Cass. civ. Sez. V, (ud. 18-06-2003) 06-05-2004, n. 8625

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FAVARA Ugo – Presidente –

Dott. CICALA Mario – Consigliere –

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere –

Dott. BIELLI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. CULTRERA Maria Rosaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

s.n.c. A.R. di R.G. & C., con sede a Campobasso, in persona dell’amministratore unico G.R., elettivamente domiciliata in Roma, via xxx, presso l’avv. Giuseppe Petrucciani, rappresentata e difesa, per procura a margine del ricorso, dagli avvocati Angelo Cima e Pietro Colucci del foro di Campobasso;

– ricorrente –

contro

Comune di Campobasso;

– intimato non costituito –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Molise n. 184/2/99 dell’8 aprile 1999, depositata l’8 giugno 1999, notificata il 6 luglio 1999.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica Udienza del 18 giugno 2003 dal Relatore Consigliere Dott. Stefano Bielli;

Udito il P.M. in persona del sostituto Procuratore Generale Dott. Umberto De Augustinis, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1. Con avviso di accertamento emesso il 22 dicembre 1995, il Comune di Campobasso rettificava, per il 1990 (richiedendone il maggiore importo, con le correlative sanzioni pecuniarie), l’Imposta comunale per l’esercizio di imprese, arti e professioni (ICIAP) a carico della s.n.c. A.R. di R.G. & C., modificando da mq. 72, 50 a mq. 200 la superficie denunciata il 27 giugno 1960 dalla contribuente come utilizzata per lo svolgimento dell’attività di concessionaria F. (in via xxx).

2. Con sentenza n. 203/3/1996 del 30 ottobre 1996, depositata l’11 gennaio 1997, la Commissione tributaria provinciale di Campobasso respingeva il ricorso proposto dalla s.n.c., contro l’avviso.

3. La società impugnava tale decisione, affermando di aver utilizzato dal 1991 un locale di mq. 126, sito in contrada xxx, mentre il locale di mq. 220, sito in via xxx, era rimasto inutilizzato per il 1990 e per il 1991 (per fitto a terzi, ristrutturazione e per essere stata iniziata in esso – dalla società – l’attività di vendita di autovetture solo dall’11 marzo 1991) ed osservando che il presupposto dell’ICIAP era l’effettivo utilizzo dei locali e non già, come invece, per la TARSU, il loro mero possesso.

con sentenza n. 184/2/99 dell’8 aprile 1999, depositata l’8 giugno 1999 e notificata il 6 luglio 1999, la Commissione tributaria regionale del Molise, in parziale riforma della predetta sentenza, appellata dalla contribuente, annullava le sanzioni pecuniarie indicate nell’avviso di accertamento e compensava le spese di lite, osservando: a) che il Comune, già nel corso del giudizio di primo grado, aveva dimostrato che l’accertamento della maggiore superficie era basato su elementi certi, tratti dalla dichiarazione della stessa contribuente ai fini della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani per il 1990, relativa ad un locale di mq. 220 (superficie indicata nell’avviso ICIAP limitatamente a mq. 200) destinato ad attività commerciale, tali da smentire l’assunto della società di aver utilizzato la maggiore superficie solo a partire dal 1992; b) che, a prescindere dai diversi criteri ispiratori della TARSU e dell’ICIAP, appariva difficile che, relativamente alla stessa attività, fosse stata dichiarata dalla società una superficie diversa; c) che, pertanto, ricorrevano le condizioni per l’assoggettamento al tributo, secondo quanto indicato nell’avviso; d) che le modifiche normative concernenti i tributi locali e le oggettive difficoltà per i contribuenti di far fronte ai molteplici obblighi a loro carico giustificavano la decisione di non applicare le sanzioni.

4. Con ricorso notificato il 16 settembre 1999 e depositato il 29 settembre 1999, la s.n.c. A.R. di R.G. & C. ricorre per Cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, articolando quattro motivi.

5. Non si costituisce in giudizio l’intimato Comune di Campobasso.

Motivi della decisione
1. Con i proposti motivi di impugnazione, la società ricorrente complessivamente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1 e 4 della l. n. 144 del 1989, 62 del d. lgs. n. 507 del 1993; lamenta l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza su punti decisivi della controversia; si duole della carenza di motivazione “degli atti impositivi”.

2. Più in particolare, con il primo motivo, la contribuente ripropone, sotto il profilo della violazione di legge, l’assunto, già prospettato in appello, secondo cui, per l’applicazione dell’ICIAP, la superficie deve essere utilizzata per lo svolgimento di un’attività imprenditoriale, artistica o professionale (insediamento), mentre per l’applicazione della TARSU è sufficiente “l’occupazione o la detenzione di locali ed aree scoperte, a qualsiasi uso adibite” (art. 49 del d.lgs. n. 22 del 1997, come modificato dall’art. 1, comma 28, della l. n. 426 del 1998).

3. Il motivo è infondato, perché la ratio decidendi della sentenza non si basa sull’irrilevanza del modo di utilizzazione dei locali in questione, ma sull’accertamento, in punto di fatto, dell’esistenza, in essi, di un insediamento produttivo (“destinazione ad attività commerciale”).

Mentre la ricorrente afferma che il locale di mq. 220, nel 1990, non era adibito ad attività commerciale, la sentenza impugnata asserisce che nei locali della s.n.c. veniva svolta la “stessa attività” e che, in particolare, il locale di mq. 220 aveva una “destinazione ad attività commerciale”: la dichiarazione della contribuente, ai fini TARSU, relativa ad una superficie di mq. 220, viene richiamata nella sentenza di appello solo per dimostrare che l’entità della superficie (utilizzata – come affermato dal giudice regionale – per la “stessa attività”) non poteva essere diversa.

Si è dunque in presenza di un insindacabile accertamento in fatto del giudice merito, non già della denunciata violazione di legge.

4. Con il secondo motivo, la ricorrente si duole dell’insufficiente e contraddittoria motivazione della sentenza, in quanto questa non avrebbe fornito risposta in ordine alla contestazione dell’equiparazione dei presupposti della TARSU e dell’ICIAP.

5. Il motivo è infondato, perché non attiene al vizio di motivazione circa l’accertamento (in punto di fatto) dell’attività commerciale svolta nel locale di via xxx, ma solo all’asserita erronea equiparazione dei presupposti dei due tributi. Come già osservato nel p. 3.-, il giudice di appello ha deciso sulla base del non censurato rilievo che nel locale di via xxx veniva esercitata attività commerciale, con conseguente applicabilità dell’ICIAP, senza prospettare alcuna equiparazione dei presupposti dell’ICIAP e della TARSU “a prescindere dai diversi criteri ispiratori dei due tributi”).

6. Con il terzo motivo, la società lamenta il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento impugnato.

7. Il motivo è inammissibile, perché non prospettato in appello (v. il p. 3. – della parte narrativa di questa sentenza, nel quale sono riassunti i motivi di appello).

8. Con il quarto motivo, viene denunciata la nullità della notifica della sentenza della commissione regionale, perché eseguita dal messo comunale, senza l’autorizzazione del Presidente del Tribunale.

9. Il motivo è inammissibile per carenza di interesse, avendo la società proposto tempestivo ricorso in relazione alla data dell’asseritamente nulla notificazione, dimostrando di aver ricevuto la comunicazione dell’atto e di averne preso piena cognizione, difendendosi nel merito: di qui l’irrilevanza della censura. Al riguardo è qui sufficiente ricordare che la notificazione di un atto processuale eseguita dal messo comunale senza la specifica autorizzazione del Presidente del tribunale, prevista dall’art. 34 del d.P.R. n. 1229 del 1959, come modificato dalla l. n. 546 del 1962, è affetta da nullità e non da inesistenza, con la conseguenza che è sanabile non solo a seguito della costituzione in giudizio della parte, ma anche in ogni altro caso in cui sia raggiunta la prova dell’avvenuta comunicazione dell’atto al notificato (v., tra le altre, Cass., n. 9395 del 1995; n. 1585 del 1996; n. 770 del 1999).

10. La mancata costituzione dell’intimato esclude ogni pronuncia sulle spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 18 giugno 2003.

Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2004.


Cass. civ. Sez. I, (ud. 13-01-2004) 06-04-2004, n. 6761

La s.r.l. A. proponeva opposizione avverso la sentenza, resa il 20 luglio 1995, con cui il Tribunale di Bologna ne aveva dichiarato d’ufficio il fallimento. In particolare, l’opponente deduceva la nullità della notifica del decreto di convocazione in Camera di consiglio a, nel merito, l’insussistenza dello stato di insolvenza. Quanto al primo punto, che interessa in questa sede, l’opponente esponeva che essa aveva sede in Bologna via C. con numero civico originariamente contrassegnato con il n. 1. e successivamente, a seguito di una variazione di numerazione intervenuta in data 15 maggio 1995, con il n. 15/A; che il suo amministratore, D.R., era residente nella stessa via C. al n. 1.; che l’ufficiale giudiziario nella relata concernente il tentativo di notifica effettuato il 17 maggio 1995 aveva attestato che la s.r.l. A. ed il suo amministratore non risultavano conosciuti al numero civico 1. di via C.; che, pertanto, l’ufficiale giudiziario non aveva usato la diligenza ordinaria per rinvenire i destinatari delle notifiche e la relata doveva ritenersi falsa laddove aveva fatto menzione di ricerche svolte e di informazioni assunta.

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione I

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Angelo GRIECO – Presidente

Dott. Ugo Riccardo PANEBIANCO – Consigliere

Dott. Donato PLENTEDA – Consigliere

Dott. Carlo PICCININNI – Consigliere

Dott. Sergio DI AMATO – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

Sentenza

sul ricorso proposto da:

FALLIMENTO A. S.R.L. in persona del Curatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DELLE MILIZIE 1 presso l’avvocato PIETRO SCIUBBA che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALFREDO ROSSI, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

A. S.R.L., in persona dell’Amministratore Unico pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA LUNGOTEVERE FLAMINIO 76, presso l’avvocato ANTONELLA FAIETA, rappresentata e difesa dagli avvocati FAUSTO PACIFICO, FRANCESCO GASPARDINI, LORENZO GIUSTO, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sent. n. 1029/00 della Corte d’Appello di BOLOGNA, depositata il 27 luglio 2000;

udita la relazione dalla causa svolta nella pubblica udienza del 13 gennaio 2004 dal Consigliere Dott. Sergio DI AMATO;

udito il p.m. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La s.r.l. A. proponeva opposizione avverso la sentenza, resa il 20 luglio 1995, con cui il Tribunale di Bologna ne aveva dichiarato d’ufficio il fallimento. In particolare, l’opponente deduceva la nullità della notifica del decreto di convocazione in Camera di consiglio a, nel merito, l’insussistenza dello stato di insolvenza. Quanto al primo punto, che interessa in questa sede, l’opponente esponeva che essa aveva sede in Bologna via C. con numero civico originariamente contrassegnato con il n. 1. e successivamente, a seguito di una variazione di numerazione intervenuta in data 15 maggio 1995, con il n. 15/A; che il suo amministratore, D.R., era residente nella stessa via C. al n. 1.; che l’ufficiale giudiziario nella relata concernente il tentativo di notifica effettuato il 17 maggio 1995 aveva attestato che la s.r.l. A. ed il suo amministratore non risultavano conosciuti al numero civico 1. di via C.; che, pertanto, l’ufficiale giudiziario non aveva usato la diligenza ordinaria per rinvenire i destinatari delle notifiche e la relata doveva ritenersi falsa laddove aveva fatto menzione di ricerche svolte e di informazioni assunta.

Il fallimento si costituiva contestando la fondatezza dell’opposizione. Nel corso del giudizio di primo grado la società opponente impugnava con querela di falso la relata di notifica.

Il Tribunale di Bologna, con sentenza del 15 luglio 1998, rigettava sia l’opposizione che la querela di falso e, per quanto qui ancora interessa, osservava: 1) che la sede legale della s.r.l. A. doveva identificarsi con la residenza del suo amministratore e che entrambe, dalle certificazioni pubbliche, risultavano al n. 19 di via C.; 2) che, pertanto, o la società e l’amministratore avevano effettivamente sede e residenza al n. 1. oppure la società, indipendentemente dalla numerazione successivamente attribuita dal Comune, aveva sede in uno dei locali (un magazzino ed un’autorimessa) cui si accedeva dal cancello, originariamente senza numero, adiacente al n. 19; 3) che in questa seconda ipotesi, di fatto riconducibile alla tesi dell’opponente, vi era una discrasia tra situazione reale e situazione resa conoscibile ai terzi, senza che vi fosse la prova dell’esistenza in loco di indicazioni idonee a consentire il reperimento degli interessati; 4) che non vi era prova che l’ufficiale giudiziario non avesse svolto adeguati accertamenti e che nella situazione descritta non si poteva ritenere che l’ufficiale giudiziario fosse tenuto ad una sistematica interrogazione di tutti i vicini.

Avverso detta sentenza la s.r.l. A. proponeva appello che la Corte di Bologna accoglieva, con sentenza del 27 luglio 2000, osservando che: 1) era infondata l’eccezione sollevata dal fallimento di inammissibilità dell’appello per mancata indicazione degli specifici motivi di gravame correlati alla motivazione della sentenza impugnata; infatti, nella specie la riproposizione di difese analoghe a quelle svolte nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado si convertiva nella specifica esposizione delle doglianze svolte dalla parte soccombente nei confronti della sentenza che non aveva accolto la prospettazione dell’opponente; in particolare, affermando che l’ufficiale giudiziario non si trovava nell’impossibilità di individuare sede della società e residenza dell’amministratore, l’appellante aveva contestato la fondatala dalla argomentazione dal primo giudice in ordine alla assenza dalla indicazione dei nominativi ed al mancato assolvimento dell’onere di far coincidere la situazione di fatto con quella dichiarata o almeno, nel caso di una qualche discrasia, di porre in essere gli accorgimenti per ovviarvi; 2) non costituiva domanda nuova, come assunto dal fallimento, la deduzione della nullità della notificazione per genericità della relazione dell’ufficiale giudiziario; infatti, l’atto di citazione evidenziava i medesimi motivi di nullità della notificazione dedotti con l’appello e nelle conclusioni finali del giudizio di primo grado, assunte all’udienza del 2 aprile 1998, l’opponente aveva insistito nella dichiarazione di nullità della sentenza per violazione del diritto di difesa del debitore, richiamando in tal modo anche i motivi di nullità esposti originariamente; 3) quanto alla nullità della notificazione, indipendentemente dalla questione della coincidenza o meno della sede dalla società e della residenza dell’amministratore, era certo che entrambe non avevano subito variazioni così come non era cambiata la situazione reale dei luoghi che rendeva evidente come l’area cortilizia, alla quale era stata attribuita una autonoma numerazione, fosse comunque annessa all’edificio contrassegnato con il n. 1.; 4) in tale situazione non poteva sostenersi che fosse onere della società o del suo amministratore attuare una qualche comunicazione ai terzi, considerato anche che società ed amministratore erano rimasti rintracciabili nei medesimi luoghi in cui si trovavano da anni, come era dimostrato da numerose notifiche andata a buon fine sia prima che dopo l’omessa notifica del 17 maggio 1995 (compresa la notificazione della sentenza dichiarativa di fallimento ad opera dello stesso ufficiale giudiziario); 5) in tale situazione, infine, si doveva ritenere generica ed insufficiente la relazione dell’ufficiale giudiziario che nell’occasione si era limitato ad attestare che “da informazioni e ricerche assunte in loco” il destinatario non risultava conosciuto al civico indicato, senza fornire ulteriori precisazioni tali da consentire il necessario controllo sulla completezza delle notizie effettivamente raccolte e sulla regolarità del procedimento ed evidenziando, anzi, che nessuna ricerca anagrafica era stata effettuata presso il Comune; 6) in contrario non assumeva rilievo la circostanza, del resto neppure provata in modo certo, che i nominativi della società e del suo amministratore non figurassero dinanzi alla porta di ingresso dello stabile di via C. e neppure dinanzi al cancello dell’area cortilizia, atteso che tale circostanza non escludeva, comunque, la possibilità dall’ufficiale giudiziario di accertare, tramite una più attenta ricerca, che la società ed il suo amministratore avevano ivi la propria sede ed il proprio domicilio. Pertanto, la Corte di Bologna, ritenuta la nullità della successiva notificazione effettuata ai sensi dell’art. 143 c.p.c., dichiarava la nullità della sentenza di fallimento della s.r.l. A..

Avverso detta sentenza il fallimento della s.r.l. A. propone ricorso per Cassazione, deducendo cinque motivi. La s.r.l. A. resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Con il primo motivo il fallimento ricorrente lamenta la violazione dell’art. 342 c.p.c. ed il vizio di motivazione, deducendo che la riproposizione di difese analoghe a quelle svolte nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado era motivo di inammissibilità dell’appello per mancanza di adeguate critiche alla motivazione della sentenza impugnata; la Corte di appello, inoltre, non aveva spiegato perché la riproposizione delle difese si convertisse nella specifica esposizione delle doglianze né aveva indicato i punti di correlazione tra l’appello e la sentenza.

Il motivo è infondato. In tema di giudizio di appello, la ricorrenza dalla specificità dei motivi non può essere definita in via generala ed assoluta, ma va correlata con la motivazione della sentenza impugnata e deve ritenersi sussistente quando alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengono contrapposte quelle dell’appellato in modo da incrinare il fondamento logico – giuridico delle prime, come nell’ipotesi in cui l’appellante, pur non procedendo all’esplicito esame dei passaggi argomentativi della sentenza, svolga i motivi di appello in modo incompatibile con la complessiva argomentazione della decisione impugnata; infatti, l’esame dei singoli passaggi argomentativi e inutile, una volta che l’appellante abbia esposto argomentazioni incompatibili con le stesse premesse del ragionamento della sentenza impugnata (cfr. Cass. 23 ottobre 2003, n. 15936). Pertanto, riproponendo il rilievo di un domicilio e di una sede legale che non avevano subito modificazioni, se non una nuova numerazione accertabile con ricerche anagrafiche, e di una documentata rintracciabilità che era rimasta ferma nel tempo, l’appellante aveva contestato chiaramente le stesse premesse del ragionamento del primo giudice, secondo il quale sussisteva una discrasia tra risultanze legali e situazione di fatto che rendeva necessaria la presenza in loco di indicazioni per consentire di rintracciare i destinatari.

Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 345 c.p.c. nonché il vizio di motivazione, lamentando che la Corte di merito aveva escluso la novità della domanda di nullità della notificazione per genericità della relata, senza tenere conto del tenore delle conclusioni assunte in primo grado, con le quali era stata chiesta la dichiarazione di falsità delle affermazioni contenute nella stessa relata.

Il motivo e infondato. La Corte di merito, contrariamente a quanto assume il fallimento ricorrente, ha espressamente preso in considerazione le conclusioni della s.r.l. A. nel giudizio di primo grado e le ha confrontate con le conclusioni dell’atto di citazione, affermando, con motivazione immune di vizi logici e giuridici, che l’accertamento della nullità della notificazione non poteva ritenersi abbandonato considerato che lo stesso era compreso nell’onnicomprensiva richiesta di declaratoria della nullità della sentenza dichiarativa di fallimento per violazione dei diritti di difesa.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., lamentando che la Corte di merito aveva disatteso il giudicato formatosi sull’accertamento della sede della società, che la sentenza di primo grado aveva individuato in via C.1. presso l’abitazione dell’amministratore.

Il motivo e infondato. La Corte di merito, come riferito in narrativa, ha espressamente affermato l’indifferenza della pretesa coincidenza tra il domicilio dell’amministratore e la sede della società ed ha fondato la decisione sulla insufficienza e genericità delle indagini che, sulla base della relata di notifica, l’ufficiale giudiziario risultava avere svolto in una situazione nella quale era stata dimostrata la reperibilità dei destinatari all’indirizzo indicato. Il motivo, pertanto, non coglie la ratio decidendi.

Con il quarto motivo il ricorrente deduce violazione degli art. 2475 c.c. n. 2, art. 2383 c.c., quarto comma, come richiamato dall’art. 2487 c.c., secondo comma, e art. 2193 c.c., lamentando che erroneamente la Corte di appello aveva ritenuto che l’ufficiale giudiziario fosse tenuto ad effettuare ricerche presso l’ufficio anagrafico e non fossero sufficienti le ricerche presso la sede della società ed il domicilio dell’amministratore risultanti dal registro delle imprese; inoltre, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2697 c.c., affermando che l’onere di provare l’esistenza di indicazioni atte a rintracciare la società e l’amministratore destinatari dalle notifichi doveva ritenersi a carico di chi ne sosteneva la nullità.

Il motivo e infondato. Il passaggio dalla notifica presso la sede della società ovvero, ove ciò non sia possibile, presso il domicilio del suo amministratore alla notifica prevista dall’art. 143 c.p.c. (Cass. s.u. 4 giugno 2002, n. 8091) presuppone che la società ed il suo amministratore non siano reperibili rispettivamente presso la sede risultante dal registro delle imprese e presso il domicilio anagrafico. La sussistenza del predetto presupposto di irreperibilità può ricorrere anche in una situazione nella quale, come nella specie, nel corso del giudizio si accerti che la società ed il suo amministratore siano stati in concreto rintracciati in altre precedenti e successive occasioni rispettivamente presso la sede risultante dal registro delle imprese e presso la residenza anagrafica; ciò, tuttavia, richiede che l’ufficiale giudiziario abbia svolto ricerche e chiesto informazioni in nodo adeguato, così da consentire di presumere che i diversi esiti di altre notificazioni siano riconducibili non ad una doverosa e diligente attività di ricerca dei destinatari, ma a circostanze fortunate non sempre ripetibili; inoltre, 4 necessario che, come previsto dall’art. 148 c.p.c., di detta attività si dia atto specificamente nella relazione di notifica. Pertanto, esattamente la Corta di appello ha ritenuto insuscettibile di valutazione, al fine di ritenere l’irreperibilità, l’attività di ricerca risultante da una relazione nella quale l’ufficiale giudiziario si limiti a riferire che “da informazioni e ricerche assunte in loco” il destinatario non risultava conosciuto al civico indicato; infatti, il generico tenore della relazione non consente di avere contezza dell’attività in concreto svolta né di verificare che siano state svolte le indagini e raccolte le informazioni che la situazione consentiva (Cass. 28 marzo 1987, n. 3025).

In tale situazione, inoltre, la Corte di merito ha esattamente ritenuto assorbita ogni questione in ordine alla pretesa assenza di indicazioni utili a rintracciare i destinatari. Infatti, l’indicazione del nome o della denominazione sociale sui citofoni o sulla cassetta postale o in altro modo non è oggetto di un obbligo di legge (Cass. 16 luglio 2003, n. 11138) e rappresenta soltanto un onere configurabile quando la situazione dei luoghi non consente di rintracciare il destinatario, malgrado doverose e diligenti ricerche sul posto. Proprio tale presupposto, tuttavia, è risultato mancante nella fattispecie, caratterizzata, da un lato, da un contesto in cui la sede ed il domicilio dei destinatari sono rimasti stabili e altre notifichi, in momenti precedenti e successivi, sono andate a buon fine e, dall’altro, dalla genericità delle ricerche attestate dall’ufficiale giudiziario.

Con il quinto motivo il ricorrente deduce la violazione degli art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c. per non avere tenuto presente, ai fini della decisione, il passaggio in giudicato della sentenza di primo grado relativamente al rigetto della querela di falso; da ciò, infatti, discendeva l’incontestabilità tra le parti della veridicità della relata di notifica laddove l’ufficiale giudiziario aveva affermato che “da informazioni assunte e ricerche esperite in loco” i destinatari non risultavano conosciuti al civico indicato. Pertanto, in violazione del giudicato la Corte di appello aveva affermato che la “relata … era del tutto insufficiente”.

Il motivo è infondato. Il giudicato sulla querela di falso se rende incontestabile la veridicità dall’affermazione che sulla base delle informazioni assunte e delle ricerche esperite l’ufficiale giudiziario non aveva potuto rintracciare i destinatari, non pregiudica alcuna valutazione sulla sufficienza e specificità di tali ricerche ed informazioni.

Soccorrono giusti motivi per compensare le spese di giudizio.

P.Q.M.
rigetta il ricorso; compensa le spese di giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 13 gennaio 2004.

Depositato in Cancelleria il 6 aprile 2004


Cass. civ. Sez. I, (ud. 23-06-2003) 02-12-2003, n. 18385

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione I

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Antonio SAGGIO – Presidente

Dott. Vincenzo PROTO – Consigliere

Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI – Consigliere

Dott. Francesco FELICETTI – Consigliere

Dott. Onofrio FITTIPALDI – Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MANCINI ORAZIO, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA SALLUSTIO 9, presso l’avvocato BARTOLO SPALLINA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO LOMBARDI, giusta procura speciale per Notaio Mario Iannella di Benevento, rep. n. 269097 dell’8 agosto 2000;

– ricorrente –

contro

MANCINI FELICE, MANCINI GIOCONDINA, elettivamente domiciliati in ROMA VIA BAIAMONTI 4, presso l’avvocato LUIGI BARULLI, rappresentati e difesi dall’avvocato GIOVANNI GRASSI, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sent. n. 339/00 del Tribunale di BENEVENTO, depositata il 26 aprile 2000;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23 giugno 2003 dal Consigliere Dott. Onofrio FITTIPALDI;

udito per il ricorrente l’Avvocato Spallina che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato Grassi che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele PALMIERI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato, ai sensi dell’art. 143 c.p.c. il 19 dicembre 1995, il sig. Mancini Orazio conveniva, innanzi al Pretore di Benevento, i signori Mancini Felice e Mancini Giocondina, chiedendo che fossero riconosciuti il suo diritto di proprietà su di una serie di beni immobili, per avvenuta usucapione degli stessi, e la concomitante invalidità dell’atto per notaio Iazzeolla del 9 marzo 1995 con il quale i convenuti risultavano avere acquistato, dai precedenti proprietari, i beni in questione.

Il Pretore, ritenuta la contumacia dei non costituitisi convenuti, con sentenza del 20 gennaio 1999, rigettata, per carenza di legittimazione attiva, la domanda di dichiarazione di invalidità, accoglieva l’altra domanda relativa alla usucapione.

Proponevano appello, con atto notificato il 22 febbraio 1999, il Mancini Felice e Mancini Giocondina, eccependo la nullità della notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, per l’essere esso stato notificato ai sensi dell’art. 143 c.p.c., nonché contestando nel merito il fondamento dell’accolta domanda e quindi concludendo, in via principale, perché, previa dichiarazione della nullità della notifica dell’atto introduttivo di I grado, gli atti fossero rimessi al primo giudice, ed, in via gradata, perché venisse rigettata nel merito la domanda del Mancini Orazio.

Allo scopo chiedevano, fra l’altro, interrogatorio formale diretto a dimostrare che l’appellato – a loro dire – ben conosceva la circostanza che essi si erano trasferiti in Canada.

Resisteva il Mancini Orazio.

Il Tribunale, dopo alcuni provvedimenti rivolti ad assicurare l’integrità del contraddittorio nei confronti della Mancini Giocondina, accoglieva il gravame, rilevando:

a) come la notifica di un atto giudiziario ai sensi dell’art. 143 c.p.c., in tanto può ritenersi legittimamente eseguita nei confronti di destinatario che si sia trasferito all’estero, in quanto la residenza, la dimora o il domicilio estero non risultino conosciuti e sussista l’oggettiva impossibilità della loro individuazione, malgrado l’esperimento delle indagini suggerite, nel caso concreto, dalla comune diligenza, le quali debbono risultare dalla stessa relazione dell’ufficiale notificatore;

b) come, nella fattispecie risultassero effettuate relazioni di notifica negative solo con riguardo al comune di Casalduni nel quale i convenuti avevano eletto domicilio nell’atto di compravendita;

c) come nessuna ricerca risultasse invece effettuata in Pontelandolfo, luogo di ultima residenza dei destinatari, da parte dell’ufficiale notificatore;

d) come l’irreperibilità risultasse – conseguentemente – essere stata accertata esclusivamente in base ai certificati anagrafici rilasciati dal Comune;

e) come si rendesse pertanto configurabile la fattispecie della “ignoranza colpevole” (Cass. 3358/91); f) come la causa andasse pertanto rimessa al giudice di primo grado.

Ricorre per cassazione il Mancini Orazio sulla base di 1 motivo.

Resistono, con controricorso assistito da memoria, gli intimati.

Motivi della decisione
Con il suo motivo il ricorrente, nel dedurre “violazione e falsa applicazione dell’art. 143 c.p.c. – omessa e/o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia”, lamenta l’erroneità – a suo dire – dell’impugnata sentenza, posto che, risultando ignota la residenza all’estero dei due convenuti, e rendendosi pertanto impossibile il ricorso alle modalità di notificazione di cui all’art. 142 c.p.c., l’unica formalità di notifica praticabile nella fattispecie si era resa appunto quella nei fatti da esso Mancini seguita, ed operata ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

Il ricorrente pone più in particolare in luce, fra l’altro:

a) l’impossibilità di procedere a ricerche nel comune di Pontelandolfo – luogo di ultima residenza noto dei convenuti prima della loro cancellazione per irreperibilità al censimento del 1991 – una volta che il certificato anagrafico del suddetto comune li dava appunto – cancellati per irreperibilità;

b) il profilo per cui la diligenza nelle ricerche pretesa – in questi casi – dall’ordinamento sia pur sempre quella ordinaria (non comportando di certo essa l’onere di eseguire indagini straordinarie), e per cui essa, nella fattispecie concreta, si fosse già adeguatamente espressa, posto che esso Mancini si era preso cura di tentare la notifica nel domicilio contrattuale eletto in Casalduni;

c) l’ulteriore profilo per cui si rendesse pertanto del tutto illogica e perciò inesigibile, nella fattispecie concreta, pur di fronte ad una certificazione anagrafica del luogo di ultima residenza nota (Pontelandolfo), attestante l’irreperibilità della controparte, l’effettuazione di un preliminare tentativo di notifica proprio nel luogo di tale ultima residenza;

d) il fatto che il Tribunale di Benevento abbia del tutto omesso di considerare che, nella fattispecie, gli appellanti, comunque, nessuna prova avessero fornito della utilità in concreto di un tentativo di notifica eventualmente esperito in Pontelandolfo, ovvero della possibilità di conseguire, in quel luogo, attraverso i terzi, notizie ed informazioni circa la loro residenza all’estero.

Il motivo si rivela infondato e non può pertanto trovare alcun accoglimento.

Ed infatti, premesso come in fatto risulti incontestato (ed emerga, in ogni caso, anche dalla – consentita, dato il tipo di vizio lamentato – visione diretta degli atti processuali) come, in sede di notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, l’ufficiale giudiziario abbia fatto precedere le formalità di cui all’art. 143 c.p.c. (deposito dell’atto nella casa comunale di Pontelandolfo) dal solo tentativo di notifica compiuto in Casalduni (luogo di un domicilio eletto dai convenuti, in un contratto intercorso con terzi), va ribadito, ancora una volta, il principio già altre volte affermato da questa Suprema Corte, secondo cui il ricorso alle formalità di notifica di cui all’art. 143 c.p.c. non possa mai essere affidato alle mere risultanze di una certificazione anagrafica, ma presupponga comunque e sempre che, nel luogo di ultima residenza nota siano compiute effettive ricerche (per tutte, vedi, oltre alla richiamata Cass. 3358/91: Cass. n. 3799/97; Cass. n. 6257/97; Cass. n. 4399/2001) e che di esse l’ufficiale giudiziario dia espresso conto; il che equivale a dire che – quantomeno – in una fattispecie del genere, l’ufficiale giudiziario debba comunque preliminarmente concretamente accedere nel luogo di ultima residenza nota, al fine – fra l’altro – di attingere, anche nell’ipotesi di riscontrata assenza di addetti o incaricati alla ricezione della notifica, comunque eventuali notizie utili in ordine alla residenza attuale del destinatario della notificazione.

Va posto più in particolare in luce come, tutto il complesso di esigenze già sottolineate e poste in luce con la ben nota pronuncia delle Sezioni Unite di questa Suprema Corte n. 6737/2002 non possa ritenersi di certo soddisfatto attraverso il mero rinvio alle risultanze anagrafiche.

Il ricorso va pertanto rigettato,

Con condanna del ricorrente alla refusione delle spese di questa ulteriore fase, che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla refusione delle spese di questa fase in favore dei resistenti, che liquida in € 900,00 ciascuno per onorari ed in € 100,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Così deciso nella Camera di Consiglio della I Sezione civile della Suprema corte di Cassazione il 23 giugno 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 2 DIC. 2003


Cass. civ. Sez. V, (ud. 11-03-2003) 28-10-2003, n. 16164

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione V

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Francesco Cristarella ORESTANO – Presidente

Dott. Mario CICALA – Consigliere

Dott. Michele D’ALONZO – Consigliere

Dott. Stefano SCHIRÒ – Cons. Rel.

Dott. Francesco Antonio GENOVESE – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ISENI MARIO, elettivamente domiciliato in Roma, via della Mercede 52, presso l’avv. Mario Menghini, che lo rappresenta e difende unitamente all’avv. Gianpaolo Alice, del Foro di Biella, per procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

AMMINISTRAZIONE DELLE FINANZE, in persona del Ministro delle finanze “pro tempore”;

– intimata –

avverso la sent. n. 144/22/98 della Commissione tributaria regionale del Piemonte, Sezione n. 22, depositata il 28 dicembre 1998;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza in data 11 marzo 2003 dal relatore, cons. Stefano Schirò;

udito l’avv. Gianpaolo Alice per il ricorrente;

udito il Pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore generale, dott. Ennio Attilio Sepe, che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso presentato il 25 marzo 1996 alla Commissione tributaria di primo grado di Novara, Mario Iseni si opponeva agli avvisi di accertamento emessi dall’Ufficio delle imposte dirette di Borgomanero, con i quali erano stati rettificati i redditi d’impresa ai fini Irpef ed Ilor per gli anni 1988 e 1989.

Con tale ricorso il contribuente deduceva che:

1) la notificazione degli avvisi di accertamento era stata eseguita il 10 gennaio 1985 con consegna a mani di tale Ilaria Chiabotti, persona a lui del tutto sconosciuta e con la quale non aveva intrattenuto rapporto alcuno;

2) conseguentemente egli aveva avuto conoscenza degli avvisi di accertamento solo con la successiva notifica della cartella esattoriale, eseguita il 7 febbraio 1996.

Il contribuente chiedeva pertanto l’annullamento degli avvisi di accertamento o, in via subordinata, la riammissione in termini.

L’ufficio finanziario resisteva al ricorso, affermando che:

a – gli avvisi di accertamento erano stati notificati dal messo del Comune di San Maurizio d’Opaglio presso il domicilio del contribuente, in via Roma 104, secondo le disposizioni dell’art. 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600;

b – il messo comunale, non avendo trovato il contribuente presso la casa di abitazione, aveva consegnato la copia degli atti a persona addetta alla casa, a norma dell’art. 139, comma 2, c.p.c., mediante consegna a Ilaria Chiabotti, qualificatasi coadiuvante.

La Commissione tributaria provinciale di Novara accoglieva il ricorso, dichiarando l’illegittimità della notifica degli avvisi di accertamento e l’invalidità della successiva iscrizione a ruolo.

L’Ufficio proponeva appello davanti alla Commissione tributaria regionale del Piemonte, censurando la decisione impugnata per aver imputato all’amministrazione l’onere della prova in ordine alla veridicità di quanto attestato nella relata di notifica circa i rapporti intercorrenti tra il destinatario e il consegnatario dell’atto, incombendo invece al contribuente, destinatario dell’atto, dimostrare i fatti indicati a sostegno della dedotta illegittimità della notifica. Produceva inoltre rapporto del messo comunale che aveva effettuato la notifica, nel quale si confermava che la consegnataria Chiabotti si era qualificata come coadiuvante del destinatario Mario Iseni.

L’adita Commissione tributaria regionale, con sentenza del 28 dicembre 1998, accoglieva l’appello.

Ha proposto ricorso per cassazione l’Iseni sulla base di quattro motivi.

L’amministrazione finanziaria non si è costituita.

Motivi della decisione
Con il primo e il secondo motivo, da esaminare congiuntamente in quanto strettamente connessi, il ricorrente denuncia la nullità della sentenza impugnata per mancanza di motivazione, in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e in subordine il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto decisivo della controversia relativo alla regolarità della notificazione degli avvisi di accertamento, deducendo che la commissione regionale – nell’accogliere l’appello dell’Ufficio sulla base della seguente motivazione: “Questa Commissione Tributaria Regionale condivide pienamente le motivazioni dell’”appello dell’Ufficio e le ritiene interamente fondate. Pertanto le fa proprie e qui si intendono riportate a motivazione della riforma della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Novara” – ha aderito totalmente alle tesi sostenute dall’appellante, fornendo una motivazione apparente, inidonea a chiarire le ragioni poste a base della decisione.

I due motivi sono infondati.

In base all’art. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e all’art. 118 disp.att.c.p.c., la mancanza o l’estrema concisione della motivazione in diritto determinano la nullità della sentenza solo quando rendano impossibile l’individuazione dell’oggetto della decisione e delle ragioni poste a fondamento dei dispositivo. Tale principio è applicabile anche al nuovo rito tributario, come disciplinato dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, in forza del generale rinvio materiale alle norme del codice di rito compatibili (e dunque anche alle sue disposizioni di attuazione), contenuto nell’art. 1, comma 2, del citato decreto (Cass. 12 febbraio 2001, n. 1944. Cass. 12 marzo 2002, n. 3547).

Ricorre invece il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, denunciabile con ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, qualora nel ragionamento del giudice di merito sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili d’ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tali da non consentire l’identificazione del procedimento logico-giuridico posto a base della decisione (Cass. 31 marzo 2000, n. 3928. Cass. 14 febbraio 2003, n. 2222).

Alla luce dei criteri enunciati, non ricorrono nel caso di specie né la nullità della sentenza per totale mancanza di motivazione, né il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione.

Infatti la commissione regionale, diversamente da quanto sostenuto dal ricorrente, non ha acriticamente aderito alle tesi dell’ufficio genericamente richiamate, ma ha specificamente menzionato le argomentazioni in diritto svolte dall’appellante con i relativi richiami giurisprudenziali, con una meticolosità che ne presuppone l’implicita valutazione, e le ha fatte proprie, condividendole una ad una e ponendole a base della propria decisione, la quale pertanto risulta sorretta da adeguata motivazione in diritto in ordine a tutte le questioni giuridicamente rilevanti nella fattispecie.

Non può invero affermarsi la mancanza o l’insufficienza della motivazione solo perché le argomentazioni poste dal giudice a base della propria decisione coincidono con le prospettazioni di una delle parti, se il giudice tali prospettazioni di parte abbia esaminato, valutato e fatto proprie, recependole nella motivazione del provvedimento.

In particolare, la decisione qui impugnata è sorretta dalle seguenti argomentazioni specificamente enunciate:

1) la notificazione degli avvisi di accertamento è stata effettuata a persona addetta alla casa ai sensi dell’art. 139, comma 2, c.p.c.;

2) nessuna norma prevede che l’agente notificatore indaghi sulla veridicità delle dichiarazioni rese dal consegnatario in ordine al suo rapporto di famiglia o di lavoro con il destinatario;

3) è necessario invece che il notificatore trovi il consegnatario in uno dei luoghi indicati dall’art. 139 c.p.c. (abitazione, ufficio, azienda) e che lo stesso consegnatario si qualifiche come persona di famiglia o dipendente del destinatario.

4) la commissione provinciale ha erroneamente attribuito all’Ufficio l’onere della prova della asserita mancata notificazione, onere invece gravante sul contribuente che ha affermato di non aver ricevuto gli avvisi di accertamento;

5) è il contribuente, pertanto – posto che la dichiarazione, contenuta nella relata dell’atto, dell’avvenuta notificazione da parte dell’ufficiale notificatore fa prova fino a querela di falso -, che avrebbe dovuto dimostrare che, al momento della notifica, la Chiabotti non era presente nella sua abitazione o non si era qualificata al messo notificatore come addetta alla casa o comunque come persona abilitata a ricevere la notificazione;

6) l’Ufficio ha allegato all’atto di appello un rapporto redatto dal messo che ha effettuato la notifica di cui trattasi, nel quale si conferma che la consegnataria Chiabotti si è qualificata coadiuvante del destinatario Iseni.

Va rilevato infine che nessun vizio di contraddizione, peraltro neppure specificamente enunciato dal ricorrente, emerge dal collegamento logico degli elementi argomentativi indicati e fatti propri dalla commissione regionale.

Con il terzo motivo viene denunciata, in via ulteriormente subordinata., violazione e falsa applicazione dell’art. 139, comma 2, c.p.c., degli artt. 42, comma 1, e 60 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 60, e dell’art. 2697 c.c., nonché vizio di omessa e insufficiente motivazione.

Il contribuente deduce al riguardo che:

a – l’efficacia probatoria privilegiata della relata di notificazione non si estende al contenuto sostanziale delle dichiarazioni rese dalla consegnataria al notificatore e in particolare, per quel che qui rileva, in ordine alla situazione di convivenza (con il destinatario dell’atto), o alla qualifica di coadiuvante (dello stesso destinatario) riferite alla consegnataria medesima;

b – le dichiarazioni della consegnataria riportate nella relata di notifica possono pertanto essere oggetto di prova contraria da parte dell’interessato e non sono suscettibili di essere integrate da successive dichiarazioni del notificatore;

c – correttamente la sentenza di primo grado, preso atto della contestazione da parte del contribuente in ordine alla veridicità della qualifica di coadiuvante della consegnataria Chiabotti, aveva posto a carico del richiedente la notificazione la prova della effettiva sussistenza delle condizioni di regolarità della notificazione medesima, prova che non era stata fornita;

d – la figura del coadiuvante non è ricompresa tra quelle tipicamente previste dall’art. 139, comma 2, c.p.c. con riferimento alle persone, diverse dal destinatario, alle quali l’atto può essere consegnato e comunque, nella specie, alla notificazione non era seguita la spedizione a mezzo lettera raccomandata dell’avviso al destinatario dell’avvenuta notifica, come previsto dall’art. 139, comma 4, c.p.c.

La censura è infondata in quanto si pone in contrasto con i principi, elaborati dalla giurisprudenza, in tema di notificazione di un atto eseguita a mani di persona di famiglia o addetta alla casa, all’ufficio, o all’azienda.

Si è infatti ripetutamente affermato che, in caso di notificazione ai sensi dell’art. 139, comma 2, c.p.c., la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica, ma che incombe al destinatario dell’atto, che contesti la validità della notificazione, fornire la prova contraria (Cass. 24 luglio 1992, n. 8920; Cass. 13 aprile 2001, n. 5547) e in particolare allegare e provare l’inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario, comportante una delle qualità sopraindicate (Cass. 17 aprile 1996, n. 332, ord.), oppure la occasionalità della presenza del consegnatario (Cass. 26 maggio 1999, n. 5109).

Inoltre, sempre nell’ipotesi di notificazione eseguita ai sensi dell’art. 131 c.p.c., comma 2, non è necessario l’ulteriore adempimento dell’avviso al destinatario, a mezzo lettera raccomandata, dell’avvenuta notificazione, avviso invece previsto dal quarto comma del menzionato articolo solo in caso di notifica al portiere o al vicino di casa (Cass. 24 luglio 1992, n. 8920).

Quanto all’uso nella relata di notifica della qualifica di coadiuvante, riferita alla consegnataria, è da ritenere che l’espressione utilizzata sia equivalente a quella di addetta alla casa indicata nell’art. 139, comma 2, c.p.c., intendendo la norma far comunque riferimento a peculiari rapporti sostanziali, anche di natura provvisoria o precaria, tra consegnatario e destinatario dell’atto che, indipendentemente dall’espressione letterale utilizzata nella relata, facciano presumere che il secondo venga successivamente edotto dal primo dell’avvenuta notificazione (Cass. 17 aprile 1996, n. 332, ord.; Cass. 13 aprile 2001, n. 5547).

Con il quarto motivo il ricorrente denunzia l’invalidità della notificazione della sentenza impugnati, in quanto

a) effettuata senza indicazione del soggetto richiedente e senza identificazione del soggetto che ha ricevuto l’atto;

b) eseguita a mani della propria moglie e non al difensore costituito e nel domicilio eletto.

La doglianza è inammissibile per carenza d’interesse, atteso che la notifica del ricorso è stata comunque tempestivamente eseguita nel rispetto sia del termine breve, di cui all’art. 325, comma 2, c.p.c., decorrente dalla data di notificazione della sentenza impugnata, che di quello lungo, ai sensi dell’art. 327, comma 2, c.p.c., a decorrere dalla data di pubblicazione della medesima sentenza.

Il ricorso, privo di fondamento, va conseguentemente rigettato e nulla deve disporsi in ordine alle spese processuali, non essendosi costituita l’Amministrazione intimata.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, l’11 marzo 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 28 OTT. 2003


Cass. civ. Sez. V, (ud. 31-01-2003) 26-06-2003, n. 10189

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione Tributaria

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Ugo FAVARA – Presidente

Dott. Michele D’ALONZO – Consigliere

Dott. Stefano SCHIRÒ – Consigliere

Dott. Sergio DEL CORE – Rel. Consigliere

Dott. Guido RAIMONDI – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro “pro tempore”, domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende “ope legis”;

– ricorrente –

contro

CIAMPI ENNIO;

– intimato –

avverso la sent. n. 82/98 della Commissione tributaria regionale di FIRENZE, depositata il 20 luglio 1998;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 31 gennaio 2003 dal Consigliere Dott. Sergio DEL CORE;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato dello Stato GIACOBBE che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Ennio Attilio SEPE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Ennio Ciampi impugnò la cartella esattoriale in quanto non preceduta da rituale notifica dell’avviso di accertamento, mai portato a sua conoscenza e quindi non divenuto definitivo.

La Commissione tributaria di primo grado di Pisa, con sentenza del 26 ottobre 1995, accolse il ricorso, poiché dagli atti non risultava che fosse stata data notizia della affissione dell’avviso all’albo del Comune dell’ultima residenza, e la decisione, appellata dall’Ufficio, fu confermata dalla Commissione tributaria regionale della Toscana sulla base delle seguenti argomentazioni. Dalla documentazione in atti risultava che il Ciampi era emigrato da Pisa nel Comune di Fucecchio il 16 novembre 1991 sicché da tale data la procedura di notifica doveva essere quella prevista dall’art. 60, primo comma, lettera e), del D.P.R. n. 600 del 1973, con conseguente necessaria affissione dell’avviso del deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c. all’albo del comune dove il contribuente non aveva più abitazione.

Ricorre per cassazione l’Amministrazione in base a un unico motivo.

Non si difende l’intimato.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo l’Amministrazione denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., dell’art. 2697 c.c. e dell’art. 60, primo comma, lettera e), del D.P.R. n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma primo, n. 3 e n. 5. Le formalità previste dall’art. 60, comma 1, lettera e), del D.P.R. n. 600 del 1973 – si osserva – devono essere applicate soltanto nel caso in cui nel Comune dove deve eseguirsi la notifica non vi sia più né abitazione, né ufficio, né azienda del contribuente, cui incombe l’onere di provare la sussistenza di tale circostanza ostativa, non essendo a tal fine sufficiente il semplice cambio di residenza. Per altro verso, ai sensi del terzo comma del citato art. 60, le variazioni di residenza del contribuente hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica, nella specie intervenuta soltanto cinque giorni prima della notifica dell’avviso di accertamento, sicché correttamente erano state utilizzate le formalità previste dall’art. 140 c.p.c.

Il ricorso è sotto entrambi i profili fondato.

Per costante giurisprudenza di questa Corte, la notificazione dell’avviso di accertamento tributario deve essere effettuata applicando la disciplina di cui all’art. 140 c.p.c., quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma la notifica non sia avvenuta perché costui o altro possibile consegnatario non sia stato rinvenuto; deve essere effettuata, invece, applicando la disciplina di cui all’art. 60, lett. e), del D.P.R. 29 settembre 1973 n. 600, sostitutivo, per il procedimento tributario, dell’art. 143 c.p.c., quando non si conosca in quale comune risieda il destinatario (cfr. sentt. nn. 4587/1997, 4654/1997, 5100/1997, 10799/1999, 7268/2002).

Nella specie, dalla pur scarna motivazione della sentenza impugnata sembra incontestato in fatto che il messo notificatore, non avendo reperito il contribuente all’indirizzo indicato nell’atto notificando e corrispondente al domicilio fiscale da dove tuttavia non risultava sloggiato né trasferito altrove, esegui la notifica secondo le formalità prescritte dall’art. 140 c.p.c., che ha appunto riguardo al casi di momentanea irreperibilità del destinatario della notifica.

In tale situazione, il trasferimento del Grossi dal Comune di Pisa a quello di Fucecchio in data anteriore alla notifica dell’avviso di accertamento poteva rilevare solo provando il concorso di particolari circostanze positive o negative dalle quali poter ragionevolmente evincere che il notificante conosceva o avrebbe dovuto conoscere, usando l’ordinaria diligenza, l’avvenuto cambio di residenza.

Erronea è quindi l’affermazione contenuta in sentenza secondo cui sussisteva l’obbligo di seguire il procedimento notificatorio previsto dall’art. 60, comma primo, lett. e), del D.P.R. n. 600 del 1973 sol perché dagli accertamenti anagrafici era emerso che il Grosso era emigrato dal Comune di Pisa anteriormente alla notifica dell’avviso di accertamento.

Ma, come si è detto, la sentenza è errata anche per l’altro, dirimente profilo prospettato dall’Amministrazione ricorrente.

E’ noto che l’art. 60, comma primo, lett. e), del D.P.R. n. 600 del 1973 stabilisce che, quando nel comune nel quale deve eseguirsi la notificazione – e cioè nel comune di domicilio fiscale, corrispondente a quello in cui il contribuente persona fisica, destinatario dell’atto da notificare, risulta anagraficamente iscritto – non vi è abitazione, ufficio o azienda del contribuente, la notificazione dell’avviso o dell’atto è eseguita mediante deposito dell’atto stesso nella casa del comune di domicilio fiscale ed affissione dell’avviso di deposito nell’albo del comune medesimo e diviene produttiva di effetti, ai fini della decorrenza del termine per ricorrere, l’ottavo giorno successivo a quello di affissione.

E’ altrettanto noto, tuttavia, che ai sensi dell’ultimo comma dello stesso art. 60 del D.P.R. n. 600 del 1973, ai fini delle notificazioni, le cause di variazione del domicilio fiscale delle persone fisiche, se non risultanti dalla dichiarazione annuale, hanno effetto per l’Amministrazione finanziaria dal sessantesimo giorno successivo a quello in cui si sono verificate.

Nel caso in ispecie risulta dalla stessa sentenza impugnata che il contribuente emigrò da Pisa a Fucecchio in data 16 novembre 1991 e che l’avviso di accertamento venne notificato il successivo giorno 21.

Hanno errato pertanto i giudici tributari nel ritenere che l’avviso doveva essere notificato secondo la procedura notificatoria disciplinata dall’art. 60, comma primo, lettera e) del D.P.R. n. 600 del 1973 per il solo fatto che al momento della notifica era già avvenuta la variazione anagrafica. La necessità di effettuare la notifica non certo secondo il rito previsto dalla disposizione richiamata sarebbe conseguita semmai alta prova che era stato tempestivamente comunicato dal contribuente il cambiamento di residenza o che la notifica medesima era stata eseguita dopo il decorso del termine prescritto dalla riportata norma per la efficacia della variazione.

La sentenza va, quindi, cassata e, non essendovi accertamenti da svolgere, la causa può essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso introduttivo del contribuente.

Ricorrono giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta il ricorso introduttivo e compensa tra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma il 31 gennaio 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 26 GIU. 2003


Cass. civ. Sez. V, (ud. 21-01-2003) 23-06-2003, n. 9922

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione V

Composta dagli Ill.mi Signori Magistrati:

Dott. Stefano MONACI – Presidente

Dott. Giuseppe V.A. MAGNO – Cons. rel.

Dott. Simonetta SOTGIU – Consigliere

Dott. Giuseppe MARINUCCI – Consigliere

Dott. Maria Rosaria CULTRERA – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Paola Lefevre, elettivamente domiciliata in Roma, via Pompeo Magno, n. 1, presso l’Avvocato Giovanni Acampora, che la rappresenta e difende unitamente all’Avvocato Claudio Di Pietropaolo giusta procura speciale unita al ricorso

– ricorrente –

contro

Amministrazione finanziaria dello Stato, in persona del Ministro p.t.

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria centrale n. 2071/98, depositata il 22 aprile 1998;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21 gennaio 2003 dal Relatore Cons. Giuseppe Vito Antonio Magno;

udito, per la ricorrente, l’Avvocato Dario Andreoli, per delega;

udito il p.m., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Maurizio Velardi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con avviso di accertamento n. 904, notificato il 7 marzo 1981, l’ufficio distrettuale delle imposte dirette di Roma, sulla base d’indagini compiute dalla guardia di finanza, fissò il reddito netto prodotto nell’anno 1976 dalla signora Paola Lefevre nelle complessive somme di L. 4.645.000.000 ai fini dell’IRPEF (contro un reddito dichiarato di L. 3.450.000) e di L. 254.334.000 ai fini dell’ILOR, quale reddito di capitale.

La contribuente propose ricorso davanti alla commissione tributaria di primo grado di Roma nel marzo 1983, due anni dopo la notifica dell’accertamento, deducendo di non avere avuto tempestiva cognizione di tale notifica, effettuata col rito degli irreperibili ma senza invio della raccomandata al suo indirizzo reale, nel Principato di Monaco, e di avere avuto notizia dell’atto solo al momento di presentare la dichiarazione integrativa ai fini del condono fiscale concesso con legge 7 agosto 1982, n. 516.

La commissione tributaria di primo grado, con decisione 20 gennaio 1986, accogliendo il ricorso della contribuente, annullò l’accertamento nella parte eccedente la somma indicata con dichiarazione integrativa, avendo rilevato l’invalidità della notifica – erroneamente eseguita dal messo notificatore ai sensi dell’art. 143 c.p.c., anziché dell’art. 140 c.p.c., senza svolgere previe indagini anagrafiche – e quindi la non definitività dell’accertamento, confermata dal fatto che il tribunale penale di Roma, con sentenza 13 gennaio 1984, posteriore alla presentazione della dichiarazione integrativa da parte della Lefevre, le aveva applicato l’amnistia dai corrispondenti reati tributari, ai sensi del D.P.R. 22 febbraio 1983, n. 43.

L’appello proposto dall’ufficio, che sosteneva la ritualità della notifica dell’avviso di accertamento e, quindi, l’inammissibilità del ricorso presentato tardivamente in primo grado, fu respinto dalla commissione di secondo grado, per le stesse ragioni contenute nella decisione impugnata, non avendo l’ufficio, a giudizio di detta commissione, fornito prova del fatto che la notifica era stata ritualmente eseguita nei confronti di persona ritenuta irreperibile, dopo l’esperimento di adeguate indagini anagrafiche e con riferimento al domicilio fiscale dichiarato dalla contribuente nelle ultime denunzie dei redditi.

Il ricorso presentato dall’ufficio davanti alla commissione tributaria centrale fu da questa accolto con sentenza depositata il 22 aprile 1998, sul presupposto della ritualità della notifica dell’avviso di accertamento e della ininfluenza, su questo procedimento, della sentenza di amnistia pronunziata dal tribunale penale di Roma.

Per la cassazione di tale sentenza, Paola Lefevre propone tempestivo ricorso, consistente in un solo motivo, illustrato con successiva memoria, cui non resiste il ministero delle finanze.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo del ricorso si censura la sentenza della commissione tributaria centrale, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per violazione e falsa applicazione delle norme in materia di notifica degli atti di natura tributaria.

Sostiene, in particolare, la ricorrente che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata, l’obbligo, sussistente in base all’art. 140 c.p.c., di dare avviso con raccomandata diretta al destinatario del compimento delle operazioni di notifica non fu esattamente eseguito, perché tale raccomandata non fu indirizzata alla propria residenza effettiva all’estero (Principato di Monaco), benché detto indirizzo fosse noto all’ufficio, per avere all’epoca ella già proposto altro ricorso, con indicazione completa della nuova residenza, contro diverso avviso di accertamento; o potesse comunque essere facilmente conosciuto, essendo stato in precedenza comunicato all’anagrafe del comune di Roma: circostanze, queste, che la ricorrente si dice pronta a documentare, se autorizzata al deposito dei relativi atti, ai sensi dell’art. 372 c.p.c.

Ancor più in particolare, afferma che, essendo stata effettuata la notificazione di che trattasi nel 1981, oltre sessanta giorni dopo la variazione d’indirizzo anagrafico (8 aprile 1980), essa andava eseguita al nuovo domicilio, ai sensi dell’art. 60, comma 3, D.P.R. n. 600 del 1973, e cioè all’estero, tramite il console competente, sia personalmente e direttamente, a mezzo di raccomandata spedita dall’ufficio consolare, sia, in caso d’irreperibilità, mediante il rito della notifica agli irreperibili prescritto dalle disposizioni di procedura vigenti nel Principato di Monaco.

Tanto, nel rispetto della funzione propria della notificazione, mirante alla conoscenza effettiva, non meramente formale, dell’atto da parte del destinatario, in conformità a quanto stabilito dall’art. 6, legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente), ed all’instaurazione del regolare contraddittorio con pieno esercizio del diritto di difesa secondo principi generali dell’ordinamento ribaditi, riguardo al caso d’irreperibilità del soggetto, dalle sentenze n. 346/1998 C. cost. e n. 6737/02 S.U. di questa suprema corte.

La censura è infondata.

Rileva la commissione tributaria centrale, in base alle risultanze degli atti, che il messo notificatore, recatosi il 25 febbraio 1981 presso il domicilio fiscale della Lefevre, indicato nella dichiarazione dei redditi (via Archimede 153), apprese dal portiere che la contribuente si era trasferita altrove. Eseguite le debite ricerche presso l’anagrafe, accertò che ella abitava, dall’8 aprile 1980, nel Principato di Monaco; quindi effettuò la notifica nella casa comunale.

La procedura seguita dal messo notificatore, sopra descritta, è perfettamente regolare, come già ritenuto dal giudice “a quo”.

In effetti, l’articolo 60, D.P.R. n. 600 del 1973, prescrive che la notificazione degli avvisi e degli altri atti che, per legge, debbono essere portati a conoscenza del contribuente si esegue, bensì, ai sensi degli art. 137 c.p.c. e ss., ma con alcune varianti; in particolare, e per quanto qui interessa:

– la notifica deve essere effettuata, se non a mani proprie del destinatario, nel suo domicilio fiscale (art. 60 cit., lett. c), sito necessariamente in “un comune dello Stato”, che può essere quello di residenza anagrafica ovvero quello in cui è prodotto il reddito, se il contribuente persona fisica non risiede nel territorio dello Stato (articolo 58);

– se non v’è abitazione, ufficio o azienda del contribuente nel comune in cui deve essere eseguita la notificazione – cioè nel comune di domicilio fiscale l’avviso di deposito prescritto dall’art. 140 c.p.c. si affigge all’albo di tale comune, ed il termine per ricorrere decorre dall’ottavo giorno successivo a quello di tale affissione (articolo 60 cit., lett. e);

– fra l’altro, e per quanto qui interessa, le disposizioni ordinarie (art. 142 c.p.c.), relative alla notificazione a persona non residente né dimorante né domiciliata nella Repubblica, non si applicano in materia fiscale (norma cit., lett. f);

– i cambiamenti e le modificazioni dell’indirizzo (nel territorio dello stesso comune di domicilio fiscale: Cass. n. 4997/2001), non risultanti dalla dichiarazione annuale dei redditi (Cass. n. 1484/1998), hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione nei registri d’anagrafe (norma cit., ult. co.); il cambiamento del comune di domicilio fiscale ha effetto dal sessantesimo giorno successiva a quello in cui si verifica (articolo 58, ult. co.).

Dall’insieme dei criteri normativi sopra esposti risulta, innanzitutto, che la notifica dell’avviso di accertamento di cui si discute non poteva e non doveva essere eseguita all’estero, nelle forme consolari o in conformità alle procedure vigenti in loco, ostandovi la disposizione dell’articolo 60, lett. f), D.P.R. n. 600 del 1973.

È certo, in secondo luogo, che il domicilio fiscale della Lefevre, in cui la notificazione dell’avviso doveva essere necessariamente eseguita (art. 60 cit., lett. c), non potendo essere all’estero giacché “ogni soggetto si intende domiciliato in un comune dello Stato” (articolo 58, comma 1), era esattamente nel comune di Roma, non essendo contestato che nel territorio di questo si era prodotto il reddito (articolo 58, comma 2, 2 a ipotesi; Cass. n. 4150/1999).

In terzo luogo, è stato accertato documentalmente dalla commissione tributaria centrale, e non più contestato dalla parte, che il messo notificatore eseguì ricerche anagrafiche, dopo avere invano cercato la contribuente all’indirizzo indicato nell’ultima dichiarazione dei redditi (redatta anteriormente al 1979 giacché, come la stessa ricorrente ammette nel ricorso, “per i periodi di imposta 1979, 1980 e 1981 non aveva presentato dichiarazione dei redditi”), e che apprese in tal modo l’avvenuto trasferimento di lei fuori dal comune di domicilio fiscale (precisamente, all’estero).

Pertanto, non sussisteva alcun obbligo legale di spedizione dell’avviso con lettera raccomandata, posto che tale adempimento, prescritto in generale dall’art. 140 c.p.c., non è previsto – nella specifica ipotesi di mancanza di abitazione, ufficio o azienda del contribuente nel comune di domicilio fiscale – dalla normativa fiscale (art. 60 cit., lett. e) che impone, in luogo della spedizione della raccomandata, l’affissione dell’avviso di deposito all’albo del comune ed il successivo decorso di otto giorni per la validità della notifica (purché adeguate ricerche siano state, come nel caso, effettivamente eseguite ed abbiano consentito di accertare che il contribuente non ha abitazione, ufficio o azienda nel comune di domicilio fiscale: Cass. nn. 5100/1997, 4654/1997, 11152/1996, 8363/1993, 4308/1992; C. Cost., sent n. 189/1974, con riferimento ad analoga ipotesi già prevista dall’art. 38, lett. e, del T.U. sulle imposte dirette, approvato con D.P.R. 29 gennaio 1958, n. 645).

La giurisprudenza di questa suprema corte (S.U. n. 6737/2002), invocata dalla ricorrente, non si attaglia al caso concreto dedotto in giudizio, giacché non si riferisce specificamente alle notificazioni in materia fiscale, ma alle notifiche in genere, per la cui validità, se eseguite all’estero, si rendono necessarie indagini, non solo presso l’A.I.R.E., circa la residenza effettiva del destinatario.

Anche il principio affermato nella sent. n. 346/1998 della corte costituzionale, in relazione alle notifiche eseguite a mezzo della posta, per cui “la funzione propria della notificazione è quella di portare l’atto a conoscenza del destinatario, al fine di consentire l’instaurazione del contraddittorio e l’effettivo esercizio del diritto di difesa”, deve essere contemperato coi criteri propri dell’ordinamento fiscale e, più in particolare, col concetto di “domicilio fiscale” che, pur essendo intesa ad agevolare l’amministrazione finanziaria nella notificazione degli accertamenti, non lede – a giudizio della stessa corte costituzionale (cfr. ordin. n. 511/1989) – il diritto di difesa del contribuente. Con l’ordinanza ora citata, infatti, la corte ha ritenuto manifestamente infondata, in riferimento all’art. 24 Cost., la questione di costituzionalità relativa anche all’articolo 60, comma 1, lett. e) ed f), D.P.R. n. 600 del 1973, in quanto tali norme escludono, in caso di soggetto residente all’estero ad indirizzo noto all’ufficio tributario, l’applicabilità dell’art. 142 c.p.c. (notifica a persone residenti all’estero) e la spedizione di avviso raccomandato al medesimo.

I principi suespressi non sono modificati, peraltro, dalla legge 27 luglio 2000, n. 212 (Statuto del contribuente), secondo la quale “Restano ferme le disposizioni in materia di notifica degli atti tributari” (articolo 6, co. 1, u.p.).

In conclusione, e per tutte le ragioni esposte, la sentenza impugnata deve ritenersi immune dalle censure mosse col ricorso che, quindi, deve essere rigettato. Nulla devesi disporre riguardo alle spese di questo giudizio, poiché l’intimata amministrazione finanziaria non vi ha svolto difese.

P.Q.M.
La Corte di Cassazione rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della V sezione civile – tributaria, il 21 gennaio 2003.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 23 GIUGNO 2003.


Cass. civ. Sez. lavoro, 01-03-2003, n. 3065

La Corte Suprema di Cassazione

Sezione Lavoro

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Giovanni PRESTIPINO – Presidente

Dott. Natale CAPITANIO – Rel. Consigliere

Dott. Camillo FILADORO – Consigliere

Dott. Giuseppe CELLERINO – Consigliere

Dott. Grazia CATALDI – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

BERTINETTI LUIGI, elettivamente domiciliato in ROMA VIA BRESSANONE 3, presso lo studio dell’avvocato MARIA LUISA CASOTTI CANTATORE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato NICOLA DURAZZO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona del legale rappresentante “pro tempore”, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati PAOLO MARCHINI, FABIO FONZO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sent. n. 97/00 del Tribunale di PAVIA, depositata il 9 febbraio 2000 R.G.N. 281/99;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28 ottobre 2002 dal Consigliere Dott. Natale CAPITANIO;

udito l’Avvocato CASOTTI CANTATORE;

udito l’Avvocato CORETTI per delega FONZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Riccardo FUZIO che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
In data 28 settembre 1996 l’I.N.P.S. sede di Pavia notificava a Luigi Bertinetti atto di precetto per il pagamento della somma di L. 2.136.675, oltre accessori, in forza di ordinanza ingiunzione emessa per sanzioni amministrative contro la mancata corresponsione di contributi da parte della I.T.P.S. s.p.a., società successivamente fallita e della quale il Bertinetti era stato amministratore unico.

Con ricorso depositato presso la Pretura di Pavia in data 3 dicembre 1996 il Bertinetti proponeva opposizione ex art. 615 c.p.c. avverso l’atto di precetto, lamentando di non avere mai ricevuto comunicazione o notizia dell’ordinanza ingiunzione ed eccependo, pertanto, la nullità della notifica e dei successivi atti del procedimento.

Con sentenza in data 22 gennaio 1998 il Pretore respingeva l’opposizione ritenendo provata la regolarità della notifica.

A seguito di appello del Bertinetti il Tribunale di Pavia, con sentenza in data 11 gennaio 2000, confermava la sentenza pretorile, osservando che bene aveva fatto il Pretore a ritenere che la notifica dell’ordinanza ingiunzione fosse stata validamente eseguita in quanto nel registro dell’Ente Poste erano riportati la firma attribuibile al Bertinetti e il numero della patente auto come documento di identificazione del medesimo e che l’appellante aveva inutilmente contestato tale numero poiché non aveva esibito la patente auto all’epoca posseduta al fine di dimostrare la sua diversità rispetto a quella riportata nel registro dell’Ente Poste.

Il Bertinetti ricorre per cassazione con unico articolato motivo.

Resiste con controricorso l’I.N.P.S..

Motivi della decisione
Con l’unico articolato motivo il ricorrente, denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 7 e 8 della legge n. 890 del 1992 (“rectius”: del 1982) nonché degli artt. 214 e 215 c.p.c. e insufficiente e contraddittoria motivazione sul punto, deduce che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere che il ricorrente medesimo avrebbe avuto l’onere di disconoscere non soltanto, come in effetti era avvenuto, la sottoscrizione apposta sull’avviso di ricevimento, ma anche quella indicata sul registro.

Aggiunge il ricorrente che il Tribunale avrebbe, altresì, errato sul fatto che su esso ricorrente incombesse l’onere di fornire la prova contraria in ordine alla dedotta non corrispondenza del numero della patente auto indicato sul registro dell’Ente Poste rispetto a quello della patente in sua titolarità.

Peraltro, rileva il Bertinetti, il registro di consegna dell’Ente Poste acquisito agli atti non reca la sottoscrizione dell’agente postale e tanto meno l’indicazione di chi avrebbe ricevuto la consegna, che era avvenuta in luogo diverso da quello di residenza del destinatario della notifica e ciò in violazione dell’art. 7 della legge n. 890 del 1992 (“rectius”: del 1982).

Il Tribunale, in altri termini, secondo il ricorrente, avrebbe tratto elementi di convincimento circa la validità della notifica dal registro di consegna, che tale rilevanza probatoria non ha nemmeno se in esso fosse stata apposta la firma del destinatario o della persona abilitata a riceverlo.

Inoltre il giudice di merito, secondo quanto dedotto dal ricorrente, non aveva considerato che il medesimo aveva già disconosciuto la propria sottoscrizione e che per tale ragione non era tenuto a fornire la prova dell’autenticità della sottoscrizione né la coincidenza del numero di patente indicato nel registro di consegna con quello della patente in sua titolarità.

Il ricorso è infondato.

La relazione di notifica eseguita dall’ufficiale giudiziario attestante il compimento delle prescritte formalità fa fede fino a querela di falso (v. Cass. 22 marzo 1996 n. 2940).

Del pari fa fede fino a querela di falso e non già sino a prova contraria (come diversamente è stato ritenuto da Cass. 29 maggio 1997 n. 4779 e da Cass. 25 novembre 1987 n. 8655) l’attestazione sull’avviso di ricevimento con la quale l’agente postale dichiara di avere eseguito la notificazione ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge 20 novembre 1982, n. 890, essendo tale notificazione un’attività direttamente delegatagli dall’ufficiale giudiziario, il quale in forza dell’art. della citata legge n. 890 del 1982 è autorizzato, salvo diverse disposizioni dell’autorità giudiziaria o della parte, ad avvalersi del servizio postale per l’attività notificatoria della cui esecuzione ha ricevuto l’incarico.

Ne consegue che l’avviso di ricevimento, a condizione che esso sia sottoscritto – pena la sua nullità-inesistenza – dall’agente postale (v. Cass. 21 maggio 1992 n. 6146), contiene, per le attività che risultano in esso compiute, una forza certificatoria sino a querela di falso assimilabile a quella ipotizzabile per la relata di notifica eseguita dallo stesso ufficiale giudiziario.

Non ha uguale forza fidefaciente, invece, il registro di consegna dell’Ente Poste, assolvendo esso a una funzione certificatoria nel diverso rapporto tra l’agente postale e l’Ente Poste in ordine all’avvenuto compimento dell’attività notificatoria delegata dall’ufficiale giudiziario all’agente postale medesimo ai sensi dell’art. 1 della legge n. 890 del 1982 (v. Cass. 23 marzo 1988 n. 2534). Applicando i sopra esposti principi di diritto alla fattispecie esaminata, va osservato che il Bertinetti avrebbe dovuto impugnare di falso la sottoscrizione dell’avviso di ricevimento che l’agente postale gli aveva attribuito dichiarando, in tal modo, implicitamente di avergli consegnato personalmente la copia da notificare (essendo, peraltro, tale consegna personale sempre consentita ex art. 9 legge n. 890 del 1982 anche in caso di cambiamento di residenza, dimora o domicilio del destinatario).

Infatti l’agente postale medesimo non aveva dichiarato, con le modalità prescritte dal quarto comma del citato art. 7, di avere consegnato la copia dell’atto da notificare a persona diversa dal destinatario, ciò che avrebbe dovuto fare se non avesse potuto rintracciare personalmente lo stesso destinatario.

Infatti ai sensi del primo comma dell’art. 7 della legge n. 890 del 1892 l’agente postale è tenuto a consegnare al destinatario la copia dell’atto da notificare.

Ove, però, la copia non venga consegnata personalmente al destinatario, l’agente postale è tenuto, ai sensi del citato art. 7 quarto comma, a specificare nella relata la persona diversa nei cui confronti la notifica fu eseguita, l’eventuale grado di parentela esistente tra il destinatario e tale persona cui la copia dell’atto fu consegnata, l’eventuale indicazione della convivenza sia pure temporanea tra il destinatario e la persona cui la copia dell’atto fu consegnata.

Pertanto l’omessa indicazione da parte dell’agente postale del compimento delle formalità previste dal quarto comma del citato art. 7 induce a ritenere, salvo querela di falso, che tale agente abbia consegnata la copia dell’atto da notificare personalmente al destinatario, se quest’ultimo ha sottoscritto l’avviso di ricevimento, a nulla rilevando che manchi nell’avviso di ricevimento stesso l’ulteriore specificazione “personalmente al destinatario”, seguita dalla sottoscrizione, posto che per il citato art. 7 l’agente postale è tenuto a specificare le modalità di individuazione della persona a cui ha consegnato la copia dell’atto soltanto se non è stato possibile eseguire la consegna personalmente a mani del destinatario.

Irrilevante, pertanto, risulta la doglianza del ricorrente circa la mancata attività sollecitatoria della verificazione da parte dell’I.N.P.S. a seguito del suo disconoscimento della sottoscrizione, posto che avendo l’avviso di ricevimento natura di atto pubblico e non già di scrittura privata, la contestazione del suo contenuto andava fatta con la querela di falso e non già con il mero disconoscimento della sottoscrizione a norma dell’art. 214 c.p.c. sufficiente per addossare sulla controparte l’onere di sollecitare con apposita istanza ex art. 216 c.p.c. la procedura di verificazione.

A nulla rileva, perciò, che il registro di consegna contenga lacune o che non sia stato sottoscritto dall’agente postale, attesa la sua ristretta natura certificatoria a causa della sua irrilevanza ai fini della validità dell’avviso di ricevimento.

Caso mai, tale registro avrebbe potuto consentire, dopo la querela di falso – che, però, non è stata presentata – un punto di partenza per la necessaria attività che si sarebbe dovuta compiere per accertare la veridicità o la falsità della certificazione compiuta dall’agente postale circa l’avvenuta identificazione personale del destinatario, al quale la copia del precetto sarebbe stata consegnata.

Il Tribunale, però, a prescindere dalla mancata presentazione della querela di falso, ha rilevato in proposito che il Bertinetti non aveva in alcun modo provato che il numero della patente indicato dall’agente postale nel registro di consegna non corrispondesse a quello della sua patente e, quindi, che l’agente postale non avesse consegnato al medesimo il precetto dopo averlo identificato a mezzo di tale patente.

Pertanto il proposto ricorso va rigettato, modificata ex art. 384 c.p.c., secondo comma, nel senso sopra esposto la motivazione della sentenza impugnata, non annullabile perché conforme a diritto nel dispositivo.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio, liquidate in € 10,00 oltre € 1.300,00 (milletrecento/00) per onorari di avvocato.

Così deciso in Roma il 28 ottobre 2002.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 1 MAR. 2003


Cass. civ. Sez. I, 07-06-2002, n. 8287

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Vincenzo PROTO – Presidente –

Dott. Ugo VITRONE – Consigliere –

Dott. Donato PLENTEDA – Consigliere –

Dott. Mario Rosario MORELLI – Consigliere –

Dott. Massimo BONOMO – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

CIMMINO STEFANO, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE ANGELICO 193, presso l’avvocato FRANCO IADANZA, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

DAMA ROSANNA, nella qualità di Curatore speciale del minore CIMMINO ANDREA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA NOMENTANA 257, presso l’avvocato GIANFRANCO DOSI, rappresentata e difesa da se medesima;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 331/01 della Corte d’Appello di NAPOLI SEZIONE MINORI, depositata il 12/02/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2001 dal Consigliere Dott. Massimo BONOMO;

udito per il resistente, l’Avvocato Dama, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Francesco MELE che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il 16 febbraio 1990 l’avv. Rosanna Dama, nominata dal Tribunale per i minorenni di Napoli curatore speciale del minore Andrea Cimmino, nato l’11 agosto 1986, convenne in giudizio Stefano Cimmino, impugnando, per difetto di veridicità, il riconoscimento di figlio naturale compiuto dallo stesso Cimmino nei confronti del detto minore.

Si costituì e resistette il Cimmino.

Disposta consulenza tecnica immunoematologicacitogenetica sul DNA, non espletata per rifiuto del convenuto a sottoporsi al prelievo, il Tribunale, con sentenza in data 13 marzo- 31 marzo 1998, accolse la domanda e conseguentemente dichiarò non veridico il riconoscimento del minore Andrea compiuto da Stefano Cimmino, disponendo le relative annotazioni e condannando il convenuto al pagamento delle spese di lite.

Notificata la sentenza in data 27 maggio 1998, il Cimmino ne ha chiesto la totale riforma, appellandola con atto notificato il 25 giugno 1998 al p.m. presso il Tribunale di Napoli, ma non notificato all’avv. Rosanna Dama, risultata. il 25 maggio 2000, sloggiata da anni al domicilio i via Martucci n. 35.

Nell’udienza del 27 ottobre 1998, l’istruttore ha disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti del curatore speciale dell’attore e il relativo atto è stato notificato il 2 dicembre 1998. Il curatore speciale, avv. Dama, si è costituta e ha chiesto il rigetto dell’appello, sia perché inammissibile per tardività, sia perché infondato nel merito.

Con sentenza del 24 gennaio – 12 febbraio 2001, la Corte d’Appello di Napoli dichiarava inammissibile l’appello condannando l’appellante al pagamento delle spese di quel grado di giudizio. Osservava la Corte territoriale, in particolare:

a) che l’impugnazione nei confronti del curatore speciale del minore era stata proposta oltre il termine di cui all’art. 325 c.p.c.;

b) che il p.m. presso il giudice “a quo”, cui era stata tempestivamente notificata l’impugnazione, non era parte del giudizio sicché non avrebbe potuto essere integrato il contraddittorio nei confronti del curatore speciale;

c) che era irrilevante la notifica con esito negativo presso il domicilio dichiarato nel giudizio “a quo”.

Avverso la sentenza d’appello Stefano Cimmino ha proposto ricorso per cassazione sulla base di tre motivi, illustrati con memoria.

Il curatore speciale del minore ha resistito con controricorso.

Motivi della decisione
1) Eccepisce il ricorrente con la memoria che il controricorso sarebbe inammissibile perché esso non è stato notificato presso il domicilio eletto in Roma, ma presso lo studio in Napoli, senza che assuma rilievo il tentativo di notifica per posta effettuato senza successo al domicilio in Roma.

2) L’eccezione è fondata nei termini appresso precisati.

La notifica a mezzo posta del controricorso al domicilio del ricorrente in Roma, con spedizione in data 23 maggio 2001, non ha avuto successo perché il destinatario è risultato sconosciuto all’ufficiale giudiziario su citofoni e cassette.

Il ricorso è stato poi notificato il 31 maggio 2001 presso lo studio del difensore domiciliatario a Napoli.

Ora, a prescindere dalle questioni della validità o meno di tale ultima notifica ovvero, in caso di nullità, della eventuale sanatoria, è assorbente la considerazione che la notifica è comunque tardiva, poiché la notifica del controricorso avrebbe dovuto essere effettuata entro mercoledì 30 maggio 2001 (e cioè, ai sensi dell’art. 370 c.p.c., entro venti giorni dalla scadenza del termine stabilito per il deposito del ricorso, nella specie giovedì 10 maggio 2001, atteso che il ricorso era stato notificato il 20 aprile).

Pure tardivo risulta il tentativo di notifica del controricorso al ricorrente presso la cancelleria della Corte di Cassazione con spedizione per posta il 1 giugno 2001.

Il controricorso è quindi inammissibile.

3) Con il primo mezzo d’impugnazione il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 330, 141, 121, 331, 325, 184-bis, 294 e 359 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

In data 27 maggio 1998 l’avv. Rosanna Dama, nella qualità di curatore speciale del minore Andrea Cimmino, aveva notificato al procuratore costituito dell’attuale ricorrente copia autentica della sentenza di primo grado nella quale (vedasi frontespizio) era indicato, quale domicilio eletto, lo studio sito in Napoli alla via Martucci n. 35. Tale atto, proveniente dalla parte, oltre ad essere cronologicamente posteriore a tutti i documenti dai quali – a detta della Corte d’Appello – si sarebbe dovuto evincere il cambio di domicilio, non recava alcun timbro (dal quale ricavare l’eventuale differente indirizzo) né tanto meno una specifica indicazione in tal senso, ad opera del procuratore notificante.

Il Cimmino, pertanto, il 25 giugno 1998, un giorno prima della scadenza del termine per l’impugnazione aveva notificato correttamente l’appello presso il domicilio indicato in sentenza, ovvero in via Martucci n. 35. Solo al ritiro dell’atto, a termini ormai scaduti, aveva appreso che da tempo l’avv. Dama aveva trasferito il proprio studio altrove.

L’indicazione di uno specifico domicilio nella sentenza notificata dalla parte era apparsa come un’implicita dichiarazione di domicilio, trattandosi di atto proveniente dalla controparte, sicché l’impugnazione, ai sensi dell’art. 330 c.p.c., doveva essere notificata in quel luogo.

Inoltre, non poteva equivalere a mutamento del domicilio eletto, in assenza di formale comunicazione, il differente indirizzo indicato sulla documentazione richiamata dalla Corte d’Appello (e costituito da comunicazioni di cancelleria e carta intestata) a sostegno del cambio di domicilio e del relativo onere, per il ricorrente, di effettuare adeguate ricerche.

Ove, interpretando l’art. 330 c.p.c., si ponesse a carico del soccombente l’onere della ricerca del domicilio del difensore di controparte in assenza di formale comunicazione di mutamento dello stesso ed in presenza di atti equivoci, tali da ingenerare nell’appellante il legittimo affidamento circa il permanere dell’originaria elezione di domicilio, la norma sarebbe incostituzionale in relazione agli artt. 24 e 3 Cost.

4) Il motivo non è fondato.

Nella specie, non vi è stata una dichiarazione di domicilio nell’atto di notificazione della sentenza, essendosi la parte limitata a notificare la sentenza di primo grado. La circostanza che dall’intestazione della sentenza risultasse l’elezione di domicilio dell’attore in primo grado non poteva integrare una dichiarazione di domicilio nell’atto di notificazione della sentenza, per la quale sarebbe stata necessaria un’apposita e distinta dichiarazione. La sentenza non poteva essere notificata che nella sua integrità, compresa l’intestazione, il cui contenuto era riferibile però al giudizio di primo grado e non alla fase successiva al deposito della sentenza stessa.

Ora, la notifica presso il domicilio dichiarato nel giudizio “a quo”, che abbia avuto esito negativo perché il procuratore si sia successivamente trasferito altrove, non ha alcun effetto giuridico, dovendo essere effettuata al domicilio reale del procuratore (quale risulta dall’albo, ovvero dagli atti processuali) anche se non vi sia stata rituale comunicazione del trasferimento alla controparte. Ed infatti, il dato di riferimento personale prevale su quello topografico, e non sussiste alcun onere del procuratore di provvedere alla comunicazione del cambio di indirizzo; tale onere è previsto, infatti, per il domicilio eletto autonomamente, mentre l’elezione operata dalla parte presso lo studio del procuratore ha solo la funzione di indicare la sede dello studio del procuratore, sicché costituisce onere del notificante l’effettuazione di apposite ricerche atte ad individuare il luogo di notificazione (Cass. 13 marzo 1998 n. 2740; cfr. pure Cass. 29 maggio 1997 n. 4746).

Nel caso in esame, l’appellante non si è fatto carico del suddetto onere, mentre avrebbe potuto individuare presso il Consiglio dell’Ordine il nuovo domicilio del procuratore della controparte. In punto di fatto, la Corte d’Appello ha osservato, in particolare, che il procuratore dell’appellante aveva dedotto, senza contestazioni di sorta, di aver provveduto alla comunicazione di cambio di domicilio del suo studio legale al Consiglio dell’Ordine e che il nuovo domicilio risultava anche da alcuni atti inseriti nel fascicolo di ufficio del giudizio di primo grado.

La dedotta conoscenza del trasferimento dello studio dell’avv. Dama dopo che il termine per la notifica dell’atto di impugnazione era ormai scaduto costituisce una conseguenza della scelta di effettuare la notifica l’ultimo giorno utile. Tale scelta, imputabile al soggetto tenuto alla notifica, comporta il rischio di non essere in grado di svolgere le eventuali ricerche che si rendessero necessarie in caso di mancata notificazione.

La prospettata questione di legittimità costituzionale dell’art. 330 c.p.c. è manifestamente infondata, potendo l’attività di ricerca posta a carico della parte essere facilmente svolta, sicché essa non viola il canone della ragionevolezza né costituisce una limitazione del diritto di difesa (cfr. Cass. n. 4746/1997 citata).

5) Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 325, 350, 184-bis, 294, 359 c.p.c., nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione.

L’ordinanza con la quale l’istruttore aveva disposto la rinotifica nei confronti dell’avv. Dama doveva qualificarsi come remissione in termini per errore scusabile. La Corte d’Appello, pur riconoscendo che il Cimmino aveva qualificato la disposizione impartita dall’istruttore come remissione in termini, non aveva esplicitato le ragioni per le quali avrebbe dovuto escludersi l’ammissibilità di tale istituto.

Indipendentemente dal carattere inscindibile o meno del giudizio e dalla qualità di parte del p.m., la possibilità di disporre la rinnovazione della notificazione dell’atto d’appello era prevista dall’art. 350 c.p.c. nella formulazione anteriore alla riforma introdotta dalla legge n. 353 del 1990 (applicabile nel caso di specie, trattandosi di causa instaurata anteriormente all’entrata in vigore della riforma).

Gli artt. 184-bis, 294 e 359 c.p.c., ove interpretati nel senso dell’omessa previsione della rimessione in termini per errore scusabile, nel caso dell’appellante che, senza sua colpa, non abbia potuto proporre tempestivamente l’impugnazione, sarebbero incostituzionali in relazione agli artt. 3 e 34 Cost.

L’espressa previsione nell’ordinamento processuale amministrativo dell’istituto della remissione in termini per errore scusabile anche per il giudizio di appello rende manifesta l’illegittimità costituzionale delle corrispondenti norme processuali civili (184-bis, 294, 350 e 359) che non prevedono l’istituto.

6) Nemmeno questo motivo è fondato.

La rinnovazione della notificazione dell’atto di appello non è applicabile nei casi in cui, come nella specie, la notifica non è nulla, ma inesistente.

Quanto alla questione di costituzionalità per la mancata previsione della remissione in termini per errore scusabile, essa è irrilevante non potendosi configurare, nel caso in esame, un errore di tale natura per le ragioni espresse in ordine al primo motivo di ricorso.

7) Il terzo motivo di ricorso esprime doglianze di violazione degli artt. 325, 331, 350, 292 c.p.c., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

La motivazione della Corte d’Appello relativamente alla qualità di mero interventore necessario del p.m. non tiene conto della circostanza che la notifica dell’atto di citazione al p.m. ha comunque consentito l’instaurazione del giudizio e che, alla prima udienza, conformemente al dettato degli artt. 350 e 331 c.p.c., era stato richiesto termine per la rinotifica nei confronti dell’avv. Dama.

8) Il motivo non è fondato.

La possibilità di integrazione del contraddittorio nelle cause inscindibili (art. 351 c.p.c.) presuppone l’avvenuta impugnazione nei confronti di almeno una delle parti. Questa ipotesi non ricorre nella specie, essendo stato l’atto di appello notificato tempestivamente al solo pubblico ministero, il quale non è parte nel giudizio in oggetto, come affermato dalla Corte d’Appello e non contestato in questa sede.

Poiché l’atto di impugnazione non era stato tempestivamente notificato a nessuna delle parti, non poteva disporsi l’integrazione del contraddittorio.

9) Il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come nel dispositivo con riferimento alla difesa effettuata dall’avv. Dama all’udienza, vanno poste a carico del ricorrente, in considerazione della soccombenza.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e dichiara inammissibile il controricorso; condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in euro 516,46 [L. 1.000.000] per onorari.

Così deciso in Roma il 3 dicembre 2001.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 7 GIUGNO 2002.


Corte Suprema di Cassazione, Sez. Unite, n. 8091 del 4.06.2002

Notificazione : a persone giuridiche : a persone non residenti o irreperibili

Svolgimento del processo

La s.r.l. Sud Zuccheri, con sede in Melito (Napoli) alla via Roma 168 bis, fu dichiarata fallita dal Tribunale di Napoli con sentenza del 12 febbraio 1991.

La detta società, in persona dell’amministratore unico Corrado Wurzburghen propose opposizione contro tale pronunzia, chiedendo che ne fosse dichiarata la nullità per violazione dell’art. 15 del R.D. 16 marzo 1942 n. 267. La nullità sarebbe stata conseguente all’omessa convocazione e audizione del legale rappresentante davanti al tribunale fallimentare in camera di consiglio, omissione derivante dall’irrituale notifica del ricorso di fallimento. La notificazione, infatti, era stata eseguita nelle forme di cui all’art. 1423 c.p.c. nei confronti del menzionato legale rappresentante, pur essendo possibile accertare sia la sede sociale (che non era stata trasferita ma aveva soltanto subito un cambio di numerazione civica) sia la residenza del legale rappresentante.

La curatela rimase contumace, mentre i creditori si costituirono contestando il fondamento dell’opposizione.

In sede collegiale l’opponente propose querela di falso contro la relata di notifica del ricorso (avanzato dal Banco di Napoli) ad opera del messo di conciliazione di merito, attestante che la società era “sconosciuta al sito indicato e/o al civico” (cioè all’indirizzo in Melito alla via Roma 168 bis, sede sociale risultante dalla certificazione della cancelleria commerciale), nonché contro l’analoga relata dell’agente postale, apposta sulla busta dell’atto da notificare ad istanza di I.S.I. S.p.A.

Le parti costituite contestarono la querela, mentre il P.M. ne addusse l’inammissibilità.

Con sentenza depositata il 10 aprile 1995 il Tribunale rigettò l’opposizione e la querela di falso proposta contro la notifica ad istanza dell’I.S.I., dichiarò inammissibile la querela proposta contro la notifica ad istanza del Banco di Napoli e condannò l’opponente al pagamento delle spese giudiziali.

A seguito d’impugnazione della società Sud Zuccheri la Corte di Appello di Napoli, con sentenza n. 2549/97 depositata il 25 novembre 1997, respinse il gravarne, considerando:

– che l’esame dell’impugnazione restava circoscritto al tema di diritto, relativo al seguente punto: se, nell’ipotesi d’impossibilità di eseguire la notifica ai sensi dell’art. 145, comma 1, c.p.c. presso la sede della società (impossibilità imputabile esclusivamente alla società stessa, per avere omesso di rendere conoscibile ai terzi, nelle debite forme pubblicitarie, la variazione d’indirizzo della sede sociale, sia pur dovuta a nuova numerazione civica), e di ulteriore impossibilità di reperire il legale rappresentante della medesima (circostanza accertata dalle risultanze documentali acquisite dal primo giudice e non rimessa in discussione con l’appello), fosse possibile eseguire la notifica diretta al detto legale rappresentante nelle forme di cui all’art. 143 c.p.c.;

– che a tale quesito il tribunale aveva dato risposta positiva con argomentazioni meritevoli di essere condivise;

– che, invero, la mancata menzione dell’art. 143 c.p.c. tra le norme richiamate dal terzo comma dell’art. 145 c.p.c. non assumeva rilievo decisivo al fine di escludere il ricorso come “extrema ratio”, a tale forma di notifica quando, come nella specie, non fosse stato possibile reperire la sede della società né la residenza, dimora o domicilio del suo amministratore unico e legale rappresentante;

– che il contrario argomento dell’appellante si basava su un’analisi letterale e superficiale della norma e, peraltro, mal si conciliava con la soluzione alternativa proposta, ossia la notifica nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c., in quanto neppure tale disposizione era richiamata dall’art. 145 c.p.c., comma 3;

– che, allora, se ogni argomento desumibile dalla mera letteralità del richiamo non poteva essere decisivo (finendosi altrimenti, in simili casi, col ritenere impossibile qualsiasi forma di notificazione), andava compiuta una lettura sistematica delle norme, allo scopo di giungere ad una soluzione rispondente alle finalità del sistema in guisa da assicurare, in ogni caso, la possibilità di eseguire le notificazioni;

– che tutte le norme comprese tra l’art. 138 c.p.c. e l’art. 143 c.p.c. riguardavano le persone fisiche, incluso quindi l’art. 140 c.p.c., al quale non vi era ragione di dare preferenza, trattandosi di disposizione non direttamente prevista per le notificazioni alle persone giuridiche, né oggetto di richiamo da parte dell’art. 145 c.p.c.;

– che l’ultimo comma di tale norma, col rinvio agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c., rivelava l’intento del legislatore di consentire la notifica al legale rappresentante secondo la disciplina delle notificazioni alle persone fisiche, quando non fosse possibile la notifica presso la sede della persona giuridica e dall’atto risultasse la persona fisica titolare della rappresentanza legale dell’ente;

– che, pertanto, qualora nei confronti di detta persona fisica non fosse possibile la notifica a mani proprie (art. 138 c.p.c.), oppure presso la residenza, la dimora o il domicilio (art. 139 c.p.c.), o ancora presso l’eventuale domiciliatario (art. 141 c.p.c.), occorreva fare ricorso alle ulteriori disposizioni contemplanti le sussidiarie modalità di notifica alle persone fisiche, e quindi all’art. 140 c.p.c. (in caso di residenza, dimora o domicilio noti della persona fisica del legale rappresentante dell’ente), ovvero all’art. 143 c.p.c. (nel caso di residenza, dimora o domicilio ignoti dello stesso legale rappresentante);

– che, nella fattispecie, il Wurzburgher risultò sloggiato dai suoi ultimi dichiarati domicilii di Napoli e di Pozzuoli, dove – come emerse dalle ricerche poi eseguite presso i due Comuni – mai aveva avuto la residenza anagrafica, onde ritualmente la notificazione fu effettuata ai sensi dell’art. 143 c.p.c.

– che l’impossibilità di eseguire la notificazione diretta alla società nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c. discendeva dal rilievo che, siccome tale norma prescrive, oltre al deposito della copia dell’atto nella casa comunale, anche l’affissione dell’avviso del deposito “alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario”, nonché la “notizia per raccomandata con avviso di ricevimento”, nel caso di specie non si sarebbe potuto procedere a tali adempimenti, in quanto nel luogo dell’ultima sede nota della società medesima non esistevano uffici o altre strutture alla stessa riferibili;

– che, in definitiva, l’appello andava respinto, perché la mancata audizione dell’imprenditore, dovuta a fatto a questo imputabile, non costituiva motivo di nullità.

Contro la suddetta sentenza, notificata il 18 febbraio 1998, Sud Zuccheri S.r.l., in persona dell’amministratore unico Corrado Wurzburgher, ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad unico motivo.

La Banca Nazionale dell’agricoltura S.p.A. e la I.S.I (Industria Saccarifera Agroindustriale) S.p.A. hanno resistito con separati controricorsi.

Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Con ordinanza depositata il 16 giugno 2000 la prima sezione civile di questa Corte, rilevato che sulla questione addotta (“la notifica avrebbe dovuto essere effettuata a norma dell’art. 140 c.p.c. nei confronti della società e non ai sensi dell’art. 143 c.pc., nei confronti del suo legale rappresentante”) esisteva un contrasto nella giurisprudenza di questa Corte, ha disposto la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

La causa è stata quindi assegnata alle Sezioni unite di questa Corte e chiamata all’udienza di discussione.

Motivi della decisione

1) Con l’unico mezzo di cassazione la ricorrente denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 143 c.p.c., in relazione agli artt. 145, 140 e 160 c.p.c.

Il Tribunale avrebbe riconosciuto che la formula dell’art. 145 c.p.c., e in particolare il 1º e il 3º comma (che rinviano agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.), avrebbe posto la necessità di valutare, esaminando l’intera disciplina in modo sistematico, se la notificazione ad una persona giuridica consenta il ricorso alle forme di cui all’art. 143 c.p.c., sia con riferimento alla società in quanto tale, sia come forma di notifica al legale rappresentante.

Il Tribunale avrebbe riconosciuto, ancora, che, secondo un primo orientamento della giurisprudenza (in realtà si tratterebbe dell’ultimo, ormai da tempo consolidato) la notificazione alla società – in caso d’impossibilità di eseguirla ai sensi dell’art. 145, primo comma, c.p.c. e di portarla a compimento nelle forme di cui all’art. 145, terzo comma, c.p.c. – andrebbe effettuata a norma dell’art. 140 c.p.c.

Da ciò sarebbe dovuto discendere l’accoglimento dell’opposizione.

Ma poi il Tribunale si sarebbe riportato ad un diverso (e risalente) orientamento della giurisprudenza, dichiarando di aderirvi e così pervenendo al rigetto della domanda.

Sarebbe però incorso in errore, limitandosi a rilevare che l’indirizzo in Melito alla via Roma 168 bis sarebbe stato quello rispondente alla sede della società, come risultante dalla certificazione della cancelleria commerciale, e che la società sarebbe stata obbligata a rendere pubblica presso gli organi competenti la variazione apportata dal Comune al numero civico.

Avrebbe però trascurato di considerare che, se la notifica fosse stata eseguita ai sensi dell’art. 140 c.p.c., al Comune sarebbe risultato certamente il nuovo civico e il ricorso si sarebbe potuto notificare ritualmente.

Peraltro la mancata notifica ai sensi dell’art. 140 c.p.c. sarebbe stata sufficiente per stabilire che, il ricorso non era stato notificato secondo le norme e che la società fallita mai sarebbe stata convocata davanti al Tribunale fallimentare, con conseguente nullità della dichiarazione di fallimento.

I rilievi già esposti nei precedenti gradi del giudizio troverebbero conferma nei fatti enunciati, che porrebbero in evidenza l’illegittimità della pronunzia impugnata, viziata anche da errori logici e da insufficiente motivazione.

Andrebbe aggiunto che soltanto parte della giurisprudenza si sarebbe mostrata favorevole all’applicazione dell’art. 143 c.p.c. alle persone giuridiche, mentre di segno opposto sarebbe l’orientamento più recente.

2) Ancorché formalmente diretto a censurare la pronunzia del Tribunale (per quello che appare essere un errore materiale di trascrizione), il ricorso investe in realtà la sentenza della Corte d’Appello, come è dato desumere dalla sua complessiva formulazione. Pertanto l’impugnazione va dichiarata ammissibile.

3) La questione sottoposta all’esame del collegio può riassumersi nei termini seguenti (tenendo conto del tema della decisione identificato dalla Corte territoriale e delle censure mosse dalla ricorrente, che definiscono i confini dell’indagine in questa sede): se ed in quali limiti siano utilizzabili nei confronti di una persona giuridica le modalità di notificazione previste dall’art. 13 c.p.c., essendo indicata nell’atto la persona fisica che rappresenta l’ente.

Nel caso di specie, infatti, non è controversa l’applicabilità dell’art. 140 c.p.c. anche per le notificazioni alle persone giuridiche (ed ai soggetti indicati nel secondo comma dell’art. 145 c.p.c.). Anzi la società ricorrente lamenta appunto che nel caso in esame non si sia proceduto a notifica nelle forme di cui al citato articolo 140, affermando che, se tale procedura fosse stata adottata, presso il Comune sarebbe risultato il nuovo civico identificante la sede della società medesima, sicché l’istanza di fallimento si sarebbe potuta notificare ritualmente.

Tanto premesso, si deve osservare che, ai sensi dell’art. 145, primo comma, c.p.c. (norma nella specie rilevante perché la ricorrente è una società di capitali), la notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna della copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa. A norma dell’art. 46, comma secondo, c.c., nei casi in cui la sede stabilita ai sensi dell’art. 16 c.c. o la sede risultante dal registro è diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima, intendendosi per sede effettiva il luogo in cui abbiano concreto svolgimento le attività amministrative e di direzione dell’ente, e dove operino i suoi organi amministrativi o i suoi dipendenti con poteri direttivi (Cass. 4 agosto 2000, n. 10243; 28 luglio 2000, n. 9978; 18 gennaio 1997, n. 497).

Come posto in luce anche in dottrina, è dunque accolto il principio dell’effettività della sede quale criterio interpretativo generale, valido pure per le notificazioni.

Il secondo comma dell’art. 145 c.p.c. prevede modalità analoghe di notificazione, con riferimento alla sede indicata nell’art. 19, secondo comma, del codice civile.

Il terzo comma aggiunge che, se la notificazione non può essere eseguita a norma dei commi precedenti, e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, si osservano le disposizioni degli articoli 138, 139 e 141 cod. proc. civ.

Come il testuale tenore della norma rende palese, le modalità prescritte nei primi due commi vanno sperimentate per prime; se la notificazione non può essere eseguita con quelle modalità, e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, si osservano le disposizioni dell’art. 138 c.p.c. (notificazione nella residenza, nella dimora o nel domicilio), e art. 141 c.p.c. (notificazione presso il domiciliatario).

Qualora neppure le modalità richiamate nel terzo comma dell’art. 145 c.p.c. possano essere ultimate praticate, la giurisprudenza dominante – sia pur con talune distinzioni che qui non possono formare oggetto di pronuncia perché estranee al quesito rilevante ai fini della decisione – ammette l’applicabilità del rito previsto dall’art. 140 c.p.c. anche nei confronti della società (“ex multis” e tra le più recenti: Cass. 10 aprile 2000, n. 4529; 9 febbraio 2000, n. 1427; 17 giugno 1999, n. 6065; 27 gennaio 1999, n. 716; 3 novembre 1998, n. 11004; 11 gennaio 1994, n. 239; 3 dicembre 1993, n. 12004; 29 maggio 1992, n. 6529).

Anche nella dottrina prevale nettamente la soluzione favorevole all’applicazione del rito anzidetto, pur con alcune divergenze circa i presupposti ed i limiti d’impiego.

Un contrasto più marcato, invece, sussiste in ordine all’applicabilità dell’art. 143 c.p.c.

Secondo alcune pronunzie, infatti, la notifica mediante il rito previsto da detta norma sarebbe inapplicabile alle persone giuridiche. Le disposizioni della norma medesima, invero, postulerebbero che sia sconosciuto il luogo in cui il destinatario ha la sua residenza, la dimora o il domicilio ed inoltre che tale mancata conoscenza non sia superabile attraverso le normali ricerche ed adottando la comune diligenza. Queste situazioni, però, non potrebbero realizzarsi per le società di capitali, munite di personalità giuridica, per le quali sarebbe in vigore l’obbligo di dichiarare quale sia la sede della società all’atto stesso della costituzione (artt. 2328, 2464, 2475 c.c.), nonché l’obbligo di dichiarare i mutamenti della sede, esistendo peraltro un sistema di pubblicità legale idoneo a consentire di conoscere l’attualità della sede dichiarata e l’inopponibilità ai terzi dei mutamenti non pubblicizzati. Con la conseguenza che, qualora la sede dichiarata non coincida con quella effettiva e questa non sia nota, il terzo non potrebbe legittimamente ignorare la sede effettiva, effettuando le notifiche nel luogo pubblicizzato come “sede” dalla stessa società e risultante dai pubblici registri, salvo giovarsi nel disposto dell’art. 140 c.p.c. nel caso in cui il legale rappresentante della società, o altre persone legittimate a ricevere l’atto, risultino irreperibili in tale luogo (Cass. 29 gennaio 1998 n. 904; 11 gennaio 1994 n. 239; 1 marzo 1989 n. 1102; 3 luglio 1971 n. 2070).

Un altro orientamento, invece, ammette l’applicazione dell’art. 143 c.p.c. anche nei confronti dei soggetti diversi dalle persone fisiche, avendo riguardo alla funzione complementare della menzionata norma (Cass. 29 maggio 1992 n. 6529; 12 aprile 1990 n. 3107; 28 luglio 1989 n. 3528; 5 giugno 1987 n. 4927; 16 ottobre 1979 n. 5392; 12 maggio 1979 n. 2758).

Prima di procedere all’esame della questione, ai fini della composizione del suddetto contrasto, va premesso che il sistema delle notificazioni deve rispondere ad una duplice esigenza: la prima è quella di consentire al destinatario dell’atto di venire a conoscenza nei tempi previsti del contenuto di questo, in guisa da poter svolgere al riguardo ogni attività difensiva, nel rispetto del principio del contraddittorio, oggi ribadito nell’art. 111, comma 2, Cost. (come novellato dall’art. 1 della L.Cost. 23 novembre 1999 n. 2); la seconda è quella di permettere al soggetto, ad istanza del quale la notifica si esegue, di poter agire in giudizio ponendo in essere i relativi atti d’impulso. Entrambe le esigenze ricevono tutela costituzionale (artt. 24 e 111 Cost.). Lo sforzo ermeneutico, quindi, deve essere diretto a bilanciarle, da un lato garantendo al destinatario un effetto di conoscenza o, nei casi previsti dalla legge, di conoscibilità leale dell’atto in stretta aderenza alla disciplina normativa, in modo da assicurare il pieno spiegamento del diritto di difesa, dall’altro consentendo al soggetto, che intenda agire in giudizio, di esercitare il potere di azione (anche) con l’adozione dei necessari strumenti di notifica.

In altre parole, non sarebbe conforme a Costituzione un approccio interpretativo che, facendosi carico della non completezza delle regole contenute nell’art. 145 c.p.c., proceda ad un esame sistematico e coordinato delle norme dettate in tema di notificazioni con riferimento a quelle indirizzate a soggetti diversi dalle persone fisiche e, per quanto qui rileva, con riguardo alle notificazioni alle persone giuridiche.

In questo quadro la tesi, espressa nel primo degli orientamenti sopra richiamati (circa l’inapplicabilità in via di principio dell’art. 143 c.p.c.), non è persuasiva.

Va subito sgombrato il campo da un primo argomento di ordine letterale, secondo il quale l’art. 145, terzo comma, c.p.c. rinvierebbe in modo espresso soltanto agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.

Il richiamo limitato a queste tre norme si spiega col rilievo che l’art. 145, terzo comma, c.p.c., nel contemplare una modalità di notificazione sussidiaria rispetto a quella prevista dal primo comma della medesima norma, stabilisce che la notifica sia indirizzata alla persona fisica che rappresenta l’ente (qualora essa sia indicata nell’atto) e dispone perciò l’osservanza delle disposizioni previste per le situazioni ordinarie o fisiologiche che consentono l’esecuzione della notifica direttamente al destinatario o ad un consegnatario normativamente individuato. Ma ciò non vuole dire che, quando la notifica ai sensi di tali disposizioni si riveli non praticabile, la mancata menzione dell’art. 143 c.p.c. (come, del resto, dell’art. 140 c.p.c., che neppure forma oggetto di richiamo nel terzo comma dell’art. 145 c.p.c.) debba essere intesa come implicita esclusione dell’applicabilità di queste norme. Infatti, una volta prevista la notifica al legale rappresentante dell’ente, non sarebbe ragionevole (né conforme all’art. 24 Cost.) un’interpretazione del dettato normativo diretta ad affermare che, nei confronti del medesimo rappresentante, possono trovare applicazione soltanto le forme ordinarie di notificazione e non quelle stabilite per i casi (eccezionali) nei quali si debba prendere atto dell’impossibilità di adottare quelle forme.

Maggior consistenza presenta l’argomento secondo cui l’art. 143 c.p.c. sarebbe inapplicabile alle persone giuridiche perché esso postulerebbe che sia sconosciuto il luogo in cui il destinatario ha la sua residenza, la dimora o il domicilio ed inoltre che tale mancata conoscenza non sia superabile attraverso le normali ricerche ed adottando la comune diligenza. Queste situazioni non potrebbero realizzarsi per le società di capitali, esistendo un sistema di pubblicità legale idoneo a consentire di conoscere l’attualità della sede dichiarata e l’inopponibilità ai terzi dei mutamenti non pubblicizzati.

Tali affermazioni sono, in via di principio, esatte. Esse, tuttavia, valgono a rimarcare il carattere residuale (di “extrema ratio”, come si esprime la sentenza impugnata: pag. 6) che la notifica ex art. 143 c.p.c. al legale rappresentante della persona giuridica deve avere. Non giovano però per escludere in radice l’applicabilità di tale norma (che, in sostanza, è una norma di chiusura del sistema delle notificazioni), perché non assicurano in ogni caso che una notificazione possa essere eseguita. Il che è reso palese dalla fattispecie (certamente molto peculiare) qui in esame.

In essa è avvenuto che, a seguito di cambio della numerazione civica fatto eseguire dal Comune di Melito di Napoli, la sede della società Sud Zuccheri, già stabilita in quel Comune alla via Roma n. 168 bis, è venuta a trovarsi in quel medesimo Comune ma alla via Roma n. 438. La variazione d’indirizzo della sede sociale, conseguente alla nuova numerazione civica, non fu resa conoscibile attraverso le annotazioni – che la società avrebbe dovuto curare (artt. 2196, 2436 c.c.) – nel registro della cancelleria commerciale (all’epoca in essere, non essendo ancora operativo il registro delle imprese), come accertato dalla sentenza impugnata e com’è incontroverso. Pertanto il sito di via Roma 168 bis, a far tempo dall’impianto della nuova numerazione (impianto di cui s’ignora l’epoca) venne a perdere qualsiasi capacità d’identificare la sede della società, perché in realtà l’indirizzo di via Roma 168 bis conduceva ad un luogo del tutto diverso e privo di ogni collegamento con la società medesima, tant’è che, a seguito delle notifiche tentate dal Banco di Napoli e da I.S.I. S.p.A. a quell’indirizzo – sede sociale risultante dalla certificazione della cancelleria commerciale, come la sentenza impugnata rileva: pag. 3 – la società medesima risultò sconosciuta.

Né vale addurre che, attraverso più attente ricerche, il nuovo indirizzo poteva essere reperito. È ben vero che, qualora la sede dichiarata nell’atto costitutivo non venga trovata, devono essere eseguite ulteriori ricerche. Ma tali ricerche, specialmente quando esiste un sistema di pubblicità che dovrebbe consentire di trovare sempre almeno la sede legale della società se la legge fosse rispettata, devono essere quelle normalmente esigibili secondo la comune diligenza. Orbene, le ricerche e le richieste d’informazioni suggerite in casi come quello in esame dall’ordinaria diligenza riguardano la sede della società e perciò vanno indirizzate verso gli uffici e le persone che possono dare informazioni in tal senso, ossia per l’appunto il registro della cancelleria commerciale (v. Cass., Sez. Un., 5 novembre 1981, n. 5825, in motivazione). Una volta acclarato, tramite il detto registro, che la sede dell’impresa risultava quella di via Roma n. 168 bis, non possono essere comprese nella nozione di ordinaria diligenza ulteriori e più approfondite ricerche, per di più in un contesto nel quale non risulta che i creditori istanti fossero tenuti a sapere che (in epoca imprecisata) la numerazione civica era stata modificata.

Neppure potrebbe utilmente affermarsi che l’omessa annotazione nell’apposito registro del mutamento d’indirizzo conservasse l’attualità della sede risultante dal medesimo registro, onde comunque la notifica si sarebbe potuta eseguire ai sensi dell’art. 140 c.p.c.

Si deve replicare che, come già sopra si è accennato, a seguito della diversa numerazione civica il numero 168 bis individuava un sito del tutto differente da quello in cui era (ed era rimasta) la sede della società, cioè un sito nel quale quest’ultima mai aveva avuto uffici o strutture di qualsiasi tipo. La mancanza (originaria e non sopravvenuta) di tali strutture rendeva impossibile) – dare corso alle formalità previste dal citato art. 140 c.p.c. che, per costante giurisprudenza, in quanto organicamente coordinate tra loro hanno tutte carattere essenziale e, come tali, condizionano al loro integrale adempimento l’efficacia giuridica della notifica (tra le più recenti: Cass. 14 gennaio 2002 n. 359; 20 novembre 2000 n. 14986; 29 aprile 1999 n. 4307).

Invero, la notifica ex art. 140 c.p.c. postula che, pur essendo noto il luogo in cui la notifica stessa può essere eseguita, l’esecuzione di essa nelle forme ordinarie risulti impedita dall’irreparabilità, dall’incapacità o dal rifiuto dei consegnatari normativamente individuati. Nella fattispecie l’indirizzo che avrebbe dovuto condurre alla sede sociale portava in realtà ad un luogo in cui detta sede mai era stata collocata, con conseguente difetto del presupposto per procedere alla menzionata forma di notificazione (infatti, l’adozione di tale forma è stata ritenuta irrituale nel caso in cui all’indirizzo indicato il destinatario risulti sconosciuto: Cass. 11 agosto 2000 n. 10629).

Dalle esposte considerazioni consegue che il sistema di pubblicità in vigore per le società di capitali non consente di reperire in ogni ipotesi una sede legale, quando le eventuali variazioni non siano annotate. Il caso in esame ne costituisce la prova ed altri esempi potrebbero addursi (come il caso in cui l’edificio in cui era situata la sede sociale risulti totalmente demolito e sia ignota l’eventuale sede effettiva).

In ipotesi del genere il ricorso alla notificazione ai sensi dell’art. 143 c.p.c. nei confronti della persona fisica che rappresenta l’ente non può ritenersi precluso.

Invero, l’applicazione di detta norma direttamente alla persona giuridica va esclusa, perché la sua testuale formulazione impone di considerarla ontologicamente incompatibile con soggetti diversi dalle persone fisiche. Ma quando nell’atto il legale rappresentante sia indicato (e il notificante può identificarlo, formulando quindi la relativa indicazione, attraverso il sistema di pubblicità), non vi sono ostacoli – sulla base delle considerazioni sopra svolte – all’adozione nei suoi confronti delle forme di cui all’art. 143 c.p.c., quando ne risultino sconosciuti la residenza, la dimora e il domicilio. Ciò non soltanto per esigenze di completezza del sistema notificatorio ma anche perché, una volta ammessa la notifica al legale rappresentante nelle forme ordinarie, non appare giustificato escludere la possibilità di far ricorso alle particolari modalità di cui alla detta norma, che risulta riferibile a tutte le persone fisiche.

Conclusivamente, la sequenza del procedimento notificatorio nei confronti delle persone giuridiche, con particolare riguardo alle società di capitali (caso ricorrente nella specie), va così specificata:

a) la notificazione si esegue, in primo luogo, con le modalità di cui all’art. 145, 1º comma, c.p.c., cioè nella sede (legale o effettiva) mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa;

b) se la notifica non può essere eseguita con tali modalità, e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, in applicazione dell’art. 145, 3º comma, c.p.c. la notifica stessa va eseguita nei confronti di tale persona, osservando le disposizioni degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c.;

c) se neppure l’adozione di tali modalità consente di pervenire alla notificazione, si procede con le formalità dell’art. 140 c.p.c., qualora di detta norma ricorrano i presupposti, nei confronti del legale rappresentante (se indicato nell’atto e purché abbia un indirizzo diverso da quello della sede dell’ente), oppure, nel caso in cui la persona fisica non sia indicata nell’atto da notificare direttamente nei confronti della società;

d) se tali modalità non si rivelino applicabili, e nell’atto sia indicata la persona fisica che rappresenta l’ente (la quale perciò risulti di residenza, dimora e domicilio sconosciuti), la notificazione sarà eseguibile con le forme di cui all’art. 143 c.p.c. nei confronti del detto legale rappresentante.

In questi sensi il contrasto sopra segnalato resta quindi composto.

Alla stregua dei principi fin qui esposti, il ricorso della società Sud Zuccheri si rivela infondato.

Non è esatto, per quanto chiarito in precedenza, che gli atti andassero notificati alla società ai sensi dell’art. 140 c.p.c., dovendosi replicare che, a seguito del cambiamento della numerazione civica, l’indirizzo della società medesima era riferito ad un luogo in cui questa non aveva (e mai aveva avuto) sede, sicché non si sarebbe neppur potuto procedere agli adempimenti contemplati dalla citata norma (il punto, rimarcato dalla Corte territoriale, non ha formato oggetto di specifica censura).

La ricorrente, poi, nulla ha addotto in ordine alla reperibilità del legale rappresentante, il cui nome risultava dagli atti in notifica (anche questo profilo, posto in luce dalla sentenza impugnata non è stato censurato); né ha formulato doglianze in ordine al rispetto delle formalità previste dall’art. 143 c.p.c.

Essa, in effetti, ha imperniato l’impugnazione sull’asserita nullità/inesistenza delle notificazioni eseguite, nel caso in esame, ai sensi dell’articolo ora citato, perché detta norma sarebbe stata inapplicabile; e questa tesi – nel quadro delle considerazioni in precedenza svolte – non può essere condivisa.

Ne segue il rigetto del ricorso.

Avuto riguardo al contrasto di giurisprudenza esistente sulla questione si ravvisano giusti motivi per dichiarare compensate tra le parti costituite le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte Suprema di cassazione, pronunziando a Sezioni Unite, rigetta il ricorso e dichiara compensate tra le parti costituite le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2002, nella camera di consiglio delle Sezioni unite civili della Corte suprema di cassazione.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 04 GIUGNO 2002.


Cass. civ., Sez. V, (data ud. 30/05/2002) 30/05/2002, n. 7939

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Pasquale REALE – Presidente –

Dott. Massimo ODDO – Consigliere –

Dott. Stefano MONACI – Rel. Consigliere –

Dott. Antonio MERONE – Consigliere –

Dott. Giuseppe FALCONE – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

FRATTA CESARE LUIGI, FUMAGALLI GIUSEPPINA, elettivamente domiciliati in ROMA VIA CRESCENZIO 62, presso lo studio dell’avvocato ANTONELLI CAMPOSARCUNO PAOLO, che li difende unitamente all’avvocato ALLEGRO ENRICO, giusta procura in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 108/97 della Commissione tributaria regionale di MILANO, depositata il 22/09/97;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/01/02 dal Consigliere Dott. Stefano MONACI;

udito per il ricorrente, l’Avvocato ANTONELLI, che insiste per l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pietro ABBRITTI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1) Il primo Ufficio delle Imposte dirette di Milano emetteva un accertamento fiscale nei confronti dei coniugi Fratta Cesare e Fumagalli Giuseppina, rideterminandone, ai fini Irpef ed Ilor, i redditi per l’anno 1982.

L’accertamento nei loro confronti traeva origine da un altro accertamento effettuato a carico di Fratta Ernesto, figlio dei contribuenti, e titolare di un’impresa familiare cui la madre Fumagalli Giuseppina partecipava nella misura del 45%, ed il padre Fratta Cesare partecipava, invece, nella misura percentuale del 10%.

I due contribuenti Fratta Cesare e Fumagalli Giuseppina impugnavano l’accertamento in sede giurisdizionale, ma i loro ricorsi successivi venivano respinti prima dalla Commissione Tributaria di primo grado di Milano, e poi, in sede di appello, con sentenza del 23 giugno-22 settembre 1997, dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia.

Questa ultima rilevava in motivazione che l’altro accertamento, impugnato dalla società (dalla quale derivavano a loro volta i redditi accertati ai ricorrenti) era stato riconosciuto legittimo dalla Commissione Tributaria Provinciale di Milano che aveva respinto il relativo ricorso.

2) Propongono ricorso per cassazione i contribuenti Fratta Cesare Luigi e Fumagalli Giuseppina, chiedendo l’annullamento, con ogni provvedimento consequenziale, della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, ed allegando tre motivi di impugnazione.

Con il primo eccepiscono la mancanza assoluta di motivazione e la conseguente nullità della sentenza.

La sentenza della Commissione Tributaria Regionale (come del resto quella della Commissione Tributaria Provinciale) si sarebbe basata esclusivamente sull’esistenza di un’altra pronunzia della stessa Commissione Provinciale, a carico del figlio Fratta Ernesto, sentenza questa ultima che aveva dichiarato legittimo l’accertamento a carico dell’impresa familiare.

Invece le due liti fiscali (peraltro non riunite) erano distinte, e soprattutto, la pronunzia di primo grado a carico del figlio sarebbe stata appellata.

3) Con il secondo motivo di impugnazione i coniugi ricorrenti eccepiscono l’erronea e falsa applicazione della legge per quanto concerne la valutazione delle prove, e la conseguente nullità della sentenza.

L’accertamento fiscale a carico del figlio Fratta Ernesto, che svolgeva un’attività di commercio all’ingrosso di oreficeria a Milano (ed a carico, nello stesso tempo, dell’impresa familiare) era scaturito da una indagine più ampia, volta a sgominare un’associazione a delinquere finalizzata all’esportazione clandestina di capitali allo scopo di acquisire all’estero oro greggio.

Il Fratta Ernesto era stato coinvolto in questa vicenda, ed era stato fatto oggetto di accertamenti tributari per cinque anni di imposta (esattamente dal 1982 e 1987), nonché di due procedimenti penali, uno di carattere valutario e l’altro di carattere tributario, che si erano conclusi, peraltro entrambi con la sua assoluzione con formula piena, per l’esattezza una volta con la formula “perché il fatto non sussiste”, e l’altra con quella “per non aver commesso il fatto”.

Invece i giudici tributari non avevano valutato gli esiti di questi procedimenti penali e le prove raccolte nel corso di essi.

4) Con il terzo motivo i ricorrenti lamentano una violazione del diritti della difesa con conseguente nullità del procedimento.

Sostengono che all’udienza del 5 febbraio 1996 dinanzi alla Commissione Tributaria di primo grado di Milano non erano stati posti in grado di difendersi in pubblica udienza.

L’avviso di convocazione era, infatti, pervenuto al Fratta Cesare solo mesi dopo l’udienza, e da esso risultava che la notificazione era stata effettuata mediante deposito presso la Casa Comunale di Milano, e con l’invio di una raccomandata che il contribuente negava di avere mai ricevuto (che, comunque, gli sarebbe stata spedita due giorni dopo l’affissione dell’avviso sulla porta di casa del ricorrente).

5) Si è costituita con apposito controricorso l’Amministrazione finanziaria.

Nega, innanzi tutto, che sia stata impugnata la pronunzia di primo grado che ha respinto il ricorso proposto da Fratta Ernesto avverso l’accertamento a suo carico per l’anno 1982.

Quella sentenza di primo grado aveva perciò acquisito carattere di giudicato, con l’effetto di rendere definitivo anche il reddito di partecipazione dei contribuenti Cesare Luigi Fratta e Fumagalli Giuseppina.

Le rispettive liti fiscali erano sì distinte, ma, in realtà, inscindibilmente collegate tra loro.

La resistente sottolinea poi che il fatto contestato al Fratta Ernesto in sede penale (esportazione di valuta) sarebbe stato diverso da quello (acquisto senza fattura di oro grezzo) contestatogli invece in sede fiscale.

Soprattutto, quest’ultimo fatto sarebbe risultato provato.

Per quanto concerne, infine, la pretesa nullità processuale, la resistente sostiene che – come riconosciuto nella sentenza di appello impugnata – dalla documentazione esistente presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale di Milano non risultava nessuna violazione delle norme in materia di notificazione.

Motivi della decisione
1) Il ricorso non è fondato, e non può trovare accoglimento. Considerazioni di razionalità di trattazione inducono ad esaminare per primo il terzo motivo di impugnazione, che, investendo la regolarità del procedimento, assume carattere preliminare rispetto agli altri.

Il motivo non è fondato

Non appare esatto, innanzi tutto, che la Commissione Regionale non abbia motivato sull’eccezione relativa alla pretesa mancata convocazione dei contribuenti per l’udienza di discussione nel giudizio tributario di primo grado: sia pure sinteticamente la sentenza afferma che l’esercizio del diritto di difesa da parte dei contribuenti era stato sostanzialmente rispettato.

Ciò significa che La Commissione ha ritenuto regolare la notificazione dell’avviso di convocazione dei contribuenti per l’udienza di discussione in questione.

Inoltre i ricorrenti non indicano elementi astrattamente idonei a comprovare la nullità della notificazione stessa, e pertanto l’effettività dell’asserita lesione dei loro diritti di difesa.

Non è tale la circostanza secondo cui avrebbero avuto effettiva notizia dell’udienza soltanto alcuni mesi dopo, perché – come dichiarano gli stessi ricorrenti – la notificazione è stata effettuata ai sensi dell’art. 140 c.p.c., cioè con il rito degli irreperibili, e questa forma di comunicazione, per la sua stessa natura, non assicura che i destinatari abbiano effettiva notizia dell’atto notificato.

Né rileva che, come dichiarato dai ricorrenti, la raccomandata contenente l’avviso sia stata inviata al Fratta Cesare due giorni dopo l’affissione dell’avviso alla porta del ricorrente.

L’art. 140 c.p.c. prevede che “se non è possibile eseguire la consegna per irreperibilità o per incapacità o rifiuto delle persone indicate”, la notificazione abbia luogo ugualmente con lo svolgimento di tre formalità distinte: il deposito di copia dell’atto da notificare nella casa comunale, l’affissione dell’avviso del deposito sulla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario, ed infine l’invio di una raccomandata con avvio di ricevimento anch’essa con l’avviso del deposito.

La notificazione si considera perfezionata soltanto con l’esecuzione dell’ultima, in senso temporale, delle tre formalità.

Queste ultime debbono essere eseguite in uno stesso contesto temporale, nell’ambito di quella certa notificazione, ma nulla impone che vengano eseguite in uno stesso giorno. Una distanza di due giorni tra di esse non interrompe certo l’unità del contesto temporale: in sostanza, rimane irrilevante che per ragioni operative, per la mancanza di un ufficio postale aperto in orario utile, o per altro motivo, l’invio della raccomandata sia stato seguito di qualche giorno l’affissione dell’avviso sulla porta dell’abitazione o dell’ufficio del destinatario (che nella normalità dei casi verrà effettuata quando l’ufficiale giudiziario si sarà recato in luogo e non avrà potuto eseguire la notificazione con uno dei sistemi ordinari, e sarà perciò la prima, temporalmente, ad essere eseguita delle tre formalità richieste), ed il deposito dell’atto nella casa comunale.

2) Sono infondati anche i primi due motivi di impugnazione, quelli concernenti il merito.

Con il primo motivo i ricorrenti lamentano un vizio di carenza assoluta di motivazione, perché la sentenza di appello si sarebbe limitata a far riferimento alla pronunzia – che essi assumevano non ancora passata in giudicato – della Commissione Tributaria Provinciale di Milano, che aveva respinto il ricorso proposto dall’impresa familiare del loro figlio Fratta Ernesto, impresa da cui sarebbero derivati i redditi di partecipazione dei genitori, attuali ricorrenti, per l’anno 1982.

Secondo questi ultimi la sentenza, invece, non avrebbe esaminato affatto le argomentazioni difensive contenute nel loro atto di appello.

In realtà, come espressamente disponeva (nella formulazione vigente all’epoca dei fatti) il quarto comma dell’art. 5 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 597, anche il reddito di partecipazione dei genitori Fratta Cesare Luigi e Fumagalli Giuseppina dipende da quello accertato a carico dell’impresa familiare del figlio.

Per la precisione nel testo originario della norma si leggeva che “i redditi delle imprese familiari di cui all’art. 230-bis del codice civile sono imputati a ciascun collaboratore familiare, proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili dell’impresa…”.

Di conseguenza la Commissione Regionale ha motivato adeguatamente e compiutamente con il riferimento alla decisione relativa all’impresa familiare del figlio, né era tenuta a rispondere più in dettaglio ad eventuali ulteriori argomentazioni difensive delle parti (che, del resto, rimanevano assorbite).

L’affermazione, contenuta in ricorso, secondo cui quella pronunzia a carico dell’impresa familiare non sarebbe ancora passata in giudicato, ed il relativo giudizio sarebbe pendente, non trova nessun riscontro nella sentenza impugnata, e, del resto, neppure i ricorrenti offrono alcun elemento concreto, alcuna indicazione, in questo senso.

La circostanza, invece, avrebbe dovuto essere provata nel corso dei giudizi di merito, da coloro che l’affermavano, vale a dire dagli stessi ricorrenti.

3) Per quanto riguarda il secondo motivo di merito, relativo alla pretesa influenza di alcune pronunzie penali con cui il figlio Fratta Ernesto era stato assolto da imputazioni a suo carico, va rilevato che non risulta affatto che i fatti materiali contestati in sede penale fossero i medesimi posti alla base dell’accertamento da cui trae origine questa controversia fiscale.

Anche su questo punto la prova avrebbe dovuto essere fornita, nel corso dei giudizi di merito, da chi aveva interesse a dimostrarla, e perciò dagli attuali ricorrenti.

La circostanza, invece, non trova riscontro alcuno nella pronunzia della Commissione Regionale.

4) Concludendo, dunque, il ricorso non può che essere respinto, ed i ricorrenti vanno condannati in solido a rifondere, in favore dell’Amministrazione finanziaria, le spese del presente giudizio, che vengono liquidate negli importi riportati in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso e condanna i ricorrenti a rifondere favore dell’Amministrazione finanziaria, le spese d presente giudizio che liquida in € 2.100, di cui € 2.000 per onorari, oltre a quelle prenotate a debito.

Cosi deciso in Roma il 17 gennaio 2001

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 30 MAGGIO 2002.


Corte Suprema di Cassazione civ. Sez. Unite, 10-05-2002, n. 6737

REVOCAZIONE (GIUDIZIO DI)

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Vincenzo CARBONE – Primo Presidente f.f. –

Dott. Rafaele CORONA – Presidente di sezione –

Dott. Giovanni PRESTIPINO – Consigliere –

Dott. Erminio RAVAGNANI – Consigliere –

Dott. Alessandro CRISCUOLO – Consigliere –

Dott. Vincenzo PROTO – Consigliere –

Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI – Consigliere –

Dott. Mario Rosario MORELLI – Consigliere –

Dott. Stefanomaria EVANGELISTA – Rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

MONTANA GIUSEPPE, MONTANA MARIO, SCARFA ANTONIETTA, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PRINI 12, presso lo studio dell’avvocato TIZIANA CAPEZZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato ARMANDO CALAFATO, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

GUCCIARDO (*) ANTONINO , elettivamente domiciliato in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato ANTONINO MARIA CREMONA, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 768/96 del Tribunale di AGRIGENTO, depositata il 25/09/96;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/02/02 dal Consigliere Dott. Stefanomaria EVANGELISTA;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. Domenico IANNELLI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con atto di citazione notificato il 15 febbraio 1989, Giuseppe Montana, Mario Montana ed Antonietta Scarfa, convennero in giudizio davanti al pretore di Agrigento Antonio (*) Guicciardo, Francesco Barrafato e Lorenza Tamburello, al fine di ottenere la costituzione coattiva, ex art. 1051 cod. civ., di una servitù di passaggio.

Il giudice adito accolse la domanda in contumacia dei convenuti, con sentenza del 14 dicembre 1989, notificata nelle date del 28 marzo e 7 luglio 1990.

Con citazione in appello notificata nelle date del 25, 27 e 30 maggio 1991, Antonio (*) Guicciardo, rappresentato dal fratello Antonio (*), suo procuratore generale, impugnò la sentenza, sostenendo, nonostante il decorso del termine di cuiall’art. 327 cod. proc. civ., la tempestività del gravame, per avere egli ignorato l’esistenza del giudizio a causa della nullità della notificazione del relativo atto introduttivo. Questa, invero, era stata eseguita con le formalità previstedall’art. 143 cod. proc. civ., laddove le risultanze anagrafiche, dalle quali emergeva che egli si era trasferito all’estero, e precisamente a Detroit, negli Stati Uniti d’America, avrebbero consentito di conoscere il suo esatto indirizzo facendo uso dell’ordinaria diligenza, ossia consultando sul punto le autorità consolari competenti.

Il Tribunale di Agrigento, con sentenza depositata in cancelleria il 25 settembre 1996, accolse l’appello, ritenuto ammissibile in base al rilievo che, da un lato, l’indicazione dell’indirizzo estero è da escludere dal novero degli adempimenti anagrafici connessi alla dichiarazione di trasferimento; e dall’altro lato, il notificante, prima di ricorrere alle formalitàdell’art. 143 cod. proc. civ., avrebbe dovuto, facendo uso dell’ordinaria diligenza, verificare se le carenti informazioni anagrafiche potessero essere integrate con altre da assumersi presso le competenti autorità consolari, atteso anche il disposto dell’art.6dellalegge n. 470 del 1988(istitutivo dell’obbligo del cittadino che si trasferisca all’estero di darne comunicazione entro novanta giorni all’ufficio consolare nella cui circoscrizione si trova la sua nuova residenza).

Per la cassazione di questa sentenza hanno proposto ricorso, affidato a due motivi, Giuseppe Montana, Mario Montana e Scarfa Antonietta. Ha resistito con controricorso Antonino Guicciardo, per il tramite del suo procuratore generale, Giuseppe Guicciardo (*).

La seconda Sezione civile di questa Corte, con ordinanza n. 461 del 24 maggio 2000, ha trasmesso gli atti al Primo Presidente, ai fini dell’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite, in relazione al contrasto di giurisprudenza riscontrato sulla questione, introdotta col primo motivo del ricorso stesso, se, a carico del soggetto che intenda notificare un atto nei confronti di destinatario trasferitosi in una città estera risultante dai registri anagrafici, i quali non contengano, peraltro, l’indicazione dell’indirizzo dello stesso, sia configurabile l’onere di compiere ulteriori ricerche prima di poter procedere alla notificazione secondo le modalità di cuiall’art. 143 cod. proc. civ.

Il Primo Presidente ha provveduto in conformità.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, denunciandosi violazione dell’art. 143 cod. proc. civ. e vizi di motivazione, si sostiene che colui il quale trasferisca definitivamente all’estero la propria residenza è tenuto a dichiarare sia la località, sia l’esatto indirizzo, ai fini della iscrizione nell’apposito registro anagrafico e dell’opponibilità ai terzi delle relative risultanze.

Si aggiunge che il difetto di tale adempimento – richiesto non solo dal combinato disposto dell’art. 2 della legge 24 dicembre 1954, n. 1120 e dell’art. 11 del D.P.R. 31 gennaio 1958, n. 136, ma anche dall’art.2 della legge 27 ottobre 1988, n. 470, in cui, relativamente all’istituita anagrafe dei cittadini italiani all’estero, si stabilisce che “l’ufficiale di anagrafe annota sulle schede individuali l’indirizzo all’estero comunicato dall’interessato o comunque accertato” – è imputabile a colpevole inerzia del destinatario dell’atto da notificare, il cui comportamento omissivo non può tradursi nell’onere del notificante di provvedere ad accertamenti ulteriori rispetto a quelli condotti sulle risultanze anagrafiche.

Col secondo motivo di ricorso, denunciandosi violazione dell’art. 2909 cod. civ e vizi di motivazione, si assume che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza resa dal pretore di Agrigento in esito al giudizio introdotto da Antonio (*) Guicciardo per la revocazione della stessa sentenza contro la quale era stato proposto appello, il Tribunale avrebbe dovuto ritenere precluso l’esame della questione concernente la tempestività di tale ultimo gravame, poiché il giudizio sul merito dell’istanza revocatoria proposta ex art. 396, primo comma, cod. proc. civ., implicitamente, ma necessariamente, presupponeva l’accertamento della conseguita inappellabilità della sentenza revocanda.

L’esame del secondo motivo di ricorso è pregiudiziale, poiché, ove dovesse affermarsi l’efficacia panprocessuale dell’eccepito giudicato (formatosi relativamente all’implicito accertamento dell’inoppugnabilità della sentenza oggetto della suddetta istanza revocatoria), dovrebbe trarsene la conseguenza della preclusione di identico accertamento nel presente giudizio e, quindi, dell’inammissibilità – a prescindere dalla questione della validità o meno della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio – dell’appello sul quale è stata pronunciata la sentenza qui impugnata.

L’eccezione è, però, infondata.

L’implicito accertamento (relativo all’avvenuta scadenza dei termini per la proposizione dell’appello) della condizione di ammissibilità dell’istanza di revocazione straordinaria ex art. 396, primo comma, cod. proc. civ., riguarda questione di natura meramente processuale, e la Corte reputa di non doversi discostare dall’orientamento giurisprudenziale, prevalente e condiviso da autorevole parte della dottrina, secondo cui la soluzione (implicita o esplicita) di questioni pregiudiziali di rito, avendo funzione meramente preparatoria della decisione finale sul merito, non può formare oggetto di cosa giudicata in senso sostanziale, ma può operare soltanto con effetti limitati al processo in cui è stata pronunciata.

Tale avviso discende dalla considerazione che la diversità di efficacia tra le sentenze che accolgono o respingono la domanda e le sentenze processuali si ricollega al particolare oggetto e contenuto di queste ultime: in ogni processo sono individuabili due distinti e non confondibili oggetti di giudizio, l’uno (processuale) concernente la sussistenza del dovere del giudice di decidere il merito della causa, l’altro (sostanziale) relativo alla fondatezza della domanda proposta; e se può, per tale ragione, riconoscersi che anche le pronunzie di rito partecipano a pieno titolo dell’accertamento giudiziale (di cui è espressa menzione nell’art. 2909 cod. civ.), non è men vero che tali decisioni sono destinate a vedere confinata la loro rilevanza nel giudizio in cui sono state rese, avendo un oggetto che è, per definizione, strettamente inerente alla vicenda processuale in corso, perché ad essa esclusivamente attiene l’accertamento del suddetto dovere e perché la questione processuale decisa (nella specie, la scadenza dei termini per l’appello) è confinata nell’ambito della cognizione pregiudiziale rispetto alla statuizione di rito, che esclude o riconosce “principaliter” l’esistenza di questo stesso dovere del giudice di pronunciare sulla fondatezza della domanda.

Correttamente, pertanto, il giudice dell’appello ha provveduto allo scrutinio di ammissibilità del gravame e ad autonomo accertamento della sussistenza delle condizioni che, ai sensi dell’art. 327, secondo comma, consentono tale ammissibilità pur dopo la scadenza del termine annuale previsto dal primo comma della medesima norma, così escludendo qualsiasi preclusione derivante dalla sentenza del giudice della revocazione.

La ritenuta correttezza di siffatta esclusione comporta, dunque, col rigetto del primo motivo di ricorso, la necessità di stabilire se sia conforme a diritto la statuizione del giudice di appello concernente la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio, in riferimento alle condizioni che legittimano il ricorso alle modalità di cuiall’art. 143 cod. proc. civ.

Sulla questione implicata dalle censure svolte, al riguardo, col primo motivo di ricorso, la giurisprudenza della Corte ha espresso orientamenti contrastanti.

Secondo un primo orientamento – di cui è precipua espressione la sentenza 4 aprile 1986, n. 2341 – le garanzie del diritto di difesa, dalle quali discende la necessità che le forme della notificazione risultino idonee ad assicurare la conoscibilità, da parte del destinatario, dell’atto notificategli, impongono altresì di ritenere legittimo il ricorso alle forme di cuiall’art. 143 cod. proc. civ.solo in presenza di una situazione di irreperibilità che derivi da comportamento imputabile al destinatario medesimo e non sia superabile se non tramite complesse indagini: donde l’affermazione dell’insufficienza del mancato reperimento di quest’ultimo presso la sua residenza in Italia, a seguito di trasferimento all’estero, quando egli, in conformità a quanto disposto dall’art. 11 delD.P.R. 31 gennaio 1958, n. 136 (e con gli effetti di opponibilità ai terzi di cui all’art. 44 cod. civ. e all’art. 31 disp. att. c.c.), abbia provveduto a far annotare, presso l’anagrafe del comune di detta ultima residenza, lo Stato estero e la nuova località di residenza, mentre è in proposito irrilevante l’omessa indicazione anche dell’indirizzo della nuova abitazione, tenendo conto che essa non è prescritta dalla citata norma, e che comunque si tratta di un dato agevolmente acquisibile, tramite le autorità consolari.

In quest’ordine di idee si collocano anche le sentenze 8 maggio 1978, n. 2221 e 28 marzo 1991, n. 3358; la prima, infatti, ha formulato il principio per cui, qualora dai registri anagrafici risulti che la parte, alla quale deve essere notificato un atto processuale, si è trasferita all’estero, ma non risulti il comune, o l’analoga unità territoriale, del nuovo domicilio, la notificazione viene legittimamente effettuata secondo le forme dell’art. 143 solo ove il giudice del merito abbia accertato, con apprezzamento incensurabile, il vano espletamento di ricerche diligenti da parte del notificante; la seconda – emessa in una fattispecie in cui dai registri anagrafici era risultato che il convenuto era emigrato in Colombia, ma non era emerso neanche in quale città egli si trovasse -, ha ugualmente escluso la validità della notifica eseguita ai sensidell’art. 143 cod. proc. civ.in assenza del compimento di indagini diverse da quelle anagrafiche, concluse con esito negativo.

Di segno opposto è, invece, l’orientamento espresso dalla sentenza 29 novembre 1994, n. 10223, ad avviso della quale il principio secondo cui il ricorso alle modalità di notificazione di cui all’art. 143 cod. proc. civ. (notificazione a persona di residenza, dimora e domicilio sconosciuto) è consentito solo se sono state eseguite le ricerche suggerite dall’ordinaria diligenza per individuare un indirizzo presso cui eseguire la notificazione, non comporta l’onere di svolgere indagini nel caso in cui dalle ricerche anagrafiche effettuate nell’ultimo domicilio risulti il trasferimento in una città estera (nella specie, una città australiana), ma non il nuovo indirizzo.

In buona sostanza, mentre il primo dei riferiti orientamenti giurisprudenziali esige, per il ricorso alle formalità di notificazione di cui all’art. 143 cod. proc. civ., la duplice condizione che il difetto di risultanza anagrafica sia imputabile a colpevole inadempimento del destinatario e non superabile con informazioni che il notificante possa assumere facendo uso dell’ordinaria diligenza, l’altro sottolinea la portata, ed i limiti, della nozione di ordinaria diligenza, al cui ambito ritiene estranea, in caso di generica risultanza anagrafica circa il trasferimento all’estero del destinatario, ogni onere del notificante di attivarsi per acquisire la conoscenza dell’esatto indirizzo del destinatario medesimo.

È avviso delle Sezioni unite che debba essere accordata preferenza al primo dei segnalati orientamenti, ancorché per ragioni non pienamente coincidenti con quelle alle quali esso è stato affidato dalle ricordate sentenze, stante l’evoluzione del quadro normativo di riferimento, nel frattempo realizzatosi, anche per effetto della giurisprudenza costituzionale sul regime delle notificazioni.

In particolare, la sentenza n. 2341 del 1986 appare per larga parte improntata alla riconosciuta inesistenza di un obbligo del cittadino che trasferisca all’estero la propria residenza di comunicare all’ufficio anagrafico competente anche il proprio indirizzo.

Questa conclusione, con riguardo al caso di specie, non è più pienamente mutuabile, poiché, attesa la data dell’atto introduttivo del giudizio, il suddetto quadro normativo di riferimento, per le procedure anagrafiche di trasferimento all’estero, si era ormai arricchito delle disposizioni della legge 27 ottobre 1988, n. 470, recante “Anagrafe e censimento degli italiani all’estero”, con la quale sono state istituite le Aire (anagrafi dei cittadini italiani residenti all’estero), tenute dai Comuni e dal Ministero dell’interno sulla base delle schede, individuali e di famiglia, eliminate dall’anagrafe della popolazione residente in dipendenza del trasferimento permanente all’estero delle persone cui esse si riferiscono.

L’art. 2 della legge citata, dopo avere elencato, al comma 1, i casi di iscrizione nelle menzionate anagrafi, tra i quali figura, alla lett. a), il trasferimento della residenza da un comune italiano all’estero, dichiarato o accertato a norma del regolamento di esecuzione dellalegge n. 1228 del 1954, al comma 2 precisa che l’ufficiale di anagrafe annota sulle schede individuali “l’indirizzo all’estero comunicato dall’interessato o comunque accertato”.

L’art. 3 della stessa legge dispone che nelle istituite anagrafi degli italiani residenti all’estero devono essere registrate le mutazioni conseguenti, tra l’altro, alle dichiarazioni, rese dagli interessati, concernenti i “trasferimenti di residenza o di abitazione” che hanno avuto luogo all’estero (lett. a).

Inoltre, l’art. 6, dopo avere stabilito, al comma 1, che i cittadini italiani che trasferiscono la loro residenza da un comune italiano all’estero devono fame dichiarazione all’ufficio consolare della circoscrizione di immigrazione entro novanta giorni dalla immigrazione, prevede, al comma 2, per i cittadini già residenti all’estero alla data di entrata in vigore della legge, l’obbligo di dichiarare la propria residenza al competente ufficio consolare entro un anno da tale data ed aggiunge, al comma 3, che i cittadini residenti all’estero, in caso di mutamento della residenza o “dell’abitazione”, devono farne dichiarazione entro novanta giorni all’ufficio consolare nella cui circoscrizione si trova la nuova residenza o la nuova abitazione.

Il Regolamento per l’esecuzione dellalegge n. 470 del 1988, approvato conD.P.R. 6 settembre 1989, n. 323, all’art. 4, fa riferimento all’”indirizzo estero”, annoverandolo fra i dati da riportare, “in quanto disponibili”, per ciascuno dei cittadini italiani iscritti nelle Aire, il cui elenco nominativo i comuni, a norma dello stesso art. 4, entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore del regolamento stesso, devono trasmettere alle competenti prefetture per il successivo inoltro al Ministero dell’interno, ai fini della prima formazione della pane principale dell’anagrafe presso lo stesso Ministero.

Giova, peraltro, porre H luce che, l’acquisizione dei dati rilevanti ai fini della formazione degli schedari di cui sopra, se è in via prioritaria rimessa all’onere del cittadino tenuto alle relative dichiarazioni (delle quali è responsabile ex art. 6 delD.P.R. n. 223 del 1989, anche nel caso di trasferimento all’estero, come emerge dal successivo art. 13, comma 1, lett. a), è, in via sussidiaria, oggetto di una specifica funzione dell’Amministrazione competente, essendo stabilito dall’art.6, comma 5 della legge n. 470 del 1988che, scaduti i termini per la presentazione delle dichiarazioni oggetto dell’onere anzidetto, “gli uffici consolari provvedono ad iscrivere d’ufficio nei predetti schedari i cittadini italiani che non abbiano presentato le dichiarazioni, ma dei quali gli uffici consolari abbiano conoscenza, in base ai dati il loro possesso”. Né è senza rilievo la prevista rilevazione dei cittadini italiani all’estero (che, giusta l’art. 8 della stessa legge, ha luogo contemporaneamente al censimento dei cittadini residenti in Italia), ai fini della quale è del pari prevista un’iniziativa officiosa delle rappresentanze diplomatiche e degli uffici consolari, cui è demandato di “svolgere ogni opportuna azione intesa ad ottenere la segnalazione da parte delle pubbliche autorità locali dei nominativi e del recapito di cittadini italiani che si trovano nella loro circoscrizione” (art. 13), con conseguente acquisizione di dati dei quali è espressamente stabilita la destinazione, fra l’altro, ad aggiornamento degli schedari dell’Aire (art. 14, terzo comma e art. 18).

Ne emerge, dunque, un sistema che, a differenza di quello esaminato dalla sentenza del 1986, indubbiamente contempla la necessità di registrazione del dato concernente l’indirizzo del cittadino che si trasferisca all’estero o che vi risieda al momento dell’entrata in vigore della legge: necessità soddisfatta per il tramite dei competenti Uffici consolari, quali organi amministrativi destinatari dell’adempimento dell’obbligo di tali cittadini di fornire le informazioni necessarie alla propria reperibilità, ovvero titolari essi stessi del potere – dovere di provvedere agli opportuni accertamenti.

La consultazione dell’Aire è, dunque, il primo ed indispensabile adempimento cui il notificante è tenuto, allorché le risultanze dell’anagrafe ordinaria indichino l’avvenuto trasferimento all’estero del destinatario della notificazione, atteso che tale schedario speciale è lo strumento che, a normadell’art. 44 cod. civ., assume la funzione di rendere opponibili ai terzi i dati dichiarati, nei modi prescritti dalla legge, dai cittadini non residenti, sicché la detta consultazione si configura come un mero completamento di quella iniziata con riguardo ai registri anagrafici dei cittadini residenti nella Repubblica.

Da ciò, tuttavia non è dato trarre la conclusione che il difetto di risultanza anagrafica (ordinaria e speciale) circa l’esatto indirizzo del destinatario all’estero sia condizione sufficiente per esonerare il notificante da qualsivoglia ricerca ulteriore.

Vi ostano due fondamentali ragioni: l’una tutta interna alla disciplina stessa che ha istituito l’obbligo suddetto; l’altra, di carattere sistematico, che induce a negare un effettivo collegamento fra l’inadempimento dell’obbligo gravante sul destinatario e l’ambito della diligenza richiesta al notificante in ordine alla ricerca dei dati di identificazione del luogo in cui il primo può essere raggiunto.

Sotto il primo aspetto, rileva la posizione centrale che nella descritta disciplina assumono ali uffici consolari.

La disposizione per cui, in via sussidiaria, è rimesso al potere – dovere degli stessi Uffici di provvedere all’accertamento diretto dei medesimi dati non comunicati tempestivamente dall’interessato ha un effetto additivo rispetto alle fonti di conoscenza, con conseguente impossibilità di rinvenire nell’inerzia di quest’ultimo la ragione di un’impossibilità pratica di colmare la lacuna informativa del notificante circa quei dati. Correlativamente, passando dal piano pratico a quello giuridico, è plausibile il rilievo che i suddetti Uffici, in quanto collettori dell’informazione destinata ad alimentare i registri anagrafici, sia essa ottenuta per adempimento dell’obbligo suddetto o per iniziativa autonoma degli uffici medesimi, si collocano in una posizione non dissimile da quella delle Amministrazioni competenti alla tenuta di tali registri e, pertanto, rappresentano, anche istituzionalmente, organi che possono essere utilmente aditi per la soddisfazione delle menzionate necessità informative: il che va ribadito anche alla luce del disposto dell’art.67 del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, il quale, nel prevedere che presso ogni ufficio consolare è istituito e mantenuto uno schedario il più possibile aggiornato, tenuto conto delle circostanze locali, dei cittadini residenti nella circoscrizione, stabilisce che l’autorità consolare può rilasciare certificazione dei dati risultanti dallo schedario stesso.

Né il ricorso a questa possibile fonte alternativa di acquisizione del dato d’interesse del notificante comporta a carico del medesimo oneri abnormi, trattandosi di uffici esattamente identificati dalla legge, compulsabili senza necessità di osservare procedure complesse ed eventualmente anche per il tramite dell’Amministrazione centrale cui essi fanno capo, nonché con l’ausilio di mezzi elettronici, idonei ad assicurare l’evasione della richiesta in “tempo reale”, come emerge dalle prescrizioni dell’art. 4 delD.P.R. 6 settembre 1989, n. 323, in coerenza col disposto anche dell’art. 74 del citato D.P.R. n. 200 del 1967, che autorizza l’utilizzazione del mezzo telegrafico o telefonico nei rapporti fra l’Amministrazione centrale e l’ufficio consolare che trasmette informazioni.

Per quanto attiene al secondo, e più complesso, aspetto, deve porsi in evidenza che la disciplina della notificazione in generale e, in particolare di quella che governa il caso di destinatario non residente, né dimorante, né domiciliato nella Repubblica, costituisce punto di equilibrio fra esigenze contrapposte, ancorché parimenti presidiate dalle garanzie che l’art. 24 Cost.somministra al diritto di agire in giudizio ed a quello di difendersi dall’altrui azione. Sta, invero, da un lato, la necessità di garantire al notificante, anche in relazione ai termini di prescrizione o decadenza che questi sia eventualmente tenuto ad osservare, il libero e sollecito esercizio dei propri diritti; e, dall’altro, la non minore importanza delle garanzie di effettiva conoscenza dell’atto che devono essere offerte al destinatario, per assicurargli concretamente la possibilità di difendersi dalle pretese svolte nei suoi confronti.

Gli interventi della Corte Costituzionale e del legislatore, susseguitisi sugli artt. 142 e 143, terzo comma ne sono convincente dimostrazione, in quanto concorrono a costituire un sistema strutturato sulla distinzione tra perfezionamento ed efficacia dell’atto, che, già proprio, nei suoi aspetti sostanziali, dell’impianto originario delle norme codificate, si ulteriormente arricchito di precisazioni successive, intese a meglio salvaguardare ora l’interesse all’effettività della conoscenza, ora quello alla speditezza del procedimento.

Così, la dichiarazione di illegittimità costituzionale (sentenza n. 10 del 1978) dell’originario comma terzo dell’art. 143, nella parte in cui non prevedeva che, in ipotesi di notificazione diretta a persona non residente, né dimorante, né domiciliata nel territorio della Repubblica, la sua applicazione fosse subordinata all’accertata impossibilità di eseguire nei modi consentiti dalle convenzioni internazionali e dal D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200, recante disposizioni sulle funzioni e sui poteri consolari, privilegia, rispetto al principio di conoscenza legale, le esigenze di conoscenza effettiva, attraverso il richiamo alla preliminare rilevanza della disciplina pattizia, generalmente improntata al principio dell’effettività della conoscenza.

Di qui il successivo intervento del Legislatore, che con lalegge 6 febbraio 1981, n. 42, di ratifica ed esecuzione della convenzione relativa alla notifica all’estero di atti giudiziari ed extragiudiziari in materia civile o commerciale, adottata a l’Aja il 15 novembre 19658, ha modificato (articoli 8, 9 e 10) definitivamente il testo degliartt. 142 e 143 cod. proc. civ., inserendo nell’art. 142 un terzo comma, che prevede che “le disposizioni di cui ai commi precedenti si applicano soltanto nei casi in cui risulta impossibile eseguire la notificazione in uno dei modi consentiti dalle convenzioni internazionali e dagli artt.30e75 del D.P.R. 5 gennaio 1967, n. 200”; e sostituendo il terzo comma dell’art. 143 nel senso che “nei casi previsti dal presente articolo e nei primi due commi dell’articolo precedente, la notificazione si ha per eseguita nel ventesimo giorno successivo a quello in cui sono compiute le formalità prescritte”.

Un riequilibrio a favore delle garanzie di effettività dell’esercizio dei diritti del notificante si è realizzato con la sentenza della Corte Costituzionale n. 69 del 1994, con la quale è stata dichiarata la illegittimità costituzionale, per violazione degliartt. 3 e 24 Cost., del combinato dispostodell’art. 142, terzo comma, c.p.c.dell’art. 143, terzo comma, c.p.c. e dell’art. 680, primo comma, cod. proc. civ.nella parte in cui non prevedono che la notificazione all’estero del sequestro si perfezioni, ai fini dell’osservanza del prescritto termine, con il compimento delle formalità imposte al notificante dalle convenzioni internazionali e dalla legge consolare.

E la stessa Corte Costituzionale, con la successiva sentenza n. 358 del 1996 (nel rigettare la questione di legittimità costituzionale, sollevata per contrasto con l’art. 3 Cost.) e l’art. 24 Cost.,dell’art. 669-octies cod. proc. civ., nella parte in cui prevede che in ipotesi di rilascio “ante causam” della misura cautelare, il giudizio di merito debba essere instaurato entro il termine stabilito dal giudice e comunque non superiore a trenta giorni, senza distinzione a seconda che la notifica dell’atto di citazione debba essere effettuata in Italia oppure all’estero) ha specificato che il meccanismo della notificazione all’estero, sotto l’aspetto funzionale, è stato modificato dalla intervenuta declaratoria di illegittimità di cui alla citata sentenza n. 69 del 1994, la quale assume una valenza generale poiché trascende la specifica fattispecie oggetto di quel giudizio e coinvolge il complessivo sistema notificatorio degli atti processuali risultante dagliartt. 142 e 143 cod. proc. civ. delimitandone l’ambito di operatività, le modalità ed i momenti di perfezionamento a seconda dei soggetti coinvolti e, soprattutto, a prescindere dal contenuto degli atti stessi.

Si riconosce, dunque, elevato a principio fondamentale della materia l’anticipazione del perfezionamento dell’atto, nei riguardi della parte notificante, al compimento delle formalità volta a volta indicate dalla legge – e, in particolare, dalle convenzioni internazionali vigenti in materia – con persistente operatività della suesposta regola della scissione tra il detto perfezionamento e la successiva efficacia dell’atto nei confronti del destinatario e con riguardo alla esigenza di operare un bilanciamento dei valori tutelati dalla Costituzione, ponendo quale limite al concreto esercizio del diritto di difesa del destinatario la esigenza dell’istante al rituale e spedito svolgimento del processo, che si estrinseca in un sistema idoneo ad una più agevole notificazione degli atti.

Del resto, seguendo la “ratio” della necessità di assicurare un siffatto bilanciamento, la Corte Costituzionale, già con la sentenza n. 213 del 1975, aveva espressamente formulato il principio secondo il quale nel processo civile, a differenza di quanto accade nel processo penale, “il diritto di difesa di ciascuna parte va contemperato con quello dell’altra, cosicché, con riguardo alle notifiche, a ragione vengono tenuti presenti non solo gli interessi del destinatario dell’atto, ma anche le esigenze del notificante, sul quale possono gravare oneri di notifica entro termini di decadenza”.

Orbene, identica “ratio” appare sottesa alla giurisprudenza di questa Corte sull’interpretazione dell’art. 143 cod. proc. civ., improntata a costante affermazione del principio per cui, al fine della validità della notificazione eseguita secondo questa norma, occorre che la conoscenza del luogo di residenza, dimora o domicilio del notificando sia oggettivamente impossibile per il notificante, nel senso che l’ignoranza di tali dati non sia superabile con l’impiego dell’ordinaria diligenza, la quale comporta la necessità di ricerche e richieste di informazioni suggerite dal caso concreto, non limitabili alla riscontrata insufficienza delle risultanze anagrafiche (si vedano, fra le tante, Cass., 26 marzo 2001, n. 4339; Id., 3 febbraio 1998, n. 1092; Id., 2 maggio 1997, n. 3799; Id., 18 luglio 1997, n. 6618; Id., 10 luglio 1997, n. 6257; Id. 20 dicembre 1996, n. 11428; Id., 25 novembre 1995, n. 12223; Id., 13 maggio 1991, n. 5329).

In effetti, come le contrapposte esigenze cui deve assicurare soddisfazione il procedimento notificatorio confluiscono e si contemperano nell’operatività della regola della scissione del momento del perfezionamento rispetto a quello dell’efficacia, così si esclude un rapporto di causalità – dipendenza fra l’onere (di colui che voglia rendere opponibile ai terzi la propria reperibilità in un determinato luogo) di provvedere ad un’apposita dichiarazione finalizzata alle opportune annotazioni in pubblici registri e l’onere del notificante di ricercare diligentemente i dati personali del destinatario della notificazione, anche al di là di tali annotazioni: i comportamenti richiesti ai soggetti portatori delle esigenze suddette rilevano su piani diversi, essendo il puntuale assolvimento del proprio onere, da parte del destinatario, funzionale alla realizzazione delle condizioni in presenza delle quali deve farsi luogo a formalità di notificazione che meglio assecondano la realizzazione dell’effettiva conoscenza dell’atto; mentre l’onere, imposto al notificante di provvedere alla suddetta ricerca è strumentale all’interesse al perfezionamento del procedimento notificatorio, anche con eventuale ricorso a formalità che, rispetto all’esigenza dell’effettività della conoscenza, privilegino questo stesso interesse, con compressione dei diritti di difesa del destinatario che non avrebbe ragion d’essere qualora, nonostante l’esito negativo della consultazione dei registri, ancorché determinato dalla negligenza del destinatario medesimo, rimanessero sperimentabili, ma inesplorate, ulteriori possibilità di ricerca, richiedenti l’impiego di normale diligenza, non diversa da quella implicata da siffatta consultazione.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, può, conclusivamente affermarsi in via di principio che, sebbene la disciplina degli adempimenti anagrafici dovuti dal cittadini italiani che trasferiscano all’estero la propria residenza risulti improntata al principio dell’acquisizione anche del dato costituito dall’indirizzo dell’interessato e della disponibilità del medesimo attraverso i registri dell’AIRE, il difetto di risultanze anagrafiche relative ad esso, ancorché imputabile, in via prioritaria, ad inerzia del destinatario di una notificazione, non legittima, per questo solo fatto il notificante al ricorso alle formalità di notificazione di cuiall’art. 143 cod. proc. civ., che resta, invece, subordinato all’esito negativo di ulteriori ricerche eseguibili con l’impiego dell’ordinaria diligenza presso l’Ufficio consolare di cui all’art.6 della legge 27 ottobre 1988, n. 470, che costituisce non solo il tramite istituzionale attraverso il quale il contenuto informativo dell’adempimento degli obblighi di dichiarazione del cittadino all’estero perviene alle amministrazioni competenti alla tenuta dei menzionati registri, ma anche l’organo cui competono poteri sussidiari di accertamento e rilevazione, intesi a porre rimedio alle lacune informative derivanti dall’inerzia suddetta.

Le statuizioni della sentenza impugnata, in punto di nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio eseguita ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., senza alcuna preventiva indagine presso i competenti uffici consolari, si palesano, dunque, conformi al diritto, con conseguente infondatezza anche del primo motivo del ricorso.

Il ricorso stesso va, pertanto, va rigettato.

Il contrasto di giurisprudenza esistente sull’esaminata questione costituisce giusto motivo di compensazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma il 21 febbraio 2002.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 10 MAGGIO 2002.

(*) ndr: così nel testo.


Cass. pen. Sez. VI, (ud. 14-11-2001) 01-02-2002, n. 3883

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. Francesco Romano Presidente

1. Dott. Dolfo Di Virginio Consigliere

2. ” Antonio Stefano Agrò “

3. ” Nicola Milo (rel.)”

4. ” Giorgio Colla “

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da , nato a Teggiano l’1-2-1950,

avverso la sentenza 9-11-2000 della Corte d’Appello di Salerno:

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dr. N. Milo;

Udito il Pubblico Ministero in persona del dr. Enrico Delehaye che ha concluso per il rigetto del ricorso;

il difensore avv. M. Pinto non è comparso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
La Corte d’Appello di Salerno, con sentenza 9-11-’00, riformando in parte quella in data 14-10-’98 del GUP del Tribunale di Sala Consilina che, all’esito del rito abbreviato, aveva dichiarato colpevole del reato di cui all’art. 314/2^ c.p., attenuato ex artt. 62 bis e 62 n. 6 c.p., concedeva all’imputato anche l’attenuante della speciale tenuità del danno (art. 62 n. 4 c.p.) e riduceva la pena principale, già condizionalmente sospesa, a mesi due e giorni dieci di reclusione, ferma restando la pena accessoria dell’interdizione temporanea dai pubblici uffici.

Al , in particolare, si era addebitato di avere ripetutamente fatto uso, per ragioni personali e private, tra il maggio e il giugno 1995, dell’utenza telefonica installata presso il Comune di Teggiano, della quale, in quanto consigliere comunale, aveva la disponibilità.

Ha proposto, tramite il proprio difensore, ricorso per cassazione il prevenuto e ha lamentato la violazione degli art. 323 bis c.p. e 53 della legge 689/’81, nonché il connesso vizio di motivazione, sostenendo che ricorrevano i presupposti per ritenere il fatto di particolare tenuità e per accordargli la sostituzione della pena detentiva con la corrispondente pena pecuniaria.

La difesa dell’imputato ha depositato, in data 21-5-2001, memoria, con la quale, insistendo nelle censure già articolate, ha dedotto una ulteriore doglianza finalizzata a sostenere, attraverso il richiamo di un precedente giurisprudenziale di questa Corte, l’irrilevanza penale del fatto.

All’odierna udienza pubblica, assente il difensore del ricorrente, il P.G. ha concluso come da epigrafe.

Preliminarmente, va disattesa l’istanza di differimento della trattazione del presente procedimento, per allegato impedimento del difensore. Detta istanza, infatti, è supportata da una documentazione giustificativa generica e non è stata comunicata tempestivamente, ma solo in data 5 novembre u.s.

Il ricorso, in quanto manifestamente infondato, va dichiarato inammissibile.

Non ha pregio il motivo aggiunto di cui alla memoria 21-5-2001.

Il richiamo che in questa si è fatto al recente precedente di questa Corte (sentenza n. 554 del 20-4-2001, P.M. c. ) è fuori luogo, perché la soluzione in quel caso adottata, in quanto coerente con una certa ricostruzione fattuale, non può essere, per così dire, “estesa” al caso in esame, per ritenere l’irrilevanza penale dello stesso.

Quel precedente giurisprudenziale va, anzi, tenuto presente per qualificare più correttamente, “sub specie iuris”, la condotta scritta all’imputato.

Posto che questa è consistita nell’utilizzazione dell’utenza telefonica del Comune di Teggiano, per lunghe e ripetute conversazioni personali dal contenuto erotico – sentimentale, va precisato che, in questo caso, si è verificata una vera e definitiva appropriazione degli impulsi elettronici attraverso i quali si trasmette la voce, atteso che l’art. 624/2^c.p. dispone che “agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica ed ogni altra energia che abbia valore economico”.

Se, quindi, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, disponendo, per ragione dell’ufficio o del servizio, dell’utenza telefonica intestata alla P.A. la utilizza per effettuare chiamate d’interesse personale, il fatto lesivo si sostanzia non nell’uso dell’apparecchio telefonico quale oggetto fisico, come ritenuto in sede di merito, bensì nell’appropriazione, che attraverso tale uso si consegue, delle energie, entrate a fare parte della sfera di disponibilità della P.A., occorrenti per le conversazioni telefoniche.

Ciò porta a inquadrare l’ipotesi in esame nel peculato ordinario di cui al primo comma dell’art. 314 c.p., considerato che non sono immediatamente restituibili, dopo l’uso, le energie utilizzate (e lo stesso eventuale rimborso delle somme corrispondenti all’entità dell’utilizzo non potrebbe che valere come ristoro del danno arrecato).

Nel caso specifico, a differenza dell’episodio oggetto della decisione di questa Corte richiamata nella memoria difensiva, non ricorrono, avuto riguardo al tenore delle conversazioni, quelle “rilevanti e contingenti esigenze personali” che, in via eccezionale, potrebbero giustificare l’utilizzo della linea telefonica di una pubblica amministrazione.

Nessun riflesso sul trattamento sanzionatorio, difettando il gravame del P.M.

La Corte di merito ha, poi, dato conto, con motivazione adeguata e immune da vizi logici. delle ragioni che l’hanno indotta a non accordare la sollecitata attenuante di cui all’art. 323 bis C.P. e la sostituzione della pena detentiva: si è fatto leva su argomentazioni non meramente formali e tangibili, ma indicativi della particolare gravità del fatto e della negativa personalità dell’agente, apprezzamenti questi che, implicano una valutazione fattuale, non possono essere contestati in questa sede, anche perché sono in linea con la “ratio” delle norme di legge denunciate.

Consegue, di diritto, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese e della sanzione pecuniaria di L 1.000.000 (ritenuta congrua) alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.
Qualificato il fatto come peculato di cui al primo comma dell’art. 314 C.P., dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di L 1.000.000 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso il 14.11.’01

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 1 FEB. 2002


Cass. civ. Sez. lavoro, 14-08-2001, n. 11105

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Antonio SAGGIO – Presidente –

Dott. Alberto SPANÒ – Consigliere –

Dott. Attilio CELENTANO – Rel. Consigliere –

Dott. Paolo STILE – Consigliere –

Dott. Aldo DE MATTEIS – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

LATTANZI BRUNO, elettivamente domiciliato in ROMA V.LE MAZZINI 6, presso lo studio dell’avvocato ELIO VITALE, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

CASSA NAZIONALE DI PREVIDENZA E ASSISTENZA A FAVORE DEI DOTTORI COMMERCIALISTI, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VLE DELLE MILIZIE 19, presso lo studio dell’avvocato ALDO LUCIO LANIA, che lo rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 668/99 del Tribunale di MACERATA, depositata il 10/11/99 R.G.N. 10/97;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/06/01 dal Consigliere Dott. Attilio CELENTANO;

udito l’Avvocato VITALE;

udito l’Avvocato LANIA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Renato FINOCCHI GHERSI che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso del 17 marzo 1989 il signor Bruno Lattanzi chiedeva al Pretore di Ancona la condanna della Cassa Nazionale Previdenza ed Assistenza a favore dei Dottori Commercialisti a corrispondergli la pensione di vecchiaia, negata in sede amministrativa.

Costituitasi, la convenuta si opponeva alla domanda, sostenendo che dalla documentazione prodotta dal Lattanzi erano risultate solo sporadiche prestazioni professionali, per le quali il ricorrente non aveva ricevuto compensi.

Con sentenza del 23 maggio/27 novembre 1990 il Pretore rigettava la domanda, escludendo l’esercizio di un’attività qualificabile come libera professione.

Il Tribunale di Ancona, adito in sede di appello dal Lattanzi, riconosceva invece l’esistenza del diritto vantato dall’appellante e condannava la Cassa al pagamento della pensione. I giudici di secondo grado osservavano che il Lattanzi aveva maturato il diritto alla pensione prima dell’entrata in vigore della legge n. 21 del 29 gennaio 1986, che aveva sancito l’obbligo di iscrizione alla Cassa solo per i dottori commercialisti, iscritti all’albo professionale, che esercitassero la libera professione con carattere di continuità.

Secondo la previgente disciplina, applicabile alla posizione del Lattanzi, la iscrizione alla Cassa era obbligatoria a prescindere dalla continuità dell’esercizio dell’attività professionale, per cui era irrilevante l’entità di tale esercizio, spettando la pensione anche con il versamento della sola contribuzione minima obbligatoria.

Avverso tale sentenza la Cassa ricorreva per cassazione, sostenendo che fin dalla legge 3 febbraio 1983 n. 100 il libero professionista, per avere diritto alla pensione, doveva in ogni caso ricavare dalla sua attività un reddito, anche modesto; il che non era avvenuto nel caso del Lattanzi, il quale, per sua esplicita ammissione, negli anni dal 1972 al 1981 aveva lavorato, in regime di subordinazione, alle dipendenze del Consorzio nazionale obbligatorio tra gli esattori delle imposte dirette, mentre prima del 1972 aveva lavorato alle dipendenze dell’istituto Bancario, tanto da essere pensionato INPDAI.

Il ricorso veniva accolto “per quanto di ragione” da questa Corte con sentenza n. 3493 del 13 aprile 1996.

Ricordato che secondo l’art. 2 della legge 3 febbraio 1963 n. 100, applicabile alla fattispecie, il diritto alla pensione sorge pur sempre quando vi sia stata una effettiva pratica professionale, pur essendo irrilevante l’entità e la intensità del lavoro concretamente svolto e sussistendo, inoltre, una presunzione semplice di esercizio dell’attività professionale per chi fosse iscritto alla Cassa, la Corte rilevava che il Tribunale di Ancona non aveva affatto proceduto ad accertare se il Lattanzi avesse effettivamente esercitato la professione, sia pure senza il carattere della continuità (punto sul quale le circostanze di fatto non erano per nulla pacifiche).

Cassava, pertanto, la sentenza impugnata e rinviava la causa al Tribunale di Macerata, perché accertasse in fatto “la natura e la entità, sia pur minima dell’attività svolta dal Lattanzi nel corso di tutto il suo periodo di iscrizione alla Cassa, al fine del raggiungimento del periodo minimo di contribuzione”.

La Cassa riassumeva la causa davanti al giudice di rinvio, chiedendo rigettarsi la domanda del ricorrente; il Lattanzi si costituiva, chiedendo, invece, l’accoglimento del suo ricorso.

Con sentenza del 27 ottobre/10 novembre 1999 il Tribunale di Macerata rigettava l’appello, confermando quindi la sentenza del Pretore di Ancona.

Il giudice del rinvio osservava, da un lato, che il Lattanzi non aveva provato la prestazione da parte sua di attività libero professionale di dottore commercialista per il periodo necessario al maturare del diritto alla pensione e, dall’altro, che dalla istruttoria espletata in primo grado era risultato che per almeno tredici anni il Lattanzi aveva svolto attività di vice direttore del Consorzio nazionale per la meccanizzazione, di assorbente impegno, sicché veniva confermato anche il mancato compimento del periodo temporale necessario per il maturare del diritto alla prestazione previdenziale.

Per la cassazione della sentenza del Tribunale di Macerata ricorre, formulando tre motivi di censura, illustrati con memoria, il dottor Bruno Lattanzi.

La Cassa nazionale di previdenza e assistenza a favore dei dottori commercialisti resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, denunciando “violazione delle norme di diritto relative alle presunzioni”, la difesa del dott. Lattanzi deduce che erroneamente il Tribunale ha rigettato la domanda per la mancata prova dell’esercizio dell’attività professionale. Assume che, sussistendo una presunzione semplice di esercizio, sia pur minimo, di attività professionale per gli iscritti alla Cassa, non competeva al ricorrente dimostrare l’esistenza di tale attività, ma alla Cassa dimostrare il mancato esercizio.

Aggiunge che, comunque, il Tribunale ha illegittimamente escluso che le prove addotte fossero idonee ad attivare una attività istruttoria di ufficio, non essendosi tenuto conto del fatto che la stessa controparte aveva riconosciuto che nel periodo considerato, 1972/1976, il Lattanzi aveva svolto attività libero professionale, contestando solo il requisito della continuità.

Con il secondo motivo la difesa del dottor Lattanzi denuncia violazione delle norme relative al procedimento di rinvio, con particolare riguardo all’art 112 in relazione all’art. 394 c.p.c..

Assume che il Tribunale di Macerata ha errato nel ritenere insufficienti gli elementi probatori prodotti dal Lattanzi, ed in particolare la dichiarazione della Consulmarche.

Rileva, poi, che il Lattanzi non poteva, contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, chiedere di espletare nuova attività istruttoria, atteso il carattere chiuso del processo di rinvio.

Con il terzo motivo viene denunciata violazione e falsa applicazione delle norme di legge in ordine alla valutazione delle prove.

Si deduce che, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza impugnata circa la carenza di elementi identificativi della Consulmarche (pag. 6, ultimo capoverso), erano depositai in atti, fin dal primo grado, “oltre alla dichiarazione del 3.7.87 del Presidente della succitata Società, anche diversi depliant pubblicitari relativi alla Consulmarche srl e relativi sia a convegni da essa organizzati, sia di presentazione della stessa, oltre a numerosi bollettini informativi predisposti dalla stessa Società la quale, sarà bene precisarlo è una società di consulenza aziendale che vanta tra i propri Clienti i maggiori Industriali delle Marche a cui fornisce vari servizi, tra i quali anche quelli tributari, commerciali, e di formazione”.

Il ricorso, i cui tre motivi si trattano congiuntamente in considerazione della loro stretta connessione, non è fondato, anche se alcune censure appaiono esatte; si tratta però di erronee affermazioni, da parte del giudice di rinvio, che non hanno inciso sulla correttezza della decisione.

Va infatti sottolineato che la sentenza del Tribunale di Macerata si fonda su una doppia motivazione.

Da una parte il Tribunale ha affermato che il dottor Lattanzi, cui incombeva l’onere di dimostrare l’esercizio di attività professionale per il periodo necessario al maturare del diritto alla pensione, non aveva chiesto l’espletamento di alcuna nuova attività istruttoria in sede di rinvio, e che la dichiarazione in data 3.7.87 a firma illeggibile del presidente della srl Consulmarche (della quale non venivano forniti ulteriori elementi identificatori) si limitava ad attestare che il Lattanzi avrebbe collaborato “per diversi anni” al periodico “consulmarche informa”, che avrebbe avuto contenuto amministrativo e fiscale; per il resto la dichiarazione era generica e ricognitiva di giudizi piuttosto che di fatti inerenti l’attività professionali del Lattanzi. La domanda andava pertanto rigettata per il mancato assolvimento dell’onere della prova da parte del dottore commercialista.

Né il Tribunale riteneva che la documentazione prodotta, attesa la scarsa o nulla valenza probatoria in ordine allo svolgimento di attività professionale, giustificasse l’attivarsi istruttorio dell’Ufficio.

Dall’altra, il giudice di rinvio ha osservato che dalla istruttoria pretorile era risultato che per almeno tredici anni il Lattanzi aveva svolto attività di vice direttore del Consorzio per la meccanizzazione, di assorbente impegno per la importanza e molteplicità delle attività connesse, per cui veniva confermata la circostanza del mancato compimento del periodo temporale necessario per il maturare del diritto alla prestazione previdenziale.

La prima motivazione contiene, indubbiamente, alcune inesattezze.

Avendo la sentenza rescindente affermato che esiste, per chi sia iscritto alla Cassa, la presunzione semplice dell’effettivo esercizio di attività libero – professionale, il che sposta sulla Cassa l’onere di dimostrare la insussistenza dell’esercizio della libera professione (pag. 9 della sentenza n. 3493/96), erroneamente il Tribunale di Macerata ha addossato l’onere della prova al dottor Lattanzi (salvo per quanto concerne la prova di elementi atti a contrastare gli opposti elementi forniti dalla Cassa). Ed erroneamente ha ritenuto che nel giudizio di rinvio – nel quale non risultavano spostati i termini del contendere – avrebbero potuto essere richiesti, dalle parti, nuovi mezzi istruttori.

Questa seconda affermazione non tiene conto del fatto che l’art. 394 c.p.c. vieta alle parti di prendere conclusioni diverse da quelle prese nel giudizio nel quale fu pronunciata la sentenza cassata (salvo che la necessità delle nuove conclusioni sorga dalla sentenza di cassazione), per cui nel giudizio di rinvio non possono essere articolate prove non dedotte nel primo giudizio di appello, a meno che dalla sentenza di annullamento non risulti modificato il thema decidendum (Cass., 12 ottobre 1994 n. 8334; 14 aprile 1999 n. 3680).

La seconda motivazione, invece, appare corretta ed è da sola idonea a fondare la decisione di rigetto della richiesta di prestazione previdenziale.

Il Tribunale di Macerata ha ritenuto, infatti, che dalla istruttoria pretorile era risultato che per almeno tredici anni il Lattanzi aveva svolto attività di vice direttore di un consorzio, attività di assorbente impegno, sicché veniva comunque a mancare il compimento del periodo temporale necessario per il maturare del diritto alla pensione.

Tale seconda motivazione non viene puntualmente censurata dal ricorrente, il quale si limita a criticare genericamente la valutazione che il Tribunale ha dato della dichiarazione 3.7.87 a firma del presidente della Consulmarche srl.

Va però ribadito che i documenti provenienti da terzi estranei alla lite possono offrire solo elementi indiziari che, in concorso con altre risultanze, sono suscettibili, secondo il prudente apprezzamento del giudice di merito, di integrare il fondamento della decisione; e che tale apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità (cfr. Cass., 1° agosto 2000 n. 10041).

Nella fattispecie in esame il Tribunale dì Macerata ha ampiamente esposto le ragioni per le quali il contenuto della dichiarazione proveniente da un non identificato presidente della Consulmarche srl non fosse idoneo a dimostrare l’espletamento, “per il periodo necessario al maturare del diritto previdenziale”, di attività libero professionale di dottore commercialista: la estrema genericità della dichiarazione, priva di riferimenti precisi, temporali e spaziali, ricognitiva di giudizi piuttosto che di fatti.

Quanto poi al mancato esercizio dei poteri istruttori di ufficio, il Tribunale lo ha spiegato con la scarsa o nulla consistenza della documentazione prodotta (mentre l’istruttoria pretorile aveva dimostrato l’esercizio, per tredici anni, di una attività subordinata di assorbente impegno).

Si tratta di una motivazione congrua e non illogica, donde la sua insindacabilità in sede di legittimità.

Né è poi vero che la Cassa nei precedenti gradi di giudizio avesse ammesso, nella comparsa di costituzione o “negli altri atti del procedimento”, l’espletamento di attività libero professionale, negando solo la continuità.

Non vengono riportate le dedotte ammissioni, con violazione del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione; e comunque la memoria difensiva in primo grado – l’unico “atto del procedimento” indicato specificamente – non contiene alcuna ammissione di espletamento di attività libero professionale, essendosi limitata la Cassa, dopo aver sottolineato che il ricorrente aveva svolto attività subordinata di dirigente amministrativo, tale da procurargli la pensione di vecchiaia INPDAI, a dichiarare di aver appreso dal medesimo dr. Lattanzi che lo stesso non aveva “mai esercitato se non saltuariamente e con incarichi di poco conto e senza remunerazione, la professione di dottore commercialista: tanto vero che non ha mai conseguito redditi soggetti ad IRPEF ed IVA!”.

Per tutto quanto esposto il ricorso va rigettato; nessun provvedimento va preso in ordine alle spese, atteso il carattere previdenziale della controversia e la carenza della temerarietà della pretesa (art. 152 disp att. c.p.c.).

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso: nulla per le spese.

Così deciso in Roma il 6 giugno 2001.

DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 14 AGO. 2001.


Cass. civ., Sez. III, (data ud. 23/04/2001) 23/04/2001, n. 5963

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. Ernesto LUPO – Presidente –

Dott. Vincenzo SALLUZZO – Rel. Consigliere –

Dott. Michele VARRONE – Consigliere –

Dott. Italo PURCARO – Consigliere –

Dott. Giuliano LUCENTINI – Consigliere –

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ATZORI SILVANA, elettivamente domiciliata in ROMA VIA LUCA SIGNORELLI 12, presso lo studio dell’avvocato ABATE ROSARIO, che la difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

RENTMACCHINE SPA, in liquidazione – in persona del liquidatore, legale rappresentante della società, corrente in Bologna, elettivamente domiciliato in ROM VIA GERMANICO 172, presso lo studio dell’avvocato OZZOLA MASSIMO, che lo difende unitamente all’avvocato DI MARCO DANIELE, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3404/97 della Corte d’Appello di ROMA, emessa il 22/10/1997, depositata il 20/11/97; RG. 3474/1995;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 30/10/00 dal Consigliere Dott. Vincenzo SALLUZZO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Raffaele PALMIERI che ha concluso per preliminarmente inammissibilità del controricorso; nel merito: rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con istanza rivolta al Presidente del Tribunale di Viterbo la s.p.a. Rentmacchine (già Cimino Leasing spa), assumendo di avere concesso in locazione a Silvana Atzori, con contratto stipulato il 7.11.1989, una macchina lavasecco verso corrispettivo di pagamento, oltre l’anticipo, di 59 canoni mensili dell’importo di L. 569.400 ciascuno, determinando il valore del riscatto in L. 260.000 e pattuendo, per il caso di mora, la corresponsione di interessi al tasso mensile del 3%; che nel contratto era stato convenuto che, in caso di ritardato o mancato pagamento anche di una sola rata, il rapporto si sarebbe risolto di diritto, con obbligo per la locataria di restituire il bene e corrispondere una penale pari ai canoni insoluti, ai relativi interessi, al valore di riscatto e alla metà dei canoni non ancora scaduti; che la Atzori si era resa morosa nel pagamento di numerose rate onde essa società le aveva comunicato che intendeva valersi della clausola risolutiva; chiedeva emettersi contro la stessa ingiunzione per il pagamento del complessivo importo di L. 19.986.714, con interessi moratori dalla risoluzione al saldo.

Accordata, con decreto reso il 22.12.1992, l’invocata ingiunzione, la Atzori, con atto notificato il 29.1.1993, proponeva opposizione e conveniva la spa Rentmacchine dinanzi al Tribunale di Viterbo per sentirne dichiarare la nullità ed inefficacia.

Sosteneva che già con citazione notificata il 2.5.1990 aveva promosso un giudizio dinanzi al Tribunale di Roma al fine di ottenere la risoluzione del contratto per vizi della cosa ed eccepiva quindi la litispendenza e la continenza di cause dietro l’assunto che l’esistenza dello stesso aveva determinato l’incompetenza del Presidente del tribunale di Viterbo ad emanare il provvedimento monitorio.

Negava infine l’esistenza del preteso credito per esserle stata fornita una macchina inidonea all’uso.

La Rentmacchine, costituendosi, contestava la fondatezza dell’opposizione e ne chiedeva il rigetto.

Con sentenza in data 7.5.1995 l’adito Tribunale rigettava l’opposizione e condannava l’opponente alla rifusione delle spese.

Avverso tale decisione proponeva gravame la Atzori al quale resisteva la Rentmacchine.

La Corte d’Appello di Roma, con sentenza in data 22.10-20.11.1997, rigettava l’impugnazione ed onerava l’appellante delle spese del grado.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la Atzori affidandone l’accoglimento ad un solo motivo.

Resiste con controricorso la Rentmacchine.

Motivi della decisione
Va preliminarmente rilevata l’inammissibilità del controricorso per nullità della procura a margine che risulta rilasciata dal liquidatore – legale rappresentante della società intimata del quale, tuttavia, né nella procura medesima, né nell’epigrafe del controricorso vengono indicati il nome ed il cognome, mentre la firma apposta in calce alla procura non è leggibile.

Per costante, pacifica giurisprudenza di questa Suprema Corte, infatti (v. ex plurimis Cass. 23.5.1998 n. 5154, 20.5.1998 n. 5023, 4.10.1995 n. 10427 e 18.5.1995 n. 5455) “nel conferimento della procura alle liti ai sensi dell’art. 83 comma terzo cod. proc. civ.

la certificazione da parte del difensore dell’autografia della sottoscrizione del conferente postula che ne sia accertata l’identità ed esige perciò che ne sia indicato il nome. Pertanto, quando né dall’intestazione del ricorso per cassazione (o del controricorso) proposto da una società o da altro ente collettivo, né nella procura speciale ex art. 365 cod. proc. civ. risulti il nome della persona fisica che l’ha conferita, perché non vi è nominativamente indicata e la firma è illegibile (*), l’incertezza sulla persona del conferente, preclusiva della successiva indagine sulla esistenza in capo a lui dei necessari poteri rappresentativi, rende invalida la procura e inammissibile il ricorso (o il controricorso) a meno che, entro i limiti di cui all’art. 372 cod. proc. civ., e tanto non si è sicuramente verificato nel caso che ci occupa – sia idoneamente documentato, mediante la produzione di atti già esistenti al momento del conferimento, il riferimento della già indicata qualità di legale rappresentante ad una ben individuata persona fisica”.

Tanto non esonera però questa Corte dall’esame della dedotta questione di inammissibilità del ricorso che va verificato d’ufficio prescindendo da qualsiasi eccezione di controparte.

A tale specifico riguardo va affermata l’assoluta irrilevanza della effettuata notifica alla Rentmacchine s.p.a. (vecchia denominazione sociale) anziché alla Rentmacchine srl (nuova ragione sociale della resistente – per come è dato evincere dal prodotto certificato della CCIAA di Bologna) e cioé, almeno apparentemente, a soggetto diverso.

Come questo Supremo Collegio ha infatti già avuto modo di precisare (cfr. ex plurimis Cass. 4.11.1998 n. 1107 e 9 aprile 1987 n. 3481) la trasformazione di una società da uno ad altro dei tipi previsti dalla legge, ancorché dotato di personalità giuridica, non si traduce nell’estinzione di un soggetto e correlativa creazione di altro soggetto, in luogo di quello precedente, ma configura una vicenda meramente evolutiva e modificativa del medesimo soggetto, la quale non incide sui rapporti sostanziali e processuali che ad esso fanno capo.

Quanto al merito del ricorso va osservato che con l’unico mezzo la ricorrente, deducendo “contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.) – violazione dell’art. 39 c.p.c.” si duole che il giudice dell’opposizione non abbia dichiarato la propria incompetenza nel dimostrato presupposto della pendenza tra le parti di causa anteriormente proposta davanti al Tribunale di Roma avente ad oggetto la risoluzione del contratto ed il risarcimento del danno e quindi della sussistenza di una situazione di continenza di tale causa rispetto a quella instaurata con il decreto monitorio.

Il ricorso è fondato.

É pacifico tra le parti, e risulta comunque dall’impugnata sentenza, che con citazione notificata il 2.5.1990 Silvana Atzori, adducendo l’inefficienza della macchina vendutale, ha convenuto in giudizio la srl IGEA, quale fornitrice, e la spa Barclays Cimino Leasing, quale locatrice, al fine di sentir dichiarare la risoluzione del contratto di vendita e la nullità, o la risoluzione, del contratto di locazione, nonché al fine di ottenere la restituzione degli acconti versati ed il risarcimento del danno.

Ed atteso quanto sopra deve riconoscersi l’esistenza tra le due cause – contrariamente all’assunto della corte territoriale – di un rapporto di continenza.

Al riguardo deve premettersi che la nozione di continenza ricomprende quelle situazioni caratterizzate dalla pendenza di cause in cui le questioni dedotte con la domanda anteriormente incardinata, e da risolvere con efficacia di giudicato, costituiscano il necessario presupposto della definizione del giudizio successivo, nel senso cioé della sussistenza tra le due cause di un nesso di pregiudizialità logico – giuridica, come avviene quando le contrapposte domande concernano il riconoscimento e la tutela di diritti che derivino dallo stesso rapporto negoziale ed il loro esito dipenda dalla soluzione di una o più questioni comuni (v. Cass. 95/10676, 95/10594, 94/2803 e 90/3146).

Ne consegue, alla stregua di tale principio, che si deve riconoscere che nella causa proposta anteriormente dalla attuale ricorrente davanti al Tribunale di Roma, avente ad oggetto la risoluzione del contratto di vendita, la nullità o la risoluzione del contratto di locazione ed il risarcimento del danno, si era dedotta una questione la cui soluzione costituiva il necessario antecedente logico – giuridico della causa introdotta successivamente con la richiesta di decreto ingiuntivo da parte della Rentmacchine e con l’opposizione proposta dalla Atzori. E tanto considerato che la decisione sul diritto al pagamento delle rate di leasing, che costituiva l’oggetto della seconda causa, era condizionata dall’esito della prima e cioé dall’accoglimento o dal rigetto della domanda di risoluzione del contratto, in quanto fatto costitutivo del diritto azionato nell’altra.

Infatti, se la continenza di causa non è idonea a spostare la competenza funzionale ed inderogabile del giudice dell’opposizione a decreto ingiuntivo, come questa Corte ha ripetutamente affermato anche a sezioni unite (v. al riguardo Cass. 8.2.92 n. 10985, 26.4.93 n. 4807, 19.6.93 n. 6838, 12.7.93 n. 7684 e 8.10.93 n. 9988) essa tuttavia determina, ai sensi dell’art. 39 comma 2° c.p.c., l’incompetenza del giudice che ha emesso il decreto e la competenza del giudice preventivamente adito, se competente anche per la causa successivamente proposta. E in conseguenza di ciò è il giudice dell’opposizione che in tale caso deve dichiarare l’incompetenza del giudice che ha emesso il decreto ingiuntivo e la nullità dello stesso (v. in termini Cass. 95/10676, 95/10594, 93/9988, 91/10484 e 90/12083).

Sulla scorta degli esposti principi va quindi pronunciato l’accoglimento del ricorso, cassata senza rinvio l’impugnata sentenza e con decisione nel merito accolta l’opposizione e dichiarata la nullità del decreto ingiuntivo.

Quanto alle spese dell’intero processo sussistono giusti motivi, ai sensi dell’art. 92, comma 2° cod. proc. civ., per disporre la compensazione tra le parti.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa senza rinvio l’impugnata sentenza e pronunciando nel merito accoglie l’opposizione e, dichiara la nullità del decreto ingiuntivo e compensa le spese dell’intero processo.

Cosi deciso in Roma nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile della Corte Suprema di Cassazione il 30.10.2000.

(*) ndr: così nel testo.

DEPOSITATO IN CANCELLERIA IL 23 APR. 2001.


Cass. civ. Sez. I, 21-04-2000, n. 5240

composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott.. Aldo VESSIA – Presidente

Dott. Ugo VITRONE – Cons. Relatore

Dott. Mario ADAMO – Consigliere

Dott. Laura MILANI – Consigliere

Dott. Angelo SPIRITO – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso per regolamento di competenza proposto da:

COOPERATIVA COSTRUTTORI s.r.l. in persona del legale rappresentante dott. Renzo Ricci Maccarini, quale capogruppo dell’Associazione Temporanea di Imprese tra la Cooperativa Costruttori s.r.l. e la C.I.L. S.p.A., elettivamente domiciliata in Roma, Viale Parioli, n. 180, presso l’avv. Mario Sanino, che unitamente agli avv.ti Marco Colombo e Alessandro Alessandri la rappresenta e difende per procura a margine del ricorso;

ricorrente

ENTE AUTONOMO DEL FLUMENDOSA, in persona, del suo legale rappresentante, elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che lo rappresenta e difende per legge;

resistente

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 1063 pubblicata il 6 aprile 1999;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20 gennaio 2000 dal Relatore Cons. Ugo VITRONE;

lette le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Guido RAIMONDI, che ha concluso per la dichiarazione della competenza arbitrale con ogni conseguenza di legge;

Svolgimento del processo
Con atto di citazione notificato il 23 settembre 1997 l’Ente Autonomo del Flumendosa proponeva dinanzi alla Corte d’Appello di Roma impugnazione per nullità del lodo arbitrale in data 5 maggio 1996, con il quale era stato condannato al pagamento della somma di L. 2.787.814.564, oltre accessori, in favore della Cooperativa Costruttori s.r.l. quale capogruppo dell’associazione temporanea di imprese tra essa Cooperativa e la C.I.L. S.p.A. a definizione della controversia insorta in dipendenza dell’esecuzione dei lavori di approvvigionamento idropotabile degli insediamenti turistici lungo la costa sud – orientale del Golfo di Cagliari e dei centri urbani di Settimo San Pietro, Sinnai e Maracalagonis, giusta contratto di appalto stipulato a seguito di licitazione privata il 26 settembre 1996. A sostegno della proposta impugnazione deduceva, preliminarmente, la nullità del lodo per incompetenza del collegio arbitrale.

Costituitasi in giudizio la Cooperativa Costruttori contestava la fondatezza dell’impugnazione e ne chiedeva il rigetto proponendo a sua volta impugnazione incidentale per sentir dichiarare la nullità del lodo sui punti oggetto di specifica impugnazione da parte della Cooperativa Costruttori.

Con sentenza del 12 marzo – 6 aprile 1999 la corte adita dichiarava la nullità del lodo ravvisando nella specie l’incompetenza del collegio arbitrale.

Osservava la corte che a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 16 della legge 10 dicembre 1981, n. 741, che aveva modificato il testo dell’art. 47 del Capitolato Generale delle Opere Pubbliche (sent. 9 maggio 1996, n. 152) era stata ripristinata l’originaria disciplina secondo cui, pur in presenza del principio di normale devoluzione ad arbitri delle controversie nascenti dai contratti di appalto di opere pubbliche, entrambi i contraenti avevano al facoltà di derogare alla competenza arbitrale, dovendo escludersi la legittimità di un arbitrato obbligatorio. La pronuncia del giudice delle leggi, avente efficacia retroattiva ed immediatamente applicabile alle controversie in corso, doveva ritenersi operante nella specie indipendentemente dalla considerazione che la disciplina del capitolato generale delle opere pubbliche nel testo poi dichiarato incostituzionale avesse valore negoziale poiché non poteva dubitarsi che le parti avevano inteso trasfondere nel contratto tutta la normativa richiamata, la cui contrarietà a norma imperativa ne impediva qualsiasi efficacia nell’ordine giuridico. Né poi la declinatoria della competenza arbitrale notificata dall’Ente Flumendosa alla controparte poteva essere considerata tardiva in quanto il termine di decadenza di trenta giorni, non operante al momento della notificazione dell’atto di accesso agli arbitri, iniziava a decorrere dalla dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 16 della legge n. 741 del 1981, che aveva ripristinato la facoltà di deroga, quale era esclusa alla data della domanda di accesso agli arbitri.

Contro la sentenza ha proposto regolamento di competenza la Cooperativa Costruttori s.r.l. nella qualità di cui in epigrafe con cinque motivi.

L’Ente Autonomo del Flumendosa ha depositato memoria.

Il Pubblico Ministero ha depositato le sue conclusioni in data 15 novembre 1999.

Motivi della decisione
Con i cinque motivi di ricorso – che denunciano, sotto vari profili, l’errata interpretazione della portata della pronuncia di incostituzionalità posta a fondamento della decisione impugnata e che sono perciò suscettibili di considerazione unitaria – la Cooperativa Costruttori sostiene che la facoltà di deroga alla competenza arbitrale, ripristinata dalla Corte costituzionale, potrebbe essere invocata solo dall’appaltatore e non pure dall’Amministrazione, che aveva originariamente imposto l’obbligatorietà dell’arbitrato (primo motivo); che non si era tenuto conto del fatto che la clausola compromissoria trovava nella specie la sua fonte nella volontà negoziale delle parti le quali, attraverso il rinvio materiale alle norme del capitolato generale delle opere pubbliche avevano inteso devolvere concordemente ad arbitri le controversie nascenti dal contratto (secondo motivo); che la pronuncia di incostituzionalità poteva produrre effetti solo sulle norme giuridiche e non sulle pattuizioni contrattuali, le quali avevano cristallizzato la disciplina normativa recepita dalle parti (terzo motivo); che la declinatoria della competenza arbitrale, ripristinata dalla Corte costituzionale, non poteva operare nei confronti delle parti per le quali il termine di decadenza fosse, come nella specie, già scaduto (quarto motivo); che la declinatoria della competenza arbitrale sarebbe stata implicitamente revocata dalla nomina del proprio arbitro da parte dell’Ente Autonomo Flumendosa (quinto motivo).

Il ricorso non ha fondamento e deve essere respinto.

Va considerato, innanzi tutto, che la natura pattizia rivestita nella specie dalla disciplina del capitolato generale delle opere pubbliche, se vale ad escluderne il carattere di norma imperativa, recepisce pur sempre come regola negoziale quella disciplina normativa la quale resta sensibile ad ogni sua evoluzione. Ne consegue che, se non può contestarsi che la volontà resta insensibile alla disciplina normativa sopravvenuta, la quale, com’é noto, ha effetto ex nunc – come è stato sottolineato da questa Corte, la quale ha negato che la disciplina introdotta dal capitolato delle opere pubbliche del 1962 potesse essere invocata dai contraenti i quali avevano recepito pattiziamente quella del capitolato generale del 1895, in vigore all’epoca della stipulazione del contratto, e ciò in forza del principio generale espresso dal brocardo tempus regit actus (Cass. 13 gennaio 1982, n. 178) – essa non resta però insensibile alla dichiarazione di incostituzionalità della normativa convenzionalmente recepita, poiché la pronuncia di incostituzionalità non sostituisce alla normativa non conforme a costituzione una diversa normativa, ma adegua la norma denunciata ai dettami della costituzione, con effetti ex tunc i quali incontrano il solo limite delle situazioni esaurite, e tale non può dirsi una disciplina negoziale contestata in sede giudiziale in un processo tuttora in corso.

Ciò chiarito, la facoltà di deroga della competenza arbitrale prevista nel quadro di un sistema che prevede in via generale che le controversie nascenti dall’appalto di opere pubbliche siano deferite ad arbitri (art. 43 Cap. Gen.OO.PP.), dev’essere consentita ad entrambe le parti quali che siano le previsioni del bando di gara, in quanto la mera adesione ad una disciplina che prevedeva la possibilità di imporre unilateralmente un arbitrato obbligatorio, non vale a escludere che la ripristinata facoltà di esclusione della competenza arbitrale operi a favore di entrambe le parti, come avveniva del resto sotto il vigore del testo originario dell’art. 47 del Cap. Gen. OO. PP., non essendosi mai dubitato prima della novellazione della norma in esame che l’Amministrazione, normalmente convenuta, potesse chiedere che la controversia venisse sottoposta al giudice ordinario.

Affermata l’operatività della pronuncia della corte costituzionale nei confronti di entrambe le parti di un contratto nel quale la disciplina legale operi non già come norma imperativa ma per effetto del richiamo negoziale operato dai contraenti, debbono ritenersi prive di pregio anche le censure relative alla decadenza dell’Ente Autonomo Flumendosa e alla implicita rinuncia alla deroga della competenza arbitrale.

Per quanto attiene alla eccepita decadenza va, intatti rilevato che se la decadenza determina normalmente la perdita definitiva di una facoltà, dando luogo ad una situazione consolidata che opera come limite alla retroattività delle pronunce di incostituzionalità, ciò però non si verifica quando la dichiarazione di incostituzionalità investe proprio la norma che avrebbe dovuto rendere operante la prescrizione o la decadenza o, come nella specie, la norma che aveva precluso l’esercizio di tale facoltà (vedi: Cass. 3 maggio 1975, n. 1507; 9 luglio 1976, n. 2632, le quali hanno ritenuto proponibili le azioni giudiziarie a seguito della dichiarazione di incostituzionalità della norma che imponeva la preventiva e tempestiva presentazione del reclamo gerarchico come condizione di proponibilità dell’azione nelle controversie di lavoro aventi a oggetto competenze arretrate).

Tale facoltà potrà quindi essere sempre esercitata con decorrenza dalla data di pubblicazione della sentenza costituzionale fino a quando il giudizio arbitrale non abbia avuto concretamente inizio, non potendo derogarsi alla competenza di arbitri già investiti della controversia.

E, poiché nella specie la facoltà di deroga alla competenza arbitrale è stata esercitata dall’Ente Autonomo Flumendosa con atto notificato il 2l marzo 1996, ancor prima della pubblicazione della sentenza di incostituzionalità, avvenuta il 9 maggio successivo, e prima della costituzione del collegio arbitrale, avvenuta il 23 gennaio 1997, essa deve ritenersi tempestiva poiché è stata proposta quando non era consentita dalla disciplina pattizia che aveva recepito la normativa all’epoca vigente, e che è divenuta legittima e operativa di effetti a seguito della dichiarazione di incostituzionalità.

Né maggior valore ha poi la censura secondo cui la sentenza impugnata avrebbe dovuto interpretare la nomina dell’arbitro da parte dell’Ente Autonomo Flumendosa come rinuncia implicita alla facoltà preventivamente esercitata, poiché, in assenza di una normativa che consentisse la deroga preventiva della competenza arbitrale sino al momento dell’introduzione del giudizio, la parte convenuta che avesse rivendicato l’esercizio della facoltà di deroga non avrebbe potuto sottrarsi al giudizio arbitrale e avrebbe solo potuto riproporre la questione di incompetenza dinanzi agli arbitri e, in caso di mancato accoglimento, impugnare di nullità il lodo sollevando dinanzi al giudice ordinario la questione di incostituzionalità – preclusa nel giudizio arbitrale – della norma che negava la possibilità di deroga fino al momento dell’introduzione della controversia.

In conclusione, perciò, il ricorso non può trovare accoglimento e deve essere rigettato con la conseguente dichiarazione della competenza del giudice ordinario.

Le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.
La corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese giudiziali che liquida in complessive L.28.800, al rimborso delle spese prenotate a debito e al pagamento degli onorari che liquida in L. 2.000.000.

Così deciso in Roma il 20 gennaio 2000.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 21 APR. 2000