Cass. civ., Sez. II, (data ud. 26/01/2000) 26/01/2000, n. 851

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Gaetano GAROFALO – Presidente;

Dott. Michele ANNUNZIATA – Consigliere;

Dott. Francesco CRISTARELLA ORESTANO – Consigliere;

Dott. Roberto Michele TRIOLA – Consigliere;

Dott. Francesca TROMBETTA – Rel. Consigliere;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FLAVIKER S.R.L., in persona del legale rappresentante pro – tempore Sig. SIROTTI FERMO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MICHELE DI LANDO 10, presso lo studio dell’avvocato EUGENIO TAMBURELLI, che lo difende unitamente all’avvocato DOMENICO ROSATI, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

FERGOLA ADDOLORATA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA THAILANDIA 27, presso lo studio dell’avvocato C. GATTI, difesa dall’avvocato PAOLILLO FRANCESCO PAOLO M, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 14/97 del Tribunale di TRANI, depositata il 09/01/97;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/04/99 dal Consigliere Dott. Francesca TROMBETTA;

udito l’Avvocato EUGENIO TAMBURELLI, difensore del ricorrente che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Alberto RUSSO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 14 marzo 1989 la ditta Addolorata Fergola, deducendo di aver acquistato dalla Flaviker S.p.A. piastrelle in ceramica per pavimenti e di aver rilevato, al momento della posa in opera, la sussistenza di vizi occulti (striature rettilinee biancastre), conveniva in giudizio, davanti al pretore di Barletta, la suddetta società perché fosse dichiarata la risoluzione del contratto per inadempimento della venditrice nonché fosse condannata la medesima al risarcimento danni.

Costituitasi, la società convenuta contestava la domanda chiedendone il rigetto ed in via riconvenzionale chiedeva la condanna dell’attrice al pagamento del saldo prezzo di L. 1.444.381, oltre accessori.

Escussi testi e disposta C.T.U. il pretore di Barletta con sentenza del 14 dicembre 1991 dato atto della tempestività della denuncia dei vizi accoglieva la domanda attrice, aderendo alle risultanze della consulenza che aveva confermato l’esistenza dei vizi denunciati. Dichiarava, pertanto, la risoluzione del contratto condannando la Flaviker S.p.A. al pagamento della somma di L. 5.000.000 a titolo di risarcimento danni in favore dell’attrice, oltre interessi legali.

Su impugnazione della Flaviker il Tribunale di Trani, con sentenza 9 gennaio 1997, confermava la sentenza del pretore, condannando l’appellante al pagamento delle spese giudiziali.

Afferma il Tribunale in ordine alla ritenuta inapplicabilità della clausola n. 2 stampata sul retro della fattura (“non si accettano contestazioni di sorta sul materiale posto in opera”) e non sottoscritta da alcuna delle parti, che trattandosi di clausola vessatoria, essa andava specificamente approvata per iscritto.

Quanto all’eccezione di nullità del supplemento di C.T.U., per non essere stato il consulente di parte posto in grado di partecipare alle operazioni peritali, la nullità doveva intendersi sanata perché non tempestivamente opposta. Nel merito, non poteva trovare accoglimento la tesi della società appellante secondo la quale le piastrelle acquistate allo stato grezzo non andavano né levigate, né lucidate; per cui i vizi lamentati andavano imputati esclusivamente alla lucidatura effettuata dopo la posa in opera delle stesse.

Premesso, infatti, che alla perizia di parte non poteva essere attribuita alcuna rilevanza, non essendo essa, con certezza, ricollegabile al caso di specie, andava rilevato che, essendo stato consegnato all’appellata, al momento della scelta, un campionario lucido, privo delle lamentate striature bianche, verosimilmente le era stato lasciato intendere che, tramite la lucidatura anche con le piastrelle grezze poteva conseguirsi l’effetto estetico del campione.

Né era stato provato che la ditta Fergola fosse stata resa edotta delle conseguenze cui andava incontro in caso di lucidatura delle piastrelle acquistate; né della circostanza che il campione era costituito da una piastrella “levigata” in sede di fabbricazione.

Non vi era, poi, motivo di dubitare della correttezza del procedimento di lucidatura seguito, posto che anche quella eseguita dal C.T.U. su altre piastrelle di rimanenza (quelle che allo stato grezzo, presentavano rigature sospette) aveva evidenziato l’identico difetto. Era, in ogni caso, pacifico (v. C.T.U.) che le denunciate striature (visibili dalla non contestata documentazione fotografica allegata alla perizia di parte appellata) erano apparse a seguito della lucidatura soltanto su circa il 50% delle mattonelle poste in opera; il che confermava che il restante 50% era stato “trattato” senza dar adito a problemi, con la conseguenza che il lamentato fenomeno delle striature era dipeso dalla intrinseca inidoneità di una parte del materiale oggetto della fornitura.

Tali considerazioni escludevano la necessità di ulteriori approfondimenti istruttori.

Avverso tale sentenza ricorre in Cassazione la società Flaviker S.p.A., alla quale resiste, con controricorso, la ditta Fergola.

Motivi della decisione
Deduce la società ricorrente a motivi di impugnazione:

1) la violazione e falsa applicazione dell’art. 1341 c.c., nonché l’omessa applicazione degli artt. 1340 e 1491 c.c., illogicità di motivazione – per avere il Tribunale erroneamente:

A) ritenuto vessatoria la clausola n. 2 stampata sul retro della fattura (“non si accettano contestazioni di sorta, sul materiale posto in opera”), come la clausola “non si risponde del materiale levigato dopo la posa in opera”, nonostante si trattasse di clausole rientranti tra i c.d. usi negoziali, inserite automaticamente in ogni contratto di compravendita di piastrelle concluso tramite rappresentanti;

B) ritenuto applicabile la garanzia per vizi della cosa venduta, nonostante tale garanzia non fosse dovuta, trattandosi di vizi palesi (“sospette striature biancastre”), come accertato dal C.T.U. su alcune piastrelle di rimanenza allo stato grezzo, con la conseguenza che la loro posa in opera, comportava accettazione delle stesse;

2) l’omessa, insufficiente o, comunque, contraddittoria motivazione – per avere il Tribunale, nell’affermare che alla ditta acquirente fu consegnato un campione lucidato, privo delle striature biancastre, lasciando intendere che tramite la lucidatura si sarebbe potuto ottenere anche con le piastrelle grezze, l’effetto estetico del campione, non considerato:

A) che la ditta acquirente scelse il materiale oggetto del contratto dopo aver visionato sia le piastrelle grezze che quelle levigate;

B) che la ditta acquirente, operante da molti anni nella zona, era a conoscenza sia degli usi negoziali, che delle norme di manutenzione;

C) che sui cataloghi, listini, retro delle fatture vi era espresso richiamo alle norme d’uso e di manutenzione, secondo le quali le piastrelle “grezze” non andavano né levigate, né lucidate;

D) che non poteva esserci stata dolosa induzione in errore da parte della venditrice stante l’avvenuta stipula del contratto tramite rappresentante e la professionalità della ditta acquirente che ben conosceva le caratteristiche del materiale, anche in considerazione del prezzo di vendita (triplo quello delle piastrelle levigate);

E) che, se le striature erano visibili sul 50% delle piastrelle, bastava non porre in opera quelle viziate e farsele sostituire;

F) che comunque, anche il C.T.U. nel lucidare le piastrelle “grezze” della rimanenza non si era reso conto che esse non andavano lucidate e che la levigatura dopo la posa in opera presentava rischi;

G) che se fosse stato possibile ottenere da piastrelle grezze successivamente levigate lo stesso effetto estetico di quelle levigate sin dall’origine, non avrebbe avuto senso vendere queste ultime ad un prezzo triplo rispetto alle prime;

– per avere il Tribunale insufficientemente motivato:

A) sulla mancata considerazione della C.T.U. di parte;

B) sulla inammissibilità di una nuova perizia;

C) sulla correttezza delle operazioni peritali;

D) sulla supposta esistenza del raggiro;

E) sulla conclusione che il 50% delle mattonelle trattate non aveva dato problemi;

4) la violazione degli artt. 342, 345, 346, 350, 352, 356 c.p.c., l’illogicità di motivazione,

– per avere il Tribunale:

A) omesso di considerare in toto i motivi specifici dell’appello;

B) per aver omesso di considerare la C.T.U. di parte che si richiamava alla fattispecie concreta riferendosi alla Salso, utilizzatrice finale delle piastrelle;

C) non ammesso una nuova C.T.U. nonostante gli errori e la superficialità di quella espletata e ciò con violazione del diritto di difesa della Flaviker;

D) non ammesso nuovi mezzi di prova.

Va preliminarmente respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dalla Fergola, per carenza di legittimazione a ricorrere della Soc. Flaviker S.r.l. perché soggetto diverso dalla Flaviker S.p.A., società che ha preso parte alle precedenti fasi di merito.

Trattasi, infatti, di trasformazione dell’originaria società per azioni in società a responsabilità limitata, fenomeno che, come è noto, non importa l’estinzione del precedente soggetto giuridico e la creazione di un nuovo soggetto; ma implica soltanto la modifica dell’atto costitutivo della società, permanendo l’identità dell’originario soggetto.

La Flaviker S.r.l. è pertanto legittimata a ricorrere in questa sede.

Quanto al profilo sub A del primo motivo, non può essere condivisa la tesi della ricorrente che, attribuendo natura di usi negoziali alle clausole riprodotte nel retro delle fatture, afferma la loro inclusione automatica nel contratto stipulato dalle parti.

Infatti, nella presente fattispecie, trattandosi di clausole che incidono sulla responsabilità della parte venditrice, limitando la facoltà di opporre eccezioni dell’acquirente, la natura vessatoria delle stesse, anche ove fosse provata l’esistenza dell’uso contrattuale dedotto, escluderebbe la loro inserzione automatica nel contenuto del contratto, non potendosi la parte onerata ritenere obbligata in forza di una manifestazione tacita di volontà, qual è quella che costituisce il presupposto dell’operatività automatica degli usi contrattuali; ed occorrendo, viceversa, una espressa manifestazione di volontà delle parti, al momento della conclusione del contratto, attuata con le forme di cui all’art. 1342 c.c.

Tali clausole, infatti, valide, come si assume nella specie, per tutti i contratti aventi ad oggetto la vendita di mattonelle, e stipulati a mezzo di rappresentanti, sono assimilabili alle condizioni generali predisposte dagli imprenditori del settore.

Infondato è il profilo sub B del motivo in esame.

Premesso, infatti, che la facile riconoscibilità dei vizi che esclude la garanzia ex art. 1491 c.c., presuppone che essi siano tali al momento della conclusione del contratto (v. sent. n. 5075/83; n. 6073/95), per cui la citata norma non opera quando, come nella specie, trattandosi di contratto concluso a mezzo di rappresentante, la consegna della merce è successiva alla stipula del contratto; va rilevato che, l’onere di diligenza imposto dall’art. 1491 c.c. al compratore, deve essere apprezzato tenendo presenti le particolari circostanze della vendita, e nella specie che la scelta è avvenuta in base ad un campione lucido, che non presentava striature di sorta.

Ciò aveva fatto supporre all’acquirente (ed in tal senso, secondo il Tribunale il consenso si è perfezionato tra le parti) che, qualunque fosse stato l’aspetto delle mattonelle grezze, il risultato, dopo la lucidatura, sarebbe stato conforme a quello della mattonella mostrata al momento della conclusione del contratto.

Nessuna accettazione di mattonelle viziate può, quindi, ritenersi intervenuta attraverso la loro posa in opera.

Sulla base delle suddette specifiche modalità di conclusione del contratto, nonché dell’accertamento di fatto operato dal Tribunale, secondo cui solo il 50% delle mattonelle poste in opera hanno presentato gli inconvenienti lamentati, si appalesano prive di fondamento le censure sollevate con il secondo motivo di ricorso, dal momento che, come il Tribunale ha rilevato, non è stata la lucidatura a determinare le striature evidenziatesi sulle mattonelle; ma esse sono derivate dalla intrinseca struttura del materiale. Ne consegue che restano prive di rilievo le considerazioni della ricorrente, sia in ordine alla necessaria conoscenza da parte dell’acquirente dei rischi, in termini di risultato, cui si andava incontro con il sottoporre a lucidatura o levigatura le mattonelle grezze (rischi che, peraltro, come ha evidenziato il Tribunale non risultavano fatti presenti in sede di contrattazione), sia in ordine all’insussistenza della dolosa induzione in errore da parte della venditrice ai danni dell’acquirente; induzione in errore che, secondo il Tribunale ben poteva essersi verificata in mancanza di prova circa la conoscenza da parte dell’acquirente, che la levigatura o lucidatura della mattonella campione era avvenuta in sede di fabbricazione e non successivamente.

Non sussiste, poi, il vizio di motivazione dedotto nel motivo in esame, sia in ordine al mancato esame della perizia di parte, avendo il Tribunale spiegato che la stessa non poteva essere con certezza riferita al caso di specie, a causa della carenza di oggettivi termini di riferimento; sia in ordine alla ritenuta inammissibilità di una nuova perizia la cui disposizione è rimessa al potere discrezionale ed insindacabile del giudice di merito.

Del tutto infondato è, infine, il terzo motivo di ricorso che evidenzia una serie di censure generiche sulle quali in parte si è già risposto specificamente (ad es. quelle relative alle consulenze tecniche); e che per il resto rimangono superate alla luce della ratio decidendi seguita dalla sentenza impugnata.

Il ricorso va, pertanto, respinto e la società ricorrente va condannata al pagamento in favore della ditta Fergola, delle spese del presente giudizio, come liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento in favore della resistente delle spese del presente giudizio nella misura di L. 357.900, oltre a L. 1.200.000 di onorari.

Così deciso in Roma il 27 aprile 1999.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 26 GENNAIO 2000.


Cass. civ. Sez. Unite, 19-11-1999, n. 793

riunita in camera di consiglio nelle persone dei signori magistrati:

dott. Romano PANZARANI – Primo Presidente f.f.;

dott. Francesco AMIRANTE – Pres. di sezione;

dott. Francesco CRISTARELLA ORESTANO – Consigliere;

dott. Antonio VELLA – Consigliere;

dott. Erminio RAVAGNANI – Consigliere;

dott. Alessandro CRISCUOLO – Consigliere;

dott. Francesco SABATINI – relatore Consigliere;

dott. Ettore GIANNANTONIO – Consigliere;

dott. Stefanomaria EVANGELISTA – Consigliere;

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

LANZARA RAFFAELE, rappresentato dall’avv. Giovanni Falci giusta procura in calce al ricorso, con elezione di domicilio in Roma, via Valadier n. 6, presso l’avv. Claudio Giannelli

ricorrente

contro

CONSIGLIO ORDINE AVVOCATI DI NOCERA INFERIORE e PROCURATORE GENERALE CASSAZIONE

intimati

avverso

la decisione in data 16.10. – 28.11.1998 del Consiglio Nazionale Forense (r.g. n. 54/98).

Udita nella pubblica udienza del 3 giugno 1999 la relazione del consigliere dott. Francesco Sabatini.

È comparso per il ricorrente, per delega, l’avv. Guaglianone, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Sentito il P.M., in persona dell’avvocato generale Franco Morozzo della Rocca, che ha chiesto il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
L’avv. Raffaele Lanzara, iscritto nell’albo del Consiglio degli avvocati di Nocera Inferiore, fu incolpato: a) di aver violato i doveri di lealtà, diligenza e probità per avere – quale procuratore del sig. Costantino Pagano, creditore della somma di lire 120.000.000 nei confronti della società Simer – omesso di informare il suo patrocinato degli esiti del ricorso per la dichiarazione di fallimento della debitrice, nonché concluso con costei un accordo transattivo in conseguenza del quale aveva presentato atto di desistenza ed aveva incassato l’importo di lire 65.000.000 senza mai corrisponderlo al Pagano; b) di aver violato i doveri professionali di correttezza nei confronti del proprio Consiglio per non essere comparso, nonostante reiterati inviti e senza giustificati motivi, innanzi al consigliere relatore per esporre le sue ragioni.

In data 20 maggio 1997 il predetto Consiglio, ritenuti provati gli addebiti irrogò all’avv. Lanzara la sanzione disciplinare della cancellazione dall’albo professionale.

Tale decisione, impugnata dall’interessato, è stata confermata dal Consiglio Nazionale Forense con la pronuncia, ora gravata.

Per quanto ancora rileva il Consiglio ha osservato, in rito, che rituale e tempestiva era stata la notificazione della citazione dell’incolpato a comparire dinanzi al Consiglio dell’ordine: essa venne infatti effettuata nel luogo in cui egli aveva la residenza anagrafica ed a mani della collaboratrice familiare. Che lo stesso avesse avuto effettiva conoscenza dell’atto era inoltre confermato dall’istanza di rinvio presentata dal difensore, nonché dal tempestivo ricorso al Consiglio Nazionale Forense dopo la notifica, avvenuta negli stessi termini della citazione, della decisione del Consiglio dell’ordine.

Rettamente detto Consiglio aveva respinto l’istanza di rinvio – presentata dal difensore in considerazione dell’astensione proclamata dall’Unione camere penali e dall’Organismo unitario dell’Avvocatura -, dal momento che detta astensione riguardava la partecipazione alle udienze e non poteva pertanto estendersi all’attività, di natura amministrativa, svolta dal Consiglio dell’ordine.

Nel merito il Consiglio Nazionale ha ritenuto che l’avv. Lanzara sottoscrisse la transazione senza averne il potere, senza interpellare il proprio cliente – come avrebbe dovuto fare poiché essa comportava la rinuncia alla metà del credito -, senza comunicargli l’avvenuta presentazione dell’atto di desistenza e senza versargli l’importo incassato dalla debitrice.

Parimenti provato era l’addebito, di cui al capo b), stante il fatto che l’interessato non era comparso dinanzi al Consiglio dell’ordine, come, del resto, non era poi comparso dinanzi al Consiglio Nazionale.

Per la cassazione di tale decisione l’incolpato ha proposto ricorso, affidato a quattro motivi. Con il quinto, egli chiede inoltre la sospensione dell’esecuzione della decisione impugnata.

Motivi della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso il ricorrente deduce la violazione dell’art. 139 c.p.c. ed afferma che la notificazione del decreto di citazione a mani della signorina Dossantos è nulla non essendo costei abilitata al ritiro degli atti per conto di esso ricorrente, giacché ella, dipendente della signora Maria Fimiani, solo saltuariamente frequentava la casa dell’avv. Lanzara. Anche a voler considerare la Dossantos come una vicina di casa, la notificazione era parimenti nulla non essendo stata inviata la prescritta lettera raccomandata.

Illegittima è la presunzione di legale conoscenza dell’atto, il formulata dal Consiglio Nazionale, dal momento che anche la violazione dei termini comporta la nullità del decreto di citazione.

Il motivo è infondato

Il decreto di citazione in questione – che può essere direttamente esaminato dalla Corte essendo allegato un error in procedendo – risulta notificato all’odierno ricorrente “a mani di Dossantos Marley, collaboratrice domestica ivi addetta alla ricezione degli atti e alla casa, in sua assenza”.

Il motivo in esame pone in discussione non già che la notificazione sia stata validamente eseguita in uno dei luoghi, indicati nel primo comma dell’art. 139 c.p.c., sibbene la capacità della Dossantos a riceverla, non essendo ella, a dire del ricorrente, e diversamente da quanto invece disposto dal successivo secondo comma, né persona di famiglia né addetta alla casa o all’ufficio.

Premesso che, attribuendo la relata alla Dossantos la sola qualità di addetta alla ricezione degli atti e alla casa, la validità della notificazione deve essere riscontrata con esclusivo riferimento a tale qualità, deve rilevarsi che questa non presuppone, diversamente da quanto preteso dal ricorrente, la sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato, tanto meno di natura esclusiva.

Come infatti questa C.S. ha affermato (da ultimo con sent. 5 ottobre 1998 n. 9875) la validità della notificazione non può essere contestata sulla base del solo difetto di tale rapporto, essendo invece sufficiente che esista una relazione tra consegnatario e destinatario idonea a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto, come si desume dalla generica qualifica di addetto, richiesta dal legislatore (analogamente l’espressione persona di famiglia, impiegata dalla stessa norma, va intesa in senso relativamente ampio, sì da ricomprendervi anche i familiari la cui presenza in casa non abbia carattere del tutto occasionale: Cass. 19.1.1995 n. 615).

Nella specie dalla stesse argomentazioni, svolte dal ricorrente – il quale afferma che la Dossantos era alle esclusive dipendenze della Fimiani, moglie di esso ricorrente, come egli ebbe a precisare nel ricorso al Consiglio Nazionale Forense -, risulta che la predetta era addetta alla casa dello stesso: in tal senso ha dunque rettamente deciso il Consiglio Nazionale, donde la validità della notificazione e l’irrilevanza dell’omesso invio della raccomandata, prescritta dal quarto comma dello stesso art. 139 per la diversa ipotesi di cui al precedente terzo comma.

La riscontrata validità della avvenuta notificazione importa l’assorbimento della censura che investe l’ulteriore ratio decidendi – consistita nell’effettiva conoscenza della notificazione stessa da parte del destinatario, desunta dalla successiva istanza di rinvio della discussione -, censura con la quale il ricorrente afferma che l’osservanza del termine di comparizione avrebbe dovuto essere accertata con riferimento alla data dell’istanza stessa: censura – osserva la Corte – inoltre inammissibile perché nuova.

2. Con il secondo motivo il ricorrente allega “violazione di legge in relazione alla lesione del diritto di difesa per la mancata concessione del rinvio chiesto al difensore” al Consiglio dell’ordine di Nocera Inferiore a seguito della astensione dalle udienze, deliberata dall’Avvocatura: pur non ponendo in discussione la natura amministrativa del procedimento disciplinare, nella fase che si svolge dinanzi a detto Consiglio, il ricorrente censura la limitazione all’attività giurisdizionale di detta astensione, affermata dalla decisione ora gravata.

La censura è inammissibile sia perché investe un accertamento di fatto – i limiti dell’astensione in questione -, motivatamente effettuato da un organo, il Consiglio Nazionale forense, particolarmente qualificato e rappresentativo della categoria professionale interessata, sia perché l’inviolabilità del diritto di difesa, sancito dal secondo comma dell’art. 24 cost. – ammesso che ad esso il ricorrente abbia inteso riferirsi -, opera limitatamente ai procedimenti giurisdizionali, come si desume dall’interpretazione complessiva della norma costituzionale.

3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione di legge per l’omessa contestazione degli articoli della legge professionale e per il mancato esame del relativo motivo di appello.

Osserva la Corte che quest’ultimo venne così testualmente formulato: “nullità dell’atto che dispone il giudizio disciplinare per omessa contestazione degli articoli della legge professionale”.

La genericità di tale censura esonerava conseguentemente il Consiglio Nazionale dal prenderla in esame, e, d’altra parte, il ricorrente neppure in questa sede indica le norme di legge che a suo dire imporrebbero, a pena di nullità, la contestazione non solo del fatto materiale oggetto di incolpazione ma altresì delle relative norme di legge.

L’indicazione di queste ultime non è invero richiesta dall’art. 48 del r.d. 22 gennaio 1934 n. 37 – il quale stabilisce i requisiti della citazione da notificare all’incolpato (ed al pubblico ministero) -, ed al riguardo deve ribadirsi che nel procedimento disciplinare a carico degli esercenti la professione forense la contestazione degli addebiti non esige una minuta, completa e particolareggiata esposizione dei fatti che integrano l’illecito, essendo invece sufficiente che l’incolpato con la lettura dell’imputazione sia posto in grado – come nella specie è avvenuto – di approntare la propria difesa in modo efficace, senza rischi di essere condannato per fatti diversi da quelli ascrittigli (Cass. sez. un. 10.2.1998 n. 1342 e 18.10.1994 n. 8482).

Diversamente, l’art. 417 lett. b) del codice di procedura penale menziona, tra i requisiti formali della richiesta di rinvio a giudizio, “l’enunciazione del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, con l’indicazione dei relativi articoli di legge”: specificazione, quest’ultima – osserva la Corte – inapplicabile al procedimento disciplinare in questione, non essendo essa richiesta dal citato art. 48.

La ragione giustificatrice di tale diverso modo di disporre risiede in ciò che il menzionato art. 417 è funzionale al principio di legalità, quale enunciato nell’art. 1 cod. pen., il quale non trova invece completa attuazione nel procedimento disciplinare, che viene esercitato nei casi di abusi o mancanze nell’esercizio della professione o comunque di fatti non conformi alla dignità ed al decoro professionale (art. 38 primo comma legge 22 gennaio 1934 n. 36 (NDR: R.D.L. 27.11.1933 n. 1578 art. 38) di conversione, con modificazioni, del r.d.l. 27 novembre 1933 n. 1578).

D’altra parte nei procedimenti disciplinari contro avvocati si devono seguire, quanto alla procedura, le norme particolari che, per ogni singolo istituto, sono dettate dalla legge professionale, in mancanza delle quali si deve far ricorso alle norme del codice di procedura civile, mentre del codice di procedura penale sono applicabili solo quelle cui la legge professionale fa espresso rinvio, ovvero quelle relative ad istituti che trovano la loro regolamentazione soltanto nel codice anzidetto (da ultimo, in tal senso, Cass. sez. un. 24.2.1998 n. 1988).

4. Il quarto motivo del ricorso investe il merito della controversia e con esso il ricorrente sostiene che egli era in realtà dotato, diversamente da quanto affermato dalla decisione gravata, del potere di transigere la vertenza affidatagli dal proprio cliente, e conseguentemente adduce violazione di legge e travisamento del fatto.

Il motivo è inammissibile: detta decisione, pur dopo avere escluso che l’odierno ricorrente avesse il potere di transigere, gli ha poi addebitato di non avere informato il cliente della intervenuta transazione, di avere incassato l’assegno di lire 5.000.000 versatogli dal debitore a pagamento del compenso professionale, e di avere anche trattenuto la somma di lire 60.000.000, destinata al creditore, fatti, questi, che il Consiglio Nazionale ha qualificato come fonte di gravissima responsabilità.

E poiché tali apprezzamenti, di per sé idonei a sorreggere la decisione, non formano oggetto di censure di sorta, la doglianza, la quale è limitata ad un solo aspetto della questione, è, come detto, inammissibile.

5. Il ricorso deve, pertanto, essere respinto: decisione, questa, che importa l’assorbimento del quinto motivo, attinente alla richiesta cautelare di sospensione della esecuzione della decisione impugnata.

Non deve provvedersi sulle spese del giudizio di cassazione, stante la soccombenza del ricorrente e la mancata costituzione degli intimati.

P.Q.M.
La Corte

rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio delle Sezioni Unite, il 3 giugno 1999.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 19 NOV. 1999


Cass. civ. Sez. lavoro, 05-10-1998, n. 9875

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Alberto EULA Presidente

Dott. Vincenzo MILEO Rel. Consigliere

Dott. Giovanni MAZZARELLA Consigliere

Dott. Attilio CELENTANO Consigliere

Dott. Guido VIDIRI Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

DITTA ALPI DI VITTORIO RANDACCIO, in persona del titolare, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LUCREZIO CARO 12, presso lo studio dell’avvocato LORENZO NARDONE, che la rappresenta e difende, giusta delega in atti;

Ricorrente

Contro

PREFETTURA DI TERNI, in persona del Prefetto pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende, ope legis;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 159/95 del Pretore di ORVIETO, depositata il 03/10/95 R.G.N. 194/95;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/02/95 dal Consigliere Dott. Vincenzo MILEO;

udito l’Avvocato BARBIERI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio BUONAIUTO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
A seguito di opposizione proposta dalla Ditta Alpi di Randaccio Vittorio avverso l’ordinanza – ingiunzione emessa dal Prefetto di Terni a suo carico in data 15.11.94 e notificata il 16.2.1995, il Pretore di Orvieto, con sentenza del 3 ottobre 1995, dichiarava inammissibile detta opposizione perché tardiva, in quanto formulata oltre il termine di 30 giorni dalla notificazione, come previsto dalla legge, ritenendo valido tale atto siccome ritualmente effettuato ai sensi dell’art. 139, 2° comma, Cod. Proc. Civile.

Avverso la decisione ha proposto ricorso per cassazione la soccombente, ancorandolo ad un solo motivo.

Resiste la convenuta con controricorso.

Motivi della decisione
Con l’unico mezzo di impugnazione la ricorrente, denunciando falsa applicazione dell’art. 139, 2° comma, Cod. Proc. Civile, in relazione all’art. 360, n. 3, stesso codice di rito, censura la sentenza del Pretore, che considera errata per aver ritenuta valida la notifica dell’ingiunzione eseguita ai sensi dell’art. 139, cpv, C.P.C., e pertanto tardiva ed inammissibile la conseguente opposizione, perché effettuata oltre il trentesimo giorno fissato a pena di decadenza dall’art. 22 legge n. 689/1989 (NDR: così nel testo), a decorrere dalla data della stessa notificazione; laddove il soggetto qualificatosi dipendente della Ditta in realtà non aveva alcun rapporto con questa, pur trovandosi all’interno dei locali dell’Azienda, e non era neppure addetto alla ricezione della corrispondenza, in quanto dipendente, come provato, unicamente di altra Ditta con sede negli stessi locali.

Il motivo è infondato.

In tema di notificazione con consegna dell’atto a mani di persona qualificatasi dipendente del destinatario, o comunque addetta all’Azienda od allo studio del predetto, alla stregua delle dichiarazioni rese dalla medesima all’ufficiale notificatore e da quest’ultimo riportate nella realtà, l’intrinseca veridicità di tali dichiarazioni – e la conseguente validità della notificazione – non può essere contestata sulla base del difetto di un rapporto di dipendenza tra i predetti soggetti, essendo sufficiente che esista un rapporto tra consegnatario e destinatario, idoneo a far presumere che il primo porti a conoscenza del secondo l’atto ricevuto. E, del pari, va rilevato che, quando dalla medesima relata risulti che la notifica dell’atto sia stata eseguita al destinatario – imprenditore o professionista – presso la sua sede, mediante consegna ad un soggetto in essa rinvenuto, deve presumersi che il medesimo sia incaricato alla ricezione degli atti diretti allo stesso destinatario.

Conseguentemente tali presunzioni non possono essere superate dalla circostanza, provata a posteriori, che la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava, sia pure nella predetta sede, alle esclusive dipendenze altrui; ma, per vincerle ai fini della pretesa nullità dell’atto, occorre provare che il consegnatario, oltre a non essere un dipendente del destinatario, non era neanche addetto nei medesimi locali ad alcun incarico per conto o nell’interesse del predetto, come sintomaticamente si evince dall’art. 139, 2° comma, che fa genericamente riferimento alla qualifica di “addetto” e non di “dipendente”- Sicché correttamente è stato osservato dal giudice di merito che non rileva in senso contrario il fatto che successivamente, da altro professionista od imprenditore titolare di uno studio o sede comune a quello del destinatario dell’atto, sia stata rilasciata una dichiarazione attestante che all’epoca della notificazione la persona che aveva sottoscritto l’avviso di ricevimento lavorava alle sue esclusive dipendenze – Tanto più, poi, ove si consideri che nella specie tale presunzione risulta ampiamente avvalorata dalla circostanza, emergente per tabulas, che l’atto – notifica ha raggiunto il suo scopo, ai sensi e per gli effetti del disposto dell’ultimo comma dell’art. 156 C.P.C., stante l’avvenuta consegna di colui che lo ha ricevuto all’effettivo destinatario, come si evince inequivocabilmente dalla opposizione di costui all’ingiunzione. Né, in ultimo, ai fini della ammissibilità della opposizione non tempestivamente formulata, il destinatario può sostenere in questa sede che l’atto – notifica gli fu recapitato tardivamente, in quanto, a parte la contraddittorietà con la precedente linea difensiva, egli, per giovarsi di siffatta tesi, avrebbe dovuto provare adeguatamente non solo la assoluta estraneità del soggetto consegnatario nei confronti dell’Azienda, ma anche, e soprattutto, la tardività della consegna dell’atto ad esso destinatario, quale eccezione in senso tecnico ex art. 2697 cpv. Codice Civile; laddove su quest’ultimo punto il difetto probatorio è assoluto e pertanto, anche sotto questo profilo, si deve presumere che l’atto di notifica abbia raggiunto tempestivamente lo scopo cui era diretto.

In definitiva, attesa la corretta applicazione della norma di cui all’art. 139 cpv. Cod. Proc. Civile effettuata dal Pretore, la sentenza impugnata non appare inficiata da nessuno dei vizi prospettati in gravame.

Il ricorso va, conseguentemente, rigettato.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 91 Cod. Proc. Civile, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte;

Rigetta il ricorso.

Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in L. 16.500, oltre all’onorario difensivo, liquidato il L. 2.500.000 (Duemilionicinquecentomila).

Così deciso in Roma il giorno 11 febbraio 1998.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 5 OTTOBRE 1998


Cass. civ. Sez. I, 12-05-1998, n. 4762

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Vincenzo FERRO Presidente

” Mario Rosario MORELLI Consigliere

” Massimo BONOMO Rel. “

” Salvatore DI PALMA “

” Luigi MACIOCE “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ROMOLO SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA F. CRISPI 89, presso l’avvocato LEONE PONTECORVO, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al ricorso;

Ricorrente

contro

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Controricorrente

avverso la sentenza n. 1337/96 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 15/04/96;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/12/97 dal Consigliere Dott. Massimo BONOMO;

udito per il ricorrente, l’Avvocato Pontecorvo, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Stefano SCHIRÒ che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, assorbimento degli altri due motivi del ricorso.

Svolgimento del processo
L’Ufficio Distrettuale delle II.DD di Roma, con avvisi di accertamento nn. 1414 e 1415, rideterminava, in rettifica, le dichiarazioni dei redditi della Romolo s.r.l. relative agli anni 1982 e 1983, a fini IRPEG e ILOR elevando il reddito imponibile ivi denunciato.

Gli atti di accertamento in questione venivano notificati, dopo un infruttuoso tentativo effettuato nella sede sociale, presso la residenza dell’amministratore della società, tale Bruno Brunori, a norma dell’art. 60 d.p.r. 600/73, in relazione all’art. 140 c.p.c..

Successivamente, non essendo stata proposta impugnazione avverso gli atti di accertamento in questione, i tributi, nella maggiore entità stabilita, venivano iscritti a ruolo, unitamente agli accessori di legge (sanzioni, interessi).

Con atto notificato in data 14 settembre 1989, la società Romolo proponeva ricorso avverso il ruolo dinanzi alla Commissione tributaria di I° grado, sostenendo di non aver mai avuto notizia degli atti di accertamento in questione. La detta Commissione, con pronuncia del 27 giugno – 19 settembre 1990, in accoglimento del ricorso, riteneva l’illegittimità dell’effettuata notificazione, rilevandone la nullità perché non erano state effettuate indagini svolte al fine di rinvenire la sede della società ovvero non se ne era dato compiutamente nella relazione di notifica: in particolare, avendo la società Romolo documentato di essere proprietaria dell’intero stabile di via E. Torelli Violler n. 109, che tutti gli abitanti dei singoli appartamenti erano suoi inquilini, che la portiera dello stabile era sua dipendente, ne derivava che il messo notificatore non aveva espletato con diligenza il suo compito, dato che, interpellando le persone abitanti nello stabile e, in particolare, la portiera, avrebbe potuto individuare la sede sociale o, per lo meno, avrebbe potuto ottenere utili notizie per la prosecuzione del procedimento notificatorio. Sarebbe, poi, stata inverosimile l’impossibilità di notificazione nella residenza del rappresentante legale per mancanza di qualsiasi consegnatario, compresi i vicini di casa. Il procedimento notificatorio, alla stregua di tale decisione, era stato pertanto, dirottato dalla sede della società alla residenza del suo rappresentante senza la precostituzione della prova della legittimità del dirottamento, mentre non sarebbe risultata provata, con le relazioni apposte sugli avvisi, la situazione presupposto che attribuisce la legittimazione a ricevere al consegnatario simbolico casa comunale. Le notifiche, in ogni caso, sarebbero ugualmente nulle, essendo risultato che al rappresentante legale della società era stata inviata una sola comunicazione raccomandata, relativa ad ambedue gli a avvisi di accertamento, senza che fosse specificato, in violazione dell’art. 48 disp. att. c.p.c., a quale dei due atti si riferisse il deposito. La rilevata nullità della notifica aveva, pertanto, comportato l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo delle imposte relative.

Avverso tale decisione, il Ministero proponeva appello dinanzi alla commissione tributaria di secondo grado.

Anche tale ricorso veniva, peraltro, respinto con decisione del 28.9/12.10.1992, avverso la quale il Ministero proponeva impugnazione dinanzi alla corte di appello, a norma dell’art. 40 d.p.r. 636/72.

Costituitasi in giudizio, la società Romolo chiedeva che l’impugnazione fosse dichiarata inammissibile, per essere stata proposta ancora in pendenza del termine per ricorrere alla commissione centrale, secondo la proroga dipendente dalla sospensione ex lege (art. 3, comma 2 d.l. 23.1.1993 n. 16) dei procedimenti tributari in corso, disposta al fine di usufruire dell’ampliamento dei termini per usufruire del c.d. “condono fiscale”. In ogni caso, chiedeva il rigetto del gravame, richiamando le ragioni poste a fondamento delle decisioni già emesse.

Con sentenza del 1° dicembre 1995 – 15 aprile 1996, la Corte di appello di Roma, in accoglimento del gravame proposto dal Ministero, dichiarava inammissibile il ricorso proposto contro l’iscrizione a ruolo.

Osservava la Corte:

a) che doveva respingersi l’eccezione concernente la sospensione dei processi tributari, la quale non si applica alle controversie che presentano carattere di definitività, per le quali era esclusa la possibilità di usufruire del condono, ai sensi dell’art. 32 della legge 30 dicembre 1991 n. 32;

b) che nella specie non v’era dubbio sulla definitività dei termini della lite, la cui conclusione non avrebbe potuto portare che a una conferma dei dati dichiarati dal contribuente, ovvero al pieno accoglimento delle indicazioni fornite dall’ufficio, non essendo, da un lato, rinnovabile l’accertamento per scadenza dei relativi termini e non essendo possibile, dall’altro, per lo stesso motivo, rimettere in discussione ragioni di merito relative all’entità dell’accertamento che, se legittimo, non potrebbe più essere modificato;

c) che il procedimento di notifica degli avvisi di accertamento – tentativo di notifica presso la sede della società e, quindi, notifica ex art. 140 c.p.c. presso la residenza anagrafica del rappresentante legale della stessa – era stato corretto, in quanto pienamente aderente alle prescrizioni dettate dall’art. 145 c.p.c. in tema di notifiche a società;

d) che le operazioni di notifica, essendo assistite da fede privilegiata, potevano essere contestate solo mediante proposizione di querela di falso;

e) che le circostanze della proprietà dell’intero immobile e l’inverosimiglianza del mancato rinvenimento del Brunori o di altri soggetti, tra i quali il portiere, non costituivano elementi idonei a dimostrare una condotta negligente da parte del messo;

f) che non determinava nullità della notifica l’avvenuto invio di una sola raccomandata relativa ad ambedue gli atti di accertamento, quale ultimo adempimento richiesto dall’art. 140 c.p.c..

Avverso la sentenza della Corte d’appello la società Romolo ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati con memoria.

Il Ministero delle Finanze ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
1. Con il primo mezzo d’impugnazione il ricorrente lamenta violazione dell’art. 40 del D.P.R. 26.10.1972 n. 636, in relazione all’art. 3, comma 2, del D.L. 23.1.1993 n. 16 (convertito in legge 24.3.1993 n. 75) ed agli artt. 32 e seguenti della legge 30.12.1991 n. 413.

La Corte di appello aveva ritenuto non applicabile nella specie la sospensione dei termini di impugnazione fino al 20 giugno 1993, prevista dal citato art. 3 del d.l. n. 16 del 1993, modificato dalla legge di conversione, che aveva invece comportato l’improponibilità dell’impugnazione alla Corte di appello, poiché essa era stata introdotta, in violazione della prescrizione contenuta nell’art. 40 citato, quando non era ancora decorso il termine per la proposizione dell’impugnazione alla Commissione tributaria centrale. La Corte di merito, dopo aver esattamente rilevato che la sospensione riguardava soltanto i casi in cui era applicabile il condono, aveva erroneamente ritenuto che l’apparente definitività del rapporto tributario, derivante dalla mancata impugnazione degli accertamenti, determinasse comunque – in presenza di un ricorso contro il ruolo, con cui si era contestata la legittimità della notificazione degli accertamenti – una situazione di definitività, tale da precludere l’accesso al condono.

La stessa amministrazione aveva invece riconosciuto in alcune circolari, una delle quali specificamente riferita al condono del 1991 che la dichiarazione integrativa semplice, o con effetto automatico, era valida anche nel caso in cui si ricorreva contro il ruolo o l’avviso di mora eccependo la mancata notifica dell’avviso di accertamento, pur se tale validità dipendeva dall’esito del contenzioso.

Secondo il contribuente, la situazione di definitività del rapporto tributario, preclusiva del condono, si sarebbe creata solo in caso di rigetto del ricorso contro il ruolo, e non anche in caso di accoglimento, poiché un accertamento riconosciuto come mai notificato avrebbe consentito una domanda di condono “in assenza di accertamento”, integrativa semplice o “tombale”.

2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 148, c.p.c., in relazione agli artt. 145 e 140 c.p.c., all’art. 60, comma 1, del D P.R. 29.9.1973 n. 600 e all’art. 2700 cod. civ., nonché insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

Assolutamente carenti erano sia la relazione di notifica nei confronti della società – in cui non era stato precisato quali fossero state le ricerche in base alle quali i nominativi erano risultati sconosciuti e presso chi esse fossero state effettuate – sia la relazione di notifica nei confronti del legale rappresentante, nella quale, dopo la constatazione dell’assenza del dott. Brunori dalla sua residenza anagrafica, non si era data la benché minima nozione delle operazione compiute per accertare la pretesa irreperibilità del destinatario. In entrambe le notifiche si era fatto uso di timbretti.

La Corte di appello aveva affermato che la relata avrebbe succintamente descritto le operazioni eseguite in sede di notifica, mentre in realtà vi era un’assoluta assenza di indicazioni descrittive sul punto, ed aveva inoltre erroneamente richiamato la necessità di contestare le operazioni con querela di falso, non tenendo conto del fatto che la società Romolo aveva contestato non che il messo notificatore avesse effettivamente compiuto indagini, bensì che delle compiute indagini avesse dato specificamente atto nella relazione di notificazione, consentendo così la verifica della regolarità del procedimento, il che non aveva nulla a che vedere con la querela di falso.

La necessità di ricorrere a querela di falso non sussiste né nei confronti di circostanze non percepite direttamente dal notificatore, ma venute a conoscenza del medesimo attraverso dichiarazioni di terzi, né quando manchino gli elementi essenziali della relazione di notificazione, a norma dell’art. 148 c.p.c., verificandosi in tal caso la nullità della notificazione.

La lamentata mancata specificazione delle “ricerche” appariva tanto più grave, risultando difficilmente credibile che la società Romolo fosse sconosciuta presso uno stabile di cui era proprietaria da moltissimi anni, nel quale tutti gli abitanti erano suoi locatari e la portiera era alle sue dirette dipendenze.

Presso quelle sede erano stati invece regolarmente notificati sia la cartella esattoriale di pagamento che l’atto di citazione dinanzi alla Corte di appello.

3. Il terzo motivo esprime una doglianza di violazione dell’art. 140 c.p.c., nonché di insufficiente motivazione in ordine ad un punto decisivo della controversia.

La Corte di appello aveva erroneamente statuito che la spedizione di un unico avviso per raccomandata ex art. 140 c.p.c., pur in presenza di due avvisi di accertamento, non viziasse il procedimento di notificazione.

Tutti gli adempimenti previsti dall’art. 140 c.p.c., compresa, quindi, la spedizione dell’avviso per raccomandata, sono essenziali e la Corte di Cassazione aveva ritenuto nulla la notificazione di più atti di accertamento conclusasi con la spedizione di un unico avviso raccomandato per quattro atti di accertamento (Cass. n. 10057 del 1994, in motivazione).

La stessa sentenza della Corte di Cassazione richiamata nella sentenza impugnata (Cass. n. 2136 del 1992) aveva subordinato la possibile deroga al principio della nullità della notifica in caso di unico avviso, alla circostanza della specificazione, nell’unico avviso raccomandato, degli atti cui era relativo, con le indicazioni ex art. 48 disp. att. c.p.c. in ordine alla natura e provenienza di ciascuno di essi. Tale temperamento sarebbe inapplicabile nella specie, secondo la ricorrente, non avendo l’Amministrazione finanziaria provato che l’unico avviso spedito contenesse le suddette specificazioni e indicazioni.

4. Il ricorso è fondato per quanto appresso precisato. Ritiene il Collegio che, mentre deve ritenersi validamente effettuato il tentativo di notifica degli avvisi di accertamento presso la sede della società, risulta invece nulla la notifica effettuata presso l’amministratore.

Secondo la sentenza impugnata, il messo notificatore ha dato atto, innanzi tutto, di essersi recato in via Eugenio Torelli Violler, 109, sede legale della società Romolo, anche in base alle risultanze anagrafiche, e di aver accertato, da “ricerche” effettuate in loco, che i “nominativi” (quindi sia quello della società che quello del suo amministratore) erano sconosciuti.

Avendo il messo attestato di aver compiuto ricerche in luogo senza esito, deve comunque ritenersi che sia stata effettuata un’attività di ricerca che non ha portato a risultati utili ai fini della notifica.

Al riguardo, osserva il Collegio che l’uso di un timbro, anziché della scrittura, è del tutto irrilevante, dovendo tenersi conto invece delle operazioni indicate dal pubblico ufficiale, indipendentemente dallo strumento usato per l’indicazione.

Le dedotte circostanze della proprietà dell’intero immobile da parte della società, della pretesa inverosimiglianza del mancato rinvenimento del portiere o di altri soggetti idonei a ricevere l’atto nonché dell’avvenuta notifica nel medesimo luogo di altri atti non assumono rilievo ai fini in questione, come esattamente rilevato dalla Corte di appello, dovendo aversi riguardo alla situazione esistente al momento dei tentativi di notifica di cui trattasi, quale risulta dalla relata di notifica, che ha fede privilegiata relativamente alle attività compiute dal messo e a quanto dal medesimo direttamente percepito.

In ordine al tentativo di notifica al legale rappresentante della società Romolo, dott. Bruno Brunori, in Piazza delle Coppelle 7, sua residenza anagrafica, la sentenza impugnata ha rilevato che il notificatore aveva dato atto, seppure mediante apposizione di un timbro, delle varie operazioni compiute, e cioé dell’assenza del Brunori, della mancanza di altre persone, compreso il portiere ed i vicini di casa, idonee a ricevere la copia, ed aveva quindi proceduto alla notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c..

Per quanto riguarda l’uso di un timbro valgono le considerazioni sopra svolte.

L’assenza del Brunori e la mancanza delle altre persone sopra indicate integravano le condizioni di legge per effettuare la notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c., di cui si tratta ora di verificare la validità.

Il Collegio condivide l’orientamento già manifestato da questa Corte (Cass. 25 febbraio 1992 n. 2316, nonché 14 gennaio 1992 n. 329), in base al quale, con riguardo alla notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., qualora gli atti da notificare siano più di uno, è richiesta – conseguendone, in difetto, nullità della notificazione medesima, relativamente a tutti gli atti – la spedizione, da parte dell’ufficiale giudiziario, di altrettanti avvisi raccomandati, indicativi dell’avvenuto compimento delle formalità prescritte dalla norma e diretti a porre nella sfera di conoscibilità dell’unico destinatario ciascuno degli atti suddetti, o quanto meno la specificazione nell’unico avviso raccomandato degli atti cui era relativo con le indicazioni ex art. 48 disp. att. c.p.c. in ordine alla natura e provenienza di ciascuno di essi.

Nella specie, la sentenza impugnata ha rilevato che non era dato individuare nella copia dell’avviso prodotta se vi fossero specificati uno o più atti.

Non ricorre quindi nemmeno l’ipotesi minima sopra prospettata, quella cioé dell’unico avviso raccomandato con la menzione degli estremi di tutti gli atti cui esso si riferisce, che corrispondevano ai due avvisi di accertamento in questione.

In tale situazione, deve ritenersi che la notifica sia nulla, indipendentemente dall’irrilevanza, ai fini della validità della notifica ex art. 140 c.p.c., della consegna della raccomandata al destinatario, punto sul quale si sofferma la motivazione della sentenza impugnata, atteso che il vizio riscontrato riguarda non la consegna, ma la spedizione della raccomandata, che costituisce un momento essenziale, da cui dipende il perfezionamento della notificazione ex art. 140 c.p.c..

Avendo la Corte di appello ritenuto invece che l’invio di una sola raccomandata non determinasse la nullità delle notifiche dei due avvisi di accertamento, la sentenza impugnata deve essere cassata.

Poiché non sono necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito con la dichiarazione di nullità delle notifiche degli avvisi di accertamento e, conseguenzialmente, dell’illegittimità dell’iscrizione a ruolo di IRPEG, ILOR e addizionale ILOR per gli anni 1982 e 1983, di cui alla cartella n. 715740/00/Q dei ruoli di settembre 1989, indicata nel dispositivo della sentenza impugnata.

Ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti sia le spese del giudizio dinanzi alla Corte di appello sia quelle del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, dichiara l’illegittimità dell’iscrizione a ruolo di cui in motivazione. Compensa le spese del presente e del precedente grado del giudizio.

Così deciso in Roma il 15 dicembre 1997.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 12 MAGGIO 1998


Cass. civ. Sez. I, (ud. 27-10-1997) 13-03-1998, n. 2740

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. REALE Pasquale – Presidente –

Dott. PROTO Vincenzo – Consigliere –

Dott. CICALA Mario – Consigliere –

Dott. MILANI Laura – Consigliere –

Dott. SOTGIU Simonetta – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

AMMINISTRAZIONE DELLE POSTE E DELLE TELECOMUNICAZIONI, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

GI.AN. Snc in liquidazione, in persona del Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA A. GRAMSCI 14, presso l’avvocato GIAMPIERO DINACCI, che la rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

MILANO ASSICURAZIONI S.p.A.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2230/95 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 26/06/95;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/10/97 dal Consigliere Dott. Simonetta SOTGIU;

udito per il resistente, l’Avvocato Dinacci, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARTONE Antonio che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto 10/11 maggio 1989 la GI.AN s.n.c. convenne avanti al Tribunale di Roma il Ministero delle PP.TT. e il Lloyd Internazionale (poi Milano Assicurazioni) denunciando la riduzione da parte del Ministero del corrispettivo pattuito per la pulizia giornaliera di 38 carrozze postali, in relazione al mancato servizio su alcune carrozze, e la risoluzione del contratto operata unilateralmente dal Ministero stesso per inadempimento di scarsa entità, nonché l’incameramento ad opera dello stesso Ministero, del deposito cauzionale prestato mediante polizza fideiussoria emessa dalla Compagnia Lloyd, la quale avanzava pretesa di rivalsa nei confronti dell’attrice; quest’ultima chiedeva pertanto che, accertato il sostanziale adempimento da parte sua del contratto in questione, il Ministero fosse condannato al pagamento di tutte le somme dovutele, e che si accertasse che nulla la Gi.an doveva alla Lloyd.

Con sentenza 18 ottobre/9 novembre 1991, il Tribunale adito accolse in parte la domanda della Gi.an, condannando il Ministero pagamento della parte del compenso (Lire 60.387.784 oltre accessori) trattenuto per mancata pulizia di alcune carrozze, avendo ritenuto tale fatto imputabile allo stesso committente.

Avverso la sentenza, notificata il 18 maggio 1992 ad istanza del difensore della Gi.an., propose appello il Ministero, notificandolo nel termine di trenta giorni alla Compagnia Milano Assicurazioni, che si era costituita in prime cure, chiedendo che fosse accertato che essa nulla doveva al Ministero e che fosse stabilito che la Gi.an. avrebbe dovuto comunque tenerla indenne; l’appello stesso non venne invece nello stesso termine notificato alla Gi.an, essendosi il procuratore costituito trasferito in diverso domicilio, per cui la notificazione veniva rinnovata il 1 dicembre 1992.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza 28 aprile/26 giugno 1995 ha rigettato il gravame del Ministero nei confronti della Gi.an. Non avendo infatti l’appellante Ministero proposto domande riferibili alla Milano Assicurazioni, il cui rapporto fideiussorio nei confronti della Gi.an integrava la fattispecie della garanzia impropria, la posizione delle appellate non poteva ritenere né inscindibile, né dipendente, essendo stata meramente processuale, nella economia del giudizio, la presenza della Compagnia Assicuratrice, collegata soltanto alla posizione della Gi.an.; mentre, non essendo in alcun modo il difensore tenuto a comunicare la propria variazione di domicilio, era onere dell’appellante accertare la variazione dell’indirizzo del domiciliatario.

Per la cassazione di tale sentenza, ha proposto ricorso il Ministero delle Poste e Telecomunicazioni sulla base di due motivi.

La Gi.an in liquidazione resiste con controricorso. Le parti hanno prodotto memorie.

Motivi della decisione
Col primo motivo di ricorso, adducendo la violazione dell’art. 331 c.p.c., il ricorrente contesta la scindibilità, ritenuta dalla Corte d’Appello, della causa dell’assicuratore rispetto a quella del garantito, sostenendo che dalla decisione sulla ritualità dell’adempimento da parte della Gi.an discendeva la legittimità o meno dell’incameramento del deposito cauzionale prestato dalla società.

Essendo ancora in contestazione il debito del convenuto verso l’attrice, persisteva in appello la interdipendenza delle causa.

Col secondo motivo di ricorso, deducendo la violazione degli artt. 88, 170, 324, 325, 326, 327, 330 c.p.c. e 43, 44 e 47 c.c., nonché vizio di motivazione della sentenza impugnata, il ricorrente sostiene la ritualità della notifica operata al domicilio eletto presso il difensore della Gi.an, prevalendo l’indicazione del luogo, rispetto a quella della persona, e non potendosi riscontrare alcuna negligenza nell’attività di notifica posta in essere dal ricorrente, per non avere il difensore della Gi.an indicato in alcun atto processuale il proprio cambio di domicilio; mentre l’elezione di domicilio conserva la sua validità in ogni stato e grado del processo, essendo l’onere della parte comunicarne il mutamento.

Il primo motivo di ricorso non è fondato.

La Compagnia Assicuratrice è stata infatti evocata in giudizio dalla GI.AN sulla base della polizza fideiussoria stipulata dalla stessa GI.AN, costituente titolo distinto e indipendente, rispetto al contratto d’appalto oggetto delle domande formulate nei confronti dell’Amministrazione; la quale peraltro, come ha rilevato la Corte territoriale, non ha mai avanzato pretese nei riguardi della Milano Assicurazioni.

Per la giurisprudenza costante di questa Corte (Cass. 2302/85; 7795/86; 534/89; 10398/91; 4443/97) la chiamata in causa di un terzo in base ad un titolo diverso da quello posto a fondamento della domanda principale, quale la garanzia assicurativa relativa ad una delle parti in causa, introduce una causa scindibile e indipendente che si sottrae, in sede di impugnazione, al disposto dell’art. 331 c.p.c. in tema di integrazione del contraddittorio. Non sussiste infatti né il litisconsorzio processuale, né tanto meno quello necessario, fra due domande che non siano collegate da un rapporto di antecedenza logica l’una rispetto all’altra di modo che ne sia necessaria la trattazione unitaria in tutte le fasi processuali, al fine di evitare giudizi contraddittori. Né, per quanto può evincersi dalle conclusioni formulate in sede d’appello dalla Compagnia assicuratrice, riprodotte nella sentenza impugnata, ricorre nella specie l’ipotesi secondo la quale il chiamato che non si limiti a resistere alla domanda del chiamante, ma contesti anche l’esistenza e la validità dell’obbligazione di quest’ultimo verso l’attore, si pone come parte accessoria della causa principale, con conseguente necessità di integrazione del contraddittorio (Cass. 2867/90). La Milano Assicurazioni si è infatti limitata con la propria difesa a resistere alle domande della chiamante GI.AN, chiedendo di essere dichiarata indenne dalle richieste avanzate da quest’ultima contro di lei.

Ma anche a voler ipotizzare, sulla scia di un indirizzo giurisprudenziale minoritario (Cass. 2867/90) la possibilità di un vincolo di dipendenza fra la causa principale e la causa di garanzia, fino a quando sia in discussione il fondamento della domanda principale, integrante il presupposto della domanda di rivalsa, così come sostenuto dal ricorrente, tale vincolo non potrebbe comunque nella specie ravvisarsi, non riguardando il gravame del Ministero il terzo chiamato in manleva, il quale a sua volta ha svolto le sue difese nell’ambito del solo rapporto di garanzia (Cass. 4443/97) senza inserirsi nel contraddittorio relativo al “petitum” della domanda principale.

Il primo motivo di ricorso deve essere dunque rigettato, analogamente al secondo motivo, attinente la possibile sanatoria della notifica tardiva, sanatoria non attuata col provvedimento del G.I. che ha autorizzato il rinnovo della notifica dell’atto di appello non al sensi dell’art. 331 C.P.C., ma nell’ambito dell’attività istruttoria di cui all’art. 350 c.p.c., che non pregiudica la successiva dichiarazione di inammissibilità dell’appello da parte del Collegio.

Per quanto si riferisce, in particolare, alla notifica dell’atto d’appello presso il procuratore domiciliatario, questa Corte ha già avuto modo di affermare con sentenza n. 9473 del 1993, la quale rappresenta lo sviluppo e la sintesi di posizioni giurisprudenziali risalenti (Cass. 149/87 e 5417/89), che la notifica presso il domicilio dichiarato nel giudizio “a quo”, che abbia avuto esito negativo perché il procuratore si sia successivamente trasferito altrove, non ha alcun effetto giuridico, dovendo essere effettuata al domicilio reale del procuratore (quale risulta dall’Albo: Cass. 4746/97, ovvero dagli atti processuali, come nel caso di timbro apposto su comparsa conclusionale di primo grado: Cass. 5417/89), anche se non vi sia stata rituale comunicazione del trasferimento della controparte, atteso che il dato di riferimento personale prevale su quello topografico (Cass. 149/87) e che non sussiste un onere del procuratore di provvedere alla comunicazione del cambio di indirizzo; tale onere è infatti previsto per il domicilio eletto autonomamente, mentre l’elezione operata dalla parte ha solo la funzione di indicare la sede dello studio del procuratore, sicché costituisce onere del notificante l’effettuazione di apposite ricerche atte ad individuare il luogo di notificazione (Cass. 7920/92).

Tali principi risultano puntualmente applicabili alla fattispecie, avendo il procuratore della GI.AN applicato il timbro recante l’indicazione del trasferimento di studio sul frontespizio della comparsa conclusionale di I grado (v. Controricorso Pag. 4), previa comunicazione della variazione di indirizzo al Consiglio dell’ordine degli Avvocati di Roma (v. memoria pag. 3), così adempiendo alle formalità richieste dalla giurisprudenza citata.

Consegue l’integrale rigetto del ricorso.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo, oltre a Lire 3 milioni per onorari.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente nelle spese, che si liquidano in complessive L. 150.000 oltre a L. tre milioni per onorari.

Così deciso in Roma, il 27 ottobre 1997.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 1998


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 09/06/1997) 09/06/1997, n. 5100

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Giuseppe BORRE’ Presidente

” Gian Carlo BIBOLINI Consigliere

” Mario Rosario VIGNALE “

” Mario CICALA “

” Renato RORDORF Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente

contro

MISISCHIA MARIO, elettivamente domiciliato in ROMA VIA G. VICO 29, presso l’avvocato G. COCCO, rappresentato e difeso dall’avvocato GIULIANO TABET, giusta delega in calce al controricorso;

Controricorrente

avverso la decisione n. 3490/94 della Commissione Tributaria Centrale depositata il 25/10/94;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/12/96 dal Relatore Consigliere Dott. Renato RORDORF;

udito per il resistente, l’Avvocato Tabet, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo NARDI che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo, assorbimento del secondo motivo di ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso in data 6 marzo 1991, il sig. Mario Misischia si rivolse alla commissione tributaria di primo grado di Roma chiedendo che fosse annullata l’iscrizione a ruolo dell’importo di L. 176.605.260, preteso dal fisco a titolo di maggiori imposte sui redditi accertati per l’anno 1983 ed accessori. Detta iscrizione a ruolo, secondo il ricorrente, era invalida in quanto non preceduta dalla rituale notificazione di alcun avviso di accertamento riguardante i suaccennati maggiori redditi.

Il ricorso non trovò accoglimento, ma l’impugnazione tempestivamente proposta dal contribuente fu invece accolta dalla commissione tributaria di secondo grado, la cui decisione, su gravame dell’ufficio, venne confermata dalla Commissione Tributaria Centrale, con pronuncia resa pubblica il 25 ottobre 1994.

Ritenne infatti detta commissione che la notificazione al Misischia dell’avviso di accertamento da cui la contestata iscrizione a ruolo avrebbe dovuto essere preceduta non si fosse perfezionata, in quanto l’atto era stato sì depositato presso la sede del comune ove il contribuente aveva domicilio fiscale, ed al medesimo contribuente era stata anche inviata la prescritta lettera raccomandata, ma il messo notificatore aveva invece trascurato di provvedere all’affissione dell’avviso alla porta dell’abitazione, e tale formalità è indispensabile per il completamento della notificazione prevista dall’art. 140 c.p.c. Né siffatta omissione poteva giustificarsi con la pretesa impossibilità di reperire in luogo lo stabile recante il numero civico corrispondente alla residenza del Misischia, giacché per trovare tale stabile sarebbe bastato individuare il numero civico precedente e quello successivo.

Neppure d’altronde, osservò la Commissione tributaria centrale, l’invalidità della suindicata notificazione avrebbe potuto essere sanata – come pretendeva l’ufficio – dal raggiungimento dello scopo dell’atto: perché, pur essendo vero che era stata spedita la lettera raccomandata destinata ad informare il destinatario del deposito dell’atto nella casa comunale, tale raccomandata non risultava essere stata ritirata ed il nome del medesimo destinatario non era neppure chiaramente leggibile sul relativo avviso di ricevimento.

Per l’annullamento di tale decisione ricorre l’amministrazione delle finanze, articolando due motivi di gravame.

Resiste l’intimato con controricorso, illustrato da successiva memoria.

Motivi della decisione
1. – Con il primo mezzo di ricorso l’amministrazione si duole che il giudice tributario non abbia considerato come la contestata notificazione al contribuente dell’avviso di accertamento avesse raggiunto comunque il proprio scopo e come, di conseguenza, ciò fosse valso a sanare ogni possibile deficienza formale. E ciò non già per effetto dell’avvenuta spedizione della lettera raccomandata su cui la Commissione tributaria centrale si è soffermata, bensì per il fatto stesso che il contribuente aveva impugnato l’atto dinanzi al giudice tributario, mostrando così di averne avuto piena conoscenza. In ogni caso poi, sempre secondo l’avvocatura ricorrente, la nullità della suindicata notificazione non avrebbe potuto essere eccepita da chi, come il Misischia, aveva contribuito con il proprio comportamento a darvi causa.

Il secondo motivo di ricorso è volto invece a contestare l’affermazione dell’impugnata decisione secondo cui, mancando l’affissione alla porta del destinatario, la notificazione ex art. 140 c.p.c. dell’avviso di accertamento di cui si discute sarebbe affetta da nullità.

A parere dell’avvocatura ricorrente, viceversa, stante l’impossibilità di reperire il numero civico dello stabile alla cui porta avrebbe dovuto essere effettuata l’affissione, l’indicato adempimento non avrebbe potuto trovar luogo e la sua omissione non avrebbe potuto, di conseguenza, inficiare la validità della notificazione. La quale, a causa dell’irreperibilità del destinatario, era dunque da eseguire, a norma dell’art. 60, primo comma, lettera e), del d.p.r. n. 600/73, mediante semplice deposito nella casa comunale del domicilio fiscale del contribuente, come in concreto è avvenuto.

2. – Il motivo d’impugnazione da ultimo riferito ha carattere logicamente preliminare rispetto all’altro, e va perciò esaminato per primo.

Esso, pertanto, appare infondato.

Infatti, soltanto nell’ipotesi in cui nel comune di domicilio fiscale non si rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente la notificazione dell’avviso di accertamento è ritualmente effettuata tramite deposito dell’atto nella casa comunale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del comune, senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, né di ulteriori ricerche al di fuori del detto comune; ma tali ricerche rimangono doverose all’interno del comune di domicilio fiscale, ed esse condizionano la validità della notificazione eseguita ai sensi degli art. 140 c.p.c. e 60, lett. e), del d.p.r. n. 600/1973 (cfr., tra le altre, Cass. 26 luglio 1993, n. 8363, nonché più di recente – con riferimento all’analoga disposizione contenuta nell’art. 38 del d.p.r. n. 645/58, come risultante dopo la pronuncia della Corte costituzionale n. 189/74 – Cass. 25 settembre 1996, n. 8448).

Pertanto, avendo la Commissione tributaria centrale, con insindacabile giudizio di fatto, ritenuto che sarebbe stato ben possibile esperire ulteriori fruttuose ricerche per l’individuazione dell’abitazione del contribuente nell’ambito del medesimo comune di domicilio fiscale, la notificazione eseguita a norma della citata disposizione dell’art. 60 del d.p.r. n. 600/1973, senza il perfezionamento delle formalità richieste dall’art. 140 c.p.c., nella specie non può considerarsi valida. Ed è appena il caso di aggiungere che, per la validità della notificazione ai sensi dell’articolo da ultimo menzionato, è indispensabile che vengano completati tutti gli adempimenti da esso prescritti, ivi compresa l’affissione dell’avviso alla porta dell’abitazione del destinatario (vedi in tal senso, tra le altre, Cass. n. 8071/96 e Cass. n. 1938/90).

3. – Anche l’altro motivo di ricorso è destituito di ogni fondamento.

In primo luogo, infatti, va rilevato che mai nei precedenti gradi di giudizio l’amministrazione tributaria aveva dedotto quanto ora prospettato a fondamento della propria doglianza, e cioé che l’invalidità della notificazione dell’avviso di accertamento sarebbe stata sanata per effetto del ricorso proposto dal contribuente. In secondo luogo – ove pure volesse farsi astrazione da tale assorbente rilievo – è da notare che la suindicata doglianza appare del tutto fuor di segno, perché il ricorso del contribuente dal quale si vorrebbe dedurre il raggiungimento dello scopo della notificazione non validamente eseguita è stato proposto non già contro l’avviso di accertamento malamente notificato, bensì contro l’iscrizione a ruolo in quanto non preceduta dalla (valida) notificazione di detto avviso. Di modo che tale iniziativa giudiziaria del contribuente attesta che egli è venuto a conoscenza della pretesa fiscale in conseguenza della notificazione dell’atto d’iscrizione a ruolo, e non certo che aveva avuto anche tempestiva conoscenza dell’avviso di accertamento che di quell’iscrizione costituiva un indispensabile presupposto.

Quanto poi al fatto che sarebbe stato lo stesso contribuente a dare causa all’eccepita nullità della notificazione dell’avviso, l’avvocatura ricorrente neppure chiarisce a quale comportamento essa fa a tal riguardo riferimento. E ciò preclude ogni valutazione in proposito.

4. – Per le suesposte considerazioni il ricorso dev’essere rigettato, con conseguente condanna dell’amministrazione ricorrente alla rifusione, in favore della controparte, delle spese processuali, ivi compresi gli onorari di avvocato il L. 5.000.000.

P.Q.M.
La Corte;

1) rigetta il ricorso;

2) condanna la ricorrente al rimborso delle spese processuali in favore della controparte e liquida dette spese in complessive L. 5.259.230, di cui L. 5.000.000 per onorari.

Così deciso, in Roma, il 19 dicembre 1996.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 9 GIUGNO 1997


Cass. civ., Sez. I, Sent., (data ud. 13/12/1996) 13/12/1996, n. 11152

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Michele CANTILLO Presidente

” Antonio CATALANO Consigliere

” Giovanni VERUCCI “

” Giulio GRAZIADEI “

” Salvatore DI PALMA Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE dello STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente

contro

MAZZARELLO GIUSEPPE, BOVI ANGELINA;

Intimati

avverso la sentenza n. 1824/91 della Corte d’Appello di ROMA, depositata il 03/06/91;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/03/96 dal Relatore Consigliere Dott. Salvatore DI PALMA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Vincenzo MACCARONE che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto del 14 luglio 1981, registrato presso l’Ufficio del Registro di Anzio il successivo 3 agosto, Giuseppe Mazzarello ed Angelina Bovi vendettero un immobile al valore dichiarato di lire 50.000.000. L’ufficio del registro procedette ad accertamento ai fini INVIM, rettificando il valore dichiarato in aumento per lire 70.000.000, e successivamente notificava ai contribuenti avviso di liquidazione del maggior valore accertato e delle imposte dovute.

Avverso il predetto avviso di liquidazione i contribuenti proposero ricorso alla Commissione Tributaria di 1° grado di Velletri, sostenendo, tra l’altro, l’illegittimità dell’avviso di liquidazione in quanto non preceduto da rituale notifica dell’avviso di accertamento, mai portato a loro conoscenza e quindi non divenuto definitivo.

La Commissione di primo grado, omettendo ogni pronunzia sulle eccezioni preliminari di rito, accolse nel merito il ricorso, dichiarando applicabile la nuova normativa (DPR n. 131 del 1986); più favorevole al contribuente e ritenendo, per l’effetto, che il valore dichiarato fosse addirittura superiore a quello che poteva essere dichiarato con i criteri automatici legali, in base ai quali l’immobile avrebbe avuto un valore di lire 47.520.000).

Avverso la predetta decisione l’Ufficio propose appello, sostenendo la definitività dell’avviso di accertamento, in quanto ritualmente notificato e mai impugnato.

I contribuenti proposero, a loro volta, appello incidentale, ribadendo le tesi difensive in rito e nel merito già proposte davanti alla Commissione di 1° grado.

La Commissione Tributari di 2° grado di Roma accolse l’appello dell’Ufficio, ritenendo che l’avviso di accertamento fosse stato ritualmente notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c. e che, quindi, fosse divenuto definitivo, con conseguente inapplicabilità della normativa del 1986.

I contribuenti impugnavano tale decisione dinanzi alla Corte d’Appello di Roma, ribadendo ancora una volta la tesi della nullità della notifica dell’avviso di accertamento, in quanto una prima volta notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nonostante l’attestazione dello stesso nesso notificatore, secondo cui i contribuenti erano sconosciuti all’indirizzo risultante dell’atto notarile, ed una seconda volta a norma dell’art. 60 lett. e) del DPR n. 600 del 1973, ma senza il rispetto delle formalità procedimentali di notifica previste dal sistema normativo in materia.

In subordine, i contribuenti eccepirono la decadenza dell’ufficio dall’accertamento in rettifica per tardività e, nel merito, la congruità del valore dichiarato.

L’Amministrazione Finanziaria oppose che il d.l. 10 luglio 1982 n. 429 convertito nella legge 7 agosto 1982 n. 516 aveva prorogato al 31 dicembre 1984 i termini di notifica ancora in corso e che la seconda notifica effettuata il 1° marzo 1984 doveva considerarsi rituale, in quanto all’indirizzo risultante dai registri anagrafici i due contribuenti risultavano trasferiti, per cui il messo notificatore non aveva potuto che procedere ai sensi del combinato disposto dell’art. 140 c.p.c. e 60 lett. e) DPR n. 600 del 1973.

La Corte adita, con sentenza del 3 maggio – 3 giugno 1991, tra l’altro, accolse il primo motivo di impugnazione e, per l’effetto, in riforma della decisione impugnata, dichiarò illegittimo l’avviso di liquidazione, notificato ai ricorrenti il 28 gennaio 1985 dall’ufficio del Registro di Anzio, e non dovute le somme ingiunte.

La Corte, in particolare – dopo aver premesso che l’Ufficio del Registro di Anzio aveva effettuato una prima notifica dell’avviso di accertamento in data 16 novembre 1983ai sensi dell’art. 140 cod. proc. civ., e una seconda in data 8 febbraio 1984 ai sensi dell’art. 60 lett. E dpr n. 600 del 1973; e che la prima notifica è pacificamente nulla in quanto eseguita ex art. 140 cod. proc. civ.

nonostante l’attestazione del messo notificatore secondo cui i due contribuenti erano sconosciuti all’indirizzo – ha affermato che anche la seconda notifica è affetta da nullità, in quanto l’art. 60 DPR n. 600 del 1973 ha innovato la disciplina della notificazione con il rito degli irreperibili di cui all’art. 143 cod. proc. civ. soltanto relativamente alla formalità dell’affissione dell’avviso, mentre ha lasciato inalterati i principi generali previsti dal codice di rito civile quanto alle formalità essenziali per il perfezionamento della fattispecie notificatoria; ed in quanto, nella specie, dalla relazione di notificazione risulta la mera attestazione, da parte del messo notificatore, del “trasferimento” dei destinatari, senza alcuna indicazione né delle fonti di apprendimento della circostanza del trasferimento dei contribuenti dall’indirizzo anagrafico, né dell’espletamento di ulteriori attività di informazione e ricerca circa il nuovo recapito dei destinatari.

Dalla nullità della notificazione dell’avviso di accertamento la Corte ha dedotto l’illegittimità dell’avviso di liquidazione e, pertanto, la non debenza delle somme ivi indicate.

Avverso tale decisione, il Ministero delle Finanze ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un unico motivo di censura.

Motivi della decisione
2.1. Con l’unico motivo (con cui deduce “violazione artt. 140, 143 e 148 c.p.c. e art. 60, D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600″), l’Amministrazione ricorrente, dopo avere premesso di non contestare la nullità della notifica del 16 novembre 1983 ex art. 140 c.p.c.”, perché nel luogo di residenza i contribuenti non erano più abitanti, avendo essi lasciata quella abitazione ove risultavano sconosciuti” – sostiene la legittimazione della notificazione dell’avviso di accertamento ex art. 60, D.P.R. n. 600 del 1973, osservando che, nell’ipotesi in cui, come nella specie, il messo notificatore dell’avviso di accertamento abbia appurato che il contribuente, pur anagraficamente residente all’indirizzo risultante dagli atti, si sia da colà trasferito, lo stesso non sarebbe tenuto ad effettuare alcuna altra indagine, ma dovrebbe limitarsi ad applicare l’art. 60, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 e non sarebbe nemmeno tenuto a dar conto delle attività svolte nella relazione di notificazione.

2.2. Preliminarmente, questa Corte deve rilevare che, in ordine alla dichiarazione di nullità della notificazione dell’avviso di accertamento “de quo”, effettuata in data 16 novembre 1983 ai sensi dell’art. 140 c.p.c., pronunciata dalla Corte romana, si è formato il giudicato interno, in quanto il Ministero delle finanze non ha impugnato tale capo di decisione.

2.3. L’oggetto del ricorso attiene alla validità della seconda notificazione del predetto avviso di accertamento effettuata in data 9 marzo 1983 ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973.

La fattispecie che ne à a fondamento è pacifica: i contribuenti, nell’atto pubblico di alienazione dell’immobile, hanno indicato come domicilio fiscale quello sito in Roma via Olindo Malagodi n. 26/14; a margine ed in calce all’avviso di accertamento in rettifica, notificato ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 in data 9 marzo 1984 risulta una doppia annotazione: la prima, del 16 febbraio 1984, dalla quale risulta che i contribuenti si sono “trasferiti da via O. Malagodi”, e la seconda, del 20 febbraio 1984, dalla quale risulta che i contribuenti medesimi sono anagraficamente residenti in Roma, via Olindo Malagodi n. 26/14.

La “ratio decidendi” della decisione, impugnata, che ha ritenuto siffatta notificazione invalida, si basa sul duplice rilievo, secondo cui il messo notificatore dell’avviso non ha indicato, nella relazione, le fonti di apprendimento della circostanza dell’indicato trasferimento dei contribuenti dall’indirizzo anagrafico, né l’espletamento di ulteriori attività di informazione e ricerca volte ad individuare il nuovo recapito dei contribuenti stessi.

A prescindere dalla ambiguità di tale decisione (nella misura in cui parrebbe riferirsi alla invalidità della relazione di notificazione anziché a quella dell’attività di trasmissione e consegna dell’atto), la censura proposta pone la questione se sia validamente eseguita, ai sensi dell’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973, la notificazione di avviso di accertamento a contribuente che, pur anagraficamente residente ad un dato indirizzo, risulti da colà, di fatto, trasferito.

Non v’è dubbio, innanzitutto, che alla fattispecie – che attiene a notificazione di avviso di accertamento il rettifica ai fini Invim – si applichi il procedimento di notificazione prefigurato dall’art. 60, D.P.R. n. 600 del 1973, in virtù del doppio rinvio a tale procedimento operato dall’art. 20, terzo comma, prima proposizione, D.P.R. n. 643 del 1972 (istituzione dell’imposta comunale sull’incremento di valore degli immobili) e dall’art. 49, terzo comma, D.P.R. n. 634 del 1972 (disciplina dell’imposta di registro).

É noto che l’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973 stabilisce che, quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notifica (e cioè nel comune – di domicilio fiscale, corrispondente a quello in cui il contribuente persona fisica, destinatario dell’atto da notificare, risulta anagraficamente iscritto: cfr. combinato disposto dell’art. 58, secondo comma, prima proposizione e dell’art. 60, primo comma, lett. c, dello stesso D.P.R.) non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, la notificazione dell’avviso o dell’atto è eseguita mediante deposito dell’atto stesso nella casa del comune di domicilio fiscale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del comune medesimo e diviene produttiva di effetti l’ottavo giorno successivo a quello di affissione ai fini della decorrenza del termine per ricorrere.

É evidente – e confermato dalla espressa statuizione di inapplicabilità dell’art. 143 c.p.c. (art. 60, primo comma, lett. f) – che la fattispecie prefigurata dalla lett. e) corrisponde a quella di irreperibilità del contribuente nel comune di domicilio fiscale, vale a dire alle ipotesi previste dall’art. 143 c.p.c.

E questa Corte ha più volte chiarito – sia pure in fattispecie di irreperibilità di cui all’art. 140 c.p.c. – che la notificazione di cui all’art. 60, primo comma, lett. e), dianzi descritta, è ritualmente eseguita nelle forme dalla disposizione stessa previste – senza necessità di comunicazione all’interessato a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento, né di ulteriori ricerche al di fuori del comune di domicilio fiscale – soltanto nell’ipotesi in cui, nonostante le ricerche che il esso notificante deve svolgere nell’ambito del predetto comune, in questo non si rinvenga l’effettiva abitazione o l’ufficio o l’azienda del contribuente (cfr. sentt. n. 8363 del 1993 e n. 11078 del 1992).

Ciò posto, non vi è dubbio che, nei casi in cui, come nella specie, il contribuente destinatario della notificazione si sia trasferito dal luogo indicato nel registro anagrafico e si ignori, nonostante le ricerche effettuate dal messo notificante nell’ambito del comune di domicilio fiscale, il nuovo domicilio, sia applicabile il procedimento di notificazione previsto dall’art. 60, primo comma, lett. e), D.P.R. n. 600 del 1973, posto che siffatte ipotesi corrispondono esattamente a quelle di irreperibilità ai sensi dell’art. 143, primo comma c.p.c. (cfr. Cass. S.U. n. 5825 del 1981).

Orbene dal momento che è regola generale quella secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti, che debbono essere notificati al contribuente, salvo il caso di consegna in mani proprie, deve essere fatta nel domicilio fiscale del destinatario (art. 60, primo comma, lett. c); che questo corrisponde al domicilio risultante dall’iscrizione anagrafica in un determinato comune (art. 58, secondo comma, prima proposizione); che tale domicilio può essere mutato rispetto a quello indicato negli atti in possesso dell’amministrazione tributaria (art. 58, quarto comma); che le cause di variazione del domicilio fiscale hanno effetto dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate (art. 58, quinto comma); e che la valida notificazione dell’atto realizza interessi evidenti, giuridicamente tutelati, di cui sono portatori sia il contribuente sia l’amministrazione – è necessario che il messo notificante, in ipotesi di mutamento di indirizzo, svolga accurate ricerche nell’ambito del comune risultante dagli atti siccome di domicilio fiscale (cfr. art. 60, primo comma, lett. a; nonché Cass. n. 8363 del 1993 e n. 11078 del 1992 cit.).

Ma nella ipotesi in cui, quale quella di specie, il contribuente, ancorché anagraficamente iscritto in un comune ad un dato indirizzo, risulti di fatto trasferito da tale indirizzo, non si scorge quali altre, utili ricerche il messo notificante possa e debba svolgere: infatti, l’attestazione del mero trasferimento, senza ulteriori indicazioni, dal domicilio fiscale implica che il messo notificante abbia svolto le necessarie indagini per giungere a tale conclusione (ove, naturalmente, non si faccia questione, come non si fa specie, dell’effettivo compimento delle ricerche e della veridicità del trasferimento); e, d’altro canto, la contraria risultanza anagrafica comporta l’inutilità, in radice, e, quindi, la non doverosità di ulteriori ricerche (cfr., in questo senso Cass. n. 4086 del 1980 e per un caso analogo in materia di società, n. 8071 del 1995).

2.4. La decisione impugnata, nella misura in cui non ha fatto corretta applicazione dei principi dianzi affermati, deve essere annullata e la relativa causa deve essere rinviata ad altra sezione della Corte di Appello di Roma, che provvederà anche sulle spese del presente grado di giudizio.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso.

Cassa e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della sezione civile, il 15 marzo 1996.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 13 DICEMBRE 1996.


Cass. civ. Sez. I, 11-02-1995, n. 1544

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Enzo BENEFORTI Presidente

” Rosario DE MUSIS Consigliere

” Giovanni OLLA “

” M. Rosario MORELLI “

” Laura MILANI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

CURATELA DEL FALLIMENTO “ROYALCAR” DI RADO DAMIANO, in persona del Curatore Rocco Morelli, elettivamente domiciliata in Roma Via Blumenstihl 45 c/o l’avv. Oreste F. Moricca che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Francesco M. Pugliese giusta delega a margine del ricorso.

Ricorrente

contro

TOFFOLO ROSANNA, Titolare della Ditta individuale “LA TENDA”, elettivamente domiciliata in Roma via Cristoforo Colombo 440 c/o l’avv. Francesco Tassoni che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Elio Multari giusta delega a margine del controricorso.

Controricorrente

Avverso la sentenza 598/90 della Corte di Appello di Venezia dep. il 14.7.90.

E’ presente per il ricorrente l’avv. Moricca che chiede l’accoglimento del ricorso.

E’ presente per il resistente l’avv. Tassoni che chiede il rigetto del ricorso.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3.6.1994 dal Cons. Rel. Dr.ssa Milani.

Udito il P.M. nella persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Aloisi che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza 1.2.1989 il Tribunale di Treviso, in accoglimento della domanda proposta dalla curatela del fallimento “Royalcar” di Damiano Rado, condannava la ditta “La Tenda” di Rosanna Toffolo al pagamento della somma di L. 15.712.000, oltre interessi e spese del giudizio.

Interponeva appello la soccombente, con atto notificato a mezzo del servizio postale il 6/7 aprile 1989.

Nella dichiarata contumacia della curatela del fallimento, non costituitosi in secondo grado, la Corte d’appello di Venezia, con sentenza 2/14 luglio 1990, riduceva a sole L. 274.605 la somma dovuta dalla ditta “La Tenda”.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso la curatela del fallimento “Royalcar”. Resiste con controricorso Rosanna Toffolo.

Motivi della decisione
Con unico motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 106 e 107 D.P.R. 15.12.1959 n. 1229, per essere stato l’atto di citazione in appello notificato mediante il servizio postale dall’ufficiale giudiziario addetto all’ufficio unico notifiche presso il Tribunale di Pordenone, funzionalmente incompetente, dovendosi nella specie la competenza attribuire, in via concorrente ed alternativa, o all’ufficiale giudiziario del luogo in cui la notifica doveva essere eseguita (Treviso), o a quello addetto all’autorità giudiziaria competente per la causa d’appello (Venezia): dall’incompetenza dell’ufficiale giudiziario il ricorrente fa discendere la nullità della notifica dell’atto d’appello e, conseguentemente, dell’intero procedimento di secondo grado e della relativa sentenza, non essendo intervenuta sanatoria data la mancata costituzione dell’appellato.

La doglianza è fondata, pur se non appaiono corrette le conseguenze che il ricorrente ne fa derivare.

Ed invero, posto che:

a) ai sensi dell’art. 106, 1° comma, D.P.R. n. 1229/1959, l’ufficiale giudiziario compie, con attribuzione esclusiva, gli atti del proprio ministero nell’ambito del mandamento ove ha sede l’ufficio al quale è addetto;

b) ai sensi del successivo art. 107, 2° comma, tutti gli ufficiali giudiziari possono eseguire, a mezzo del servizio postale, senza limitazioni territoriali, la notificazione degli atti relativi ad affari di competenza delle autorità giudiziarie della sede alla quale sono addetti;

se ne desume, come da costante giurisprudenza di questa Corte, che la competenza in materia di notificazione è per legge attribuita, in via concorrente ed alternativa, così all’ufficiale giudiziario del luogo in cui la notificazione deve essere eseguita, come a quello addetto all’autorità giudiziaria davanti alla quale deve trattarsi l’affare cui ha riguardo l’atto da notificare (Cass. sent. 3552/1984; in senso conf: sent. 5607 del 1987; 767/1985; 1778/1981; 1105/1980; e varie altre).

La norma non consente altre interpretazioni, posto il carattere “esclusivo” della competenza attribuita all’ufficiale giudiziario per le notifiche da eseguirsi nell’ambito dell’ufficio cui è addetto, salvo l’altro criterio, valido per le notifiche a mezzo del servizio postale, fissato con riferimento alla competenza delle autorità giudiziarie aventi sede nell’ambito dell’ufficio predetto.

Né, contrariamente a quanto deduce la controricorrente, la disciplina ha subito modifiche in virtù della legge 20.11.1982 n. 890 sulla notificazione degli atti a mezzo posta, essendosi questa limitata a stabilire, senza nulla immutare in materia di competenza territoriale, la facoltà, in genere, per l’ufficiale giudiziario di avvalersi del servizio postale per le notifiche di sua competenza, e l’obbligo di avvalersene per le notifiche da eseguirsi fuori del Comune ove ha sede l’ufficio di appartenenza. Deve dunque concludersi che, nella specie, l’atto d’appello doveva essere notificato, in via alternativa, o dall’ufficiale giudiziario addetto al Tribunale di Treviso, luogo ove la notifica doveva essere eseguita, o dall’ufficiale giudiziario addetto alla Corte d’appello di Venezia, autorità giudiziaria competente per la trattazione della causa: ne deriva la nullità della notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario addetto al Tribunale di Pordenone, funzionalmente incompetente.

Trattasi peraltro, difformemente da quanto ritenuto dal ricorrente, di nullità relativa, suscettibile di essere sanata, con effetto retroattivo, dalla costituzione dell’intimato (come più volte stabilito da questa Corte: sent. 428/1987; sent. 5774/1984; sent. 4578/1984; sent. 4474/1981; ed altre), ovvero tramite la rinnovazione della notifica ad opera dell’ufficiale giudiziario competente, disposta dal giudice d’ufficio a norma dell’art. 291 c.p.c. (come affermato dalla sent. 7308/1983).

Tale provvedimento avrebbe nella specie dovuto adottare la Corte d’appello di Venezia, anziché dichiarare erroneamente la contumacia dell’appellato.

Non essendosi, dunque, ritualmente instaurato il contraddittorio in appello, il procedimento di secondo grado dovrà essere nuovamente celebrato, rinviandosi all’uopo la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, cui viene rimessa anche la pronuncia sulle spese di questa fase del giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE

Accoglie il ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’appello di Venezia, che provvederà anche in ordine alle spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma il 3 giugno 1994.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 11 FEBBRAIO 1995


Cass. civ. Sez. II, 21-05-1994, n. 5000

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Francesco FAVARA Presidente

Dott. Aldo MARCONI Consigliere

Dott. Antonio PATIERNO Consigliere

Dott. Giuseppe BOSELLI Consigliere

Dott. Sergio CARDILLO Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

ORPELLO ANTONIO, elettivamente domiciliato in Roma, via S. Tommaso d’Aquino n. 90 presso lo studio del dott. Alfredo Pilloni e difeso dall’avvocato Francesco Del Vecchio in virtù di procura in calce al ricorso

Ricorrente

contro

VAGABOND s.p.a., in persona del legale rappresentante DOMENICO TACCHELLA, elettivamente domiciliata in Roma, via presso lo studio dell’avvocato Pasquale Paolitto e difeso dall’avvocato Giovanni Foresti in virtù di procura in calce al controricorso

Controricorrente

avverso la sentenza emessa dal Conciliatore di Verona il 13 dicembre 1990.

Sentita la relazione della causa svolta dal Cons. dott. SERGIO CARDILLO nella pubblica udienza del 24 gennaio 1994.

Udito il P.M. in persona del Sost. Proc. Gen. dott. MARTONE che ha concluso per l’accoglimento del 2 motivo assorbito il resto.

Svolgimento del processo
La società Vagabond s.p.a. convenne la ditta Orpello Sport di Antonio Orpello dinanzi al Conciliatore di Verona chiedendone la condanna al pagamento della somma di L. 852.200 a titolo di prezzo di merci vendute.

Nella contumacia del convenuto la causa fu istruita con la produzione di documenti e l’assunzione di una prova testimoniale.

Il Conciliatore con sentenza del 13 dicembre 1990 accolse la domanda.

Contro questa decisione ricorre Antonio Orpello sulla base di due motivi.

La società Vagabond resiste con controricorso illustrato con memoria.

Motivi della decisione
Il primo motivo, con il quale il ricorrente denunzia nullità della sentenza e del procedimento per omessa notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, è privo di fondamento.

L’atto di citazione risulta notificato in data 19 marzo 1990 a mezzo del servizio postale alla Ditta Orpello Sport di Orpello Antonio in persona del suo omonimo titolare che appose la firma quale destinatario sull’avviso di ricevimento del plico raccomandato.

L’avvenuta sottoscrizione della ricevuta di ritorno, che fa fede fino a querela di falso e perfeziona la notificazione ai sensi dell’art. 7 della legge 20 novembre 1982, n. 890, rende inconsistente l’assunto del ricorrente.

Con il secondo motivo si denunzia nullità della sentenza e del procedimento per nullità della notificazione dell’atto di citazione eseguita dal messo dell’Ufficio di Conciliazione fuori del territorio di sua competenza.

Il motivo è fondato.

La notificazione degli atti in materia civile per mezzo dei messi di conciliazione è soggetta alla disposizione dettata dell’art. 175, dell’allegato 1, al T.U. approvato con R.D. 28 dicembre 1924, n. 2271, la quale stabilisce che gli uscieri di conciliazione, denominati messi a norma della legge 3 febbraio 1957, n. 16, esercitano le loro funzioni per gli affari di competenza del conciliatore nel territorio di rispettiva giurisdizione.

La competenza delimitata non consente al messo di procedere alla notificazione quando il destinatario dell’atto sia residente fuori dell’ambito territoriale dell’ufficio di conciliazione cui esso è addetto poiché, a norma dell’art. 34 del D.P.R. 15 dicembre 1959, n. 1229 (Ordinamento degli ufficiali giudiziari e degli aiutanti ufficiali giudiziari), soltanto il messo di conciliazione del luogo dove l’atto deve essere notificato può essere autorizzato dal capo dell’ufficio giudiziario, ove manchino o siano impediti l’ufficiale giudiziario o l’aiutante ufficiale giudiziario e ricorrano motivi di urgenza, a procedere alla notificazione (v. sent. 19 gennaio 1971, n. 264; 4 maggio 1978, n. 2082; 11 dicembre 1987, n. 9165).

La notificazione fuori del territorio di competenza non può essere effettuata neppure per mezzo del servizio postale, non essendo applicabile la disposizione dell’art. 107 del D.P.R. n. 1229 del 1959 che stabilisce, con riferimento ai soli ufficiali giudiziari, che costoro possono eseguire per posta, senza limitazioni territoriali, la notificazione degli atti relativi ad affari di competenza dell’autorità giudiziaria della sede alla quale sono addetti.

Ne deriva che, nel caso in esame, non era consentito al messo addetto all’ufficio di conciliazione di Verona di effettuare, a mezzo del servizio postale, la notificazione dell’atto introduttivo del giudizio ad Antonio Orpello residente in Torre del Greco.

La nullità della notificazione non è stata sanata né dalla costituzione dell’intimato, che è rimasto contumace nel giudizio di merito, né dalla rinnovazione dell’atto ai sensi dell’art. 291 c.p.c., che non è stata disposta dal Conciliatore.

Pertanto il ricorso deve essere accolto e le sentenza impugnata va cassata con rinvio al altro giudice, che si designa in un diverso Conciliatore di Verona, il quale, nella nullità della notificazione della citazione introduttiva, fisserà all’attrice, ai sensi dell’art. 291 c.p.c., un termine perentorio per rinnovare la notificazione e provvederà anche sulle spese di questo giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo del ricorso, accoglie il secondo motivo.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese al Conciliatore di Verona.

Così deciso in Roma in Camera di Consiglio il 24 gennaio 1994.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 MAGGIO 1994.


Cass. civ. Sez. II, 03-02-1993, n. 1321

Quand’anche esistessero uffici comunali (usualmente designati come “delegazioni”) questi non possono costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

Nullo l’atto depositato presso la Casa Comunale in luogo diverso dalla sede ufficiale

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Andrea VELA Presidente

” Enzo BENEFORTI Consigliere

” Domenico GIAVEDONI Rel. “

” Raffaele MAROTTA “

” Antonio VELLA “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

ADRIANI ANDREA elettivamente domiciliato in Roma, via di Villa Ada n. 57, presso l’avv. Maria Athena Lorizio che unitamente all’avv. Domenico D’Ascanio lo rappresenta e difende per delega a margine del ricorso.

Ricorrente

contro

GIANGRAZI PAOLINO e GIANGRAZI FRANCESCO.

Intimati

Per la cassazione della sentenza n. 31 della Corte di Appello di Perugia del 22.12.88-13.2.89.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14.2.92 la Cons. Rel. Dott. Giavedoni.

Udito per i ricorrenti l’avv. Domenico D’Ascanio che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Udito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dott. Fabrizio Amirante che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Questa Corte, con sentenza 30 aprile 1985, ha cassato la sentenza della Corte di Appello de L’Aquila che aveva rigettato, in riforma della sentenza di primo grado, la domanda di Paolino Giangrazi avente ad oggetto il rilascio di un immobile di proprietà dello stesso e detenuto senza titolo da Andrea Adriani, rinviando la causa per nuovo esame alla Corte d’Appello di Perugia.

Il giudizio è stato riassunto avanti al giudice di rinvio da Paolino Giangrazi nei confronti dell’originario convenuto Andrea Adriani, nonché di Francesco Giangrazi, chiamato in causa dall’Adriani a scopo di garanzia.

Entrambi gli appellati sono rimasti contumaci.

Con sentenza 13 febbraio 1989, la Corte di Perugia ha confermato la sentenza di primo grado e condannato Andrea Adriani alle spese dell’intero giudizio.

Avverso questa sentenza propone ora ricorso per cassazione il soccombente Adriani con un solo motivo di censura.

Nessuno degli intimati ha svolto attività difensiva in questa sede.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo il ricorrente denuncia violazione ed errata applicazione dell’art. 140 c.p.c., nullità della citazione in riassunzione, del conseguente procedimento in sede di rinvio e della sentenza e, sinteticamente, assume che la notificazione nei suoi confronti, in quanto attuata con le forme delle notificazioni agli irreperibili, era irrituale e nulla perché l’Ufficiale giudiziario procedente aveva attestato di aver notificato la copia dell’atto nella “Casa del Comune” di Masciano che però non è comune, ma frazione del Comune di Campotosto de L’Aquila.

La censura è, per quanto di ragione, fondata.

Dalla relata dell’Ufficiale addetto alla Corte d’Appello di Perugia risulta, anzitutto che la notifica dell’atto di riassunzione sarebbe stata effettuata a mezzo posta il 13 febbraio 1987. Questa notificazione però evidentemente non ha avuto luogo perché alla relazione testé richiamata fa immediatamente seguito altra di notifica eseguita, in data 28 febbraio 1987, a cura dello stesso Ufficiale giudiziario nelle forme di cui all’articolo 140 c.p.c.

Per le formalità previste da quest’ultimo articolo (in base al quale, come noto, la notifica si considera perfetta quando l’Ufficiale Giudiziario attesti di aver depositato copia dell’atto nella Casa del Comune dove la notificazione deve eseguirsi, affisso avviso del deposito alla porta dell’abitazione o dell’ufficio del notificando a avergliene dato notizia per raccomandata con avviso di ricevimento) il ricorrente si duole, come si è detto, che il deposito dell’atto è avvenuto presso la “Casa Comunale” di Masciano, che viceversa non è comune autonomo, ma frazione del comune di Campotosto.

Orbene, accertato che Masciano non è sede di comune, ne deriva l’esattezza del rilievo del ricorrente.

Infatti anche se alla frazione di Masciano risultassero attribuite le particolari forme di autonomia previste dalla vigente legislazione in materia (il che non è comunque dimostrato) è certo che la “casa comunale” è unica per l’intero comune e ha sede presso il c.d. “capoluogo”.

Si deve quindi riconoscere che a Masciano, quand’anche esistessero uffici comunali (usualmente designati come “delegazioni”) questi non possono costituire la “casa comunale” che rappresenta la sede del comune nei confronti dei terzi e costituisce il “luogo” degli atti comunali e degli organi che li deliberano (Consiglio, Giunta e Sindaco).

D’altronde l’art. 140 c.p.c., parla esclusivamente di “casa comunale”, usando quindi una terminologia precisa, insuscettibile di estensione a diversi “luoghi” e pertanto, anche in applicazione del principio che le formalità dei procedimenti notificatori nei quali la notifica non avviene direttamente al notificando devono essere rispettate rigorosamente, non può che concludersi per la nullità della notifica (non altrimenti sanata).

Ciò però non comporta, come ritiene il ricorrente, cassazione senza rinvio della sentenza impugnata.

Infatti il (primo) procedimento di rinvio era stato riassunto anche nei confronti dell’altro appellato Francesco Giangrazi, per cui dovendosi rispettare la norma che vuole identità soggettive dei partecipanti al giudizio precedente svoltosi avanti alla Corte Suprema e nel giudizio di rinvio, il giudice di quest’ultimo avrebbe dovuto anzitutto accertare la nullità della notifica della citazione nei confronti di Andrea Adriani (per le ragioni sopra svolte) e quindi ordinare l’integrazione del contraddittorio nei confronti dello stesso mediante (nuova) notificazione dell’atto di riassunzione.

A tanto dovrà ora provvedere il nuovo giudice di merito al quale, cassata la sentenza impugnata, la causa va rinviata. Lo stesso, che si designa nella Corte d’Appello di Roma, provvederà anche per le spese di questo giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie per quanto di ragione il ricorso.

Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per la pronuncia sulle spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Roma.

Così deciso in Roma il 14 febbraio 1992.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 3 FEBBRAIO 1993.


Cass. civ. Sez. I, 16-05-1990, n. 4274

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati

Dott. Giuseppe SCANZANO Presidente

” Nicola LIPARI Consigliere

” Angelo GRIECO “

” Antonio SAGGIO “

” Mario Rosario MORELLI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

GALLIVAGGI Attilio, elett. dom. in Roma, Viale delle Milizie n. 34, c-o l’avv. Sebastiano Ferlito, che lo rapp. e difende giusta delega in atti.

Ricorrente

contro

D’ASSIA Enrico, D’ASSIA Ottone

intimati

Avverso il provvedimento del Presidente della Corte di appello di Roma emesso in data 30.12.1987;

Udita la relazione svolta dal Cons. dott. Mario Rosario Morelli;

Udito per il ricorrente l’avv. Ferlito;

Udito il P.M. dott. Paolo Dettori, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
Con citazione del 6 marzo 1980, Attilio Gallivaggi conveniva in giudizio, davanti al Tribunale di Roma, Umberto di Savoia, Iolanda di Savoia in Calvi di Bergolo, Giovanna di Savoia, Maria di Savoia in Borbone Parma, Enrico, Maurizio, Ottone ed Elisabetta d’Assia, quale figli eredi di Mafalda di Savoia, per sentir dichiarare che Griggi Giuseppa, simulatamente registrata di maternità ignota, era figlia naturale della fu regina Margherita di Savoia, disponendosi conseguentemente la correzione degli atti dello stato civile riguardanti la Griggi, i suoi figli, ed in particolare Gallivaggi Rinaldo suo padre, e lui medesimo.

Con sentenze n. 4609 e n. 9896 del 1982, il Tribunale respingeva la domanda, ravvisandovi una istanza per dichiarazione giudiziale di maternità, non ritualmente introdotta ex art. 274 cod. civ.

Avverso dette decisioni interponeva appello il Gallivaggi.

Ed, anche ai fini di una eventuale attivazione della procedura di correzione ai sensi dell’art. 138 della legge sullo stato civile, chiedeva autorizzarsi la notificazione del gravame nella forma per pubblici proclami, stante la necessità di integrare il contraddittorio nei confronti di tutti i destinatari della domanda, non facilmente individuabili e reperibili, specie in relazione alla sopravvenuta morte dell’ex Re Umberto II.

Il giudice di secondo grado – inizialmente sospeso (a seguito di domanda di ricusazione proposta dall’appellante: sulla quale il

Collegio provvederà negativamente, con ordinanza che ha formato oggetto di separato ricorso per cassazione, n. 10725-87, anch’esso discusso all’odierna udienza) – veniva poi riassunto.

In quella sede, il Gallivaggi reiterava la richiesta di autorizzazione alla notifica del gravame nelle forme ex art. 150 c.p.c.

Ma il Presidente della Corte di Appello la respingeva, con decreto del 30 dicembre 1987, con cui assegnava all’appellante termine per la notifica dell’atto nelle forme ordinarie.

Avverso detto provvedimento ricorre ora per cassazione il Gallivaggi.

Gli intimati (Enrico ed Ottone d’Assia) non si sono costituiti.

Motivi della decisione
Il ricorso – con il cui unico mezzo si critica il Presidente della Corte d’Appello per non aver autorizzato la chiesta notifica per pubblico proclami dell’appello, non ostante la pliralità e la difficile reperibilità dei suoi destinatari – è inammissibile.

Ed invero – a prescindere dalla considerazione che una siffatta censura, in ordine all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito (quale è appunto quello relativo all’autorizzazione del peculiare procedimento di notifica, ai sensi dell’art. 150 c.p.c.) non pare riconducibile ad alcuna delle tipologie di vizi sub art. 360 c.p.c. – va esclusa, in radice, la stessa ricorribilità del decreto impugnato.

Il quale ha, all’evidenza, funzione meramente ordinatoria e strumentale ed è privo quindi, dell’efficacia decisoria, che autorizza la proposizione del rimedio straordinario ex art. 111 Cost.

Sarà dunque solo avverso la sentenza emanando (nel giudizio di secondo grado) che il Gallivaggi potrà rivolgere le proprie doglianze, anche in ordine alle eventuali statuizioni sulla ritualità del contraddittorio, che dovessero risultare viziate (sotto alcuno dei profili contemplati dall’art. 360 c.p.c.) e per lui pregiudizievoli.

Nulla va disposto in ordine alle spese, in assenza di controparti costituite.

P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma il 30 gennaio 1989.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 16 MAGGIO 1990.


Cass. civ. Sez. lavoro, 21-08-1987, n. 6994

Composta dagli Ill.mi Sigg. Magistrati:

Dott. Carlo NOCELLA Presidente

” Giorgio ONNIS Consigliere

” Domenico FARINARO “

” Romano PANZARANI “

” Fulvio ALIBERTI Rel. “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto

da

MONTAGNANA Flaviana, MALASPINA Luciana, BARALDI Gloria, TOSI Luisa, TINTI Paolina, MONTAGNANA Valeria, RACCANELLI Deanna, FERRACIOLI Luciana, NANNINI Mirella, OLTRAMARI Fabio, TIOLI Liliana, LAMBORGHINI Roberta, elett.te dom.ti in Roma Via Montezebio, 43 presso lo studio dell’avv. Ettore Visciani, rapp.ti e difesi dall’avv. Mario Bacchiega per mandato a margine del ricorso

Ricorrenti

contro

DITTA BODAMER di Malek Mor, in persona del legale rapp.te pro-tempore, elett.te dom.ta in Roma Via G.B. Vico, 1 presso lo studio dell’avv. Mario Cassola che la rapp.ta e difende unitamente all’avv. Piero Gualtierotti come da mandato in calce al controricorso

Controricorrente

Per l’annullamento della sentenza del Tribunale di Rovigo dell’1.10.82, dep. il 16.11.82 n. 620-82;

udita, nella pubblica del 3.2.87, la relazione della causa svolta dal Cons. Rel. Dr. Aliberti;

udito l’avv. Cassola;

udito il P.M., in persona del Sost. Proc. Gen. Dr. Tridico che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Montagnana Flaviana, Malaspina Luciana, Baraldi Gloria, Tosi Luisa, Tinti Paolina, Montagnana Valeria, Raccanelli Deanna, Ferraccioli Luciana, Nannini Mirella, Oltremari Fabio. Titoli Liliana, Lamborghini Roberta adivano con separati ricorsi il Pretore di Ficarolo con il quale chiedevano la condanna di Malek Mor al pagamento di somme di danaro in loro favore a titolo di integrazione salariale.

Il Pretore dichiarava la contumacia del Malek, cui i ricorsi erano stati notificati ex art. 143 c.p.c.; riuniva, poi, tutti i procedimenti.

Quindi il Pretore con sentenza 13.7-10.8.81 condannava IL Malek al pagamento delle somme indicate in sentenza.

Proponeva appello il Malek, cui resistevano le appellate. Il Tribunale di Rovigo, con sentenza 1.10-16.11.1982, accoglieva l’appello e dichiarava la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio di I° grado nonché della sentenza impugnata. Rimetteva la causa al primo giudice.

Osservava che l’ufficiale giudiziario e la parte istante devono compiere tutte le possibili indagini al fine della ricerca dell’effettiva residenza del destinatario e l’ufficiale giudiziario deve, altresì, documentare la natura e l’esito di tali indagini nella relazione di notificazione, al fine di fornire al giudice gli elementi utili per il controllo sulla legittimità del ricorso alla forma di notifica di cui all’art. 143 c.p.c. Rilevato che dalla relazione di notificazione non emergeva la esistenza di indagini svolte per superare lo stato di ignoranza sulla residenza del Malek e che tali indagini non emergevano da altri atti di causa, riteneva che tale osservazione già di per sé sola sarebbe stata sufficiente per giungere alla conclusione della nullità della notificazione, ma che esigenze di completa esposizione dei fatti imponevano un ulteriore rilievo: da certificato 4.3.1982 del Comune di Bergantino, prodotto dal procuratore dell’appellante, risultava che in data 20.6.1979 il Malek aveva dichiarato di trasferire la propria residenza da quel Comune e che il nuovo domicilio era in Vienna; osservava che con la normale diligenza l’ufficiale giudiziario o le istanti avrebbero potuto conoscere l’esatto indirizzo del Malek e notificare i ricorsi con le procedure previste per i soggetti residenti all’estero ed ovviamente in caso di esito negativo di tale ulteriore indagine sarebbe stato lecito effettuare la notificazione ex art. 143 c.p.c. Riteneva, poi, che dall’accertata nullità della notificazione dei ricorsi introduttivi derivava anche la nullità dei procedimenti di I° grado, nonché dell’impugnata decisione, né tale nullità era coperta da giudicato dal momento che anche la notificazione della sentenza del Pretore era avvenuta facendo ricorso alla forma indicata dallo art. 143 c.p.c., non applicabile nel caso in esame.

I nominati in epigrafe ricorrono avverso detta sentenza formulando due motivi. Il Malek resiste con controricorso.

Motivi della decisione
I ricorrenti con il I° motivo (indicando con la lettera A) denunziano violazione ed omessa applicazione di norme di diritto, deducendo che l’appello avverso la sentenza pretorile non era stato proposto nei 30 giorni successivi alla notifica della medesima, per cui l’appello era inammissibile. L’appellante aveva eccepito solo la nullità della notificazione del ricorso introduttivo di I° grado, ma non quella della notificazione della sentenza: il Collegio avrebbe dovuto esaminare pregiudizialmente la questione inerente la validità dell’appello; tale questione era stata ignorata dal Tribunale.

Con il 2° motivo (lettera B) denunziano falsa applicazione della legge sulla notificazione (L. 6.4.1981, n. 42).

Deducono che la notificazione del ricorso era avvenuta ai sensi dell’art. 143 c.p.c. perché Malek Mor risultava all’epoca emigrato o trasferito a Vienna senza indicazione alcuna di un indirizzo costituente residenza, dimora o domicilio.

Rilevano, poi, che, all’epoca vigeva l’art. 142 c.p.c., modificato dalla L. 6.2.1981, artt. 8 e 9, ma che non poteva essere applicata tale norma non essendo conosciuto l’indirizzo del destinatario; spettava a chi si trasferisce l’onere di lasciare il proprio esatto indirizzo ai fini della propria reperibilità, né si poteva invocare la normale diligenza dei ricorrenti o dell’ufficiale giudiziario per l’esecuzione di altre indagini essendo irrilevanti all’estero i poteri riconosciuti agli ufficiali giudiziari. Deducono, poi, che l’art. 160 c.p.c. non prevede, tra le nullità indicate, la nullità come conseguenza di mancanza di “normale diligenza” nelle indagini.

La Corte rileva che va, anzitutto, esaminata quanto prospettato dal resistente con riferimento allo art. 329 c.p.c. Assume il predetto che i ricorrenti avrebbero riproposto al Pretore di Ficarolo la domanda dallo stesso precedentemente accolta ed avrebbero richiamato nel ricorso la sentenza del Tribunale di Rovigo precisando che con la stessa era stata dichiarata la nullità della notificazione dell’atto introduttivo di I° grado nonché della sentenza, con riemissione della causa al medesimo Pretore di Ficarolo.

La Corte rileva che agli effetti della valutazione in tema di acquiescenza ex art. 329 c.p.c. è indispensabile l’esame dell’atto con il quale sarebbe stato adito il Pretore di Ficarolo a seguito della sentenza del Tribunale di Rovigo in quanto solo dal ricorso è dato cogliere quanto interessa ai fini “de quibus”. Ma nel fascicolo del resistente non esiste copia di tale ricorso: quindi dalle deduzioni del resistente non possono essere tratte le conseguenze derivanti dall’applicazione del citato art. 329.

Passando all’esame del ricorso, la Corte osserva che i due motivi vanno esaminati congiuntamente, stante la loro evidente connessione, Rileva, quindi, che il tema in discussione è se le notificazioni a Malek Mor siano avvenute ricorrendo le condizioni che legittimano il ricorso alla forma prevista dall’art. 143 c.p.c. Il Tribunale di Rovigo ha rilevato “che dalle relazioni di notificazione di cui si discute non emerge affatto l’esistenza di indagini svolte per superare lo stato di ignoranza sulla residenza del Malek, né tali indagini emergono da altri atti di causa”.

Orbene è evidente che mancava l’accertamento delle condizioni per ricorrere alla formula di notifica in questione, che era necessario in quanto non è sufficiente che l’ufficiale giudiziario o il richiedente non conoscano i luoghi (dimora, residenza o domicilio), occorrendo invece che l’ufficiale giudiziario compia tutte le possibili indagini volte alla ricerca del destinatario, documentando il relativo risultato (nella notifica) di guisa possa essere espletato il controllo sulla legittimità della forma di notificazione adottata.

Il rilievo di tale carenza è già sufficiente per affermare che la notifica ex art. 143 c.p.c. non poteva essere adottata nella fattispecie, con la conseguenza della nullità delle notificazioni stesse.

Il Tribunale ha anche osservato che le istanti o l’ufficiale giudiziario avrebbero potuto usare la normale diligenza (ovvero consultare gli atti dell’anagrafe di Bergantino) ed avrebbero così conosciuto il nuovo comune di residenza del Malek, per cui occorreva eseguire altre indagini al fine di conoscere l’esatto indirizzo.

La Corte osserva che nel ricorso non viene dedotto che siano state svolte, in concreto indagini e che esse, malgrado la normale diligenza impiegatavi, non abbiano dato esito (delle deduzioni appare che, in sostanza, non è ritenuto utilizzabile il criterio della normale diligenza per poter conoscere l’esatto indirizzo di una persona non residente nella Repubblica: non appare, però, idonea deduzione o dimostrazione perché a priori debba ritenersi che sempre ed in concreto è impossibile tale conoscenza).

Non appaiono, quindi, utili le deduzioni dei ricorrenti (né il richiamo alla sentenza 1201-81 di questa Corte) con le quali, in buona sostanza, si assume che poteva essere adottata che la forma di notificazione ex art. 143 c.p.c. stante la mancanza dello indirizzo del Malek a Vienna. Tali considerazioni non superano il rilievo che non appare provato che tale (completo) indirizzo non avrebbe potuto in concreto essere conosciuto con l’uso di normale diligenza.

In ordine alla deduzione secondo cui la mancanza della “normale diligenza” nelle indagini non è prevista come causa di nullità della notificazione, è agevole osservare che tale carenza comporta il venir meno delle condizioni per l’applicabilità della forma di cui all’art. 143 c.p.c.: il che inficia l’eseguita notificazione.

Alla nullità della notificazione del ricorso di I° grado consegue quella del procedimento e della sentenza di I° grado per il principio dell’estensione della nullità, essendo evidente che questi non sono indipendenti da quella. Va rilevato inoltre che il Malek ha dedotto che neppure era a conoscenza dell’avvenuta notifica che la inficiava di nullità e che l’aveva impugnata nel momento in cui ne era venuto a conoscenza e comunque entro l’anno dalla pubblicazione.

Il ricorso va, quindi, rigettato.

Concorrono giusti motivi per la totale compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Dichiara interamente compensate tra le parti le spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 3 febbraio 1987.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 AGOSTO 1987


Corte Suprema di Cassazione civ. Sez. III, 02-12-1985, n. 5636

NOTIFICAZIONE (MATERIA CIVILE) – Relazione di notifica – Copia consegnata al destinatario – Omessa indicazione della data – Conseguenze – Distinzioni

Cass. civ. Sez. III, 02-12-1985 n. 5636


Corte Suprema di Cassazione, Sez. Civ., n. 3316 del 14.05.1983

Quando la notificazione di un atto di citazione a militare in servizio non è eseguita in mani proprie, osservate le disposizioni di cui agli art. 139 segg. c.p.c., la formalità della consegna di una copia al p. m. per l’invio al comandante del corpo al quale il militare appartiene, secondo le modalità stabilite nell’art. 49 disp. att. c.p.c., espressamente richieste dal successivo art. 146 c.p.c. costituisce un adempimento necessario, la cui omissione importa la nullità della notificazione, senza che sia consentita alcuna distinzione fra militari di carriera e militari in servizio di leva o richiamati alle armi ed indipendentemente dalla conoscenza che di tale particolare stato abbia potuto avere colui su istanza del quale la notifica viene effettuata; tale adempimento è infatti, posto a tutela del destinatario della notificazione, in considerazione degli imprevedibili, improvvisi e più frequenti spostamenti a cui possono essere soggetti gli appartenenti ai corpi militari, indipendentemente dalla circostanza che essi siano o meno militari di carriera, le cui destinazioni debbono talvolta essere mantenute segrete per motivi di sicurezza connessi alla più efficiente realizzazione dei compiti loro affidati.

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –
Dott. GENOVESE Francesco Antonio – Consigliere –
Dott. BISOGNI Giacinto – Consigliere –
Dott. TERRUSI Francesco – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 9363/2014 proposto da:
B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA LUIGI LUCIANI 1, presso l’avvocato DANIELE MANCA BITTI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANNAMARIA RAMIREZ, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
M.F., elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 71, presso l’avvocato ANDREA DEL VECCHIO, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati CLAUDIO FERRARI, RACHELE GERVASONI, giusta procura a margine del controricorso;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 324/2014 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 05/03/2014;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/2016 dal Consigliere Dott. MASSIMO FALABELLA;
udito, per il ricorrente, l’Avvocato DANIELE MANCA BITTI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;
udito, per la controricorrente, l’Avvocato CLAUDIO FERRARI che ha chiesto l’inammissibilità o rigetto del ricorso;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del primo motivo; inammissibilità dei motivi secondo e terzo.
Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 1 luglio 2003, B.G., coniugato con M.F., chiedeva che il Tribunale di Brescia pronunciasse sentenza di cessazione degli effetti civili del matrimonio, vivendo egli separato dalla moglie fin da epoca anteriore alla separazione giudiziale, per la quale era intervenuta pronuncia della Corte di appello di Brescia in data 23 ottobre 2002; domandava l’assegnazione in proprio favore della casa coniugale e la revoca o, in subordine, la riduzione a somma non superiore a Euro 1.000,00 mensili dell’assegno per il concorso nel mantenimento della moglie: assegno che era stato fissato in sede di separazione nell’ammontare di Euro 2.582,30.
Si costituiva M.F., rimettendosi alla decisione del Tribunale per quanto riguardava la cessazione degli effetti civili del matrimonio. In relazione alla domanda di riduzione dell’assegno di mantenimento assumeva che non si era verificato un mutamento, in senso peggiorativo, delle condizioni patrimoniali del marito a far data dalla pronuncia di separazione, nè alcuna modificazione, in termini migliorativi, di quelle di essa convenuta, che era casalinga priva di redditi propri.
Il Tribunale rendeva sentenza non definitiva con cui dichiarava la cessazione degli effetti civili del matrimonio e, con successiva pronuncia, determinava in Euro 8.000,00 mensili l’assegno di mantenimento a carico di B.;
condannava l’attore alla restituzione della somma di Euro 88.055,00, maggiorata degli interessi, importo che affermava dovesse essere rimborsato alla convenuta, essendo stato prelevato dal conto corrente a lei intestato; condannava infine lo stesso B. al pagamento della somma di 71.084,44, oltre interessi, quale quota dell’indennità di fine rapporto percepita dal marito, giusta la L. n. 898 del 1970, art. 12 bis.
Proposto gravame da parte di entrambi gli odierni contendenti, la Corte di appello di Brescia, con sentenza depositata il 5 marzo 2014, quantificava l’assegno che B.G. doveva corrispondere a M.F. in ragione di Euro 6.000,00 mensili, da rivalutarsi annualmente, e stabiliva che l’obbligo avesse decorrenza dal 18 settembre 2003; determinava, poi, la somma che B. avrebbe dovuto versare quale quota del trattamento di fine rapporto in Euro 47.389,62;
la stessa Corte respingeva infine l’appello incidentale di M.F..
B.G. ricorre contro la sentenza della Corte bresciana con una impugnazione che si articola in tre motivi.
Resiste con controricorso M.F..
Motivi della decisione
È anzitutto non concludente l’eccezione di inammissibilità del ricorso ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, sollevata dalla controricorrente. Infatti, il ricorso scrutinato ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, deve essere comunque rigettato per manifesta infondatezza, e non dichiarato inammissibile, se la sentenza impugnata si presenta conforme alla giurisprudenza di legittimità e non vengono prospettati argomenti per modificarla (Cass. S.U. 6 settembre 2010, n. 19051; Cass. 18 marzo 2016, n. 5442).
Le restanti eccezioni di inammissibilità – con cui è lamentata la carente autosufficienza del ricorso e il dirigersi di questo verso una censura dell’accertamento di fatto demandato al giudice del merito – prospettano vizi che investono l’atto di impugnazione nella sua interezza: ma è escluso che il ricorso proposto sia totalmente privo della necessaria autosufficienza, così come deve negarsi che lo stesso veicoli solo censure che investono l’accertamento di fatto posto in essere nei precedenti gradi del giudizio. Il problema dell’inammissibilità può porsi, semmai, con riferimento ai singoli motivi: deve infatti escludersi che il ricorso possa essere dichiarato in toto inammissibile, ove la mancanza di autosufficienza sia propria solo di uno o di alcuni dei motivi proposti (Cass. S.U. 5 luglio 2013, n. 16887); allo stesso modo, è il singolo motivo e non il ricorso a poter risultare inammissibile in quanto miri a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte (di inammissibilità del motivo, in tale ipotesi, parla Cass. 26 marzo 2010, n. 7394).
Si procede, dunque, allo scrutinio delle singole censure.
Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 40 c.p.c., commi 2 e 3, e ciò avendo riguardo alla ritenuta tardività e infondatezza dell’eccezione dell’appellante vertente sulla inammissibilità della domanda di restituzione della somma di 88.055,00 proposta dalla controparte.
L’istante rileva, in proposito, che ricorreva un’ipotesi di connessione tra cause soggette a riti diversi, non rientrante tra le ipotesi tassative di cui all’art. 40 c.p.c., comma 3, sicché le parti e il giudice non potevano legittimamente derogare alle norme processuali che imponevano, per la trattazione della causa avente ad oggetto il rimborso, il rito ordinario. In conseguenza l’eccezione di inammissibilità della domanda restitutoria ben poteva essere proposta per la prima volta in fase di appello. Non aveva poi fondamento l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, circa la necessità che l’eccezione spiegata dal ricorrente fosse supportata dalla rappresentazione del pregiudizio da lui risentito a causa della trattazione della domanda col rito speciale.
Il motivo non è fondato.
La sentenza impugnata si basa su di una doppia ratio decidendi: per un verso B. aveva accettato il contraddittorio sulla domanda di restituzione, onde aveva prestato acquiescenza allo spostamento di competenza; per altro verso, nella fattispecie non vi poteva comunque essere regressione del giudizio in primo grado, essendo tassative le ipotesi previste, a tal fine, dall’art. 354 c.p.c.: la Corte di appello ha quindi ritenuto di poter esaminare nel merito la domanda, ma ha osservato che l’odierno ricorrente, con riferimento allo specifico oggetto della pretesa azionata, non aveva dedotto alcunché.
Entrambe le argomentazioni spese dalla Corte distrettuale sono corrette, anche se la prima ha naturalmente valore assorbente. Al riguardo, come questa Corte ha avuto modo di rilevare, proposta nei confronti del coniuge, nell’ambito di un giudizio di separazione personale, soggetto al rito camerale, una domanda di restituzione di somme di danaro o di beni mobili al di fuori delle ipotesi di connessione qualificata di cui agli artt. 31, 32, 34, 35 e 36 c.p.c., la mancanza di una ragione di connessione idonea a consentire, ai sensi dell’art. 40 c.p.c., comma 3, la trattazione unitaria delle cause, può essere eccepita dalle parti o rilevata dal giudice non oltre la prima udienza, in analogia a quanto disposto dal medesimo art. 40, comma 2, di talché essa non può essere rilevata d’ufficio per la prima volta in appello al fine di dichiarare l’inammissibilità della domanda di restituzione, esaminata e decisa nel merito in primo grado (Cass. 24 aprile 2007, n. 9915). Ebbene, nella fattispecie, come è stato osservato dalla Corte territoriale, nessuna eccezione fu sollevata in primo grado con riguardo alla ritenuta connessione.
È poi appena il caso di ribadire come anche la seconda ratio decidendi sia corretta. Infatti, la nullità conseguente all’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale si converte in motivo di impugnazione, senza però produrre l’effetto della rimessione degli atti al primo giudice
ove quello dell’impugnazione sia anche giudice del merito (da ultimo: Cass. 18 giugno 2014, n. 13907).
Giustamente, pertanto, la Corte distrettuale ha preso in esame il merito della pretesa, per poi riconoscere che la stessa non era stata contrastata dal ricorrente.
Il secondo motivo lamenta l’erronea valutazione delle risultanze istruttorie per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché degli artt. 2727 e 2729 c.c., con conseguente violazione della L. n. 898 del 1970, art. 5.
Anzitutto l’istante prospetta dubbi di costituzionalità quanto al criterio del “medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” cui fa riferimento lo stesso art. 5: e ciò avendo riguardo a un’interpretazione costante, secondo la quale l’assegno predetto dovrebbe appunto garantire al coniuge economicamente più debole il detto tenore di vita. Deduce, poi, che la Corte di merito non avrebbe fatto corretta applicazione delle norme che presiedono alla valutazione degli elementi istruttori: e ciò con riferimento, anzitutto, al comportamento tenuto dalla controricorrente in costanza del matrimonio (essendosi M.F. gradualmente distaccata dalla famiglia a causa dell’adesione un gruppo religioso: condotta che era stata del resto presa in considerazione nel corso del giudizio di separazione); l’istante sottolinea, in proposito, che avendo la controparte posto in atto, già nel corso del matrimonio, un comportamento in conflitto con i doveri derivanti dal vincolo coniugale, non le si poteva assicurare, per il futuro, il precedente tenore di vita. Nel motivo si afferma, poi, che l’importo dell’assegno di mantenimento risultava essere eccessivo rispetto alla reale, attuale capacità economica di esso ricorrente: in proposito, l’istante contesta in modo diffuso e articolato quanto ritenuto dal giudice del gravame in ordine al tenore di vita della famiglia B., al suo reddito personale e al suo patrimonio, nonché alla capacità economica della controricorrente.
Nemmeno tale motivo merita accoglimento.
Il ricorrente prospetta un dubbio di costituzionalità con riguardo alla L. n. 898 del 1970, art. 5, comma 6.
Peraltro, la Corte costituzionale si è pronunciata sul punto, ritenendo non fondata la questione di costituzionalità del cit. art. 5, comma 6, “nell’interpretazione di diritto vivente per cui (…) l’assegno divorzile deve necessariamente garantire al coniuge economicamente più debole il medesimo tenore di vita goduto in costanza di matrimonio” (Corte cost. 27 gennaio 2015, n. 11).
Per il resto, il motivo veicola censure che non investono l’erronea applicazione della L. n. 898 del 1970, art. 5. Infatti, la violazione di tale norma – di cui pure si legge nella rubrica del motivo – è prospettata quale conseguenza dell’incongruo apprezzamento delle prove: ed è ben noto che l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa questione non riconducibile all’ipotesi di cui all’art. 360, n. 3, la quale ha ad oggetto l’erronea individuazione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalla norma di legge (ex plurimis: Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 30 dicembre 2015, n. 26110).
Ma le revisione critica della sentenza che sollecitata col secondo motivo non può farsi nemmeno rientrare nell’area applicativa dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo vigente. Infatti, nella nuova formulazione del cit. n. 5, attuata con il D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. n. 134 del 2012, scompare ogni riferimento letterale
alla “motivazione” della sentenza impugnata; è stato osservato, sul punto dalle Sezioni Unite di questa Corte, che volontà del legislatore e scopo della legge convergono senza equivoci nella esplicita scelta di ridurre al “minimo costituzionale” il sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione. Al contempo, la fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, per come riformulata, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., n. 6, e art. 369 c.p.c., n. 4, il ricorrente debba indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto
decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. S.U. 7 aprile 2014, n. 8053).
Ora, il ricorrente orienta le proprie censure verso lo scorretto apprezzamento delle prove. Ma il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non è inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’odierna versione (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).
L’istante, invece di porsi su di un piano di prospettazione critica delle risultanze di causa, avrebbe dovuto piuttosto indicare, nei termini che si sono esposti, il fatto storico oggetto di discussione delle parti, e decisivo per il giudizio, che il giudice del merito aveva mancato di esaminare. Ed è il caso di sottolineare, al riguardo, che la norma richiamata fa riferimento al “fatto” e quest’ultimo non può considerarsi equivalente a “questione” o “argomentazione”, dovendo piuttosto identificarsi in un preciso accadimento ovvero in una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico (così Cass. 8 ottobre 2014, n. 21152, con riferimento al testo dell’art. 360, n. 5, nella precedente formulazione, risultante dal D.Lgs. n. 40 del 2006).
Il terzo ed ultimo motivo ha ad oggetto sia la violazione della L. n. 898 del 1970, art. 12 bis, che l’omessa o insufficiente motivazione quanto al calcolo della quota del trattamento di fine rapporto spettante a M.F..
Rileva il ricorrente che la Corte di appello era incorsa in violazione di legge laddove aveva quantificato l’importo dovuto per il titolo indicato nella somma di Euro 47.389,62; deduce, altresì, che sul punto la sentenza era carente di motivazione, non avendo essa esplicitato le ragioni della decisione e i criteri di calcolo impiegati per arrivare al risultato ottenuto; evidenzia, infine, che la liquidazione della quota dell’indennità di fine rapporto doveva essere ragguagliata alla somma effettivamente percepita dal coniuge beneficiario e che la Corte distrettuale aveva mancato di prendere in considerazione la documentazione prodotta dallo stesso ricorrente, da cui risultava che l’importo quietanzato di Euro 177.711,09 era stato assoggettato a tassazione per Euro 36.460,00.
Nemmeno sul punto la sentenza merita cassazione.
La Corte bresciana ha spiegato che la base su cui calcolare la percentuale di cui all’art. 12 bis cit. era costituita dall’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge all’atto della cessazione del rapporto stesso, onde la somma dovuta andava determinata in ragione del 40% dell’indennità totale percepita alla fine del rapporto di lavoro, assumendo come riferimento gli anni in cui il rapporto di lavoro era coinciso con il matrimonio.
È da escludere, dunque, che la Corte territoriale abbia mancato di esporre il procedimento di calcolo dell’importo spettante. Il criterio adottato, poi, è pienamente rispondente a quanto prescritto dall’art. 12 bis cit..
Per quanto attiene alla tassazione, la Corte di appello ha tenuto specificamente conto di essa, come risulta confermato dal fatto che il calcolo dell’indennità è stato operato partendo dalla somma di Euro 177.711,09, “già detratte le ritenute fiscali” (pag. 21 della sentenza). La denunciata mancata valutazione della prova documentale indicata, del resto – e come si visto – non è sufficiente ad integrare l’omesso esame del fatto decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.
Oltretutto, la censura è carente di autosufficienza, dal momento che la quietanza di cui è parola a pag. 32 del ricorso non è trascritta nel corpo del motivo.
In conclusione, il ricorso deve essere respinto.
Le spese di giudizio seguono la soccombenza.
Si dà atto dell’obbligo della parte ricorrente di procedere, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna parte ricorrente al pagamento delle spese processuali, liquidate in Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali e oneri di legge; dà atto che ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, parte ricorrente è tenuta al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Prima Civile, il 17 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 8 febbraio 2017