Cass. civ., Sez. II, Ord., (data ud. 22/02/2022) 21/03/2022, n. 9054

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6351/2017 proposto da:

BRAVO COMMUNICATIONS SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’avvocato PAOLO PANARITI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIANLUCA NEGRI, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

BIBO ITALIA SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA BENACO 5, presso lo studio dell’avvocato MARIA CHIARA MORABITO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURO LUIGI RUBAT ORS, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1379/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 04/08/2016;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/02/2022 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le memorie delle parti.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Il Tribunale di Torino con la sentenza n. 4212/2014, i accoglimento dell’opposizione a decreto ingiuntivo promossa dalla Huhtamaki S.p.A., oggi Bibo Italia S.p.A., nei confronti della Bravo Communications S.r.l., annullava ex art. 1394 c.c., i due contratti di consulenza ed agenzia pubblicitaria, posti a fondamento della richiesta monitoria, rigettando le altre domande avanzate dalle parti.

La Corte d’Appello di Torino, con la sentenza n. 1379 del 4 agosto 2016 ha rigettato l’appello principale proposto dal Bravo Communications e quello incidentale avanzato dalla controparte, condannando la prima al rimborso in favore della seconda dei due terzi delle spese del grado.

Rilevava la Corte d’Appello che i contratti erano stati annullati per effetto del conflitto di interessi esistente tra colui che all’epoca fatti era alla guida della società opponente e la società contraente, che vedeva nella sua compagine societaria, e con una partecipazione rilevante, proprio lo stesso soggetto che aveva concluso i contratti in nome e per conto della Bibo Italia.

I giudici di appello, nell’esaminare l’appello principale della Bravo, osservavano che le censure erano prive di fondamento.

Quanto alla deduzione secondo cui vi sarebbe stata una extrapetizione da parte del Tribunale per avere esteso l’effetto dell’annullamento dei due contratti anche alle cc.dd. “lavorazioni extracontratto”, che pur costituivano oggetto della pretesa monitoria, trattandosi, a detta dell’appellante, di prestazioni frutto di autonomi rapporti contrattuali, sorti per effetto di singoli ordinativi della committente, la sentenza di seconde cure rilevava che dette prestazioni erano sì escluse da quelle dovute in base al rapporto di agenzia, ma trovavano comunque la loro genesi nel contratto denominato di agenzia pubblicitaria, con la conseguenza che l’annullamento di tale contratto era destinato a riverberarsi anche sulle prestazioni in esame.

In relazione alla diversa critica che invece assumeva la mancata verifica di un pregiudizio subito dalla Bibo Italia per effetto della conclusione dei contratti, la sentenza ricordava quali erano i presupposti per ravvisare il conflitto di interessi, secondo la stessa giurisprudenza di legittimità.

Nella specie i contratti furono conclusi dal soggetto apicale della società appellata, che all’epoca cumulava anche la mansione di direttore generale, nel dicembre del 2009 e nel gennaio del 2010, in epoca di poco anteriore alla dismissione di fatto di tali cariche. Infatti, sebbene l’incarico fosse stato formalmente conservato sino ad ottobre del 2010, ed essendo stata conservata la carica di dirigente sino al successivo mese di dicembre, tuttavia a partire da aprile del 2010 aveva fruito di un congedo parentale.

Nello stesso periodo però era titolare di una quota di un quarto del capitale della Bravo, di cui nel 2001 era stato uno dei soci fondatori e della quale era stato amministratore sino al 2002.

Emergeva poi che di fatto aveva continuato ad ingerirsi nell’amministrazione e gestione della Bravo.

Accanto a tale situazione, emergeva poi che la durata dei contratti, fissata in tre anni, accompagnata dalla previsione di un corrispettivo notevolmente superiore a quello di norma praticato da società per analoghi servizi, aveva assicurato alla Bravo un significativo vantaggio economico, e ciò tramite contratti posti in essere allorchè era ragionevole ritenere che il direttore generale della opponente avesse già preordinato la sua fuoriuscita dalla società committente per avere già ricominciato ad occuparsi della gestione della Bravo.

Era altresì disatteso il motivo di appello a mente del quale i contratti in oggetto sarebbero stati convalidati dalla committente in maniera tacita, e precisamente continuando ad avvalersi delle prestazioni della Bravo, sebbene fosse già venuta a conoscenza della situazione di conflitto di interessi in cui versava il suo ex amministratore.

Secondo i giudici di appello, tuttavia, non poteva farsi richiamo alla figura della convalida tacita. In primo luogo, la convalida avrebbe potuto essere compiuta solo da parte di colui che aveva il potere di rappresentanza della società, e nella specie emergeva che colui che era anche socio della Bravo si era formalmente dimesso, perdendo il relativo potere di rappresentanza, solo nel mese di ottobre del 2010, laddove la quasi totalità delle condotte che dovrebbero valere come convalida tacita risultavano poste in essere in epoca quasi coeva a quella delle dimissioni. Non era causale che già nel mese di novembre la società opponente si fosse lamentata della eccessività del prezzi praticati dalla controparte.

Inoltre, la fruizione delle prestazioni tra (OMISSIS) si giustificava, lungi che per la volontà di convalidare il contratto, per la necessità di dover fruire di prestazioni necessarie per lo svolgimento dell’attività societaria, e senza che vi fosse la possibilità di provvedere ad un’immediata sostituzione.

Una volta quindi confermata la pronuncia di annullamento dei contratti, l’effetto retroattivo della pronuncia imponeva di esaminare le reciproche domande restitutorie.

Secondo l’appellante principale la somma che le era stata riconosciuta quale compenso per le attività già svolte era esigua, mentre la controparte riteneva fosse necessario disporre la restituzione di tutto quanto già versato.

I giudici di appello, ribadita la differenza tra azione di arricchimento senza causa e di ripetizione dell’indebito, qui applicabile, escludevano che l’equivalente pecuniario spettante alla parte che avesse già eseguito delle prestazioni sulla base di un contratto venuto meno, nella specie perchè annullato, potesse farsi coincidere con il compenso dovuto in base al contratto, competendo solo il rimborso dei costi effettivamente sostenuti per rendere le prestazioni.

Nella specie la somma era stata determinata in via equitativa dal giudice e l’appellante non aveva dimostrato l’erroneità della quantificazione operata dal Tribunale, così che l’appello andava disatteso. Analogamente era da rigettare l’appello incidentale in quanto la Bibo non aveva dimostrato che i costi fossero stati inferiori rispetto alla somma accordata alla controparte.

Era infine disatteso il motivo di appello incidentale con il quale si sosteneva che spettasse anche il diritto al risarcimento del danno. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la Bravo Communications S.r.l. sulla base di tre motivi, illustrati da memorie.

La Bibo Italia S.p.A. ha resistito con controricorso a sua volta illustrato da memorie 2. Il primo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle norme codicistiche in materia di annullamento dei contratti per conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato.

Si lamenta che i giudici di merito abbiano incentrato la loro decisione sull’applicazione dell’art. 1394 c.c. e si sostiene che invece occorreva far riferimento alla disciplina di cui agli artt. 2381 e 2391 c.c., che concernono i poteri dell’amministratore delegato, quale era nella fattispecie il Dott. M.L., anche socio della società ricorrente all’epoca dei fatti.

Nella specie non vi era alcun conflitto tra il detto M. e la Bibo, il che esclude che possa farsi applicazione dell’art. 1394 c.c.. L’art. 2391 c.c., invece impone, per evidenti ragioni di trasparenza, che l’amministratore debba segnalare alla società il proprio conflitto di interessi.

Nella specie si verteva in una fattispecie di amministratore delegato, che giustificava quindi la necessità che questi, oltre che dare notizia del potenziale conflitto, dovesse astenersi dal porre in essere l’operazione, investendo il competente organo collegiale.

Solo nel caso di amministratore unico, non essendovi separazione tra potere deliberativo e potere rappresentativo, possono venire in gioco le previsioni di cui agli artt. 1394 e 1395 c.c..

Poichè il Dott. M. era amministratore delegato di una società dotata di consiglio di amministrazione e di collegio sindacale, non poteva nella specie dubitarsi che questi ultimi fossero a conoscenza dell’operato del proprio amministratore, atteso l’obbligo incombente sull’amministratore di periodicamente riferire al CDA. Ne consegue che si palesa del tutto tardiva la deduzione circa l’esistenza di un conflitto di interessi, la cui conoscenza doveva reputarsi ben nota alla società.

Il motivo è manifestamente infondato.

La giurisprudenza di questa Corte, con il conforto della assolutamente prevalente dottrina, ha reiteratamente affermato che nella fattispecie prevista dall’art. 1394 c.c., il conflitto di interessi si manifesta al momento dell’esercizio del potere rappresentativo, mentre nel caso previsto dagli artt. 2373 e 2391 c.c., il conflitto di interessi (rispettivamente, in sede di assemblea e di consiglio di amministrazione) si manifesta al momento dell’esercizio del potere deliberativo, di modo che, in assenza di una previa deliberazione, la disciplina del conflitto deve essere ricondotta a quella dettata dall’art. 1394 c.c., anzichè alle norme degli artt. 2373 e 2391 c.c. (Cass. n. 23089/2013).

Ne consegue che, ove sia mancato del tutto, come nella specie, il riferimento al momento deliberativo nell’ambito delle determinazioni di un organo collegiale, la riconduzione del conflitto di interessi alla disciplina dettata dall’art. 1394 c.c., è l’unica possibile.

Si veda altresì Cass. n. 3501/2013, che ha ribadito che in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c. (conf., in tema di negozio concluso in conflitto di interessi dall’amministratore unico di società a responsabilità limitata, Cass. n. 27783/2008, non senza rilevare che per le società a responsabilità limitata, in relazione alla modifica del diritto societario operata nel 2003 ed operante a far data dal 1 gennaio 2004, la prevalenza dell’art. 1394 c.c., trova la sua testuale conferma nella novellata previsione di cui all’art. 2475 ter c.c.).

Nè può incidere sulla soluzione del problema, la circostanza che nella fattispecie si verte in un’ipotesi di amministratore delegato, anzichè di amministratore unico, avendo questa Corte affermato il principio per cui, in tema di società per azioni, quando il singolo amministratore ponga in essere, in mancanza di una Delibera del consiglio di amministrazione, un atto con il terzo che rientri, invece, nella competenza di tale organo, l’incidenza del conflitto di interessi sulla validità del negozio deve essere regolata sulla base, non già dell’art. 2391 c.c. (il quale, riferendosi al conflitto che emerge in sede deliberativa, concerne l’esercizio del potere di gestione, in un momento, quindi, anteriore a quello in cui l’atto viene posto in essere, in nome della società, nei confronti del terzo), ma della disciplina generale di cui all’art. 1394 c.c.. Al riguardo, costituendo il divieto di agire in conflitto di interessi con la società rappresentata un limite derivante da una norma di legge, la sua rilevanza esterna non è subordinata ai presupposti stabiliti dell’art. 2384 c.c., comma 2, il cui ambito di applicazione è riferito alle limitazioni del potere di rappresentanza derivanti dall’atto costitutivo o dallo statuto, che abbiano, cioè, la propria fonte (non nella legge, ma) nell’autonomia privata (Cass. n. 1525/2006; Cass. n. 1089/1992; conf. Cass. n. 18792/2005, che ritiene irrilevante, in assenza di una deliberazione del consiglio di amministrazione con la determinazione del contenuto del contratto, che il contratto se sia stato concluso dall’amministratore unico o dall’amministratore munito di potere di rappresentanza, delegato o meno che sia, e ciò in quanto l’art. 2391 c.c., presuppone una preventiva deliberazione, in presenza della quale, l’annullamento del contratto è possibile solo se sia prima annullata la deliberazione che ne ha deciso la conclusione, previa dimostrazione della malafede del terzo).

Risulta quindi del tutto priva di fondamento la tesi posta a sostegno del motivo in esame, avendo la Corte d’Appello correttamente tratto la disciplina della fattispecie dalle norme codicistiche in tema di conflitto di interessi del rappresentante con il rappresentato, essendo peraltro frutto di una mera illazione, senza alcuna prova offerta da parte della ricorrente, che della situazione di potenziale conflitto di interesse la società committente fosse già stata resa edotta, sol perchè la legge prevede che l’amministratore delegato debba periodicamente riferire al CDA sui fatti relativi alla propria gestione.

3. Il secondo motivo di ricorso deduce la violazione e falsa applicazione delle disposizioni in tema di presunzioni semplici, dalle quali far discendere la declaratoria di annullamento dei contratti per conflitto di interesse tra rappresentato e rappresentante.

Si assume che per pervenire all’annullamento del contratto è necessario che il confitto di interessi sia in concreto idoneo a determinare un pregiudizio per il rappresentato, occorrendo anche salvaguardare gli eventuali diritti dei terzi di buona fede.

Nella vicenda il Dott. M. era solo socio della società ricorrente alle data di conclusione dei contratti, ma la sentenza impugnata non ha chiarito quale sia stato il vantaggio economico personalmente ritratto dall’ex amministratore della Bibo.

La sentenza gravata ha posto a fondamento della propria decisione degli elementi presuntivi privi dei caratteri imposti dalla legge per assurgere al livello di prova dei fatti ignoti.

Il motivo deve del pari essere disatteso.

I giudici di appello hanno correttamente identificato la nozione di conflitto di interesse rilevante ai fini dell’art. 1394 c.c., sottolineando come la norma abbia riguardo alla potenzialità del pregiudizio per la parte rappresentata, non essendo altresì necessario provare che l’atto sia poi effettivamente vantaggioso o svantaggiosi per la parte.

In tal senso è stato affermato che il conflitto di interessi tra rappresentante e rappresentato costituisce causa di annullabilità del contratto concluso dal rappresentante quando quest’ultimo, anzichè tendere alla tutela degli interessi del rappresentato, persegua interessi propri, suoi personali, o anche di terzi, inconciliabili con quelli del rappresentato, di modo che all’utilità conseguita o conseguibile dal rappresentante, per sè medesimo o per il terzo, segua o possa seguire il danno del rappresentato (Cass. n. 3836 del 25/06/1985; Cass. n. 15981/2007; Cass. n. 18792/2005; Cass. n. 4505/2000).

In particolare i vincoli di solidarietà e la comunanza d’interessi fra rappresentante e terzo sono indizi che consentono al giudice del merito di ritenere, secondo l’”id quod plerumque accidit” ed in concorso con altri elementi (come l’inesistenza di qualsiasi interesse al contratto ovvero la sussistenza di un pregiudizio non correlato al alcun vantaggio), sia il proposito del rappresentante di favorire il terzo, sia la conoscenza effettiva o quanto meno la conoscibilità di tale situazione da parte del terzo, occorrendo altresì ribadire che l’accertamento dell’esistenza del conflitto che coinvolge un’indagine di fatto riservata al giudice di merito ed è sindacabile dal giudice di legittimità per vizi di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – deve essere, peraltro, condotto sulla base del contenuto e delle modalità dell’operazione, prescindendo da una contestazione di formale contrapposizione di posizioni, che può valere come semplice elemento presuntivo di conflitto (conf. Cass. n. 1214/1972; Cass. n. 3/1962.

E’ stato poi ritenuto che il giudice di merito può argomentare l’esistenza di un tale conflitto e la sua conoscenza o conoscibilità da parte del terzo da elementi indiziari, quali il divario fra il valore di mercato del bene venduto dal rappresentante e il prezzo pagato dall’acquirente e la comunanza di interessi fra rappresentante e terzo (Cass. n. 7698/1996).

Nella specie deve ritenersi che l’accertamento del conflitto di interessi esistente tra la società opponente ed il proprio amministratore sia incensurabile, in quanto logicamente argomentato e tale da evidenziare l’esistenza di un rapporto d’incompatibilità tra gli interessi del rappresentato e quelli del rappresentante, da dimostrare non in modo astratto od ipotetico ma con riferimento al singolo atto o negozio che, per le sue intrinseche caratteristiche, consenta la creazione dell’utile di un soggetto mediante il sacrificio dell’altro (cfr. Cass. n. 2529/2017). Nè coglie nel segno la critica volta a contestare il concreto utilizzo delle presunzioni nella fattispecie occorre ricordare che l’art. 2729 c.c., nel prescrivere che le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla “prudenza del giudice” (secondo una formula analoga a quella che si rinviene nell’art. 116 c.p.c., a proposito della valutazione delle prove dirette), impone al giudice di compiere l’inferenza logica dal fatto secondario (fatto noto) al fatto principale (fatto ignoto) sulla base di una regola d’esperienza che egli deve ricavare dal sensus communis, dalla conoscenza dell’uomo medio, dal sapere collettivo della comunità sociale in quel dato momento storico. Grazie alla regola d’esperienza adottata, è possibile per il giudice concludere che l’esistenza del fatto secondario (indizio) deponga, con un grado di probabilità più o meno alto, per l’esistenza del fatto principale. Lo stesso art. 2729 c.c. si cura di precisare come debba manifestarsi la “prudenza” del giudice, stabilendo che il decidente deve ammettere solo presunzioni che siano “gravi, precise e concordanti”; laddove il requisito della “precisione” va riferito al fatto noto (indizio) che costituisce il punto di partenza dell’inferenza e postula che esso non sia vago ma ben determinato nella sua realtà storica; il requisito della “gravità” va riferito al grado di probabilità della sussistenza del fatto ignoto che, sulla base della regola d’esperienza adottata, è possibile desumere dal fatto noto; mentre il requisito della “concordanza” richiede che il fatto ignoto sia – di regola – desunto da una pluralità di indizi gravi e precisi, univocamente convergenti nella dimostrazione della sua sussistenza (cfr. Cass. n. 11906/2003), anche se il requisito della “concordanza” deve ritenersi menzionato dalla legge solo per il caso di un eventuale ma non necessario concorso di più elementi presuntivi (Cass. n. 17574/2009).

Dal modello di prova per presunzioni configurato dalla legge, risulta che il giudice deve seguire un procedimento logico che si articola in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre che il giudice valuti in maniera analitica ognuno degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, rivestano i caratteri della precisione e della gravità, presentino cioè una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, egli deve procedere ad una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati e accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta considerando atomisticamente uno o alcuni indizi (Cass. n. 19894/2005). In questo secondo momento valutativo, perciò, gli indizi devono essere presi in esame e valutati dal giudice tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri allo scopo di verificare la concordanza delle presunzioni che da essi possono desumersi (c.d. convergenza del molteplice); dovendosi considerare erroneo l’operato del giudice di merito il quale, al cospetto di plurimi indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. n. 3703/2012).

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, condivisa dal Collegio, per la configurazione di una presunzione giuridicamente valida ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., non occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, ma è sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto – in forza di una regola d’esperienza come conseguenza meramente probabile, secondo un criterio di normalità (Cass. n. 22656/2011); in altre parole, è sufficiente che dal fatto noto sia desumibile univocamente quello ignoto, alla stregua di un giudizio di probabilità basato sull’id quod plerumque accidit (in virtù di una inferenza di natura probabilistica), sicchè il giudice può trarre il suo libero convincimento dall’apprezzamento discrezionale degli elementi indiziari prescelti, purchè dotati dei requisiti legali della gravità, precisione e concordanza, mentre è da escludere che possa attribuirsi valore probatorio ad una presunzione fondata su dati meramente ipotetici (Cass. n. 2632/2014).

Essendo la presunzione semplice affidata alla “prudente” valutazione del decidente (art. 2729 c.c.), spetta al giudice di merito valutare la possibilità di fare ricorso a tale tipo di prova, scegliere i fatti noti da porre a base della presunzione e le regole d’esperienza – tra quelle realmente esistenti nel sapere collettivo della società – tramite le quali dedurre il fatto ignoto, valutare la ricorrenza dei requisiti di precisione, gravità e concordanza richiesti dalla legge; trattandosi di apprezzamento affidato alla valutazione discrezionale del giudice di merito, esso è sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato (Cass. n. 8023/2009, n. 15737/2003, n. 11906/2003; da ultimo, Cass. n. 101/2015).

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi precisato che (Cass. S.U. n. 1785/2018) la denuncia di violazione o di falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 2729 c.c., si può prospettare sotto i seguenti aspetti:

aa) il giudice di merito (ma è caso scolastico) contraddice il disposto dell’art. 2729 c.c., comma 1, affermando (e, quindi, facendone poi concreta applicazione) che un ragionamento presuntivo può basarsi anche su presunzioni (rectius: fatti), che non siano gravi, precise e concordanti: questo è un errore di diretta violazione della norma;

bb) il giudice di merito fonda la presunzione su un fatto storico privo di gravità o di precisione o di concordanza ai fini della inferenza dal fatto noto della conseguenza ignota, così sussumendo sotto la norma dell’art. 2729 c.c., fatti privi di quelle caratteristiche e, quindi, incorrendo in una sua falsa applicazione, giacchè dichiara di applicarla assumendola esattamente nel suo contenuto astratto, ma lo fa con riguardo ad una fattispecie concreta che non si presta ad essere ricondotta sotto tale contenuto, cioè sotto la specie della gravità, precisione e concordanza.

Con riferimento a tale secondo profilo, la gravità allude ad un concetto logico, generale o speciale (cioè rispondente a principi di logica in genere oppure a principi di una qualche logica particolare, per esempio di natura scientifica o propria di una qualche lex artis), che esprime nient’altro – almeno secondo l’opinione preferibile – che la presunzione si deve fondare su un ragionamento probabilistico, per cui dato un fatto A noto è probabile che si sia verificato il fatto B; la precisione esprime l’idea che l’inferenza probabilistica conduca alla conoscenza del fatto ignoto con un grado di probabilità che si indirizzi solo verso il fatto B e non lasci spazio, sempre al livello della probabilità, ad indirizzarsi in senso diverso, cioè anche verso un altro o altri fatti; la concordanza esprime un requisito del ragionamento presuntivo (cioè di una applicazione “non falsa” dell’art. 2729 c.c.), che non lo concerne in modo assoluto, cioè di per sè considerato, come invece gli altri due elementi, bensì in modo relativo, cioè nel quadro della possibile sussistenza di altri elementi probatori considerati, volendo esprimere l’idea che, in tanto la presunzione è ammissibile, in quanto indirizzi alla conoscenza del fatto in modo concordante con altri elementi probatori, che, peraltro, possono essere o meno anche altri ragionamenti presuntivi.

Ebbene, quando il giudice di merito sussume erroneamente sotto i tre caratteri individuatori della presunzione fatti concreti accertati che non sono invece rispondenti a quei caratteri, si deve senz’altro ritenere che il suo ragionamento sia censurabile alla stregua dell’art. 360 c.p.c., n. 3 e compete, dunque, alla Corte di cassazione controllare se la norma dell’art. 2729 c.c., oltre ad essere applicata esattamente a livello di proclamazione astratta dal giudice di merito, lo sia stata anche a livello di applicazione a fattispecie concrete che effettivamente risultino ascrivibili alla fattispecie astratta. Essa può, pertanto, essere investita ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, dell’errore in cui il giudice di merito sia incorso nel considerare grave una presunzione (cioè un’inferenza) che non lo sia o sotto un profilo logico generale o sotto il particolare profilo logico (interno ad una certa disciplina) entro il quale essa si collochi. La stessa cosa dicasi per il controllo della precisione e per quello della concordanza.

In base alle considerazioni svolte la deduzione del vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1, suppone allora un’attività argomentativa che si deve estrinsecare nella puntuale indicazione, enunciazione e spiegazione che il ragionamento presuntivo compiuto dal giudice di merito assunto, però, come tale e, quindi, in facto per come è stato enunciato – risulti irrispettoso del paradigma della gravità, o di quello della precisione o di quello della concordanza.

Di contro, la critica al ragionamento presuntivo svolto dal giudice di merito sfugge al concetto di falsa applicazione quando invece si concreta o in un’attività diretta ad evidenziare soltanto che le circostanze fattuali, in relazione alle quali il ragionamento presuntivo è stato enunciato dal giudice di merito, avrebbero dovuto essere ricostruite in altro modo (sicchè il giudice di merito è partito in definitiva da un presupposto fattuale erroneo nell’applicare il ragionamento presuntivo), o nella mera prospettazione di una inferenza probabilistica semplicemente diversa da quella che si dice applicata dal giudice di merito, senza spiegare e dimostrare perchè quella da costui applicata abbia esorbitato dai paradigmi dell’art. 2729, comma 1 (e ciò tanto se questa prospettazione sia basata sulle stesse circostanze fattuali su cui si è basato il giudice di merito, quanto se basata altresì su altre circostanze fattuali). In questi casi la critica si risolve in realtà in un diverso apprezzamento della ricostruzione della quaestio facti, e, in definitiva, nella prospettazione di una diversa ricostruzione della stessa quaestio e ci si pone su un terreno che non è quello dell’art. 360 c.p.c., n. 3 (falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1), ma è quello che sollecita un controllo sulla motivazione del giudice relativa alla ricostruzione della quaestio facti. Terreno che, come le Sezioni Unite, (Cass., Sez. Un., nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno avuto modo di precisare, vigente dell’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, è percorribile solo qualora si denunci che il giudice di merito abbia omesso l’esame di un fatto principale o secondario, che avrebbe avuto carattere decisivo per una diversa individuazione del modo di essere della detta quaestio ai fini della decisione, occorrendo, peraltro, che tale fatto venga indicato in modo chiaro e non potendo esso individuarsi solo nell’omessa valutazione di una risultanza istruttoria.

A tali principi ha poi dato seguito la successiva giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. n. 18611/2021), essendosi appunto affermato che spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi a prospettare l’ipotesi di un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo, e neppure occorre che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame di assoluta ed esclusiva necessità causale, essendo sufficiente che il fatto da provare sia desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità, visto che la deduzione logica è una valutazione che, in quanto tale, deve essere probabilmente convincente, non oggettivamente inconfutabile (Cass. n. 22366/2021).

Nella specie, l’illustrazione dei motivi non è idonea a prospettare a ben vedere la falsa applicazione dell’art. 2729, comma 1, nei termini su indicati, ma si risolve, come detto, solo nella prospettazione di pretese inferenze probabilistiche diverse sulla base della evocazione di emergenze istruttorie e talora nella prospettazione di una diversa ricostruzione delle quaestiones facti ripercorse in relazione agli oggetti delle varie circostanze emerse, così che non presentano le caratteristiche della denuncia di un vizio di falsa applicazione dell’art. 2729 c.c., comma 1.

La sentenza gravata ha evidenziato come i due contratti annullati fossero stati conclusi tra la società, all’epoca rappresentata dal M., e la diversa società di cui lo stesso M. era socio fondatore, avendo conservato una partecipazione rilevante ed a fronte di una compagine societaria numericamente esigua.

E’ stato altresì sottolineato come i contratti furono conclusi poco prima che intervenissero le dimissioni del M., dovendosi sottolineare come, sebbene le stesse fossero formalmente intervenute nel mese di ottobre del 2010, già da aprile dello stesso anno questi si era allontanato dalla società, ponendosi in congedo parentale.

Con accertamento in fatto, supportato dalle prove raccolte, è stato altresì sottolineato come, anche durante il periodo in cui era amministratore della controricorrente, aveva continuato di fatto ad occuparsi della gestione della società ricorrente. Inoltre, sono state evidenziate sia la durata del contratto di agenzia pubblicitaria sia l’entità del compenso, ritenuto, anche qui con accertamento in fatto, superiore a quello di norma richiesto da altri operatori del settore per prestazioni di analogo contenuto.

Alla luce di tali elementi, con ragionamento di tipo presuntivo ma tenendo conto di elementi che indubbiamente hanno le caratteristiche imposte dall’art. 2729 c.c., la sentenza ha tratto il convincimento che il conflitto di interessi fosse alla data di conclusione dei contratti, non solo potenziale, ma addirittura attuale, e ciò alla luce del fatto che era imminente (e ragionevolmente prevista se non anche preordinata), la decisione di allontanarsi dalla gestione della società committente, onde assicurare un vantaggio alla Bravo, che avrebbe fruito di una sorta di rendita correlata alla conclusione di contratti di durata triennale e per un corrispettivo sicuramente maggiore di quello che si sarebbe potuto ricavare secondo le regole della concorrenza tra gli operatori del settore.

La sentenza, inoltre, ed in risposta ad una specifica critica reiterata nel motivo di ricorso, ha tratto dalla consistenza della compagine societaria della ricorrente, anche la presunzione che quest’ultima fosse a conoscenza del conflitto di interessi (o che comunque fosse percepibile), e ciò in quanto i suoi vertici dell’epoca non potevano non ignorare che il M. fosse al contempo sia loro consocio che amministratore della società committente, palesandosi quindi del tutto priva di fondamento la pretesa secondo cui sarebbe stato necessario dimostrare la mala fede della ricorrente ai fini dell’annullamento.

4. Il terzo motivo di ricorso deduce la violazione o falsa applicazione delle norme in materia di convalida del negozio giuridico annullabile.

Si deduce che il CDA di Bibo non poteva non essere a conoscenza dell’operato del M. e quindi avrebbe potuto immediatamente agire a tutela del proprio interesse, dovendosi quindi accreditare la condotta esecutiva del contratto come idonea a porre in essere la convalida del contratto.

Il motivo va rigettato.

La premessa erronea da cui muove la deduzione della ricorrente è che, in contrasto con quanto già evidenziato in occasione della disamina del primo motivo, alla fattispecie trovi applicazione il disposto di cui all’art. 2391 c.c..

Inoltre, si ribadisce, e senza che sul punto sia stata offerta prova alcuna, che solo perchè l’amministratore ha un obbligo legale di riferire al CDA della propria gestione, quest’ultimo fosse stato effettivamente informato anche della conclusione dei contratti oggetto di causa.

L’evidente insussistenza delle premesse in fatto ed in diritto da cui muove la critica della ricorrente, conferma la correttezza della decisione di appello che ha escluso che potesse ravvisarsi una convalida da parte della società.

Infatti, oltre a doversi ricordare che in tema di società di capitali, anche l’approvazione del bilancio non costituisce ratifica tacita dell’operato dell’amministratore in conflitto d’interessi, in quanto sia la disciplina del bilancio che quella dell’assemblea hanno natura imperativa e rispondono all’interesse pubblico ad un regolare svolgimento dell’attività economica (Cass. n. 6220/2013), essendo in ogni caso necessario che, sempre ai fini della convalida degli atti posti in essere in conflitto di interessi da parte dell’amministratore della società, deve risultare accertata univocamente, al di là della mera approvazione degli atti gestori, la volontà specifica di far proprio l’atto posto in essere dal rappresentante (Cass. n. 21517/2016), nella vicenda la sentenza ha sottolineato come in realtà le condotte che a detta della ricorrente deporrebbero per la convalida tacita, siano state poste in essere in epoca anteriore o coeva alla formalizzazione delle dimissioni del M., ed allorchè questi ancora rivestiva la qualità di amministratore delegato, persistendo quindi in capo al soggetto formalmente abilitato a porre in essere una convalida tacita quella situazione di conflitto di interessi che in via genetica ha inficiato la validità dei contratti, argomento questo che non risulta in alcun modo attinto dal mezzo di gravame in esame.

D’altronde la stessa ipoteticità della conoscenza della causa di invalidità del contratto (cfr. pag. 23, ove tra parentesi la ricorrente evidenza come la Bibo “poteva essere” a conoscenza del conflitto di interessi) esclude l’applicazione dell’art. 1444 c.c., che presuppone invece l’effettiva conoscenza della causa di annullamento (cfr. al riguardo Cass. n. 13296/2012 secondo cui solo un obbligo di conoscenza potrebbe essere equiparato alla effettiva conoscenza del vizio).

L’infondatezza della deduzione in punto di ammissibilità della convalida tacita implica poi che debbano essere disattese anche le censure, mosse espressamente in via conseguenziale all’accoglimento della denuncia della violazione dell’art. 1444 c.c., in merito alle pretese di pagamento delle maggiori somme richieste in via monitoria, non senza osservare che anche la critica al ragionamento svolto dai giudici di appello per individuare la somma effettivamente spettante alla ricorrente, per effetto dell’annullamento dei contratti, risulta del tutto generica e come tale inammissibile.

5. Il ricorso è pertanto rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.

6. Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità che liquida in complessivi Euro 7.500,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, pari al 15% sui compensi, ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2022


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 20/01/2022) 15/03/2022, n. 8362

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. LO SARDO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. D’ORIANO Milena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 27819/2016 R.G., proposto da:

R.M.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Giacomo Mezzena, con studio in Milano, elettivamente domiciliato presso l’Avv. Francesco Cristiani, con studio in Roma, giusta procura in calce al ricorso introduttivo del presente procedimento;

– ricorrente –

contro

il Comune di Milano, in persona del Sindaco pro tempore, autorizzato a resistere nel presente procedimento con Delib. adottata dalla Giunta Municipale il 10 febbraio 2017, n. 152, rappresentato e difeso dall’Avv. Antonello Mandarano, dall’Avv. Ruggero Meroni e dall’Avv. Anna Tavano, tutti con studio in Milano, nonchè dall’Avv. Giuseppe Lepore, ove elettivamente domiciliato, giusta procura in calce al controricorso di costituzione nel presente procedimento;

– controricorrente –

e la “EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE S.p.A.”, con sede in (OMISSIS), in persona del procuratore speciale pro tempore, nella qualità di incorporante la “EQUITALIA NORD S.p.A.”, con sede in Milano, giusta procura speciale a mezzo di rogito redatto dal Notaio D.L.M. da Roma (OMISSIS), rep. n. (OMISSIS), rappresentata e difesa dall’Avv. Andrea Romano, con studio in (OMISSIS), e dall’Avv. Lidia Ciabattini, con studio in (OMISSIS), ove elettivamente domiciliata, giusta procura in calce al controricorso di costituzione nel presente procedimento;

– controricorrente –

Avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano il 26 aprile 2016 n. 2478/11/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20 gennaio 2022 dal Dott. Giuseppe Lo Sardo;

udito, per il Comune di Milano, l’Avv. Maria Romana Ciliutti, per delega dell’Avv. Giuseppe Lepore, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M., nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. De Matteis Stanislao, che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo
R.M.G. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano il 26 aprile 2016 n. 2478/11/2016, la quale, in controversia avente ad oggetto l’impugnazione di cinque cartelle di pagamento per l’ICI relativa a plurime annualità, ha rigettato l’appello proposto dal medesimo nei confronti del Comune di Milano e della “EQUITALIA NORD S.p.A.” avverso la sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano l’11 marzo 2015 n. 2413/47/2015, con condanna alla rifusione delle spese giudiziali. La Commissione Tributaria Regionale ha confermato la decisione di prime cure in ragione dell’infondatezza delle eccezioni preliminari di decadenza e prescrizione della pretesa impositiva, della rituale notificazione delle cartelle di pagamento e della tempestiva formazione del ruolo esattoriale. Il ricorso è affidato a cinque motivi. Il Comune di Milano e la “EQUITALIA SERVIZI DI RISCOSSIONE S.p.A.” (medio tempore incorporante la “EQUITALIA NORD S.p.A.”) si sono costituiti con controricorso. Con conclusioni scritte, il P.M. ha chiesto il rigetto del ricorso. Il Comune di Milano ha depositato memoria.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, si denuncia violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare, la necessità della notificazione all’estero sulla base della Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1998 sulla mutua assistenza amministrativa in materia fiscale, l’inesistenza della notificazione, nonchè la violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, artt. 1, 6 e 10 in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver ritenuto che le notificazioni delle cartelle di pagamento fossero state regolari.

2. Con il secondo motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver esaminato l’eccezione del contribuente in ordine al difetto di legittimazione dell’agente della riscossione alla notificazione delle cartelle di pagamento.

3. Con il terzo motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver rilevato la decadenza della pretesa impositiva per inosservanza del termine di iscrizione a ruolo da parte dell’agente della riscossione.

4. Con il quarto motivo, si denuncia omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per non aver rilevato la prescrizione della pretesa impositiva.

5. Con il quinto motivo, si denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., nonchè delle tariffe (recte: dei parametri) professionali, in relazione (verosimilmente) all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver condannato il contribuente alla rifusione delle spese giudiziali senza alcuna motivazione in ordine alle ragioni di tale statuizione e in ordine ai parametri tabellari per la determinazione dei compensi professionali.

6. Il primo motivo è inammissibile.

6.1 A ben vedere, il mezzo è carente di autosufficienza.

Invero, il ricorso per cassazione – per il principio di autosufficienza – deve contenere in sè tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito e, altresì, a permettere la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza la necessità di far rinvio ed accedere a fonti esterne allo stesso ricorso e, quindi, ad elementi o atti attinenti al pregresso giudizio di merito, sicchè il ricorrente ha l’onere di indicarne specificamente, a pena di inammissibilità, oltre al luogo in cui ne è avvenuta la produzione, gli atti processuali ed i documenti su cui il ricorso è fondato mediante la riproduzione diretta del contenuto che sorregge la censura oppure attraverso la riproduzione indiretta di esso con specificazione della parte del documento cui corrisponde l’indiretta riproduzione (tra le altre: Cass., Sez. 5, 15 luglio 2015, n. 14784; Cass., Sez. 6-1, 27 luglio 2017, n. 18679; Cass., Sez. 5, 30 dicembre 2019, n. 34593; Cass., Sez. 6-5, 15 dicembre 2020, n. 28537; Cass., Sez. 5, 21 luglio 2021, n. 20974; Cass., Sez. 5, 28 settembre 2021, n. 26220).

6.2 Peraltro, in tema di ricorso per cassazione, ove sia denunciato il vizio di una relata di notifica, con riguardo sia ad atti processuali che ad atti procedimentali, il principio di autosufficienza del ricorso esige la trascrizione integrale di quest’ultima, che, se omessa, determina l’inammissibilità del motivo (Cass., Sez. 5, 28 febbraio 2017, n. 5185; Cass., Sez. 5, 30 novembre 2018, n. 31038; Cass., Sez. 5, 16 marzo 2021, n. 7173; Cass., Sez. 6-5, 12 maggio 2021, n. 12518; Cass., Sez. 5, 15 luglio 2021, n. 20152; Cass., Sez. 6-5, 22 ottobre 2021, n. 29568; Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2021, n. 30971).

Per accertare la sussistenza o meno della dedotta violazione, quindi, non basta un generico richiamo ai documenti relativi alla notifica, ma per il principio dell’autosufficienza è necessaria la sua integrale trascrizione, onde consentire al giudice il preventivo esame della rilevanza del vizio denunziato (Cass., Sez. 6-5, 22 ottobre 2021, n. 29568).

6.3 Nella specie, il ricorrente non ha riprodotto, nè allegato, nè richiamato le relate di notifica delle cartelle di pagamento, per cui ne è preclusa al collegio la verifica della relativa regolarità.

7. Il secondo motivo è inammissibile e, comunque, infondato.

7.1 Invero, il mezzo lamenta l’omesso scrutinio di una questione (segnatamente, la legittimazione dell’agente della riscossione alla notifica delle cartelle di pagamento a mezzo del servizio postale), che non risulta essere stata dedotta dal contribuente in sede di impugnazione delle cartelle di pagamento nè essere stata proposta tra i motivi di appello della decisione di prime cure.

7.2 Per giurisprudenza pacifica di questa Corte, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, il ricorso deve, a pena di inammissibilità, non solo allegare l’avvenuta loro deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto in virtù del principio di autosufficienza del ricorso, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa. I motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio di appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito nè rilevabili d’ufficio (tra le tante: Cass., Sez. 2, 9 agosto 2018, n. 20694; Cass., Sez. 2, 18 settembre 2020, n. 19560; Cass., Sez. 5, 9 dicembre 2020, n. 28036; Cass., Sez. 6-5, 23 marzo 2021, n. 8125; Cass., Sez. 5, 5 maggio 2021, n. 11708; Cass., Sez. 6A-5, 18 ottobre 2021, n. 28714; Cass., Sez. 5, 29 ottobre 2021, n. 30863; Cass., Sez. 5, 24 novembre 2021, n. 36393; Cass., Sez. 2, 21 dicembre 2021, n. 40984).

7.3 In disparte la novità della questione, ad ogni modo, la censura deve essere disattesa.

Difatti, è pacifico che, in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, seconda parte, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati (tra le tante: Cass., Sez. 6-5, 11 febbraio 2016, n. 2790; Cass. Sez. 5, 23 novembre 2017, n. 28000; Cass., Sez. 5, 25 maggio 2018, n. 13124; Cass., Sez. 6-2, 17 gennaio 2019, n. 1243; Cass., Sez. 5, 21 febbraio 2020, n. 4671; Cass., Sez. 6-5, 30 settembre 2020, n. 20700).

8. Parimenti, il terzo motivo ed il quarto motivo – la cui stretta ed intima connessione suggeriscono l’esame congiunto per la comune attinenza a questioni preliminari sull’an debeatur sono inammissibili.

8.1 Le doglianze attengono all’omesso rilievo della decadenza e della prescrizione della pretesa impositiva per inesistenza della notifica degli avvisi di accertamento e per inosservanza del termine di iscrizione a ruolo da parte dell’agente della riscossione.

8.2 Tuttavia, secondo l’accertamento fattone dal giudice di appello, a conferma della decisione di prime cure, l’ente impositore aveva “dato prova in relazione a tutte le annualità in contestazione della correttezza del procedimento notificatorio adottato per gli avvisi di accertamento e della formazione del ruolo entro il biennio successivo a ciascuna notifica”, con la conclusione che “ciò vale a confutare sia l’eccezione di prescrizione che (l’eccezione) di decadenza della pretesa tributaria”.

Per cui, il mezzo finisce col risolversi – anche per le considerazioni sulla presunta irritualità della documentazione prodotta dall’ente impositore – nella pretesa di un inammissibile riesame dei fatti accertati dalla sentenza impugnata (tra le tante: Cass., Sez. 6A-5, 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass., Sez. 5, 31 maggio 2018, n. 13885; Cass., Sez. 6-5, 13 dicembre 2019, n. 32835; Cass., Sez. 6-5, 13 novembre 2020, n. 25707, 25708 e 25713; Cass., Sez. 5, 11 novembre 2021, n. 33300; Cass., Sez. 5, 21 dicembre 2021, n. 40932).

9. Da ultimo, il quinto motivo è infondato.

9.1 Il parametro normativo di riferimento deve essere più propriamente individuato nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15 che detta una specifica disciplina (ancorchè sulla falsariga dell’art. 91 c.p.c.) per la regolamentazione delle spese nel processo tributario.

9.2 Ciò posto, in tema di disciplina delle spese processuali, la soccombenza costituisce un’applicazione del principio di causalità, in virtù del quale non è esente da onere delle spese la parte che, col suo comportamento antigiuridico (in quanto trasgressivo di norme di diritto sostanziale) abbia provocato la necessità del processo; essa prescinde, pertanto, dalle ragioni – di merito o processuali – che l’abbiano determinata e dal fatto che il rigetto della domanda della parte dichiarata soccombente sia dipeso dall’avere il giudice esercitato i suoi poteri officiosi (da ultima: Cass., Sez. 1, 29 luglio 2021, n. 21823).

9.3 Nella specie, pertanto, il giudice di appello si è uniformato alle prescrizioni del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15, comma 1, (nel testo vigente prima delle modifiche apportate dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156, art. 9, comma 1, lett. f, n. 1, con decorrenza dall’I gennaio 2016), il quale collegava in modo automatico la condanna alla rifusione delle spese giudiziali alla soccombenza di una parte rispetto all’altra parte e consentiva la compensazione (totale o parziale) delle spese giudiziali soltanto nei casi previsti dall’art. 92 c.p.c., comma 2, (quivi non ricorrenti).

10. Alla stregua delle suesposte argomentazioni, valutandosi, rispettivamente, l’inammissibilità e/o l’infondatezza dei motivi dedotti, il ricorso deve essere rigettato.

11. Le spese giudiziali seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura fissata in dispositivo.

12. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente alla rifusione delle spese giudiziali in favore dei controricorrenti, liquidandole, rispettivamente, per l’ente impositore, nella misura di Euro 200,00 per esborsi e di Euro 5.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi e ad altri accessori di legge, e, per l’agente della riscossione, nella misura di Euro 200,00 per esborsi e di Euro 4.000,00 per compensi, oltre a spese forfettarie nella misura del 15% sui compensi e ad altri accessori di legge; dà atto dell’obbligo, a carico del ricorrente, di pagare l’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 20 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 15 marzo 2022


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 03/03/2022) 09/03/2022, n. 7746

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. PUTATURO DONATI VISCIDO DI NOCERA M.G. – rel. Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – Consigliere –

Dott. LEUZZI Salvatore – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al numero 15023 del ruolo generale dell’anno 2015, proposto da:

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

La Bussola s.r.l., in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa, giusta procura speciale a margine del controricorso, dall’Avv.to Alessandra Stasi e dall’Avv.to Luigi Marsico, elettivamente domiciliato presso lo studio del secondo difensore, in Roma, Viale Regina Margherita n. 262;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Foggia, n. 2579/26/2014, depositata il 15 dicembre 2014;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26 novembre 2021 dal Relatore Cons. Maria Giulia Putaturo Donati Viscido di Nocera.

Svolgimento del processo
che:

– con sentenza n. 2579/26/2014, depositata il 15 dicembre 2014, la Commissione tributaria regionale della Puglia, sezione staccata di Foggia, accoglieva l’appello principale proposto (limitatamente alla disposta compensazione delle spese di lite) dalla società La Bussola s.r.l. nei confronti dell’Agenzia delle entrate, in persona del legale rappresentante pro tempore (con assorbimento di quello incidentale dell’Ufficio) avverso la sentenza n. 317/05/2014 della Commissione tributaria provinciale di Foggia che aveva accolto il ricorso proposto dalla società avverso la cartella di pagamento n. (OMISSIS) recante l’iscrizione a ruolo per la somma di Euro 90.841,73;

– in punto di diritto, per quanto di interesse, la CTR ha osservato che: 1) andava confermata la legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate nel giudizio di impugnazione della cartella per denunciata omessa/nullità notificazione della stessa trattandosi di un “vizio procedurale” che ridondava sulla stessa sussistenza della pretesa tributaria; 2) l’impugnazione era stata correttamente proposta avverso la cartella di pagamento, atto impugnabile ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e non già avverso un atto denominato “estratto di ruolo”, senza che vi fosse alcun obbligo di deposito della cartella unitamente al ricorso (prevedendo il medesimo decreto, art. 22, soltanto la “facoltà” per il ricorrente di depositare l’atto impugnato nel caso in cui lo stesso risulti notificato); 3) premesso che era onere dell’Agenzia che aveva eccepito la tardività del ricorso provare il dies a quo di decorrenza del termine decadenziale (il 15 febbraio 2010, quale data di asserita notifica della cartella), la medesima aveva depositato con l’atto di appello la fotocopia di una relata di notifica inutilizzabile ai fini probatori, avendo la contribuente eccepito la mancata conformità della stessa all’originale e non essendo stato depositato in giudizio l’originale; 4) essendo, comunque, risultato dall’esame della relata la notificazione a mani di un soggetto qualificato dall’agente postale come “dipendente” di altra società proprietaria dei locali dove la contribuente aveva semplicemente la sua sede legale, era mancata la spedizione della “raccomandata informativa” necessaria ai fini del perfezionamento della notifica a mani di soggetto diverso dal destinatario ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 lett. b-bis;

– avverso la sentenza della CTR, l’Agenzia delle entrate propone ricorso per cassazione affidato a sette motivi, cui resiste la società contribuente, con controricorso;

– la società contribuente ha depositato istanza di sospensione del processo, avendo aderito alla definizione agevolata delle liti pendenti di cui al D.L. n. 119 del 2018, art. 6, convertito dalla L. n. 136 del 2018, nonchè relativa documentazione (copia della domanda di definizione agevolata e modello F24 del versamento della prima rata);

– l’Agenzia delle entrate ha depositato il 14.12.2020 istanza di fissazione di udienza a seguito di diniego di condono (D.L. n. 50 del 2017, ex art. 11: rectius del D.L. n. 119 del 2018, art. 6), con atto prot. (OMISSIS) asseritamente notificato al contribuente il 28/4/2020 per la definizione della lite presentata del D.L. n. 119 del 2018, ex art. 6;

– la contribuente ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 380-bis 1 c.p.c., chiedendo l’estinzione del processo ai sensi del D.L. n. 119 del 2018, art. 6, comma 13, avendo presentato regolare istanza per la definizione della controversia, provvedendo a pagare la prima rata di quanto dovuto, e non avendo l’Agenzia delle entrate mai notificato alla società alcun diniego della definizione entro il 31 luglio 2020 nè successivamente nè avendo alcuna delle parti presentato entro il 31 dicembre 2020 istanza di trattazione della sospesa controversia;

– il ricorso è stato fissato in Camera di consiglio, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., comma 2, e dell’art. 380-bis.1 c.p.c., introdotti dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197.

Motivi della decisione
che:

– va preliminarmente va disattesa l’istanza di estinzione del giudizio formulata dalla contribuente nella memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c., in quanto il diniego di condono D.L. n. 119 del 2018, ex art. 6, (prot. (OMISSIS)) è stato notificato – come da documentazione prodotta in giudizio – il 28/4/2020 alla società all’indirizzo di posta elettronica “(OMISSIS)”, nel termine del 31 dicembre 2020 e nel rispetto delle modalità previste per la notificazione degli atti processuali di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 16, 16-bis e 17, (sul punto, v. anche Circolare dell’Agenzia delle entrate del 1 aprile 2019 n. 6/E) e non è stato da quest’ultima impugnato. Invero, ai sensi dell’art. 6 cit., del comma 12, “L’eventuale diniego della definizione va notificato entro il 31 luglio 2020 con le modalità previste per la notificazione degli atti processuali. Il diniego è impugnabile entro sessanta giorni dinanzi all’organo giurisdizionale presso il quale pende la controversia”. Non essendo stato il diniego di condono – tempestivamente notificato alla contribuente – impugnato da quest’ultima, sussistendo l’interesse dell’Agenzia, occorre procedere, pertanto, al vaglio dei motivi di censura formulati nel presente procedimento;

– con il primo motivo, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, la violazione e falsa applicazione dell’art. 100 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, e art. 21, per avere la CTR avere ritenuto il ricorso introduttivo legittimamente proposto avverso la cartella di pagamento asseritamente non notificata, ancorchè, nella specie, il ricorso fosse stato sostanzialmente proposto avverso l’estratto di ruolo non notificato, quale atto non autonomamente impugnabile e, comunque, anche a volerlo considerare proposto avverso la cartella di pagamento che si assumeva non notificata (della quale la contribuente sarebbe venuta a conoscenza a seguito di “ispezione presso l’agente della riscossione”), l’impugnazione dell’atto asseritamente non notificato fosse consentita esclusivamente – nei termini di cui all’art. 21 cit., – attraverso l’impugnazione dell’atto immediatamente successivo (nella specie, l’atto di intimazione di pagamento), qualificato come atto impugnabile e notificato alla contribuente;

– con il secondo motivo, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, per avere la CTR ritenuto l’Agenzia delle entrate (ente impositore) legittimata passiva nel giudizio di impugnazione della cartella per omessa notifica della stessa, ancorchè si trattasse di vizi, attinenti alla formazione della cartella, ascrivibili ad altro soggetto (Agente della riscossione);

– con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, per avere la CTR ritenuto irrilevante ai fini dell’ammissibilità del ricorso la mancata allegazione al fascicolo processuale della copia dell’atto impositivo ancorchè tale adempimento fosse funzionale alla verifica giudiziale non solo della natura e portata della pretesa erariale ma anche della tempestività del ricorso medesimo;

– con il quarto motivo, si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 25 e 26, e artt. 2712, 2714 c.c., per avere la CTR ritenuto che l’Ufficio non avesse dimostrato l’avvenuta notifica della cartella in data 15 febbraio 2010 – con conseguente tempestività del ricorso – in quanto la prodotta copia fotostatica della relata era inutilizzabile ancorchè incombesse sulla controparte l’onere di contestarne specificamente la conformità all’originale, con obbligo, in tal caso, del giudice di disporre la produzione in giudizio del documento;

– con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, per avere la CTR ritenuto non perfezionatasi la notifica della cartella essendo stata fatta ad un soggetto diverso dal legale rappresentante della società contribuente senza trasmissione della successiva raccomandata, ancorchè, nella specie, la notifica della cartella risultasse avvenuta presso la sede di quest’ultima a mani di persona qualificatasi “addetta al ritiro” e, pertanto, salvo prova contraria – nella specie non assolta – presumibilmente addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica;

– con il sesto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, per avere la CTR ritenuto applicabile l’art. 60 cit., ancorchè il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, richiamasse tale disposizione, ai fini del corretto svolgimento delle attività di notifica, soltanto nei casi previsti dall’art. 140 c.p.c., (irreperibilità relativa), mentre, nella specie, la notifica era stata effettuata ai sensi dell’art. 145 c.p.c., (trattandosi di persona giuridica) senza necessità di indicazione della persona fisica-legale rappresentante dell’ente;

– con il settimo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 546 del 1992, art. 21, per avere la CTR ritenuto tempestivo il ricorso (proposto in data 6.4.11) ancorchè fosse decorso il termine per l’impugnativa stante la rituale notifica della cartella in data 15 febbraio 2010 presso la sede legale della società contribuente;

– assume carattere pregiudiziale l’esame del secondo motivo investendo la contestata legittimazione passiva dell’Agenzia delle entrate in giudizio – che è infondato;

– è oramai consolidato l’orientamento, inaugurato dalla pronuncia delle Sezioni Unite n. 16412 del 25/07/2007, secondo il quale il contribuente che impugni una cartella esattoriale emessa dal concessionario della riscossione per motivi che attengono alla mancata notificazione, ovvero anche alla invalidità degli atti impositivi presupposti, può agire indifferentemente nei confronti tanto dell’ente impositore quanto del concessionario, senza che sia tra i due soggetti configurabile alcun litisconsorzio necessario. In entrambi i casi, la legittimazione passiva spetta all’ente titolare del credito tributario e non già al concessionario, il quale, in presenza di contestazioni involgenti il merito della pretesa impositiva, ha l’onere di chiamare in giudizio il predetto ente, D.Lgs. n. 112 del 1999, ex art. 39, se non vuole rispondere dell’esito della lite, non essendo il giudice tenuto a disporre d’ufficio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non è configurabile un litisconsorzio necessario (cfr. Sez. 5, Sentenza n. 9762 del 07/05/2014, Rv. 63063301; Sez. 5, Sentenza n. 8370 del 24/04/2015, Rv. 635173- 01; Sez. 5, Ordinanza n. 10528 del 28/04/2017, Rv. 644101-01; Sez. 5, Sentenza n. 8295 del 04/05/2018). Il concessionario, dunque, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, è parte quando oggetto della controversia è l’impugnazione di atti viziati da errori ad esso direttamente imputabili, nel caso – cioè – di vizi propri della cartella di pagamento e dell’avviso di mora. In tale ipotesi l’atto va impugnato chiamando in causa esclusivamente il concessionario, al quale è direttamente ascrivibile il vizio dell’atto, non essendo configurabile un litisconsorzio necessario con l’ente impositore (cfr. sez. 5, n. 5832 del 2011 richiamata anche da Sez. 5, Sentenza n. 22729 del 09/11/2016);

– è stato soggiunto che la tardività della notificazione della cartella non costituisce vizio proprio di questa, tale da legittimare in via esclusiva il concessionario a contraddire nel relativo giudizio, sicchè la legittimazione passiva spetta all’ente titolare del credito tributario; nell’ipotesi in cui il concessionario fosse stato fatto destinatario dell’impugnazione, sarebbe stato onere di quest’ultimo chiamare in giudizio l’ente titolare del credito, laddove non volesse rispondere all’esito della lite, non essendo il giudice tenuto a disporre d’ufficio l’integrazione del contraddittorio, in quanto non è configurabile nella specie un litisconsorzio necessario (ex plurimis, da sez. 5, Ord. n. 2480 del 2020; Sez. 5, Sentenza n. 22939 del 30/10/2007; Sez. 5, Sentenza n. 14032 del 27/06/2011);

– nella sentenza impugnata, la CTR ha ritenuto, in ossequio ai suddetti principi, legittimamente proposto dalla contribuente il ricorso nei confronti della Agenzia delle entrate, non configurandosi nell’ipotesi di impugnativa di una cartella esattoriale per motivi che attengono alla mancata notificazione alcun litisconsorzio necessario con l’Agente della riscossione;

– il primo motivo è infondato;

– in materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poichè tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa (Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 1144 del 18/01/2018; Cass. S.U. n. 5791/2008, ripresa da ultimo, da Cass. SU n. 10012/21);

– l’estratto di ruolo è atto interno all’Amministrazione da impugnare unitamente all’atto impositivo, notificato di regola con la cartella di pagamento, perchè solo da quel momento sorge l’interesse ad instaurare la lite ex art. 100 c.p.c., salvo il caso in cui il ruolo e la cartella non siano stati notificati: ipotesi in cui, non potendo essere compresso o ritardato l’esercizio del diritto alla tutela giurisdizionale, è invece ammissibile, nel rispetto del termine generale previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, l’autonoma impugnativa dell’estratto, non ostandovi il disposto del D.Lgs. n. 546 cit., art. 19, comma 3, che, secondo una lettura costituzionalmente orientata, impone di ritenere che l’impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisce l’unica possibilità di far valere la mancanza di una valida notifica dell’atto precedente del quale il contribuente sia comunque venuto a conoscenza (Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 22507 del 09/09/2019). Ovviamente l’impugnazione dell’estratto di ruolo è soggetta al rispetto del termine generale previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 21, essendo ininfluente la facoltatività dell’impugnazione dell’estratto, per la permanenza, in capo al contribuente, del diritto di impugnare anche il primo atto impositivo tipico successivamente notificatogli (cfr., in motivazione, Cass., Sez. 5, Sentenza n. 27799 del 31/10/2018);

– peraltro, si è anche aggiunto che, in tema di contenzioso tributario, solo la piena conoscenza dell’atto da parte del contribuente consente il consapevole esercizio del diritto di impugnativa, e la ratio della previsione secondo cui al contribuente non va – di regola – notificato l’estratto di ruolo, bensì la cartella di pagamento nella quale il ruolo viene trasfuso, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, artt. 25 e 26, risiede proprio nell’esigenza di rendere ostensibili al medesimo le ragioni ed i presupposti che hanno dato origine alla pretesa fiscale azionata dall’amministrazione finanziaria (Cass., Sez. 5, 17 aprile 2015, n. 7874) con la conseguenza che l’acquisizione da parte del contribuente di una copia dell’estratto di ruolo riportante l’indicazione di avvenuta iscrizione a ruolo di quanto poi trasfuso nella relativa cartella di pagamento, avente il valore di una mera informazione di un fatto verificatosi, non può assurgere a prova della piena conoscenza dell’atto impositivo impugnabile, ai fini della decorrenza del termine di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 21, potendo legittimare al più l’impugnazione, peraltro facoltativa, del solo estratto di ruolo (Cass., Sez. 6, 9 settembre 2019, n. 909; Cass., sez. 5, n. 26093 del 2020);

– in relazione al caso di specie, va, dunque, ribadito e confermato che, per quanto l’estratto di ruolo non sia autonomamente impugnabile, in quanto atto interno all’amministrazione ed improduttivo di effetti nella sfera del destinatario, il quale ha l’onere di impugnare la cartella cui esso di riferisce, con le forme e nei termini di legge, tale principio non si pone in contrasto con quello secondo cui il contribuente può far valere immediatamente le sue ragioni avverso la cartella esattoriale non notificata o invalidamente notificata, della cui esistenza sia venuto a conoscenza solo attraverso un estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta, trattandosi – in quest’ultimo caso – di tutela anticipatoria giustificata dall’esigenza di recuperare gli strumenti di impugnazione avverso la cartella esattoriale non utilmente attivabili in precedenza a causa della assenza o invalidità della notifica (Cass., Sez. Un., 2 ottobre 2015, n. 19704; Cass., Sez. 5, 19 gennaio 2018, n. 1302; Cass., Sez. 6, 25 febbraio 2019, n. 5443; Cass., Sez. 6, 9 settembre 2019, n. 22507; Cass., Sez. Lav., 12 novembre 2019, n. 29294; Cass., sez. 6-Lav. 25 febbraio 2019 n. 5443, Cass. n. 26093 del 2020); in particolare, si è affermato che “è ammissibile l’impugnazione della cartella (e/o del ruolo) che non sia stata (validamente) notificata e della quale il contribuente sia venuto a conoscenza attraverso l’estratto di ruolo rilasciato su sua richiesta dal concessionario, senza che a ciò sia di ostacolo il disposto dell’ultima parte del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3, posto che una lettura costituzionalmente orientata di tale norma impone di ritenere che la ivi prevista impugnabilità dell’atto precedente non notificato unitamente all’atto successivo notificato non costituisca l’unica possibilità di far valere l’invalidità della notifica di un atto del quale il contribuente sia comunque legittimamente venuto a conoscenza e pertanto non escluda la possibilità di far valere tale invalidità anche prima, nel doveroso rispetto del diritto del contribuente a non vedere senza motivo compresso, ritardato, reso più difficile ovvero più gravoso il proprio accesso alla tutela giurisdizionale quando ciò non sia imposto dalla stringente necessità di garantire diritti o interessi di pari rilievo rispetto ai quali si ponga un concreto problema di reciproca limitazione” (Cass. SU n. 19704 del 2015);

– nella specie, in cui viene in rilievo la questione della ammissibilità della impugnazione della cartella invalidamente notificata (e conosciuta attraverso l’estratto di ruolo), la CTR si è attenuta ai suddetti principi avendo ritenuto ammissibile il ricorso proposto (non unitamente alla impugnazione dell’atto successivo notificato) “esclusivamente contro la cartella di pagamento” per vizio di omessa/nullità della relativa notifica, essendone venuta la contribuente a conoscenza a “seguito di un controllo routinario presso l’Agente della riscossione”;

– il terzo motivo è altresì infondato;

– in tema di processo tributario, anche con riferimento agli atti notificati dopo l’entrata in vigore della L. 27 luglio 2000, n. 212, va confermato il principio secondo cui dal mancato deposito del processo verbale non deriva l’inammissibilità del ricorso, che è prevista dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 22, comma 1, per i soli atti ivi indicati, tra cui non compaiono l’originale o la fotocopia dell’atto impugnato (comprensivi anche del p.v.c. richiamato nell’avviso di accertamento), ai quali si riferisce, invece, l’art. 22 citato, comma 4, e che possono, quindi, essere prodotti anche in un momento successivo, ovvero su impulso del giudice tributario (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21509 del 20/10/2010); nel processo tributario, nonostante non sia prevista alcuna sanzione, a norma del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 4, quale conseguenza dell’omesso deposito dell’atto impugnato, con la relativa notificazione, il contribuente è pur sempre tenuto a provvedervi allorquando sia eccepita la tardività del ricorso, essendo dalla notifica dell’atto ricavabile la prova della tempestiva introduzione del giudizio, il cui onere grava sul predetto (Cass. Sez. 5, Ord. n. 25107 del 10/11/2020);

– nella sentenza impugnata, la CTR si è attenuta al suddetto principio avendo ritenuto che il mancato deposito della cartella unitamente all’atto introduttivo non fosse sanzionato con la inammissibilità del ricorso; peraltro, il deposito della cartella non poteva, nella specie, rilevare ai fini della prova della tempestività della proposizione del ricorso, avendo la contribuente contestato proprio la mancanza/nullità della notifica dell’atto impositivo;

– il quarto motivo – con il quale si aggredisce la prima delle due rationes decidendi sottesa al rigetto della eccezione di tardività del ricorso originario sollevata dall’Agenzia (per decorso del termine decadenziale dalla assunta notifica della cartella in data 15.2.2010) – è fondato per le ragioni di seguito indicate;

– in tema di notifica della cartella esattoriale, laddove l’agente della riscossione produca in giudizio copia fotostatica della relata di notifica o dell’avviso di ricevimento (recanti il numero identificativo della cartella) e l’obbligato contesti la conformità delle copie prodotte agli originali, ai sensi dell’art. 2719 c.c., il giudice che escluda l’esistenza di una rituale certificazione di conformità agli originali, non può limitarsi a negare ogni efficacia probatoria alle copie prodotte, ma deve valutare le specifiche difformità contestate alla luce degli elementi istruttori disponibili, compresi quelli di natura presuntiva, attribuendo il giusto rilievo anche all’eventuale attestazione, da parte dell’agente della riscossione, della conformità delle copie prodotte alle riproduzioni informatiche degli originali in suo possesso (Cass., Sez. 5, Ord. n. 23426 del 26/10/2020; Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 23902 del 11/10/2017);

-questa Corte ha, altresì, precisato come la questione relativa alle modalità con cui si contesti la conformità delle copie prodotte agli originali, ai sensi dell’art. 2719 c.c., va risolta valutando se e come siano state contestate le specifiche difformità ed esige la trascrizione delle eccezioni di disconoscimento dedotte dal contribuente, al fine di consentire al giudice di legittimità di verificare la sussistenza della violazione di legge dedotta e, dunque, la correttezza delle argomentazioni del decidente (Cass. sent. n. 16557 del 20/06/2019; Cass. n. 23426 del 2020); l’art. 2719 c.c., esige, difatti, l’espresso disconoscimento della conformità con l’originale delle copie fotografiche o fotostatiche: conseguentemente, la copia fotostatica non autenticata si ha per riconosciuta, tanto nella sua conformità all’originale quanto nella scrittura e sottoscrizione, se la parte comparsa non la disconosce, in modo specifico ed inequivoco (Cass. n. 882/2018; n. 4053/2018);

– nella specie, la CTR non si è attenuta ai suddetti principi, limitandosi ad affermare apoditticamente di non potere utilizzare ai fini probatori – in assenza di produzione dell’originale – la fotocopia della “relata di notifica” oggetto di contestazione da parte della contribuente all’atto del suo deposito in appello in quanto ritenuta non conforme all’originale; è quindi chiaro che, nella fattispecie, la contribuente non ha operato alcun disconoscimento della conformità della copia all’originale, lamentandosi sostanzialmente di non poter esercitare i diritti di cui all’art. 2719 c.c., in assenza della produzione degli originali; peraltro, pur a voler ammettere implicitamente formulato dal contribuente il disconoscimento della conformità delle copie degli atti agli originali, non va trascurato che è privo di efficacia il generico disconoscimento della conformità tra l’originale e la copia fotostatica prodotta in giudizio. Perchè possa aversi, infatti, disconoscimento idoneo è necessario che la parte, nei modi e termini di legge, renda una dichiarazione che – pur nel silenzio della norma predetta, che non richiede forme particolari – evidenzi in modo chiaro ed inequivoco gli elementi differenziali del documento prodotto rispetto all’originale di cui si assume sia copia, senza che possano considerarsi sufficienti, ai fini del ridimensionamento dell’efficacia probatoria, contestazioni generiche o onnicomprensive (cfr. in tal senso Cass. n. 28096 del 30/12/2009 in tema di applicazione dell’art. 2719 c.c.). Il disconoscimento deve quindi ad es. contenere l’indicazione delle parti in cui la copia sia materialmente contraffatta rispetto all’originale; oppure le parti mancanti e il loro contenuto; oppure, in alternativa, le parti aggiunte; a seconda dei casi, poi, la parte che disconosce deve anche offrire elementi, almeno indiziari, sul diverso contenuto che il documento presenta nella versione originale; pertanto, nella specie, essendosi il contribuente limitato ad eccepire, ex artt. 2712-2719 c.c., “la mancanza di conformità all’originale della relata di notifica della cartella depositata dall’Agenzia”(v. pag. 27 del controricorso), è evidente che la CTR ha erroneamente escluso la utilizzabilità, ai fini probatori, della copia fotostatica della “relata di notifica” essendo, in ogni caso, privo di efficacia il generico disconoscimento della conformità tra l’originale e la copia fotostatica prodotta in giudizio;

– i motivi dal quinto al settimo – che aggrediscono la seconda ratio decidendi sottesa al rigetto dell’eccezione di tardività del ricorso originario concretantesi nell’asserito mancato perfezionamento della notifica della cartella – sono fondati;

– in tema di riscossione delle imposte, la notifica della cartella esattoriale può avvenire anche mediante invio diretto, da parte del concessionario, di lettera raccomandata con avviso di ricevimento, in quanto la seconda parte del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, prevede una modalità di notifica, integralmente affidata al concessionario stesso ed all’ufficiale postale, alternativa rispetto a quella della prima parte della medesima disposizione e di competenza esclusiva dei soggetti ivi indicati. In tal caso, la notifica si perfeziona con la ricezione del destinatario, alla data risultante dall’avviso di ricevimento, senza necessità di un’apposita relata, visto che è l’ufficiale postale a garantirne, nel menzionato avviso, l’esecuzione effettuata su istanza del soggetto legittimato e l’effettiva coincidenza tra destinatario e consegnatario della cartella, come confermato implicitamente dal citato art. 26, comma penultimo, secondo cui il concessionario è obbligato a conservare per cinque anni la matrice o la copia della cartella con la relazione dell’avvenuta notificazione o con l’avviso di ricevimento, in ragione della forma di notificazione prescelta, al fine di esibirla su richiesta del contribuente o dell’amministrazione” (cfr., tra le molte, Cass. sez. 5, 19 marzo 2014, n. 6395; Cass. sez. 6-5, ord. 24 luglio 2014, n. 16949; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 4567 del 06/03/2015; Cass. sez. 6-5, ord. 13 giugno 2016, n. 12083; Cass. sez. 5, 18 novembre 2016, n. 23511; v. Cass. n. 8086 del 2018, con riguardo alla notifica di preavviso di fermo amministrativo); in particolare, “Qualora la notifica della cartella di pagamento nei confronti di una società sia eseguita direttamente dal concessionario mediante raccomandata con avviso di ricevimento, D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26, comma 1, seconda parte, per il relativo perfezionamento è sufficiente che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale, se non di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la propria firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente, dovendosi escludere, stante l’alternatività di tale disciplina speciale rispetto a quella dettata dalla L. n. 890 del 1982, e dal codice di rito, l’applicabilità delle disposizioni in tema di notifica degli atti giudiziari e, in specie, dell’art. 145 c.p.c.,” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 23511 del 18/11/2016); inoltre, in tema di notifica della cartella esattoriale D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 26, comma 1, seconda parte, la prova del perfezionamento del procedimento di notificazione e della relativa data è assolta mediante la produzione dell’avviso di ricevimento, non essendo necessario che l’agente della riscossione produca la copia della cartella di pagamento, la quale, una volta pervenuta all’indirizzo del destinatario, deve ritenersi ritualmente consegnata a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo provi di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (Cass. n. 15795/2016; 12083/2016; n. 23213/2014; n. 16949/2014; 4895/2014; n. 9111/2012; n. 270/2012); si è osservato anche che se manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma, e la relativa sottoscrizione sia addotta come inintelligibile, l’atto è pur sempre valido, poichè la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c., ed eventualmente solo in tal modo impugnabile, stante la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata (Cass. n. 22488/2014; n. 2008/2008); al riguardo, questa Corte ha precisato che “qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982, potendosi far valere solo a mezzo querela di falso le questioni circa la riferibilità della firma al destinatario della notifica” (Cass. n. 29022 del 2017);

– l’orientamento di questa Corte è nel senso di ritenere (Cass. Sez. 6 5, Ordinanza n. 10037 del 10/04/2019) che in tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, mediante invio diretto della raccomandata con avviso di ricevimento da parte del concessionario, non è necessario l’invio di una successiva raccomandata informativa in quanto trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario, peraltro con esclusione della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 883, in quanto privo di efficacia retroattiva, e non quelle della L. n. 890 del 1982;

– in tema di notifica della cartella di pagamento, (soltanto) nei casi di “irreperibilità cd. relativa” del destinatario, all’esito della sentenza della Corte Cost. n. 258 del 22 novembre 2012 relativa al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 3, (ora comma 4), va applicato l’art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto del citato art. 26, u.c., e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, alinea, sicchè è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l’inoltro al destinatario e l’effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 25079 del 26/11/2014; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 9782 del 19/04/2018);

– nella sentenza impugnata, la CTR non si attenuta ai suddetti principi, in quanto, a fronte della notifica della cartella eseguita dal concessionario a mezzo servizio postale “a mani di soggetto… qualificato dall’Agente postale dipendente (fatto non contestato dall’Agenzia) di altra società proprietaria dei locali dove la Bussola s.r.l. ha semplicemente la sua sede legale”, ha ritenuto la stessa non perfezionata in mancanza, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. b-bis, di una successiva “raccomandata informativa” trattandosi, a suo avviso, di notifica nelle mani di soggetto diverso dal destinatario; con ciò facendo erroneamente applicazione dell’art. 60 cit., che è richiamato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 4, soltanto nei casi previsti dall’art. 140 c.p.c.; invero, nella specie, non trattandosi di c.d. irreperibilità relativa – e costituendo l’asserita omissione dell’adempimento della spedizione della raccomandata informativa l’unica ragione del ritenuto mancato perfezionamento della notifica della cartella – stante l’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c., in mancanza di querela di falso, dell’accertamento preliminare dell’agente postale circa la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato, la notifica della cartella deve ritenersi perfezionata alla data del 15.2.2010 con conseguente intempestività del ricorso originario (la cui tardività non risulta contestata in sè dalla società, v. pag. 28 del controricorso “la impugnazione tardiva è dovuta esclusivamente alla circostanza che la cartella non è stata consegnata”);

– in conclusione, vanno accolti i motivi dal quarto al settimo, respinti i restanti; con cassazione della sentenza impugnata, e, decidendo nel merito, con declaratoria di inammissibilità per tardività dell’originario ricorso del contribuente avverso la cartella di pagamento;

– sussistono giusti motivi per compensare tra le parti le spese dei gradi merito mentre quelle del giudizio di legittimità seguono il principio della soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte accoglie i motivi dal quarto al settimo, respinti i restanti; cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito dichiara inammissibile il ricorso originario del contribuente avverso la cartella di pagamento; compensa le spese dei gradi di merito; condanna la controricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Conclusione
Così deciso in Roma, a seguito di riconvocazione, il 3 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 9 marzo 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 26/01/2022) 02/03/2022, n. 6820

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31907-2020 proposto da:

ADER AGENZIA DELLE ENTRATE RISCOSSIONE, in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente-

Contro

T.P.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3151/8/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA CALABRIA, depositata il 16/09/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 26/01/2022 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO MONDINI.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
che:

1. L’Agenzia delle Entrate Riscossione ricorre, denunciando violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, per la cassazione della sentenza in epigrafe con la quale la CTR della Calabria ha dichiarato illegittima l’intimazione di pagamento emessa da essa ricorrente nei confronti di T.P. in forza di cartella esattiva, sull’assunto difetto di notifica di quest’ultima non avendo la ricorrente provveduto ad avvisare il destinatario del fatto che la raccomandata postale di invio diretto della suddetta cartella era stata consegnata ad un soggetto addetto alla sua casa. La CTR ha poi dichiarato le altre questioni assorbite.

2. T.P. non si è costituito;

3. il ricorso è fondato.

Al contrario di quanto assunto dalla CTR, questa Corte ha più volte affermato che “In tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella di pagamento sia eseguita, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, mediante invio diretto della raccomandata con avviso di ricevimento da parte del concessionario, non è necessario l’invio di una successiva raccomandata informativa in quanto trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario, peraltro con esclusione della L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 883, in quanto privo di efficacia retroattiva, e non quelle della L. n. 890 del 1982” (così, tra le altre, Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 10037 del 10/04/2019 in tema di consegna al portiere dello stabile senza invio della raccomandata informativa al destinatario).

Merita ricordare che la forma semplificata di notificazione, come affermato dalla Consulta nella sentenza n. 175 del 2018, non pone problemi di legittimità costituzionale in quanto, la raccomandata informativa vale sì “indubbiamente a rafforzare il diritto di azione e di difesa (art. 24 Cost., commi 1 e 2) del destinatario dell’atto”, ma “non costituisce, nella disciplina della notificazione, una condizione indefettibile della tutela costituzionalmente necessaria di tale, pur fondamentale, diritto”, talchè può essere esclusa “in relazione alla funzione pubblicistica svolta dall’agente per la riscossione volta ad assicurare la pronta realizzazione del credito fiscale a garanzia del regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato” (v. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 28872 del 12/11/2018);

4. il ricorso deve essere accolto e la sentenza impugnata deve essere cassata;

5. la causa va rinviata alla CTR della Calabria, in diversa composizione per esame delle questioni rimaste assorbite nonchè per la liquidazione delle spese del processo.

P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, alla CTR della Calabria in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, con modalità da remoto, il 26 gennaio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022


Cass. civ., Sez. VI – 5, Ord., (data ud. 09/02/2022) 02/03/2022, n. 6836

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE T

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MOCCI Mauro – Presidente –

Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –

Dott. CAPRIOLI Maura – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – rel. Consigliere –

Dott. DELLI PRISCOLI Lorenzo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 30859-2020 proposto da:

L.D., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato QUINTO FRANCHINA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, (C.F. (OMISSIS)), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2111/16/2020 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE DELLA SICILIA SEZIONE DISTACCATA di MESSINA, depositata il 23/04/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 09/02/2022 dal Consigliere Relatore Dott. ANTONIO MONDINE.

Svolgimento del processo
che:

1. L.D. ricorre per la cassazione della sentenza in epigrafe lamentando che la CTR della Sicilia abbia violato gli artt. 139 e 140 c.p.c., e il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), con il ritenere rituale la notifica dell’atto impositivo posto a base della cartella impugnata malgrado che la stessa fosse stata effettuata non ex artt. 139 e 140 c.p.c., bensì ex art. 60, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973, avendo il messo notificatore solo attestato di aver proceduto ai sensi di quest’ultimo articolo “per irreperibilità della destinataria, di addetti alla casa, di portiere e di vicini di casa in quanto al sopra indicato indirizzo non vi è alcuna porta di abitazione” e senza dare conto delle ricerche compiute per verificare l’irreperibilità assoluta di essa ricorrente;

2. l’Agenzia delle Entrate ha depositato controricorso;

3. la ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
che:

1. il ricorso è fondato.

La contribuente lamenta che prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore avrebbe dovuto svolgere e dar conto di aver svolto ricerche finalizzate a verificarne l’irreperibilità assoluta. Precisa di aver, fino dal 1999, sempre avuto la residenza in “(OMISSIS)” come da certificato rilasciato dal Comune di Messina e allegato al ricorso introduttivo.

E’ stato da questa Corte affermato che “La notificazione degli avvisi e degli atti tributari impositivi va eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., solo ove sia conosciuta la residenza o l’indirizzo del destinatario che, per temporanea irreperibilità, non sia stato rinvenuto al momento della consegna dell’atto, mentre va effettuata D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e), quando il notificatore non reperisca il contribuente perchè trasferitosi in luogo sconosciuto, sempre che abbia accertato, previe ricerche, attestate nella relata, che il trasferimento non sia consistito nel mero mutamento di indirizzo nell’ambito dello stesso comune del domicilio fiscale” (Cass. Sez. 6-5, Ordinanza n. 6799 del 15/03/2017).

E’ stato altresì precisato che “In tema di notificazione degli atti impositivi, prima di effettuare la notifica secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. e), in luogo di quella ex art. 140 c.p.c., il messo notificatore o l’ufficiale giudiziario devono svolgere ricerche volte a verificare l’irreperibilità assoluta del contribuente, ossia che quest’ultimo non abbia più nè l’abitazione nè l’ufficio o l’azienda nel Comune già sede del proprio domicilio fiscale (Sez. 6-5, Ordinanza n. 2877 del 07/02/2018).

E’ stato altresì detto che “In tema di notifica degli atti impositivi, la cd. irreperibilità assoluta del destinatario che ne consente il compimento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), presuppone che nel Comune, già sede del domicilio fiscale dello stesso, il contribuente non abbia più abitazione, ufficio o azienda e, quindi, manchino dati ed elementi, oggettivamente idonei, per notificare altrimenti l’atto: peraltro, il tipo di ricerche a tal fine demandato al notificatore non è indicato da alcuna norma, neppure quanto alle espressioni con le quali debba esserne documentato l’esito nella relata, purchè dalla stessa se ne evinca con chiarezza l’effettivo compimento (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 19958 del 27/07/2018).

Nel caso di specie, l’attestazione del messo notificatore secondo cui in loco “non vi era alcuna porta di abitazione” non è sufficiente a far comprendere se sia stato giustificato il ricorso alla procedura di notifica in concreto adottata;

3. il ricorso deve essere accolto, la sentenza deve essere cassata;

4. la causa deve essere rinviata alla CTR della Sicilia per la verifica, alla luce dei principi sopra enunciati, della ritualità della notifica in contestazione;

5. il giudice del rinvio dovrà anche liquidare le spese dell’intero processo.

P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla CTR della Sicilia, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, svolta con modalità da remoto, il 9 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 2 marzo 2022


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 17/02/2022) 23/02/2022, n. 6041

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. RUSSO Rita – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CIRESE Marina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 25239-2016 proposto da:

B.D.;

KRUSE S.r.L., in persona del legale rappresentante pro tempore elettivamente domiciliati in ROMA, presso lo studio dell’Avvocato GIUSEPPE MARINO, che li rappresenta e difende giusta procura speciale estesa in calce al ricorso;

– ricorrenti-

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 2134/2016 della Commissione Tributaria Regionale della LOMBARDIA, depositata il 12/4/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 17/2/2022 dal Consigliere Relatore Dott.ssa DELL’ORFANO ANTONELLA.

Svolgimento del processo
CHE:

B.D. e Kruse S.r.L. propongono ricorso, affidato a quattro motivi, per la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con cui la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia aveva accolto l’appello erariale avverso la sentenza n. 10649/2014 della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, in accoglimento del ricorso avverso avviso di liquidazione per imposta di registro, ipotecaria e catastale;

l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso

Motivi della decisione
CHE:

1.1. con il primo mezzo si denuncia violazione di norme di diritto (art. 145 c.p.c., comma 1, art. 14, comma 1, e L. n. 890 del 1982, art. 7, commi 1, 2 e 3) per avere la Commissione Tributaria Regionale accolto l’appello ritenendo validamente notificato l’atto impositivo ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 1, pur essendo stata effettuata la notifica mediante raccomandata ai sensi della L. n. 890 del 1982, che prevede una disciplina speciale e prevalente rispetto a quella dettata dal codice di rito, ed in base alla quale la consegna dell’atto al portiere avrebbe dovuto essere preceduta dal tentativo di notifica agli altri soggetti indicati dalla citata L. n. 890 del 1982, art. 7, in via preferenziale;

1.2. con il secondo mezzo si denuncia violazione di norme di diritto (art. 7, comma 6, L. n. 890/1982) per avere la Commissione Tributaria Regionale accolto l’appello ritenendo validamente notificato l’atto impositivo nonostante l’invio della successiva raccomandata informativa, prevista dall’art. 7 cit., ad un indirizzo diverso da quello del destinatario;

1.3. con il terzo mezzo si denuncia violazione di norme di diritto (art. 145 c.p.c., comma 3) per avere la Commissione Tributaria Regionale accolto l’appello ritenendo validamente notificato l’atto impositivo, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 1, al legale rappresentante della società presso la sua residenza anagrafica nonostante l’insussistenza dell’impossibilità della notifica presso la sede della società e la notifica presso la suddetta residenza, sita in Comune diverso dal domicilio fiscale dell’ente;

1.4. con il quarto mezzo si denuncia violazione di norme di diritto (L. n. 890 del 1982, art. 8, comma 2) per avere la Commissione Tributaria Regionale accolto l’appello ritenendo validamente notificato l’atto impositivo al legale rappresentante della società nonostante il mancato invio della raccomandata informativa per temporanea assenza del destinatario;

2.1. il primo ed il secondo motivo, da esaminare congiuntamente, in quanto strettamente connessi, sono infondati;

2.2. l’atto impositivo risulta notificato a mezzo posta tramite ufficiale postale (e non ufficiale giudiziario) e mediante consegna al portiere dello stabile che sottoscrisse per ricevuta;

2.3. la norma di riferimento è perciò la L. n. 890 del 1982, art. 7, non l’art. 139 c.p.c., norma quest’ultima che subordina la consegna dell’atto al portiere dello stabile alla previa ricerca di soggetti legittimati a riceverlo, ricerca di cui l’ufficiale giudiziario può dare conto mediante la relata di notifica, diversamente dall’agente postale che ha a sua disposizione una cartolina verde prestampata che non prevede tale possibilità e, sul piano grafico, nemmeno una casella in cui si dà atto di tale ricerca;

2.4. se l’agente postale ha consegnato al portiere dello stabile l’atto, la relativa indicazione sulla cartolina presuppone dunque necessariamente che questi abbia infruttuosamente cercato altre persone legittimate;

2.5. la tesi secondo cui la L. n. 890 del 1982, art. 7, costituisce norma speciale rispetto all’art. 139, c.p.c., non ha alcun fondamento e ciò sul decisivo rilievo che anche l’ufficiale giudiziario può eseguire la notificazione a mezzo del servizio postale (art. 149 c.p.c.), sicchè l’argomento secondo cui l’ufficiale giudiziario può descrivere nella relata di notifica le ricerche prodromiche alla consegna dell’atto al portiere dello stabile (il che l’agente postale non potrebbe materialmente compiere su un modulo prestampato) non è decisivo perchè la notificazione effettuata dall’ufficiale giudiziario a mezzo servizio postale non può essere, in caso di consegna al portiere, meno “garantita” di quella effettuata direttamente dall’ufficiale giudiziario stesso;

2.6. la questione, peraltro, è già stata risolta da questa Corte che ha affermato che “a norma dell’art. 139 c.p.c., è nulla la notificazione effettuata mediante consegna di copia dell’atto al portiere dello stabile del destinatario qualora l’ufficiale giudiziario si limiti a dare atto della precaria assenza dell’intimato senza certificare l’avvenuta ricerca delle ulteriori persone abilitate a ricevere l’atto (Cass. 17 ottobre 1988, n. 5637), e ciò vale anche per la notificazione eseguita per mezzo del servizio postale poichè l’inosservanza dell’ordine delle persone indicate dalla L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, quali possibili consegnatari dell’atto in caso di assenza del destinatario è causa di nullità della notificazione che deve essere fatta valere nei limiti e secondo le regole del giudizio di impugnazione” (cfr. Cass. Sez. U, n. 1097/2000; nello stesso senso Cass. n. 6021/2007, secondo cui “in materia di notifica a mezzo posta, è nulla la notifica effettuata a mani del portiere dello stabile, allorquando la relazione dell’ufficiale postale non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento del destinatario o del rifiuto o assenza delle persone abilitate a ricevere l’atto in posizione preferenziale (persona di famiglia, addetta alla casa o al servizio), non potendo desumersi che il portiere fosse stato espressamente incaricato a ricevere gli atti da una successiva notifica effettuata con le stesse modalità, dovendo la validità della notifica effettuarsi con riferimento esclusivo al suo contesto”);

2.7. nel caso in esame, tuttavia, la notifica dell’avviso di liquidazione è stata effettuata direttamente dall’Agenzia delle Entrate a mezzo posta, avvalendosi della facoltà espressamente prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 14, come modificato dalla L. 8 maggio 1998, n. 146, art. 20;

2.8. in tal caso si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982 (cfr. Cass. nn. 147/2022 in motiv., 29642/2019, 8293/2018, 17598/2010);

2.9. ne consegue che, difettando apposite previsioni della disciplina postale, non deve essere redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., superabile solo se il medesimo dia prova di essersi trovato senza sua colpa nell’impossibilità di prenderne cognizione (cfr. Cass. nn. 14501/2016, 15315/2014, 9111/2012);

2.10. ove la notifica dell’atto impositivo sia stata effettuata direttamente dall’Agenzia delle entrate mediante raccomandata con avviso di ricevimento è sufficiente, quindi, per il relativo perfezionamento, che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento ad opera dell’ufficiale postale se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione apponga la sua firma sul registro di consegna della corrispondenza, oltre che sull’avviso di ricevimento da restituire al mittente;

2.11. anche se manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma, e la relativa sottoscrizione sia addotta come inintelligibile, l’atto, dunque, è pur tuttavia valido, poichè la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c. ed eventualmente solo in tal modo impugnabile, stante la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata (cfr. Cass. nn. 4556/2020, 4567/2015, 6395/2014, 11708/2011);

2.22. in caso di notifica dell’atto impositivo effettuata direttamente dall’Agenzia delle entrate mediante raccomandata con avviso di ricevimento, per la consegna nelle mani del portiere l’ufficiale postale non è tenuto, pertanto, a rendere l’attestazione dell’avvenuta ricerca e del mancato rinvenimento delle persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, come invece richiesto nel caso in cui la notifica sia effettuata a mezzo ufficiale giudiziario o con gli strumenti della notifica degli atti giudiziari civili, ai sensi della L. n. 890 del 1982;

2.23. a seguire, sulla scorta di quanto dianzi illustrato, va rilevato che se la notifica dell’atto impositivo può essere effettuata anche nelle mani del portiere, tuttavia, in base agli organi ed agli strumenti utilizzati per la notifica, è necessaria o meno la spedizione dell’ulteriore raccomandata informativa;

2.24. come esaurientemente affermato da questa Corte con l’ordinanza n. 37207 del 2021, se, infatti, la notifica è effettuata a mezzo ufficiale giudiziario, l’art. 139 c.p.c., comma 4, prevede espressamente l’invio della raccomandata informativa (“il portiere o il vicino deve sottoscrivere una ricevuta, e l’ufficiale giudiziario dà notizia al destinatario dell’avvenuta notificazione dell’atto, a mezzo di lettera raccomandata”);

2.25. parimenti, se, poi, la notificazione è effettuata presso il portiere con gli strumenti della notifica degli atti giudiziari civili, quindi ai sensi della L. n. 890 del 1982, vi è ugualmente l’obbligo di invio della successiva raccomandata informativa, ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 5, aggiunto dal D.L. 31 dicembre 2007, n. 248, art. 36, comma 2-quater, convertito nella L. 28 febbraio 2008, n. 31, in vigore dal 1 marzo 2008 (Cass., sez. 3, 4 dicembre 2012, n. 21725; Cass., sez. 5, 25 gennaio 2010, n. 1366; Cass., sez. L, 21 agosto 2013, n. 19366);

2.26. se, invece, la notifica della cartella è effettuata in via diretta, quindi a mezzo posta ordinaria, non è necessario l’invio, in quanto le modalità di notificazione a mezzo posta ordinaria sono disciplinate dal decreto 9 aprile 2001 (approvazione delle condizioni generali del servizio postale), che prevede, all’art. 32 del decreto 9 aprile 2001 (invii a firma), che “tutti gli invii di posta raccomandata sono consegnati al destinatario o ad altra persona individuata come di seguito specificato, dietro firma per ricevuta”, mentre l’art. 39 dello stesso decreto (nuclei familiari) dispone che “sono abilitati a ricevere gli invii di posta presso il domicilio del destinatario anche i componenti del nucleo familiare, i conviventi ed i collaboratori familiari dello stesso e, se vi e servizio di portierato, il portiere”;

2.26. con specifico riferimento alla notifica “diretta” effettuata a mezzo posta ordinaria presso il portiere, si ritiene dunque non necessaria la successiva raccomandata informativa (cfr. Cass., nn. 21815/2019, 4020/2014), essendo stato, infatti, chiarito che, in tema di notifica degli atti impositivi, se la stessa avviene mediante consegna al portiere dello stabile da parte dell’ufficiale giudiziario, ove quest’ultimo non attesti nella relata il mancato rinvenimento delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c., la nullità è sanata per raggiungimento dello scopo qualora sia provata la ricezione della raccomandata contenente la notizia dell’avvenuta notificazione, mentre, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982, sicchè, in caso di notifica al portiere, essa si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento da quest’ultimo sottoscritto, senza che si renda necessario l’invio della raccomandata al destinatario (cfr. Cass. n. 8293/2018);

2.27. pertanto, poichè è pacifico, nel caso in esame, che la notifica “diretta” sia stata effettuata a mezzo posta ordinaria, e non a mezzo ufficiale giudiziario ex art. 139 c.p.c., comma 3, oppure ai sensi della L. n. 289 del 1992, art. 7, è legittima la notificazione della cartella al portiere, senza l’invio della successiva raccomandata;

2.28. le censure dei ricorrenti non trovano quindi fondamento;

3.1. il terzo ed il quarto motivo risultano, infine, inammissibili in quanto non colgono la ratio decidendi della sentenza impugnata, limitatasi ad affermare la validità della notifica effettuata mediante consegna a mani del portiere presso la sede legale della società, senza in alcun modo argomentare circa l’ulteriore notifica effettuata nei confronti del legale rappresentante della società, destinataria dell’avviso di liquidazione, presso la residenza anagrafica dello stesso;

3.2. le censure risultano inoltre in ogni caso assorbite dal rigetto dei primi due motivi in merito alla dedotta invalidità della notifica effettuata presso il domicilio fiscale della società;

4. sulla scorta di quanto sin qui illustrato, il ricorso va integralmente respinto;

5. le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti, in solido, al pagamento, in favore dell’Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, tenutasi in modalità da remoto, della Corte di Cassazione, Sezione Tributaria, il 17 febbraio 2022.

Depositato in Cancelleria il 23 febbraio 2022


Cass. civ., Sez. V, Ord., (data ud. 13/10/2021) 15/02/2022, n. 4820

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello M. – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

Sul ricorso n. 17273-2015 R.G., proposto da:

AIRRI MEDICAL, C.F. (OMISSIS), elettivamente domiciliata in Roma, al v.le delle Milizie n. 38, presso lo studio dell’avv. Alberto Di Natale, dal quale, unitamente all’avv. Lidia Tamagnini, è rappresentata e difesa;

– Ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. (OMISSIS), in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

– Resistente –

Avverso la sentenza n. 773/28/2015 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata il 10.02.2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 13 ottobre 2021 dal Consigliere Dott. Francesco FEDERICI.

Svolgimento del processo
che:

Secondo quanto si evince dal ricorso alla società AIRRI MEDICAL fu notificata la cartella di pagamento di Euro 25.675,57 a titolo di interessi e sanzioni per il tardivo versamento Irap dell’anno 2007. La cartella traeva origine dal controllo automatizzato sulla dichiarazione modello unico 2008, relativa all’anno d’imposta 2007, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis. L’Amministrazione finanziaria aveva provveduto a comunicare il tributo dovuto e la sanzione, ridotta ad un terzo qualora il pagamento fosse stato eseguito nei trenta giorni successivi. In data 21 giugno 2010 la società aveva provveduto al pagamento della somma di Euro 140.381,61. Sennonchè l’Agenzia delle entrate aveva contestato la tardività del pagamento, eseguito oltre i trenta giorni dalla notifica dell’avviso bonario. Aveva dunque preteso la corresponsione della sanzione nella misura piena del 30% del tributo dovuto, a tal fine notificando la cartella, ora oggetto di giudizio.

La contribuente, che contestava la tardività del versamento per nullità della notifica dell’avviso di pagamento, adì la Commissione tributaria di Roma, che con sentenza n. 392/10/2013, accolse il ricorso. La decisione fu appellata dall’Agenzia delle entrate dinanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio, che con sentenza n. 773/28/2015 riformò le statuizioni di primo grado, dichiarando legittimo l’atto impugnato. Il giudice regionale ha rilevato che l’invito comunicato dall’ufficio, a seguito del controllo automatizzato della dichiarazione dei redditi, fu ricevuto ritualmente dal destinatario, così da raggiungere il suo scopo, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., sanando ogni eventuale irregolarità. Nessun rilievo poteva poi assumere l’affermazione della società, secondo cui la notificazione era avvenuta il 20 maggio 2010, risultando invece che la raccomandata fosse giunta a destinazione, nelle mani del portiere, il 19 maggio. Il pagamento eseguito il 21 giugno 2010 era pertanto da considerarsi tardivo, con conseguente legittima iscrizione a ruolo delle maggiori sanzioni non pagate.

La società ha censurato la sentenza con tre motivi, chiedendone la cassazione. L’Agenzia delle entrate ha depositato un atto di costituzione ai soli fini della eventuale partecipazione all’udienza di discussione.

Nell’adunanza camerale del 13 ottobre 2021 la causa è stata trattata e decisa.

La contribuente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Motivi della decisione
che:

la ricorrente si duole:

con il primo motivo della nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sulla eccepita nullità della costituzione avversaria a mezzo di funzionario privo di delega e potere di rappresentanza;

con il secondo motivo per nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per omessa pronuncia sulla eccepita inammissibilità dell’atto d’appello per difetto di specificità dei motivi;

con il terzo motivo per violazione e falsa applicazione dell’art. 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quanto alla nullità della notificazione dell’avviso di pagamento.

Esaminando il primo motivo, esso è infondato. La difesa della società lamenta una omessa pronuncia sulla questione, pur eccepita in sede d’appello, della nullità della costituzione dell’Amministrazione finanziaria a mezzo di funzionarlo privo di delega e potere di rappresentanza. Questa Corte, con orientamento ormai consolidato, cui si ritiene di dare continuità, ha affermato che il vizio di omessa pronunzia è configurabile solo nel caso di mancato esame di questioni di merito, e non anche su questioni processuali (ex multis, Cass., 26 settembre 2013, n. 22083; 25 gennaio 2018, n. 1876; 11 ottobre 2018, n. 25154; 15 aprile 2019, n. 10422). A margine, va rammentato il principio secondo cui nei gradi di merito del processo tributario, la provenienza di un atto di appello dall’Ufficio periferico dell’Agenzia delle Entrate e la sua idoneità a rappresentarne la volontà si presumono anche ove non sia esibita in giudizio una corrispondente specifica delega, salvo che non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o comunque l’usurpazione del potere di impugnare la sentenza (cfr. Cass., 21 marzo 2014, n. 6691; 26 luglio 2016, n. 15470; 30 ottobre 2018, n. 27570; 25 gennaio 2019, n. 2138).

Per la medesima ragione è infondato anche il secondo motivo, con il quale la società insiste sulla nullità della sentenza d’appello, per omessa pronuncia sull’eccepito difetto di specificità dei motivi d’appello.

Esaminando ora il terzo motivo, con cui la società denuncia l’errore in cui sarebbe incorsa la Commissione regionale nel ritenere ritualmente compiuti gli effetti della notifica dell’avviso di pagamento, trasmesso a seguito del controllo formale ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 36 bis, è parimenti infondato.

Nell’articolato motivo la società critica la decisione nella parte in cui avrebbe ritenuto che l’eventuale irritualità della notificazione dell’atto nelle mani del portiere sarebbe stata sanata in ogni caso dall’avvenuta conoscenza dell’atto da parte del destinatario, e tanto a partire dalla data della sua consegna al portiere medesimo. Afferma che in tal modo sarebbe stato violato l’art. 156 c.p.c. Sostiene al contrario che la notificazione sarebbe stata irregolare, dovendo procedersi alla notificazione direttamente al destinatario e, solo quando ciò impossibile, al portiere. Nel caso di specie sarebbe mancata l’attestazione dell’assenza del destinatario e delle vane ricerche dei soggetti preferenzialmente abilitati alla ricezione. La successiva conoscenza legale dell’atto da parte del destinatario, se per un verso aveva consentito la sanatoria della nullità, doveva tuttavia intendersi raggiunta dal momento del verificarsi dell’evento conoscitivo e non dalla data di ricezione dell’atto da parte del portiere.

Le ragioni della contribuente non sono fondate, sebbene la motivazione della decisione vada corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4.

Va innanzitutto evidenziato che la notifica dell’avviso bonario di pagamento fu pacificamente eseguita a mezzo del servizio postale. A tal fine il D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, seconda parte, prevede che “La notifica può essere eseguita anche mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento; in tal caso la cartella è notificata in plico chiuso e la notifica si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto da una delle persone previste dal comma 2 o dal portiere dello stabile dove è l’abitazione, l’ufficio o l’azienda”.

Ebbene, applicando al caso di specie la giurisprudenza formatasi sulla notificazione della cartella di pagamento, questa Corte ha chiarito che in tema di riscossione delle imposte, qualora la notifica della cartella sia eseguita ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, comma 1, seconda parte, mediante invio diretto, da parte del concessionario, di raccomandata con avviso di ricevimento, trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. 20 novembre 1982, n. 890 (Cass., 13 giugno 2016, n. 12083, con la quale in applicazione del suddetto principio, è stata cassata la sentenza con cui il giudice di merito aveva ritenuto invalida la notifica della cartella sull’erroneo presupposto che, essendo stata ricevuta dal portiere, occorresse, a norma dell’art. 139 c.p.c., l’invio di una seconda raccomandata; cfr. anche 12 novembre 2018, n. 28872).

Si è anche significativamente affermato che, mentre per la notifica degli atti impositivi, quando questa avvenga mediante consegna al portiere dello stabile da parte dell’ufficiale giudiziario, e ove quest’ultimo non attesti nella relata il mancato rinvenimento delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c., la nullità è sanata per raggiungimento dello scopo qualora sia provata la ricezione della raccomandata contenente la notizia dell’avvenuta notificazione, nell’ipotesi in cui l’ufficio finanziario proceda alla notificazione diretta a mezzo posta, trovano applicazione solo le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle previste dalla L. n. 890 del 1982. In questa seconda ipotesi pertanto, in caso di notifica al portiere, essa si considera avvenuta nella data indicata nell’avviso di ricevimento sottoscritto dal portiere, senza necessità dell’invio della raccomandata al destinatario (Cass., 4 aprile 2018, n. 8293; cfr. anche 23319/2014; 18 novembre 2016, n. 23511; 14 novembre 2019, n. 29642).

L’esegesi delle recenti pronunce, i cui principi sono condivisi da questo collegio, depongono a favore del compimento regolare del procedimento di notifica dell’atto di avviso di pagamento, consegnato al portiere mediante servizio postale, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, seconda parte. Tale disciplina costituisce infatti una modalità di notificazione semplificata, prevista normativamente, che non prevede che l’agente postale, nel consegnare a mani del portiere l’atto, debba accertare previamente l’assenza del notificando o di altri soggetti abilitati a ricevere il plico, nè prevede la spedizione della raccomandata con l’avviso di avvenuta notificazione al destinatario (Cass., 23 giugno 2014, n. 14196). Così che la notificazione si compie al momento della consegna del plico al portiere, salvo a verificarsi che questi ne abbia poi omesso la consegna, fatto di cui però deve dare prova il destinatario, e che esula comunque dalla fattispecie per cui è causa.

Non trova dunque fondamento la pur articolata difesa della contribuente, che sostiene come dell’atto ebbe conoscenza non il giorno della consegna del plico al portiere, il 19 maggio 2010, ma in quello successivo, dal quale pretende che dovessero decorrere i termini per provvedere al pagamento.

Ne discende che, sebbene con la correzione della motivazione nei termini anzidetti, il ricorso della contribuente va rigettato. Nulla va disposto in ordine alle spese, attesa la mancata rituale costituzione dell’Agenzia.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 13 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 15 febbraio 2022


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 18/01/2022) 14/02/2022, n. 4690

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
Dott. FANTICINI Giovanni – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 17590/2019 R.G. proposto da:
P.A.M.A., rappresentata e difesa dall’avv. Salvatore Leotta, ed elettivamente domiciliata presso il suo domicilio digitale salvatoreleotta.pec.it;
– ricorrente –
contro
RISCOSSIONE SICILIA S.P.A., COMUNE DI PALERMO;
– intimati –
avverso la sentenza n. 2833 del TRIBUNALE DI PALERMO, depositata il 06/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/01/2022 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI;
udito il P.M., in persona della Dott.ssa SOLDI Anna Maria, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo;
assorbiti gli altri.
Svolgimento del processo
Con atto di citazione del 05/09/2017 P.A.M.A. proponeva opposizione ex art. 615 c.p.c., contestando la cartella di pagamento, notificatale il 04/09/2017 da Riscossione Sicilia S.p.A. e formata in base a ruolo del Comune di Palermo, riguardante l’omesso pagamento di sanzioni amministrative per violazioni del C.d.S.; l’odierna ricorrente deduceva di non aver mai precedentemente ricevuto il verbale di accertamento della trasgressione e domandava che fosse dichiarata la nullità della cartella e del ruolo in ragione dell’omessa notificazione dell’atto presupposto.
Con la sentenza n. 465 del 06/02/2018 il Giudice di Pace di Palermo dichiarava inammissibile l’opposizione all’esecuzione perché non proposta con le forme dell’opposizione D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 7 (il quale prevede il ricorso come atto introduttivo e non la citazione).
Il Tribunale di Palermo, con la sentenza n. 2833 del 06/06/2019, rigettava l’appello: il giudice dell’impugnazione qualificava l’azione dell’appellante come opposizione “recuperatoria” e, cioè, come rimedio volto a consentire all’opponente di essere rimesso in termini per svolgere le censure al verbale di accertamento che gli erano state precluse dalla mancata notificazione dell’atto presupposto; tuttavia, rilevava che, proprio per la funzione recuperatoria dell’opposizione spiegata, la P. avrebbe dovuto contestare nel merito la pretesa azionata dall’ente impositore, non già limitarsi a denunciare l’omessa notifica del verbale (come statuito da Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 26843 del 23/10/2018, menzionata nella sentenza impugnata).
Avverso tale decisione P.A.M.A. proponeva ricorso per cassazione, basato su tre motivi; non hanno svolto difese gli intimati Comune di Palermo e Riscossione Sicilia S.p.A.
Per la trattazione della controversia è stata fissata l’udienza pubblica del 18/01/2022, alla quale è comparso soltanto il Procuratore Generale, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso e l’assorbimento delle restanti censure.
Motivi della decisione
1. Col primo motivo la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7 e art. 156 c.p.c., per avere il Tribunale di Palermo erroneamente ritenuto inammissibile l’opposizione a cartella di pagamento in quanto l’opponente aveva mancato di dedurre, oltre all’omessa notificazione del verbale di accertamento, anche vizi propri dell’atto presupposto.
Sostiene la ricorrente – richiamando il precedente di Cass., Sez. 62, Ordinanza n. 11789 del 06/05/2019 – che la domanda di annullamento della cartella quale conseguenza dell’omissione della notificazione del verbale presupposto non richiede l’articolazione di difese in merito alla contestata infrazione, la cui allegazione è necessaria solo in caso di opposizione, riconducibile al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, a cartella di pagamento fondata su un’ordinanza ingiunzione che si assuma illegittimamente notificata.
La censura è fondata.
Come già statuito da Cass. Sez. U., Sentenza n. 22080 del 22/09/2017, “… l’art. 201 C.d.S., comma 5,… sancisce che “l’obbligo di pagare la somma dovuta per la violazione, a titolo di sanzione amministrativa pecuniaria, si estingue nei confronti del soggetto a cui la notificazione non sia stata effettuata nel termine prescritto”. La norma, letteralmente interpretata, delinea un fatto estintivo di quell’obbligo che, come si è detto, sorge a carico del trasgressore per effetto della commissione dell’illecito amministrativo”.
Così, dunque, “L’azione diretta all’autorità giudiziaria ordinaria per dedurre il fatto estintivo/impeditivo costituito dalla omessa, tardiva od invalida notificazione del verbale di accertamento allora è quella attualmente disciplinata dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7. Se l’interessato non è stato posto in condizioni di fruire di questa azione, la stessa dovrà essere esercitata nel termine di trenta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento, non potendo operare la decadenza se non a seguito della conoscenza dell’atto sanzionatorio da impugnare… È vero che l’opposizione tipica si deve estrinsecare nella proposizione di un motivo di opposizione tendente ad inficiare la sussistenza delle condizioni di legge per emettere il provvedimento sanzionatorio, ma queste non attengono soltanto al merito della sanzione ma anche al procedimento di formazione del titolo che consente la riscossione esattoriale una volta divenuto definitivo… Se il procedimento è viziato per omessa, invalida o tardiva notificazione del verbale di accertamento, il rimedio sarà appunto quello dell’opposizione a questo verbale ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7. Se proposta come opposizione all’esecuzione ai sensi dell’art. 615 c.p.c., la stessa azione va diversamente qualificata dal giudice adito, essendo a questi riservata l’attività di qualificazione della domanda, tenuto conto della causa petendi e del petitum esposti dalla parte”.
Venendo alla funzione dell’impugnazione della cartella in caso di mancata notifica del verbale di accertamento di violazioni al C.d.S., le Sezioni Unite di questa Corte hanno chiaramente affermato che “L’azione esercitata dopo la notificazione della cartella di pagamento per dedurre il vizio di notificazione del verbale di accertamento, come sopra delineata, non è un’azione “recuperatoria” in senso proprio. Tale, infatti, si configura l’azione che venga esperita contro l’ordinanza-ingiunzione non notificata… Viceversa, quando viene “recuperata”, dopo la notificazione della cartella di pagamento, l’azione oggi disciplinata dal D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, per dedurre l’omessa od invalida notificazione del verbale di accertamento, non vi è spazio per lo svolgimento di difese diverse da questa, specificamente per difese nel merito della pretesa sanzionatoria. Infatti, se l’amministrazione – che è onerata della relativa prova, in ragione della natura di fatto costitutivo riconosciuto alla notificazione tempestiva non dimostra di avere eseguito tempestivamente e validamente la notificazione del verbale di accertamento, la pretesa sanzionatoria è estinta. In sintesi, ciò che viene “recuperato” è la possibilità per il destinatario della pretesa di dedurre il fatto estintivo/impeditivo dell’omessa od invalida notificazione…. se, per contro, l’amministrazione dimostri di avere ottemperato validamente alla notificazione, l’opposizione non potrà che essere dichiarata inammissibile: ogni difesa, anche di merito, è preclusa poiché si sarebbe dovuta svolgere nel termine di trenta giorni decorrente da quella notificazione”.
Traendo le conseguenze dalla succitata decisione, la giurisprudenza di questa Corte si è ormai consolidata nel senso che quando l’opposizione al verbale di accertamento di trasgressioni al C.d.S., sia stata esperita – in difetto di valida notificazione del verbale – entro 30 giorni dalla ricezione della cartella di pagamento, l’opponente può limitarsi a dedurre la mancanza di una tempestiva notificazione del verbale e che da tale censura deriva, a seconda della sua fondatezza o della sua inconsistenza, o l’annullamento dell’atto della riscossione o l’inammissibilità dell’opposizione stessa (Cass., Sez. 6-2, Ordinanza n. 11789 del 06/05/2019, Rv. 653724-01; Sez. 3, Ordinanza n. 3318 del 10/02/2021, Rv. 660524-01). Deve, dunque, ritenersi isolato il difforme precedente di Cass., Sez. 2, Ordinanza n. 26843 del 23/10/2018, Rv. 650849-02, richiamato dalla pronuncia impugnata.
Ritiene il Collegio che debba, invece, darsi continuità al prevalente orientamento giurisprudenziale (che trova il suo fondamento nella citata pronuncia delle Sezioni Unite), secondo cui – con l’opposizione D.Lgs. n. 150 del 2011, ex art. 7 (pur se in esito a riqualificazione di un’opposizione erroneamente denominata ex art. 615 c.p.c.) esperita entro trenta giorni dalla ricezione della cartella di pagamento l’opponente può limitarsi a dedurre la mancata notificazione del verbale di accertamento quale vizio di formazione della pretesa dell’Amministrazione, senza necessità di contestare il merito della violazione del C.d.S.: e tanto qui bastando un rinvio agli argomenti delle più recenti pronunzie su richiamate, in tutto condivise.
Per quanto esposto, la sentenza impugnata va cassata con rinvio al Tribunale di Palermo, in persona di diverso giudice.
2. Restano assorbite le ulteriori censure svolte dalla ricorrente.
3. Si rimette al giudice del rinvio la regolazione delle spese, anche del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte;
accoglie il primo motivo del ricorso, dichiarati assorbiti gli altri;
cassa la sentenza impugnata e rinvia al Tribunale di Palermo, in persona di diverso giudicante, anche per le spese del giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 18 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 14 febbraio 2022


Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., (data ud. 15/12/2021) 09/02/2022, n. 4160

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BERRINO Umberto – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – rel. Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

Dott. DE FELICE Alfonsina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 14527-2016 proposto da:

M.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL POPOLO 3, presso lo studio dell’avvocato ALESSANDRO DAGNINO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

RISCOSSIONE SICILIA S.P.A. (già SE.RI.T. S.P.A.), domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato ROSARIA ARCUDI;

– controricorrente –

e contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati CARLA D’ALOISIO, ANTONINO SGROI, EMANUELE DE ROSE, LELIO MARITATO, GIUSEPPE MATANO, ESTER ADA SCIPLINO;

– resistenti con mandato –

avverso la sentenza n. 1300/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 03/12/2015 R.G.N. 753/2013;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del 15/12/2021 dal Consigliere Dott. MANCINO ROSSANA.

Svolgimento del processo
che:

1. con sentenza n. 1300 del 2015, la Corte d’appello di Palermo confermava la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato la domanda proposta dall’attuale ricorrente per l’annullamento dell’iscrizione ipotecaria alla quale era sotteso il mancato pagamento di contributi iscritti a ruolo;

2. la Corte di merito, a motivo della decisione, riteneva valide le iscrizioni a ruolo e la successiva iscrizione ipotecaria precedute da valida notifica delle cartelle esattoriali a mani di familiari del debitore, qualificatisi come conviventi della destinataria degli atti e, premesso che l’onere di fornire la prova del contrario incombesse su chi ne contestava la veridicità, riteneva, inoltre, non decisiva, per negare validità alla notificazione, la produzione di un certificato anagrafico attestante la diversa residenza dei familiari nè la prova testimoniale dedotta al fine di dimostrare di non avere mai convissuto con i familiari indicati nelle relate di notifica delle cartelle impugnate;

3. affermava, inoltre, che l’iscrizione ipotecaria si sottraesse alla regola procedimentale del previo invio dell’intimazione di pagamento;

4. ricorre avverso tale sentenza M.M.G., con ricorso affidato a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, Riscossione Sicilia s. p. a.;

5. l’Inps ha depositato procura speciale in calce alla copia notificata del ricorso, anche quale mandatario della Società di cartolarizzazione dei crediti Inps S.C.C.I. s.p.a..

Motivi della decisione
che:

6. la ricorrente deduce la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, dell’art. 112 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, per avere la Corte di merito, con motivazione apparente, omesso di motivare sulle questioni oggetto di causa, relative alla validità delle notifiche delle sette cartelle oggetto di causa, presupposto dell’avviso di iscrizione ipotecaria, affermando di condividere la decisione del primo giudice in modo generico, con riferimento alle cartelle nel loro complesso omettendo l’esame di ciascuna di esse (primo motivo); violazione dell’art. 139 c.p.c., del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 e dell’art. 2727 c.c., per avere la Corte territoriale ritenuto irrilevante la prova del difetto di residenza del consegnatario e dirimente la prova diabolica della natura meramente occasionale della presenza del familiare presso l’abitazione del destinatario dell’atto (secondo motivo); violazione dell’art. 420 c.p.c. e dell’art. 111 Cost., per non avere il giudice di primo grado disposto d’ufficio le prove necessarie per l’accertamento della verità del fatto storico (che la ricorrente non avesse mai convissuto con alcuno dei familiari indicati nelle relate) (terzo motivo); violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, comma 2 e art. 77 e degli artt. 41, 47, 48 Carte dei diritti fondamentali dell’Unione Europea per avere ritenuto infondata l’eccezione relativa alla mancata notifica di avvisi bonari anteriormente all’iscrizione ipotecaria;

7. i primi tre motivi, esaminati congiuntamente per la loro logica connessione, sono da rigettare;

8. innanzitutto la Corte di merito, in una valutazione globale delle notificazioni delle cartelle accomunate dalla notifica a mani di familiari dichiaratisi conviventi della destinataria degli atti espresso e illustrato la ratio decidendi in ordine alla ritualità delle notificazioni e della successiva iscrizione ipotecaria, non limitandosi alla mera condivisione del medesimo principio già enunciato dal primo giudice e tanto basta per escludere la nullità della sentenza e ritenere la motivazione non apparente ma idonea a rivelare la ratio decidendi e a evidenziare gli elementi che giustifichino il convincimento del giudice e ne rendano dunque possibile il controllo di legittimità (Cass.,Sez. Un., n. 8053 del 2014);

9. passando al nocciolo della questione sulla quale sono imperniate le censure, la sentenza impugnata è conforme ai consolidati principi espressi da questa Corte, in plurime decisioni;

10. la cartella esattoriale può essere notificata, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 26, anche direttamente da parte del Concessionario mediante raccomandata con avviso di ricevimento;

11. il regime differenziato della notificazione diretta ha superato il vaglio di costituzionalità (Corte Cost. n. 175 del 2018);

12. a mente della disciplina del D.M. 9 aprile 2001, artt. 32 e 39 e del D.M. 1 ottobre 2008, artt. 20 e 26, è sufficiente, per il perfezionamento della notifica, che la spedizione postale sia avvenuta con consegna del plico al domicilio del destinatario, senz’altro adempimento, ad opera dell’ufficiale postale, se non quello di curare che la persona da lui individuata come legittimata alla ricezione firmi il registro di consegna della corrispondenza e l’avviso di ricevimento da restituire al mittente;

13. questa Corte ha anche affermato, a tale proposito, che pur se manchino nell’avviso di ricevimento le generalità della persona cui l’atto è stato consegnato, adempimento non previsto da alcuna norma, e la relativa sottoscrizione sia addotta come inintelligibile, l’atto è pur tuttavia valido poichè la relazione tra la persona cui esso è destinato e quella cui è stato consegnato costituisce oggetto di un preliminare accertamento di competenza dell’ufficiale postale, assistito dall’efficacia probatoria di cui all’art. 2700 c.c., ed eventualmente solo in tal modo impugnabile, stante la natura di atto pubblico dell’avviso di ricevimento della raccomandata (v. Cass. nn. 946, 6753 e 19680 del 2020 ed ivi ulteriori precedenti);

14. la consegna del piego raccomandato a mani di familiare dichiaratosi convivente con il destinatario determina, quindi, la presunzione che l’atto sia giunto a conoscenza dello stesso, mentre il problema dell’identificazione del luogo ove è stata eseguita la notificazione rimane assorbito dalla dichiarazione di convivenza resa dal consegnatario dell’atto, con conseguente onere della prova contraria a carico del destinatario;

15. tale prova, peraltro, non può essere fornita mediante la produzione di risultanze anagrafiche che indichino una diversa residenza del consegnatario dell’atto, in quanto siffatte risultanze, aventi valore meramente dichiarativo, offrono a loro volta una mera presunzione, superabile alla stregua di altri elementi idonei ad evidenziare, in concreto, una diversa ubicazione della residenza effettiva del destinatario (Cass. nn. 632 del 2011, 24852 del 2006 e 22607 del 2009);

16. correttamente la Corte territoriale si è dunque attenuta ai principi sopra individuati nel ritenere la validità della notifica così come effettuata e onerare il destinatario della prova della mancata ricezione, nel senso evidenziato;

17. inammissibile è, infine, il terzo motivo per essere la censura priva di decisività agli effetti di quanto detto nei paragrafi che precedono;

18. fondato si appalesa, invece, il quarto motivo;

19. la Corte di merito non si è conformata all’insegnamento delle Sezioni Unite della Corte, sentenza n. 19667 del 2014, secondo cui, in tema di riscossione coattiva delle imposte, l’Amministrazione finanziaria prima di iscrivere l’ipoteca su beni immobili ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 77 (nella formulazione vigente ratione temporis), deve comunicare al contribuente che procederà alla suddetta iscrizione, concedendo al medesimo un termine – che può essere determinato, in coerenza con analoghe previsioni normative (da ultimo, quello previsto dal medesimo D.P.R., art. 77, comma 2-bis, come introdotto dal D.L. 14 maggio 2011, n. 70, conv. con modif. dalla L. 12 luglio 2011, n. 106), in trenta giorni – per presentare osservazioni o effettuare il pagamento, dovendosi ritenere che l’omessa attivazione di tale contraddittorio endoprocedimentale comporti la nullità dell’iscrizione ipotecaria per violazione del diritto alla partecipazione al procedimento, garantito anche dagli artt. 41, 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali della Unione Europea, fermo restando che, attesa la natura reale dell’ipoteca l’iscrizione mantiene la sua efficacia fino alla sua declaratoria giudiziale d’illegittimità (cfr. Cass. nn. 23875, 25954 del 2015; Cass. nn. 5577, 15487 del 2019; da ultimo, Cass. n. 36490 del 2021);

20. in conclusione, la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e, per essere necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa va rinviata, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ad altro Giudice, che si designa nella medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che procederà ad un nuovo esame della controversia alla stregua di quanto sinora detto;

21. al Giudice del rinvio si rimette anche la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il quarto motivo del ricorso, rigettati gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, allà Corte d’appello di Palermo, in diversa composizione.

Conclusione
Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 15 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 9 febbraio 2022


Cass. civ. Ord., Sez. 6, N. 2621

Civile Ord. Sez. 6 Num. 2621 Anno 2022

Presidente: ESPOSITO ANTONIO FRANCESCO
Relatore: LUCIOTTI LUCIO
Data pubblicazione: 28/01/2022

ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 37723-2019 R.G. proposto da:
SCUTO Maria Concetta, rappresentata e difesa, per procura speciale a margine del ricorso, dall’avv. Silvana RICCA ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via Po, n. 12, presso lo studio legale dell’avv. Stefano GENOVESE (MMP e Associati);
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, C.F. 06363391001, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la quale è domiciliata in Roma, alla via dei Portoghesi n. 12;
– controricorrente –
e contro,

RISCOSSIONE SICILIA s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore;
— intimata —
avverso la sentenza n. 3669/13/2019 della Commissione tributaria regionale della SICILIA, Sezione staccata di CATANIA, depositata il 10/06/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 21/10/2021 dal Consigliere Lucio LUCIOTTI.
Rilevato che:
1. La contribuente Maria Concetta SCUTO ricorre con tre motivi, cui replica l’Agenzia delle entrate ma non l’agente della riscossione, pure intimata, per la cassazione della sentenza della CTR della Sicilia, Sezione staccata di Catania, in epigrafe indicata, pronunciata in controversia relativa ad impugnazione di un estratto di ruolo e della corrispondente cartella di pagamento emessa nei confronti della predetta contribuente, quale erede, unitamente alla sorella Daniela Rosaria SCUTO, del padre Orazio SCUTO, sulla scorta di due sentenze, divenute definitive, emesse dalla medesima CTR (sentenze n. 172/18/2020 e n. 187/18/2010) nei giudizi relativi ad avvisi di accertamento IVA emessi nei confronti del de cuius.
2. La CTR con la sentenza impugnata ha accolto l’appello proposto dall’Ufficio avverso la sfavorevole sentenza di primo grado rilevando la regolarità della notifica della cartella di pagamento impugnata, effettuata con il rito dell’irreperibilità relativa della destinataria, e conseguentemente dichiarato inammissibile l’originario ricorso della contribuente perché tardivamente proposto, oltre il termine di cui all’art. 21, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992.

3. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio.
4. La ricorrente ha depositato memoria.
Considerato che:
1. Con il primo motivo di ricorso, con cui viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 140 cod. proc. civ. e 25 e 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, la ricorrente deduce l’inesistenza della notificazione della cartella di pagamento impugnata, effettuata ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., in quanto la raccomandata informativa era stata restituita al mittente con la dicitura “destinatario sconosciuto” sicché non ricorrevano i presupposti perché operasse la c.d. “compiuta giacenza” del plico presso l’ufficio postale ove lo stesso era stato depositato.
2. Con il secondo motivo deduce la medesima questione posta con il primo motivo, dell’inesistenza della notifica della cartella di pagamento, ma sotto il diverso profilo dell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.
3. Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli arti. 115 e 116 cod. proc. civ. sempre con riferimento alla questione dedotta con il primo motivo, censurando la statuizione d’appello per avere omesso di valutare le risultanze della procedura di notificazione della cartella impugnata di cui essa ricorrente aveva espressamente dedotto la decisività.
4. I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente attenendo tutte alla medesima questione della irregolarità della notificazione della cartella di pagamento, sono fondati e vanno accolti.
5. E’ pacifico nel caso di specie che la notifica della cartella di pagamento è stata effettuata ai sensi del combinato disposto dagli artt. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973 e 140 cod. proc. civ., stante l’irreperibilità relativa della destinataria, non rinvenuta all’indirizzo indicato nell’atto, con conseguente deposito dello stesso nella casa comunale, affissione dell’avviso di avvenuto deposito alla porta di abitazione della contribuente ed invio della c.d. raccomandata informativa, la quale veniva restituita al mittente con la dicitura “destinatario sconosciuto”.
6. Ciò posto, la controricorrente sostiene che nella specie la regolarità della notificazione discenderebbe dall’applicazione del disposto di cui all’art. 26, comma 4, del d.P.R. n. 602 del 1973, secondo cui, nei casi previsti dall’art. 140 cod. proc. civ., di irreperibilità relativa del destinatario dell’atto, la notificazione dalla cartella di pagamento si effettua con le modalità stabilite dall’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 e si ha per eseguita nel giorno successivo a quello in cui l’avviso del deposito è affisso nell’albo del comune. Al riguardo precisa la controricorrente che la notifica, essendo stata effettuata nel gennaio 2012, non sarebbe applicabile nella specie la predetta disposizione nella versione risultante a seguito della pronuncia di incostituzionalità di cui alla sentenza della Corte cost. n. 258 del 22 novembre 2012, in base alla quale il ricorso alla procedura di cui all’art. 60 del d.P.R. n. 600 del 1973 è consentito soltanto nei casi di irreperibilità assoluta del destinatario dell’atto.
7. La tesi è manifestamente infondata alla stregua del principio giurisprudenziale affermato da questa Corte in ipotesi del tutto analoga, secondo cui «Nel caso di dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma processuale, fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da detta norma sono “sub judice”, il rapporto processuale non può considerarsi esaurito, sicché, nel momento in cui viene in discussione la ritualità dell’atto, la valutazione della sua conformità alla disposizione va valutata avendo riguardo alla modificazione conseguita dalla sentenza di illegittimità costituzionale, indipendentemente dal tempo in cui l’atto è stato compiuto. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto la invalidità della notificazione della cartella esattoriale eseguita, in ipotesi di irreperibilità relativa del contribuente, mediante invio di raccomandata con avviso di ricevimento senza l’osservanza delle formalità previste dall’art. 140 c.p.c., come prescritto dall’art. 26 del d.P.R. n. 602 del 1973, nel testo risultante dalla sentenza della Corte cost. n. 258 del 2012)» (Cass. n. 33610 del 2019); in termini già Cass. 10519 del 2019).
8. Ciò precisato, osserva la Corte che i motivi sono fondati e vanno accolti alla stregua del princpio giuriosprudenziale in base al quale «In tema di notifica della cartella di pagamento, nei casi di “irreperibilità cd. relativa” del destinatario, all’esito della sentenza della Corte costituzionale n. 258 del 22 novembre 2012 relativa all’art. 26, comma 3 (ora 4), del d.P.R. n. 602 del 1973, va applicato l’art. 140 c.p.c., in virtù del combinato disposto del citato art. 26, ultimo comma, e dell’art. 60, comma 1, alinea, del d.P.R. n. 600 del 1973, sicché è necessario, ai fini del suo perfezionamento, che siano effettuati tutti gli adempimenti ivi prescritti, incluso l’inoltro al destinatario e l’effettiva ricezione della raccomandata informativa del deposito dell’atto presso la casa comunale, non essendone sufficiente la sola spedizione. (In applicazione dell’enunciato principio, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che aveva ritenuto inesistente la notifica della cartella di pagamento, atteso che la raccomandata informativa non era pervenuta nella sfera di conoscenza del contribuente ed era stata restituita al mittente, avendo l’ufficiale giudiziario erroneamente apposto la dicitura “trasferito” sulla relata, nonostante fosse rimasta invariata la residenza del destinatario)» (Cass. n. 25079 del 2014; conf. Cass. n. 9782 del 2018).
9. Tale orientamento ha trovato ulteriore conferma nella pronuncia del Supremo consesso di questa Corte n. 10012 del 2021, secondo cui « In tema di notifica di un atto impositivo ovvero processuale tramite servizio postale, qualora l’atto notificando non venga consegnato al destinatario per rifiuto a riceverlo ovvero per sua temporanea assenza ovvero per assenza o inidoneità di altre persone a riceverlo, la prova del perfezionamento del procedimento notificatorio può essere data dal notificante – in base ad un’interpretazione costituzionalmente orientata (artt. 24 e 111, comma 2, Cost.) dell’art. 8 della I. n. 890 del 1982 – esclusivamente attraverso la produzione in giudizio dell’avviso di ricevimento della raccomandata contenente la comunicazione di avvenuto deposito (cd. C.A.D.), non essendo a tal fine sufficiente la prova dell’avvenuta spedizione della suddetta raccomandata informative», in quanto «solo dall’esame concreto di tale atto il giudice del merito e, qualora si tratti di atto processuale, (se del caso) anche il giudice di legittimità, può desumere la “sorte” della spedizione della “raccomandata informativa”, quindi, in ultima analisi, esprimere un – ragionevole e fondato – giudizio sulla sua ricezione, effettiva o almeno “legale” (intesa come facoltà di conoscere l’avviso spedito e quindi tramite lo stesso l’atto non potuto notificare), della raccomandata medesima da parte del destinatario».
10. Orbene, applicati detti principi al caso in esame, in cui la raccomandata informativa non è stata consegnata al destinatario perché «sconosciuto», è del tutto evidente che il giudizio sulla ricezione «effettiva o almeno “legale”» della stessa non può che essere negativo, con la conseguenza’ che era onere dell’agente della riscossione, nella specie non adempiuto, procedere a rinnovare la notificazione non perfezionatasi.
11. Pertanto, all’accoglimento dei motivi di ricorso consegue la cassazione della sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con accoglimento dell’originario ricorso della contribuente.
Le spese del presente giudizio di legittimità vanno integralmente compensate tra le parti in ragione dell’incidenza sulla decisione della recente pronuncia nomofilattica di questa Corte.
P.Q.M.
accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’originario ricorso della contribuente. Spese processuali interamente compensate tra le parti.
Così deciso in Roma il 21/10/2021 


Cass. civ. Sez. I, Ord., (ud. 15-12-2021) 27-01-2022, n. 2530

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

Dott. FIDANZIA Andrea – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16281/2017 proposto da:

E.S., domiciliata in Roma, Piazza Cavour, presso la Cancelleria Civile della Corte di Cassazione, rappresentata e difesa dall’avvocato Vignali Rosa, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.L., elettivamente domiciliato in Roma, Via Paolo Emilio n. 20, presso lo studio dell’avvocato Giuffrida Antonio, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato Fiorini Barbara, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

Pubblico Ministero in persona del Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Firenze;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2141/2016 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, pubblicata il 21/12/2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 15/12/2021 dal cons. Dott. ANDREA FIDANZIA.

Svolgimento del processo
CHE:

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza pubblicata il 21.12.2016, ha rigettato l’appello proposto da E.S. avverso la sentenza del Tribunale di Arezzo che, nella dichiarata contumacia dell’allora convenuta, aveva pronunciato la cessazione degli effetti civili del matrimonio da lei contratto con B.L. ed aveva revocato l’assegno di mantenimento stabilito, a carico di quest’ultimo, dalla sentenza di separazione personale dei coniugi.

La Corte d’Appello, premesso che il gravame era stato avanzato ben oltre il termine lungo semestrale di cui all’art. 327 c.p.c., ha disatteso la prospettazione della sig.ra E. secondo cui la notifica del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e del decreto di fissazione d’udienza innanzi al Tribunale di Arezzo effettuata nei suoi confronti era nulla.

In particolare, il giudice di secondo grado ha ritenuto valida la notifica del ricorso in oggetto, eseguita l’8.4.2014 ai sensi dell’art. 143 c.p.c., sul rilievo che l’ufficiale giudiziario, avendo personalmente accertato, in occasione di un precedente tentativo di notifica del febbraio 2014, che il nominativo dell’appellante non figurava “sui campanelli nè sulle cassette postali” dell’indirizzo di residenza, aveva correttamente dichiarato l’irreperibilità della destinataria.

La Corte d’Appello ha, invece, dichiarato nulla la notifica dell’ordinanza ammissiva dell’interrogatorio formale della E. – parimenti disposta a norma dell’art. 143 c.p.c. – in quanto effettuata il 28.10.14 in difetto di un nuovo sopralluogo, non potendo l’ufficiale giudiziario basarsi, ai fini dell’accertamento della irreperibilità, sull’esito di quello precedente, avvenuto ben sei mesi prima, dato che in tale periodo di tempo la situazione di fatto avrebbe potuto essere mutata.

Ciò premesso, la corte territoriale ha ritenuto ammissibile l’impugnazione tardiva, ai sensi dell’art. 327 c.p.c., comma 2, ma ha dichiarato inammissibile la domanda di riconoscimento di un assegno divorzile, siccome proposta dalla sig.ra E. per la prima volta in grado di appello, sul duplice rilievo che l’appellante aveva volontariamente deciso di rimanere contumace nel giudizio di primo grado e che, anche ove fosse stata posta nelle condizioni di presentarsi in Tribunale per rendere l’interrogatorio formale, non avrebbe potuto più introdurre tardivamente tale domanda dinanzi al primo giudice.

E.S. ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza, affidandolo a quattro motivi.

B.L. ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
CHE:

1. Con il primo motivo è stata dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 143 c.p.c..

La ricorrente lamenta che la corte del merito abbia ritenuto valida la notifica, in data 8 aprile 2014, del ricorso introduttivo del giudizio e del decreto di fissazione dell’udienza dinanzi al Tribunale di Arezzo, ancorché eseguita nei suoi confronti senza una previa ricognizione dei luoghi, fondandosi la valutazione di irreperibilità dell’ufficiale giudiziario su un sopralluogo avvenuto presso la sua abitazione ben due mesi prima (esattamente il 7 febbraio 2014); deduce inoltre che non è sufficiente ai fini dell’accertamento della irreperibilità, a norma dell’art. 143 c.p.c., la mancanza del nominativo di un soggetto sul citofono o sulla cassetta postale del luogo di abitazione, dovendo comunque l’ufficiale giudiziario raccogliere informazioni da altre persone presenti in loco.

2. Il motivo è fondato sotto entrambi i profili illustrati.

Va in primo luogo rilevato che, secondo quanto emerge proprio dalla lettura della sentenza impugnata, l’ufficiale giudiziario l’8.4.2014 ha proceduto alla notifica col rito degli irreperibili senza neppure recarsi presso l’abitazione della ricorrente, ma basandosi sull’esito di un precedente accesso, effettuato in febbraio. Se ne deduce che la corte del merito – che pure ha ritenuto nulla la notifica ex art. 143 c.p.c. dell’ordinanza che aveva disposto l’interrogatorio formale della E. perché non preceduta da un sopralluogo abbia supposto, del tutto erroneamente, che la validità/invalidità di una notificazione eseguita ai sensi della norma predetta solo perché è già stata in passato effettuata un’infruttuosa ricerca del destinatario presso la propria abitazione, dipenda dalla durata (più o meno lunga) del periodo di tempo intercorso fra il primo e il secondo tentativo.

Va aggiunto che questa Corte, nella sentenza n. 11138/2003, ha già enunciato il principio di diritto, secondo cui, “non sussistendo per legge alcun obbligo, per i soggetti giuridici, di indicare il proprio nominativo sui citofoni o sulla cassetta postale del luogo di abitazione, l’ufficiale giudiziario, ove verifichi, in uno stabile privo di portiere, l’assenza del nominativo del soggetto destinatario della notifica in corrispondenza dell’interno che il richiedente indica quale luogo di residenza, e ove constati la presenza, invece, del nominativo di altri soggetti i quali risultino momentaneamente assenti, deve procedere comunque alla notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c., e non può limitarsi invece – tanto più in un ampio e moderno contesto urbano – a stendere una relazione negativa, neppure ove fondata sulle informazioni negative delle altre “persone del luogo””(vedi anche Cass. n. 6761/2004).

Nella più recente sentenza n. 19012/2017 questa Corte, nel ritenere legittima la notificazione effettuata ai sensi dell’art. 143 c.p.c. ad un destinatario, il cui nominativo non era stato rinvenuto sui citofoni e neppure sulle cassette postali, aveva valorizzato la circostanza che l’ufficiale giudiziario aveva attestato di aver raccolto informazioni negative, circa la reperibilità in quel luogo del destinatario dell’atto, dai residenti interpellati.

Nella sentenza n. 8638/2017, questa Corte, sempre in tema di notificazione ex art. 143 c.p.c., ha enunciato il principio di diritto secondo cui l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione. In particolare, nel caso concreto esaminato dalla predetta sentenza, questo giudice di legittimità ha cassato la sentenza impugnata che aveva ritenuto la regolarità di una notifica eseguita ex art. 143 c.p.c. semplicemente sulla base dell’assenza del nominativo della destinataria sul citofono dell’indirizzo di residenza anagrafica, trascurando di rilevare che la dicitura “famiglia” seguita da altro cognome, presente sullo stesso citofono, corrispondeva effettivamente alla residenza della destinataria, essendo quel cognome riferibile al defunto marito.

Alla luce del contenuto delle sentenze sopra menzionate, emerge in modo inconfutabile che questa Corte non ha mai ritenuto sufficiente, ai fini della valutazione positiva di irreperibilità del destinatario della notifica, ai sensi dell’art. 143 c.p.c., il mero mancato rinvenimento del nominativo del notificando sui citofoni e neppure sulle caselle postali, occorrendo comunque un quid pluris che, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, deve quantomeno consistere nella raccolta, da parte dell’ufficiale giudiziario, di specifiche informazioni in loco sul destinatario dell’atto dai residenti interpellati.

L’ufficiale giudiziario che, una volta verificata la mancanza del nominativo del notificando sui citofoni e sulle cassette postali, si astenga dal compiere ogni ulteriore ricerca ed indagine, quantomeno nei termini sopra illustrati, viene senz’altro meno al suo dovere di “normale diligenza” nello svolgimento dell’attività notificatoria.

La sentenza impugnata deve essere quindi cassata e, versandosi in fattispecie di nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, la causa va rinviata, ex art. 354 c.p.c., al Tribunale di Arezzo in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

3. Restano assorbiti i restanti motivi di ricorso, con i quali la ricorrente propone la questione di nullità sotto i distinti profili del vizio di motivazione apparente e/o contraddittoria, e denuncia inoltre la violazione e/o falsa applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 4, comma 10 in relazione agli artt. 293 e 153 c.p.c..

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia al Tribunale di Arezzo, in diversa composizione, per nuovo esame e per statuire sulle spese del giudizio di legittimità.

Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano omessi i nominativi e gli altri dati identificativi delle parti.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2022


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 30/11/2021) 27/01/2022, n. 2365

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – Consigliere –

Dott. PIRARI Valeria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 9203/2015 R.G. proposto da:

Immobiliare La Vigna Srl, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Roberto Mussano e Antonio Petillo, con domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Roma Piazza della Libertà n. 10, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 1100/24/14, depositata il 2 ottobre 2014.

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio della pubblica udienza del 30 novembre 2021 dal Cons. Giuseppe Fuochi Tinarelli.

Viste le conclusioni formulate dal Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Pepe Alessandro, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La società Immobiliare La Vigna Srl impugnava due cartelle di pagamento, emesse e notificate da Equitalia Nord Spa per Iva, Ires e Irap, nonchè in relazione ad atto di irrogazione di sanzioni, per l’anno 2006, lamentando la mancata notificazione degli atti presupposti.

La CTP, in relazione all’avvenuto deposito degli avvisi di ricevimento da parte dell’Agenzia delle entrate, rigettava il ricorso.

La sentenza era confermata dalla CTR, che riteneva non dovuta la comunicazione di avvenuta notifica, di cui era stata eccepita l’omissione, poichè l’atto, notificato a mezzo del servizio postale, era stato consegnato a persona addetta al ritiro degli atti che si trovava presso la sede societaria, soggetto previsto dall’art. 145 c.p.c..

Immobiliare La Vigna Srl propone ricorso per cassazione con un articolato motivo; resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso.

Motivi della decisione
1. L’unico, complesso, motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione di:

“D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis), come modificato dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modificazioni dalla L. 4 agosto 2006, n. 248, e L. 20 novembre 1982, art. 7, n. 890 in relazione alla nullità della notifica effettuata dall’agente postale per mancanza della raccomandata informativa”;

“D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 per nullità delle notifiche degli atti presupposti: illogicità ed infondatezza della sentenza; violazione della L. n. 212 del 2000, art. 6”;

“art. 145 c.p.c., comma 1, e L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7 in relazione all’invio della raccomandata informativa” con riguardo alle persone giuridiche;

“D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, comma 1, lett. b-bis), e L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, in relazione alla considerata specialità della normativa di cui alla L. n. 600 del 1973 rispetto alla L. n. 890 del 1982”.

1.1. Il ricorrente lamenta, in particolare, che la CTR ha ritenuto valida la notifica degli atti presupposti ancorchè l’atto non fosse stato consegnato direttamente al legale rappresentante della società ma ad altro soggetto e, quindi, dovesse essere inviata la raccomandata informativa, invece omessa.

Censura, inoltre, l’idoneità del soggetto al quale l’atto è stato consegnato, mero “portinaio”, non autorizzato dalla società al ritiro dei plichi e solo erroneamente indicato come persona incaricata a ricevere la notifica e custode da parte dell’agente postale, che non avrebbe compiuto alcuna delle necessarie verifiche sulla presenza del destinatario e sulle qualità della persona cui consegnava l’atto, risultando viziato, conseguentemente, il ragionamento della CTR che ha valutato come sufficiente l’attestazione nell’avviso.

Deduce, infine, l’irrilevanza della distinzione operata dalla CTR tra notifica effettuata a mezzo di ufficiale giudiziario e, come nella specie, direttamente mediante ricorso al servizio postale ordinario, dovendosi ritenere in ogni caso necessario l’invio della raccomandata informativa, a pena di incostituzionalità della norma.

2. Il ricorso è infondato e ai limiti dell’inammissibile.

3. Va premesso, infatti, che, con l’unico globale motivo di impugnazione, la ricorrente, pur deducendo vizi di violazione di legge, ha, in realtà, denunciato – contemporaneamente e sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e combinati in un unico inestricabile continuo – sia errori nell’applicazione della legge sia vizi di motivazione, dolendosi, in sostanza, dell’esito della controversia e dell’errata valutazione delle risultanze di prova in giudizio, neppure essendo agevolmente possibile scindere, ad un concreto esame della formulazione del motivo stesso, il contenuto cassatorio di ciascuna censura.

Tale modalità di articolazione della censura, invero, non è rispettosa del sistema processuale vigente, in relazione alla formula prevista per il ricorso per cassazione, così come disciplinata dall’art. 360 c.p.c., ponendosi in contrasto con il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui “Il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito. Ne consegue che il motivo del ricorso deve necessariamente possedere i caratteri della tassatività e della specificità ed esige una precisa enunciazione, di modo che il vizio denunciato rientri nelle categorie logiche previste dall’art. 360 c.p.c., sicchè è inammissibile la critica generica della sentenza impugnata, formulata con un unico motivo sotto una molteplicità di profili tra loro confusi e inestricabilmente combinati, non collegabili ad alcuna delle fattispecie di vizio enucleata dal codice di rito” (v. tra le molte Cass. n. 19959 del 22/09/2014; Cass. n. 25332 del 28/11/2014; Cass. n. 18202 del 03/07/2008; Cass. n. 10420 del 18/05/2005; Cass. n. 16763 del 27/11/2002; v anche recentemente Cass. n. 14041 del 21/05/2021; Cass. n. 26790 del 23/10/2018; Cass. n. 7009 del 17/03/2017).

4. Pure a voler considerare, quale fondamento primario della censura, la lamentata errata valutazione da parte della CTR sulla doverosità o meno della comunicazione di avvenuta notifica (CAN), attesa l’inammissibilità delle censure per vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 ratione temporis applicabile (venendo in rilievo decisione pubblicata in data 2 ottobre 2014), il motivo è comunque infondato.

4.1. La CTR, infatti, da un lato ha accertato che l’atto è stato ricevuto da persona addetta al ritiro degli atti, evidenziando che ogni doglianza su tale qualità era stata abbandonata con l’atto d’appello (“L’appello nulla dice sulla identità e funzioni del consegnatario rinunciando quindi a sostenere, come fatto in primo grado, che si trattasse del portinaio dello stabile, opera quindi la presunzione che si trattasse effettivamente di persona addetta al ritiro degli atti, come attestato dall’agente postale”).

Su tale profilo, dunque, la censura della società è inammissibile, non potendo riproporre una questione che la CTR dichiara esser stata abbandonata in appello, finendo quindi per contestare la valutazione di merito delle risultanze processuali da parte del giudice d’appello.

Dall’altro, la CTR ha fondato la sua decisione su una duplice ratio, ossia che:

a) l’invio della CAN non fosse previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 che riguarda i casi in cui la consegna avviene a persone diverse da quelle previste dalle norme di procedura, mentre per l’art. 145 c.p.c. la consegna alla persona incaricata presso la sede societaria costituisce un destinatario tipico;

b) “nel caso di specie la notificazione è intervenuta direttamente dall’Ufficio, a mezzo del servizio postale, pertanto trovano applicazione le norme concernenti il servizio postale ordinario e non quelle della L. n. 890 del 1982”.

5. Entrambe le rationes, in realtà, sono corrette in diritto.

6. Quanto alla prima, va rilevato che l’art. 145 c.p.c., nel prevedere che “la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”, individua una pluralità di soggetti tutti identificati come “destinatario”, sicchè, in caso di consegna ad uno di essi (come nella specie), non era necessaria la spedizione della raccomandata informativa (v. da ultimo Cass. n. 9878 del 26/05/2020).

7. Quanto alla seconda, di cui è contestata solo genericamente la validità, va rilevato che la L. n. 146 del 1998, art. 20 modificando la L. n. 890 del 1982, art. 14 ha aggiunto, per quanto qui interessa, la previsione che la notificazione degli avvisi e degli atti che per legge devono essere notificati al contribuente “può eseguirsi a mezzo della posta direttamente dagli uffici finanziari”, fermo rimanendo, “ove ciò risulti impossibile”, che la notifica può essere effettuata, come già previsto, a cura degli ufficiali giudiziali, dei messi comunali o dei messi speciali autorizzati dall’Amministrazione finanziaria secondo le modalità previste dalla medesima L. n. 890 del 1982.

A decorrere, pertanto, dal 15 maggio 1998 (data di entrata in vigore della citata L. n. 146 del 1998), è stata concessa agli uffici finanziari la facoltà di provvedere “direttamente” alla notifica degli atti al contribuente mediante spedizione a mezzo del servizio postale (Cass. n. 15284 del 10/06/2008; Cass. n. 34007 del 19/12/2019).

Ciò significa che il notificante è abilitato alla notificazione dell’atto senza l’intermediazione dell’ufficiale giudiziario (ferma restando quella dell’ufficiale postale), e, quindi, a modalità di notificazione semplificata, alla quale, quindi, non si applicano le disposizioni della L. n. 890 del 1982, concernenti le sole notificazioni effettuate a mezzo posta tramite gli ufficiali giudiziali (o, eventualmente, i messi comunali e i messi speciali autorizzati), bensì le norme concernenti il servizio postale “ordinario”.

7.1. Orbene, in questa evenienza, ossia anche quando la consegna dell’atto avvenga a persona diversa dal destinatario (che la ricorrente individua esclusivamente con il legale rappresentante in caso di persona giuridica), va escluso che debba essere inviata la comunicazione di avvenuta notifica (CAN) (v. Cass. n. 10131 del 28/05/2020, sia pure con riguardo all’ipotesi del mancato recapito per temporanea assenza del destinatario).

7.2. Invero, la Corte costituzionale, con sentenza 23 settembre 1998, n. 346, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. n. 890 del 1982, art. 8 nella parte in cui non prevede che, in caso di rifiuto di ricevere il piego o di firmare il registro di consegna da parte delle persone abilitate alla ricezione, ovvero in caso di mancato recapito per temporanea assenza del destinatario o per mancanza, inidoneità o assenza delle persone sopra menzionate, del compimento delle formalità descritte e del deposito del piego sia data notizia al destinatario medesimo con raccomandata con avviso di ricevimento.

Ma questa sentenza della Corte costituzionale riguarda la diversa modalità di notificazione a mezzo posta curata dall’Ufficiale Giudiziario, alla quale si applica la disciplina di cui alla L. n. 890 del 1982, compreso la norma in oggetto, mentre, con riguardo alla diversa ipotesi qui in giudizio, il differente iter notificatorio si spiega con la diversità delle fattispecie poste a confronto, comportando la notifica diretta a mezzo del servizio postale un procedimento più agile e semplificato, a tutela delle ragioni del fisco di preminente interesse pubblico.

Il profilo, del resto, è stato recentemente oggetto di un nuovo specifico intervento della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 175 del 2018 con riguardo all’omologa previsione di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1, ha ritenuto la conformità della disposizione al dettato costituzionale.

La Corte, infatti, ha rilevato che “la semplificazione insita nella notificazione diretta”, consistente “nella mancanza della relazione di notificazione di cui all’art. 148 c.p.c. e L. n. 890 del 1982, art. 3” “anche se (…) comporta, in quanto eseguita nel rispetto del citato codice postale, uno scostamento rispetto all’ordinario procedimento notificatorio a mezzo del servizio postale ai sensi della L. n. 890 del 1982, non di meno (…) è comunque garantita al destinatario un’effettiva possibilità di conoscenza della cartella di pagamento notificatagli ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 26, comma 1” poichè “c’è il completamento dell’avviso di ricevimento da parte dell’operatore postale che, in forma sintetica, fornisce la prova dell’avvenuta consegna del plico al destinatario o al consegnatario legittimato a riceverlo”.

Ne ha derivato, quindi, che, nonostante la mancata previsione della comunicazione di avvenuta notifica – CAN – e l’inapplicabilità della L. n. 890 del 1982, art. 7 è ragionevole il bilanciamento degli interessi pubblici e privati, che è comunque garantito dal fatto che colui, che assuma in concreto la mancanza di conoscenza effettiva dell’atto per causa a lui non imputabile, può chiedere la rimessione in termini, ex art. 153 c.p.c., ove comprovi, anche sulla base di idonei elementi presuntivi, la sussistenza di detta situazione (nel caso di specie neanche dedotta dalla ricorrente, nè in sede di merito, nè in questa sede).

8. Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese, regolate per soccombenza, sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna Immobiliare La Vigna Srl al pagamento delle spese di legittimità, che liquida in complessive Euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 30 novembre 2021

Depositato in Cancelleria il 27 gennaio 2022


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 28-09-2021) 20-12-2021, n. 40758

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –
Dott. PORRECA Paolo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 35506/2018 proposto da:
P.L., elettivamente domiciliato in Roma Via Rosa Raimondi Garibaldi n. 141, presso lo studio dell’avvocato Petitta Leonardo, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
Poste Italiane Spa;
– intimato –
avverso la sentenza n. 8823/2018 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 03/05/2018;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/09/2021 da PORRECA PAOLO;
udito l’Avvocato;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale.
Svolgimento del processo
che:
l’avvocato P.L. conveniva in giudizio Poste Italiane, s.p.a., chiedendo il risarcimento dei danni subiti a seguito di un indebito prelievo, ad opera di sconosciuti, dal suo conto corrente postale abilitato al servizio telematico “online”;
il Giudice di pace accoglieva la domanda, con pronuncia riformata dal Tribunale secondo cui l’evento di danno, non risultando un malfunzionamento del sistema telematico della società, non poteva addebitarsi alla convenuta, che aveva anzi avvisato la clientela di non inserire dati sensibili rispondendo ad “email” non verificate, dovendo invece ragionevolmente correlarsi all’incauta comunicazione, da parte del titolare del conto, delle credenziali di accesso a seguito della riferita ricezione e risposta a un’email” volta alla frode poi, infatti, posta in essere;
avverso questa decisione ricorre per cassazione P.L. sulla base di un unico motivo, corredato da memoria;
il processo è stato rinviato alla pubblica udienza con ordinanza n. 2755 del 2020 della sezione Sesta;
il Pubblico Ministero ha depositato memoria.
Motivi della decisione
che:
con l’unico motivo si prospetta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 31, “ratione temporis” applicabile, e dell’art. 2729 c.c., poiché il Tribunale avrebbe errato imputando al deducente la prova del mancato funzionamento del sistema telematico della convenuta, omettendo, al contempo, di evincere presuntivamente dai fatti la mancata predisposizione, da parte della medesima società, d’idonee misure volte a prevenire frodi come quella in esame, tenuto conto che, come risultato, in risposta all’evocata e non filtrata “email”, erano stati inseriti codice identificativo e “password” ma, prudentemente, non il codice di dieci cifre necessario all’operazione;
Rilevato che:
va dato atto che il ricorso è stato chiamato per l’udienza pubblica di discussione, non tenuta in camera di consiglio ai sensi del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8 bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, siccome successivamente prorogato al 31 luglio 2021 dal D.L. 1 aprile 2021, n. 44, art. 6, comma 1, lett. a), n. 1), convertito dalla L. 28 maggio 2021, n. 76, nonché fino al 31 dicembre 2021, ma con eccezione delle udienze già fissate per i mesi di agosto e settembre 2021, dal D.L. 23 luglio 2021, n. 105, art. 7, commi 1 e 2, quale convertito;
il ricorso è inammissibile;
l’atto risulta infatti notificato via p.e.c. al difensore dell’intimata, con accettazione, da parte del sistema, ma senza consegna per “casella piena”;
al contempo, l’intimata aveva eletto domicilio presso lo studio dell’avvocato Domenico Febbo, in Roma viale Europa n. 190;
il procedimento notificatorio avrebbe dunque dovuto riprendersi per tempo all’indirizzo di elezione;
come osservato esplicativamente nella richiamata ordinanza interlocutoria, questa Corte ha chiarito che una notificazione è validamente effettuata all’indirizzo p.e.c. del difensore di fiducia, quale risultante dal Reginde, indipendentemente dalla sua indicazione in atti, ai sensi dell’art. 16 sexies del D.L. n. 179 del 2012 – come convertito dalla L. n. 221 del 2012, e modificato dall’art. 47 del D.L. n. 90 del 2014, convertito a sua volta dalla L. n. 114 del 2014 – non potendosi configurare un diritto a ricevere le notificazioni esclusivamente presso il domiciliatario indicato (Cass., 24/05/2018, n. 12876);
se però la notificazione telematica non vada a buon fine per una ragione, come nel caso, non imputabile al notificante – essendo invece addebitabile al destinatario per inadeguata gestione dello spazio di archiviazione necessario alla ricezione dei messaggi (Cass., 20/05/2019, n. 13532, Cass., 21/03/2018, n. 8029) – il notificante stesso deve ritenersi abbia il più composito onere, anche alla luce del principio della ragionevole durata del processo, di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario (fisico) eletto, in un tempo adeguatamente contenuto (arg. ex Cass., Sez. U., 15/07/2016, n. 14594, che ha indicato il temine della metà di quello previsto dall’art. 325, c.p.c.; Cass., 19/07/2017, n. 17864, Cass., 31/07/2017, n. 19059, Cass., 11/05/2018, n. 11485, Cass., 09/08/2018, n. 20700);
la conclusione è in linea con il principio, recentemente ribadito, per cui dev’esser escluso che il regime normativo concernente l’identificazione del c.d. domicilio digitale abbia soppresso la prerogativa processuale della parte di individuare, in via elettiva, uno specifico luogo fisico come valido riferimento, eventualmente in associazione al domicilio digitale, per la notificazione degli atti del processo alla stessa destinati (Cass., 11/02/2021, n. 3557, pag. 5, in cui si richiamano: Cass. nn. 1982 del 2020, 2942 del 2019, 22892 del 2015);
solo in tal caso, dunque, potranno conservarsi gli effetti della originaria notifica: in tal senso, e misura, si può raccogliere l’affermazione di Cass., 18/11/2019, n. 29851, secondo cui, più in generale, in caso di notifica telematica effettuata dall’avvocato, il mancato perfezionamento della stessa per non avere il destinatario reso possibile la ricezione dei messaggi sulla propria casella p.e.c., pur chiaramente imputabile al destinatario, impone alla parte di provvedere tempestivamente al suo rinnovo secondo le regole generali dettate dall’art. 137 c.p.c. e ss., e non mediante deposito dell’atto in cancelleria, non trovando applicazione la disciplina di cui al (citato) D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, ultima parte, prevista per il caso in cui la ricevuta di mancata consegna venga generata a seguito di notifica o comunicazione effettuata dalla Cancelleria, atteso che la notifica trasmessa a mezzo p.e.c. dal difensore si perfeziona al momento della generazione della ricevuta di avvenuta consegna (RAC);
parte ricorrente, nella memoria depositata prima del rinvio alla pubblica udienza, richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui il titolare dell’account” di posta elettronica certificata ha il dovere di assicurarsi il corretto funzionamento della propria casella postale sicché, nel caso di notifica telematica di atti quali un rigetto di opposizione allo stato passivo, poi impugnato, o la comunicazione dell’avviso di fissazione dell’udienza di discussione nel giudizio di legittimità, effettuati alla casella di posta elettronica e rifiutati dal sistema con il messaggio di “casella piena”, la notificazione ovvero comunicazione debbono ritenersi regolarmente avvenute giacché, una volta ottenuta dall’ufficio l’abilitazione all’utilizzo del sistema di posta elettronica certificata, l’avvocato, che abbia effettuato la comunicazione del proprio indirizzo di p.e.c., diventa responsabile della gestione della propria utenza, avendo l’onere non solo di procedere alla periodica verifica delle comunicazioni regolarmente inviategli a tale indirizzo, ma anche di attivarsi affinché i messaggi possano essere regolarmente recapitati (Cass., 21/05/2018, n. 12451, che cita Cass. n. 23650 del 2016, in cui poi la Cancelleria aveva effettuato la comunicazione dell’avviso di udienza anche via fax, preso atto dell’esito di “casella piena” della comunicazione via p.e.c.);
ritiene il Collegio che i principi in parola non siano dirimenti perché relativi a fattispecie diversa, in cui:
a) risultava indicato a tali fini l’indirizzo telematico;
b) soprattutto, non risultava effettuata una diversa elezione di domicilio fisico;
se, cioè, si può ritenere che l’elezione di domicilio fisico non impedisca l’utilizzo di quello telematico sopra richiamato, ciò non può viceversa imporre al difensore destinatario della notifica, in assenza di norme esplicite, gli stessi oneri che sono a lui richiedibili quando non possa aver fatto affidamento sulla suddetta legittima elezione e, anzi, abbia dato speculare valore al luogo elettronico di ricezione appositamente eletto;
e, parimenti, l’onere del notificante si articola come detto diversamente, dovendo tenersi congruo conto della specifica elezione di domicilio fisica;
pertanto, la notifica telematica al domicilio digitale sarà valida nell’ipotesi di avvenuta consegna, mentre, qualora vi sia una differente e specifica elezione di diverso domicilio (nell’odierna fattispecie, fisico), nell’eventualità di “casella telematica piena” (presso il domicilio digitale più sopra ricordato) per insufficiente gestione dello spazio da parte del destinatario della notifica, il notificante dovrà, per tempo, riprendere il procedimento notificatorio presso il domicilio eletto, e ciò a valere solo nel caso specificato, altrimenti non potendo sussistere alcun altro affidamento, da parte del notificatario, se non alla propria costante gestione della casella di posta elettronica, e nessun’altra appendice alla condotta esigibile dal notificante;
in senso opposto – per ritenere, cioè, la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico, essendo addebitabile al destinatario lo stato di casella p.e.c. piena – si sono richiamati (cfr. Cass., 11/02/2020, n. 3164):
– il disposto di cui all’art. 149 bis c.p.c., comma 3, in tema di notificazioni a mezzo posta elettronica eseguite dall’ufficiale giudiziario;
– il D.M. n. 44 del 2011, art. 20, comma 5, in cui si stabilisce che “il soggetto abilitato esterno è tenuto a dotarsi di servizio automatico di avviso dell’imminente saturazione della propria casella di posta elettronica certificata e a verificare la effettiva disponibilità dello spazio disco a disposizione”;
la prima norma appare, però, neutra ai fini in parola, prevedendosi, infatti, solo che “la notifica si intende perfezionata nel momento in cui il gestore rende disponibile il documento informatico nella casella di posta elettronica certificata del destinatario”;
seppure il “rendere disponibile” quale azione dell’operatore deve potersi evolvere in una effettiva disponibilità da parte del destinatario suscettibile di essere dunque onerato di fare quanto necessario perché ciò avvenga, tale prospettiva ricostruttiva, ad avviso del Collegio, non tiene conto dei due elementi cui prima si è accennato:
i) il difetto di esclusività del domicilio digitale;
ii) la mancata elisione della prerogativa processuale di eleggere domicilio fisico con effetti alternativi;
diversamente, la previsione legale del domicilio digitale dovrebbe intendersi aver soppresso ad ogni fine e valenza la facoltà processuale di elezione di diverso domicilio (fisico), in assenza di una specifica norma in questo senso;
il disposto del D.M., poi, data la natura secondaria della fonte, non è sufficiente a giustificare la conclusione che in presenza di casella di p.e.c. satura la notificazione si abbia per perfezionata;
neppure decisivo appare l’art. 138 c.p.c., comma 2, che considera il rifiuto del destinatario di ricevere la copia di un atto che si tenti di notificargli a mani proprie come equivalente a una notificazione di tale genere: la responsabilità, in ipotesi anche colposa, di lasciare la casella di p.e.c. satura, non può equivalere a un intenzionale rifiuto di ricevere notificazioni tramite essa, tanto più attesa l’alternativa elezione di domicilio fisico utilizzabile;
il punto di caduta ed equilibrio appena ricostruito appare inoltre il più coerente con la fase di transizione del regime processuale dalla dimensione fisica, intesa in senso tradizionale, a quella esclusivamente telematica;
in questa cornice, infine, non può ritenersi giustificato un ordine di rinnovo giudiziale della notificazione, che risulterebbe privo di legittimazione normativa a fronte, invece, dell’opposto principio di ragionevole durata del processo;
ne consegue, nella fattispecie in scrutinio, l’inammissibilità del ricorso; non deve disporsi sulle spese in assenza di difesa della controparte.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso.
Così deciso in Roma, il 28 settembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 20 dicembre 2021

 


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 29/09/2021) 02/12/2021, n. 38010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. MANZON Enrico – rel. Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. CASTORINA Rosaria Maria – Consigliere –

Dott. CORRADINI Grazia – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 23063/2015 R.G. proposto da:

Maxflora srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Domenico Siciliano, con domicilio eletto in Roma, via Antonio Gramsci, presso lo studio del difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle entrate, in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania n. 1057/17/15, depositata il 17 marzo 2015.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 29 settembre 2021 dal Consigliere Enrico Manzon;

uditi gli Avv. Giovanni Palatiello;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Salzano Francesco, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Catania rigettava l’appello proposto da Maxflora srl avverso la sentenza n. 429/1/13 della Commissione tributaria provinciale di Ragusa che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento per II.DD. ed IVA 2007.

La CTR osservava in particolare che le pretese creditorie erariali erano ben fondate dalla metodologia accertativa utilizzata, di tipo presuntivo, che comunque l’atto impositivo impugnato era stato correttamente notificato e debitamente sottoscritto dal direttore dell’Agenzia delle entrate, ufficio locale; che in ogni caso non vi erano elementi per ridurre dette pretese, posto che la società contribuente non aveva adeguatamente assolto il proprio onere di provare i costi afferenti i ricavi presuntivamente accertati.

Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente deducendo quattro motivi.

Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.

Motivi della decisione
Con il primo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente si duole della violazione del D.L. n. 78 del 2010, art. 29, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, poichè la CTR ha affermato la validità della procedura notificatoria dell’avviso di accertamento impugnato, trattandosi di atto impositivo del nuovo tipo “impoesattivo”, essendo stato lo stesso inviato “direttamente” a mezzo posta da parte dell’agenzia fiscale, peraltro senza recazione di relata di notifica, e ciò costituendo causa di inesistenza, non sanabile, della notificazione e quindi di invalidità per decadenza dell’atto impositivo medesimo.

La censura è infondata.

Pacifico in fatto che l’avviso di accertamento impugnato è stato notificato a mezzo posta direttamente dall’agenzia fiscale senza l’intermediazione di ufficiale giudiziario ovvero di messo notificatore, il Collegio ritiene di dare seguito a quanto già affermatosi nella giurisprudenza di legittimità in ordine alla piena legittimità di tale procedura notificatoria anche con riguardo alla nuova tipologia di avvisi di accertamento (c.d. impoesattivi) introdotta con il D.L. n. 78 del 2010, art. 29, (v. Cass. n. 27634 del 2020).

Tale disposizione legislativa, nella versione applicabile ratione temporis, prevede che “Le attività di riscossione relative agli atti indicati nella seguente lettera a) emessi a partire dal 1 ottobre 2011 e relativi ai periodi d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2007 e successivi, sono potenziate mediante le seguenti disposizioni: a) l’avviso di accertamento emesso dall’Agenzia delle Entrate ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto ed il connesso provvedimento di irrogazione delle sanzioni, devono contenere anche l’intimazione ad adempiere, entro il termine di presentazione del ricorso, all’obbligo di pagamento degli importi negli stessi indicati, ovvero, in caso di tempestiva proposizione del ricorso ed a titolo provvisorio, degli importi stabiliti dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 15. L’intimazione ad adempiere al pagamento è altresì contenuta nei successivi atti da notificare al contribuente, anche mediante raccomandata con avviso di ricevimento, in tutti i casi in cui siano rideterminati gli importi dovuti in base agli avvisi di accertamento ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta regionale sulle attività produttive e dell’imposta sul valore aggiunto ed ai connessi provvedimenti di irrogazione delle sanzioni ai sensi del D.Lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 8, comma 3-bis, art. 48, comma 3-bis, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 68, e del D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 19, nonchè in caso di definitività dell’atto di accertamento impugnato. In tali ultimi casi il versamento delle somme dovute deve avvenire entro sessanta giorni dal ricevimento della raccomandata; la sanzione amministrativa prevista dal D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, art. 13, non si applica nei casi di omesso, carente o tardivo versamento delle somme dovute, nei termini di cui ai periodi precedenti, sulla base degli atti ivi indicati; b) gli atti di cui alla lettera a) divengono esecutivi decorsi sessanta giorni dalla notifica e devono espressamente recare l’avvertimento che, decorsi trenta giorni dal termine ultimo per il pagamento, la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti delle riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata, con le modalità determinate con provvedimento del direttore dell’Agenzia delle Entrate, di concerto con il Ragioniere generale dello Stato. L’esecuzione forzata è sospesa per un periodo di centottanta giorni dall’affidamento in carico agli agenti della riscossione degli atti di cui alla lettera a); tale sospensione non si applica con riferimento alle azioni cautelari e conservative, nonchè ad ogni altra azione prevista dalle norme ordinarie a tutela del creditore. L’agente della riscossione, con raccomandata semplice spedita all’indirizzo presso il quale è stato notificato l’atto di cui alla lettera a), informa il debitore di aver preso in carico le somme per la riscossione”.

Orbene, non può ritenersi che tale disposizione legislativa abbia un qualsiasi effetto abrogante della L. n. 890 del 1982, art. 14, che appunto prevede, senza alcuna distinzione tra gli atti ivi indicati, la facoltà degli Enti impositori di procedere alla notificazione a mezzo posta senza intermediazione alcuna, se non appunto quella dell’agente postale.

E, diversamente da quanto sostiene la ricorrente, non si può a tal fine affermare che sia rilevante/scriminante la distinzione tra le tipologie di atti previste nel D.L. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. a), non vedendosi alcuna ragione giuridica in questo senso, essendo la previsione che anche gli atti successivi a quelli indicati nella prima parte possano essere notificati con lettera raccomandata nient’altro che estensiva di detta facoltà di “notificazione diretta”.

Disattendendo un’ulteriore argomentazione della società contribuente, va peraltro ribadito che la notificazione di un atto impositivo non è affatto un elemento costitutivo di esistenza giuridica/validità del medesimo, bensì esclusivamente una sua condizione di efficacia (cfr. ex multis, Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 21071 del 24/08/2018, Rv. 650056 – 01).

D’altro canto, non vi è ragione per affermare che l’idoneità a trasformarsi in titolo esecutivo solo dopo 60 giorni dalla notificazione stessa, a differenza dell’iscrizione a ruolo che D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 12, comma 4, ha effetto immediato, ne rappresenti invece un elemento costitutivo. Infatti è la stessa disposizione legislativa che chiarisce che con la novità normativa si è inteso aggiungere una nuova modalità di formazione di un titolo esecutivo legittimante la riscossione esattoriale, laddove il D.L. n. 78 del 2010, art. 29, comma 1, lett. b), prevede appunto espressamente che “la riscossione delle somme richieste, in deroga alle disposizioni in materia di iscrizione a ruolo, è affidata in carico agli agenti della riscossione anche ai fini dell’esecuzione forzata..”.

Infine sul punto deve altresì darsi seguito al principio di diritto che “In caso di notificazione a mezzo posta dell’atto impositivo eseguita direttamente dall’Ufficio finanziario ai sensi della L. n. 890 del 1982, art. 14, si applicano le norme concernenti il servizio postale ordinario per la consegna dei plichi raccomandati, e non quelle di cui alla suddetta legge concernenti esclusivamente la notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario ex art. 149 c.p.c., sicchè non va redatta alcuna relata di notifica o annotazione specifica sull’avviso di ricevimento in ordine alla persona cui è stato consegnato il plico, e l’atto pervenuto all’indirizzo del destinatario deve ritenersi ritualmente consegnato a quest’ultimo, senza necessità dell’invio della raccomandata al destinatario, stante la presunzione di conoscenza di cui all’art. 1335 c.c., la quale opera per effetto dell’arrivo della dichiarazione nel luogo di destinazione ed è superabile solo se il destinatario provi di essersi trovato, senza sua colpa, nell’impossibilità di prenderne cognizione” (ex pluribus, Cass., Sez. 5 -, Sentenza n. 29642 del 14/11/2019, Rv. 655744 – 01).

In conclusione, indiscussa la ricezione dell’avviso di accertamento impugnato da parte della società contribuente, va affermata la piena ritualità della procedura notificatoria effettuata secondo la previsione di cui alla L. n. 890 del 1982, art. 14, in base alla disciplina della legge medesima.

Con il secondo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., dell’art. 115 c.p.c., del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, poichè la CTR ha affermato la validità dell’atto impositivo impugnato nonostante non fosse provata al legittimazione a sottoscriverlo del direttore dell’Agenzia delle entrate, ufficio locale.

La censura è infondata.

Il giudice tributario di appello ha accertato in fatto, insindacabilmente, che il sottoscrittore dell’avviso di accertamento de quo è il direttore provinciale dell’agenzia fiscale.

Ciò posto, va ribadito in diritto che “In tema di accertamento tributario, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, commi 1 e 3, gli avvisi di accertamento in rettifica e gli accertamenti d’ufficio devono essere sottoscritti a pena di nullità dal capo dell’ufficio o da altro funzionario delegato di carriera direttiva e, cioè, da un funzionario di area terza di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, di cui non è richiesta la qualifica dirigenziale, con la conseguenza che nessun effetto sulla validità di tali atti può conseguire dalla declaratoria d’incostituzionalità del D.L. n. 16 del 2012, art. 8, comma 24, convertito nella L. n. 44 del 2012. (Principio affermato ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3)” (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 22810 del 09/11/2015, Rv. 637349 – 01).

Con il terzo motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., poichè la CTR ha ritenuto nel merito che l’avviso di accertamento impugnato rosse fondato su presunzioni aventi le caratteristiche da dette disposizioni codicistiche, con ciò violando il principio generale sull’onere della prova sancito dalla prima.

La censura è infondata.

Va anzitutto ribadito che “La violazione del precetto di cui all’art. 2697 c.c., si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era gravata in applicazione di detta norma, non anche quando, a seguito di una incongrua valutazione delle acquisizioni istruttorie, abbia ritenuto erroneamente che la parte onerata avesse assolto tale onere, poichè in questo caso vi è un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità solo per il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5” (Cass., n. 17313 del 19/08/2020, Rv. 658541 – 01).

Nel caso di specie la CTR siciliana non ha affatto violato tale precetto, correttamente attribuendo all’agenzia fiscale l’onere di suffragare le proprie pretese creditorie e peraltro affermando appunto che tale onere doveva considerarsi pienamente assolto.

Quanto al resto, la censura risulta inammissibile, introducendo valutazioni circa il giudizio di merito dato dal giudice tributario di appello, in particolare sulla valorizzazione delle prove agli atti, che non possono essere revisionate da questa Corte, secondo i consolidati principi di diritto che “Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sè coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione” (ex multis, Cass. n. 9097 del 07/04/2017) e che “In tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione” (ex multis Cass., n. 26110 del 2015).

Con il quarto motivo – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la ricorrente lamenta la falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, nonchè degli artt. 3, 27, 53 Cost., dell’art. 6 CEDU, comma 2, poichè la CTR ha ritenuto irrilevanti i prelevamenti effettuati dal legale rappresentante pro tempore della società contribuente, nonostante l’induttività della metodologia accertativa implicasse necessariamente di doverne tenere conto come componenti negative di reddito, altrimenti violandosi specificamente il principio costituzionale di capacità contributiva.

La censura è infondata.

Va ribadito che “In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo (come in caso di indagini bancarie) è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario” (Cass., Sez. 5 -, Ordinanza n. 22868 del 29/09/2017, Rv. 645900 – 01).

Trattandosi nel caso di specie della tipologia accertativa analitico-induttiva, emergendo ciò in modo inequivoco dalla stessa narrativa di ricorso, risulta evidente che la CTR siciliana ha deciso in piena conformità a tale arresto giurisprudenziale e non merita cassazione nemmeno in relazione a tale critica, non potendosi ovviamente “revisionarne” il giudizio di merito circa il mancato assolvimento dello specifico onere probatorio in questione da parte della società contribuente.

In conclusione il ricorso va rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600 oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 29 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2021


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 06-07-2021) 16-12-2021, n. 40467

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele Gaetano Antonio – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 29897/2019 proposto da:

T.G., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO SOMALIA 67, presso lo studio dell’avvocato RITA GRADARA, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLO COLOMBO, ANNA MARIA PETRALITO;

– ricorrente –

contro

AZIMUT SRL, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL CONSOLATO 6, presso lo studio dell’avvocato MASSIMO SERRA, rappresentato e difeso dall’avvocato MARCO GAMBA;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 468/2019 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 15/03/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/07/2021 dal Consigliere Dott. ENRICO SCODITTI.

Svolgimento del processo
che:

T.G. propose innanzi al Tribunale di Cremona opposizione tardiva ai sensi dell’art. 650 c.p.c., avverso il Decreto Ingiuntivo, notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c., emesso in favore di Azimut s.r.l. per l’importo di Euro 61.781,03, a titolo di corrispettivo per le opere eseguite extracapitolato presso l’immobile di proprietà dell’ingiunto, operata dal totale di Euro 68.331,53 la detrazione della somma di Euro 6.460,50 pari al costo per l’eliminazione dei vizi lamentati dal T.. L’opponente propose inoltre domanda riconvenzionale di condanna al pagamento della somma di Euro 41.977,67, a titolo risarcitorio ai sensi degli artt. 1669 e/o 2043 c.c., per i danni derivanti dai vizi a carico dell’immobile. Il Tribunale accolse sia l’opposizione che la domanda riconvenzionale nei limiti del minor importo (rivalutato) di Euro 17.500,00. Avverso detta sentenza propose appello Azimut s.r.l.. Con sentenza di data 15 marzo 2019 la Corte d’appello di Brescia accolse l’appello, dichiarando l’inammissibilità per tardività dell’opposizione al decreto ingiuntivo e condannando l’appellato al pagamento della somma di Euro 61.781,03 oltre interessi.

Premise la corte territoriale che in data (OMISSIS) era stata eseguita la notificazione del Decreto Ingiuntivo presso la residenza anagrafica del debitore a mezzo del servizio postale, con esito negativo per lo stato di “irreperibilità del destinatario” e che in data (OMISSIS) la notifica era stata eseguita dall’ufficiale giudiziario il quale, confermando la situazione verificata dall’ufficiale postale, aveva dichiarato che all’indirizzo di (OMISSIS) vi era uno “stabile sprovvisto di portineria”, “il nome non figura sul citofono nè sulla cassetta postale”, così da rendere “non applicabile la notifica ex art. 140 c.p.c.” e che erano state “vane le ricerche esperite sul posto”. Osservò quindi, non potendo essere poste in discussione le attestazioni dell’ufficiale giudiziario in mancanza di querela di falso, che non poteva reputarsi inidonea neppure l’attestazione riguardante il vano esperimento delle ricerche sul posto, perchè: l’espletamento di tale adempimento era attestato dal pubblico ufficiale; l’esito negativo era coerente al precedente tentativo mediante servizio postale; le ricerche non avrebbero potuto fornire un risultato diverso dato che l’indirizzo di (OMISSIS) corrispondeva all’effettiva ed attuale residenza dell’ingiunto.

Aggiunse che la domanda riconvenzionale non era autonoma rispetto alla pretesa creditoria, e pertanto risultava travolta dall’inammissibilità dell’opposizione con la formazione del relativo giudicato, perchè l’opposta aveva chiesto il pagamento delle opere extra contratto (e a tale domanda l’opponente aveva resistito sostenendo che il relativo costo era stato preso in considerazione nel corrispettivo della compravendita) ed inoltre aveva offerto, a deduzione del costo delle opere in questione, il minor valore determinato da tale costo, cui l’opponente aveva replicato offrendo una differente valutazione delle circostanze e delle criticità in parola.

Ha proposto ricorso per cassazione T.G. sulla base di due motivi e resiste con controricorso la parte intimata. E’ stato fissato il ricorso in Camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.. Sono state depositate memorie.

Motivi della decisione
che:

con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 140, 143 e 148 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che, come riconosciuto dalla stessa Corte d’appello, era provato che nel (OMISSIS) il T. avesse stabile residenza anagrafica all’indirizzo di (OMISSIS) e che la barratura della casella “vane ricerche” avrebbe dovuto essere completata adeguatamente mediante una relazione che desse conto dell’attività compiuta ai fini di consentire la notifica a mani o accertare la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 140, dando conto in modo esaustivo delle attività compiute e spiegando così come il loro esito avesse portato alla conclusione inequivocabile del trasferimento altrove della residenza (peraltro si trattava di un’area di villette regolarmente e stabilmente abitate, ragion per cui era sufficiente chiedere informazioni ai vicini ivi residenti). Aggiunge che non poteva ricorrere lo stato di ignoranza incolpevole circa l’effettivo indirizzo di residenza del destinatario (che avrebbe legittimato la notifica ai sensi dell’art. 143), sia perchè il T. aveva stabile residenza nell’indirizzo in questione, dal quale era temporaneamente assente per impegni di lavoro, sia perchè tale residenza era nota ad Azimut.

Il motivo è fondato. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, ai fini della notificazione ex art. 143 c.p.c., l’ufficiale giudiziario, ove non abbia rinvenuto il destinatario nel luogo di residenza risultante dal certificato anagrafico, è tenuto a svolgere ogni ulteriore ricerca ed indagine dandone conto nella relata, dovendo ritenersi, in difetto, la nullità della notificazione (Cass. n. 8638 del 2017). Il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 c.p.c., per le persone irreperibili, non può essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presuppone sempre e comunque che, nel luogo di ultima residenza nota, siano compiute effettive ricerche e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto (Cass. n. 24107 del 2016), il che val quanto dire, come affermato da Cass. n. 18385 del 2003, che “l’ufficiale giudiziario debba comunque preliminarmente concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine fra l’altro – di attingere, anche nell’ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione”. Va inoltre rammentato che i presupposti, legittimanti la notificazione a norma dell’art. 143 c.p.c., non sono solo il dato soggettivo dell’ignoranza, da parte del richiedente o dell’ufficiale giudiziario, circa la residenza, la dimora o il domicilio del destinatario dell’atto, nè il mero possesso del certificato anagrafico, dal quale risulti il destinatario stesso trasferito per ignota destinazione, essendo anche richiesto che la condizione di ignoranza non sia superabile attraverso le indagini possibili nel caso concreto, da compiersi ad opera del mittente con l’ordinaria diligenza: a tal fine, la relata di notificazione fa fede, fino a querela di falso, circa le attestazioni che riguardano l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente e limitatamente ai soli elementi positivi di essa, mentre non sono assistite da pubblica fede le attestazioni negative, come l’ignoranza circa la nuova residenza del destinatario della notificazione (Cass. n. 19012 del 2017).

Nel caso di specie l’indicazione di “vane le ricerche esperite sul posto”, al cospetto dell’accertata residenza anagrafica, evidenzia una carenza del procedimento notificatorio sotto il profilo del requisito della effettività delle ricerche e della specifica indicazione di quali siano state le “effettive” ricerche compiute, rilevante nel caso di specie come requisito formale indispensabile per il raggiungimento dello scopo dell’atto (art. 156 c.p.c., comma 2). In mancanza infatti della specifica indicazione delle effettive ricerche compiute, la generica indicazione di “vane le ricerche esperite sul posto” è inidonea ad integrare un fatto di cui l’ufficiale giudiziario dia conto nel processo verbale, per il quale incomba sulla parte interessata l’onere di proporre querelai di falso, ma ha la valenza esclusivamente di una valutazione, non assistita, come è noto, dalla precipua efficacia dell’atto pubblico (in particolare, l’ufficiale giudiziario ha stimato “vane” le ricerche esperite, ma ha omesso di attestare i fatti, che sarebbero avvenuti, corrispondenti alle ricerche eseguite). Non vale richiamare Cass. n. 17964 del 2017, come si fa nella memoria della controricorrente, la quale esclude che ricorra la nullità nel caso di mancata indicazione nel processo verbale delle indagini eseguite a condizione però che risulti comunque con assoluta certezza l’effettivo compimento delle stesse, circostanza che non risulta nel caso di specie (mentre sussisteva nel caso di cui al precedente appena citato).

Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale, ritenendo travolta la domanda riconvenzionale, ha confuso il contenuto di domande che restano autonome, con l’istituto della compensazione e che il contenuto della domanda riconvenzionale prescinde del tutto dall’opposizione a decreto ingiuntivo.

L’accoglimento del precedente motivo determina l’assorbimento del motivo.

P.Q.M.
accoglie il primo motivo del ricorso, con assorbimento del secondo motivo; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto; rinvia alla Corte di appello di Brescia in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 6 luglio 2021.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2021