Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 20-11-2007) 11-12-2007, n. 25837

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe – Presidente di sezione

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. VITRONE Ugo – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – rel. Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

REGIONE UMBRIA, in persona del legale rappresentante pro-tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA MARIA CRISTINA 8, presso lo studio dell’avvocato GOFFREDO GOBBI, rappresentata e difesa dall’avvocato MANUALI PAOLA, giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

R.S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANAPO 20, presso lo studio dell’avvocato RIZZO CARLA, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASTRANGELI D. FABRIZIO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 343/05 della Corte d’Appello di PERUGIA, depositata il 08/11/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/11/07 dal Consigliere Dott. Guido VIDIRI;

uditi gli avvocati Goffredo GOBBI, per delega dell’avvocato Paola MANUALI, Fabrizio D. MASTRANGELI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento de primo e secondo motivo (giurisdizione dell’aga per la differenza retributiva fino al 30/6/1998; ago per il periodo successivo); rinvio per il resto ad una sezione semplice.

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 17 agosto 1999 dinanzi al Tribunale di Perugia, in funzione di giudice del lavoro, R.S.F. riferiva di essere dipendente della Regione dell’Umbria e di avere lavorato presso il “Centro di Studi Giuridici e Politici”, inquadrato nella 7^ qualifica funzionale. Con Delib. n. 14 del 1991, Delib. n. 13 del 1991, il Comitato Direttivo gli aveva affidato il compito di responsabile della Segreteria del Centro, dopo che dal settembre del 1991 il precedente responsabile, R.L., era stato collocato in quiescenza ed il Comitato aveva deciso di non ricoprire il posto. Dal 1 novembre 1991, in forza delle predette delibere, aveva ricoperto l’incarico di segretario, vacante in organico, espletandone tutte le mansioni sino al 31 dicembre 1998, allorchè con Delib. Giunta Regionale del 30 dicembre 1998, n. 6488, con decorrenza dal 1 gennaio 1999 era stato assegnato, in qualità di dirigente, alla segreteria del Centro il signor C.G..

L’espletamento di mansioni superiori non aveva mai comportato per esso ricorrente – inquadrato sino al 5 novembre 1992 nel 6^ livello e successivamente nel 7^ – alcun incremento economico. Tutto ciò premesso, chiedeva che gli venisse riconosciuto il trattamento corrispondente al 9^ livello e che la Regione fosse condannata a corrispondere le conseguenti differenze retributive.

Dopo la costituzione della Regione, che aveva eccepito preliminarmente il difetto di giurisdizione del giudice adito, quanto meno per il periodo antecedente al 30 giugno 1998, entro il quale si era svolta la maggior parte del rapporto, il Tribunale, ritenendo invece la propria giurisdizione, accoglieva la domanda e condannava la Regione al pagamento delle differenze retributive richieste nonchè al pagamento delle spese del giudizio.

A seguito di gravame, la Corte d’appello di Perugia con sentenza dell’8 novembre 2005 rigettava l’appello e confermava l’impugnata sentenza. Nel pervenire a tale decisione la Corte territoriale osservava in via pregiudiziale che sulla giurisdizione si era formato il giudicato atteso che, con la stessa ordinanza con cui era stata ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. n. 29 del 1992, art. 56 e del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, era stata affermata “preliminarmente la propria giurisdizione a conoscere dell’intera vertenza”. Si era pertanto in presenza di un provvedimento che, pur qualificato “ordinanza”, conteneva nella prima parte un provvedimento sulla giurisdizione che, avendo natura di sentenza, andava tempestivamente impugnato, mentre nella seconda parte una vera ordinanza per essere stata rimessa al giudice delle leggi una questione di costituzionalità. Nel merito poi il giudice d’appello affermava che correttamente il Tribunale aveva ritenuto applicabile l’art. 36 Cost. al pubblico impiego privatizzato in una fattispecie in cui veniva rivendicata una retribuzione adeguata alle mansioni in concreto svolte, superiori a quelle di inquadramento. Avverso tale sentenza la Regione Umbria propone ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. Resiste con controricorso R.F.S..

Ambedue le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1. Nel controricorso R.S.F. afferma che il ricorso proposto dalla Regione notificato il 14 marzo 2006 (consegnato gli ufficiali giudiziari il 13 marzo 2006) è inammissibile “avendo quest’ultima notificato due ricorsi, di cui il primo è nullo in quanto non si comprende se viene chiesta la cessazione totale o parziale della sentenza di primo grado” e perchè la delega a proporre tale ricorso era stata conferita dal vice Presidente della Giunta senza che venissero enunciate nè provate le ragioni di impedimento alla firma per il Presidente della Regione, che aveva rilasciata invece regolare delega in relazione al secondo ricorso. A supporto della sua eccezione il R. deduce che la notificazione del primo atto in data 6 marzo 2006 aveva consumato il potere della Regione di ricorrere per cassazione sicchè il ricorso successivamente notificato non poteva sanare i vizi del primo che, per non essere stato oggetto di rinunzia, aveva finito per incardinare il rapporto processuale.

1.1. L’eccezione è priva di giuridico fondamento.

1.2. Ed invero va in primo luogo considerato che non può ritenersi in alcun modo inficiato di invalidità un ricorso per Cassazione che, sebbene mancante -come nel caso di specie – di una o più righe per mero errore di stampa, consenta tuttavia, sulla base del suo integrale contenuto, di desumere – dalla esposizione dei fatti e dei motivi posti a base della detta impugnazione – la richiesta di cassazione totale della sentenza impugnata. In ogni caso va considerato che il R. avverso il secondo ricorso non ha sollevato fondate ragioni di nullità e che inoltre non si è verificato nel caso di specie una consumazione del potere di impugnazione, atteso che questa Corte ha più volte ribadito il principio secondo cui la regola della consumazione dell’impugnazione non esclude che, dopo la proposizione di un’impugnazione viziata, possa esserne proposta una seconda immune dai vizi della precedente e destinata a sostituirla, precisando anche al riguardo che, per espressa previsione normativa (artt. 353 e 387 cod. proc. civ., rispettivamente per l’appello e per il ricorso per cassazione), la consumazione del diritto d’impugnazione presuppone l’esistenza – al tempo della proposizione della seconda impugnazione – di una declaratoria di inammissibilità o improcedibilità della precedente;

sicchè, in mancanza di tale (preesistente) declaratoria, ben è consentita la proposizione di una (altra) impugnazione (di contenuto identico o diverso) in sostituzione della precedente viziata, semprechè il relativo termine non sia decorso (cfr. in tali sensi:

Cass. 23 gennaio 1998 n. 643, cui adde tra le tante: Cass. 22 maggio 2007 n. 11870; Cass. 15 gennaio 2003 n. 491; Cass. 11 maggio 2002 n. 6560).

2. Quanto ora detto consente l’esame dei motivi del ricorso proposto dalla Regione Umbria.

3. Con il primo motivo la Regione denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 24 Cost., dell’art. 279 c.p.c., comma 2, e della L. 11 marzo 1953, art. 23, n. 87, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e 3 assumendo che la Corte d’appello ha errato nel ritenere che l’ordinanza di remissione alla Corte Costituzionale contenesse “nella prima parte un provvedimento sulla giurisdizione, avente natura di sentenza”, e che, su detto presupposto ha fatto scaturire la formazione del giudicato sulla giurisdizione.

Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione ed errata interpretazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 45, comma 17, e del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 69, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1 e 3. A tale riguardo sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto riconoscere la giurisdizione del giudice amministrativo almeno sino al 30 giugno 1998, assumendo altresì che il R. doveva ritenersi assoggettato a decadenza per ogni pretesa relativa al suddetto periodo per essere dette pretese assoggettate alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo solo se proposte entro il 15 settembre 2000.

Con il terzo motivo la Regione Umbria lamenta violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 (ora art. 52 del t.u. approvato con il D.Lgs. n. 165 del 2001), in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. Precisa a tale riguardo la ricorrente che, come statuito più volte dai giudici amministrativi, solo a decorrere dall’entrata in vigore del D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e precisamente solo a partire dal 22 novembre 1998, andava riconosciuto con carattere di generalità il diritto alle differenze retributive a favore del dipendente pubblico che abbia svolto le mansioni superiori, mentre per il periodo precedente non poteva essere riconosciuto alcun diverso trattamento economico nè facendo riferimento all’art. 36 Cost. nè all’art. 2126 c.c. nè all’art. 2041 c.c..

Con il quarto motivo la Regione denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, sostenendo sul punto che è stato illegittimamente riconosciuto al R. un trattamento retributivo equivalente alla ex nona qualifica, spettante al personale dirigenziale, sicchè risultava violato il principio giurisprudenziale secondo cui la valutabilità delle mansioni superiori poteva di fatto avvenire con riferimento al livello o alla qualifica immediatamente superiore. Ed invero l’espletamento delle mansioni superiori da parte del dipendente non può riguardare una qualifica due volte superiore a quella rivestita, come invece era avvenuto nel caso di specie per essersi il R. visto riconosciuto un trattamento economico equivalente prima al sesto livello e successivamente al settimo e per avere, infine, rivendicato un trattamento equivalente al nono livello.

4. I primi due motivi del ricorso, da esaminarsi congiuntamente per essere relativi alla problematica del riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo e per comportare la risoluzione di questioni tra loro strettamente connesse, vanno rigettati perchè privi di fondamento.

4.1. E’ del tutto pacifico in dottrina e nella giurisprudenza, e comunque univocamente postulato dal dato normativo (art. 134 Cost.;

L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23), che all’ordinanza con cui il giudice a quo motiva la rilevanza e la non manifesta infondatezza della ipotesi di illegittimità di norma che egli è chiamato ad applicare, non possa riconnettersi altro effetto che quello endoprocessuale di attivare l’incidente di costituzionalità (cfr. in tali sensi in motivazione: Cass. 21 luglio 1995 n. 7950), essendosi al riguardo statuito pure che l’ordinanza con la quale il giudice ritenga rilevante e non manifestamente infondata una questione di legittimità costituzionale trasmettendo gli atti alla Corte Costituzionale a norma della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, con la sospensione del giudizio in corso e dell’esecuzione di propria precedente statuizione, configura un provvedimento strumentale ed ordinatorio, privo di carattere decisorio e, pertanto, non impugnabile neanche quando si ponga in discussione il potere stesso di quel giudice di disporre la remissione di detta questione alla Corte Costituzionale (cfr,. al riguardo:Cass., Sez. Un., 31 maggio 1984 n. 3317).

4.2. Come però emerge dalla lettura della impugnata sentenza l’ordinanza con la quale nella fattispecie in esame gli atti sono stati rimessi alla Corte costituzionale non può reputarsi provvedimento meramente ordinatorio per quanto attiene alla questione sulla giurisdizione, essendo stato il giudice delle leggi investito unicamente della diversa questione relativa alla diretta applicabilità dell’art. 36 Cost., al pubblico impiego, questione poi dichiarata infondata e che, non investendo in alcun modo la ritenuta giurisdizione del giudice ordinario, non poteva impedire il passaggio in giudicato sul punto della decisione del primo giudice.

4.3. A tale riguardo va ricordato che questa Corte di cassazione ha più volte statuito che, al fine di stabilire se un provvedimento abbia natura di sentenza o di ordinanza, è decisiva non già la forma adottata ma il suo contenuto (cosiddetto principio della prevalenza della sostanza sulla forma), di modo che allorquando il giudice, ancorchè con provvedimento avente veste formale di ordinanza, abbia, senza definire il giudizio, deciso una o più delle questioni di cui all’art. 279 cod. proc. civ. – in particolare affermando la propria giurisdizione – a detto provvedimento va riconosciuta natura di sentenza non definitiva ai sensi dell’art. 279 cod. proc. civ., comma 2, n. 4, con l’ulteriore conseguenza che, a norma dell’art. 361 cod. proc. civ., avverso la stessa va fatta riserva di ricorso per cassazione o va proposto ricorso immediato, determinandosi, in difetto, il passaggio in giudicato della decisione, senza che rilevi in contrario che, nella sentenza definitiva, lo stesso giudice abbia poi ribadito la propria giurisdizione (cfr. ex plurimis: Cass., Sez. Un., 24 ottobre 2005 n. 20470; Cass. 7 aprile 2006 n. 8174).

4.4. Nel caso di specie la Corte territoriale ha ritenuto che il provvedimento ricognitivo della giurisdizione del giudice ordinario aveva solo la forma dell’ordinanza mentre doveva considerarsi una sentenza per il suo contenuto; conclusione questa che – confortata anche dalla sottoscrizione dello stesso provvedimento da parte del presidente e dell’estensore e dalla distinta e propria collocazione, pur all’interno di esso, della questione di giurisdizione e di quella riguardante l’applicazione dell’art. 36 Cost. – si sottrae ad ogni censura in questa sede di legittimità per essere il provvedimento scrutinato sorretto da motivazione congrua, priva di salti logici e rispettosa dei principi applicabili in materia.

4.5. Per concludere sul punto va riconosciuta la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le pretese avanzate in giudizio da Silvio R.F. senza che possa farsi al riguardo una distinzione tra trattamento economico antecedente al 30 giugno 1998 e trattamento successivo, in conformità a quanto affermato di recente dalla giurisprudenza di queste stesse Sezioni Unite che, infatti – in una fattispecie assimilabile sotto molti profili a quella in esame – hanno statuito che rientra nella giurisdizione del giudice ordinario la controversia promossa da un dipendente comunale il quale, assumendo di essere stato legittimamente assegnato a mansioni inferiori rispetto alla qualifica riconosciuta da provvedimenti dell’amministrazione datrice di lavoro emanati prima del 30 giugno 1998, i cui effetti siano perduranti per il periodo successivo, chieda il ripristino delle mansioni di sua spettanza ed il risarcimento del danno. Ed invero, in presenza del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 69, comma 7, che fissa una proroga della giurisdizione amministrativa esclusiva in materia di pubblico impiego con riferimento alle “questioni attinenti al periodo del rapporto di lavoro” anteriori al 30 giugno 1998, per temperare il frazionamento delle domande ed evitare che i diritti divenuti esigibili in un certo arco temporale debbano essere fatti valere dinanzi a giudici diversi con competenza ripartita in base all’epoca della loro maturazione, qualora la lesione lamentata dal lavoratore abbia origine da un comportamento del datore di lavoro pubblico che si assume permanentemente illecito, deve farsi riferimento al momento della realizzazione del fatto dannoso e, quindi, al momento della cessazione della permanenza del comportamento, di modo che, ove tale cessazione intervenga in data successiva al 30 giugno 1998, la controversia rientra nella giurisdizione del giudice ordinario(Cass., Sez. Un., 9 marzo 2007 n. 5404).

5. I due primi motivi di ricorso vanno pertanto rigettati dovendosi riconoscere la giurisdizione del giudice ordinario per tutte le domande spiegate dal R..

6. Anche il terzo e quarto motivo del ricorso, con i quali si contesta con diverse argomentazioni l’applicabilità dell’art. 36 Cost., al rapporto di impiego pubblico ora privatizzato, vanno rigettati.

La Corte d’appello di Perugia, nel confermare la sentenza di primo grado, ha affermato che il R. ha svolto mansioni superiori a quelle proprie della qualifica funzionale di inquadramento e che, pertanto, ha diritto al riconoscimento di una retribuzione che tenendo conto, alla strega dell’art. 36 Cost., della qualità del lavoro spiegato sia correlata alle mansioni superiori svolte.

Le conclusioni cui è pervenuto il giudice d’appello – dopo avere evidenziato come il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 52, comma 6, (poi modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25) sia stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva – sono state supportate dalla considerazione che nella giurisprudenza sia ormai principio acquisito la necessità un giusto contemperamento, da perseguirsi attraverso il ricorso alla “giusta retribuzione” ex art. 36 Cost., fra retribuzione e quantità e qualità del lavoro svolto anche nel caso che l’utilizzazione del dipendente avvenga in mansioni che siano state irregolarmente acquisite.

6.1. La giurisprudenza amministrativa ha seguito un orientamento volto al diniego dell’applicabilità dell’art. 36 Cost. al pubblico impiego sul presupposto che su detta norma volta al rispetto della “giusta retribuzione” dovessero prevalere gli artt. 97 e 98 Cost., non potendo il rapporto di pubblico impiego essere in alcun modo assimilato ad un rapporto di scambio e dovendosi, anche ai fini del controllo della spesa, rispettare l’esigenza di conservazione di un assetto della pubblica amministrazione rigido e trasparente, espressione della quale è quella della supremazia del parametro della qualifica su quello delle mansioni, sicchè in una siffatta ottica ostavano all’applicabilità dell’art. 36 Cost. pure le norme codicistiche dell’art. 2116 c.c. e art. 2041 c.c. (cfr. per tale indirizzo ex plurimis: Cons. Stato, Sez. 5^, 28 febbraio 2001 n. 1073; Cons. Stato, Sez. 6^, 4 dicembre 2000 n. 6466; Cons. Stato, Sez. 5^, 12 ottobre n. 1438; Cons. Stato, Sez. 6^, 29 settembre 1999 n. 1291).

Nonostante tale indirizzo – secondo cui, come visto, il principio della corrispondenza ex art. 36 Cost. della retribuzione dei lavoratori alla qualità e quantità del lavoro prestato, non può trovare applicazione nel rapporto di pubblico impiego, concorrendo in detto ambito altri principi di pari rilevanza costituzionale – anche di recente ribadito (Cons. Stato, Sez. 6^, 7 giugno 2005 n. 2184;

Cons. Stato, Sez. 6^, 23 gennaio 2004 n. 222), si sono sul punto tuttavia manifestate, in alcune pronunzie dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, significative aperture verso una maggiore tutela del lavoratore essendosi ritenuto: che le differenze retribuitive vanno riconosciute al lavoratore sin dal momento dell’emanazione del D.Lgs. n. 387 del 1998 e non a partire dalla stipulazione dei nuovi contratti collettivi (Cons. Stato, Ad, plen. 28 gennaio 2000 n. 10), e che è consentita la trasposizione di regole privatistiche nell’area del pubblico impiego, sicchè l’art. 2126 c.c., può trovare applicazione anche in un rapporto instauratosi con la pubblica amministrazione, senza il rispetto delle norme che ne regolano la costituzione, con l’effetto che al dipendente di mero fatto della pubblica amministrazione devono essere riconosciute le prestazioni retributive e previdenziali (Cons. Stato, Ad. plen. 29 febbraio 1992 n. 1).

6.2. A diverse conclusioni è pervenuta la giurisprudenza dei giudici della legge per avere, infatti, la Corte costituzionale con numerose pronunzie patrocinato la diretta applicabilità al rapporto di pubblico impiego dei principi dettati dall’art. 36 Cost., specificando al riguardo che detta norma “determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato” a prescindere dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori (Corte Cost. 23 febbraio 1989 n. 57; Corte Cost ord. 26 luglio 1988 n. 908); che “il principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è incompatibile con il diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost.)” (Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236); che il mantenere da parte della pubblica amministrazione l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determina una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost. – perchè non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento” e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2).

6.3. L’estensione della norma costituzionale all’impiego pubblico è condivisa anche dalla dottrina giuslavoristica che evidenzia come – pur essendo a seguito del D.Lgs. n. 165 del 2001 il trattamento economico dell’impiegato disciplinato dalla contrattazione collettiva e pur essendo detta contrattazione con priva di vicoli unilateralmente opposti per fini di controllo della spesa pubblica (quali quelli derivanti dai primi tre commi dell’art. 48 del suddetto decreto) – i suddetti vincoli derivanti da esigenze di bilancio non impediscano comunque la piena operatività, anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall’art. 36 Cost..

Principio questo che per poggiare sulla peculiare corrispettività del rapporto lavorativo – qualificato dalla specifica rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare “una attività contrassegnata dall’implicazione della stessa persona del lavoratore”, il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia – da un lato ha portato autorevole dottrina a sganciare il rapporto giuridico retributivo dal novero dei diritti di credito per inquadrarlo tra i diritti assoluti della persona, e dall’altro ha spinto ad affermare, sulla base di una coessenzialità o di una stretta relazione dei due principi della “sufficienza” e della “proporzionalità” ostativa a qualsiasi rapporto gerarchico tra gli stessi, che l’attenuazione del principio sinallagmatico, integrato nel caso in esame dalla rilevanza della persona umana (che determina una traslazione del datore di lavoro del rischio della inattività del prestatore di lavoro, come in caso di sospensione del rapporto) attestano una dimensione sociale della retribuzione e la sentita esigenza della copertura a livello costituzionale dei diritti inderogabili del lavoratore.

6.4. Le considerazioni svolte forniscono le coordinate per la soluzione della problematica oggetto dell’esame di queste Sezioni Unite. Ed alla stregua di quanto sinora enunciato e proprio in conformità della ricordata giurisprudenza della Corte Costituzionale – in mancanza di ragioni nuove e diverse e per una consequenziale doverosa fedeltà ai precedenti, sulla quale si fonda, per larga parte, l’assolvimento della funzione ordinamentale di assicurare l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge – deve essere ribadito il principio fissato dai giudici di legittimità secondo il quale, nel pubblico impiego privatizzato, il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25, è stato soppresso dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15, con efficacia retroattiva, atteso che la modifica del comma 6 ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio. Ne consegue che il principio della retribuzione proporzionato e sufficiente ex art. 36 Cost., è applicabile anche al pubblico impiego senza limitazioni temporali (cfr. al riguardo Cass. 17 aprile 2007 n. 9130 cui adde, da ultimo, Cass. 14 giugno 2007 n. 13877, che precisa anche che l’applicazione dell’art. 36 Cost. non debba però necessariamente tradursi in un rigido automatismo di spettanza al pubblico dipendente del trattamento economico esattamente corrispondente alle mansioni superiori ben potendo risultare diversamente osservato il precetto costituzionale anche mediante la corresponsione di un compenso aggiuntivo rispetto alla qualifica di appartenenza; ed ancora per lo stesso indirizzo: Cass. 14 giugno 2007 n. 13877;

Cass. 8 gennaio 2004 n. 91; Cass. 4 agosto 2004 n. 19444).

6.5. Corollario di quanto sinora esposto è che – stante la valenza generale dei criteri parametrici fissati dalla norma costituzionale in materia di retribuzione – il disposto dell’art. 36 Cost. non può non trovare applicazione anche nelle fattispecie, analoghe a quella in esame, in cui la pretesa del lavoratore alla retribuzione corrispondente allo svolgimento dell’attività prestata riguardi mansioni superiori corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento (cfr. sul punto: Cass. 25 ottobre 2004 n. 20692).

Sul versante fattuale, poi, l’estensione della norma costituzionale nei sensi innanzi precisati richiede in ogni caso che le mansioni assegnate siano in concreto svolte nella loro pienezza, sia per quanto attiene al profilo quantitativo che qualitativo dell’attività spiegata sia per quanto attiene all’esercizio dei poteri ed alle correlative responsabilità attribuite(cfr. al riguardo: Cass. 19 aprile 2007 n, 9328); circostanze queste che ben possono ritenersi provate sulla base dei fatti allegati in causa (ad esempio, lunga durata nello svolgimento delle mansioni, mancata denunzia di inadempimenti o di inesatti assolvimenti degli obblighi derivanti dalle mansioni assegnate) nonchè della condotta processuale della parte datoriale (acquiescenza o mancata contestazione ex art. 416 c.p.c. dei fatti e degli elementi di diritto della domanda di controparte).

6.6 Nè al fine di patrocinare una interpretazione del dato normativo diversa da quella seguita sulla scia della giurisprudenza costituzionale vale prospettare la possibilità di abusi conseguenti al riconoscimento del diritto ad un’equa retribuzione ex art. 36 Cost., al lavoratore cui vengano assegnate mansioni superiori al di fuori delle procedure prescritte per l’accesso agli impieghi ed alle qualifiche pubbliche, perchè, come è stato rimarcato da più parti, il cattivo uso di assegnazione di mansioni superiori impegna la responsabilità disciplinare e patrimoniale (e sinanche penale qualora si finisse per configurare un abuso di ufficio per recare ad altri vantaggio) del dirigente preposto alle gestione dell’organizzazione del lavoro, ma non vale di certo sul piano giuridico a giustificare in alcun modo la lesione di un diritto di cui in precedenza si è evidenziata la rilevanza costituzionale.

7. La particolare importanza della questione di diritto trattata induce queste Sezioni unite ai sensi del disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 1, (nel testo riscritto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12) – nella cui ratio non è affatto estraneo il rafforzamento della funzione nomofilattica della Corte di Cassazione – ad enunciare il seguente principio di diritto: “In materia di pubblico impiego – come si evince anche dalla lettura del D.Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, art. 56, comma 6, (nel testo sostituito dal D.Lgs. 31 marzo 1998, n. 80, art. 25, così come successivamente modificato dal D.Lgs. 29 ottobre 1998, n. 387, art. 15) – l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori, anche corrispondenti ad una qualifica di due livelli superiori a quella di inquadramento, ha diritto, in conformità della giurisprudenza della Corte Costituzionale, ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost.. Norma questa che deve, quindi, trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel settore del pubblico impiego privatizzato, sempre che le superiori mansioni assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che in relazione all’attività spiegata siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni.

8. Per concludere il ricorso va rigettato per essere la sentenza impugnata supportata da un iter argomentativo in linea con il principio di diritto ora enunciato.

9. Le spese del presente giudizio di Cassazione – tenuto conto della natura della controversia e della rilevanza e complessità delle numerose questioni giuridiche affrontate – vanno compensate tra le parti, ricorrendo giusti motivi.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e compensa tra le parti le spese del presente giudizio di Cassazione.

Così deciso in Roma, il 20 novembre 2007.

Depositato in Cancelleria il 11 dicembre 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 03-10-2007) 03-12-2007, n. 25158

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. CICALA Mario – Consigliere

Dott. SCUFFI Massimo – rel. Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

T.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA ASIAGO 8, presso lo studio dell’avvocato AURELI STANISLAO, che la rappresenta e difende, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA generale dello STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 156/01 della Commissione tributaria regionale di BOLOGNA, depositata il 16/07/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/10/07 dal Consigliere Dott. Massimo SCUFFI;

udito per il ricorrente l’Avvocato AURELI, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avvocato GUIZZI, dell’Avvocatura dello Stato, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
T.M. impugnava due cartelle esattoriali IRPEF-ILOR-SSNN per gli anni di imposta 1991 e 1992 emesse su avvisi di accertamento divenuti definitivi chiedendone annullamento per difetto di motivazione e – con deduzioni aggiunte – invalidità di notifica degli atti presupposti.

La Commissione tributaria provinciale di Rimini accoglieva il ricorso ma la decisione veniva riformata dalla Commissione regionale di Bologna che – accogliendo l’appello dell’Ufficio – dopo aver precisato che i ruoli erano stati eseguiti in osservanza del disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 14, lett. b – osservava che le cartelle (rectius gli avvisi) erano stati consegnati presso l’abitazione della contribuente a mani della “zia addetta alla casa” e dunque di persona di famiglia in senso ampio che tale qualificatasi ne aveva accettato senza riserve la notificazione.

Dal ché discendeva la legittimità dell’operata iscrizione a ruolo in virtù di accertamenti resisi definitivi per omessa impugnazione.

Ricorre per la cassazione della sentenza il contribuente svolgendo 8 motivi di gravame.

Motivi della decisione
1. Va preliminarmente affrontato il motivo sub “c” con il quale viene denunziata violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2 e art. 22, comma 2 – 3 indicando l’atto d’appello solo l’esistenza dell’autorizzazione ad appellare non allegata agli atti e difettando – nella copia spedita – della certificazione di conformità all’originale.

La duplice censura è priva di pregio perché il provvedimento autorizzazione risulta ritualmente depositato ed allegato agli atti del fascicolo di 2^ grado, fermo restando il principio più volte affermato dal questa Corte secondo cui la produzione della autorizzazione – che costituisce presupposto processuale per l’ammissibilità del gravame – può avvenire in ogni momento del giudizio di impugnazione fino all’udienza di discussione (Cass. 4040/04 e Cass. 12702/04).

Va poi soggiunto che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, comma 3 richiamato, per il giudizio di appello, dall’art. 53, che disciplina il deposito nella segreteria della commissione tributaria adita della copia del ricorso notificato mediante consegna o spedizione a mezzo del servizio postale, va interpretato nel senso che costituisce causa di inammissibilità non la mancanza di attestazione, da parte del ricorrente, della conformità tra il documento depositato ed il documento notificato, ma solo la loro effettiva difformità, nella specie né rilevata dal giudice di merito nè mai dedotta dalla parte interessata in quel grado (Cass. 17180/04).

2. Con il motivo iniziale (sub “a”) la contribuente denunzia violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 49 e 55, artt. 112 e 329 c.p.c., oltre a vizi di motivazione non avendo i giudici di appello tenuto presente dell’acquiescenza prestata dall’Agenzia delle entrate sul vizio di motivazione rilevato dai giudici di prime cure in via assorbente per cui le cartelle – quand’anche precedute da rituali notifiche degli avvisi di accertamento – restavano comunque nulle per difetto di motivazione. Aggiungeva – in alternativa – (sub “b”)che qualora la sentenza avesse argomentato implicitamente sul punto – restava comunque affetta da omessa motivazione al riguardo.

La deduzione è infondata posto che la Commissione regionale si è espressa compiutamente sul devolutimi ritenendo – in conformità all’appello dell’Ufficio – che le cartelle non erano atti di accertamento ex nova bensì atti applicativi di precedenti avvisi mai impugnati e resisi pertanto definitivi sicché non necessitavano di alcuna motivazione in quanto era da intendersi già conosciuta la presupposta pretesa fiscale poi iscritta a ruolo tramite le anzidette cartelle.

Infatti, a fronte dell’eccepito vizio di motivazione delle cartelle sotto il profilo dell’omessa menzione di qualsiasi indicazione o riferimento da cui fosse consentito al contribuente una verifica dei presupposti della iscrizione a ruolo, l’Amministrazione ha replicato che l’omessa dizione sulla derivazione del titolo a seguito di controllo formale della dichiarazione D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 ter, dipendeva dal fatto che non quella situazione originavano bensì dalla definitività degli accertamenti così come stabilito dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 14, lett. b.

Nè sostengasi – come contestato sub “e” – che vi sarebbe stata violazione dei principi regolatori del contraddittorio dell’obbligo di motivazione degli atti amministrativi L. n. 241 del 1990, ex art. 3, lett. d del diritto di difesa ex art. 24 Cost. per aver l’Ufficio esplicitato la sua pretesa (e cioè che la emissione della cartella era conseguenza di pregressi avvisi di accertamento definitivi) a processo già avviato per cui al momento dell’instaurazione del giudizio tali cartelle dovevano o ritenersi immotivate. Invero, pur avendo il processo tributario natura impugnatoria, nel senso che deve essere necessariamente introdotto attraverso l’impugnazione di specifici atti, lo stesso ha per oggetto il rapporto obbligatorio tributario ed in tale sede contenziosa va esercitato il diritto di difesa che non risulta nella specie minimamente compromesso vuoi per la natura estremamente elementare dell’atto (quando la cartella di pagamento fa seguito ad un avviso di accertamento divenuto definitivo si esaurisce in una mera intimazione di pagamento della somma dovuta in base all’avviso e non integra un nuovo ed autonomo atto impositivo) vuoi per aver il ricorrente – a fronte delle controdeduzioni dell’ufficio in merito alla sua derivazione – depositato memoria di integrazione dei motivi ivi svolgendo le ulteriori eccezioni qui riproposte sulla nullità della notifica dei presupposti avvisi di accertamento.

3. Il motivo principale (sub “d”) gravità sulla asserita violazione dell’art. 116 c.p.c. e art. 184 bis c.p.c., D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 24 nonché della normativa in tema di notificazioni posto che la persona ricevente gli avvisi di accertamento solo occasionalmente si sarebbe trovata in loco per accudire i figli della ricorrente ma non era né convivente né addetta alla casa come erroneamente indicato dall’ufficiale notificatore le cui attestazioni erano assistite da pubblica fede solo per quanto di sua diretta percezione e non per le indicazioni da altri fornitegli o da semplici informazioni assunte.

Anche questa censura è inconsistente alla luce delle insindacabili constatazioni di fatto della Commissione regionale che ha verificato che tali avvisi erano stati ritualmente notificati nell’abitazione del contribuente con consegna a mai di soggetto qualificatosi zia addetta alla casa che in tale qualità li aveva sottoscritti.

Invero in caso di notificazione ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2, la qualità di persona di famiglia o di addetta alla casa, all’ufficio o all’azienda di chi ha ricevuto l’atto si presume “iuris tantum” sulla base dalle dichiarazioni recepite dall’ufficiale giudiziario nella relata di notifica (che fa fede fino a querela di falso di quanto dichiarato avvenuto in sua presenza), incombendo sul destinatario dell’atto, che contesti la veridicità di quelle attestazioni l’onere di fornire la prova contraria ed, in particolare, di allegare e provare l’inesistenza di alcun rapporto con il consegnatario, comportante una delle qualità su indicate, ovvero la occasionalità della presenza dello stesso consegnatario (Cass. 16164/03).

Circostanze queste asserite ma mai dimostrate dal contribuente.

4. Inconferenti sono poi i motivi sub “f” (violazione del D.P.R. n. 602 del 1873, art. 25, in quanto dalla lettura delle cartelle non sarebbe stato possibile ricostruire l’esattezza dei calcoli operati per la quantificazione degli importi iscritti a ruolo) e sub “g” (violazione del principio del favor rei D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 3, non avendo la Commissione regionale considerato lo ius superveniens in materia sanzionatoria tributaria): il 1^ perché privo di specificità non riportando neppure il contenuto delle cartelle il cui riscontro contabile era piuttosto da rinvenire nei presupposti accertamenti; il 2^ perché egualmente privo di autosufficienza stante l’estrema genericità dell’invocato ricalcolo delle sanzioni tra l’altro mai dedotto in grado di appello quando già era vigente la relativa disciplina.

5. Inammissibile – alla luce delle argomentazioni che precedono – è infine l’ultimo motivo (sub “h”) che lamenta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, basandosi il metodo di accertamento induttivo adottato su criteri del tutto arbitrali e difettando quelle gravi omissioni o false indicazioni sulle scritture contabili che potevano giustificarli.

Trattasi di contestazioni di merito che andavano fatte falere con tempestivo ricorso avverso gli avvisi di accertamento che quei metodi e criteri avevano adottato e che – ovviamente – non possono essere recuperati con l’impugnazione delle cartelle per vizi che non sono propri delle medesime.

6. Il ricorso va conclusivamente rigettato e la ricorrente condannata a rifondere le spese del presente giudizio che si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.
LA SUPREMA CORTE Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rifondere le spese del presente giudizio che liquida in complessivi Euro 1100,00 (di cui Euro 1000,00 per onorario) oltre accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 3 ottobre 2007.

Depositato in Cancelleria il 3 dicembre 2007


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 09-10-2007) 02-11-2007, n. 23031

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente di Sezione

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Consigliere

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Consigliere

Dott. TRIOLA Roberto Michele – Consigliere

Dott. TRIFONE Francesco – Consigliere

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. BOTTA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende per legge;

– ricorrente –

contro

C.V., G.G., L.C.B., L.G., R.G., V.G., elettivamente domiciliati in Roma, via Portuense 104, presso Antonia De Angelis, rappresentati e difesi dall’avv. DE LUCA Donato giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza del Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana n. 255/06 del 12 gennaio 2006, depositata il 26 maggio 2006, notificata il 19 marzo 2007;

Udito l’avv. Gianni De Bellis per l’Avvocatura Generale dello Stato e l’avv. Donato De Luca per i controricorrenti;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 9 ottobre 2007 dal Consigliere Dott. Raffaele Botta;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale che ha concluso per il rigetto del ricorso e per la dichiarazione della giurisdizione del giudice amministrativo.

Svolgimento del processo
La controversia origina dalla impugnazione, proposta innanzi al TAR Catania dalle odierne parti controricorrenti in proprio e quali associati al centro Studi Notariato di Catania, avverso la Circolare del 31 maggio 2005 prot. n. 2005/3.0/25079 emessa dall’Agenzia delle Entrate, Direzione Regionale per la Sicilia, avente ad oggetto “L.R. 26 marzo 2002, n. 2, recante Disposizioni programmatiche e finanziarie per l’anno 2002. Art. 60, (Agevolazioni fiscali). Attività di recupero d’imposta. Direttiva agli Uffici”, nonchè degli atti richiamati nella circolare medesima, emessi dalla Direzione centrale normativa e contenzioso della stessa Agenzia, da ultimo ribaditi con nota del 23 marzo 2005, n. 53667, tutti riguardanti l’interpretazione della legge regionale siciliana indicata nell’oggetto. Con l’impugnazione era dedotta la violazione dell’art. 60 della predetta legge regionale e successive modifiche: tale norma agevolativa, con riferimento agli atti elencati nella L. n. 604 del 1954, art. 1, (tra i quali gli atti di compravendita immobiliare), avrebbe previsto, secondo l’assunto dei ricorrenti e al contrario di quanto si affermava da parte dell’Agenzia, l’applicabilità del beneficio anche agli atti di compravendita diversi da quelli preordinati alla formazione ed all’arrotondamento della proprietà contadina (come originariamente stabilito dalla L. n. 604 del 1954, citato art. 1).

Il TAR Catania, con sentenza n. 1075/05 del 7 giugno 2005, depositata il 28 giugno 2005, ritenuto ammissibile il ricorso e sussistente la giurisdizione del giudice amministrativo (il cui difetto era stato eccepito dalla costituita Agenzia delle Entrate), accoglieva il ricorso stesso e annullava gli atti impugnati, ritenendo che la norma agevolativa disponesse il beneficio a favore di chiunque ponesse in essere uno degli atti elencati nella L. n. 604 del 1954, art. 1, comma 1, senza che occorresse far riferimento al fine perseguito dagli atti elencati e cioè alla ricomposizione della piccola proprietà contadina.

Avverso tale sentenza, l’Agenzia delle Entrate interponeva appello al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, riproponendo l’eccezione di difetto di giurisdizione e insistendo per l’infondatezza del ricorso originario. L’impugnazione era dichiarata improcedibile dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana per sopravvenuta carenza di interesse, stante l’approvazione di una norma di interpretazione autentica della disposizione oggetto di contestazione, contenuta nella L.R. Sicilia n. 19 del 2005, art. 20, comma 15, che così recitava: “Le agevolazioni di cui alla L.R. 26 marzo 2002, n. 2, art. 60, ed alla L.R. 16 aprile 2003, n. 4, art. 99, si applicano per tutti gli atti traslativi da chiunque posti in essere a partire dal 1 gennaio 2002 fino alla data del 31 dicembre 2006, alla sola condizione che abbiano ad oggetto terreni agricoli secondo gli strumenti urbanistici vigenti alla data di stipula dell’atto e loro pertinenze; il riferimento al primo comma della L. 6 agosto 1954, n. 604, art. 1, vale solo ai fini dell’individuazione delle tipologie di atti agevolati. La presente disposizione costituisce interpretazione autentica della L.R. 26 marzo 2002, n. 2, art. 60”.

L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza in epigrafe con unico motivo, denunciando il difetto di giurisdizione del Giudice amministrativo. Resistono con controricorso, illustrato anche con memoria, i Dott.ri C.V., G.G., L.C.B., L.G., R.G. e V.G..

Motivi della decisione
In via preliminare deve essere, d’ufficio, rilevata l’ammissibilità del ricorso.

La sentenza del Giudice amministrativo, impugnata dall’Agenzia delle Entrate, nonostante formalmente abbia dichiarato l’improcedibilità del ricorso, ha, in effetti, pronunciato sul merito del ricorso stesso, giacchè, essendo stato applicato alla fattispecie lo ius superveniens, tale applicazione si è risolta nel riconoscimento della pretesa dei ricorrenti (avente per oggetto l’eliminazione dell’atto ad essi sfavorevole): siffatta decisione, quindi, presuppone una implicita pronuncia sulla giurisdizione del giudice amministrativo che l’ha emessa, con la conseguenza che la sentenza – in quanto affetta, secondo la tesi dedotta dall’amministrazione ricorrente, da vizi, per essersi pronunciata (sia pur per implicito) su questioni sottratte alla cognizione di qualsiasi giudice, ovvero demandate ad un diverso ordine giurisdizionale – è ricorribile innanzi a queste Sezioni Unite essendo in discussione, senza che vi osti alcuna preclusione, una presunta violazione dei limiti esterni della giurisdizione.

Passando all’esame della questione di giurisdizione, occorre precisare che l’atto oggetto di impugnazione nel giudizio amministrativo è costituito da una circolare interpretativa dell’Agenzia delle Entrate – Direzione Regionale della Sicilia, con la quale l’amministrazione, con contestuale invio di una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati, aveva interpretato la L.R. Sicilia 26 marzo 2002, n. 2, individuando quali fossero, a suo parere, le condizioni che dovevano sussiste per la concessione delle agevolazioni dalla stessa legge previste.

Per la sua natura e per il suo contenuto (di mera interpretazione di una norma di legge), non potendo esserle riconosciuta alcuna efficacia normativa esterna, la circolare non può essere annoverata fra gli atti generali di imposizione, impugnabili innanzi al giudice amministrativo, in via di azione, o disapplicabili dal giudice tributario od ordinario, in via incidentale. Il che rileva, in primo luogo, sul piano generale, perché le circolari, come è stato affermato dalla dottrina prevalente, non possono nè contenere disposizioni derogative di norme di legge, né essere considerate alla stregua di norme regolamentari vere e proprie, che, come tali vincolano tutti i soggetti dell’ordinamento, essendo dotate di efficacia esclusivamente interna nell’ambito dell’amministrazione all’interno della quale sono emesse; e, in secondo luogo, con particolare riferimento all’ordinamento tributario, il quale come è noto, è soggetto alla riserva di legge. D’altra parte, per quanto concerne la dottrina specialistica, coloro che non concordano con una simile generale impostazione, pervengono, in definitiva, alla medesima conclusione, perché sostengono che l’irrilevanza normativa delle circolari dal punto di vista del sistema tributario significa che le stesse sono inidonee, in quanto contenenti norme interne, ad operare all’esterno dell’ordinamento minore cui appartengono. Secondo i fautori di tale tesi dottrinaria, infatti, questa semplice premessa avrebbe il pregio di ridurre al rango di pseudo problema la questione della non impugnabilità in via autonoma delle circolari: proprio perché rilevanti all’interno di un ordinamento parziale (o sezionale), esse non possono essere prese in considerazione dall’ordinamento generale, cui, invece, appartiene – per definizione – il potere giurisdizionale.

Anche la giurisprudenza ha da tempo espresso analoga opinione sulla inefficacia normativa esterna delle circolari. A quest’ultime, infatti, è stata attribuita la natura di atti meramente interni della pubblica amministrazione, i quali, contenendo istruzioni, ordini di servizio, direttive impartite dalle autorità amministrative centrali o gerarchicamente superiori agli enti o organi periferici o subordinati, esauriscono la loro portata ed efficacia giuridica nei rapporti tra i suddetti organismi ed i loro funzionari. Le circolari amministrative, quindi, non possono spiegare alcun effetto giuridico nei confronti di soggetti estranei all’amministrazione, nè acquistare efficacia vincolante per quest’ultima, essendo destinate esclusivamente ad esercitare una funzione direttiva nei confronti degli uffici dipendenti, senza poter incidere sul rapporto tributario, tenuto anche conto che la materia tributaria è regolata soltanto dalla legge, con esclusione di qualunque potere o facoltà discrezionale dell’amministrazione finanziaria (in questa prospettiva cfr. Cass., Sez. 1^, 25 marzo 1983, n. 2092 e 17 novembre 1995, n. 11931; Cass. Sez. 5^, 10 novembre 2000, n. 14619 e del 14 luglio 2003 n. 11011).

Questi risultati interpretativi vanno condivisi alla stregua delle seguenti considerazioni.

1) La circolare emanata nella materia tributaria non vincola il contribuente, che resta pienamente libero di non adottare un comportamento ad essa uniforme, in piena coerenza con la regola che in un sistema tributario basato essenzialmente sull’auto tassazione, la soluzione delle questioni interpretative è affidata (almeno in una prima fase, quella, appunto, della determinazione dell’imposta da corrispondere) direttamente al contribuente.

2) La circolare nemmeno vincola, a ben vedere, gli uffici gerarchicamente sottordinati, ai quali non è vietato di disattenderla (evenienza, questa, che, peraltro, è raro che si verifichi nella pratica), senza che per questo il provvedimento concreto adottato dall’ufficio (atto impositivo, diniego di rimborso, ecc.) possa essere ritenuto illegittimo “per violazione della circolare”: infatti, se la (interpretazione contenuta nella) circolare è errata, l’atto emanato sarà legittimo perché conforme alla legge, se, invece, la (interpretazione contenuta nella) circolare è corretta, l’atto emanato sarà illegittimo per violazione di legge.

3) La circolare non vincola addirittura la stessa autorità che l’ha emanata, la quale resta libera di modificare, correggere e anche completamente disattendere l’interpretazione adottata. Ciò è tanto vero che si è posto il problema della eventuale tutela del contribuente di fronte al mutamento di indirizzo (interpretativo) adottato dall’amministrazione e si è escluso che tale tutela sia possibile anche sotto il profilo dell’affidamento, stante la evidente collisione che si determinerebbe con il principio – coniugato secondo un diverso lessico, ma riferito ad un unico concetto – di inderogabilità delle norme tributarie, di indisponibilità dell’obbligazione tributaria, di vincolatezza della funzione di imposizione, di irrinunciabilità del diritto di imposta. Non si può, al riguardo, non concordare con quella autorevole dottrina che sostiene che, ammettere che l’amministrazione, quando esprime opinioni interpretative (ancorché prive di fondamento nella legge), crea vincoli per sè e i Giudici tributari, equivale a riconoscere all’amministrazione stessa un potere normativo che, a tacer d’altro, è in palese conflitto con il principio costituzionale della riserva relativa di legge codificato dall’art. 23 Cost.. Tutt’al più, come è stato pure affermato, potrebbe ammettersi che il mutamento da parte dell’amministrazione di un precedente indirizzo (interpretativo) sul quale il contribuente possa aver fatto affidamento, eventualmente rilevi (o possa esse valutato) ai fini della applicazione delle sanzioni.

4) La circolare non vincola, infine, come già si è detto, il Giudice tributario (e, a maggior ragione, la Corte di Cassazione) dato che per l’annullamento di un atto impositivo emesso sulla base di una interpretazione data dall’amministrazione e ritenuta non conforme alla legge, non dovrà essere disapplicata la circolare, in quanto l’ordinamento affida esclusivamente al Giudice il compito di interpretare la norma (del resto, al Giudice tributario è attribuita, nella materia tributaria, la giurisdizione esclusiva). In tal caso non può non concordarsi con una autorevole dottrina secondo la quale, ammettere l’impugnabilità della circolare interpretativa innanzi al giudice amministrativo – con la possibilità per quest’ultimo di annullarla, peraltro con effetto erga omnes – significherebbe precludere a tutti gli uffici dell’amministrazione finanziaria di accogliere quella interpretazione, con il risultato – contrario ai principi costituzionali – di elevare il Giudice amministrativo al rango di interprete autentico della norma tributaria.

In realtà, la circolare interpretativa esprime, come è stato efficacemente detto, una “dottrina dell’amministrazione”, vale a dire l’opinione di una parte (anche se “forte”) del rapporto tributario, che, peraltro, può essere discussa e disattesa dal giudice tributario. E, qualora il giudizio di quest’ultimo corrisponda al parere espresso dall’amministrazione, caso sarà pur sempre l’interpretazione del giudice che avrà esclusivo valore ed efficacia.

L’irrilevanza, nel senso fin qui spiegato, della circolare interpretativa in materia tributaria è stata, indirettamente, confermata da una recente sentenza della Corte Costituzionale – la n. 191 del 14 giugno 2007 – a proposito di un atto che sembrerebbe avere rispetto alla circolare, un “valore più cogente”, dato il suo carattere “intersoggettivo”, e cioè la risposta dell’Agenzia delle Entrate ad una istanza di interpello L. 27 luglio 2000, n. 212, ex art. 11, (c.d. “Statuto del contribuente”).

La norma, come è noto, prevede che il contribuente possa “inoltrare per iscritto all’amministrazione finanziaria, che risponde entro cento venti giorni, circostanziate e specifiche istanze di interpello concernenti l’applicazione delle disposizioni tributarie a casi concreti e personali, qualora vi siano obiettive condizioni di incertezza sulla corretta interpretazione delle disposizioni stesse” (art. 11, comma 1): “la risposta dell’amministrazione finanziaria, scritta e motivata, vincola con esclusivo riferimento alla questione oggetto dell’istanza di interpello, e limitatamente al richiedente” (art. 11, comma 2). Orbene, la Corte costituzionale, affermato che “l’istituto dell’interpello del contribuente, regolato dalla L. n. 212 del 2000, art. 11, costituisce lo strumento attraverso il quale si esplica in via generale l’attività consultiva delle agenzie fiscali in ordine all’interpretazione delle disposizioni tributarie”, evidenzia che il parere espresso nella risposta “è vincolante soltanto per l’amministrazione e non anche per il contribuente, il quale resta libero di disattenderlo”: “coerentemente con la natura consultiva dell’attività demandata all’Agenzia delle entrate nella procedura di interpello, l’art. 11, non prevede, invece, alcun obbligo per il contribuente di conformarsi alla risposta dell’amministrazione finanziaria, nè statuisce l’autonoma impugnabilità di detta risposta davanti alle commissioni tributarie (oggetto di impugnazione può essere, eventualmente, solo l’atto con il quale l’amministrazione esercita la potestà impositiva in conformità all’interpretazione data dall’agenzia fiscale nella risposta all’interpello)”: sicchè deve ritenersi che “la risposta all’interpello, resa dall’amministrazione ai sensi della L. n. 212 del 2000, art. 11, deve considerarsi un mero parere, che non integra alcun esercizio di potestà impositiva nei confronti del richiedente”. Conclusione, codesta, che deve essere assunta anche riguardo alla circolare emanata dall’amministrazione.

Alla luce delle considerazioni svolte può, pertanto, affermarsi il seguente principio di diritto: “La circolare con la quale l’Agenzia delle Entrate interpreti una norma tributaria, anche qualora contenga una direttiva agli uffici gerarchicamente subordinati perché vi si uniformino, esprime esclusivamente un parere dell’amministrazione non vincolante per il contribuente, e non è, quindi, impugnabile né innanzi al Giudice amministrativo, non essendo un atto generale di imposizione, nè innanzi al giudice tributario, non essendo atto di esercizio di potestà impositiva”. Va, pertanto, dichiarato il difetto assoluto di giurisdizione con la conseguente cassazione senza rinvio della sentenza impugnata. La particolarità e complessità della fattispecie giustifica la compensazione delle spese dell’intero giudizio.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Dichiara il difetto assoluto di giurisdizione. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 9 ottobre 2007.

Depositato in Cancelleria il 2 novembre 2007


Cass. civ. Sez. I, (ud. 09-07-2007) 10-10-2007, n. 21291

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – rel. Consigliere

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere

Dott. PANZANI Luciano – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

NEW RECORD DI VITANTONIO QUARTO & CO. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA TARO 35, presso l’avvocato ENZO PARINI, rappresentata e difesa dall’Avvocato LUBELLI Vincenzo, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

CURATELA DEL FALLIMENTO ITALY MUSIC STORE S.A.S.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 791/03 della Corte d’Appello di bari, depositata il 08/08/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 09/07/2007 dal Consigliere Dott. Ugo Riccardo PANEBIANCO;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato ENZO PARINI, con delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GOLIA Aurelio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto notificato in data 10.10.2001 il Fallimento Italy Music Store s.a.s. (dichiarato il (OMISSIS)) proponeva impugnazione avanti alla Corte d’Appello di Bari avverso la sentenza del Tribunale di Bari del 27.6.2001 che aveva rigettato la domanda di revoca della L. Fall., ex art. 67, avanzata nei confronti della New Record di Vitantonio Quarto & C. s.n.c. in relazione a pagamenti effettuati per l’importo complessivo di L. 57.385.797 in favore di quest’ultima nell’anno antecedente alla dichiarazione di fallimento. Chiedeva l’appellante l’accoglimento della originaria richiesta o, in subordine, la restituzione del minore importo di L. 10.007.320 di cui alle fatture nn. (OMISSIS) rispettivamente del 31.10.1995 e del 30.11.1995 regolarmente quietanzate.

Si costituiva l’appellata che deduceva l’inammissibilità dell’appello per la sua genericità nonchè, in relazione alla domanda proposta in via subordinata, per violazione dell’art. 345 c.p.c..

All’esito del giudizio la Corte d’Appello con sentenza del 25.3- 8.8.2003 accoglieva il gravame per quanto di ragione, condannando l’appellata al pagamento della somma di Euro 5.168,18 (pari a L. 10.007.320) oltre agli interessi legali dalla data dei pagamenti, compensando fra le parti le spese del doppio grado.

Dopo aver confermato il rigetto della domanda principale in quanto non risultava adeguatamente provata, riteneva rituale ed ammissibile quella subordinata basata sulle fatture quietanzate risultanti dal fascicolo di insinuazione al passivo, sostenendo che di tali documenti, anche se non tempestivamente prodotti nel corso del giudizio di primo grado, era consentito l’esame, trattandosi di prove precostituite e non introducendo nel procedimento questioni nuove ma solo una specificazione rispetto alla domanda originaria nell’ambito di quanto già dedotto.

Avverso tale sentenza la New Record di Vitantonio Quarto & C. s.n.c. propone ricorso per cassazione, deducendo tre motivi di censura.

La controparte non ha svolto alcuna attività difensiva.

Motivi della decisione
Pregiudizialmente deve rilevarsi che la notifica del ricorso per Cassazione presso lo studio dell’avv. Franco Marino, difensore intimata curatela non costituitasi nel presente giudizio, risulta dalla relata avvenuta in Bari (OMISSIS) a mani dell’”incaricato al ritiro” anzichè in (OMISSIS), indirizzo quest’ultimo indicato nella sentenza impugnata come studio di detto difensore domiciliatario.

Orbene, ritiene il Collegio che in tal caso, anche se eseguita in luogo diverso da quello indicato dal domiciliatario e pur in assenza di alcuna indicazione negli atti processuali, in cui non risulta nemmeno un’eventuale comunicazione all’Ordine degli Avvocati da parte del destinatario, la notifica a mani della persona “addetta al ritiro” deve ritenersi perfettamente valida, dovendosi privilegiare il riferimento personale su quello topografico in quanto, ai fini della notifica dell’impugnazione ai sensi dell’art. 330 c.p.c., l’elezione di domicilio presso lo studio del procuratore assume la mera funzione di indicare la sede dello studio ed è priva di una sua autonoma rilevanza.

Non si ritiene quindi di poter condividere l’opposto orientamento seguito da altra decisione di questa Corte (26844/06) nei cui confronti il Collegio si pone in consapevole contrasto e che ha ritenuto inammissibile il ricorso qualora la notifica nel domicilio del procuratore intimato, non costituito in giudizio, diverso da quello eletto nel giudizio “a quo”, non sia accompagnata dalla documentazione comprovante il nuovo domicilio.

Una tale conclusione può giustificarsi infatti nell’ipotesi in cui la notifica presso il domicilio dichiarato nel giudizio di merito non abbia avuto buon fine, come del resto più volte la giurisprudenza ha affermato (Cass. 14033/05; Cass. 8287/02, Cass. 2740/98) e non già allorchè, come nel caso in esame, abbia avuto invece esito positivo, dovendosi in tal caso, nel quadro di una interpretazione che privilegi, come si è osservato, il riferimento personale rispetto a quello topografico, desumere dal ricevimento dell’atto operato dallo stesso difensore (o dal suo incaricato) la corrispondenza del luogo indicato nella relata con il suo nuovo domicilio. In sostanza, in tal caso è lo stesso difensore domiciliatario a confermare con il ricevimento dell’atto, sia pure attraverso un suo incaricato, attestato dall’ufficiale giudiziario, l’avvenuto mutamento del domicilio nel luogo in cui è avvenuta la notifica (in tal senso del resto Cass. 6098/99).

Il ricorso deve ritenersi quindi ammissibile e deve procedersi pertanto al suo esame.

Con il primo motivo di ricorso la New Record di Vitantonio Quarto & C. s.n.c. denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c.. Lamenta che la Corte d’Appello, disattendendo l’eccezione di inammissibilità, abbia dato ingresso ed accolto una domanda nuova basata sulle due fatture n. (OMISSIS) del 31.10.1995 e n. (OMISSIS) del 30.11.1995 dell’importo complessivo di L. 10.007.320, prodotte nel giudizio di primo grado dopo la scadenza dei termini previsti per tali incombenti, senza peraltro che fossero state indicate nella domanda originaria la quale aveva fatto riferimento ad altre fatture per complessive L. 57.385.797 e non aveva subito nel corso del giudizio di primo grado alcuna riduzione, modificazione od ampliamento. Deduce quindi che erroneamente non era stato considerato che tale successiva domanda contenesse un petitum diverso e fosse basata su una diversa causa petendi.

La censura è fondata.

Diversamente da quanto affermato dalla Corte d’Appello, la richiesta in sede di gravame di una somma ulteriore, basata su distinte fatture rispetto a quella che aveva costituito l’oggetto del giudizio di primo grado, configura senza dubbio una domanda nuova, comportando l’introduzione di un tema d’indagine diverso da quello prospettato in precedenza.

Si tratta infatti di distinte operazioni commerciali, individuate con riferimento ad altrettante distinte fatture ed aventi quindi una “causa petendi” ed un “petitum” diversi rispetto alle operazioni di cui alle fatture fatte valere con l’atto introduttivo del giudizio e non già di un mero superamento dei limiti quantitativi della domanda, superamento che presuppone la stessa “causa petendi” e che si propone come una semplice specificazione della domanda medesima nella quale rimangano fermi i fatti costitutivi (Cass. 26079/05).

Nè rileva che dette successive fatture risultassero già nel fascicolo d’ufficio del giudizio di primo grado a seguito dell’allegazione del fascicolo fallimentare in cui erano depositate in quanto la relativa domanda, anche qualora fosse stata proposta avanti al Tribunale (la circostanza non risulta precisata nella sentenza della Corte d’Appello), in ogni caso sarebbe stata tardiva, come del resto si deduce dalla stessa sentenza impugnata che da atto della tardiva produzione delle nuove fatture.

La novità della domanda in appello e la conseguente violazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1, comportano l’accoglimento del primo motivo e l’assorbimento sia del secondo proposto in via subordinata e relativo alla violazione dello stesso art. 345 c.p.c., comma 3, in ragione della tardiva produzione documentale (sulla quale è appena il caso di richiamare la decisione delle Sezioni Unite n. 8203/05 che ha ammesso una tale possibilità solo entro ben determinati limiti) e sia del terzo motivo, riguardante l’elemento soggettivo in tema di revocatoria di cui si è contestata la sussistenza.

L’affermata preclusione in ordine alla domanda nuova proposta in appello determina pertanto la cassazione senza rinvio dell’impugnata sentenza ai sensi dell’art. 382 c.p.c., comma 3, ultima parte.

Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo anche per quanto riguarda i giudizi di merito.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il primo motivo. Dichiara assorbiti gli altri. Cassa senza rinvio la sentenza impugnata. Condanna la curatela al pagamento delle spese processuali che liquida, quanto al giudizio avanti al Tribunale in Euro 800,00 per onorario, Euro 400,00 per diritti ed Euro 200,00 per spese, quanto al giudizio avanti alla Corte d’Appello in Euro 900,00 per onorario, Euro 300,00 per diritti ed Euro 300,00 per spese e quanto al giudizio di legittimità in Euro 1.100,00 per onorario oltre alle spese in Euro 100,00 nonchè, per tutti i giudizi, anche alle spese generali ed agli accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2007.

Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2007


Corte Suprema di Cassazione n. 20426 del 28.09.2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente

Dott. RUGGIERO Francesco – Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giandonato – Consigliere

Dott. SCUFFI Massimo – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.V., elettivamente domiciliato in ROMA VIA BASSANO DEL GRAPPA N. 24, presso lo studio dell’Avvocato COSTA MICHELE, che lo rappresenta e difende unitamente all’Avvocato FRANCESCO COLAIANNI, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AMMINISTRAZIONE DELLE FINANZE, AGENZIA DELLE ENTRATE;

– intimati –

avverso la sentenza n. 267/01 della Commissione Tributaria Regionale di MILANO, depositata il 15/10/01;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 04/07/07 dal Consigliere Dott. Camilla DI IASI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La Commissione Tributaria di Milano respingeva il ricorso col quale P.V. impugnava avviso di mora recante l’iscrizione a ruolo di soprattasse e pene pecuniarie relative ad Iva per l’anno 1984 affermando l’irritualità della notifica del prodromico avviso di irrogazione sanzioni.

La C.T.R. Lombardia, investita dell’appello del contribuente, lo rigettava, in particolare rilevando che dalla lettura dell’avviso di irrogazione sanzioni risultava accertato dall’ufficiale giudiziario che il contribuente si era trasferito per ignota destinazione e che pertanto correttamente poi l’avviso era stato notificato ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), senza necessità di ulteriori ricerche nè di invio di raccomandata per comunicare il deposito dell’atto presso a casa comunale.

Avverso questa sentenza ricorre per cassazione P.V.;

L’Amministrazione delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate sono rimasti intimati.

Motivi della decisione

Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) nonchè artt. 140 e 148 c.p.c., il ricorrente rileva che l’avviso D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 58 prodromico all’avviso di mora fu depositato presso la Casa Comunale senza invio della raccomandata comunicante l’avvenuto deposito benchè nella specie fosse applicabile l’art. 140 c.p.c. (prevedente tale incombente) e non il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), posto che al momento della notifica il contribuente era residente a (OMISSIS), come testimoniato dallo stesso avviso di mora e da certificato di residenza. Secondo il ricorrente il messo notificatore avrebbe dovrebbe far esplicitamente risultare dalla relata di aver effettuato ricerche presso gli uffici anagrafici del comune per accertare se il contribuente risiedesse ancora in Milano o si fosse trasferito in altro comune, mentre nella specie il messo notificatore si sarebbe limitato ad annotare il trasferimento in luogo ignoto, peraltro a margine dell’atto e non nella relata, senza dare conto del compimento di apposite ricerche. Secondo il ricorrente, inoltre, i giudici di merito avrebbero totalmente ignorato la circostanza che dall’avviso impugnato e dai dati anagrafici il contribuente risultava residente nel comune di Milano e sarebbero incorsi in contraddizione sostenendo che l’ufficiale giudiziario non era tenuto ad effettuare ulteriori ricerche, ma richiamando giurisprudenza di segno opposto.

Col secondo motivo (indicato in ricorso come terzo), deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 58, nonchè omessa pronuncia e insufficiente motivazione, il ricorrente rileva che la C.T.R. avrebbe omesso di pronunziarsi circa la tardività dell’avviso di mora in contestazione, (questione proposta nell’atto introduttivo richiamato nell’atto d’appello) in quanto notificato l’8-3-95 in relazione a violazioni relative all’anno di imposta 1984.

Col terzo ed ultimo motivo (indicato in ricorso come quarto), deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 427 del 1997, artt. 3, 12 e 25, il ricorrente rileva che la sentenza impugnata, confermando in toto la decisione dei primi giudici, avrebbe erroneamente omesso di rideterminare le sanzioni sulla base della, disciplina più favorevole introdotta dal D.Lgs. citato, applicabile retroattivamente in ogni stato e grado del. processo a prescindere da un’espressa richiesta in tal senso.

Le censure esposte sono in parte infondate e in parte inammissibili.

Con riguardo al primo motivo, è innanzitutto da rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la notificazione dell’avviso di accertamento tributario deve essere effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 c.p.c. solo quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario, ma non si sia potuto eseguire la consegna perchè questi (o altro possibile consegnatario) non è state rinvenuto in detto indirizzo da dove tuttavia non risulti trasferito, mentre deve essere effettuata applicando la disciplina di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), sostitutivo, per il procedimento tributario, dell’art. 143 c.p.c., quando, come nella specie, il messo notificatore non reperisca il contribuente che, dalle notizie acquisite all’atto della notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto (v. in termini, tra le altre, Cass. n. 10189 del 2003).

Tanto premesso, in ordine alla previa acquisizione di notizie e/o al previo espletamento di ricerche, va evidenziato che nessuna norma prescrive quali attività devono esattamente essere a tal fine compiute nè con quali espressioni verbali e in quale contesto documentale deve essere espresso il risultato di tali ricerche, purchè emerga chiaramente che le ricerche sono state effettuate, che esse sono attribuibili al messo notificatore e riferibili alla notifica in esame.

Nella specie, esiste un’attestazione, proveniente dal messo notificatore, di trasferimento del notificatario per ignota destinazione, ed è da ritenersi che essa sia il frutto di notizie assunte sul posto dal predetto notificatore, nè risultano contestazioni circa la provenienza e l’occasione della suddetta attestazione. In ogni caso, l’interpretazione del documento contenente l’attestazione del messo notificatore spetta al giudice di merito, al quale spetta altresì la valutazione circa la sufficienza o meno delle ricerche effettuate dal messo notificatore prima di procedere alla notifica ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), valutazione che costituisce giudizio di fatto insindacabile in sede di legittimità (v. Cass. n. 5100 del 1997).

E’ vero che l’attestazione de qua rappresenta il frutto di informazioni assunte dal messo notificatore presso terzi e che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la relata di notificazione di un atto fa fede fino a querela di falso per le attestazioni che riguardano l’attività svolta dall’ufficiale giudiziario procedente, la constatazione di fatti avvenuti in sua presenza ed il ricevimento delle dichiarazioni resegli, limitatamente al loro contenuto estrinseco, ma fa fede invece fino a prova contraria per tutte le altre attestazioni che non siano frutto della diretta percezione del pubblico ufficiale, bensì, come nella specie, di informazioni da lui assunte o di indicazioni fornitegli da altri (v. tra numerose altre Cass. n. 3403 del 1996 e n. 4590 del 2000), tuttavia è innanzitutto da evidenziare che l’eventuale prova contraria offerta (nella specie, ovviamente, documentale) deve essere valutata dal giudice di merito e che la relativa valutazione è censurabile in cassazione solo per vizi di motivazione.

In proposito, è in particolare da rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la denuncia di omesso esame di documenti non è riconducibile al vizio di omessa pronuncia, che costituisce error in procedendo, ma al vizio di omessa motivazione su punto decisivo della, controversia e ricorre soltanto nel caso di totale: omessa valutazione di elementi deducibili dal documento, sempre che questi si rivelino decisivi, ossia tali da condurre – secondo una valutazione ed un giudizio che la Corte di cassazione esprime sul piano astratto e in base a criteri di verosimiglianza -ad una decisione diversa da quella adottata dal giudice; di merito (v. Cass. n. 13963 del 2001).

A tale riguardo, è da rilevare che questa Corte ha più volte avuto modo di affermare che il ricorrente che in sede di legittimità denunci l’erronea (o omessa) valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha l’onere, a pena di inammissibilità del motivo di censura, di riprodurre nel ricorso, in osservanza del principio di autosufficienza del medesimo, il documento nella sua integrità (v. tra le altre Cass. n. 15412 del 2004), senza che a tale incombente possa ottemperarsi (come nella specie ha inteso fare il ricorrente), attraverso la produzione nel giudizio di cassazione di copia di tale documento, posto che, a tacer d’altro, secondo la giurisprudenza di questa Corte, per soddisfare il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti di causa, prescritto, a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione, dall’art. 366 c.p.c., n. 3, è indispensabile che dal contesto del ricorso (ossia, solo dalla lettura di tale atto ed escluse l’esame di ogni altro documento, compresa la stessa sentenza impugnata) sia possibile desumere una conoscenza del “fatto”, sostanziale e processuale, sufficiente per bene intendere il significato e la portata delle critiche rivolte alla pronuncia del giudice “a quo” (v. tra le altre Cass. n. 1959 del 2004).

In ogni caso, per quanto concerne il requisito della “decisività” della documentazione prodotta in prova contraria, con particolare riguardo al certificato storico di residenza, è da rilevare che il costante riferimento da parte della giurisprudenza di questa Corte alle notizie assunte dall’ufficiale giudiziario o dal messo notificatore sul posto all’atto della notifica evidenzia che le suddette “notizie” sono intese ad accertare una situazione di fatto, ossia un dato “effettivo” e non formale, perciò prescindente dal riscontro anagrafico, dovendosi presumere che l’indirizzo indicato sull’atto da notificare corrisponda (salvo errore del notificante) al dato anagrafico ufficiale e che, in caso di mancato rinvenimento sul posto del destinatario o di altro possibile consegnatario, al notificatore sia richiesto di accertare, se possibile, mediante ricerche in loco, una situazione di fatto eventualmente non (o ancora non) risultante all’anagrafe.

Giova in proposito rilevare che questa Corte ha avuto modo di affermare che, qualora all’ufficiale giudiziario procedente risulti che il destinatario della notificazione si sia trasferito dal luogo indicato nei registri anagrafici, la notificazione stessa non deve essere eseguita nella forma prevista dall’art. 140 c.p.c. (pena la nullità dell’atto) bensì in quella prevista dall’art. 143 c.p.c., salvo che, a seguito delle ricerche e richieste di informazioni suggerite nel caso concreto dall’ordinaria diligenza, non sia noto, o non avrebbe potuto esser noto, il nuovo luogo di effettiva residenza, dimora o domicilio, giacchè in tal caso la notificazione va invece eseguita (sempre a pena di nullità dell’atto) nell’individuato nuovo luogo di effettiva residenza (v. Cass. n. 993 del 1985). In ordine al secondo (indicato in ricorso come terzo) motivo, è da rilevare che la questione in esso proposta, non trova riscontro nella sentenza impugnata e che lo stesso ricorrente non afferma che detta questione fu (ri)proposta in appello, limitandosi ad affermare che essa fu proposta nel ricorso introduttivo richiamato nell’atto d’appello.

A tale proposito, è sufficiente osservare che, a norma del D.P.R. n. 546 del 1992, art. 56 (che ricalca quasi, letteralmente la formula dell’art. 346 c.p.c.), le questioni ed eccezioni non accolte nella sentenza di primo grado che non siano “specificamente” riproposte in appello si intendono rinunciate e che nella specie, dalla lettura dell’atto d’appello consentita a questo giudice in relazione alla deduzione di violazione dell’art. 112 c.p.c., non risulta che la questione sia stata in alcun modo proposta, tantomeno “specificamente”.

In ordine al terzo motivo (quarto in ricorso), è sufficiente osservare che questo giudice di legittimità ha avuto più volte modo di affermare che, il D.Lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, art. 3, prevedente l’applicabilità del principio del “favor rei” in tema di sanzioni per illeciti tributar è applicabile anche “ai procedimenti in corso” alla data dell’1 aprile 1998, a condizione che il provvedimento di irrogazione della sanzione non sia divenuto definitivo (v. tra le altre Cass. n. 12678 del 2005) e che nella specie tale condizione non sussiste, posto che in questa sede non risulta impugnato l’avviso di irrogazione di sanzioni, bensì l’avviso di mora, emesso sulla base della definitività del primo e che solo l’accertamento della irritualità della notifica del suddetto avviso di irrogazione delle sanzioni ne avrebbe escluso la definitività. Il ricorso deve essere pertanto rigettato. In difetto di attività difensiva nessuna decisione va assunta in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Nulla per le spese.

Così deciso in Roma, il 4 luglio 2007.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2007

Riferimenti normativi

CPC Art.140

CPC Art.148

DPR 29-09-1973 n. 600, Art. 60


Cass. civ. Sez. I, (ud. 27-03-2007) 20-09-2007, n. 19473

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUCCIOLI Maria Gabriella – Presidente

Dott. PLENTEDA Donato – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.G., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA CIVILE DELLA CORTE D CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocate LADDAGA TERESA, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

P.M., P.B., V.I., elettivamente domiciliati in ROMA VIA CIPRO 77, presse l’avvocato RUSSILLO GERARDO, che li rappresenta i difende, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

contro

I.A.C.P. DELLA PROVINCIA DI NAPOLI, C.M., A. F., F.A.M.V., Z.M.A., A.G., A.L., D.G.M., C.D., C.M.C.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 3208/02 della Corte d’Appello di NAPOLI, depositata il 04/11/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/03/2007 dal Consigliere Dott. Maria Rosaria SAN GIORGIO;

udito per i resistenti l’Avvocato ROBERTO DE FUSCO, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto che ha concluso per l’inammissibilità o rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
1.- Con atto di citazione notificato il 17 settembre 1997, M. e P.B. e V.I., premesso che, a seguito de terremoto del (OMISSIS), erano deceduti, nel crollo di un fabbricato dell’Istituto Autonomo delle Case Popolari di (OMISSIS), alcuni loro congiunti, che, all’esito del susseguente procedimento penale, erano stati condannata, per disastro colposo ed omicidio colposo, oltre che alle sanzioni pelali, anche al ristoro dei danni, da liquidarsi in separata sede, lo stesso I.A.C.P. nonchè, tra gli altri, S. G., direttore capo del predetto Ente, e C.M., direttore dei lavori, convennero costoro in giudizio innanzi al Tribunale di Napoli per ottenere il risarcimento dei danni morali, indicati nella somma di L. 680.000.000. Nella contumacia degli altri convenuti, lo I.A.C.P., costituitosi in giudizio, eccepì la prescrizione del diritto azionato e il difetto di legittimazione degli attori.

2. – Con sentenza del 17 giugno 1999, il giudice unico presso il Tribunale adito condannò in solido il S. ed il C. al pagamento in favore degli attori della somma di L. 625.000.000 circa, dichiarando prescritto il diritto azionato nei confronti dello I.A.C.P. e non provata la legittimazione passiva degli altri convenuti.

La sentenza fu impugnata dal S., il quale lamentò che l’atto introduttivo del giudizio di primo grado era state invalidamente notificato presso l’indirizzo corrispondente alla sua ex casa coniugale, dalla quale egli si era allontanato, a seguito della separazione dalla moglie, da oltre trenta anni, e che, a causa di tale invalida attività notificatoria, egli era rimasto contumace in primo grado e non aveva potuto, pertanto, sollevare la eccezione di prescrizioni: del diritto vantato dagli appellati, i quali, peraltro, ben conoscevano il suo reale domicilio, facilmente evincibile dagli atti del processo penale, e presso il quale gli stessi gli avevano notificato, in data 12 febbraio 2001, precetto e sentenza conclusiva del primo grado del giudizio, senza aver prima compiuto infruttuosamente altre notifiche.

3. – La Corte d’appello di Napoli, con sentenza depositate il 4 novembre 2002, giudicò inammissibile il gravame, osservando che, ai fini della determinazione del luogo ove va eseguita la notificazione di un atto, rileva, nei riguardi del notificante, la residenza anagrafica del destinatario, e non, ove: diversa, quella effettiva, se non conosciuta nè conoscibile con l’ordinaria diligenza dal primo. Nella specie, l’atto di citazione era stato notificato al S. il 17 settembre 1997, all’indirizzo presso il quale egli risultava anagraficamente residente, mediante consegna a mani del portiere. Tale notifica fu ritenuta regolare dalla Corte di merito, alla stregua del rilievo che, per un verso, alla data del 7 ottobre 1999 il S. risultava ancora resi lente presso la casa coniugale; che, per l’altro, la relata dell’ufficiale giudiziario valeva ad indicare il mancato rinvenimento del destinatario e di ogni altra persona idonea ex lege alla ricezione. Rilevò, inoltre, il giudice di seconde cure che il mancato rifiuto da parte del portiere di ricevere l’atto lasciava presumere la consegna al destinatario, tenuto anche conto che se detto portiere, in trenta anni, non gli avessi i recapitato la corrispondenza al suo effettivo domicilio, certamente l’appellante avrebbe provveduto alla variazione anagrafica. Nè assumeva alcun rilievo, secondo la Corte, la circostanza che dagli atti del processo penale emergesse il reale domicilio del S., in quanto gli appellati, non essendosi costituiti parte civile, non avevano partecipato a detto processo, peraltro definito dieci anni addietro, sicchè, prima di intraprendere la causa civile, essi si erano muniti di un certificato di residenza del S., mentre solo dal successivo certificato del 3 gennaio 2001, prodotto dagli appellati, era risultata la nuova residenza dello stesso, presso la quale, pertanto, essi avevano notificato sentenza e precetto. Da ciò conseguiva, secondo la Corte, la tardività dell’appello, risultando decorso il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1. 4. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il S. sulla base di due motivi. Hanno resistito gli intimati con controricorso, illustrato anche da successiva memoria.

Motivi della decisione
1. – Con il primo motivo di ricorso, si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 139 c.p.c., e dell’art. 327 cod. proc. civ., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione.

L’attuale ricorrente, assumendo di non aver avuto conoscenza del processo se non al momento della notificazione della sentenza di primo grado e del pedissequo precetto, aveva interposto appello dopo che era ormai decorso il termine di un anno dalla pubblicazione della sentenza, di cui all’art. 327 c.p.c., comma 1. Erroneamente la Corte di merito aveva ritenuto applicabile, nella specie, detto termine, e non, stante la mancata conoscenza, da parte dell’appellante, del procedimento di primo grado, la disposizione in deroga contenuta nel comma 2 del cit. art.. La decisione impugnata si era fondata sulla presunzioni di consegna dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado al destinatario da parte del portiere dello stabile sito al (OMISSIS), a mani del quale l’atto stesso era stato notificato, senza che il giudice di seconde cure avesse considerato che tra il portiere e l’attuale ricorrente non poteva esistere un rapporto d;. dipendenza, atteso che da ben trenta anni quest’ultimo risiedeva altrove certamente non aveva con il primo incontri quotidiani, o comunque tali da fare affidamento sulla consegna dell’atto, ricevuto ai sensi dell’art. 139 cod. proc. civ., al destinatario.

2. – Con la seconda doglianza, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 43 e 44 cod. civ. e art. 139 cod. proc. civ., omesso esame di un punto decisivo della controversia, nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione. Ai fini della determinazione del luogo di residenza del destinatario della notifica, occorre far riferimento alla residenza effettiva, la cui coincidenza con quella anagrafica costituisce un mero indizio, una presunzione semplice superabile sulla base di un qualsivoglia elemento di convincimento idoneo a dimostrare la stabile dimora del soggetto in un diverso luogo. Nella specie, dai documenti esibiti dall’appellante, e, in particolare, dalla corrispondenza (fatture relative alle varie utenze, lettere varie, copia della ordinanza di proscioglimento nel processo penale per disastro colposo ed omicidio colposo, relativo atto di appello, etc.), emergeva che la residenza effettiva dello stesso era alla (OMISSIS), e ciò da oltre trent’anni, da quando, cioè, lo stesso, a seguito della separazione; dalla moglie, aveva lasciato la e usa coniugale, mentre costituiva una mera illazione, che non trovava riscontro neanche in elementi di tipo presuntivo, che il portiere dello stabile sito al (OMISSIS) gli rimettesse la corrispondenza inviata a tale indirizzo. Del resto, anche dai processi civili in corso risultava la effettiva residenza dell’attuale ricorrente, la quale, pertanto, ben avrebbe potuto essere conosciuta dagli appellati usando la ordinaria diligenza. Ed anche la mancata ammissione della prova testimoniale intesa a dimostrare tale effettiva residenza integrava il vizio di motivazione lamentato, essendo stata la relativa richiesta ignorata culla Corte di merito, la quale aveva fondato, invece, la propria decisione sulle denunciate illazioni.

3.1. – I motivi, che possono essere esaminati congruamente, in quanto strettamente connessi sul piano logico-giuridico, sono privi di fondamento.

3.2. – Va premesso che la questione sottoposta all’esame di questa Corte non concerne la validità della notifica eseguita nella residenza effettiva del destinatario dell’atto, non coincidente con quella anagrafica – la cui validità è stata già affermata dalla giurisprudenza di legittimità alla stregua del rilievo del valore meramente dichiarativo delle difformi risultanze anagrafiche (v., tra le altre, Cass. n. 6101 del 2006, n. 5076 del 1999). Si versa, invece, nella ipotesi, speculare alla prima, di notifica eseguita presso la residenza anagrafica del destinatario dell’atto, in realtà dimorante stabilmente altrove.

Con riguardo a detta ipotesi, ove non possa addebitarsi al notificante la inosservanza dell’obbligo di ordinaria diligenza nell’accertamento della effettiva residenza del destinatario della notifica, deve ritenersi correttamente eseguita la notifica presso la residenza ani grafica dello stesso (v. Cass. sentt. n. 16941 del 2003, n. 2230 del 1998, n. 10248 del 1991).

3.3. – Nel caso di specie – in cui, giova sottolinearlo, il giudice di merito ha accertato che alla data del 7 ottobre 1999, cioè in epoca largamente successiva alla notifica dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, risalente al 17 settembre 1997, l’attuò Le ricorrente risultava ancora anagraficamente residente all’indirizzo di (OMISSIS) – detta notifica è da ritenere effettuata validamente, nel rispetto degli adempimenti previsti dal codice di rito. Invero, i notificanti individuarono la residenza del destinatario dell’atto alla stregua delle risultanze del certificalo anagrafico richiesto, come posto in evidenza nella sentenza impugnati, pochi mesi prima della introduzione del giudizio. Nè l’attuale ricorrente, che, pure, assume la conoscenza, da parte degli stessi, della ma effettiva residenza alla (OMISSIS), è stato in grado di dimostrare tale circostanza, ovvero una negligenza degli attuali intimati nell’assumere informazioni al riguardo, non potendosi ritenere elemento di convincimento sul punto il fatto che la residenza effettiva dello stesso S. risultasse dagli atti del processo penale a sto carico, nel quale costoro non si erano costituiti parte civile, rimanendo, pertanto, estranei ad esso, o dalla corrispondenza a lui indirizzata, evidentemente non accessibile ai notificanti.

3.4. – Per converso, corretta, in quanto logicamente e congruamente motivata, deve ritenersi la deduzione della Corte partenopea, che dal tenore testuale della relata di notifica dell’ufficiale giudiziario, recante il riferimento alla consegna a mani del portiere M. N., capace a ricevere e tale qualificatosi per la precaria assenza del destinatario e delle altre persone di cui all’art. 13 c.p.c., ha tratto, tenuto conto del mancato rifiuto del portiere di ricevere l’atto, il convincimento della permanenza di un legame del destinatario dell’atto con il luogo di sua residenza anagrafica, tale da consenti: di essere reso edotto della corrispondenza ivi inoltrata.

Nè, infine, può assumere alcuna rilevanza, al fine di escludere la nescienza incolpevole, da parte degli attuali controricorrenti, del luogo di residenza effettiva del ricorrente, la circostanza della successiva notifica da parte degli stessi a quest’ultimo della sentenza conclusiva del giudizio di primo grado e del relativo precetto, eseguita il 12 gennaio 2001 nel luogo di effettiva residenza del S. ed infatti, come rilevato dal giudice di seconde cure, costoro hanno prodotto in giudizio un certificato anagrafico del 3 gennaio 2001, richiesto, dunque, prudentemente prima di procedere alla notifica di tali nuovi atti, dal quale risultava la nuova residenza dello stesso S..

4. – I suindicati elementi – che danno altresì conto e dell’implicito rigetto, da parte della Corte di merito, delle richiesti istruttorie dell’attuale ricorrente, conducono all’inevitabile risultati del rigetto del ricorso. Le spese, che, in ossequio al principio della soccombenza, vanno poste a carico del ricorrente, sono liquidate come di dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in complessivi Euro 6.100,00, di cui Euro 6.000,00 per onorari, oltre alle spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della prima sezione civile, il 27 marzo 2007.

Depositato in Cancelleria il 20 settembre 2007


Cass. civ. Sez. III, (ud. 18-04-2007) 14-09-2007, n. 19218

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIDUCCIA Gaetano – Presidente

Dott. MAZZA Fabio – Consigliere

Dott. TRIFONE Francesco – Est. Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere

Dott. LEVI Giulio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DI PIETRALATA 320, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, difeso dall’avvocato LEPORE RAFFAELE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.F., (eredi) M.M., elettivamente domiciliati in ROMA VIA F CORRIDONI 27 SC D INT 2, presso lo studio dell’avvocato CARLO VENDITTI, difesi dall’avvocato COLUCCI NICOLA, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 490/03 della Corte d’Appello di BARI, terza sezione civile, emessa il 22/01/03, depositata il 30/04/03, R.G. 1362/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/04/07 dal Consigliere Dott. Giulio LEVI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCHIAVON Giovanni, che ha concluso per la inammissibilità e, in subordine, il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con citazione innanzi al pretore di Lucera del 24 settembre 1991 M. e M.F. convenivano in giudizio B.G., in proprio e nella sua qualità di presidente del Motoclub (OMISSIS), per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni, che, a seguito dello svolgimento di una gara motociclistica fuori strada organizzata dal suddetto motoclub, i partecipanti avevano arrecato attraversando i terreni di loro proprietà, piuttosto che percorrere il circuito su strada sterrata.

Nel contraddittorio delle parti, il pretore rigettava la domanda e la sentenza, sull’appello dei soccombenti, era confermata dal tribunale della stessa città.

Questa Suprema Corte, sul ricorso di M. e M.F., con sentenza n. 749 del 2000, cassava la sentenza del tribunale con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Bari perché il gravame fosse deciso in applicazione del principio di diritto secondo cui rientra nell’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 2050 c.c., (responsabilità per l’esercizio di attività pericolose) l’organizzazione di una gara motociclistica su circuito aperto al pubblico.

Il giudizio di rinvio, svoltosi nella contumacia di B.G., era definito dalla Corte d’appello di Bari con la sentenza pubblicata il 30 aprile 2003, che, in accoglimento del gravame avverso la sentenza di primo grado, condannava l’appellato contumace al risarcimento dei danni ed alle spese del doppio grado del giudizio a favore degli appellanti.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso B.G., che ha affidato l’accoglimento dell’impugnazione ad unico motivo.

Hanno resistito con controricorso M.F. e, nella qualità di eredi di M.M., A.M., M.G. e Mo.Ma..

Motivi della decisione
Con l’unico motivo d’impugnazione – deducendo la nullità del procedimento del giudizio di rinvio per violazione delle norme di cui agli artt. 156 e 160 c.p.c., – il ricorrente denuncia di non avere mai avuto conoscenza della riassunzione del processo innanzi alla Corte d’appello di Bari, perchè, essendo stato il relativo atto notificato a persona diversa da quelle elencate nell’art. 139 c.p.c., ed in luogo diverso da quello del suo domicilio o della sua dimora, esso sarebbe nullo.

A tal fine, ha prodotto il certificato storico di residenza rilasciato dal Comune di Foggia, il certificato dell’attuale sua residenza in (OMISSIS) ed il certificato di matrimonio, intendendo con detta documentazione dimostrare che la persona, cui l’atto di riassunzione era stato consegnato e che l’ufficiale giudiziario aveva qualificato come moglie del destinatario, tale non era e che nel luogo ove la notificazione è avvenuta esso istante non era domiciliato né aveva la sua dimora.

I resistenti contrastano la censura e sostengono che la notificazione sarebbe stata effettuata validamente a mani di F.L., che, ancorché indicata come “moglie” del destinatario B., era, invece, la sua convivente nel comune domicilio di via (OMISSIS) in (OMISSIS).

Il motivo è fondato.

Dalla documentazione offerta dal ricorrente in questa sede e dalle stesse ammissioni delle parti resistente risulta che, alla data in cui è stata effettuata la riassunzione del processo innanzi al Giudice del rinvio, il luogo di domicilio o di dimora di B.G. non era alla via (OMISSIS) in (OMISSIS), ove l’atto medesimo risulta notificato mediante consegna a F.L., indicata come moglie del destinatario.

Ne consegue che la notificazione è nulla, sia perchè effettuata in luogo diverso da quello del domicilio di B.G.; sia perché l’atto è stato consegnato a soggetto che è persona diversa da un familiare ivi con lui convivente.

Al riguardo considera, anzitutto, questa Corte che, in tema di notificazioni, nel procedimento disciplinato dagli artt. 138 e 139 c.p.c., che è imperniato sulla consegna diretta della copia dell’atto al destinatario, la consegna della copia a persona che, pur coabitando con il destinatario, non sia a lui legata da rapporto di parentela o non sia addetta alla casa, non è assistita dalla presunzione di consegna al destinatario stesso e non consente il perfezionamento della notifica, che deve ritenersi, quindi nulla, salvo poi a risultare una tale nullità sanabile con la costituzione in giudizio della parte o con la mancata deduzione di essa con l’atto d’impugnazione (ex plurimis Cass., n. 13625/2004; Cass., n. 9658/2000).

Occorre poi, considerare che fra le persone di famiglia (che, se rinvenute nella casa di abitazione del destinatario dell’atto da notificare, sono abilitate a riceverlo, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2) possono comprendersi soltanto i componenti del nucleo familiare in senso stretto e gli altri parenti od affini, non legati da un rapporto di stabile convivenza, purchè la loro presenza in detta casa sia non occasionale (Cass., n. 9658/2000; Cass., n. 3858/92).

Di conseguenza, la notificazione effettuata a mani di persona che si assume essere il c.d. “coniuge di fatto” del destinatario (qualificatasi all’ufficiale giudiziario quale “moglie” del destinatario) e che sia avvenuta in luogo diverso da quello in cui lo stesso destinatario abbia il domicilio o la dimora deve ritenersi nulla.

Nel caso in esame, la notificazione dell’atto di riassunzione del giudizio innanzi al giudice del rinvio effettuata a B.G. a mani di F.L. è nulla e, non essendo stata sanata, comporta, nella nullità del relativo procedimento, la nullità della sentenza impugnata, che deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Bari in altra composizione.

Al Giudice del rinvio è rimessa anche la pronuncia in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità (art. 385 c.p.c., comma 3).

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso; cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bari in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2007


Corte Suprema di Cassazione, Sez. III, n. 19218 del 14-09-2007

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FIDUCCIA Gaetano – Presidente

Dott. MAZZA Fabio – Consigliere

Dott. TRIFONE Francesco – Est. Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere

Dott. LEVI Giulio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DI PIETRALATA 320, presso lo studio dell’avvocato GIGLIOLA MAZZA RICCI, difeso dall’avvocato LEPORE RAFFAELE, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

M.F., (eredi) M.M., elettivamente domiciliati in ROMA VIA F CORRIDONI 27 SC D INT 2, presso lo studio dell’avvocato CARLO VENDITTI, difesi dall’avvocato COLUCCI NICOLA, giusta delega in atti;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 490/03 della Corte d’Appello di BARI, terza sezione civile, emessa il 22/01/03, depositata il 30/04/03, R.G. 1362/00;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/04/07 dal Consigliere Dott. Giulio LEVI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SCHIAVON Giovanni, che ha concluso per la inammissibilità e, in subordine, il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con citazione innanzi al pretore di Lucera del 24 settembre 1991 M. e M.F. convenivano in giudizio B.G., in proprio e nella sua qualità di presidente del Motoclub (OMISSIS), per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni, che, a seguito dello svolgimento di una gara motociclistica fuori strada organizzata dal suddetto motoclub, i partecipanti avevano arrecato attraversando i terreni di loro proprietà, piuttosto che percorrere il circuito su strada sterrata.

Nel contraddittorio delle parti, il pretore rigettava la domanda e la sentenza, sull’appello dei soccombenti, era confermata dal tribunale della stessa città.

Questa Suprema Corte, sul ricorso di M. e M.F., con sentenza n. 749 del 2000, cassava la sentenza del tribunale con rinvio per nuovo giudizio alla Corte d’appello di Bari perché il gravame fosse deciso in applicazione del principio di diritto secondo cui rientra nell’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 2050 c.c., (responsabilità per l’esercizio di attività pericolose) l’organizzazione di una gara motociclistica su circuito aperto al pubblico.

Il giudizio di rinvio, svoltosi nella contumacia di B.G., era definito dalla Corte d’appello di Bari con la sentenza pubblicata il 30 aprile 2003, che, in accoglimento del gravame avverso la sentenza di primo grado, condannava l’appellato contumace al risarcimento dei danni ed alle spese del doppio grado del giudizio a favore degli appellanti.

Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso B.G., che ha affidato l’accoglimento dell’impugnazione ad unico motivo.

Hanno resistito con controricorso M.F. e, nella qualità di eredi di M.M., A.M., M.G. e Mo.Ma..

Motivi della decisione

Con l’unico motivo d’impugnazione – deducendo la nullità del procedimento del giudizio di rinvio per violazione delle norme di cui agli artt. 156 e 160 c.p.c., – il ricorrente denuncia di non avere mai avuto conoscenza della riassunzione del processo innanzi alla Corte d’appello di Bari, perché, essendo stato il relativo atto notificato a persona diversa da quelle elencate nell’art. 139 c.p.c., ed in luogo diverso da quello del suo domicilio o della sua dimora, esso sarebbe nullo.

A tal fine, ha prodotto il certificato storico di residenza rilasciato dal Comune di Foggia, il certificato dell’attuale sua residenza in (OMISSIS) ed il certificato di matrimonio, intendendo con detta documentazione dimostrare che la persona, cui l’atto di riassunzione era stato consegnato e che l’ufficiale giudiziario aveva qualificato come moglie del destinatario, tale non era e che nel luogo ove la notificazione è avvenuta esso istante non era domiciliato né aveva la sua dimora.

I resistenti contrastano la censura e sostengono che la notificazione sarebbe stata effettuata validamente a mani di F.L., che, ancorché indicata come “moglie” del destinatario B., era, invece, la sua convivente nel comune domicilio di via (OMISSIS) in (OMISSIS).

Il motivo è fondato.

Dalla documentazione offerta dal ricorrente in questa sede e dalle stesse ammissioni delle parti resistente risulta che, alla data in cui è stata effettuata la riassunzione del processo innanzi al Giudice del rinvio, il luogo di domicilio o di dimora di B.G. non era alla via (OMISSIS) in (OMISSIS), ove l’atto medesimo risulta notificato mediante consegna a F.L., indicata come moglie del destinatario.

Ne consegue che la notificazione è nulla, sia perché effettuata in luogo diverso da quello del domicilio di B.G.; sia perché l’atto è stato consegnato a soggetto che è persona diversa da un familiare ivi con lui convivente.

Al riguardo considera, anzitutto, questa Corte che, in tema di notificazioni, nel procedimento disciplinato dagli artt. 138 e 139 c.p.c., che è imperniato sulla consegna diretta della copia dell’atto al destinatario, la consegna della copia a persona che, pur coabitando con il destinatario, non sia a lui legata da rapporto di parentela o non sia addetta alla casa, non è assistita dalla presunzione di consegna al destinatario stesso e non consente il perfezionamento della notifica, che deve ritenersi, quindi nulla, salvo poi a risultare una tale nullità sanabile con la costituzione in giudizio della parte o con la mancata deduzione di essa con l’atto d’impugnazione (ex plurimis Cass., n. 13625/2004; Cass., n. 9658/2000).

Occorre poi, considerare che fra le persone di famiglia (che, se rinvenute nella casa di abitazione del destinatario dell’atto da notificare, sono abilitate a riceverlo, ai sensi dell’art. 139 c.p.c., comma 2) possono comprendersi soltanto i componenti del nucleo familiare in senso stretto e gli altri parenti od affini, non legati da un rapporto di stabile convivenza, purché la loro presenza in detta casa sia non occasionale (Cass., n. 9658/2000; Cass., n. 3858/92).

Di conseguenza, la notificazione effettuata a mani di persona che si assume essere il c.d. “coniuge di fatto” del destinatario (qualificatasi all’ufficiale giudiziario quale “moglie” del destinatario) e che sia avvenuta in luogo diverso da quello in cui lo stesso destinatario abbia il domicilio o la dimora deve ritenersi nulla.

Nel caso in esame, la notificazione dell’atto di riassunzione del giudizio innanzi al giudice del rinvio effettuata a B.G. a mani di F.L. è nulla e, non essendo stata sanata, comporta, nella nullità del relativo procedimento, la nullità della sentenza impugnata, che deve essere cassata con rinvio alla Corte d’appello di Bari in altra composizione.

Al Giudice del rinvio è rimessa anche la pronuncia in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità (art. 385 c.p.c., comma 3).

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso; cassa in relazione la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Bari in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 14 settembre 2007


Cass. civ. Sez. lavoro, (ud. 17-04-2007) 18-07-2007, n. 15973

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERCURIO Ettore – Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. DE MATTEIS Aldo – rel. Consigliere

Dott. DI CERBO Vincenzo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

N.L., elettivamente domiciliato in ROMA VIA LUCREZIO CARO 63, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI ZOPPI, rappresentato e difeso dall’avvocato RIMMAUDO Giovanni, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

I.N.A.I.L. – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA IV NOVEMBRE 144, rappresentato e difeso dagli avvocati LA PECCERELLA Luigi, LUCIANA ROMEO, giusta procura speciale atto notar CARLO FEDERICO TUCCARI DI ROMA del 29/07/04, REP. 65862;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 514/03 della Corte d’Appello di GENOVA, depositata il 15/07/03 R.G.N. 201/03;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 17/04/07 dal Consigliere Dott. Aldo DE MATTEIS;

udito l’Avvocato RIMMAUDO GIOVANNI;

udito l’Avvocato ROMEO LUCIANA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il lavoratore N.L. ha subito un incidente stradale il giorno (OMISSIS) mentre alla guida della propria, auto ritornava dal luogo di lavoro alla propria abitazione, entrambi siti nel comune di Massa.

La sua domanda di rendita è stata respinta dal Giudice del lavoro di Massa, il quale ha ritenuto che il nesso di causalità è stato interrotto da una sosta voluttuaria ad un bar sito lungo il medesimo percorso.

La decisione è stata confermata dalla Corte d’Appello di Genova con sentenza 2/14 luglio 2003 n. 514, che ha posto una duplice distinzione: tra soste necessitate (quali la necessità di un breve riposo durante un lungo percorso o la necessità di soddisfare esigenze fisiologiche) e soste voluttuarie, ed in questo secondo ambito quelle di pochi minuti, insuscettibili di modificare le condizioni di rischio, e quelle di apprezzabile durata e consistenza (come nella specie, circa un’ora), tale da far ritenere che anche la circolazione stradale possa aver avuto una sensibile modifica, sulla base dell’id quod plerumque accidit.

Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per Cassazione il N., con due motivi.

L’Istituto intimato sì è costituito con controricorso, resistendo, ed ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
Con il primo motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, sostiene che per la qualificazione dell’infortunio in itinere è determinante solo la circostanza dello spostamento necessitato del lavoratore per raggiungere con il proprio mezzo l’abitazione e il posto di lavoro e viceversa, mentre sarebbe irrilevante una breve sosta effettuata per soddisfare esigenze personali.

Il motivo non è fondato.

II quadro normativo alla cui stregua la controversia deve essere decisa è costituito dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, comma 3, introdotto dal D.Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, art. 12, che comprende nell’oggetto della assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, nell’ambito della nozione di occasione di lavoro, anche l’infortunio in itinere, esclusi i casi di interruzione o deviazione del tutto indipendenti dal lavoro o, comunque, non necessitate; nonché gli infortuni direttamente cagionati dall’abuso di alcolici e di psicofarmaci o dall’uso non terapeutico di sostanze stupefacenti ed allucinogeni;

infine in caso di guida senza patente.

La stessa disposizione spiega che la interruzione e la deviazione si intendono necessitate quando sono dovute a causa di forza maggiore, ad esigenze essenziali ed improrogabili o all’adempimento di obblighi penalmente rilevanti. La espressa menzione nel testo legislativo, oltre che della deviazione, anche della interruzione, supera i rilievi della dottrina circa la irrilevanza del tempo del tragitto.

E sebbene la norma indicata sia successiva ai fatti di causa, nondimeno essa ne costituisce il criterio normativo per una triplice ragione, in ordine decrescente di pregnanza:

1. perchè la L. 17 maggio 1999, n. 144, art. 55, lett. u), nel delegare il Governo ad emanare una specifica normativa per la tutela dell’infortunio in itinere, gli ha posto come criterio direttivo il recepimento dei principi giurisprudenziali consolidati in materia, sicché questi costituiscono, nel tempo, benchè sotto diversa fonte normativa, prima giurisprudenziale e poi legislativa, medesimo criterio normativo (Corte cost. ord. 11 gennaio 2005 n. 1);

2. perchè il sistema di tutela infortunistica si è formato attraverso un processo evolutivo nel quale gli interventi del legislatore hanno avuto spesso la funzione di certificare e dare dignità di norma legislativa agli approdi della giurisprudenza ordinaria e costituzionale; particolare esempio di tale processo è proprio la tutela dell’infortunio in itinere, enucleata dalla nozione di occasione di lavoro di cui al D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, art. 2, da una giurisprudenza pretoria (di merito e di legittimità, poi recepita dalla L. n. 144 del 1999, art. 55, lett. u)), la quale, partendo dalla nozione di aggravamento del rischio generico gravante su tutti gli utenti della strada (riassumibile nel catalogo di cui a Cass. 27 maggio 1982 n. 3273), attraverso una elaborazione pluridecennale, è pervenuta alla conclusione che il quid pluris costituente l’aggravamento risiede proprio nella finalità lavoristico (Cass. 19 gennaio 1998 n. 455, cui si è uniformata tutta la giurisprudenza successiva; ex plurimis Cass. 19 febbraio 1998 n. 1751, 27 febbraio 1998 n. 2210, 16 ottobre 1998 n. 10272, 24 ottobre 1998 n. 10582, 3 novembre 1998 n. 11008, 17 maggio 2000 n. 6431).

3. perchè una norma successiva ben può costituire criterio interpretativo che illumina anche il regime precedente (Cass. sez. un. 26 luglio 2004 n. 13967).

La giurisprudenza costituzionale citata, decidendo su una fattispecie di sosta voluttuaria al bar di pochi minuti, ha precisato, con ordinanza interpretativa di rigetto, e facendo riferimento alla giurisprudenza di legittimità, che una breve sosta non integra interruzione (che esclude la copertura assicurativa), ove non modifichi le condizioni di rischio. Tale giurisprudenza, che comporta un ampliamento della tutela dell’infortunio in itinere rispetto al testo normativo, in quanto introduce una limitata tutela della interruzione non necessitata, sub specie di breve sosta, convalida di conformità alla Costituzione la giurisprudenza di questa Corte in materia di infortunio in itinere, è coerente al quadro normativo europeo in tema di interruzione e deviazione dell’iter, e conforta le stesse direttive dell’ Istituto assicuratore. Questo, con le linee guida per la trattazione degli infortuni in itinere del 15 giugno 1998, ha dato ai propri uffici la direttiva che “brevi differimenti della partenza o brevi soste lungo il tragitto (la cui brevità va valutata anche in rapporto alla motivazione dei ritardi) non costituiscono elementi tali da influire negativamente sulla valutazione della compatibilità degli orari”.

La sosta voluttuaria al bar va inquadrata quindi nel rischio elettivo, nell’ambito del percorso, che costituisce la occasione di lavoro, in quanto dovuta a libera scelta del lavoratore, che comporta la permanenza o meno della copertura assicurativa a seconda delle caratteristiche della sosta, e cioè delle due condizioni indicate dalla giurisprudenza costituzionale, e cioè le sue dimensioni temporali e l’aggravamento del rischio.

La giurisprudenza di legittimità si è già espressa in tema di differimento dell’orario di inizio dell’iter, stabilendo che la permanenza del lavoratore sul luogo di lavoro ed alla fine del proprio turno (nella specie, di cinquanta minuti, e motivata da visita al medico di fabbrica e incontro con collega sindacalista per ragioni attinenti al lavoro) non è idoneo ad interrompere il nesso di causalità tra l’attività lavorativa e l’evento infortunistico (Cass. 18 luglio 2002 n. 10468).

Per la interruzione risulta, a quanto consta, un unico precedente (Cass. 19 aprile 1995 n. 4346), che, nell’affermare la tutela infortunistica anche per il viaggio di ritorno di un artigiano, il cui viaggio di andata sia pacificamente oggetto di tutela, ha ritenuto irrilevante una breve sosta in banca ed una al bar, posti lungo il tragitto.

Per la sosta al bar, occorre tenere presente anche il maggior rigore necessario nel valutare il rischio elettivo nell’infortunio in itinere, che assume una nozione più ampia rispetto all’infortunio che si verifichi nel corso dell’attività lavorativa vera e propria, in quanto comprende comportamenti del lavoratore infortunato di per sè non abnormi, secondo il comune sentire, ma semplicemente contrari a norme di legge o di comune prudenza (per riferimenti Cass. 18 agosto 2002 n. 12072, Cass. 6 agosto 2003 n. 11885, Cass. 18 marzo 2004 n. 5525, Cass. 3 agosto 2005 n. 16282).

La valutazione delle . circostanze di fatto della interruzione non necessitata è compito del Giudice del merito, il quale potrà adottare criteri quali il tempo della sosta in termini assoluti, o in proporzione alla durata del viaggio, in quanto la interruzione non necessitata non può essere di durata tale da elidere il carattere finalistico che giustifica la tutela dell’infortunio in itinere, o, come indicato dall’istituto assicuratore, delle motivazioni stesse della sosta, avvalendosi delle indicazioni della giurisprudenza nazionale o, ove mancante e quale criterio meramente sussidiario, anche di quella dei Paesi comunitari. Dal criterio di interpretazione costituzionalmente orientata, dal principio di armonizzazione dei sistemi di sicurezza sociale dei Paesi dell’Unione, dalla formazione in corso di uno spazio giurisprudenziale europeo, si può infatti derivare il seguente criterio interpretativo: nella misura in cui la legislazione di un Paese comunitario disciplini in modo specifico un elemento non disciplinato dalla nostra legge nazionale, in conformità a precetti della Costituzione di quel Paese identici a quelli della nostra Costituzione, la disciplina legislativa o giurisprudenziale di quest’altro Paese comunitario (ampiamente riportate da vari Autori e dallo stesso istituto assicuratore) può costituire criterio, certamente sussidiario, per la soluzione di casi non disciplinati nel dettaglio dalla legge italiana.

A questi criteri si è sostanzialmente attenuta la sentenza impugnata laddove ha affermato che le soste voluttuarie di pochi minuti, insuscettibili di modificare le condizioni di rischio, non escludono la tutela dell’infortunio in itinere; ciò a riprova che i principi enunciati dalla corte costituzionale, con rinvio alla giurisprudenza di legittimità, rispondono a valori insiti e diffusi dell’ordinamento, percepiti anche dalla sentenza impugnata. Il primo motivo di ricorso, secondo cui sarebbe determinante solo lo spostamento in occasione di lavoro, ed irrilevanti le circostanze di questo, quali la interruzione non necessitata, non ha fondamento giuridico, alla luce dei principi sopra riportati.

Con il secondo motivo, deducendo omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5), il ricorrente contesta la valutazione della sentenza impugnata circa la durata della sosta. Rileva che il turno di lavoro è cessato alle ore 21 ed il sinistro, come risulta dal verbale della polizia, si è verificato alle ore 22. Ove si consideri che, finito il turno, il N. si è dovuto recare dal reparto agli spogliatoi per cambiarsi, quindi andare a piedi all’uscita della fabbrica, prendere la vettura dal posteggio e poi compiere il tragitto, la fermata al bar sarebbe stata di breve durata e tale da non modificare il rischio stradale. Contesta altresì la presunzione di aggravamento del rischio su cui si fonda la decisione della Corte, perché al contrario sarebbe notorio che più ci si avvicina all’ora notturna, più il traffico tende a diminuire e non ad aumentare.

Il secondo motivo si risolve in una censura agli accertamenti di fatto della sentenza impugnata, relativi alla durata della sosta ed alle condizioni di rischio. Sul primo punto, la sentenza impugnata ha parlato di circa un’ora; i rilievi del ricorrente sui tempi dello spogliatoio e del verbale della polizia stradale intervenuta, costituiscono elementi di fatto che per la loro genericità non sono tali da inficiare la valutazione della sentenza impugnata. Il ricorrente non deduce di avere indicato al giudice del merito le dimensioni dell’azienda, i tempi di percorrenza a piedi, le distanze chilometriche (tenute presenti le contenute dimensioni spaziali della cittadina di Massa), tutti dati necessari per consentire a questa corte il sindacato sul vizio di motivazione dedotto.

Sul secondo punto, trattasi di valutazione di merito che non appare illogica, considerata l’ora tarda, dopo il tramonto.

Il ricorso deve essere pertanto respinto.

Nulla deve disporsi per le spese del presente giudizio ai sensi dell’art. 152 disp. att. c.p.c., nel testo anteriore a quello di cui al D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 42, comma 11, convertito in L. 24 novembre 2003, n. 326, nella specie inapplicabile “ratione temporis”; infatti le limitazioni di reddito per la gratuità del giudizio introdotte da tale ultima norma non sono applicabili ai processi il cui ricorso introduttivo del giudizio sia stato depositato, come nella specie, anteriormente al 2 ottobre 2003 (data di entrata in vigore del predetto decreto legge) (Cass. 1 marzo 2004 n. 4165; Cass. 8 marzo 2004 n. 4657; Cass. 1 giugno 2005 n. 11687;

nello stesso senso, in motivazione, S.U. 24 febbraio 2005 n. 3814).

P.Q.M.
rigetta il ricorso. Nulla per le spese processuali del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Lavoro, il 17 aprile 2007.

Depositato in Cancelleria il 18 luglio 2007


Cass. civ. Sez. I, 13-07-2007, n. 15673

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente

Dott. SALME’ Giuseppe – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. CECCHERINI Aldo – rel. Consigliere

Dott. SCHIRO’ Stefano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

BANCA DELLE MARCHE S.P.A., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA MARIA CRISTINA 8, presso l’avvocato GOBBI GOFFREDO, che la rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

A.N., R.M.R., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 132, presso l’avvocato CIGLIANO FRANCESCO, che li rappresenta e difende, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 194/03 della Corte d’Appello di ANCONA, depositata il 15/03/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/05/2007 dal Consigliere Dott. Aldo CECCHERINI;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato GOFFREDO GOBBI che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione (ed in particolare per l’accoglimento del 2^ motivo).

Svolgimento del processo

Con ricorso in data 2 maggio 1995, la Banca delle Marche s.p.a (in precedenza Cassa di risparmio delle Marche Ca.Ri.Ma. s.p.a., ed ancor prima Cassa di Risparmio della Provincia di Macerata) chiese al Presidente del Tribunale di Macerata l’emissione di decreto ingiuntivo per la somma di L. 32.161.965, oltre agli accessori a carico dei signori A.N. e R.M.R., entrambi residenti in Roma.

Questi ultimi si opposero, sollevando in via pregiudiziale un’eccezione d’incompetenza territoriale del foro di Macerata. Per quel che qui interessa, essi dedussero che l’art. 20 della lettera – contratto del 26 giugno 1992 aveva bensì previsto una deroga alla competenza territoriale, specificamente approvata per iscritto, a favore “della giurisdizione nella quale trovasi la direzione generale della Cassa”, a quel tempo in Macerata; tuttavia, a seguito della fusione della Ca.Ri.Ma. s.p.a. con la Cassa di risparmio di Pesaro s.p.a. la direzione generale era stata fissata in Ancona.

La banca resistette all’opposizione, e il Tribunale di Macerata, con sentenza 19 febbraio 1999, respinta l’eccezione d’incompetenza territoriale, rigettò l’opposizione, osservando che, dopo la fusione delle due banche, erano state istituite in Pesaro e in Macerata sedi principali e direzioni compartimentali; e che nella specie trovava applicazione l’art. 19 c.p.c., relativo al foro delle persone giuridiche.

Contro la sentenza, notificata il 20 ottobre 1999, i soccombenti notificarono atto di appello a mezzo posta il 22 novembre 1999, avendolo consegnato all’ufficiale giudiziario il 19 novembre 1999.

La Corte d’appello di Ancona, con sentenza 15 marzo 2003, respinse l’eccezione di tardività dell’appello, sollevata dalla banca appellata. Sulla questione di competenza, la corte premise che essa doveva essere determinata in base allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, quando la sede della direzione generale della Banca delle Marche s.p.a. non era più in Macerata, ma in Ancona; e che il foro generale delle persone giuridiche è utilizzabile ai fini della determinazione della competenza territoriale quando le persone medesime sono convenute, e non quando sono attrici, come nel presente giudizio. Poiché nella fattispecie era documentato e pacifico che il contratto era stato stipulato in Roma, dove gli appellanti avevano la loro residenza; e che l’obbligazione dedotta in giudizio doveva essere adempiuta in Ancona, sede della direzione generale della banca, o in Roma, sede dello stabilimento, la corte dichiarò l’incompetenza del Tribunale di Macerata e la competenza territoriale alternativa dei tribunali di Roma e di Ancona, e revocò il decreto ingiuntivo, condannando l’appellata al pagamento delle spese dei due gradi di giudizio.

Per la cassazione della sentenza, notificata il 15 maggio 2003, ricorre la banca con atto notificato il 27 giugno 2003, con tre motivi d’impugnazione, illustrati anche con memoria.

Gli intimati resistono con controricorso notificato il 18 settembre 2003.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso si denunzia la violazione della L. n. 890 del 1982, art. 4 e la falsa applicazione della L. n. 87 del 1953, art. 30. Si deduce che la notificazione dell’appello proposto dai signori A. e R., ancorché richiesta tempestivamente, era stata eseguita a mezzo posta, con la consegna al destinatario, il 22 novembre 1999, sebbene il 19 novembre 1999 fosse scaduto il termine utile per l’impugnazione, divenuta conseguentemente inammissibile. Contrariamente al giudizio della corte del merito, la dichiarazione d’incostituzionalità della L. n. 890 del 1982, art. 4 pronunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza 26 novembre 2002 n. 477, sebbene applicabile con efficacia retroattiva alle situazioni anteriormente verificatesi, in questo caso non poteva valere ad impedire l’inammissibilità dell’appello, perché era intervenuta dopo che la decadenza si era già verificata. Nella memoria depositata per l’udienza, la ricorrente deduce che l’appello, se fosse stato deciso tempestivamente, e dunque prima della citata sentenza della Corte costituzionale, sarebbe stato dichiarato inammissibile, e che non può farsi dipendere l’esito della causa dalla durata del processo.

Il motivo è infondato. All’ultima osservazione riportata si deve opporre che il giudice del gravame, dovendo pronunciarsi (d’ufficio) sulla tempestività dell’appello, notificato a mezzo posta dopo la scadenza del termine di legge, nonostante la diligente e tempestiva consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, avrebbe dovuto sospendere il giudizio, e sottoporre alla corte costituzionale la questione di legittimità della norma applicabile, decidendo poi in conformità.

Sulla questione dell’applicabilità della sentenza della Corte costituzionale n. 447/2002, peraltro, questa corte si è già pronunciata, affermando che, in considerazione dell’effetto retroattivo delle sentenze di accoglimento della Corte costituzionale, la dichiarazione di illegittimità costituzionale di una norma processuale comporta che – fin quando la validità ed efficacia degli atti disciplinati da detta norma sono “sub iudice” – la conformità dell’atto al modello legale debba essere verificata tenendo conto della modificazione della disposizione legislativa conseguente alla pronuncia di illegittimità indipendentemente dal tempo in cui l’atto è stato compiuto, l’unico limite essendo costituito dalle situazioni consolidate per essersi il rapporto già esaurito; pertanto, a seguito della (successiva) sentenza della Corte costituzionale n. 477 del 26 novembre 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 149 cod. proc. civ. e L. n. 890 del 1982, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevedono che la notificazione si perfeziona per il notificante alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario anziché a quella antecedente di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, deve ritenersi tempestiva la notificazione del ricorso per Cassazione che sia stato consegnato all’ufficiale giudiziario in data anteriore al decorso del termine annuale previsto dall’art. 327 cod. proc. civ., essendo in proposito irrilevante che la ricezione da parte del destinatario sia avvenuta successivamente (Cass. 16 marzo 2006 n. 5853).

Con il secondo motivo di ricorso si denuncia, insieme al difetto di motivazione, la falsa applicazione o la violazione dell’art. 5 c.p.c., e la violazione degli artt. 1362, 1346 e 1371 c.c.. La banca ricorrente sostiene che la questione da risolvere era quella dell’interpretazione della clausola contenuta nell’art. 20 del contratto, che attribuiva la competenza a giudicare della controversie tra le parti al foro del luogo nel quale si trovava la direzione generale della banca medesima. Secondo la ricorrente, l’applicazione delle norme sull’interpretazione dei contratti avrebbe porta-to alla conclusione che “le parti, con quella clausola, avevano fissato inderogabilmente che il foro derogabile avrebbe potuto esser solo quello di Macerata”.

Il motivo devolve alla corte una questione di osservanza del canone legale d’interpretazione dei contratti, per il quale nell’interpretazione della clausola contrattuale di deroga alla competenza territoriale deve indagarsi sulla comune intenzione delle parti, senza limitarsi al senso letterale delle parole. Tuttavia, il problema della corretta interpretazione dell’art. 20 del contratto (quello contenente la deroga alla competenza territoriale a favore del foro nel quale “trovasi la direzione generale della Cassa”) – e, precisamente, la necessità di intenderlo, in conformità della supposta comune intenzione delle parti, come rinvio non già formale (alla sede della direzione generale della cassa, da verificarsi al momento dell’instaurazione del processo) bensì recettizio (dello statuto della banca al momento della stipulazione) e quindi equivalente alla puntuale indicazione del foro di Macerata – è questione sollevata per la prima volta nel presente giudizio di legittimità. La ricorrente, mentre censura inutilmente il richiamo della corte d’appello all’art. 5 c.p.c. (che ha il solo scopo di identificare – del resto esattamente – il momento di riferimento per la determinazione della competenza territoriale) non è in grado di indicare il passo della sentenza impugnata nel quale la denunciata violazione degli artt. 1362 e 1371 c.c., dovrebbe riscontrarsi: la questione era estranea al dibattito processuale, e la stessa banca, costituendosi nel giudizio di appello, aveva difeso la competenza di Macerata assumendo la permanenza di essa dopo la fusione (e lo spostamento della direzione generale della banca) soltanto in virtù dell’art. 2 dell’atto di fusione, che prevedeva l’istituzione “di sedi principali e divisioni compartimentali”. Il motivo è, pertanto, inammissibile.

Con il terzo motivo, vertente sulla questione di competenza, si denuncia la violazione dell’art. 30 c.p.c. e l’omessa pronuncia sul un punto decisivo. In primo grado la banca aveva anche dedotto che gli opponenti avevano eletto domicilio presso la segreteria del Comune di Macerata, ciò che consentiva di citarli davanti al tribunale di quella città, quale luogo del domicilio eletto. A nulla rileverebbe che l’eccezione non era stata riproposta in appello, perché non si trattava, di eccezione in senso tecnico, ma di un’argomentazione che il giudice doveva conoscere d’ufficio.

Premesso che per i vizi di natura processuale, qual è quello relativo alla statuizione sulla competenza, non può farsi questione di omessa pronuncia art. 112 c.p.c.: l’omessa pronuncia equivalendo in questi casi ad implicito rigetto), bensì soltanto di violazione di norme di diritto, nell’accertamento della quale la corte è giudice anche del fatto processuale, il motivo – pur ammissibile, perché la regola che impone di ritenere abbandonate le eccezioni non riproposte nel giudizio di gravame dall’appellato non si applica laddove, come nel caso di specie, la questione debba essere esaminata d’ufficio dal giudice – è da respingere nel merito.

Deve, infatti, ritenersi nulla, e conseguentemente inidonea anche a giustificare l’applicazione di uno specifico criterio di competenza territoriale a norma dell’art. 30 c.p.c., la clausola contrattuale con la quale i clienti della banca avevano eletto domicilio presso il Comune di Macerata. Vero è che l’elezione di domicilio speciale può essere validamente fatta, secondo la regola stabilita nell’art. 141 c.p.c., anche in mancanza di un rapporto tra il domiciliatario e l’autore dell’elezione concernente l’onere di far pervenire a quest’ultimo l’atto notificato (Cass. 19 maggio 1972 n. 1555); e che, essendo l’elezione di domicilio un atto giuridico unilaterale idoneo a produrre i suoi effetti indipendentemente dal consenso o dall’accettazione del domiciliatario (Cass. 28 gennaio 2003 n. 1259; 3 giugno 1995 n. 6280), l’altro contraente può legittimamente fare affidamento sull’elezione di domicilio dichiarata nel contratto, anche in assenza di quel rapporto. Ma tale regola non soccorre quando l’elezione di domicilio, per la notificazione di futuri atti giudiziari sia fatta presso una pubblica amministrazione che, in mancanza di una speciale norma di legge, né può ricevere atti per conto di privati cittadini, né può addossarsi la cura del loro recapito all’interessato. In quest’ultimo caso, al raggiungimento dello scopo dell’elezione di domicilio non si frappone un ostacolo di fatto, destinato a rimanere confinato nella sfera dei rapporti tra l’autore dell’elezione e il domiciliatario eletto, bensì un’impossibilità di diritto, da ritenere conosciuta da entrambe le parti del contratto (nel caso dell’elezione di domicilio presso la casa comunale, si deve considerare che le competenze di questi enti sono determinate dalla legge e dall’autonomia statutaria; quest’ultima, tuttavia, nei limiti stabiliti dalla legge stessa); e la clausola in questione viene conseguentemente a configurarsi come una dispensa anticipata dalla regolare instaurazione del contraddittorio nelle future cause nascenti da quel contratto. Questo esito è incompatibile con i principi generali dell’ordinamento, e in particolare con le norme costituzionali sul diritto di difesa e sul giusto processo, le quali subordinano la disponibilità del processo per le parti (e con ciò l’esercizio concreto del diritto di difesa) alla preventiva instaurazione del contraddittorio. Viola pertanto il principio indisponibile del contraddittorio la pattuizione che l’atto introduttivo del giudizio potrà essere notificato presso una pubblica amministrazione, dalle cui competenze esula la cura degli interessi privati della parte che elegge domicilio.

In conclusione il ricorso deve esser respinto. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte la corte rigetta il ricorso e condanna la Banca delle Marche s.p.a. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 1.300,00, di cui Euro 1.200,00 per onorari, oltre alle spese processuali e agli accessori come per legge. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima della Corte Suprema di Cassazione, il 29 maggio 2007. Depositato in Cancelleria il 13 luglio 2007


Cass. civ. Sez. II, (ud. 23-02-2007) 31-05-2007, n. 12834

Contravvenzioni, circolazione stradale, avviso bonario, fonti, oblazione comunale

… con delibera 28/04, il Comune di Barletta aveva stabilito, che, in caso di omessa esposizione della ricevuta di pagamento, prima dell’applicazione della prescritta sanzione amministrativa, fosse consentito al trasgressore l’estinzione della violazione col pagamento di euro 6 entro 5 giorni dal rilascio del preavviso, nella specie apposto sul parabrezza, e ritenuto “di per sé sufficiente ad integrare la sua avvenuta conoscenza” della contestazione; …

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. PICCIALLI Luigi – Consigliere

Dott. ATRIPALDI Umberto – rel. Consigliere

Dott. CORRENTI Vincenzo – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.M., elettivamente domiciliata in ROMA VIA NIZZA N. 45, presso lo studio dell’avvocato BORROMEO CARLO, rappresentata e difesa dall’avvocato GRILLO FRANCESCO, (Avviso postale VIA ROMA N. 11 –

70051 BARLETTA -), giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BARLETTA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’Avvocato PANARITI BENITO, che lo rappresenta e difende giusta mandato in calce al ricorso notificato;

– resistente –

avverso la sentenza n. 524/05 del Giudice di pace di BARLETTA del 2/11/05, depositata il 12/11/05;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio il 23/02/07 dal Consigliere Dott. Umberto ATRIPALDI;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. CARLO DESTRO che ha concluso per il rinvio della trattazione del ricorso alla pubblica udienza.

Svolgimento del processo
D.M. ha impugnato, nei confronti del Comune di Barletta, con ricorso notificato il 17.1.06, la sentenza del Giudice di Pace, depositata il 12.11.05, che le aveva rigettato l’opposizione al verbale di contestazione della violazione dell’art. 157 C.d.S., comma 6 – 8 per “sosta del veicolo in zona di pagamento senza l’esposizione della ricevuta”.

Lamenta: 1) l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa “l’avvenuta conoscenza della contestazione da parte del proprietario dell’infrazione”, dato che, con Delib. n. 28 del 2004, il Comune di Barletta aveva stabilito, che, in caso di omessa esposizione della ricevuta di pagamento, prima dell’applicazione della prescritta sanzione amministrativa, fosse consentito al trasgressore l’estinzione della violazione col pagamento di Euro 6,00 entro 5 giorni dal rilascio del preavviso, nella specie apposto sul parabrezza, e ritenuto “di per sè sufficiente ad integrare la sua avvenuta conoscenza” della contestazione; 2) la violazione della Delib. comunale n. 28 del 2004, che prescrive “opportune modalità che permettano all’utente di sanare la propria situazione”, dato che l’apposizione di un avviso sul parabrezza non poteva considerarsi equipollente di una notificazione; nonchè la violazione dell’art. 3 Cost., attesa l’evidente discriminazione fra cittadino fortunato, cui viene fatta la contestazione immediata e sfortunato, non presente sul posto.

Il Comune non resiste.

Attivata la procedura ex art. 375 c.p.c., il P.G. ha chiesto la trattazione del ricorso in P.U..

Motivi della decisione
Il ricorso è manifestamente infondato per l’assorbente ragione che il potere sanzionatorio delle violazioni al C.d.S. e la sua regolazione anche nel momento applicativo, è disciplinato direttamente dalle norme del D.Lgs. n. 285 del 1992, aventi forza di legge;

e che, quindi, secondo il principio gerarchico delle fondi, non possono certo essere derogate da delibere comunali che, come nella verificatasi ipotesi”, stabiliscano una sorta di “oblazione”, in alcun modo prevista o autorizzata dal legislatore; esulando del tutto dalla previsione dell’art. 7 C.d.S., richiamato nella menzionata delibera, il profilo sanzionatorio delle violazioni; e dovendosi perciò escludere che sussista in forza dello stesso qualsiasi delega o autorizzazione in tal senso a favore dei Comuni.

Il ricorso va pertanto rigettato.

L’omessa costituzione dell’intimato, esonera dalla liquidazione delle spese.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 23 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 31 maggio 2007


Cass. civ. Sez. I, (ud. 15-02-2007) 25-05-2007, n. 12311

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE MUSIS Rosario – Presidente

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. GIULIANI Paolo – Consigliere

Dott. PETITTI Stefano – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.A.O., elettivamente domiciliato in Roma Piazza Cavour n. 17, presso lo studio dell’Avv. TERRA Massimo, che lo rappresenta e difende, unitamente all’Avv. Fulvio Castrusini, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CARROZZERIA ZANON ANTONIMO, in persona del legale rappresentante, domiciliata in Roma, Lungotevere Arnaldo da Brescia n. 9, presso lo studio dell’Avv. LEONE Arturo, che la rappresenta e difende, unitamente all’Avv. Gabriella Terziari, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza del Tribunale di Bassano del Grappa depositata il 19 giugno 2002;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 15 febbraio 2007 dal Consigliere relatore Dott. Stefano Petitti;

udito per il ricorrente l’Avv. Massimo Terra, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito per il resistente l’Avv. Andrea G. Ligi, con delega, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VELARDI Maurizio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 15 maggio 2000, il Giudice di Pace di Bassano del Grappa respingeva l’opposizione proposta da G.A. O., ai sensi dell’art. 650 cod. proc. civ., avverso il Decreto Ingiuntivo emesso nei suoi confronti su istanza della Carrozzeria Zanon. Il G. impugnava tale sentenza deducendo in primo luogo l’erroneità della decisione con cui il Giudice di Pace aveva ritenuto regolare la notifica del ricorso per decreto ingiuntivo e del pedissequo decreto, e con-seguentemente la tardività dell’opposizione. Sosteneva, infatti l’opponente, che non sussistevano i presupposti per procedere alla notifica ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, occorrendo invece applicare la procedura ex art. 140 c.p.c.. L’opponente contestava anche l’an e il quantum della pretesa creditizia azionata in via monitoria.

Il Tribunale di Bassano del Grappa rigettava l’appello.

Quanto alla eccepita irregolarità della notificazione, il Giudice d’appello rilevava che essa era stata eseguita ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, e che nella relata si leggeva: “anzi non potuto notificare in quanto ivi recatomi all’indirizzo in atti indicato rinvengo il di lui padre Sig. G.; lo stesso mi dichiara che il figlio da tempo si è trasferito ma ignora dove reperirlo ad un nuovo indirizzo o recapito stante il non buon rapporto esistente tra i due”. Osservava quindi che, per poter procedere alla notifica ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., occorre in primo luogo che il destinatario dell’atto si sia trasferito dal luogo nel quale risulta risiedere in base ai registri anagrafici (il che comporta che l’ufficiale giudiziario debba recarsi presso tale luogo, e che lo stesso sia individuato). Nella specie, rilevava il Tribunale, risultava accertato che la residenza conosciuta dell’opponente era in strada (OMISSIS) e che presso tale indirizzo effettivamente l’ufficiale giudiziario si era recato, rinvenendovi una persona che, qualificatasi come il padre del G., gli aveva riferito del trasferimento di quest’ultimo in luogo sconosciuto.

Ciò posto, il Tribunale riteneva infondate le doglianze dell’appellante in ordine all’operato dell’ufficiale giudiziario, per avere questi omesso di verificare presso l’ufficio anagrafe del Comune di Bassano del Grappa se vi fossero state annotazioni relative ad una sua nuova residenza, in quanto le risultanze ufficiali disponibili evidenziavano che il G. risiedeva proprio in strada (OMISSIS). Non era quindi in discussione il fatto che il destinatario della notificazione risiedesse ufficialmente presso tale indirizzo e che le risultanze anagrafiche inducessero l’ufficiale giudiziario a tentare di ivi eseguire la notificazione. Le indagini esperite dall’ufficiale giudiziario, peraltro, dovevano ritenersi rispondenti al canone della dovuta diligenza, giacchè egli aveva rinvenuto In loco una persona qualificatasi come padre del destinatario in assenza di elementi tali da poter anche far soltanto presumere che la sua presenza fosse abusiva (non essendo neanche state dedotte istanze istruttorie in tal senso) e che tale potesse essere percepita dall’ufficiale giudiziario; legittimamente, pertanto, quest’ultimo aveva fatto affidamento sulle dichiarazioni in questione, con la conseguenza che la notificazione ai sensi dell’art. 143 cod. proc. civ., comma 1, doveva essere ritenuta corretta.

Quanto alle istanze istruttorie, il Tribunale dichiarava la inammissibilità della querela di falso proposta dall’appellante, sia perchè proposta tardivamente solo unitamente alla comparsa conclusionale, sia perché la discrasia censurata non risultava assoggettabile a querela di falso, ma alle normali regole probatorie.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso G.A. O. sulla base di sette motivi, illustrati da memoria; resiste, con controricorso, la Carrozzeria Zanon Antonio.

Motivi della decisione
Deve preliminarmente dichiararsi la irricevibilità dei documenti allegati alla memoria ex art. 378 cod. proc. civ., trattandosi di documenti diversi da quelli dei quali, ai sensi dell’art. 372 cod. proc. civ., è consentita la produzione nel giudizio di legittimità.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione degli artt. 139, 140 e 143 cod. proc. civ.. Premesso di non essersi mai trasferito dalla propria residenza, in Via (OMISSIS) in (OMISSIS), ove era stata tentata la notifica, il ricorrente sostiene la insussistenza dei presupposti perchè l’ufficiale giudiziario potesse procedere ad una notificazione ex art. 143 cod. proc. civ., anzichè ex art. 140 c.p.c., peraltro senza assumere alcuna attendibile informazione, senza essere in possesso del certificato anagrafico del destinatario e senza avere ricevuto una richiesta in tal senso da parte del richiedente la notificazione. Infatti, non poteva ritenersi che la dichiarazione riferita al Sig. G. costituisse rifiuto della ricezione dell’atto nè impossibilità di reperire altrove il destinatario, che aveva comunque diritto a ricevere la comunicazione del deposito nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c., e non in quelle dell’art. 143 c.p.c.. Nel primo caso, l’ufficiale giudiziario avrebbe avuto l’onere di consegnare copia dell’ingiunzione al soggetto rinvenuto in loco dandone rituale notizia al destinatario mediante lettera raccomandata A.R.; nel secondo caso, invece, l’ufficiale giudiziario avrebbe dovuto accertare, anche tramite soggetti estranei, l’effettivo luogo di residenza del destinatario, usando la normale diligenza prevista dalla legge e il comune buon senso. Del resto, l’asserita non conoscenza, da parte del soggetto rinvenuto in loco, qualificato come padre del destinatario, non poteva costituire in alcun modo impossibilità assoluta di reperire il destinatario dell’atto.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 650 cod. proc. civ., in quanto sussistevano i presupposti per poter ritenere ammissibile l’opposizione tardiva, vertendosi in ipotesi di notifica nulla, inefficace e giuridicamente inesistente. Quand’anche poi si volesse ritenere regolare la notificazione, si verterebbe comunque nell’ipotesi di caso fortuito o forza maggiore, non essendo certamente imputabili ad esso ricorrente le mendaci dichiarazioni assertivamente raccolte o, più probabilmente, inventate di sana pianta dall’ufficiale giudiziario. Del resto, conclude il ricorrente, l’irregolarità della notifica di cui all’art. 650 cod. proc. civ., va intesa in senso ampio, come una violazione delle norme che regolano le notificazioni, anche se non produttiva della nullità della stessa.

Con il terzo motivo il G. deduce la nullità della sentenza ex artt. 50 quater, 158, 161 cod. proc. civ., per invalida costituzione del Giudice unico e omesso intervento del P.M., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4. Il Giudice monocratico non avrebbe dovuto decidere sull’ammissibilità o meno della querela di falso, trattandosi di causa devoluta alla cognizione del Tribunale in composizione collegiale ex artt. 50 bis cod. proc. civ. e art. 48 c.p.c., comma 2, ordinamento giudiziario. Anche la inammissibilità della querela, quindi avrebbe dovuto essere pronunciata dal collegio, anche in applicazione dell’art. 281 nonies cod. proc. civ.. Il G.U. aveva l’obbligo di rimettere la causa al collegio provvedendo ai sensi degli artt. 187, 188 e 189. Inoltre, osserva il ricorrente, non è stata fatta alcuna comunicazione al P.M. onde consentirgli di conoscere la causa e di svolgere le proprie autonome determinazioni.

Con il quarto motivo, il ricorrente deduce violazione dell’art. 221 cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5. La censura si riferisce alla statuizione della sentenza impugnata in ordine alla tardività della querela di falso, proposta dopo che il Giudice aveva disatteso le istanze istruttorie volte a provare l’irregolarità della notificazione e la falsità delle attestazioni riguardanti le attività assertivamente compiute dall’ufficiale giudiziario. Il Giudice contraddittoriamente avrebbe, da un lato, evidenziato la correttezza della soluzione di ritenere possibile provare per testi le falsità relative alle circostanze apprese dall’ufficiale giudiziario, e, dall’altro, sostenuto che la discrasia censurata non sarebbe assoggettatile a querela di falso, ma alle normali regole probatorie. Errata sarebbe poi la statuizione di tardività, posto che la querela di falso può essere proposta in qualsiasi stato e grado del giudizio, finchè la verità del documento non sia stata accertata con sentenza passata in giudicato.

Con il quinto motivo, il ricorrente denuncia la violazione delle norme in materia di ammissibilità dei mezzi di prova, omesso esame delle risultanze documentali e contraddittoria e/o erronea valutazione delle prove, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5. In sostanza il ricorrente si duole della violazione del suo diritto alla prova.

Con il sesto motivo, il G. lamenta omessa e/o carente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 4 e 5. La sentenza impugnata troverebbe fondamento sull’erronea supposizione di fatti e circostanze la cui verità è incontrastabilmente esclusa dalle risultanze probatorie, e cioè sul fatto che esso ricorrente sarebbe stato irreperibile presso la propria residenza, perchè trasferito in luogo ignoto, e che sarebbe stato debitore delle somme vantate dalla parte intimante. Su tali circostanze difetterebbe la motivazione.

Con il settimo motivo, il G. deduce “falsità della relata, ovvero inutilizzabilità, in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 4”. La sentenza è stata emessa sulla base di una notificazione giuridicamente inesistente, la cui nullità e falsità ideologica risulta dalle indagini svolte in sede penale.

Da ultimo, il G. propone, sottoscrivendo il ricorso per Cassazione, querela di falso in ordine alla relazione di notifica del decreto ingiuntivo emesso nei suoi confronti, in merito alle attività assertivamente compiute dall’ufficiale giudiziario presso l’abitazione di Via (OMISSIS) in (OMISSIS), e alle pretese dichiarazioni dallo stesso attribuite a tale sig. G., circa la irreperibilità e il non meglio precisato trasferimento di residenza da parte di esso ricorrente.

Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.

La questione centrale del presente giudizio, pur nella varietà delle prospettazioni svolte dal ricorrente nei numerosi motivi di ricorso, è quella della ritualità o meno della notificazione del decreto ingiuntivo, avverso il quale il ricorrente ha proposto opposizione tardiva.

La sentenza impugnata ha ritenuto detta notifica rituale, rilevando come l’Ufficiale giudiziario abbia, con la necessaria diligenza, proceduto ad accertare che, nel luogo ove il destinatario della notificazione risultava residente, lo stesso non era reperibile e ad escludere altresì che potesse essere conosciuto il luogo della nuova residenza. La ritualità di tale notificazione è stata desunta dal rilievo che l’ufficiale giudiziario rinvenne presso la residenza anagrafica del ricorrente una persona che, qualificandosi come padre di quest’ultimo, riferì che il ricorrente stesso si era da tempo trasferito e che egli ignorava ove reperirlo. Una simile circostanza è stata contrastata dal ricorrente, il quale non solo ha dedotto di essere sempre stato residente nel luogo ove era stata effettuata la notificazione, ma ha altresì escluso che la persona che ha reso all’ufficiale giudiziario la dichiarazione riportata nella relata di notifica fosse il proprio padre.

In relazione a tale situazione, occorre rilevare che correttamente il Tribunale di Bassano del Grappa ha escluso che fosse ammissibile la proposta querela di falso, e ciò, prima ancora che per la tardività della deduzione istruttoria, per la non esperibilità di detto rimedio con riferimento al contenuto delle dichiarazioni che il pubblico ufficiale riferisce essergli state fatte da terzi. Nella giurisprudenza di questa Corte è saldo il principio secondo cui l’efficacia probatoria che l’art. 2700 cod. civ., riconosce all’atto pubblico (che fa prova piena, fino a querela di falso, della provenienza del documento dal pubblico ufficiale che lo ha formato, nonchè delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che questi dichiari avvenuti in sua presenza), non si estende al contenuto sostanziale delle dichiarazioni rese dalle parti; e perciò detta fede privilegiata non si estende al contenuto sostanziale e, in tema di notifica di atti giudiziari, alla veridicità delle dichiarazioni rese dal consegnatario dell’atto circa le qualità o le condizioni personali del destinatario della notifica, quali appunto la situazione di convivenza, quando questa non è frutto di indagini o accertamenti compiuti dall’ufficiale giudiziario. In tale ipotesi è perciò ammessa la prova contraria da parte dell’interessato, senza necessità di ricorrere alla querela di falso al fine di dimostrare che la predetta situazione non ha corrispondenza con la realtà (Cass., S.U., n. 6635 del 1993). Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi con riferimento a dichiarazioni, quali quelle riportate nella relata di notifica, ricevute dall’ufficiale giudiziario e tali da indurlo, proprio a causa del loro contenuto, a concludere la propria attività notificatoria con una relata negativa.

Correttamente, dunque, il Tribunale di Bassano del Grappa ha escluso l’ammissibilità della proposta querela di falso sulla base del rilievo che le circostanze riferite all’ufficiale giudiziario erano suscettibili di prova contraria. E tuttavia, il Giudice d’appello non ha ammesso le prove che il ricorrente aveva dedotto al fine di dimostrare la non veridicità delle dichiarazioni fatte da un terzo all’ufficiale giudiziario, da questi riferite nella relata di notifica e ritenute idonee a giustificare la notificazione nelle forme dell’art. 143 cod. proc. civ.. La valutazione di irrilevanza delle dedotte istanze istruttorie, peraltro, è stata dal Giudice del merito rapportata alla prova della inadeguatezza delle ricerche effettuate dall’Ufficiale giudiziario, laddove oggetto della prova era la situazione sostanziale riferibile all’essere o no il ricorrente reperibile all’indirizzo ove l’ufficiale giudiziario ha eseguito la notificazione e, in particolare, all’essere o no il soggetto rinvenuto sul posto dall’ufficiale giudiziario il padre del ricorrente. In relazione a tali circostanze, dunque, le istanze istruttorie formulate dal ricorrente si appalesano decisive, sicchè la sentenza impugnata è sul punto (censurato, in particolare, con il quinto motivo di ricorso) viziata e se ne impone la cassazione.

L’accertamento che dovrà essere effettuato dal Giudice di rinvio sul punto consente di ritenere assorbite le questioni ulteriori proposte dal ricorrente in riferimento alla regolarità della notificazione del decreto ingiuntivo oggetto dell’opposizione tardiva (primo e secondo motivo), mentre la già rilevata inammissibilità della querela di falso comporta la reiezione dei motivi con i quali il ricorrente si duole sia della mancata ammissione di detto mezzo in sede di appello (quarto motivo), sia in questa sede di legittimità, dovendosi comunque rilevare che la proposta querela non sarebbe comunque (ammissibile sui limiti all’ammissibilità della querela di falso nel giudizio di cassazione, v., ex plurimis, Cass., n. 21657 del 2006, secondo cui la querela di falso è “proponibile nel giudizio di Cassazione soltanto nei limiti degli atti del relativo procedimento (ricorso, controricorso o documenti producibili à sensi dell’art. 372 c.p.c.), ma non può riguardare documenti in forza dei quali il Giudice di merito abbia pronunciato la decisione impugnata”).

Privo di pregio risulta altresì il terzo motivo, concernente la nullità della sentenza impugnata perchè sulla proposta querela di falso avrebbe dovuto pronunciarsi il Tribunale in composizione collegiale, stante la obbligatoria partecipazione del Pubblico Ministero al giudizio di falso, è sufficiente rilevare che le regole procedurali delle quali il ricorrente denuncia la violazione attengono al giudizio sul merito della proposta querela e non anche alla preliminare delibazione da parte del Giudice del procedimento principale nel caso in cui la querela di falso venga proposta in via incidentale.

In conclusione, il ricorso va accolto nei limiti ora indicati e la sentenza impugnata deve essere conseguentemente cassata, con rinvio al Tribunale di Bassano del Grappa, in persona di diverso magistrato, il quale procederà a nuovo esame delle istanze istruttorie formulate dal ricorrente, di cui ai punti 1, 2 e 3 dell’atto di citazione e della memoria depositata in data 11 settembre 2001. Al Giudice del rinvio è demandato altresì il regolamento delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione; cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, al Tribunale di Bassano del Grappa in persona di diverso magistrato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 15 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 25 maggio 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 14-02-2007) 20-04-2007, n. 9393

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RIGGIO Ugo – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Consigliere

Dott. NAPOLETANO Giuseppe – rel. Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE FINANZE, in persona del Ministro p.t. e AGENZIA DELLE ENTRATE,in persona del Direttore p.t., rapp.ti e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato presso la quale elett.te domiciliano in Roma alla Via dei Portoghesi, 12;

– ricorrente –

contro

PASTIFICIO DI MARINI GIULIO & C. S.n.c., in persona del suo legale rapp.te p.t.;

– intimata –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria della Toscana n. 64/25/00 pubblicata il 13/5/00;

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 14/2/07 dal Consigliere relatore Dott. Giuseppe Napoletano;

Udita l’Avvocatura Generale dello Stato;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CALIENDO Giacomo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La società indicata in epigrafe impugnava dinanzi alla CTP di Pistoia la cartella di pagamento ILOR per l’anno 1988 per complessive L. 64.060.230, sostenendo che la notifica dell’avviso di accertamento effettuata il 30/12/96 ad essa società doveva considerarsi nulla perchè effettuata non al suo domicilio fiscale, in (OMISSIS) ma a quello, in (OMISSIS), della s.r.l. Pastificio Marini, soggetto diverso.

La CTP accoglieva il ricorso e la sentenza veniva confermata dalla CTR della Toscana sul rilevò fondante, per quello che in questa sede interessa, che dalla società appellata venne fatta comunicazione, il 27/1/89, all’Ufficio del nuovo domicilio fiscale in Via (OMISSIS) con conseguente irrilevanza del domicilio fiscale risultante dall’ultima dichiarazione.

Il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate proponevano ricorso per cassazione, sostenuto da un unico motivo con il quale, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 58 e 60, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia, premesso che in base alle norme denunciate le società devono comunicare all’Ufficio la variazione dell’indirizzo della loro sede legale o amministrativa e la variazione ai fini delle notificazioni ha effetto dal trentesimo giorno successivo alla comunicazione, sempre che tale variazione non risulti dalla dichiarazione annuale, nel qual caso essa ha effetto immediato, assumevano che essendo pacifico che la società contribuente in data 27/1/89 comunicò la variazione della sede da Via (OMISSIS) e che nella dichiarazione presentata in data 31/5/89 venne dichiarata la sede in Via (OMISSIS) correttamente la notifica dell’accertamento venne effettuata presso quest’ultimo indirizzo anche in considerazione della circostanza che comunque la sede indicata in dichiarazione ben poteva costituire nuova comunicazione e l’eventuale errore addotto dalla società al riguardo, non essendo riconoscibile dall’Amministrazione, non era ad essa opponibile.

Parte intimata non svolgeva attività difensiva,

Motivi della decisione
Il ricorso è fondato.

Invero a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., “Le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni,dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica o, per le persone giuridiche e le società ed enti privi di personalità giuridica, dal trentesimo giorno successivo a quello della ricezione da parte dell’ufficio della comunicazione prescritta nell’art. 36, comma 2. Se la comunicazione è stata omessa, la notificazione è eseguita validamente nel comune di domicilio fiscale risultante dall’ultima dichiarazione annuale”.

Dal che consegue, per un verso che la variazione dell’indirizzo può risultare anche dalla dichiarazione annuale, e dall’altro che la comunicazione della variazione di cui al comma 2 del precedente art. 36, il quale impone alla società di dare comunicazione all’ufficio delle imposte della variazione dell’indirizzo della loro sede legale o amministrativa, esplica la sua efficacia sino a quando non interviene una nuova variazione.

Nel caso di specie, invece, la CTR ha dato esclusivo rilievo alla comunicazione, effettuata il 27/1/89, di variazione dell’indirizzo senza valutare se questo, per effetto della successiva dichiarazione annuale, fosse nuovamente variato sì da coincidere con l’indirizzo presso il quale venne eseguita la notifica dell’avviso di accertamento.

Sulla base delle esposte considerazioni pertanto il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata con rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra CTR della Toscana,che procederà ad una nuova valutazione dei fatti alla stregua del principio sopra enunciato.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, ad altra sezione della CTR della Toscana.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 14 febbraio 2007.

Depositato in Cancelleria il 20 aprile 2007


Cass. civ., Sez. III, Sent., (data ud. 17/11/2006) 29/03/2007, n. 7737

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente

Dott. DI NANNI Luigi Francesco – Consigliere

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere

Dott. TALEVI Alberto – rel. Consigliere

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

ISTITUTO AUTONOMO CASE POPOLARI DI TARANTO, in persona del Commissario Straordinario dott. V.C. elettivamente domiciliato in ROMA LUNGOTEVERE FLAMINIO N. 46 pal. IV sc. B, presso lo studio dell’avvocato Gian Marco Grez, difeso dall’avvocato Giuseppe Adeo Ostilio, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

IMPRESA EDILE “ing. P.N.” in concordato preventivo, in persona del suo Liquidatore avv. Carlo Schiavoni, elettivamente domiciliata a Roma viale Giulio Cesare n. 71 (studio dell’avv. Vito Nanna) presso l’avv. Vito Spinelli che la difende giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 59/03 della Corte d’Appello di Lecce Sezione distaccata di Taranto emessa il 17.03.03, depositata il 07.04.03; rg. 445/01;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/06 dal Consigliere Dott. Alberto Talevi;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI Carmelo che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Nell’impugnata decisione lo svolgimento del processo è esposto come segue.

Con atto di citazione del 5 gennaio 1995 l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto riassumeva dinanzi al Tribunale di Taranto il giudizio di opposizione all’esecuzione intrapresa per l’importo di Lire trecento milioni dall’impresa P.N. in concordato preventivo con il pignoramento del proprio credito nei confronti della Banca del Salento; a sostegno dell’opposizione, spiegata inizialmente dinanzi al pretore di Taranto, l’istituto aveva dedotto la prescrizione del diritto fatto valere dall’impresa menzionata, costituito a suo parere dai lodi arbitrali depositati a composizione delle controversie insorte sul pagamento di somme relative all’esecuzione dei contratti di appalto conclusi con l’impresa stessa; negava altresì, l’istante, il diritto della ditta P. di esercitare l’azione esecutiva perché esso era mutuatario della Cassa Depositi e Prestiti, e dunque le azioni esecutive non potevano essere iniziate e proseguite senza il preventivo nulla-osta del Ministro dei lavori Pubblici. Nella specie il pignoramento presso terzi aveva impedito all’istituto di procedere a pagamenti indifferibili e di pagare gli stipendi dei dipendenti, che a loro volta avevano avviato procedure esecutive in proprio danno.

Dichiaratosi incompetente per valore il pretore adito, con l’atto di citazione in riassunzione l’Iacp chiedeva al tribunale di Tarante dichiarare inammissibile c/o improcedibile l’azione esecutiva avviata dalla ditta P., e perciò nullo il pignoramento.

Si costituivano all’udienza di prima comparizione delle parti del 23 marzo 1995 l’impresa P.N. in concordato preventivo e la Banca del Salento con il deposito delle comparse di risposta; la prima per domandare il rigetto dell’opposizione per le ragioni spiegate al pretore, la seconda per rimettersi alle decisioni del tribunale, ricordando di avere leso già la dichiarazione negativa.

Compiuta l’istruttoria, il Tribunale di Taranto I sezione stralcio in composizione monocratica con sentenza del 15 maggio-15 settembre 2000 rigettava l’opposizione dell’Iacp e lo condannava a pagare le spese del giudizio.

Con atto d’appello notificato il 26 ottobre 2001 l’ente soccombente ha chiesto la riforma di tale pronuncia, l’accoglimento delle domande proposte al primo giudice; ha resistito all’appello l’impresa P.N. in concordato preventivo che, costituitasi con comparsa di risposta depositata all’udienza di prima comparizione delle parti in data 15 gennaio 2002, ha insistito nella conferma della sentenza gravata. Compiuta la fase istruttoria, la causa è stata riservata in decisione sulle conclusioni trascritte in epigrafe all’udienza collegiale del 7 marzo 2003.” Con sentenza 17.3-7.4.2003 la Corte di Appello di Lecce – Sezione distaccata di Taranto – decideva come segue: “…rigetta l’appello proposto dall’Istituto Autonomo case Popolari di Taranto con atto notificato il 26 ottobre 2001 in contraddittorio con l’Impresa edile Ing. P.N. in concordato preventivo avverso la sentenza del Tribunale di Taranto I sezione stralcio in composizione monocratica in data 15 maggio – 15 settembre 2000; condanna l’appellante, in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese sostenute in questo grado di giudizio dall’appellata, che liquida in Euro 2.683,00, di cui Euro 113,00 per spese, Euro 685,00 per diritti ed Euro l885,00 per onorario di avvocato, oltre accessori di legge… Contro questa decisione ha proposto ricorso per cassazione l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto.

Ha resistito con controricorso l’”IMPRESA EDILE “ing. P.N.” in concordato preventivo (omologato dal Tribunale di Bari con sentenza 7/20.7.1986 n. 2516), in persona del suo Liquidatore avv. CARLO SCHIAVONI”.

Entrambe le parti hanno depositato memoria.

Motivi della decisione
Va anzitutto rilevato che non sussistono le ragioni di inammissibilità del ricorso e dei relativi motivi dedotte dalla parte controricorrente.

Osserva in particolare il collegio che la sentenza di primo grado non aveva per oggetto solo una opposizione all’esecuzione, ma anche altre domande (v. in particolare le domande dell’I.A.C.P. definite “riconvenzionali” nella decisione della Corte di merito); con la conseguenza che era applicabile la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale e che l’appello giustamente è stato (implicitamente) considerato tempestivo da detta Corte d’Appello. Inoltre i motivi di ricorso (salvo per quanto verrà esposto in seguito) sono specifici e rituali (pur se privi di pregio).

I due motivi di ricorso vanno esaminati insieme in quanto connessi.

Con il primo motivo l’Istituto Autonomo Case Popolari di Taranto denuncia ex “Art. 360 c.p.c., n. 3 – Violazione e falsa applicazione dell’art. 474 c.p.c. e dei principi di natura sostanziale e procedurale in tema di sentenze dichiarative e della loro inidoneità ad essere azionate in executivis” esponendo doglianze che possono essere sintetizzate come segue. Nella sentenza n. 1000/92 passata in giudicato, il Tribunale di Taranto ha accolto la domanda dello IACP per quanto di ragione. Trascurando le altre statuizioni della sentenza che, in accoglimento delle domande proposte in via riconvenzionale dallo IACP, hanno condannato la Impresa Edile ing. P.N. al pagamento in suo favore delle somme ivi indicate, è indubbio che la sentenza, nella parte relativa all’accoglimento delle opposizioni ai precetti, sia pure per quanto di ragione, aveva ed ha tutt’ora natura dichiarativa con la conseguenza che essa, per quanto statuito ai punti sub 1 e 2, non ha valenza di titolo esecutivo dal momento che non condanna la parte IACP al pagamento di somme in favore della Impresa P., ma afferma solo che questa, in forza dei lodi pronunziati dai Collegi Arbitrali avrebbe dovuto intimare precetti soltanto in forza dei lodi relativi agli appalti denominati Canale A e Canale B e solo per gli importi dalla stessa sentenza indicati. La Corte di Appello di Lecce, avendo rilevato che sia il precetto e sia il pignoramento presso terzi erano stati posti in essere non in forza dei lodi arbitrali che rimanevano (se non prescritta l’actio judicati) gli unici titoli esecutivi regolanti rapporti tra le parti ivi definiti, avrebbe dovuto accogliere l’opposizione e dichiarare che l’esecuzione era nulla, al pari dei relativi atti, perché intrapresa senza titolo esecutivo. La Corte di merito invece ha ritenuto la sentenza n. 1000/92, pur nelle statuizioni dichiarative, titolo esecutivo, così affermando che essa, nonostante la sua natura dichiarativa sul punto, era stata correttamente posta a base della esecuzione intrapresa. Invece avrebbe dovuto accogliere il gravame negando che la Impresa ing. P.N. potesse azionare la sentenza n. 1000/92 come titolo esecutivo per un suo credito verso lo IACP di Taranto.

Con il secondo motivo la parte ricorrente denuncia “Art. 360 c.p.c., n. 3.

– Violazione e falsa applicazione della normativa in tema di prescrizione dell’actio judicati e di interruzione della prescrizione ed in ispecie del disposto di cui agli artt. 2946, 2943 e 2945 c.c.” esponendo doglianze che vanno riassunte come segue. E’ pacifico: – che la Impresa Ing. P.N., una volta intervenute le pronunzie dei due lodi arbitrali del 26/4/80, ne ha conseguito la relativa declaratoria di esecutorietà in data 29/4/1980 e che, intervenuta la pronunzia del lodo arbitrale del 26/9/1980, ne ha conseguito la esecutorietà il successivo 27/9/1980;

– che la Impresa Ing. P.N. in data 31/10/1983 ebbe a notificare allo IACP di Taranto i tre lodi arbitrali spediti in forma esecutiva e tre atti di precetto, ognuno dei quali in forza del lodo di riferimento;

– che avverso le dette intimazioni lo IACP propose il 10/11/1983 tre distinte opposizioni a precetto nelle quali negò di dovere gli interessi successivi alla pronunzia dei lodi e spiegò domanda riconvenzionale per l’accertamento di suoi crediti verso la intimante e, quindi, la condanna della Impresa Ing. P.N. a tali pagamenti in suo favore;

– che la Impresa Ing. P.N. lasciò perimere i precetti intimati, in quanto non diede poi corso ad esecuzione eseguendo pignoramento in forza degli stessi; – che nei dieci anni successivi alla intimazione dei precetti, avvenuta il 31/10/1983, la Impresa ing. P.N. non ne reiterò la notifica e né richiese in alcuna delle forme indicate nell’art. 2943 c.c. il pagamento del suo credito ancora insoddisfatto e portato dai tre lodi arbitrali. L’Impresa Ing. P.N. avrebbe dovuto interrompere il termine prescrizionale decennale della actio judicati entro il 31/10/1993 compiendo uno degli atti dei quali era onerato a tal fine e che l’art. 2943 c.c. tassativamente individua. Sostiene la Corte di Appello di Lecce che, poiché a seguito della opposizione a precetto si instaura un giudizio ordinario in cui l’intimante si costituisce e sostiene la fondatezza del proprio diritto e, dunque, la sua affermazione, il termine di prescrizione rimane interrotto sino alla definizione del giudizio con sentenza passata in giudicato; ma con tale affermazione la Corte di Appello di Lecce non ha dato corretta applicazione né al disposto di cui all’art. 2943 c.c. e art. 2945 c.c., comma 2 e né ancora al disposto dell’art. 2946 c.c. e per di più ha anche disatteso il costante insegnamento sul punto della Suprema Corte (Cass. 25/3/2002 n. 4203). Nel caso di specie il comportamento del creditore fu di semplice resistenza alla domanda della quale richiese il rigetto. Nella fattispecie, dunque, difettava e difetta da parte della Impresa Ing. P.N. il compimento di atto che, dando inizio al giudizio, abbia avuto effetti interruttivi permanenti della prescrizione propri della domanda giudiziale e dell’azione esecutiva e/o cautelare.

Il ricorso non può essere accolto.

Occorre premettere che la parte ricorrente sembra impostare il suo assunto difensivo essenzialmente sulla negazione del diritto della controparte di procedere all’esecuzione in quanto detto diritto era prescritto con riferimento agli originari titoli (i tre lodi suddetti) e non sussisteva con riferimento alla sentenza n. 1000/92 in quanto questa non costituiva titolo esecutivo.

Una volta assodato che questa è la tesi fondamentale contenuta nel ricorso per cassazione, va anzitutto osservato che basta la non accoglibilità delle doglianze concernenti tale prescrizione per togliere ogni valida base al ricorso medesimo, in quanto, stando anche alla tesi medesima il diritto della controparte di procedere all’esecuzione dovrebbe in tal caso ritenersi sussistente non essendo rimasto prescritto (se la parte ricorrente sostiene che il diritto di procedere all’esecuzione non può basarsi sui tre lodi a causa della prescrizione, e solo a causa di questa, implicitamente ammette che in assenza di prescrizione il diritto medesimo dovrebbe considerarsi sussistente; e ciò a prescindere da qualsivoglia considerazione circa la possibilità di considerare titolo esecutivo la sentenza n. 1000/92; è appena il caso di ricordare che ovviamente possono essere esaminate solo le doglianze esposte e nei limiti in cui sono state ritualmente enunciate).

Così delimitato l’ambito del presente giudizio, va anzitutto confermato il principio di diritto secondo cui “Il precetto, non costituendo atto diretto alla instaurazione di un giudizio né del processo esecutivo, interrompe la prescrizione senza effetti permanenti, ed il carattere solo istantaneo dell’efficacia interruttiva sussiste anche nel caso in cui, dopo la sua notificazione, l’intimato abbia proposto opposizione, atteso che l’opposizione ex art. 615 c.p.c. più che atto di impugnazione del precetto è atto con il quale il debitore, minacciato di esecuzione, chiede l’accertamento negativo del credito” (v. la recente sent. Cass. n. 15190 del 19/07/2005; oltre la sopra citata Cass. n. 4203 del 25/03/2002).

Va però rilevato che mentre la mera opposizione dell’intimato (e quindi l’attività processuale solo di detta parte) non può avere affetti ai fini della predetta interruzione, la questione si pone in termini nettamente diversi con riferimento all’eventuale attività processuale del creditore opposto in detto processo di opposizione.

Infatti se costui si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto di procedere all’esecuzione (ed in tale categoria va compresa certamente anche la mera richiesta di rigetto dell’opposizione) compie una attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dal secondo comma dell’art. 2943 c.c. “…E’ pure interrotta dalla domanda proposta nel corso di un giudizio…”.

Ad ulteriore suffragio di quanto ora esposto va in particolare rilevato che nelle fattispecie come quella in questione, in cui il diritto predetto deriva da un provvedimento giurisdizionale, il creditore convenuto nel giudizio di opposizione a precetto non ha altro modo per tutelare il diritto medesimo che chiedere il rigetto dell’opposizione; quindi non può negarsi a detta attività processuale il valore di atto espressivo della volontà di esercitare il diritto di credito con effetti non solo processuali ma anche concernenti l’interruzione della prescrizione.

Di conseguenza va enunciato il seguente principio di diritto: “La mera proposizione di opposizione ex art. 615 c.p.c. da parte dell’intimato dopo la notificazione del precetto non modifica il carattere solo istantaneo dell’efficacia interruttiva di detta notifica; ma se il creditore opposto si costituisce formulando una domanda comunque tendente all’affermazione del proprio diritto di procedere all’esecuzione (ed in tale categoria va compresa certamente anche la mera richiesta di rigetto dell’opposizione) compie una attività processuale rientrante nella fattispecie astratta prevista dal secondo comma dell’art. 2943 c.c.; e quindi, ai sensi dell’art. 2945 c.c., comma 2 la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio”.

Sulla base di quanto ora esposto appare incontestabile l’infondatezza in diritto della tesi della parte ricorrente circa l’interruzione della prescrizione.

Tale infondatezza comporta a sua volta l’infondatezza di tutte le doglianze comunque concernenti detta interruzione (negata dall’IACP) in relazione al sopra citato giudizio di opposizione riassunto innanzi al Tribunale di Taranto.

Ma a questo punto appare altresì incontestabile l’irrilevanza delle doglianze svolte nel primo motivo, in quanto l’impugnata sentenza è comunque destinata a rimanere ferma in base alla ratio decidendi concernente l’affermato (dalla Corte) effetto interruttivo a carattere permanente.

E’ opportuno aggiungere che qualora la parte ricorrente avesse inteso porre concretamente a base del ricorso per cassazione anche la tesi che (pure a prescindere dalle problematiche predette circa la prescrizione; e quindi pure ipotizzando la sussistenza del diritto della controparte di procedere all’esecuzione sulla base dei lodi) comunque l’Impresa edile “Ing. P.N.” irritualmente ha notificato il precetto in questione sulla base della sentenza n. 1000/92 (in quanto erano in ogni caso i lodi arbitrali – se non prescritta l’actio judicati – gli unici titoli esecutivi da porre a base dell’esecuzione) si sarebbe di fronte ad una tesi difensiva inammissibile per le seguenti ragioni.

Affermare che dei titoli esecutivi esistono (nell’ipotesi di mancata prescrizione) e (implicitamente) che quindi sussiste il diritto di procedere all’esecuzione; ma che a base del precetto (e – eventualmente – degli atti successivi) è stato posto un titolo errato (invece di quelli giusti) significa (non negare la sussistenza del diritto di procedere all’esecuzione ma) denunciare semplicemente una irritualità formale del precetto (e/o degli atti successivi). Significa cioè proporre doglianze inquadrabili nell’ambito della fattispecie astratta prevista dall’art. 617 c.p.c. (opposizione agli atti esecutivi). Ma l’IACP sembra negare di aver mai inteso proporre un siffatto tipo di opposizione. Le eventuali doglianze in questione sarebbero dunque inammissibili in quanto nuove (persino stando a quanto emerge dalle argomentazioni di detta parte opponente); e comunque sarebbero inammissibili in quanto non corredate da adeguato e specifico (ex art. 617 c.p.c.) supporto argomentativo.

Infine (pure a prescindere da quanto ora osservato) va rilevato che dovrebbe in ogni caso essere dichiarata d’ufficio l’inammissibilità dell’opposizione ex art. 617 c.p.c. per mancato rispetto (a quanto sembra emergere dagli atti disponibili) del termine previsto nella norma medesima.

Sulla base di quanto sopra esposto il ricorso va respinto.

Data la peculiarità e parziale novità delle problematiche giuridiche in questione, debbono ritenersi sussistenti giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; compensa le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso a Roma, il 17 novembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 29 marzo 2007


Cass. civ. Sez. V, (ud. 01-03-2007) 21-03-2007, n. 6750

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAOLINI Giovanni – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

Dott. GENOVESE Francesco Antonio – rel. Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

Signor T.M. domiciliato in Roma, presso la Cancelleria della Corte di cassazione, rappresentato e difeso, giusta delega in atti, dall’avv. Patrizia Artioli del foro di Modena;

– ricorrente –

contro

Comune Di San Possidonio, in persona del Sindaco p.t.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria Regionale dell’Emilia Romagna n. 2/IV/05 depositata il 03.02.2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 1/3/2007 dal Relatore Cons. Dott. GENOVESE Francesco Antonio;

lette le conclusioni scritte del P.M.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
OSSERVA

Rilevato che il Comune di San Possidonio ha notificato al signor T.M. un avviso di accertamento per omessa denuncia ICI, per l’anno d’imposta 1999;

che il signor T. ha proposto ricorso alla C.T.P. di Modena, che l’ha parzialmente accolto;

che il contribuente ha proposto appello e la C.T.R. dell’Emilia Romagna ha dichiarato inammissibile l’impugnazione, perché proposto oltre il termine breve d’impugnazione, a seguito di notificazione della sentenza di prime cure;

che, secondo la C.T.R. il termine per appellare sarebbe scaduto il 3 aprile 2004, considerato che la sentenza di primo grado era stata notificata al contribuente il 3 febbraio 2004, mentre l’impugnazione era stata notificata, dal signor T., solo in data 15 aprile 2004;

che il contribuente ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un solo motivo, contro cui non resiste il Comune;

che con l’unico motivo di ricorso (con il quale si lamenta la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 51, dell’art. 137 c.p.c., comma 2, e dell’art. 148 c.p.c.) il ricorrente afferma che la notifica della sentenza di primo grado sarebbe stata effettuata in maniera irrituale perché la relata, anziché essere apposta in calce all’atto, sarebbe stato annotato sul frontespizio e deduce, pertanto, che al ricorrente sarebbe stato – di conseguenza – al più, notificato il solo frontespizio e non anche la parte restante del documento;

che, richiesto del parere ai sensi dell’art. 375 c.p.c., il PM ha concluso per la manifesta fondatezza del ricorso.

Considerato che tale conclusione deve essere condivisa;

che, va premesso quanto stabilisce l’art. 148 c.p.c., e cioè che “L’ufficiale giudiziario certifica l’eseguita notificazione mediante relazione da lui datata e sottoscritta, apposta in calce all’originale e alla copia dell’atto” (primo comma);

che tale previsione è dettata a presidio dell’attività di notificazione degli atti, ossia della regolare consegna di copia integrale degli stessi, in osservanza del principio della loro consegna in conformità all’originale;

che, proprio la regolare osservanza delle prescrizioni formali, imposte dalla legge all’Ufficiale Giudiziario, in funzione del principio di recezione, è il fondamento degli effetti che dalla notificazione scaturiscono (decadenza dal diritto di impugnazione) che la regolare osservanza delle formalità compiute dall’Ufficiale Giudiziario sono consegnate in un atto pubblico, facente fede fino a querela di falso;

che la relazione, che la legge vuole sia apposta solo in calce alla copia dell’atto notificato, e non in qualsiasi altra sede “topografica” del documento, ha la funzione, garantistica, di richiamare l’attenzione dell’Ufficiale Giudiziario alla regolare esecuzione dell’operazione di consegna della copia conforme all’originale dell’atto;

che solo la regolare esecuzione di un tale adempimento conferisce fede privilegiata alla relazione redatta dal Pubblico Ufficiale;

che, infatti, secondo la giurisprudenza di questa Corte (Sentenza n. 15199 del 2004), l’eccezione di inammissibilità di un atto d’impugnazione, proposta sotto il profilo dell’incompletezza della copia notificatagli, per mancanza di alcuno dei fogli o delle pagine, deve respingersi qualora l’originale dell’atto, depositato dall’impugnante rechi “in calce” la relazione di notificazione redatta dall’ufficiale giudiziario, contenente l’attestazione dell’eseguita consegna della copia del ricorso, ed essa non sia stata impugnata con la querela di falso, dovendosi ritenere, in difetto di tale querela, che detta attestazione, per effetto di tale locuzione, sia estesa alla conformità della copia consegnata all’originale completo, ciò ricavandosi dal combinato disposto dell’art. 137 c.p.c., comma 2, e dell’art. 148 c.p.c.;

che tale principio, però, non può essere esteso al caso – come quello in esame – della relata apposta, anziché “in calce”, sul frontespizio dell’originale della sentenza;

che, in tal caso, infatti, il mancato rispetto delle formalità non offre garanzia che la consegna dell’atto sia avvenuta nella sua integralità e, di conseguenza, non comporta il prodursi dell’effetto giuridico ad esso conseguente, onde deve dirsi nulla la notificazione così eseguita, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., comma 2, perché “l’atto manca dei requisiti formali indispensabili per il raggiungimento dello scopo”;

che, pertanto, il ricorso del contribuente deve essere accolto e la sentenza impugnata, siccome illegittima, per essere stata resa in contrasto con la menzionata regula iuris, deve essere cassata con rinvio ad altra sezione della stessa C.T.R., la quale provvederà anche in ordine alla spese di questa fase.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese di questa fase, ad altra sezione C.T.R. dell’Emilia-Romagna.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della V sezione civile della Corte di cassazione, dai magistrati sopraindicati, il 1 Marzo 2007.

Depositato in Cancelleria il 21 marzo 2007