

Possono ricordarsi, all’interno dei presupposti logico-giuridici di tale orientamento, anche le recenti decisioni (Cass. 21 febbraio 2020, n. 4737; Cass. 19 giugno 2020, n. 11984) che, nel ragionare sulla fallibilità della società scissa nella scissione totalitaria, hanno respinto la tesi della scissione come fenomeno operante solo una modificazione dell’atto costitutivo, invece che successorio ed estintivo della società scissa.

Si tratta, dunque, di precedenti alquanto sporadici ed occasionali.

2.3. – Ricostruzione del sistema. Come è noto, il legislatore interno non ha dettato una disposizione specifica volta alla qualificazione giuridica della fusione societaria, nè ha indicato i suoi effetti sul piano soggettivo.

La ricostruzione del sistema positivo esige l’esame, condotto mediante i criteri ermeneutici imposti dall’art. 12 preleggi, della disciplina complessiva della fusione e degli elementi normativi evincibili dal sistema del codice civile e delle leggi speciali, in una col diritto interno dovendosi, altresì, tenere conto delle direttive comunitarie ed Eurounitarie, trattandosi di materia armonizzata.

2.3.1. – Come sopra esposto, le tesi sono state ispirate dal testo letterale – ante e post riforma del diritto societario, introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003 – dell’art. 2504-bis c.c..

L’art. 2502 c.c. del 1942, comma 4 prevedeva che “la società incorporante o quella che risulta dalla fusione assume i diritti e gli obblighi delle società estinte”.

Si affermava dunque senz’altro – sul solco dell’elaborazione risalente al codice di commercio del 1882, che faceva riferimento, in tema di fusione, alle società che “cessano di esistere” (art. 194, comma 2) ed alle “società estinte” (art. 196) – che la fusione societaria realizza un fenomeno di successione a titolo universale, in virtù del quale si determina l’estinzione della società incorporata (in caso di fusione per incorporazione) o di tutte le società fuse (in caso di fusione propria) e la successione, rispettivamente della società incorporante o della nuova società risultante dalla fusione, in tutti i rapporti giuridici.

Nella successiva evoluzione, l’art. 2504-bis c.c., comma 1, introdotto dal D.Lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, art. 13, dispose, sugli effetti della fusione, che “(l)a società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società estinte”.

Il legislatore, peraltro, in tale occasione ritenne che non fosse suo compito prendere posizione sulla natura giuridica della fusione. Afferma, invero, la Relazione del Ministro di grazia e giustizia, concernente il D.Lgs. 16 gennaio 1991, n. 22, che una più analitica descrizione degli effetti della fusione “è sembrata da un lato superflua, dall’altro inopportuna, in base all’assunto che il compito del legislatore è quello di disciplinare il procedimento di fusione, piuttosto che quello di definire la natura giuridica dell’istituto, prendendo posizione sul dibattito fra coloro che ravvisano nella fusione un fenomeno di successione in universum ius e coloro che invece lo considerano alla stregua di una peculiare modificazione dell’atto costitutivo” (art. 13).

La disposizione attuale, introdotta dal D.Lgs. n. 6 del 2003, recita sugli “Effetti della fusione”: “La società che risulta dalla fusione o quella incorporante assumono i diritti e gli obblighi delle società partecipanti alla fusione, proseguendo in tutti i loro rapporti, anche processuali, anteriori alla fusione”.

Su tale diversa formulazione, taluni studiosi, seguiti dai precedenti sopra ricordati, hanno ritenuto di fondare la tesi della natura non estintiva della società incorporata o fusa in forza della fusione.

Può rilevarsi sin d’ora come si è trattato, da un lato, della migliore individuazione e descrizione dei soggetti fusi o incorporati; dall’altro lato, della più esplicita precisazione che tutti i rapporti proseguono, sia sostanziali, sia processuali, in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione; resta il riferimento ai diritti ed obblighi assunti.

Orbene, la detta modifica letterale è alquanto anodina allo scopo di fondare una tesi così radicale, qual è quella della vita sempiterna della società incorporata o fusa, che permarrebbe ad aeternum nonostante la irreversibile riorganizzazione – materiale e giuridica operata.

A ben vedere, poi, questa tesi potrebbe ritenersi in contrasto con lo stesso dettato letterale della nuova disposizione: che, se è vero abbia eliminato la parola “estinte”, ha però, nel contempo, ed in modo assai meno equivoco, anche stabilito che tutti i rapporti, sia sostanziali, sia processuali, proseguono in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione: “proseguono”, in quanto ne muta appunto il titolare, sebbene l’oggettivo rapporto resti il medesimo.

Ciò in piena coerenza, pertanto, con le varie forme di successione di un soggetto ad un altro come controparte contrattuale o nel singolo rapporto obbligatorio; mentre la “prosecuzione” dei rapporti processuali è disposizione del tutto coincidente con quella dell’art. 110 c.p.c., il quale prevede che il processo prosegue nei confronti del successore universale e che presuppone, tutto all’opposto, l’estinzione della parte originaria del processo.

Insomma, è perfettamente condivisibile l’idea che l’espressione “proseguendo in tutti i rapporti” non autorizzi a ritenere che il soggetto incorporato non sia estinto; ed, anzi, in forza del diritto positivo, in particolare processuale, è proprio il contrario, laddove la norma del codice di rito sancisce che “il processo è proseguito” ad opera o nei confronti di chi ha assunto tutti i rapporti della parte venuta meno: il quale, nell’usuale linguaggio giuridico, viene denominato successore universale.

2.3.2. – E’, altresì, singolare che di tale pretesa dirompente novità la legge delega o la Relazione alla riforma del diritto societario non facciano parola, nè altro emerga dai lavori preparatori e dalle stesse riunioni della commissione ministeriale, incaricata della stesura dei decreti legislativi delegati, richiamandosi, piuttosto, nella Relazione al D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 6, il “rispetto dei vincoli di derivazione comunitaria”.

2.3.3. – Ma ancor più stridente, sul piano sistematico, è la conclusione della mancata estinzione e permanenza, come soggetto giuridico, della società incorporata, se si considera l’innovativa questa sì – soluzione sancita nel contempo dall’art. 2495 c.c., comma 2, in caso di cancellazione della società dal registro delle imprese.

E’ la nota questione degli effetti della cancellazione: prima della riforma del 2003 ritenuta non costitutiva dell’estinzione, reputandosi la società in vita sino all’integrale estinzione di tutti i rapporti attivi e passivi; dopo la riforma, in espressa contrapposizione a quel “diritto vivente”, voluta quale spartiacque definitivo tra la vita e la scomparsa della persona giuridica, che non può esistere dopo la cancellazione, ma si estingue definitivamente.

Non è qui il luogo per indagare il tema della possibile applicazione dell’art. 2191 c.c., ove l’iscrizione della cancellazione fosse stata disposta, per avventura, al di fuori delle condizioni previste dalla legge o dell’effettivo esaurimento di tutti i rapporti giuridici.

Il punto qui di rilievo è un altro: ovvero che, nel mentre la scelta del legislatore della riforma societaria è stata quella, drastica, dell’estinzione dell’ente dopo la cancellazione dal registro delle imprese ai sensi dell’art. 2495 c.c., per la fusione si pretenderebbe il contrario, quanto alla società incorporata o fusa, che pur abbia provveduto – a seguito dell’iscrizione dell’atto di fusione ai sensi dell’art. 2504 c.c. – alla cancellazione dal registro delle imprese.

E’ singolare, anzi, che l’itinerario degli interpreti abbia seguito, al riguardo, un filo logico opposto a quello adoperato per la fusione: qui si passa, dalla ricostruzione giurisprudenziale di una permanenza in vita della società cancellata sino all’esaurimento di tutti i rapporti pendenti (allo scopo di risolvere le ardue questioni delle sopravvivenze e sopravvenienze attive e passive), alla smentita dal legislatore del 2003 con la nota frase “(f)erma restando l’estinzione della società”, posta in esordio del comma 2 dell’art. 2495 c.c.; là, dalla natura estintiva della fusione, tratta dal testo originario dell’art. 2504-bis c.c., si sarebbe passati ad un effetto solo modificativo senza estinzione, sebbene la società fusa o incorporata sia stata cancellata dal registro delle imprese.

E’ noto, inoltre, che l’effetto estintivo derivante dall’iscrizione della cancellazione della società dal registro delle imprese si produce non soltanto quando essa segua al procedimento di scioglimento e liquidazione, ma anche quando alla cancellazione si pervenga per altre vie: come, ad esempio, quando la società non abbia depositato i bilanci per tre esercizi, ai sensi dell’art. 2490 c.c., comma 6, o, per le società partecipate pubbliche, del D.Lgs. 19 agosto 2016, n. 175, art. 20.

Sarebbe, dunque, distonico con il sistema ordinamentale delle società escludere l’effetto estintivo, nonostante la nuova situazione del registro delle imprese, ed ipotizzare un’eccezione così radicale, come quella della permanenza in vita della società incorporata o fusa, dalle parole della nuova disposizione, non sorrette da nessun altro elemento di sistema.

2.3.4. – Ulteriori spunti si traggono da altre norme in tema di procedimento di fusione.

L’art. 2504 c.c., comma 2, dispone che l’atto di fusione debba essere depositato per l’iscrizione nell’ufficio del registro delle imprese di ciascuna delle società partecipanti alla fusione; gli effetti giuridici si producono dal momento dell’adempimento delle formalità pubblicitarie, concernenti il deposito per l’iscrizione nel registro delle imprese dell’atto di fusione previsto dalla norma, avente efficacia costitutiva.

Ma l’art. 2504 c.c., comma 3, stabilisce che il “deposito relativo alla società risultante dalla fusione o di quella incorporante non può precedere quelli relativi alle altre società partecipanti alla fusione”: ciò conferma, secondo logica giuridica, che il definitivo ente societario – sia quello preesistente in tal modo riorganizzato, sia il soggetto nuovo – non possa “convivere” con la perdurante personalità giuridica ed autonoma soggettività delle società fuse o incorporate, le quali debbono quindi, come struttura formale, estinguersi prima.

E’ vero che il momento di produzione degli effetti della fusione può non coincidere con la pubblicità dell’atto di fusione, atteso che può non esservi coincidenza, anche per volontà delle parti, fra il momento di espletamento della pubblicità di cui all’art. 2504 c.c., comma 2, e quello della produzione degli effetti della concentrazione.

Ciò, però, non vuol dire altro che, per volontà delle parti assecondata dalle disposizioni normative, l’estinzione della società incorporata sarà rinviata a quel momento.

2.3.5. – E’ appena il caso di rilevare che la questione dell’assoggettabilità a fallimento della società incorporata o fusa (ma lo stesso ordine di concetti vale per la società interamente scissa) solo in parte interseca quella della sua esistenza: dal momento che ivi vige il disposto speciale della L. Fall., art. 10, il quale, in perfetta equiparazione al debitore persona fisica, sancisce la fallibilità degli imprenditori, individuali come collettivi, alle condizioni che sia trascorso non oltre un anno dalla cancellazione dal registro delle imprese e che l’insolvenza si sia manifestata anteriormente alla medesima o nel termine detto; la ratio generale di tale disposizione è nota, onde non necessita discornerne in questa sede.

In tal modo, per quanto riguarda le società, può fallire un “ente” che non è più tale, entro un anno dall’evento estintivo.

Si richiama il principio per cui “un fenomeno di riorganizzazione societario… come pure, più in generale, di modificazione della struttura conformativa del debitore, non può, come principio, realizzare una causa di sottrazione dell’impresa dalla soggezione alle procedure concorsuali”; ed il tema della soggezione della società fusa o scissa alle procedure concorsuali “non risulta propriamente attenere al piano dell’organizzazione societaria dell’impresa… Attiene, piuttosto, al piano dell’operatività dell’impresa e dei suoi rapporti coi terzi, contraenti e creditori” (cfr. Cass. 21 febbraio 2020, n. 4737).

Dunque, che la società possa essere assoggettata a fallimento dopo la fusione o la scissione, ancorchè cancellata dal registro delle imprese, non è elemento normativo a favore della tesi della sua sopravvivenza alla cancellazione; se proprio se ne voglia trarre un indizio, è allora piuttosto elemento in senso contrario, atteso che solo una norma speciale come quella della L. Fall., art. 10 ha potuto sancire un simile precetto.

Ed al riguardo, si noti, si è stabilito il principio di diritto che, ai fini della corretta instaurazione del contraddittorio L. Fall., ex art. 15, il ricorso per la dichiarazione di fallimento di una società già incorporata per fusione ed il relativo decreto di convocazione debbano essere notificati all’ente incorporante, che ne prosegue tutti i rapporti anche processuali anteriori alla fusione, pur conservando la suddetta società la propria identità per l’eventuale dichiarazione di fallimento (Cass. 11 agosto 2016, n. 17050; e v. Cass., 18 febbraio 2007, n. 2210).

2.3.6. – Appaiono anodine, ai fini in discorso, tutte quelle disposizioni dell’ordinamento positivo, che prevedono il subentro e la continuità dei rapporti a seguito delle operazioni di fusione per incorporazione: ciò, al pari di quanto esposto circa la scarsa significanza del regime di traslazione dei rapporti, enunciato dallo stesso art. 2504-bis c.c..

Invero, nessun indizio contrario all’estinzione potrebbe rinvenirsi in quelle disposizioni sparse, dell’ordinamento positivo o del “diritto vivente”, in cui si sancisce la prosecuzione di tutti i rapporti giuridici facenti capo alla società incorporata, fusa o scissa.

Al riguardo, si possono considerare l’art. 1902 c.c., sulla fusione tra imprese assicuratrici, secondo cui il contratto di assicurazione “continua con l’impresa assicuratrice che risulta dalla fusione o che incorpora le imprese preesistenti”; le regole che, ad integrazione di quanto previsto dalla citata disposizione, detta il D.Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, art. 168, Codice delle assicurazioni private, stabilendo che il trasferimento di portafoglio “non è causa di risoluzione dei contratti, ma i contraenti… possono recedere”, a talune condizioni; l’art. 2112 c.c., il cui comma 5 dispone che il rapporto di lavoro continua in caso di fusione, al pari che nel trasferimento d’azienda.

Altresì, usualmente gli interpreti enumerano il D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, art. 29, sulla responsabilità delle persone giuridiche, secondo cui, nel caso di fusione, “l’ente che ne risulta risponde dei reati dei quali erano responsabili gli enti partecipanti alla fusione”; il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 32, il quale, ove la società risultante dalla fusione sia responsabile per reati da essa commessi, consente al giudice di ritenere la reiterazione nell’illecito anche in relazione alle condanne pronunciate nei confronti degli enti partecipanti alla fusione, per i reati commessi anteriormente ad essa.

Vi si aggiunge, per i profili processuali, il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 42, che, nel caso di fusione o di scissione dell’ente originariamente responsabile, dispone che “il procedimento prosegue nei confronti degli enti risultanti da tali vicende modificative o beneficiari della scissione, che partecipano al processo, nello stato in cui lo stesso si trova” (Cass. pen. 22 giugno 2017, n. 41768 ha ritenuto l’ente incorporante destinatario, a fini della corretta instaurazione del contraddittorio, della citazione a giudizio, contenente le ragioni da cui inferire il titolo di responsabilità, restando valida la contestazione dell’imputazione formulata con riferimento alla persona giuridica originariamente responsabile dell’illecito); mentre il D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 70 intende espressamente chiarire che, nel caso di fusione o scissione dell’ente responsabile, “il giudice dà atto nel dispositivo che la sentenza è pronunciata nei confronti degli enti risultanti dalla trasformazione o fusione ovvero beneficiari della scissione, indicando l’ente originariamente responsabile” e che la “sentenza pronunciata nei confronti dell’ente originariamente responsabile ha comunque effetto anche nei confronti degli enti indicati”.

Norme, quelle degli artt. da 29 a 33 D.Lgs. citato, ritenute manifestamente non incostituzionali in relazione agli artt. 27, 29, 76 e 117, in riferimento all’art. 7 della Cedu, Cost., nonchè coerenti con l’orientamento della Corte di giustizia (Corte di giustizia dell’Unione Europea 5 marzo 2015, C-343/13, Modelo Continente Hipermercados SA), la quale, in materia di responsabilità amministrativa ed in presenza di fusione con incorporazione della società responsabile, ha osservato che il trasferimento della responsabilità amministrativa alla società incorporante deriva dalla direttiva comunitaria 78/855/CEE relativa alle fusioni delle società per azioni (Cass. pen. 12 febbraio 2016, n. 11442).

Nell’ambito delle leggi speciali, il D.Lgs. 10 settembre 1993, n. 385, art. 57, comma 4, t.u. delle leggi in materia bancaria e creditizia, prevede che i privilegi e le garanzie esistenti “a favore di banche incorporate da altre banche, di banche partecipanti a fusioni con costituzione di nuove banche ovvero di banche scisse conservano la loro validità e il loro grado, senza bisogno di alcuna formalità o annotazione, a favore, rispettivamente, della banca incorporante, della banca risultante dalla fusione o della banca beneficiaria del trasferimento per scissione”.

In tema di sistemi di garanzia per i depositanti, il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 96-quater.3 dispone che, in caso di fusione o scissione, se “alcuni depositi della banca cedente divengono protetti da un sistema di garanzia diverso rispetto a quello a cui aderisce la banca cedente, il sistema cui aderisce la banca cedente trasferisce all’altro i contributi ricevuti… in proporzione all’importo dei depositi protetti trasferiti”.

Mentre il D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58, art. 127-quater, t.u. dell’intermediazione finanziaria, stabilisce che, quando gli statuti contemplano la c.d. maggiorazione del dividendo a favore degli azionisti stabili, se la cessione delle azioni comporta la perdita del beneficio, non così “in caso di successione universale, nonchè in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni”; del pari, in caso di “fusione o scissione della società che abbia emesso le azioni… i benefici si trasferiscono sulle azioni emesse dalle società risultanti”.

Analogamente, per la figura della c.d. maggiorazione del voto, secondo il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 127-quinquies il diritto di voto maggiorato di regola “è conservato in caso di successione per causa di morte nonchè in caso di fusione e scissione del titolare delle azioni”, passando alla società incorporante.

Regole ispirate agli stessi concetti prevede il D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 127-sexies, quanto alle azioni a voto plurimo preesistenti della società quotata.

In materia tributaria, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 172, comma 4, t.u. sulle imposte dirette, stabilisce che “dalla data in cui ha effetto la fusione la società risultante dalla fusione o incorporante subentra negli obblighi e nei diritti delle società fuse o incorporate relativi alle imposte sui redditi”: dove, si noti, il comma 10 del medesimo art. 172 compie un espresso riferimento ai “soggetti che si estinguono per effetto delle operazioni medesime”.

Affine la ratio del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 15, che detta disposizioni in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie: in caso di fusione o scissione, la “società o l’ente risultante dalla trasformazione o dalla fusione, anche per incorporazione, subentra negli obblighi delle società trasformate o fuse relativi al pagamento delle sanzioni”.

E si potrebbe continuare.

Ma quel che qui si vuol dire è che si tratta di disposizioni speciali, rispetto al quadro generale disegnato dall’art. 2504-bis c.c., le quali palesano null’altro che la continuità nei rapporti giuridici: non certamente, invece, la contestuale sopravvivenza del loro originario titolare.

2.3.7 – L’interpretazione sistematica secondo il diritto comunitario ed Eurounitario conduce a risultati ancora più univoci.

Trattandosi di un’area armonizzata del diritto societario sul piano Europeo, l’interprete nazionale non può che tenerne conto: il principio dell’interpretazione conforme comporta invero il dovere di scegliere, tra le diverse interpretazioni possibili di un enunciato del diritto interno, quella che sia maggiormente idonea ad allinearla al dettato della norma comunitaria, anche orientando la lettura della disciplina nazionale in modo che essa non conduca a scelte di fondo radicalmente differenti rispetto a quelle compiute in altri Stati membri. Ciò perchè il fenomeno della fusione è unitario, onde la disciplina finale non può non essere omogenea, nelle sue linee essenziali e portanti, avendo una comune radice: sarebbe, invero, distonico sostenere in teoria (e gestire in pratica) effetti delle fusioni societarie diversi, a seconda che essi si producano nell’ordinamento italiano o in altri ordinamenti dell’Unione, come avverrebbe ove una società fosse esistente per il primo ed estinta per i secondi.

Dunque, indipendentemente dall’avere il legislatore interno del 2003 ripreso il dato testuale delle direttive comunitarie, queste esercitano il loro vincolo sull’interpretazione, alla stregua del principio secondo cui le norme interne devono essere interpretate conformemente al diritto comunitario, alla luce della sua lettera e finalità, per raggiungere il risultato previsto da questo.

In tal senso, vale appena ricordare, è la giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, la quale afferma il reiterato principio secondo cui “dalla necessità di garantire tanto l’applicazione uniforme del diritto dell’Unione quanto il principio di uguaglianza discende che i termini di una disposizione del diritto dell’Unione, la quale non contenga alcun rinvio espresso al diritto degli Stati membri ai fini della determinazione del proprio significato e della propria portata, devono di norma essere oggetto, nell’intera Unione Europea, di un’interpretazione autonoma e uniforme, da effettuarsi tenendo conto del contesto della disposizione stessa e della finalità perseguita dalla normativa in questione” (e plurimis, Corte di giustizia dell’Unione Europea 7 agosto 2018, cause riunite C-61/17, C-62/17 e C-72/17, Bichat, punto 29; 11 maggio 2017, C-59/16, The Shirtmakers BV, punto 21; 1 dicembre 2016, C-395/15, Daouidi, punto 50; 29 ottobre 2015, C-174/14, Saudagor, punto 52; 5 marzo 2015, n. 343/13, Modelo Continente Hipermercados SA, punto 27).

a) Orbene, iniziando dalla terza direttiva 78/855/CEE del consiglio del 9 ottobre 1978, relativa alle fusioni tra società per azioni, l’art. 3 definisce la fusione come “l’operazione con la quale una o più società, tramite uno scioglimento senza liquidazione, trasferiscono ad un’altra l’intero patrimonio attivo e passivo mediante l’attribuzione agli azionisti della o delle società incorporate di azioni della incorporante…”.

E l’art. 19 dispone: “La fusione produce ipso iure e simultaneamente i seguenti effetti: a) il trasferimento universale, tanto tra la società incorporata e la società incorporante quanto nei confronti dei terzi, dell’intero patrimonio attivo e passivo della società incorporata alla società incorporante; b) gli azionisti della società incorporata divengono azionisti della società incorporante; c) la società incorporata si estingue”.

Compare dunque, a partire dalla III direttiva, sia l’effetto traslativo successorio, sia l’effetto estintivo per la società incorporata.

La direttiva 78/855/CEE è stata abrogata, a far data dal 1 luglio 2011, dalla direttiva 2011/35/Ue del parlamento Europeo e del consiglio, del 5 aprile 2011, relativa alle fusioni delle società per azioni. Come risulta dal suo considerando 1, quest’ultima direttiva è intesa, per motivi di chiarezza e razionalizzazione, a procedere alla codificazione della direttiva 78/855, che era stata modificata più volte in modo sostanziale. L’art. 19, par. 1, della direttiva 2011/35 riprende l’art. 19, par. 1, della direttiva 78/855 in termini identici.

Così, anche l’art. 23 di tale direttiva, con riferimento alla fusione mediante costituzione di una nuova società, afferma che “le espressioni “società partecipanti alla fusione” o “società incorporata” indicano le società che si estinguono”.

b) Indicazioni ancor più stringenti si traggono dalla disciplina delle fusioni transfrontaliere, dove l’interesse alla omogeneità degli effetti in tutti i Paesi è il presupposto, essendo la possibilità di operare al di là dei confini nazionali parte delle alternative di sviluppo offerte alle società.

L’art. 14 della direttiva 2005/56/CE, relativa alle fusioni transfrontaliere delle società di capitali, dispone per la fusione per incorporazione che “la società incorporata si estingue” e che nella fusione mediante costituzione di nuova società “le società che partecipano alla fusione si estinguono”.

Ulteriore indizio si trae dalla stessa nozione di “fusione”, contenuta nell’art. 2: la quale è definita volta a volta (indipendentemente dalla forma per incorporazione o per costituzione di una società nuova) come l’operazione mediante la quale le società trasferiscono “all’atto dello scioglimento senza liquidazione, la totalità del loro patrimonio attivo e passivo ad altra società”: la prima, in sostanza, automaticamente si scioglie, pur senza seguire il procedimento di liquidazione, proseguendo altrove i propri rapporti e titolarità, e poi scompare.

La direttiva 56/2005/CE è stata attuata dal D.Lgs. 30 maggio 2008, n. 108, il cui art. 16, sul punto, si limita a stabilire che “La fusione transfrontaliera produce gli effetti di cui all’art. 2504-bis c.c., comma 1”, con rinvio dunque a norma già parte del diritto interno.

La direttiva 2017/1132/UE, pubblicata il 30 giugno 2017 ed entrata in vigore il successivo 20 luglio 2017, come da ultimo novellata dalla direttiva 2019/2121/UE del 27 novembre 2019, ha offerto una codificazione del diritto Europeo societario, mediante l’unificazione in un unico testo delle precedenti direttive in materia societaria. Per quanto qui interessa, sia gli artt. 105 e 109, sia l’art. 131, rispettivamente sugli “Effetti della fusione ” e sugli “Effetti della fusione transfrontaliera”, continuano dunque a prevedere che “la società incorporata si estingue” e “le società che partecipano alla fusione si estinguono”, per le prime precisandosi “ipso iure e simultaneamente”.

Anche l’art. 29 del reg. (CE) n. 2157/2001 del Consiglio dell’8 ottobre 2001, in materia di costituzione di una società Europea per fusione, e l’art. 33 del reg. (CE) n. 1435/2003 del Consiglio del 22 luglio 2003, in materia di costituzione di una società cooperativa Europea per fusione, prevedono espressamente l’estinzione delle società incorporate o che si fondono “ipso iure e simultaneamente”.

In particolare, si fa notare in dottrina che la formula utilizzata nelle direttive recepisce quella impiegata nell’art. 236-3 del Code de Commerce francese, nella circolarità che contraddistingue la formazione della normativa Europea; la giurisprudenza e la casistica Europee confermano come la società incorporata viene meno sotto un profilo formale.

Se ciò avviene negli ordinamenti armonizzati, non può dunque che favorirsi la medesima interpretazione nel diritto interno.

Tutto ciò, pur in presenza del caveat con riguardo ai concetti delle fonti sovranazionali, nonchè del noto pragmatismo che impronta le relative decisioni – basti pensare al contenuto della sentenza Corte di giustizia 5 marzo 2015, C-343/13, cit., dove la Corte riconosce che la società incorporata si estingue dal punto di vista formale per effetto della fusione, tuttavia valorizzando lo scioglimento senza liquidazione e senza dissoluzione della realtà economica, al fine di affermare, a fini antielusivi, che la società incorporante non rimane uguale a sè stessa e che si verifica “la trasmissione, alla società incorporante, dell’obbligo di pagare l’ammenda inflitta con decisione definitiva successivamente a tale fusione per infrazioni al diritto del lavoro commesse dalla società incorporata precedentemente alla fusione stessa” – fornisce dunque un imprescindibile dato interpretativo.

2.4. – Conclusioni.

Gli aspetti “sostanziali” della vicenda della fusione societaria che si possono riassumere in quelli della concentrazione, della successione e dell’estinzione – non possono essere disgiunti da quelli “processuali”: occorre, infatti, stabilire una coerenza fra di essi, derivando peraltro i profili processuali dalla questione concreta che venga all’esame nel giudizio.

a) Concentrazione.

Non vi è dubbio che la fusione, dando vita ad una vicenda modificativa dell’atto costitutivo per tutte le società che vi partecipano, determini un fenomeno di concentrazione giuridica ed economica (ve n’è traccia espressa nel diritto positivo: v. la L. 10 ottobre 1990, n. 287, art. 5) o “integrazione” o “compenetrazione”, dal quale consegue che i rapporti giuridici, attivi e passivi, di cui era titolare la società incorporata o fusa, siano imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante o la società risultante dalla fusione.

L’operazione è connotata da irreversibilità, secondo il chiaro disposto dell’art. 2504-quater c.c., che vieta la pronuncia d’invalidità della fusione, una volta eseguite le iscrizioni ai sensi dell’art. 2504 c.c., comma 2.

La fusione comporta un’ampissima riorganizzazione aziendale.

Beni, persone e capitali vengono diversamente destinati, secondo il programma economico per tempo approfonditamente elaborato nel progetto di fusione, nessun elemento formale rimanendo uguale a se stesso. Solo i soci mantengono tale veste (salvo il loro diritto di recesso): dal momento che essi divengono titolari di una quota del capitale della incorporante o della società risultante dalla fusione, secondo quel rapporto matematico e proporzionale che è il “rapporto di cambio”, richiamato dall’art. 2501-ter c.c..

Che la fusione sia inquadrabile tra le vicende modificative dell’atto costitutivo delle società partecipanti è senz’altro corretto, ma questo non è, tuttavia, l’unico effetto della fusione: il fatto che la (diversa) società, incorporante o risultante dalla fusione, assuma i diritti e gli obblighi delle società interessate sta in sè ad indicare che gli effetti sono certamente più pregnanti di quelli riconducibili ad una semplice modificazione dell’atto costitutivo.

Tutti i rapporti giuridici, attivi e passivi, vengono ormai imputati ad un diverso soggetto giuridico, la società incorporante, e la società incorporata viene cancellata dal registro delle imprese.

b) Estinzione.

Onde, se tutti i rapporti passano ad altro soggetto, con cancellazione dal registro delle imprese, quello primigenio non li conserva, ma si estingue.

Se, quanto ai rapporti giuridici, provvede l’art. 2504-bis c.c., chiarendo che essi proseguono tutti in capo alla società incorporante o risultante dalla fusione, quale successore per legge esplicitamente identificato, si ha, nel contempo, che le persone fisiche (soci, esponenti aziendali, dipendenti) perdono il loro ruolo originario (derivando la loro sorte dal progetto di fusione) e le persone giuridiche – diverse dalla incorporante o risultante dalla fusione – si estinguono.

Cessano, infatti, per la società incorporata, la sede sociale, la denominazione, gli organi amministrativi e di controllo, il capitale nominale, le azioni o quote che lo rappresentano, e così via; in una parola, la primigenia organizzazione di dissolve e nessuna situazione soggettiva residua.

Ora, se nessuna posizione giuridica soggettiva residua in capo alla società incorporata, non ha significato affermare la permanenza di un soggetto, privo di rapporti o situazioni soggettive di sorta nella propria sfera giuridica, ivi compreso quello con chi lo rappresenti o determini; la sua permanenza nell’ambito dell’ordinamento giuridico, senza poter essere titolare di posizioni giuridiche soggettive attive e passive, si ridurrebbe a quella di un’entità astratta.

Le società incorporate o fuse non restano, pertanto, soggetti del mercato, non le si vede ciononostante proporre cause civili o esservi convenute.

Se così non fosse, si potrebbe ad esempio giungere ad ammettere in giudizio una difesa duplice, ed anche contraddittoria, in relazione alle medesime posizioni soggettive, da parte dell’incorporata e dell’incorporante: come potrebbe ben accadere sul piano degli interessi sostanziali, visto che i soci della prima resterebbero, allora, quelli che tali erano al momento dell’atto di fusione, mentre i soci dell’incorporante sarebbero anche altri e sempre variabili, potendo quindi rappresentare posizioni di interesse difformi rispetto ad uno stesso rapporto giuridico.

Non ha dunque pregio sostenere che, nonostante la completa “rivoluzione” o, come recitano la direttive, “dissoluzione” aziendale con la chiusura o l’inglobamento di uffici o filiali, le riassegnazioni di personale, la cessazione dalla carica di tutti gli esponenti aziendali, l’annullamento delle azioni, la consegna di altre azioni secondo il rapporto di cambio, e molto altro – l’ente, come soggetto giuridico, permanga sul mercato e sia titolare di diritti ed obblighi.

Occorre, in definitiva, tenere distinto il profilo negoziale del contratto di società da quello giuridico-formale dell’originario soggetto di diritto dal primo scaturito, distinguendo tra la società come insieme di rapporti, che prosegue in una diversa organizzazione, dalla società come ente, che si estingue.

Come, al momento della stipulazione dell’atto costitutivo anche di società personale e, per le persone giuridiche, subordinatamente alla iscrizione della costituzione nel registro delle imprese, si distinguono – da un lato – il contratto di società concluso tra i soci fondatori, quale esercizio dell’autonomia negoziale privata ex art. 1322 c.c., che con lo statuto fissa e regolamenta gli aspetti della futura comune intrapresa economica, e – dall’altro lato – la contestuale nascita di un nuovo soggetto di diritti, autonomo centro d’imputazione di tutti i rapporti attivi e passivi afferenti quella attività: così, specularmente, al momento della stipula dell’atto di fusione, iscritto nel registro delle imprese delle diverse società partecipanti e seguito dalla cancellazione dell’iscrizione delle società incorporate o fuse, i soci – da un lato – modificano l’originario contratto sociale mediante la delibera di fusione ed i successivi adempimenti, ma – dall’altro lato – provocano, nel contempo, la “scomparsa” dalla scena giuridica dell’originario soggetto di diritto, quale autonomo centro di imputazione di situazioni giuridiche soggettive, ossia la sua estinzione.

Alla successione dei soggetti sul piano giuridico-formale si affianca, sul piano economico-sostanziale, una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale, benchè secondo nuovi assetti e piani industriali.

L’estinzione riguarda solo la società incorporata, la quale non sopravvive quale flatus, ma si estingue; resta, invece, come soggetto giuridico l’incorporante, dal momento che la modificazione soggettiva attiene soltanto alla titolarità dei rapporti giuridici, che facevano capo alla prima.

Certamente quindi, sotto il profilo strutturale, la fusione si presenta come una modificazione degli statuti sociali delle società interessate, mediante le rispettive deliberazioni di approvazione del progetto di fusione (art. 2502 c.c.): destinate però ad apportare, all’originario regolamento di interessi fra i soci di ciascuna società fusa o incorporata, una innovazione decisamente radicale, posto che scompare quella “forma” di esercizio dell’impresa, a favore di altro involucro formale.

Occorre in definitiva concludere che, dal momento dell’iscrizione della cancellazione della società incorporata dal registro delle imprese, questa si estingue, quale evento uguale e contrario all’iscrizione della costituzione di cui all’art. 2330 c.c.; restano le persone fisiche – amministratori, sindaci, dipendenti, soci – che perdono, però, tale veste, ove non vengano riassorbiti nella società incorporante o risultante dalla fusione.

c) Successione.

Non si prospetta una mera vicenda modificativa, ricorrendo invece una vera e propria dissoluzione o estinzione giuridica, contestuale ad un fenomeno successorio.

La fusione realizza una successione a titolo universale corrispondente alla successione mortis causa e produce gli effetti, tra loro interdipendenti, dell’estinzione della società incorporata e della contestuale sostituzione a questa, nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi, anche processuali, della società incorporante, che rappresenta il nuovo centro di imputazione e di legittimazione dei rapporti giuridici già riguardanti i soggetti incorporati. La successione universale, come vicenda giuridica, ben si attaglia invero anche a quella fra enti, avente ad oggetto un patrimonio unitariamente considerato e non soltanto elementi che lo compongono.

La fusione non è, in sè, operazione che mira a concludere tutti i rapporti sociali (come la liquidazione), nè unicamente a trasferirli ad altro soggetto con permanenza in vita del disponente (come il conferimento in società, la cessione dei crediti o dei debiti, la cessione di azienda, etc.), quanto a darvi prosecuzione, mediante il diverso assetto organizzativo: ma ciò non può essere sminuito ed artificiosamente ridotto ad una vicenda modificativa senza successione in senso proprio in quei rapporti.

Riorganizzazione e concentrazione, da un lato, ed estinzione e successione, dall’altro lato, non sono concetti incompatibili ed antitetici. In sostanza, si verificano entrambi gli effetti, l’estinzione e la successione, senza distinzione sul piano cronologico, derivando entrambe dall’ultima delle iscrizioni previste dall’art. 2504 c.c. (salva la possibilità di stabilire una data diversa ex art. 2504-bis c.c., commi 2 e 3).

d) Legittimazione processuale.

Alla stregua di quanto esposto, la prosecuzione dei rapporti giuridici nel soggetto unificato fonda la legittimazione attiva dell’incorporante ad agire e proseguire nella tutela dei diritti e la sua legittimazione passiva a subire e difendersi avverso le pretese altrui, con riguardo ai rapporti originariamente facenti capo alla società incorporata; viceversa quest’ultima, non mantenendo la propria soggettività dopo l’avvenuta fusione e la cancellazione dal registro delle imprese, neppure vanta una propria autonoma legittimazione processuale attiva o passiva.

e) Fusione in corso di causa.

Le ragioni sottese al precedente orientamento furono, come si è visto, in primis quelle di evitare l’interruzione del processo, che è ripetutamente sembrato opportuno evitare, attese le peculiarità di una fusione societaria (cfr. Cass., sez. un., 17 settembre 2010, n. 19698; Cass., sez. un., 14 settembre 2010, n. 19509; e v. Cass., sez. un., 8 febbraio 2006, n. 2637): l’argomento di fondo è incentrato sugli interessi tutelati e l’assenza di pericolo per il diritto alla difesa nel processo.

Tali ragioni non possono essere disconosciute e ciò induce il Collegio ad una precisazione al riguardo.

In ragione del subentro omnicomprensivo in tutte le situazioni giuridiche attive e passive delle società, incorporate o fuse, da parte della società in esito della fusione, questa va assimilata alla successione universale fra persone fisiche. In via di principio, perciò, alla fusione, divenuta efficace in corso di causa, in mancanza di disposizioni derogatorie troverebbe applicazione il regime degli artt. 110 e 300 c.p.c., con l’interruzione del processo e la sua prosecuzione dal successore universale o in suo confronto, previa riassunzione, quale fenomeno riconducibile al “venir meno” della parte, di cui all’art. 110 c.p.c..

Tuttavia, in presenza di fusione sopraggiunta nel corso del giudizio, la dizione dell’art. 2504-bis c.c. – secondo cui in tutti i rapporti giuridici delle società incorporate “anche processuali” vi è una “prosecuzione” dell’incorporante – vale ad evitare ex lege l’interruzione stessa, dato che l’incorporata ne prosegue senza soluzione di continuità i rapporti, anche processuali.

In tal modo è dato leggere la modificazione operata nel 2003, al più limitato, ma opportuno fine di superare gli inconvenienti prodotti dall’interruzione del processo in caso di fusione di società, evitando l’applicazione dell’istituto, allora non congruente allo scopo.

Onde, sul punto, il precedente orientamento che escludeva l’interruzione del processo va confermato con riguardo alla fusione delle società post riforma del 2003, dovendo in tal modo ricostruirsi il portato dell’art. 2504-bis c.c., attesa l’esigenza di ragionevole durata del processo e l’assenza della lesione di interessi di qualsiasi parte.

Nel caso della fusione, dunque, è la legge stessa a disporre, mediante l’art. 2504-bis c.c., che il processo non debba essere interrotto: ma ciò non perchè la società incorporata, fusa o scissa sia ancora esistente, ma semplicemente perchè la incorporante, la società risultante dalla fusione o le società beneficiarie sono, di volta in volta, i soggetti divenuti titolari sia di quel rapporto sostanziale, sia del corrispondente c.d. rapporto processuale, ossia del giudizio che quello abbia ad oggetto.

La ratio degli artt. 299 ss. c.p.c. conferma tale ricostruzione: posto che, se l’istituto dell’interruzione del processo mira a tutelare sia la parte colpita dall’evento interruttivo, sia la controparte, ai fini della migliore esplicazione del diritto di difesa di entrambe (art. 24 Cost.), tale esigenza non si avverte, o in ogni caso è ex lege recessiva, a fronte della superiore esigenza di continuità nei rapporti sostanziali e processuali, a fini di certezza.

In tal modo, l’esclusione dell’interruzione del processo limita le conseguenze della fusione sul processo, dovendosi allora, ad onere della incorporante, provare soltanto tale sua qualità ai fini della legittimazione, ove intenda compiere atti processuali.

III. – Introduzione della causa da parte di società estinta per incorporazione con successivo intervento della incorporante. Principio di diritto.

1. – In conseguenza di quanto esposto, non sussiste la facoltà di intraprendere un giudizio in capo al soggetto estinto per fusione.

Una società ormai estinta non è soggetto di diritti e neppure ha la capacità e la legittimazione processuale per farli valere, essendo stati trasferiti alla società incorporante o risultante dalla fusione.

Ne deriva che, ove essa intraprenda un giudizio, ciò avviene sulla base di una valutazione operata dai precedenti organi, i quali però non sono ormai più tali, spettando una simile valutazione all’esclusiva titolare, la società incorporante, per mezzo del suo legale rappresentante. Se la perduranza di quei rapporti giuridici nel soggetto incorporante o unificato giustifica, da un lato, il medesimo ad agire per tutelarli, al fine di vedere realizzate le sue pretese, dall’altro lato non autorizza però la società incorporata o fusa a farle valere essa stessa.

Non si dà dunque applicazione dell’istituto della ratifica degli atti compiuti dal falsus procurator, perchè qui non è tale il rappresentante, ma diverso è l’effettivo titolare del diritto.

2. – Quest’ultimo, però, ha la facoltà di intervenire in giudizio, una volta che il medesimo sia stato ormai instaurato dal non legittimato.

Si è già affermato dalla Corte che la facoltà concessa ad ogni interessato di intervenire nel processo, pendente tra altri soggetti, per far valere un diritto proprio nei confronti di tutte le parti o di alcune di esse, sussiste indipendentemente dalla effettiva esistenza, nel soggetto che ha inizialmente proposto la domanda giudiziale, delle condizioni necessarie all’esperimento di essa, sicchè il soggetto legittimato ad intervenire può sostituirsi al non legittimato, anche nel corso del processo, nell’esercizio dell’azione giudiziale.

Ciò in quanto il rapporto processuale, che si costituisce mediante l’intervento della parte legittimata a far valere la pretesa avanzata in giudizio da un soggetto carente della legittimazione attiva, non dipende dalla sorte dell’originario rapporto costituito dall’attore, poichè il vero legittimato rispetto all’oggetto della lite, della quale è parte il non legittimato, ha una posizione sostanziale autonoma, con la conseguenza che la sorte del rapporto processuale posto in essere mediante l’intervento non è subordinata a quella dell’originario rapporto su cui si è innestato (cfr. Cass. 26 marzo 2010, n. 7300; Cass. 24 dicembre 1993, n. 12777; Cass. 13 dicembre 1990, n. 11828).

In tal modo, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., si realizza l’intervento volontario del legittimato e la conseguente sua sostituzione nel processo da questi promosso e che esiste come struttura formale, secondo le regole proprie dell’intervento in giudizio.

L’azione a tutela di un diritto già facente capo alla società fusa, e poi trasferito alla società incorporata, può dunque essere da questa proposta nelle forme dell’intervento in giudizio.

Ove il nuovo ente intenda esperire tale intervento, dovrà rilasciare mandato al difensore ai fini del conferimento dello ius postulandi, secondo le regole generali di cui agli artt. 82 c.p.c. e ss., trattandosi di un soggetto giuridico diverso.

3. – Va, in conclusione, enunciato il seguente principio di diritto:

“La fusione per incorporazione estingue la società incorporata, la quale non può dunque iniziare un giudizio in persona del suo ex amministratore, avendo facoltà della società incorporante di spiegare intervento in corso di causa, ai sensi dell’art. 105 c.p.c., nel rispetto delle regole che lo disciplinano”.

IV. – Decisione sui motivi di ricorso.

1. – Alla luce del principio predetto, il primo motivo è infondato, anche se la motivazione della sentenza impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

Nella specie, la Spinone s.r.l., essendosi fusa per incorporazione nella Zinconia s.r.l. il 23 luglio 2004, con contestuale cancellazione dal registro delle imprese, era priva di capacità e legittimazione processuale nel marzo del 2008, quando ha intrapreso il presente giudizio, essendosi già estinta ed avendo, da lungo tempo, cessato i suoi organi amministrativi dalle funzioni di legale rappresentanza.

Sorti dubbi di legittimazione al riguardo, nel corso del primo grado la società incorporante si è costituita, facendo proprio il giudizio.

Nel prosieguo, quindi, è stata accolta la domanda di simulazione proposta, come azionata anche dall’interventore in giudizio: il giudice di primo grado ha dichiarato la simulazione del contratto ed il giudice d’appello ha espressamente escluso ogni nullità del processo, sia per la natura meramente modificativo-evolutiva della fusione, sia per l’avvenuta costituzione in causa della società incorporante.

Ne deriva che, mutata la motivazione alla stregua del principio enunciato, il primo motivo va respinto.

2. – Il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili.

La corte del merito ha condiviso l’accertamento, in punto di fatto operato dal tribunale, relativo alla volontà delle parti di non trasferire affatto la proprietà del bene oggetto delle due compravendite consecutive, dunque reputate simulate in via assoluta.

La ratio decidendi, espressa nella decisione impugnata, si fonda su di una triplice valutazione: la proposizione dell’azione di simulazione con riguardo alla compravendita nella sua interezza e non pro quota, la mancata censura circa la consapevole partecipazione della comproprietaria M. alla simulazione e l’irrilevanza, in tale situazione, dell’insussistenza di una posizione debitrice in proprio della medesima. Valutazioni che, però, il secondo motivo non censura.

Il terzo motivo, dal suo canto, non individua l’errore di giudizio o la regola di diritto che sarebbe stata male applicata.

Onde entrambi si scontrano con le valutazioni fattuali, compiute dai giudici di merito, in una inammissibile contestazione sull’esito della valutazione nel merito delle prove in atti, mentre il vizio di omesso esame di fatto decisivo è dedotto in termini inosservanti del relativo paradigma.

In conclusione, il ricorso va respinto.

V. – Spese.

Le spese vengono interamente compensate, attesa la novità del principio enunciato.

P.Q.M.
La Corte, a Sezioni unite, rigetta il ricorso e compensa per intero le spese del giudizio.

Dichiara che, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, sussistono i presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello richiesto, se dovuto, per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite civili, il 13 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 30 luglio 2021


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 04/05/2021) 21/07/2021, n. 20766

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MASI Oronzo – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – rel. Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. FILOCAMO Fulvio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8619-2014 proposto da:

CINQUE TERRE NEL SOLE DI G.A. & C SAS, elettivamente domiciliato in ROMA, L.GO MESSICO 7, presso lo studio dell’avvocato FEDERICO TEDESCHINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DANIELE GRANARA;

– ricorrente –

contro

EQUITALIA NORD SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA presso la cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dagli, avvocati ERSILIO GAVINO e GIOVANNI CALISI;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI GENOVA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 61/2013 della COMM.TRIB.REG.LIGURIA, depositata il 26/09/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/2021 dal Consigliere Dott. MILENA BALSAMO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE MATTEIS STANISLAO, che ha concluso per il rigetto del ricorso. Conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
CHE:

1. La società “Cinque Terre nel Sole” s.a.s di G.A. & C”, ricorre sulla base di cinque motivi, illustrati nelle memorie difensive, per la cassazione della sentenza n. 61/2913, depositata il 28.09.2013, con la quale la CTR della Liguria, nel confermare la sentenza di primo grado che aveva respinto il ricorso della società, rigettava il gravame proposto da quest’ultima, confermando la legittimità della cartella emessa, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 36 bis per il recupero dell’Iva, anche se non preceduta dalla comunicazione dell’esito della liquidazione, nonchè la tempestività della notifica della cartella al coobbligato, cessionario dell’azienda, la ritualità della notifica disposta a mezzo posta ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 e la regolarità della cartella esattoriale sebbene priva della sottoscrizione del responsabile, in quanto emessa in epoca antecedente alla entrata in vigore della L. n. 31 del 2008. Con successivo ricorso impugnava l’iscrizione di ipoteca conseguente all’omessa opposizione della cartella da parte della società M.H..

Sia l’ente concessionario che l’Agenzia delle Entrate hanno replicato con controricorso.

La concessionaria ha depositato memorie illustrative in prossimità dell’udienza. Il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
CHE:

2. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis e del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 bis e 60 nonchè della L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 7; per avere i giudici regionali ritenuto la legittimità dell’avviso di accertamento anche se non preceduto dalla notifica della comunicazione dell’esito della liquidazione nè alla cedente (società cessata il 19.10.2019) nè ad essa, atteso che, ancorchè si trattasse di controllo automatizzato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis troverebbe applicazione il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 bis il quale prevede che, se dai controlli automatici emerge un risultato diverso rispetto a quello indicato nella dichiarazione, l’esito della liquidazione è comunicato ai sensi di cui all’art. 80, comma 6, al contribuente; ribadisce che il comma 6 stabilisce, a sua volta, che “l’Ufficio prima della iscrizione a ruolo invita il contribuente a versare le somme dovute entro trenta giorni dal ricevimento dell’avviso, con applicazione della sopra tassa del 30% della somma non versta o versta in meno”. Detta disposizione, ad avviso della contribuente, trova conferma nella L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, che impone all’amministrazione finanziaria, in caso di incertezze su aspetti rilevanti delle dichiarazioni, l’obbligo di invitare il contribuente a fornire i chiarimenti necessari.

Sostiene che il preventivo invito le avrebbe consentito di predisporre difese in relazione all’erroneo comportamento della società Hotel H di M.H. & C s.a.s. (predisposizione della dichiarazione in fase di cessazione della società) e sia della ditta individuale di H. M. (presentazione della dichiarazione Iva senza il modulo relativo alla società estinta), comè si inferirebbe dalle controdeduzioni dell’Agenzia delle Entrate depositate nel giudizio di merito.

Deduce che, a tal proposito, aveva dedotto l’omessa motivazione della cartella a cui non risultava allegato l’atto richiamato, vale a dire la dichiarazione IVA della cedente e che, se avesse ricevuto la dovuta comunicazione, avrebbe provveduto alla rettifica della dichiarazione Iva delle società cedenti con compensazione del debito IVA della società con il credito IVA maturato dalla ditta individuale, azzerando quasi totalmente il debito iscritto a ruolo.

Ribadisce, altresì, che l’incertezza che impone la notifica della previa comunicazione può riguardare anche l’eventuale risultanza di un omesso pagamento (pag. 29 del ricorso).

3. La seconda censura prospetta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 nonchè del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 bis e 60, della L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 7 e degli artt. 1310 e 2064 c.c.; per avere i giudici regionali affermato la rilevanza degli effetti della notifica di un atto impeditivo della decadenza anche nei confronti del coobbligato in solido dell’obbligazione tributaria. Rileva la società ricorrente l’intervenuta decadenza dell’Ufficio dal potere di riscossione in quanto la cartella di pagamento, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 25 deve essere notificata a pena di decadenza entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con la conseguenza che la notifica della cartella doveva essere effettuata entro il 31 dicembre 2005, mentre quella notificata alla società “Cinque Terre nel sole” risaliva al dicembre 2010. Al riguardo, la società contribuente assume che alcuna disposizione tributaria prevede una deroga alle norme civilistiche, con la conseguenza che l’ente finanziario non può esigere dalla cessionaria i debiti tributari della cedente notificando la cartella solo a quest’ultima.

4.Insiste, con il terzo motivo, nel censurare la L. n. 212 del 2000, art. 7 la ricorrente insiste nell’affermare l’illegittimità dei provvedimenti impugnati per la carente indicazione del responsabile del procedimento sia nella cartella che nella iscrizione ipotecaria.

5. Il quarto mezzo prospetta violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 per avere la CTR affermato la legittimità della notifica dell’atto impositivo a mezzo raccomandata con avviso di ricevimento direttamente da parte del concessionario per la riscossione; dovendo, al contrario, il concessionario predisporre le operazioni notificatorie attraverso i soggetti abilitati, i messi comunali e gli ufficiali della riscossione.

6.Con l’ultima censura che deduce violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, la contribuente contesta l’affermazione del giudicante secondo il quale l’appello era stato formulato genericamente, avendo essa richiamata sia il ricorso introduttivo che le memorie depositate nel primo grado e “tenendo conto delle osservazioni esposte sulla base delle ragioni e dei motivi di opposizione”.

7. Il primo motivo è destituito di fondamento.

Dalla sentenza impugnata risulta l’esclusione dell’obbligo della previa comunicazione dell’esito della liquidazione per il caso di recupero di somme non versate sulla base della dichiarazione del contribuente, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis sostenendo che la L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, fa riferimento alle sole ipotesi in cui sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, con ciò escludendo che, nel caso di specie, si vertesse in detta ultima fattispecie. Il che trova conferma nell’affermazione della stessa contribuente che si rinviene a pag. 29 del ricorso laddove si afferma la necessità della previa comunicazione anche nelle ipotesi in cui difetti l’incertezza nella dichiarazione IVA. Detto assunto trova riscontro alcuna nella giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo la quale “la notifica della cartella di pagamento a seguito di controllo automatizzato è legittima anche se non preceduta dalla comunicazione del c.d. “avviso bonario” D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis, comma 3, nel caso in cui non vengano riscontrate irregolarità nella dichiarazione; nè il contraddittorio endoprocedimentale è invariabilmente imposto dalla L. n. 212 del 2000, art. 6, comma 5, il quale lo prevede soltanto quando sussistano incertezze su aspetti rilevanti della dichiarazione, situazione, quest’ultima, che non ricorre necessariamente nei casi soggetti al citato art. 36 bis, che implica un controllo di tipo documentale sui dati contabili direttamente riportati in dichiarazione, senza margini di tipo interpretativo” (Cass. 33344/2019; n. 17479 del 28/06/2019; n. 8619/2018; n. 4360/2017; n. 11292 del 31/05/2016; n. 3154 del 2015; n. 8342 del 2012).

Peraltro, l’allegazione secondo la quale sarebbe mancata la dichiarazione Iva (in realtà non risultante in modo chiaro dalla sentenza impugnata), non trova conforto nella giurisprudenza di questa Corte laddove afferma che “In caso di omessa presentazione della dichiarazione annuale IVA, è consentita l’iscrizione a ruolo dell’imposta detratta e la consequenziale emissione di cartella di pagamento, potendo il fisco operare, con procedure automatizzate, un controllo formale che non tocchi la posizione sostanziale della parte contribuente e sia scevro da profili valutativi e/o estimativi nonchè da atti di indagine diversi dal mero raffronto con dati ed elementi dell’anagrafe tributaria, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54-bis e 60” (v. S.U.. n. 17758/2016; Cass. n. 4392/2018).

8. Parimenti destituito di fondamento è il secondo motivo di ricorso.

E’ orientamento consolidato della giurisprudenza di legittimità quello che alla stregua della disciplina dettata dal codice civile con riguardo alla solidarietà fra coobbligati, applicabile – in mancanza di specifiche deroghe di legge – anche alla solidarietà tra debitori d’imposta, l’avviso di accertamento (ovvero l’atto impositivo) validamente notificato solo ad alcuni condebitori spiega, nei loro confronti, tutti gli effetti che gli sono propri, mentre, nei rapporti tra l’Amministrazione finanziaria e gli altri condebitori, cui non sia stato notificato o sia stato invalidamente notificato, lo stesso, benchè inidoneo a produrre effetti che possano comportare pregiudizio di posizioni soggettive dei contribuenti, quali il decorso dei termini di decadenza per insorgere avverso l’accertamento medesimo, determina pur sempre l’effetto conservativo d’impedire la decadenza per l’Amministrazione dal diritto all’accertamento, consentendole di procedere alla notifica, o alla sua rinnovazione, anche dopo lo spirare del termine all’uopo stabilito(v. Cass. n. 2545/2018; n. 13248 del 25/05/2017; n. 1463/2016; N. 16945 del 2008).

Pur riferendosi all’ipotesi dell’emanazione di un atto impositivo, il principio di diritto di cui a tale arresto giurisprudenziale è evidentemente riferibile anche alla diversa ipotesi, quale quella in esame, del termine decadenziale previsto per l’emissione della cartella esattoriale dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25.

Evidente ne è infatti l’eadem ratio legis et juris. Pacifico e comunque accertato in fatto dal giudice tributario di appello, che nel caso di specie il termine decadenziale è stato rispettato nei confronti dell’obbligato principale. Del resto nell’analoga fattispecie concreta della dichiarazione congiunta dei redditi dei coniugi, questa Corte ha già avuto modo di affermare, conformemente, l’equiparabilità dell’atto della riscossione a quello impositivo rispetto al termine decadenziale, nello specifico senso – che qui rileva – della sufficienza anche ad uno soltanto dei coobbligati solidali, della notifica dell’uno ovvero dell’altro entro tale termine, trovando applicazione l’art. 1310 c.c., comma 1, ancorchè si tratti di decadenza e non di prescrizione (v. Sez. 5, n. 27005 del 21/12/2007 e n. 1463 del 27/01/2016). Vero è tuttavia che altra giurisprudenza di questa stessa Corte in campo civilistico ha diversamente affermato che “In tema di solidarietà tra coobbligati, dell’art. 1310 c.c., il comma 1 dettato in materia di prescrizione, non è applicabile anche in tema di decadenza, non solo per la chiarezza del testo normativo, riferito solo alla prescrizione, ma anche per la profonda diversità dei due istituti” (Sez. 2, Sentenza n. 16945 del 20/06/2008, Rv. 604067 – 01; conforme, Sez. 2, Sentenza n. 8288 del 19/06/2000, Rv. 537735 – 01).

Vi è però da tener conto della diversità e della specialità della disciplina tributaria, in particolare procedimentale, trattandosi di attività di diritto pubblico (dunque ben diversa da quella di diritto privato sicuramente de-procedimentalizzata) regolata da sue proprie norme, quali appunto quella che risulta applicabile nel caso di specie (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 1), secondo l’interpretazione che sopra si è profilata, ovvero quella analoga in materia sanzionatoria di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, comma 2.

Pertanto, la tempestiva notifica della cartella di pagamento nei confronti di uno dei condebitori, sebbene inidonea a pregiudicare le posizioni soggettive degli altri obbligati in solido, impedisce che si produca nei confronti degli stessi la decadenza di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 in quanto, in materia tributaria, a differenza di quella civile, trova applicazione, anche in detta ipotesi, l’art. 1310 c.c., comma 1, sebbene dettato in tema di prescrizione, in ragione della specialità della relativa disciplina procedimentale, trattandosi di attività di diritto pubblico regolata da norme proprie.

Infine, in caso di cessione di azienda, l’art. 2650 c.c., comma 2, che prevede che dei debiti dell’azienda risponda anche l’acquirente, purchè essi risultino dai libri contabili obbligatori – non trova applicazione con riferimento ai debiti tributari, atteso che, data la loro particolare natura, i medesimi non sono equiparabili a quelli di diritto comune. Ne discende che l’acquirente dell’azienda non può sottrarsi alla responsabilità per i debiti inerenti all’azienda ceduta, deducendo che i medesimi non siano stati iscritti nei registri contabili obbligatori (Cass. n. 16473/2008).

9. La terza censura è infondata.

Giova sottolineare come questa Corte si è assestata sul principio secondo il quale “la cartella esattoriale che ometta di indicare il responsabile del procedimento, se riferita a ruoli consegnati agli agenti della riscossione in data anteriore al 1 giugno 2008, non è affetta da nullità, atteso che il D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, – convertito dalla L. n. 31 del 2008 – ha previsto tale sanzione solo in relazione alle cartelle di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 riferite ai ruoli consegnati a decorrere dalla predetta data” (ex plurimus, Cass. n. 27856/2018) Se il medesimo vizio è riferito non già solo alla cartella di pagamento, ma altresì ad atto affatto diverso, segnatamente, alla iscrizione ipotecaria notificata dalla concessionaria, peraltro in epoca anteriore al 1 giugno 2008, non è consentito estendere il disposto dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, conv., con modif., in L. n. 31 del 2008 ad atti diversi dalle cartelle; pertanto, non trova alcuna base giuridica la proposta estensione dell’obbligo in questione ad un atto diverso, quale è l’iscrizione ipotecaria, funzionalmente distinto dalla cartella di pagamento, disciplinata dal D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 26 atto quest’ultimo destinato a portare a conoscenza del contribuente il ruolo, limitatamente alla partita iscritta a suo carico, e con il quale si avanza la pretesa impositiva (v. Cass. n. 23672/2018).

L’indicazione del responsabile del procedimento negli atti dell’agente della riscossione non è richiesta dalla L. n. 212 del 2000, art. 7 (cd. Statuto del contribuente) a pena di nullità, in quanto tale sanzione è stata introdotta per le sole cartelle di pagamento dal D.L. n. 248 del 2007, art. 36, comma 4-ter, conv., con modif., in L. n. 31 del 2008 (Cass. n. 1150/2019; n. 11856/2017).

10. Il quarto mezzo non merita accoglimento.

In relazione alla notifica a mezzo del servizio postale, la Suprema Corte – con sentenza della Sezione tributaria n. 16949/2014 – ha ribadito che la notificazione può essere eseguita anche mediante invio, da parte dell’esattore, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, senza necessità di redigere un’apposita relata di notifica, rispondendo tale soluzione alla previsione di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26 che prescrive altresì l’onere per il concessionario di conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione di notifica o l’avviso di ricevimento, con l’obbligo di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione(v, Cass. n. 9240/2019).

Quando il predetto ufficio si avvale di tale facoltà di notificazione semplificata, alla spedizione dell’atto si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982 (Cass. n. 17598/2010; n. 911/2012; n. 19771/2013; 22151 del 2013; n. 16949/2014; n. 14146/2014; Cass. n. 3254/2016; 7184/2016; Cass. n. 10232/2016; n. 12083 del 2016 Cass. n. 14501/2016, Cass. n. 1304/2017; n. 704/2017;; n. 19795 e n. 14501/2017; n. 8293/2018 v. anche Corte costituzionale del 23 luglio 2018 n. 175 che, nel rigettare le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, – Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito – ha affermato la legittimità della notificazione diretta, da parte dell’agente della riscossione, della cartella di pagamento mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento).

Da tale impostazione, la stessa Corte fa discendere la conseguenza che, in tutti i casi di notifica postale diretta di un atto tributario, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento, e quindi in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico; l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se lo stesso dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prendere cognizione della notifica, anche laddove eseguita mediante consegna a persona diversa dal diretto interessato, ma comunque abilitata alla ricezione per conto di questi, si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal consegnatario.

11. L’ultimo mezzo non supera il vaglio di ammissibilità, in assenza di trascrizione dei motivi dell’appello ovvero della localizzazione dell’atto di gravame nel fascicolo del giudizio di merito, non essendo idonea a confutare la statuizione del giudice di appello la mera affermazione della ricorrente di aver richiamato le attività difensive del primo grado (Cass. n. 122664/2012) In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente alla refusione delle spese sostenute dalla concessionaria che liquida in Euro 7.000,00, oltre rimborso forfettario, Euro 200,00 per esborsi, e accessori come per legge; Euro 6.000,00 in favore dell’Agenzia delle Entrate, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, all’udienza tenuta mediante collegamento da remoto, ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, conv. con modif. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, il 4 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 luglio 2021


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 09-06-2021) 20-07-2021, n. 20650

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina A.P. – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. NICASTRO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176;

sul ricorso iscritto al n. 25933/2012 R.G. proposto da:

G.F., rappresentata e difesa dall’Avv. Cristiana Toscano e dall’Avv. Salvatore Coletta, con domicilio eletto in Roma, viale Mazzini, n. 114/B, presso lo studio di quest’ultimo;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, con sede in Roma, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

Agenzia delle entrate, Direzione provinciale di (OMISSIS), in persona del Direttore pro tempore, con sede in (OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione staccata di Latina, n. 130/39/12 depositata il 2 aprile 2012;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 9 giugno 2021 dal Consigliere Giuseppe Nicastro.

Svolgimento del processo
1. L’Agenzia delle entrate notificò a G.F., titolare di un’impresa individuale di “abbigliamento fascia fine/lusso”, un avviso di accertamento, relativo all’anno d’imposta 2004, con il quale, sulla base dell’applicazione degli studi di settore di cui al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, accertò maggiori ricavi per Euro 69.409,00, con i conseguenti maggior reddito, ai fini dell’IRES, maggior valore della produzione netta, ai fini dell’IRAP, e maggior volume d’affari, ai fini dell’IVA, oltre agli interessi e alle correlative sanzioni.

2. L’avviso di accertamento fu impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Latina (hinc anche: “CTP”), che rigettò il ricorso della società contribuente.

3. Avverso tale pronuncia, G.F. propose appello alla Commissione tributaria regionale del Lazio, Sezione staccata di Latina (hinc anche: “CTR”), deducendo, tra l’altro, che “la notifica dell’invito (a comparire) avrebbe dovuto essere eseguita non presso la sua residenza (per altro errata, via (OMISSIS) snc, invece che via (OMISSIS)) ma in via (OMISSIS) sede dell’impresa” (così la sentenza impugnata).

Nelle controdeduzioni, l’Agenzia delle entrate, “quanto alla notifica dell’invito, ne affermava la regolarità avendo provveduto all’invio dello stesso con raccomandata del 3.4.09 (al domicilio fiscale della ricorrente in base al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58), che l’addetto alla consegna, vista la temporanea assenza della contribuente, aveva provveduto ad inserire nella cassetta della posta e ad inviare comunicazione di avvenuto deposito con raccomandata (allegata) del 10.4.09 consegnata dal portalettere nella stessa data” (così la sentenza impugnata).

4. La CTR rigettò l’appello della contribuente con la motivazione che “(I)l collegio condivide la tesi giurisprudenziale e anche dottrinaria che attribuisce agli studi di settore natura di elementi atti a fondare presunzioni semplici, con la conseguenza che il mero scostamento del reddito dichiarato da quello risultante dagli studi di settore non ne consente l’automatica applicazione; del resto, sulla questione all’esame anche le SS. UU. della Corte di Cassazione (Sentenza n. 26635 del 18. 12.2009) hanno ritenuto che la procedura di accertamento standardizzato mediante l’applicazione degli studi di settore e dei parametri è basata su “presunzioni semplici”, la cui gravità, precisione e concordanza non è determinata “ex lege” in relazione ai soli risultati di tali strumenti. Tuttavia, evidenziato ciò, nella fattispecie non sono riscontrabili illegittimità di sorta; l’accertamento è infatti basato su elementi di notevole rilevanza, e pertanto non può che condividersi la sentenza impugnata e quindi la tesi esposta dai primi giudici sia in relazione alla eccepita carenza di motivazione ritenuta infondata che alla notifica dell’invito al contraddittorio in effetti eseguita correttamente al domicilio fiscale della ricorrente (via (OMISSIS) snc) come del resto indicato nella dichiarazione dei redditi, nonché, nel merito, alle varie incongruenze riscontrate e sopra specificate”.

4. Avverso tale sentenza della CTR – depositata il 2 aprile 2012 ricorre per cassazione G.F., che affida il proprio ricorso, notificato l’8/9-12 novembre 2012, a tre motivi.

5. L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso, notificato il 20/21 dicembre 2012.

6. Con ordinanza adottata nell’adunanza camerale del 28 marzo 2019, vista la richiesta di sospensione del giudizio avanzata, ai sensi del D.L. 23 ottobre 2018, n. 119, art. 6, comma 10, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2018, n. 136, da G.F., questa Corte sospese il giudizio fino al 10 giugno 2019, rinviando la causa a nuovo ruolo.

G.F. non risulta essersi poi avvalsa della definizione agevolata della controversia ai sensi del citato del D.L. n. 119 del 2018, art. 6.

7. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni motivate, con le quali ha chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione della L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 10, comma 3-bis, e del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 58, comma 3, e art. 60, comma 1, “in relazione” alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 6, per avere la CTR ritenuto la validità della notificazione dell’invito a comparire, previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, nonostante fosse stata effettuata: a) nel domicilio fiscale della persona fisica G.F. anziché nel domicilio fiscale dell’impresa di cui essa era titolare; b) all’indirizzo del domicilio fiscale della persona fisica G.F. “in suo possesso (Via (OMISSIS))” anziché “all’indirizzo corretto (contrada (OMISSIS))”.

2. Con il secondo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), la violazione dell’art. 149 cit. codice, e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, “in relazione” alla L. n. 212 del 2000, art. 6, per avere la CTR ritenuto la validità della notificazione dell’invito a comparire, previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, nonostante: a) “sulla busta presumibilmente contenente l’invito si legge solo un indirizzo incompleto (Via (OMISSIS)) ed un timbro “Atto non ritirato entro 6 mesi, che dovrebbe configurare una attestazione di compiuta giacenza, senza però menzione del compimento di tutte le prescrizioni di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, per la validità della compiuta giacenza”; b) “anche l’avviso di spedizione (CAD), compilato in modo assai criptico e senza l’osservanza delle formalità di legge porta lo stesso incompleto indirizzo e la menzione (casella barrata con crocetta) di una “immissione in cassetta dello stabile”, laddove in sito sussistono una pluralità di stabili non identificati da civici. Peraltro, non è dato di comprendere se sia stata svolta una effettiva ricerca del destinatario di altro soggetto abilitato a ricevere la notifica”.

3. Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), “omessa e insufficiente motivazione su un fatto decisivo della controversia”, segnatamente, sul “se il contraddittorio non si sia svolto a causa dei vizi di notifica dell’invito o per fatto e colpa del contribuente”, in quanto “i Giudici di appello hanno optato per la seconda ipotesi (…) senza procedere alla disamina approfondita dei lamentati vizi di notifica, senza esaminare attentamente i documenti postali prodotti e senza controllare il rispetto delle norme di legge che presiedono alla attività notificatoria in caso di notifiche a mezzo posta”.

4. Il primo motivo non è fondato sotto entrambi i profili in cui si articola.

4.1. Quanto al primo di essi (riassunto sopra sub a), questa Corte ha già avuto occasione di chiarire che all’impresa individuale non può essere riconosciuta alcuna soggettività, o autonoma imputabilità, diversa da quella del suo imprenditore, in quanto essa si identifica con il suo titolare sia sotto l’aspetto sostanziale sia sotto l’aspetto processuale (Cass., 30/05/2007, n. 12757; nello stesso senso, Cass., 15/01/1981, n. 344).

Quindi, nel caso di impresa individuale, l’obbligazione tributaria fa capo alla persona fisica dell’imprenditore, che è il destinatario della pretesa fiscale (Cass., 17/04/2013, n. 9256, la quale ha anche precisato che l’obbligazione tributaria non fa capo neppure alla ditta, che è solo un elemento distintivo dell’impresa).

Da tanto discende immediatamente che – posto che, salvo il caso di consegna in mani proprie, la notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente “deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario” (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. c) – nel caso di impresa individuale, poiché il destinatario della pretesa tributaria e, quindi, degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente (tra i quali l’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis), è la persona fisica dell’imprenditore, la notificazione di tutti i predetti atti deve essere fatta nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditore.

Nessun error in iudicando ha pertanto commesso la CTR nell’escludere l’invalidità della notificazione dell’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, in quanto effettuata nel domicilio fiscale della persona fisica dell’imprenditrice individuale G.F..

4.2. Quanto al secondo profilo del motivo (riassunto sopra sub b), dalla sentenza impugnata risulta che l’invito a comparire fu notificato nel domicilio fiscale della contribuente “via (OMISSIS) s.n.c. (…) come (…) indicato nella dichiarazione dei redditi”.

Tanto rilevato, nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio che, in tema di notificazione degli avvisi di accertamento e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58, al dovere del contribuente di dichiarare un determinato domicilio, non corrisponde l’obbligo dell’amministrazione finanziaria di verificare e controllare l’attualità e l’esattezza del domicilio eletto, sicché, in caso di originaria difformità, non importa se per errore o per malizia, tra residenza anagrafica e domicilio indicato nella dichiarazione dei redditi, la notificazione dell’avviso di accertamento perfezionata presso quest’ultimo indirizzo (anche mediante compiuta giacenza) si deve ritenere valida (Cass., 20/05/2021, n. 13843; in senso analogo, Cass., 14/12/2016, n. 25680).

Pertanto, nessun error in iudicando ha commesso la CTR nell’escludere l’invalidità della notificazione dell’invito a comparire previsto dalla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 3-bis, in quanto effettuata dall’amministrazione finanziaria presso l’indirizzo indicato dalla contribuente nella dichiarazione dei redditi.

5. Il secondo motivo è inammissibile nel primo profilo e non fondato nel secondo profilo in cui è articolato.

5.1. Il primo profilo (riassunto sopra sub a) è inammissibile per difetto di autosufficienza.

Questa Corte ha affermato il principio secondo cui, in tema di ricorso per cassazione, ove sia contestata la rituale notifica degli avvisi e degli altri atti che per legge devono essere notificati al contribuente, “per il rispetto del principio di autosufficienza, è necessaria la trascrizione integrale delle retate e degli atti relativi al procedimento notificatorio, al fine di consentire la verifica della fondatezza della doglianza in base alla sola lettura del ricorso, senza necessità di accedere a fonti esterne allo stesso” (Cass., 30/11/2018, n. 31038; in senso analogo, tra le tante, Cass., 28/02/2017, n. 5185, 05/11/2019, n. 28483, 13/11/2019, n. 29404).

Nel caso di specie, premesso che, nella notificazione a mezzo posta, l’attestazione della sussistenza delle condizioni di legge per la notificazione “per compiuta giacenza” – in particolare: temporanea assenza del destinatario e mancanza, inidoneità o assenza delle altre persone abilitate a ricevere il piego – è fatta dall’ufficiale postale non sulla busta contenente l’atto da notificare ma sull’avviso di ricevimento del piego raccomandato (L. n. 890 del 1982, art. 8, nel testo applicabile ratione temporis), la ricorrente non ha adempiuto l’onere nè di trascrivere tale avviso di ricevimento nè di allegarlo al ricorso (ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4).

5.2. Quanto al secondo profilo del motivo (riassunto sopra sub b), l’infondatezza di esso discende dal fatto che, sull’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cosiddetta CAD) – depositato dalla ricorrente insieme con il ricorso vi è l’attestazione dell’ufficiale postale sia della temporanea assenza del destinatario, sia della mancanza di altre persone abilitate a ricevere il piego sia, infine, dell’immissione della comunicazione nella cassetta della corrispondenza dello stabile di “via (OMISSIS)”.

Tenuto conto che, da un lato, come specificato nella sentenza impugnata, la contribuente, nella dichiarazione dei redditi, aveva indicato quale proprio indirizzo di domicilio fiscale “via (OMISSIS) s.n.c.” – e, quindi, un indirizzo privo di numero civico – e, dall’altro lato, che l’ufficiale postale, avendo attestato la temporanea assenza della destinataria, aveva necessariamente individuato la sua abitazione (ancorché priva del numero civico), ne discende che il procedimento di notificazione dell’invito a comparire si deve ritenere regolarmente perfezionato con la prova del ricevimento della CAD. 6. Il terzo motivo è inammissibile.

Premesso che al presente ricorso si applica l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nel testo di tale articolo sostituito dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 2, questa Corte ha chiarito che il “fatto”, controverso e decisivo per il giudizio, ivi menzionato deve essere inteso come “un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico” e non è assimilabile, in alcun modo, a una “questione” o una “argomentazione” (Cass., 08/10/2014, n. 21152, 03/10/2018, n. 24035).

Nel caso di specie, la ricorrente ha dedotto l’asserita omissione o insufficienza della motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla valutazione, compiuta dalla CTR, circa la validità o no della notificazione dell’invito a comparire, cioè circa un elemento che, palesemente, non concreta un “fatto” nel senso storico-naturalistico precisato dal ricordato principio di diritto, bensì una questione giuridica (già proposta, sotto il profilo della violazione di legge, con i due precedenti motivi).

7. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

8. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 c.p.c., comma 1, e sono liquidate come indicato in dispositivo.

P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100,00, oltre alle spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 9 giugno 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 30-04-2021) 20-07-2021, n. 20736

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. NAPOLITANO Lucio – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 3815/2015 R.G. proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro-tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– ricorrente –

contro

M.G., rappresentato e difeso dall’avv. Fabio Russo ed elettivamente domiciliato in Roma, via Aureliana n. 25, presso l’avv. Arianna Scione e l’avv. Antonia Scione;

– controricorrente –

Per la cassazione della sentenza della C.T.R. per la Campania, n. 6132/28/14, depositata in data il 17/6/2014 e non notificata.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 30 aprile 2021 dal relatore Dott.ssa Valeria Pirari.

Svolgimento del processo
che:

1. In seguito ad accertamento nei confronti di M.G. relativo all’anno di imposta 2005, divenuto definitivo per mancata impugnazione, fu emessa nei confronti del predetto una cartella di pagamento, notificatagli il 8/6/2011, con la quale gli fu chiesto il pagamento della somma iscritta a ruolo.

Impugnato il predetto atto dal contribuente, che deduceva di non avere mai ricevuto la notifica dell’avviso di accertamento relativo all’anno di imposta 2005 in essa indicato ed eccepiva la prescrizione dell’azione di accertamento per essere stata detta notifica effettuata il 8/6/2011, oltre il termine di decadenza del 31/12/2010, la C.T.P. di Caserta, avendo reputato la regolarità della notifica dell’atto presupposto, rigettò il ricorso con sentenza n. 286/09/2012, depositata il 3/5/2012, che fu riformata dalla C.T.R. per la Campania, adita dallo stesso contribuente, con sentenza n. 6132/28/14, depositata il 17/6/2014.

2. Contro quest’ultima decisione, l’Agenzia delle Entrate propone dunque ricorso per cassazione, affidandolo a due motivi. Il contribuente si è difeso con controricorso, illustrato anche con memoria.

Motivi della decisione
che:

1. Con il primo motivo di ricorso, si lamenta la violazione delle norme sulla notificazione a mezzo posta e degli artt. 2700 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la C.T.R. ritenuto non completa la procedura di notificazione dell’avviso di accertamento per mancato deposito dell’originale della ricevuta di ritorno, senza considerare che il duplicato tiene luogo dell’originale e che l’avviso di ricevimento, parte integrante del procedimento notificatorio, è munito di fede privilegiata ai sensi dell’art. 2700 c.c., in quanto avente natura di atto pubblico, sicchè la contestazione dell’attendibilità del duplicato deve avvenire mediante querela di falso.

2. Con il secondo motivo, si lamenta la violazione e falsa applicazione della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 6, introdotto dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, commi 2-quater e 2-quinques, convertito dalla L. 28 febbraio 2008, n. 31, art. 139 c.p.c., comma 4, e art. 149 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per avere la C.T.R. fondato la nullità dell’avviso di accertamento sulla carente allegazione della ricevuta di ricezione dell’avviso spedito dall’ufficiale giudiziario, senza considerare che la comunicazione di avvenuta notifica (C.A.N.), richiesta all’agente postale che consegni il piego a persona diversa dal destinatario, è una raccomandata senza ricevuta di ritorno e che la notificazione si perfeziona con la consegna dell’atto e non con la consegna della C.A.N., essendo richiesta come formalità l’indicazione nell’avviso di ricevimento dell’atto consegnato il numero della raccomandata della comunicazione di avvenuta notifica e la data dell’invio.

3.1 I due motivi, da trattare congiuntamente in ragione della stretta connessione, sono fondati.

La C.T.R. ha infatti fondato l’accoglimento dell’appello del contribuente sulla reputata irregolarità del procedimento notificatorio dell’avviso di accertamento, costituente atto presupposto della cartella impugnata, rilevando la mancata produzione dell’originale dell’avviso di ricevimento, il carente contenuto del suo duplicato, siccome privo della sottoscrizione del ricevente e della specificazione del suo nominativo, e l’omessa allegazione dell’avvenuta ricezione dell’avviso spedito dall’Ufficiale giudiziario.

Tali argomentazioni non si confrontano però con i principi espressi da questa Corte in ordine alla prova del perfezionamento della notifica eseguita a mezzo posta, come di seguito riportati.

Va innanzitutto detto che, in tema di notifiche a mezzo posta, nell’ipotesi di smarrimento o distruzione dell’avviso di ricevimento, l’unico atto idoneo a provare l’avvenuta notificazione è, ai sensi del D.P.R. 29 maggio 1982, n. 655, art. 8, (non abrogato nè modificato, neanche implicitamente, a seguito dell’emenda della L. n. 890 del 1982, art. 6, introdotta dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. e, come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461), il duplicato rilasciato dall’Ufficio postale, che, peraltro, non deve essere sottoscritto dalla persona alla quale il piego era stato consegnato, assumendo rilevanza il registro di consegna attestante l’avvenuta ricezione dell’avviso originario, del quale il duplicato deve essere una riproduzione fedele in quanto contenente tutte le indicazioni proprie dello stesso, compresa quella afferente al soggetto che ha ricevuto l’atto (Cass., Sez. 5, 06/06/2018, n. 14574; Cass., Sez. 3, 30/1/2019, n. 2551; Cass., Sez. 5, 15/10/2020, n. 22348), nè il nominativo del soggetto che ha ricevuto l’atto notificando, purchè il giudice, attraverso le indicazioni in esso contenute, sia posto nelle condizioni di verificare in quali esatti termini e, nel caso, a mani di quale soggetto, il recapito dell’atto si sia perfezionato (in tal senso, Cass., 30/1/2019, n. 2551), atteso che la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto, si presume iuris tantum dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica e che incombe sul destinatario, che contesti la validità della notificazione, l’onere di fornire la prova contraria e, in particolare, l’inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario comportante una delle qualità suindicate (Cass., Sez. 5, 30/10/2018, n. 27587).

Peraltro, tale duplicato, alla medesima stregua dell’originale ha natura di atto pubblico e, pertanto, fa piena prova ex art. 2700 c.c., in ordine alle dichiarazioni delle parti ed agli altri fatti che l’agente postale, mediante la sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento, attesta essere avvenuti in sua presenza, sicchè il destinatario che intenda contestare l’avvenuta notificazione è tenuto a proporre querela di falso nei confronti di detto atto (Cass., Sez. 5, 06/06/2018, n. 14574; Cass., Sez. 5, 15/10/2020, n. 22348).

Pertanto, alla luce di tali principi deve ritenersi erroneo il ragionamento seguito dai giudici di merito, i quali non hanno considerato nè la valenza probatoria del duplicato prodotto, nè l’irrilevanza della mancata sottoscrizione dello stesso, nè la idoneità dello sbarramento della casella dicente “incaricato” al fine di porre il giudice nelle condizioni di verificare a mani di quale soggetto la consegna del plico fosse avvenuta.

3.2 Quanto alla raccomandata c.d. “informativa”, va innanzitutto premesso come il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, sulle imposte sui redditi, a sua volta menzionato dalla normativa in materia di imposte indirette e di riscossione (così come del resto nel D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, in tema di processo tributario, salva la disposizione di cui all’art. 17), nel rinviare alle norme processualcivilistiche attraverso il richiamo all’art. 137 c.p.c. e ss., ad eccezione degli artt. 142, 143, 146, 150 e 151, non applicabili in ragione della specificità della materia, e salve le regole e gli adattamenti in esso previsti, consenta di ritenere operante anche per gli atti sostanziali l’art. 149 c.p.c., in tema di notificazioni mezzo del servizio postale, integrato dalle disposizioni di cui alla L. 20 novembre 1982, n. 890, il cui art. 14, regola la notifica degli atti tributari sostanziali e della riscossione.

Tale rinvio fa salve, come si è detto, alcune deroghe, tra le quali spiccano sia quella sancita dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 14, comma 1, come modificato dalla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20, secondo cui la notifica deve essere eseguita, in via preferenziale, direttamente dagli Uffici a mezzo del servizio postale e soltanto in via residuale, quando la prima risulti impossibile attraverso i canoni ordinari della notificazione, attraverso l’intermediazione dell’agente notificatore, come da regola generale, sia quella che, accanto alla tradizionale figura dell’ufficiale giudiziario, annovera, tra i soggetti che fungono da intermediari nell’attività informativa degli atti recettizi dell’Amministrazione finanziaria, i messi comunali e i messi speciali autorizzati dall’ufficio finanziario di appartenenza, i quali soli, alla stregua della lettura combinata delle norme processualcivilistiche e di quelle speciali, possono avvalersi del procedimento notificatorio tributario, essendo invece l’ufficiale giudiziario tenuto al rispetto dei principi del codice di procedura civile.

Ciò detto, va evidenziato come, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., l’Ufficiale giudiziario che non abbia potuto eseguire la consegna per irreperibilità o incapacità o rifiuto delle persone indicate dall’art. 139 c.p.c., a ricevere l’atto, sia tenuto a depositarne copia nella casa del Comune in cui la notificazione deve essere eseguita, affiggendo avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda del destinatario, e a dargliene notizia con raccomandata con avviso di ricevimento.

Quest’ultimo incombente è stato introdotto anche con riguardo alla notifica a mezzo posta dal D.L. 14 marzo 2005, n. 35, art. 2, comma 4, lett. c), n. 1), convertito, con modificazioni, dalla L. 14 marzo 2005, n. 80, che ha sostituito integralmente L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, i commi 2, 3 e 4, in seguito alla declaratoria di illegittimità costituzionale di tale disposizione, pronunciata dalla Corte Cost. con la sentenza n. 346 del 1998, che aveva reputato contrastare con i principi di uguaglianza e di diritto di difesa la precedente previsione, nella parte in cui, in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario oppure per inidoneità o assenza o rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, come indicate alla medesima L., art. 7, commi 2 e 3, imponeva all’agente postale di depositare l’atto presso l’ufficio e di rilasciarne avviso mediante affissione alla porta d’ingresso o immissione nella cassetta della corrispondenza dell’abitazione, dell’ufficio o dell’azienda, senza prevedere che gli si desse anche comunicazione del tentativo di notifica mediante raccomandata con avviso di ricevimento, oltre a stabilire che, in caso di mancato ritiro da parte del destinatario, il piego fosse restituito al mittente dopo dieci giorni dal deposito presso l’ufficio postale.

Questa disposizione era stata infatti considerata dalla Corte costituzionale gravemente pregiudizievole per il notificatario in quanto contrastante con i diritti di uguaglianza e di diritto di difesa, posto che egli, a causa della sua assenza dall’abitazione, azienda o ufficio, protrattasi per oltre dieci giorni o di mancanza delle persone indicate dall’art. 7, non si sarebbe più trovato nelle condizioni di ritirare il piego o comunque avrebbe versato in una situazione di notevole difficoltà nell’individuare l’atto notificatogli, diversamente da quanto previsto in caso di notificazione eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c..

Da ciò deriva, dunque, l’introduzione, nelle notifiche postali, dell’obbligo di avviso, al destinatario, del deposito dell’atto e delle formalità seguite, con l’indicazione secondo cui la notificazione si ha per eseguita decorsi dieci giorni dalla data di spedizione della lettera raccomandata di cui al comma 2, ovvero dalla data di ritiro del piego se anteriore. Successivamente, con sentenza n. 3 del 2010, è stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale anche dell’art. 140 c.p.c., laddove, per come interpretato dal diritto vivente, prescriveva che la notifica si intendeva perfezionata con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione, essendo stato ritenuto che tale disposizione, facendo decorrere i termini per la tutela in giudizio del destinatario da un momento anteriore alla concreta conoscibilità dell’atto notificato, attuava un “non ragionevole bilanciamento tra gli interessi del notificante, su cui ormai non gravano più i rischi connessi ai tempi del procedimento notifica torio, e quelli del destinatario, in una materia nella quale le garanzie di difesa e di tutela del contraddittorio devono essere improntate a canoni di effettività e di parità, dando luogo ad un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla fattispecie, normativamente assimilabile, della notificazione di atti giudiziari a mezzo posta, disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8”.

Tale intervento della Corte costituzionale ha sostanzialmente determinato un nuovo scostamento tra le due discipline, quella di cui all’art. 140 c.p.c., e quella di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 4, come affermato anche da questa Corte, atteso che, “mentre le notificazioni a mezzo del servizio postale si perfezionano decorsi dieci giorni dalla spedizione della raccomandata o al momento del ritiro del piego contenente l’atto da notificare, ove anteriore”, viceversa, l’art. 140 c.p.c., all’esito della sentenza n. 3 del 2010 della Corte cost., “fa esplicitamente coincidere tale momento con il ricevimento della raccomandata informativa, reputato idoneo a realizzare, non l’effettiva conoscenza, ma la conoscibilità del deposito dell’atto presso la casa comunale e a porre il destinatario in condizione di ottenere la consegna e di predisporre le proprie difese nel rispetto dei termini eventualmente pendenti per la reazione giudiziale”, senza che tale difformità si esponga a dubbi di legittimità costituzionale, posto che “non è predicabile un dovere costituzionale del legislatore ordinario di uniformare il trattamento processuale di situazioni assimilabili sul piano degli effetti e degli interessi della disciplina, essendo consentita una diversa conformazione degli istituti processuali (inclusa la disciplina delle notificazioni) a condizione che non siano lesi i diritti di difesa” (in questi termini Cass., Sez. 2, 4/3/2020, n. 6089).

Diversa fattispecie è quella prevista, invece, dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 6, abrogato dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. f), come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461, a decorrere dal 1 gennaio 2018 e, pertanto, applicabile alla fattispecie ratione temporis, secondo cui “se il piego non viene consegnato personalmente al destinatario dell’atto, l’agente postale dà notizia al destinatario medesimo dell’avvenuta notificazione dell’atto a mezzo di lettera raccomandata”, che si riferisce all’ipotesi in cui la consegna avvenga a mani del familiare convivente, di persona addetta alla casa o al servizio del destinatario o di portiere dello stabile e che, in assenza di una prescrizione normativa di utilizzo della raccomandata con avviso di ricevimento, può essere legittimamente effettuata con raccomandata semplice (Cass., Sez. 3, 22/5/2015, n. 10554).

A questo proposito, questa Corte ha affermato che “anche alla comunicazione di avvenuta notifica di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 7 – e ad onta del minor livello di garantismo che caratterizza la disciplina della sua trasmissione postale (raccomandata semplice), rispetto a quello che caratterizza la disciplina della trasmissione postale della comunicazione di avvenuto deposito di cui all’art. 140 c.p.c. (raccomandata a.r.), debba applicarsi il principio.., secondo cui l’attestazione di avvenuto invio di una raccomandata, con l’indicazione del solo numero (ossia senza che si precisi a chi, ed in quale indirizzo, essa sia stata spedita), copre con fede privilegiata soltanto la dichiarazione di avvenuto invio di una raccomandata con quel numero; con la conseguenza che, in tal caso, la prova del fatto che la stessa sia stata spedita al destinatario della notifica, presso il suo indirizzo, va fornita, da chi è interessato a dimostrare la ritualità della notifica, producendo la relativa ricevuta di spedizione o deducendo altro idoneo mezzo di prova” (Cass., Sez. 2, 12/7/2018, n. 18472).

Con specifico riguardo alla notifica di atto impositivo (o processuale) tramite servizio postale secondo le previsioni della L. n. 890 del 1982, questa Corte, a sezioni unite, ha da ultimo affermato la necessità di distinguere tra l’ipotesi regolata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8, e art. 140 c.p.c., connotata dal fatto che l’atto notificando non sia stato consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, e sia soltanto depositato presso l’ufficio postale (ovvero, nella notifica codicistica, presso la casa comunale), e quella eseguita ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 4, e dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, u.c., in cui la consegna dell’atto notificando sia avvenuta a persona diversa, stabilendo che la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio debba essere fornita dal notificante attraverso la produzione giudiziale dell’avviso di ricevimento della raccomandata che comunica l’avvenuto deposito dell’atto notificando presso l’ufficio postale (c.d. CAD), soltanto nel primo caso, stante l’insufficienza dell’avvenuta spedizione della raccomandata medesima (Cass., Sez. U, 15/4/2021, n. 10012), e non anche nel secondo.

La scelta di maggior rigore dettata dal legislatore in proposito, allorchè impone l’affissione dell’avviso di deposito nel luogo della notifica (immissione in cassetta postale) e la spedizione di lettera raccomandata con avviso di ricevimento (C.A.D.), trova giustificazione, ad avviso della Corte, nella comparazione di tale procedura notificatoria con quella prevista, tra le modalità di notifica curate dall’Ufficiale giudiziario, dall’art. 140 c.p.c., e basata sull’identico presupposto fattuale della c.d. “irreperibilità relativa” del destinatario (e fattispecie assimilate), mentre la procedura semplificata stabilita per i casi di consegna a soggetto diverso dal destinatario dell’atto, consistente nell’invio al destinatario di una raccomandata “semplice” che gli dia notizia dell’avvenuta notificazione dell’atto notificando (C.A.N.), è dovuta alla ragionevole aspettativa che l’atto notificato venga effettivamente conosciuto dal destinatario, in quanto consegnato a persone (famigliari, addetti alla casa, personale di servizio, portiere, dipendente, addetto alla ricezione) aventi con esso un rapporto riconosciuto dal legislatore come astrattamente idoneo a questo fine (Cass., Sez. U, 15/4/2021, n. 10012, in motivazione).

Sul punto, è stata peraltro ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 7, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui non richiede, per il perfezionamento della notifica a mezzo posta effettuata mediante consegna dell’atto a persona diversa dal destinatario, la “ricezione” della raccomandata cd. informativa, come invece previsto nel caso di notifica a persone irreperibili ex art. 140 c.p.c., ed L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, atteso che la mancata estensione alla notifica, eseguita ai sensi del citato art. 7, degli interventi additivi richiesti dalla Corte costituzionale (sentenza del 14/1/2010 n. 3), al fine di equiparare i procedimenti notificatori di cui all’art. 140 c.p.c., ed L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2, trova ragione nella evidente diversità fenomenica contemplata dalle norme in comparazione – nell’un caso essendo stata eseguita la consegna dell’atto a persona abilitata e riceverlo, nell’altro difettando del tutto la materiale consegna dell’atto notificando – cui consegue la diversità degli adempimenti necessari al perfezionamento delle rispettive fattispecie notificatorie, nella prima ipotesi costituiti dalla sola “spedizione” della raccomandata, nell’altra occorrendo un quid pluris inteso a compensare il maggior deficit di conoscibilità, costituito dalla effettiva ricezione della raccomandata, ovvero, in assenza di ricezione, dal decorso di dieci giorni dalla data di spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento (Cass., Sez. 3, 7/6/2018, n. 14722).

Ciò comporta che, essendo stata, nella specie, la consegna del plico eseguita a mani di un incaricato, come risulta dallo sbarramento di tale voce, nessun obbligo aveva il notificante di inviare una raccomandata con ricevuta di ritorno a titolo informativo, essendo a tal fine sufficiente l’invio di una raccomandata “semplice”, come nei fatti accaduto.

Deriva da quanto detto la fondatezza di entrambi i motivi.

4. In conclusione, accolti i motivi proposti e cassata la sentenza impugnata, la causa deve essere rinviata alla C.T.R. per la Campania anche per le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Accoglie le censure proposte, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla C.T.R. per la Campania anche per le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 20 luglio 2021