Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 02-12-2008) 13-01-2009, n. 551

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – est. Presidente

Dott. MIGLIUCCI Emilio – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 59, presso lo studio dell’avvocato BORDONI GIANFRANCO, che lo rappresenta e difende unitamente a se stesso, giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI BOLOGNA, in persona del Sindaco in carica (autorizzato con provvedimento P.G. n. 18578/06), elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ORTI DELLA FARNESINA 126, presso lo studio dell’avvocato STELLA RICHTER GIORGIO, che lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati CUPELLO CASTAGNA ANNAMARIA, CARESTIA GIULIA, giusta procura speciale a margine della seconda pagina del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5899/2005 del GIUDICE DI PACE di BOLOGNA del 14/10/05, depositata il 03/11/2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/12/2008 dal Consigliere e Relatore Dott. EMILIO MIGLIUCCI;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dr. Giampaolo LECCISI che ha concluso visto l’art. 375 c.p.c. per il rigetto del ricorso per essere manifestamente infondato, con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
B.G. impugna per cassazione la sentenza 3.11.05 n. 5899 con la quale il G.d.P. di Bologna ne ha rigettato l’opposizione proposta avverso il verbale n. (OMISSIS) redatto nei suoi confronti il (OMISSIS) dalla polizia municipale della città per avere posteggiato un ciclomotore sul marciapiedi di (OMISSIS).

Parte intimata resiste con controricorso.

Attivatasi procedura ex art. 375 c.p.c., il Procuratore Generale fa pervenire requisitoria scritta nella quale conclude chiedendo la reiezione del ricorso per sua manifesta infondatezza.

Il Collegio, condividendo precedenti pronunzie di legittimità in controversie analoghe (Cass. 26.1.05 n. 1565, 7.4.05 n. 7336, 17.2.06 n. 18186, 27.7.07 n. 16777 e recentemente su ricorso 16954/06 deciso il 10.11.08) ritiene di non poter recepire le opinioni e le conclusioni espresse dal P.G..

Nè ciò osta alla procedura – ed alla pronunzia – in camera di consiglio, la cui l’inesperibilità è ravvisabile solo ove la Suprema Corte ritenga che non ricorrano le ipotesi di cui all’art. 375 c.p.c., comma 1 ovvero che emergano condizioni incompatibili con una trattazione abbreviata, nel qual caso la causa deve essere rinviata alla pubblica udienza; ove, per contro, la Corte ritenga che la decisione del ricorso presenti aspetti d’evidenza compatibili con l’immediata decisione, ben può pronunziarsi per la manifesta fondatezza dell’impugnazione, anche nel caso in cui le conclusioni del P.G. fossero, all’opposto, per la manifesta infondatezza, e viceversa (e pluribus, Cass. 11.6.05 n. 12384, 3.11.05 n. 21291 SS.UU.)).

La L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, comma 132, ha stabilito che “i comuni possono, con provvedimento del sindaco, conferire funzioni di prevenzione e accertamento delle violazioni in materia di sosta a dipendenti comunali o delle società di gestione dei parcheggi, limitatamente alle aree oggetto di concessione”.

Al medesimo art. 17, comma 133, poi dispone che “le funzioni di cui al comma 132 sono conferite anche al personale ispettivo delle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone nelle forme previste dalla L. 8 giugno 1990, n. 142, artt. 22 e 25, e successive modificazioni. A tale personale sono inoltre conferite, con le stesse modalità di cui al primo periodo del comma 132, le funzioni di prevenzione e accertamento in materia di circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico, ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 6, comma 4, lett. c)”.

La L. 23 dicembre 1999, n. 488, art. 68, comma 1, ha successivamente chiarito che “la L. 15 maggio 1997, n. 127, art. 17, commi 132 e 133, si interpretano nel senso che il conferimento delle funzioni di prevenzione e accertamento delle violazioni, ivi previste, comprende, ai sensi del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 12, comma 1, lett. c), e successive modificazioni, i poteri di contestazione immediata nonché di redazione e sottoscrizione del verbale di accertamento con l’efficacia di cui agli artt. 2699 e 2700 c.c.” (comma 1). La norma ha, inoltre, stabilito che queste funzioni, “con gli effetti di cui all’art. 2700 c.c., sono svolte solo da personale nominativamente designato dal sindaco previo accertamento dell’assenza di precedenti o pendenze penali, nell’ambito delle categorie indicate dalla citata L. n. 127 del 1997, art. 17, commi 132 e 133” (comma 2), disponendo, altresì, che a detto personale “può essere conferita anche la competenza a disporre la rimozione dei veicoli, nei casi previsti, rispettivamente, dal D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 285, art. 158, lett. b) e c) e comma 2, lett. d)” (comma 3).

Il legislatore, in presenza ed in funzione di particolari esigenze del traffico cittadino, quali sono la gestione delle aree da riservare a parcheggio e l’esercizio del trasporto pubblico di persone, ha stabilito con le norme sopra richiamate che determinate funzioni, obiettivamente pubbliche, possano essere eccezionalmente svolte anche da soggetti privati i quali abbiano una particolare investitura da parte della pubblica amministrazione, in relazione al servizio svolto, in considerazione “della progressiva rilevanza dei problemi delle soste e parcheggi” (Corte cost., ord. n. 157 del 2001).

Inoltre, con la norma interpretativa sopra richiamata (art. 68, cit.) ha impresso ai verbali redatti dal succitato personale l’efficacia probatoria di cui agli artt. 2699 e 2700 c.c..

L’art. 17, commi 132 e 133, tenuto conto della rilevanza e del carattere eccezionalmente derogatorio della funzioni conferite a soggetti che, sebbene siano estranei all’apparato della pubblica amministrazione e non compresi nel novero di quelli ai quali esse sono ordinariamente attribuite (art. 12, C.d.S.), vengono con provvedimento del sindaco legittimati all’esercizio di compiti di prevenzione ed accertamento di violazioni del codice della strada sanzionate in via amministrativa, deve ritenersi norma di stretta interpretazione (Cass. 7.4.05 n. 7336 cit.).

Il legislatore, evidentemente conscio di tale natura delle dettate disposizioni, ha quindi avuto cura di puntualizzare che le funzioni, per i dipendenti delle imprese gestrici di pubblici posteggi, riguardano soltanto le “violazioni in materia di sosta” e “limitatamente alle aree oggetto di concessione”, poiché la loro attribuzione è apparsa strumentale rispetto allo scopo di garantire la funzionalità dei posteggi, che concorre a ridurre, se non ad evitare, il grave problema del congestionamento della circolazione nei centri abitati.

In tal senso, è significativo che al personale in esame “può essere conferita anche la competenza a disporre la rimozione dei veicoli”, ma esclusivamente nei casi previsti dall’art. 158, comma 2, lett. b), c), ed) (art. 68, comma 3, cit.), ovvero “dovunque venga impedito di accedere ad un altro veicolo regolarmente in sosta, oppure lo spostamento dei veicoli in sosta”, “in seconda fila”, “negli spazi riservati allo stazionamento e alla fermata” dei veicoli puntualmente indicati.

Analogamente, la L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 133, come interpretato dalla L. n. 488 del 1999, art. 68, costituisce norma di stretta interpretazione per quanto riguarda le funzioni di prevenzione e accertamento in materia di “sosta nelle aree oggetto di concessione”, ove ne siano state concesse alle aziende esercenti il trasporto pubblico di persone, ed “inoltre” di “circolazione e sosta sulle corsie riservate al trasporto pubblico” attribuite al personale ispettivo delle dette aziende.

Ne consegue che gli ausiliari del traffico, dell’una e dell’altra categoria, in tanto sono legittimati ad accertare e contestare violazioni a norme del codice della strada, in quanto dette violazioni concernano disposizioni in materia strettamente connessa all’attività svolta dall’impresa – di gestione dei posteggi pubblici o di trasporto pubblico delle persone – dalla quale dipendono ove l’ordinato e corretto esercizio di tale attività impediscano od in qualsiasi modo ostacolino o limitino.

Laddove, invece, le violazioni consistano in condotte diverse – quale, nella specie, il posteggio su di un marciapiedi non funzionale al posteggio od alla manovra in un’area in concessione e neppure alla circolazione in corsie riservate ai mezzi pubblici – l’accertamento può essere compiuto esclusivamente dagli agenti di cui all’art. 12 C.d.S. e non anche dagli ausiliari del traffico, di cui alla L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 132 e, per quanto più interessa, comma 133.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata va conseguentemente cassata.

Peraltro, non risultando necessari ulteriori accertamenti di merito, emergendo dagli atti che la violazione di divieti posti da codice della strada è stata accertata da un soggetto non legittimato a detto accertamento ai sensi della L. n. 127 del 1997, art. 17, comma 133, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento dell’opposizione e la condanna del Comune di Bologna al pagamento delle spese del giudizio di merito e di quello di legittimità.

P.Q.M.
accoglie il ricorso e, decidendo nel merito, annulla il verbale di contestazione opposto; condanna il Comune di Bologna al pagamento delle spese di lite, che liquida, per il primo grado, in Euro 700, di cui Euro 600 per onorari e, per il grado di legittimità, in Euro 500, di cui Euro 400 per onorari, oltre accessori.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 dicembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 21-10-2008) 09-01-2009, n. 216

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. ZANICHELLI Vittorio – rel. Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 9384/02 proposto da:

CONSORZIO ENERGIA Basilicata – CEB – con domicilio eletto in Roma, via Tacito n. 50, presso l’Avv. FAVA PAOLO che lo rappresenta e difende come da procura in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate, domiciliati in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che li rappresenta e difende per legge;

– controricorrenti –

nonchè sul ricorso n. 13548/02 proposto da:

Ministero dell’Economia e delle Finanze e Agenzia delle Entrate, come sopra rappresentati e difesi;

– ricorrenti incidentali –

contro

CONSORZIO ENERGIA BASILICATA – CEB;

– intimato –

per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Basilicata n. 30/4/01 depositata il 19 febbraio 2001;

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del giorno 21 ottobre 2008 dal Consigliere relatore Dott. Vittorio Zanichelli;

viste le richieste del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PRATIS Pierfelice, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Consorzio Energia Basilicata ricorre per cassazione nei confronti della sentenza in epigrafe della Commissione tributaria regionale che, confermando la decisione di primo grado, ha rigettato il ricorso del contribuente avverso una cartella di pagamento per IVA relativa all’anno 1992.

Resiste l’Amministrazione con controricorso e propone ricorso incidentale.

La causa è stata assegnata alla camera di consiglio, essendosi ravvisati i presupposti di cui all’art. 375 c.p.c..

La ricorrente ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
Il ricorso principale e quello incidentale debbono essere preliminarmente riuniti in quanto proposti nei confronti della stessa sentenza.

Premesso che deve essere esaminato in via prioritaria il ricorso incidentale in quanto, benchè qualificato come condizionato, pone una questione che, se ritenuta fondata, renderebbe carente di interesse il ricorso principale, si deve ritenere innanzitutto inammissibile il primo motivo di detto ricorso in quanto deduce la carenza di motivazione in relazione alla risoluzione di una questione di diritto (Cassazione civile, sez. lav., 8 agosto 2005, n. 16640).

Sarebbe invece manifestamente fondato il secondo motivo con il quale si censura l’impugnata decisione per avere la Commissione tributaria regionale ritenuto irregolare la notifica dell’avviso di accertamento in base al quale è stata poi emessa la cartella impugnata e quindi ammissibile l’impugnazione di quest’ultima anche per vizi non propri.

Emerge dagli atti ed è sostanzialmente pacifico tra le parti che l’atto de quo è stato notificato ai sensi dell’art. 145 c.p.c., presso la sede del Consorzio quale risultava all’epoca della notifica. In particolare si desume che non essendo stato possibile effettuare la notifica per l’assenza di persone presso la sede stessa il messo notificatore ha proceduto all’affissione dell’avviso di deposito all’albo del comune, come prescritto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60.

Sostiene la ricorrente principale che l’atto avrebbe dovuto essere notificato, ai sensi dell’art. 145 c.p.c., comma 3, ma la tesi non è fondata in quanto il domicilio fiscale del consorzio era in (OMISSIS) mentre il legale rappresentante risiedeva in Potenza ed è già stato affermato dalla Corte che “La notificazione degli avvisi di accertamento tributario a soggetti diversi dalle persone fisiche non si sottrae alla regola generale, enunciata dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 60, secondo cui la notificazione degli avvisi e degli altri atti tributari al contribuente dev’essere fatta nel comune dove quest’ultimo ha il domicilio fiscale. In riferimento alla notifica di atti alle società commerciali, il necessario coordinamento di tale disciplina con quella di cui all’art. 145 c.p.c., comporta, pertanto, che, in caso d’impossibilità di eseguire la notificazione presso la sede sociale, il criterio sussidiario della notificazione alla persona fisica che la rappresenta è applicabile soltanto se tale persona fisica, oltre ad essere identificata nell’atto, risiede nel comune in cui l’ente ha il suo domicilio fiscale, da individuarsi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 58”, (Cassazione civile, sez. trib., 20 febbraio 2006, n. 3618).

Dalla ritenuta regolarità della notificazione discende l’inammissibilità del ricorso avverso la cartella di pagamento in quanto non proposto per vizi propri di tale atto ma sull’erroneo presupposto dalla mancata rituale notifica dell’avviso di accertamento, divenuto invece definitivo per mancanza di impugnazione.

La fondatezza della tesi esposta nel secondo motivo del ricorso incidentale rende privo di interesse il ricorso principale in quanto basato sulla ritenuta erroneità della pronuncia di secondo grado laddove ha ritenuto inammissibile il ricorso introduttivo del Consorzio in quanto nel medesimo non veniva affrontato il merito della controversia, come sarebbe stato invece possibile e necessario, secondo il giudice a quo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19.

Poiché il dispositivo della sentenza impugnata è comunque conforme al diritto, posto che ha confermato la decisione di primo grado che, a sua volta, ha rigettato il ricorso della contribuente, deve unicamente essere corretta la motivazione nel senso sopra indicato.

La sostanziale soccombenza del ricorrente principale ne impone la condanna alle spese.

P.Q.M.
la Corte, riuniti i ricorsi e visto l’art. 384 c.p.c., rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale. Condanna il ricorrente principale alla rifusione in favore dell’Amministrazione delle spese del giudizio che liquida in complessivi Euro 4.100,00, di cui Euro 4.000,00, per onorari, oltre spese generali e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 21 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2009


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 07/11/2008) 17/12/2008, n. 29465

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Presidente

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – rel. Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro p.t.; AGENZIA delle ENTRATE; entrambi domiciliati in Roma in via dei Portoghesi n. 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui sono rappresentati e difesi;

– ricorrenti –

contro

S.L.;

– intimato –

AVVERSO la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Campania n. 89.11.04, sez. 11 depos. il 14.12.04;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 7.11.2008 dal Consigliere Dott. BURSESE Gaetano Antonio;

udito l’avv. Maria Luisa Spina dell’Avvocatura Generale dello Stato;

Sentito il P.M. in persona del sost. P.G. Dott. De Nunzio Wladimiro, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro p.t.; Agenzia delle Entrate ricorrevano per Cassazione avverso la rubricata sentenza della C.T.R. della Campania n. 89.11.04, che aveva accolto l’appello proposto dal contribuente S.L., con riferimento all’opposizione da lui proposta avverso l’avviso di accertamento di maggior reddito di partecipazione alla s.d.f.

(OMISSIS).

Il ricorso si fonda su di un solo motivo; non si è costituito l’intimato.

Motivi della decisione
L’amministrazione con il ricorso per Cassazione in esame, eccepisce la violazione e/o falsa applicazione del D.Lsg. n. 546 del 1992, artt. 10 e 53 e dell’art. 350 c.p.c..

Sottolinea che….” all’epoca in cui era stato proposto l’appello erano già costituiti gli uffici delle entrate, ed in base al principio generale del domicilio fiscale del contribuente, l’ufficio territoriale competente era l’Ufficio (OMISSIS) e non già quello di (OMISSIS)”. “La mancata vocatio in ius dell’Ufficio competente aveva impedito la costituzione in appello di un valido rapporto processuale”. Tale insanabile vizio del ricorso in appello doveva essere rilevato d’ufficio dalla C.T.R. che doveva astenersi dall’esaminare il merito del ricorso e dichiararne, invece, l’inammissibilità”, ovvero “… avrebbe dovuto disporre la rinnovazione della notifica all’ufficio competente ai sensi dell’art. 350 c.p.c. onde consentire la rituale costituzione del contraddittorio in appello e l’esplicazione delle difese da parte dell’Ufficio legittimato a resistere”.

Occorre però precisare che l’amministrazione ricorrente, nello stesso ricorso in esame, aveva premesso, in punto “fatto” che il S. aveva proposto appello “….con ricorso notificato all’Ufficio delle Imposte Dirette ormai soppresso in luogo diverso dalla sede dell’Agenzia delle entrate – Ufficio (OMISSIS) – divenuto competente in relazione al rapporto controverso.” Ora a parte il contrasto tra le menzionate circostanze fattuali esposte dalla stessa ricorrente, non v’è dubbio che le doglianze sono comunque prive di fondamento. Invero ove la notifica dell’appello fosse stata effettuata presso il soppresso Ufficio delle II.DD., quando era già subentrata ad esso l’Agenzia delle Entrate, la notifica stessa doveva ritenersi regolare con riferimento a quanto previsto dall’art. 111 c.p.c. (Cass. Sez. U, n. 3116 del 14/02/2006). Quindi l’appello che il contribuente aveva proposto contro l’Ufficio delle II.DD. (parte nel giudizio di 1 grado) non era inammissibile in quanto quell’ufficio aveva di fatto partecipato al giudizio ed era legittimato processualmente in forza della norma sopra ricordata.

E’ parimenti regolare la notifica dell’atto di opposizione ove fosse stata eseguita – come indicato nel riportato motivo d’impugnazione – presso un ufficio periferico dell’Agenzia “non territorialmente competente” diverso da quello che aveva emesso l’atto impositivo, perchè tale evento non può comportare alcuna ipotesi di nullità o di decadenza dall’impugnazione, atteso il carattere unitario della stessa Agenzia delle Entrate e considerato inoltre il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi d’inammissibilità ed il carattere impugnatorio del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (Cass. Sez. U, n. 3116 del 14/02/2006).

Conclusivamente il ricorso dell’amministrazione concernente la questione meramente processuale è infondato e dev’essere pertanto rigettato; nulla per le spese.

P.Q.M.
rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 7 novembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 17 dicembre 2008


Cass. pen. Sez. feriale, (ud. 26-08-2008) 05-12-2008, n. 45335

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE FERIALE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE ROBERTO Giovanni – Presidente

Dott. ESPOSITO Antonio – Consigliere

Dott. KOVERECH Oscar – Consigliere

Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L., n. in data (OMISSIS);

avverso Sentenza emessa in data 14.12.2007 dalla Corte d’Appello di Brescia;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso.

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dott. Oscar KOVERECH. Udito il Procuratore Generale Dr. Giuseppe Febbraro che ha concluso per il rigetto del ricorso e la condanna alle spese.

Udito il difensore del ricorrente, avv. Araldi Erminio, che ha concluso per l’annullamento della impugnata sentenza.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. – Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Brescia, in riforma della sentenza emessa in primo grado dal Tribunale di Mantova, con la quale B.L. era stato assolto dal reato di lesioni colpose aggravate dalla violazione della normativa antinfortunistica, dichiarava la responsabilità dello stesso e, riconosciute le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, lo condannava alla pena di mesi uno e giorni dieci di reclusione, con la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna. Condannava altresì l’imputato al pagamento delle spese processuali di entrambi i gradi di giudizio e al risarcimento del danno a favore della parte civile da liquidarsi in separata sede oltre alla rifusione delle spese di costituzione e rappresentanza in giudizio della parte civile per il primo grado.

1.1. – Per una migliore comprensione dell’oggetto del presente giudizio di legittimità, si impone una sintetica ricostruzione della vicenda processuale.

L’imputato era stato chiamato a rispondere, nella sua qualità di socio accomandatario e legale rappresentante della s.a.s. Viastrade, del reato di cui all’art. 590 c.p., commi 2 e 3 in danno del lavoratore dipendente L.M.; quanto sopra per colpa consistita nella inosservanza della normativa antinfortunistica – e, in particolare, del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, – connessa alla utilizzazione, nel cantiere di lavori stradali della ditta in frazione (OMISSIS), di una macchina stabilizzatrice Wirtgen WR 2500 per lavori stradali che presentava il rischio di cesoiamento tra le parti laterali dello scudo di protezione del tamburo, tanto da cagionare lesioni personali gravissime al citato lavoratore il quale, avendo inserito il braccio destro nella zona pericolosa della macchina per sistemare un listello di legno proprio nel momento in cui un collega si accingeva a disporre l’abbassamento del suddetto scudo che, calando repentinamente, troncava di netto l’arto del L. il quale riportava lesioni (consistite nel distacco traumatico del braccio destro poi riattaccatogli con un intervento chirurgico) dalle quali derivavano pericolo di vita ed una malattia nel corpo, oltre ad una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni superiore ai quaranta giorni e all’indebolimento permanente della funzionalità del braccio.

1.1.1. – L’incidente era avvenuto il giorno 12.04.2001 nel sopra citato cantiere della s.a.s. Viastrade, dove alcuni operai stavano caricando la macchina operatrice livellatrice Wirtgen WR 2500 sull’apposito rimorchio perché doveva essere trasportata altrove.

Il cuore di questa macchina è costituito da un tamburo di fresatura munito di un elevato numero di utensili da taglio (denti) che, mentre ruota, fresa il materiale della pavimentazione stradale ed ha come protezione un tegolo per evitare che i sassi vadano a finire ai lati o nelle altre parti dell’ingranaggio. Alla cabina di guida si trovava M.N., mentre sul lato destro e sinistro del rimorchio, si trovavano, rispettivamente, il caposquadra G.A. e L.M..

1.1.2. – Il M. dichiarava in giudizio di aver condotto la macchina con il rullo e il tegolo alzati sul rimorchio percorrendo due rampe di carico secondo le indicazioni del G.. Una volta compiuto correttamente il posizionamento della macchina facendola appoggiare su due assi preventivamente collocate, aveva abbassato il tegolo. A operazione ultimata, aveva però sentito gridare che c’era L. con il braccio dentro e aveva quindi rialzato il tegolo.

Il L., al contrario, aveva riferito che la macchina era stata caricata con il tegolo abbassato e, poiché una delle due assi sulle quali doveva appoggiarsi si era spostata mettendosi di traverso, aveva detto al conducente di alzare il tegolo e lui aveva messo dentro un braccio per raddrizzare l’asse ma, proprio in quel momento, il tegolo era stato abbassato e gli aveva troncato di netto il braccio destro.

1.1.3. – In primo grado, il B. veniva assolto dal Tribunale di Mantova con sentenza in data 27.10.2006 sulla base, essenzialmente, delle seguenti considerazioni:

a) la macchina operatrice utilizzata in leasing dal B. era munita della dichiarazione CE di conformità ai requisiti essenziali di sicurezza;

b) nessun altro presidio di sicurezza si rendeva necessario a salvaguardia di ulteriori rischi prevedibili;

c) era fuori da ogni previsione che un lavoratore potesse introdurre un braccio sotto il tegolo alzato della macchina, anche perchè, per poterlo fare, il lavoratore avrebbe dovuto sdraiarsi a terra.

2. – All’esito del giudizio di appello, proposto a seguito di impugnazione del P.M (che aveva fatto propria la richiesta ex art. 572 c.p.p., di impugnazione della parte offesa), la Corte territoriale argomentava la condanna sulla base dei dati probatori emersi nell’istruttoria dibattimentale, dai quali emergevano, oltre al profilo di colpa specifica indicato nel capo di imputazione (D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68) e valutato dal Tribunale di Mantova, anche altre violazioni della normativa infortunistica che, pur essendo richiamate nello stesso capo, non erano state valutate dal giudice di primo grado. I giudici dell’appello, in particolare, evidenziavano che l’infortunio si era verificato a causa della mancata osservanza delle cautele da adottare nell’utilizzo del mezzo, considerato che, come sottolineato dal manuale fornito al B. dalla ditta costruttrice, intorno alla macchina c’erano angoli che non si potevano bene osservare e che era quindi necessario impiegare del personale di sicurezza per tenerli sotto controllo; che, inoltre, il conducente avrebbe dovuto essere adeguatamente istruito sulla necessità di accertarsi che non ci fossero persone nelle zone di pericolo e di abbassare il rullo il più lentamente possibile, controllando costantemente la eventuale presenza di persone nel raggio di lavoro della macchina mediante personale di sicurezza che doveva rimanere nel campo di visuale del conducente medesimo.

L’addebito di colpa a carico del B., oltre alla generica contestazione ex art. 590 c.p., commi 2 e 3, veniva dunque individuato, sia sotto il profilo della violazione del D.P.R. n. 547 del 1955, art. 68, – secondo il cui disposto “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono per quanto possibile essere protetti e segregati oppure provvisti di dispositivi di sicurezza” – sia sotto il profilo della carenza di informativa dei rischi specifici cui sono esposti i dipendenti, ritenuta connotata da gravità, “ove si consideri che il carico della fresa sul rimorchio non era operazione straordinaria, bensì consueta per non dire quotidiana, poichè la macchina non poteva spostarsi da sola da un luogo di lavoro ad un altro, ma doveva essere obbligatoriamente trasportata su un rimorchio”. 3. – Propone ricorso per Cassazione il B. deducendo quattro motivi basati sulla prospettazione della violazione di legge e del difetto di motivazione.

3.1. – In particolare, lamenta, con il primo motivo, la violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) per inosservanza dell’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza ai sensi dell’art. 521 c.p.p. e nullità ex art. 522 c.p.p..

Sostiene il ricorrente che la condotta omissiva contestata al B. nel giudizio di secondo grado differisce da quella cui si riferisce il capo di imputazione, vale a dire, la “inosservanza della normativa antinfortunistica e, in particolare del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68”; la Corte d’Appello, in sostanza, avrebbe introdotto una ulteriore ipotesi di colpa consistita nella inosservanza, da parte dello stesso B., del disposto di cui all’art. 4, D.P.R. cit., addebitandogli la diversa condotta omissiva consistita “Dell’omettere di istruire adeguatamente i lavoratori sui particolari rischi cui erano esposti durante l’uso della macchina ed altresì nell’ esigere l’osservanza delle relative norme di sicurezza”. Ciò in violazione del diritto di difesa e della effettività del contraddittorio.

3.1.2. – Con il secondo motivo denuncia violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) per avere i giudici di secondo grado erroneamente individuato la responsabilità dell’imputato a titolo di colpa specifica e violazione dell’art. 43 c.p. e D.P.R. n. 459 del 1996, artt. 1, 2 e 5, all. 1, 2, 3, 5.

Il ricorrente invoca un esonero totale di responsabilità del datore di lavoro derivante dalla normativa cautelare speciale di cui al D.P.R. n. 459 del 2006 che individua nel costruttore – e non nell’utilizzatore finale – il soggetto competente alla gestione del rischio.

3.1.3. – Con il terzo motivo lamenta (ex art. 606 c.p.p., lett. e)) la violazione dei criteri di valutazione della prova stabiliti dall’art. 192 c.p.p. per non avere la Corte d’appello “valutato diverse prove documentali, omettendo di dame conto in motivazione”.

Il ricorrente, nell’elencare una serie di prove documentali di cui la Corte di Appello avrebbe omesso la valutazione (quali, ad esempio, i bollettini di aggiornamento tecnico inviati dalla Wirtgen macchine s.r.l. solo nel (OMISSIS), contenenti ulteriori “avvertenze di pericolo”, non evidenziate in precedenza; la lettera con la quale, in data (OMISSIS), la Wirtgen Gmbh comunicava alla Wirtgen macchine s.r.l. la certificazione di conformità CE delle macchine prodotte e commercializzate dalla detta società; la lettera risalente al 7 luglio 2001 con la quale la Wirtgen segnalava alla Viastrade la situazione di pericolo di cesoiamento e di assestamento del mezzo sul rimorchio ai fini di trasporto) ribadisce la imputabilità del fatto a soggetto diverso (costruttore) sulla cui condotta lo stesso ricorrente era legittimato a fare “affidamento”. 3.1.4. – Con il quarto motivo si duole della mancanza della motivazione “quanto al contrasto tra la condanna prevista dall’estratto e la pena cui l’imputato è stato condannato in sentenza” nonché della “assoluta incertezza in ordine alla misura della pena inflitta”. 4. – Tutti i sopra esposti motivi si appalesano privi di fondamento e non meritano accoglimento. In realtà, il ricorrente, pur prospettando asserite violazioni di legge e pretese illogicità e carenze della motivazione, vorrebbe che la Corte esercitasse un inammissibile sindacato sull’apprezzamento fattuale della vicenda e, in particolare, sulla condotta dell’imputato e dell’infortunato, che esula dai poteri del giudice di legittimità, quando si è in presenza, come nella specie, di una motivazione rigorosa e convincente, in linea con i principi vigenti nella subiecta materia.

4.1. – Privo di fondamento risulta, in particolare, l’addebito formulato con il primo motivo, incentrato sulla violazione dell’art. 521 c.p.p..

Ciò in quanto, a parte il rilievo che la colpa specifica ascritta all’imputato (violazione del D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, a norma del quale “gli organi lavoratori delle macchine e le relative zone di operazione, quando possono costituire un pericolo per i lavoratori, devono per quanto possibile essere protetti e segregati oppure provvisti di dispositivi di sicurezza”) costituisce il risultato di un processo di codificazione di regole di comune prudenza, con la conseguenza che la contestazione o, per cosi dire, “aperta”, va comunque rilevato che la Corte d’appello fa esplicito richiamo anche alla violazione originariamente addebitata, ritenuta sussistente in quanto la macchina in questione si è infatti rivelata non conforme ai cosiddetti requisiti essenziali di sicurezza, come affermato dall’Ispettorato tecnico del ministero delle Attività Produttive nella nota 26.9.2002 e sostanzialmente riconosciuto dalla stessa ditta produttrice nel (OMISSIS) (come da missiva in atti che propone una integrazione delle norme di sicurezza). Il difetto era stato peraltro già rilevato dall’u.p.g. tanto che la macchina, nel (OMISSIS), venne restituita all’imputato previa installazione di un riparo nella zona di pericolo (v. pagg. 6/7 della sentenza impugnata).

Al riguardo, va altresì rilevato che, nei procedimenti per reati colposi, l’affermazione di responsabilità per un’ipotesi di colpa non menzionata nel capo di imputazione rientra pur sempre nella generica contestazione di colpa e, pertanto, lasciando inalterato il fatto storico, non viola le regole della immutabilità dell’accusa, in quanto la contestazione generica di colpa, benché ulteriormente specificata, pone il prevenuto nelle condizioni di difendersi da qualunque addebito, con la conseguente possibilità di ravvisare in sentenza elementi di colpa non indicati in contestazione.

Per aversi immutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad una incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio del diritto alla difesa.

Quando, come nella specie, nel capo di imputazione sono stati contestati elementi generici e specifici di colpa in materia di infortuni sul lavoro, costituisce giurisprudenza costante di questa Corte, quella della non sussistenza della violazione del richiamato principio ex art. 521 c.p.p., nel caso in cui il giudice del merito, accanto ad elementi specifici di colpa, ravvisi nell’ambito della colpa generica propria del datore di lavoro, l’ulteriore aspetto della omessa vigilanza intesa ad esigere che i lavoratori osservino le norme di sicurezza ed usino i mezzi di protezione messi loro a disposizione (D.P.R. n. 547 del 1955, ex art. 4).

La Corte di merito si è limitata ad evidenziare un ulteriore aspetto di colpa specifica del datore di lavoro proprio in riferimento alle peculiarità del caso concreto senza, per questo, violare le regole della immutabilità dell’accusa con conseguente compromissione del diritto alla difesa (cfr. Cass. sez. 4^, 04.03.2004, n. 27851).

Va altresì rilevato che, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale, erroneamente interpretato dal ricorrente, non può parlarsi di violazione del principio di correlazione quando il fatto contestato e quello ritenuto in sentenza si trovino in rapporto di continenza (nel senso che il maggiore comprende quello minore), mentre per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad una incertezza sull’oggetto della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa e, quindi, “l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l’imputato, attraverso “l’iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione” (Cass. SS. UU. 22.10.1996, n. 16).

In sostanza l’obbligo di correlazione tra accusa e sentenza non può ritenersi violato da qualsiasi modificazione rispetto all’accusa originaria, ma soltanto nel caso in cui la modificazione dell’imputazione pregiudichi la possibilità di difesa dell’imputato;

la nozione strutturale di “fatto” contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull’esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata e decisione giurisdizionale risponde all’esigenza di evitare che l’imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (cfr. Sez. 4^, 15.01.2007, n. 10103, Sez. 4^, 25.10. 2005, n. 41663).

Alla luce delle suddette considerazioni, si ritiene che, nel caso di specie, non sia avvenuta una modificazione del fatto, né pertanto sia intervenuta violazione del principio di correlazione.

4.2. – Quanto al secondo motivo, incensurabile è l’apprezzamento del giudicante che ha ritenuto che, nella fattispecie, si sia verificata la concorrente responsabilità del datore di lavoro e della ditta costruttrice (oltre che dei colleghi di lavoro dell’infortunato), non attribuendo, per contro, valore esimente della responsabilità dell’imputato alla tesi difensiva dell’ “affidamento” che, secondo il ricorrente, ogni soggetto acquirente di apparecchi tecnologicamente complessi può fare “sulla corretta e prudente condotta di chi meglio conosce la macchina perché più attento ai dettagli tecnici di cui non è ragionevole attendersi la universale notorietà”.

Al riguardo va preliminarmente rilevato che, in tema di prevenzione infortuni, la disposizione di cui al D.P.R. 27 aprile 1955, n. 547, art. 68, che fissa le misure protettive per le macchine con riguardo alle zone di operazione in cui si compiono le normali attività durante le quali gli operai possono venire accidentalmente a contatto con gli organi lavoratori delle macchine, non è stata superata dalla previsione di cui al D.P.R. 24 luglio 1996, n. 459 (regolamento per l’attuazione delle direttive comunitarie concernenti il riavvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relativamente alle macchine operataci), atteso che il citato art. 68 detta un principio di carattere generale che trova applicazione in tutti i casi nei quali vengono usate macchine pericolose (Cass., Sez. 3^, n. 18-12-2002, n. 5167, Sassi, rv 223377).

Invero, la disciplina normativa di cui al D.P.R. n. 547 del 1955, citato art. 68 – nel prescrivere che in ogni caso ed in qualsiasi fase dell’uso di una macchina, il pericolo derivante dagli organi lavoratori della stessa deve essere rimosso mediante idonei sistemi di protezione, oppure, quando ciò non sia tecnicamente possibile, mediante l’adozione di dispositivi di sicurezza – non lascia comunque alcun margine di discrezionalità in ordine alla necessità di evitare il funzionamento della macchina stessa quando lo stesso costituisca pericolo per il lavoratore addetto (ex multis, Cass. Sez. 4^, n. 4066 del 23.02.1996, rv. 204978; Sez. 4^, 30.11.1992, n. 1208).

Valore assorbente, ai fini della configurabilità della responsabilità del datore di lavoro, riveste la considerazione che, tra i compiti di prevenzione che ad esso fanno capo, vi è anche quello di dotare il lavoratore di strumenti e macchinari dei tutto sicuri. In altri termini, il datore di lavoro deve ispirare la sua condotta alle acquisizioni della migliore scienza ed esperienza per fare in modo che il lavoratore sia posto nelle condizioni di operare con assoluta sicurezza. Pertanto, non sarebbe sufficiente, per mandare esente da responsabilità il datore di lavoro, che non abbia assolto appieno il suddetto obbligo cautelare, neppure che una macchina sia munita degli accorgimenti previsti dalla legge in un certo momento storico, se il processo tecnologico sia cresciuto in modo tale da suggerire ulteriori e più sofisticati presidi per rendere la stessa sempre più sicura (Cass. Sez. 4^, 11.12.2007, n. 6280; Sez. 4^, 10.11.2005, n. 2382, Minesso; Sez. 4^, 26.04.2000, Maniero ed altri).

Trattasi di affermazioni, pienamente condivisibili, che poggiano sul disposto dell’art. 2087 c.c. secondo cui l’imprenditore, al di là di ogni formalismo, è comunque tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa quelle misure che, sostanzialmente ed in concreto, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessario a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

Secondo la sopra richiamata giurisprudenza di legittimità, si è in presenza, infatti, di una disposizione, utilmente qui richiamabile, che costituisce “norma di chiusura” rispetto alle disposizioni della legislazione antinfortunistica, comportando a carico del datore di lavoro precisi obblighi di garanzia e di protezione dell’incolumità dei propri lavoratori e della stessa incolumità pubblica: obblighi che rendono esigibile, da parte del datore di lavoro, il dovere di impedire, mediante adeguato controllo e la predisposizione di ogni strumento a ciò necessario, che il bene o l’attività, sorgente di pericoli e rientrante nella sfera della sua signoria, possa provocare danni a chiunque ne venga a contatto, anche occasionalmente (Cass., Sez. 4^, 13.06.2000, Forti; Sez. 4^, 12.01.2005, Cuccù, secondo cui il datore di lavoro deve attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l’adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all’attività lavorativa:

tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, appunto, più generalmente, al disposto dell’art. 2087 c.c., in forza del quale il datore di lavoro è comunque costituito garante della incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale dei prestatori di lavoro, con l’ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all’obbligo di tutela, l’evento lesivo, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, gli viene correttamente imputato in forza del meccanismo previsto dall’art. 40 c.p., comma 2).

In questa prospettiva, va pertanto rilevato che, nel caso di specie, eventuali concorrenti profili colposi addebitatali al fabbricante non elidono certamente il nesso causale tra la condotta del datore di lavoro e l’evento lesivo in danno del lavoratore. Questo, del resto, in linea con la pacifica affermazione secondo cui è configurabile la responsabilità del datore di lavoro il quale introduce nell’azienda e mette a disposizione del lavoratore una macchina – che per vizi di costruzione possa essere fonte di danno per le persone – senza avere appositamente accertato che il costruttore, e l’eventuale diverso venditore, abbia sottoposto la stessa macchina a tutti i controlli rilevanti per accertarne la resistenza e l’idoneità all’uso, non valendo ad escludere la propria responsabilità la mera dichiarazione di avere fatto affidamento sull’osservanza da parte del costruttore delle regole della migliore tecnica (Cass., Sez. 4^, 03.07.2002, Del Bianco Barbacucchia).

4.3. – Le argomentazioni fin qui svolte sono utilizzabili per smentire anche la fondatezza del terzo motivo, ad ulteriore confutazione del quale giova aggiungere che appare del tutto inconferente sia il discorso relativo alla ulteriore certificazione “successiva” di conformità CE, considerato che, per quanto sopra esposto, la violazione è davvero macroscopica, tanto da sconfinare nella violazione di regole di comune prudenza, sia quello relativo alle mancate specifiche “avvertenze di pericolo” da parte della ditta costruttrice. A quest’ultimo riguardo, va rilevato che – a fronte di una colpa consistita nell’abbassamento del tegolo effettuato senza che chi diede l’ordine avesse ricevuto l’assicurazione che la vittima fosse al sicuro – alla voce “Pericolo” inserita nel manuale di Istruzioni, consegnato dalla ditta costruttrice unitamente alla macchina (e quindi in un momento antecedente all’infortunio de qua), erano previste precise cautele da adottare nell’utilizzo del mezzo, fra cui quella di “verificare che nessuno sia minacciato in caso di rovesciamento o di scivolamento della macchina” e che, comunque, si trattava di rischi evidenti anche a prescindere dalle istruzioni.

Invero, come logicamente argomentato dalla Corte territoriale, in esito a valutazione complessiva delle risultanze dibattimentali, nessuna chiara istruzione era stata data in tal senso e, a tutto concedere, anche ove impartita, nessuno si era accertato che fosse stata intesa in tutte le sue implicanze pratiche e che venisse poi rispettata.

Il carico della fresa sul rimorchio costituiva “operazione delicata e pericolosa sia per la mole e il peso del congegno sia per l’uso di assi da porre sulla rampa di carico (onde evitare il contatto metallo contro metallo) e che potevano per la pressione spostarsi e creare intralcio. Sarebbe stato quindi doveroso prevedere e disciplinare una procedura di caricamento che tutelasse appieno la incolumità dei lavoratori, se del caso, integrando quella fornita dal manuale, o dal personale Wirtgen. In verità, sarebbe bastato che l’imputato avesse una sola volta assistito a detta operazione di carico per rendersi conto dei rischi che si potevano determinare durante la fase di abbassamento del tegolo e della cesoia dentata, allorché, essendo la macchina già sul rimorchio, la zona di maggior rischio era ad altezza d’uomo e facilmente accessibile, perché non protetta. Nessun dubbio può pertanto essere sollevato, sulla concreta prevedibilità dell’evento lesivo”.

Anche alla luce delle suddette considerazioni, pertanto, deve considerarsi infondato l’assunto difensivo dell’esonero di responsabilità invocato dal ricorrente sulla base del marchio CE, non potendo ad esso ricollegarsi una presunzione assoluta di conformità della macchina alle norme di sicurezza, proprio per la prevedibilità ed evitabilità, nella ipotesi de qua, dell’evento lesivo.

Non può, infine, richiamarsi ai principi dell’affidamento il datore di lavoro che, in tema di sicurezza antinfortunistica, venga meno ai suoi compiti che comprendono, tra l’altro, l’istruzione dei lavoratori sui rischi connessi a determinati lavori, la necessità di adottare le previste misure di sicurezza, la predisposizione di queste, ed anche il controllo continuo, congrue ed effettivo, nel sorvegliare e quindi accertare che quelle misure vengano, in concreto, osservate, non pretermesse per contraria prassi disapplicativa, e, in tale contesto, che vengano concretamente utilizzati gli strumenti adeguati, in termini di sicurezza, al lavoro da svolgere, controllando anche le modalità concrete del processo di lavorazione. Il datore di lavoro, quindi, non esaurisce il proprio compito nell’approntare i mezzi occorrenti all’attuazione delle misure di sicurezza e nel disporre che vengano usati, ma su di lui incombe anche l’obbligo di accertarsi che quelle misure vengano osservate e che quegli strumenti vengano utilizzati (tra le tante, Cass., Sez. 4^, 10.02.2005, Kapelj).

4.4. – Destituito di fondamento risulta infine il quarto motivo di ricorso relativo alla “assoluta incertezza” in ordine alla misura della pena inflitta.

Nella parte motiva dell’impugnato provvedimento emesso il 14.12.2007 e depositato il 28.12.2007, risulta ben specificato che, alla pena base (pari a mesi due di reclusione) inflitta all’imputato è stata applicata la riduzione di un terzo ex art. 62 bis c.p., con la conseguente irrogazione della pena in concreto pari a mesi uno e giorni dieci di reclusione. L’errore materiale espresso in dispositivo di condanna alla pena di mesi uno di reclusione è stato evidentemente emendato con la procedura della correzione di errore materiale ex art. 130 c.p.p. se è vero, come è vero, che nell’estratto contumaciale notificato all’imputato in data 18.02.2008 la pena irrogata risulta conforme a quella menzionata nella parte motiva del provvedimento pari a mesi uno e giorni dieci di reclusione. Nessun contrasto pertanto risulta tra la condanna irrogata e quella risultante dall’estratto contumaciale, non sussistendo la paventata e dedotta incertezza della pena inflitta.

4.5. – Per le sin qui illustrate ragioni il ricorso va rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 26 agosto 2008.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2008


Cass. pen. Sez. II, (ud. 30-10-2008) 02-12-2008, n. 44912

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo – Presidente

Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere

Dott. AMBROSIO Annamaria – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere

Dott. IASILLO Adriano – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

S.P., (n. il (OMISSIS));

avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, Sezione Penale, in data 02/04/2008;

Sentita la relazione della causa fatta, in Pubblica Udienza, dal Consigliere Dr. Adriano Iasillo;

Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore Generale Dr. Mura Antonio, il quale ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Udito il difensore che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
OSSERVA

Con sentenza del 06/07/2006, il Tribunale di Lecce – Sez. di Campi Salentina – dichiarò S.P. responsabile del reato di cui all’art. 640 c.p., comma 2, n. 1, (capo A: Truffa aggravata ai danni del Comune di Novoli: firmava il registro delle presenze e poi si allontanava e andava a lavorare presso il suo esercizio commerciale), ed esclusa l’aggravante dell’abuso di prestazione di opera – concesse le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti – lo condannò alla pena di mesi 6 di reclusione e Euro 200,00 di multa.

Avverso tale pronunzia l’imputato propose gravame, ma la Corte d’appello di Lecce, con sentenza del 02/04/2008, confermò la decisione di primo grado.

Ricorre per Cassazione l’imputato deducendo:

1) art. 606 c.p.p., lettera B). Erronea applicazione del T.U. Enti Locali, art. 109 (D.Lgs. n. 267 del 2001) in relazione agli artt. 3, 7, 8, 10 e 11 C.C.N.L. 31/03/1999 (Contratto relativo alla revisione del sistema di classificazione del personale del comparto Regioni – Autonomie Locali).

La difesa del ricorrente, con tale primo motivo, evidenzia che il S. non esercitava – parallelamente a quella di pubblico dipendente – un’autonoma attività commerciale, in quanto il “Mobilificio Sozzo” apparteneva alla figlia dell’imputato che lo gestiva direttamente avendo anche un idoneo titolo di studio (laurea in architettura). La difesa del ricorrente sostiene, poi, che il S. all’epoca dei fatti svolgeva a tutti gli effetti l’incarico di dirigente del Comune di Novoli e come tale non era vincolato all’orario (36 ore lavorative settimanali), ma ai risultati conseguiti. A riprova di ciò adduce: le dichiarazioni del Segretario generale e del Sindaco dello stesso Comune; il fatto che il S. avesse una retribuzione onnicomprensiva, con esclusione del riconoscimento del lavoro straordinario; che i risultati raggiunti dall’imputato erano soggetti ad una valutazione annuale e in caso di esito positivo di tale valutazione lo stesso aveva diritto ad una retribuzione di risultato (tra l’altro sempre percepita dal S.).

La difesa del ricorrente sottolinea che in ogni caso – prescindendo, quindi, dalle diverse e contrastanti interpretazioni sul ruolo svolto dal S., confermato nella settima qualifica funzionale (funzionario di categoria D) con profilo di Capo Settore AA. GG. – quanto sopra era quello che il S. riteneva essere corretto e ciò incide, con evidenza, sull’elemento psicologico del reato.

2) art. 606 c.p.p., lettera B). Erronea applicazione dell’art. 640 c.p.p., comma 2, n. 1, in relazione all’art. 43 c.p. e art. 47 c.p., comma 3, o subordinatamente agli artt. 5 e 43 c.p. essendo stato ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato.

Con questo secondo motivo di ricorso, la difesa dell’imputato approfondisce quanto già sopra accennato. In buona sostanza il ricorrente sostiene che seppure non si dovesse condividere l’interpretazione della disciplina giuridica del ruolo svolto dal S., sarebbe evidente che questi versi in una tipica situazione di errore sulla legge extra penale di cui all’art. 47 c.p., comma 3.

Se poi si dovesse ritenere che le disposizioni legislative che disciplinano l’operato e i doveri dei pubblici ufficiali o degli incaricati di un pubblico servizio non hanno natura di norme extra penali, allora la situazione sopra esposta rientrerebbe in pieno in una delle ipotesi scriminanti individuate – in relazione all’art. 5 c.p. – nella Sentenza della Corte Costituzionale del 24/03/1988 n. 364. Infatti alla luce di quanto evidenziato nel primo motivo di ricorso (assenza di norme che contraddicano l’interpretazione data al combinato disposto del T.U. Enti Locali, D.Lgs. n. 267 del 2001, art. 109 e artt. 3, 7, 8, 10 e 11 C.C.N.L. 31/03/1999; dichiarazioni Segretario Generale e Sindaco del Comune), sarebbe evidente che il S. abbia agito nella più assoluta buona fede e nella piena convinzione della liceità del suo comportamento. Verserebbe, quindi, in una situazione di ignoranza inevitabile, scusabile ex art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale di cui sopra.

3) art. 606 c.p.p., lettera B).

Erronea applicazione dell’art. 640 c.p.p. sotto altro profilo.

Secondo la difesa del ricorrente, in base alle prove raccolte, mancherebbero, nel caso di specie, gli artifizi e raggiri, essendo noto ai superiori del S. il suo comportamento ed essendo irrilevante la sua presenza fisica in ufficio, contando solo i risultati. In ogni caso qualora alla P.O. siano noti gli artifizi e raggiri non si può parlare di truffa (viene citata giurisprudenza di questa Corte sul punto).

Mancherebbe, infine, anche il danno e l’ingiusto profitto. Infatti il danno che deve essere economico ed effettivo non si è verificato nel caso di specie (viene citata giurisprudenza di questa Corte sul punto).

4) art. 606 c.p.p., lettera C). Inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità (art. 191 c.p.p.) in quanto la decisione si fonda su prove acquisite in violazione del divieto discendente dal combinato disposto della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost..

La difesa del ricorrente eccepisce l’inutilizzabilità degli accertamenti effettuati dalla P.G. che hanno portato all’incriminazione del S., perchè posti in essere in violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost..

La difesa del ricorrente conclude, pertanto, per l’annullamento con o senza rinvio dell’impugnata sentenza.

Motivi della decisione
Il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, perchè propone censure attinenti al merito della decisione impugnata, congruamente giustificata.

Infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di Cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia, come nel caso di specie, compatibile con il senso comune e con “i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento”, secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Cass. Sez. 4, sent. n. 47891 del 28.09.2004 dep. 10.12.2004 rv 230568; Cass. Sez. 5, sent. n. 1004 del 30.11.1999 dep. 31.1.2000 rv 215745; Cass., Sez. 2, sent. n. 2436 del 21.12.1993 dep. 25.2.1994, rv 196955).

Inoltre il ricorso è inammissibile anche per violazione dell’art. 591 c.p.p., lett. c) in relazione all’art. 581 c.p.p., lett. c), perché le doglianze (sono le stesse affrontate dalla Corte di appello) sono prive del necessario contenuto di critica specifica al provvedimento impugnato, le cui valutazioni, ancorate a precisi dati fattuali trascurati nell’atto di impugnazione, si palesano peraltro immuni da vizi logici o giuridici. Infatti il Giudice di merito ha con esaustiva, logica e non contraddittoria motivazione, evidenziato tutte le ragioni per le quali ritiene la responsabilità del ricorrente per il delitto di cui sopra.

Invero la Corte di appello, richiamando anche le motivazioni del Tribunale, ha correttamente rilevato – contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso – che: 1) il mobilificio risulta nella titolarità di S.R., ma nell’effettiva gestione della figlia dell’imputato (pagina 4 impugnata sentenza). Sul punto si deve comunque sottolineare che la contestazione non ha per oggetto io svolgimento, da parte del S., di un’attività parallela a quella di pubblico dipendente, ma il fatto di far apparire di essere al lavoro (avendo firmato il registro delle presenze o timbrato il cartellino marcatempo) mentre in realtà si trovava altrove (nel caso di specie nel mobilificio gestito dalla figlia). Ed è proprio per questo fatto che è stato condannato; 2) che il S. era un funzionario (settima qualifica funzionale) e non un dirigente – come sostenuto dal ricorrente – tenuto al rispetto dell’orario di lavoro prestabilito. Il Giudice di merito ricava quanto sopra (pagine 5 e 6 dell’impugnata sentenza), non solo da un accurato esame del contratto e delle norme che lo regolano, ma anche da vari importanti e inequivoci fatti: chiarimento fornito dall’Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni che ha specificato come il vigente contratto di lavoro dei dipendenti pubblici non attribuisca nè al datore di lavoro nè al dipendente il potere o il diritto all’autogestione dell’orario di lavoro settimanale (consentito al solo personale dirigenziale) e come al capo settore (qualifica rivestita dal S.) l’indennità integrativa speciale sostituisca l’eventuale lavoro straordinario svolto; comunicazione del Segretario Generale del Comune di Novoli al S., del numero di ore che lo stesso doveva recuperare a conferma dell’obbligo del rispetto dell’orario di lavoro; dichiarazione dello stesso Segretario Generale del Comune di Novoli che ha spiegato come ad un funzionario inquadrato nella settima qualifica funzionale (categoria D) possono essere attribuite alcune funzioni proprie dei dirigenti senza che ciò comporti la qualifica di dirigente (d’altronde questa considerazione del teste è supportata dal fatto che nel contratto che attribuisce al S. tali funzioni, si specifica che viene confermato l’inquadramento dell’imputato nella settima qualifica funzionale – categoria D – specificazione che logicamente esclude ogni dubbio sul fatto che il S. non fosse un dirigente); che il S., infatti, era tenuto alla firma del registro delle presenze o alla timbratura del cartellino marcatempo, operazione svolta dal ricorrente regolarmente e senza alcuna contestazione (contestazione che non vi è stata neppure per le richieste di recupero ore, a conferma della sua piena consapevolezza di tale obbligo) a riprova che lo stesso imputato era pienamente cosciente di essere un funzionario e non già un dirigente. Tali fatti confermano la piena sussistenza dell’elemento psicologico del reato – come correttamente rilevato dalla Corte territoriale nelle pagine 7 e 8 – e che non può ravvisarsi alcun errore sulla legge extra penale di cui all’art. 47 c.p., comma 3, o una situazione di ignoranza inevitabile, scusabile ex art. 5 c.p. come modificato dalla sentenza della Corte Costituzionale del 24/03/1988 n. 364. Invero il ricorrente ha firmato il registro delle presenze (o ha timbrato il cartellino marcatempo) e si è poi assentato dal posto di lavoro più volte e per molte ore; se avesse ritenuto di non avere l’obbligo di rispettare l’orario di lavoro prestabilito avrebbe firmato il registro delle presenze solo alla fine dei suoi impegni personali e quando fosse stato di nuovo presente in ufficio. In effetti ha agito nel modo illecito di cui alla contestazione, avendo un evidente interesse economico a far risultare falsamente la sua presenza in ufficio, quando invece si trovava altrove per sbrigare suoi affari privati. Dalla ricostruzione di cui sopra emerge con chiarezza l’infondatezza delle altre censure della difesa del S. sulla mancanza degli artifizi e raggiri, del danno e dell’ingiusto profitto. Infatti tali censure – generiche e apodittiche – si fondano solo sulla diversa interpretazione data dall’imputato ai fatti di causa. Si deve osservare in proposito come sia indimostrata l’affermazione che la parte offesa fosse a conoscenza degli artifizi e raggiri. Invero il Sindaco del Comune ha solo riferito sulla disponibilità e sull’impegno del S. (si vedano pagine 11 e 12 del ricorso) e il Segretario Generale ha invece confermato la qualifica di funzionario del S. e in concreto ha chiesto il recupero delle ore non lavorate dal ricorrente delle quali aveva avuto conoscenza. Non si riesce quindi a capire da quali dichiarazioni o atti la difesa del ricorrente abbia tratto il convincimento che i rappresentanti del Comune fossero a conoscenza degli artifizi e raggiri commessi dall’imputato. Non è superfluo ricordare che la P.O. nel caso di specie è il Comune e che i rappresentanti di un Ente pubblico non potrebbero mai “autorizzare” o accettare passivamente un comportamento illecito del proprio dipendente. Quindi se avessero saputo della truffa commessa dal S. e non avessero agito avrebbero commesso a loro volta un reato. Per quanto riguarda il danno – sul quale il ricorrente si limita a generiche affermazione di principio sempre collegate alla sua particolare interpretazione dei fatti – si rileva che, peraltro, il palese ingiustificato protrarsi della assenza dal posto di lavoro dell’imputato (accertato dalla P.G. in tutti i quattro giorni oggetto “dell’osservazione”), ha realizzato una sospensione di fatto del rapporto di impiego che ha necessariamente prodotto un danno patrimoniale per l’Ente, chiamato a retribuire “frazioni” delle prestazioni giornaliere non effettuate, e con l’ulteriore danno (patrimoniale – anche in relazione alla retribuzione di risultato decisa ogni anno dall’apposito Nucleo di Valutazione e sempre corrisposta al S. – e di immagine) correlato alla mancata presenza del dipendente (tra l’altro Capo Settore AA.GG.) nel posto di lavoro, rimasto così sguarnito.

Circostanze tutte, quelle esposte, al cui risalto, agli effetti della configurazione del reato contestato, non può certo far velo l’eventuale difficoltà di quantificazione del danno, considerato che, nella specie, la relativa sussistenza ed apprezzabilità in termini economici è da reputarsi sussistente al di la di ogni ragionevole dubbio.

Si deve, infine, ricordare che questa Suprema Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che la falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata (Sez. 2, Sentenza n. 34210 del 06/10/2006 Ud. – dep. 12/10/2006 Rv. 235307).

Anche l’ultimo motivo di ricorso – inutilizzabilità degli accertamenti effettuati dalla P.G., che hanno portato all’incriminazione del S., perché posti in essere in violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 2 e 3 e art. 13 Cost. – è manifestamente infondato. Infatti il ricorrente insiste nel confondere – nonostante la Corte di appello abbia già motivato esaustivamente e in modo logico e non contraddicono sull’infondatezza di tale eccezione; nonostante il risultato delle indagini di P.G. sia stato acquisito dal Giudice di merito su concorde richiesta delle parti e nonostante il principio di tassatività delle nullità e dell’inutilizzabilità – ciò che vale per i rapporti privatistici e ciò che vale in materia pubblicistica quale è quella penale. Invero le particolari limitazioni contenute negli artt. 2 e 3 dello statuto dei lavoratori riguardano solo il datore di lavoro (e non già il soggetto pubblico P.G.) e all’interno di quel particolare rapporto di natura privatistica, nel quale il legislatore – nel contemperare le esigenze del datore di lavoro di tutela del patrimonio aziendale e del dipendente di svolgere liberamente e dignitosamente il suo lavoro – ha cercato di tutelare quest’ultimo, ritenuto soggetto “debole”, da eventuali abusi. Si deve osservare che in ogni caso anche nell’ambito civilistico questa Suprema Corte ha stabilito il principio che “la prestazione d’opera da parte del lavoratore subordinato a favore di terzi concorrenti costituisce una violazione dell’obbligo di fedeltà che, se è irrilevante sotto il profilo penale qualora compiuta fuori del normale orario di lavoro, integra il reato di truffa se svolta nell’orario normale, da parte di soggetto che lucra la retribuzione, fingendo di svolgere il lavoro che gli è stato affidato, mentre svolge altra attività. Ne consegue che, ove sorga il giustificato dubbio che un dipendente incaricato di mansioni da espletare al di fuori dei locali dell’azienda in realtà si renda responsabile di un comportamento illecito di tale genere, è giustificato il ricorso alla collaborazione di investigatori privati per verifiche al riguardo, nè sono ravvisagli profili di illiceità a norma della L. n. 300 del 1970, art. 2, comma 2, il quale, prevedendo il divieto per il datore di lavoro di adibire le guardie particolari giurate alla vigilanza dell’attività lavorativa e il divieto per queste ultime di accedere nei locali dove tale attività è in corso, nulla dispone riguardo alla verifica dell’attività lavorativa svolta al di fuori dei locali aziendali da parte di soggetti non inseriti nel normale ciclo produttivo. (Nella specie un istituto di credito aveva sottoposto a verifica l’operato di un suo funzionario incaricato di attività promozionale esterna, a causa dei sospetti suscitati dagli scarsissimi risultati conseguiti e l’aveva poi licenziato, essendo emerso che non intratteneva affatto i contatti personali indicati nei rapportini di servizio, pur non compiendo neanche attività a favore di terzi; questa S.C. ha confermato la sentenza impugnata, con cui era stata rigettata l’impugnativa del licenziamento. Sez. L, Sentenza n. 10313 del 17/10/1998 – Rv. 519819 -). Inoltre “le disposizioni degli artt. 2 e 3 dello Statuto dei lavoratori non implicano l’impossibilità di ricorrere alla collaborazione di soggetti diversi da quelli in essi previsti (ad esempio investigatori privati) in difetto di espliciti divieti al riguardo e in considerazione della libertà della difesa privata” (Sez. L, Sentenza n. 10761 del 03/11/1997 – Rv. 509428 -) Infine “lo statuto dei lavoratori (L. n. 300 del 1970), e specificamente i suoi artt. 2, 3 e 4, lungi dall’eliminare il potere di controllo attribuito al datore di lavoro dal codice civile, ne ha disciplinato le modalità di esercizio, privando la funzione di vigilanza dell’impresa degli aspetti più “polizieschi”. In particolare non può contestarsi la legittimità dei controlli posti in essere da dipendenti di un’agenzia investigativa i quali, operando come normali clienti di un esercizio commerciale e limitandosi a presentare alla cassa la merce acquistata e a pagare il relativo prezzo, verifichino la mancata registrazione della vendita e l’appropriazione della somma incassata da parte dell’addetto alla cassa” (Sez. L, Sentenza n. 9576 del 14/07/2001 – Rv. 548199 -).

E’ evidente che se addirittura il datore di lavoro, in presenza di fatti illeciti, può svolgere le attività di accertamento di cui sopra, nessuna limitazione può sussistere per la P.G. che in adempimento di un suo preciso dovere (art. 55 c.p.p.) imposto dalla necessità di tutelare la collettività dalla commissione degli illeciti più gravi previsti nel nostro ordinamento, quali, appunto, i reati, acquisisca e verifichi – come nel caso di specie – una “notitia criminis” con il compimento di atti che tra l’altro non hanno inciso minimamente sulla libertà personale del S. e addirittura al di fuori del posto di lavoro. D’altronde è lo stesso art. 13 Cost. – invocato dal ricorrente – a prevedere la possibilità di interventi della P.G. in campi e con provvedimenti ben più gravi (detenzione, ispezione e perquisizione) di un pedinamento e di un’osservazione. Sul punto questa Suprema Corte ha, tra l’altro, più volte affermato il principio condiviso dal Collegio, che le attività di osservazione, controllo e pedinamento svolte dalla polizia giudiziaria non sono intrusive della sfera privata, perché non limitano, diversamente dalle ispezioni, dalle perquisizioni e dai sequestri, la libertà morale del controllato. Tali attività vanno inquadrate nel novero dei mezzi destinati alla acquisizione di prove non disciplinate dalla legge, consentite dall’art. 189 c.p.p., senza necessità di decreto autorizzativo della autorità giudiziaria (Sez. 6, Sentenza n. 2072 del 03/06/1998 Cc. – dep. 07/07/1998 – Rv.

212220).

A fronte di quanto sopra evidenziato il ricorrente contrappone solo contestazioni, che non tengono conto delle argomentazioni del Corte di appello.

In proposito questa Corte ha più volte affermato il principio, condiviso dal Collegio, che è inammissibile il ricorso per Cassazione quando manchi l’indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’atto di impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato, senza cadere nel vizio di aspecificità, che conduce, ex art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all’inammissibilità del ricorso (Si veda fra le tante: Sez. 1, sent. n. 39598 del 30.9.2004 – dep. 11.10.2004 – rv 230634).

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, l’imputato che lo ha proposto deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della Cassa delle ammende della somma di Euro Mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro Mille alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 30 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 2 dicembre 2008


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 24-06-2008) 11-11-2008, n. 26975

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente di Sezione

Dott. PREDEN Roberto – rel. e Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 1688-2004 proposto da:

C.G., B.R., P.A.M., P. P., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA GIOVANNI GENTILE 8, presso lo studio dell’avvocato MARTORIELLO MASSIMO, rappresentati e difesi dall’avvocato COGO GIOVANNA, giusta delega in calce al ricorso;

– ricorrenti –

contro

PIRELLI & C. REAL ESTATE PROPERTY MANAGEMENT SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SETTEMBRINI 30, presso lo studio dell’avvocato FERRETTI MARCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato TROIANI VINCENZO, giusta delega a margine del controricorso;

EDS – ELECTRONIC DATA SYSTEM ITALIA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA ANAPO 29, presso lo studio dell’avvocato NINNI GUIDO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrenti –

e contro

NOVA DOMUS 90 S.R.L. a cui non risulta notificato il ricorso;

– intimata –

avverso la sentenza n. 688/2003 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 04/03/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/06/08 dal Pres. Dott. ROBERTO PREDEN;

uditi gli avvocati Marco FERRETTI, Guido NINNI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento, per quanto di ragione, del primo motivo del ricorso con assorbimento degli altri motivi.

Svolgimento del processo
Con provvedimento d’urgenza 18.12.1995 il Tribunale di Milano, accogliendo il ricorso proposto da C.G., B.R., P.A.M. e P.P., abitanti nello stabile sito in Via (OMISSIS), denominato villa (OMISSIS), che avevano lamentato immissioni rumorose provenienti dal confinante edificio, di proprietà della Nuova Domus 90 S.r.l., adibito ad uffici della Data Base Progetti S.p.a., all’esito di C.t.u. che aveva accertato l’eccedenza del limite di tollerabilità delle immissioni, ordinava l’esecuzione delle opere di insonorizzazione degli impianti di condizionamento e refrigerazione dell’aria ritenute dal consulente tecnico idonee a contenere le immissioni entro i limiti della tollerabilità nel periodo diurno, imponeva la sospensione del funzionamento degli impianti nel periodo notturno.

Con citazione 7.2.1996, i predetti instauravano il giudizio di merito convenendo davanti al tribunale la E.D.S. Electronic Data System Italia S.p.a. (già Data Base Progetti), e l’I.N.A. Assicurazioni S.p.a. (subentrata alla Nuova Domus 90 S.r.l.), nelle rispettive qualità di conduttrice e proprietaria dell’immobile dal quale provenivano le immissioni rumorose, per la conferma dei provvedimenti urgenti e la condanna al risarcimento del danno biologico e del danno morale alla persona.

L’I.N.A. resisteva e chiedeva di essere manlevata dalla E.D.S.. La E.D.S. resisteva a tutte le domande.

Il tribunale, con sentenza 26.10.1998, condannava in solido le convenute al pagamento a ciascuno degli attori della somma di L. 12.000.000 a titolo di risarcimento del danno biologico psichico temporaneo sofferto durante il periodo, da novembre 1994 a dicembre 1995, in cui le immissioni eccedenti la normale tollerabilità si erano verificate.

Proponeva appello la Unim S.p.a., subentrata all’I.N.A, censurando il riconoscimento del danno biologico, in difetto di prova della lesione alla integrità psicofisica, e lamentando il mancato accoglimento della domanda di manleva verso la E.D.S. Si costituiva la Pirelli & C. Real Estate Property Management S.p.a. nella quale era stata incorporata la Unim.

La E.D.S. chiedeva il rigetto dell’impugnazione e, in via di appello incidentale, il rigetto della domanda degli attori.

Gli originari attori resistevano e, con appello incidentale, chiedevano l’elevazione dell’importo del risarcimento.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza del 4.3.2003. accoglieva l’appello principale della Pirelli & C. e quello incidentale della E.D.S. e rigettava la domanda. Avverso la sentenza gli originari attori hanno proposto ricorso per cassazione, affidandone l’accoglimento a due motivi.

Hanno resistito, con controricorso, la E.D.S. e la Pirelli & C..

All’udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al cd. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l’ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.

Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

Motivi della decisione
A) Esame della questione di particolare importanza.

1. L’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 – relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l’ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame – rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l’uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale – inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell’integrità psico-fisica, e dal cd. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto – l’altro contrario.

Osserva l’ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell’art. 2059 c.c. ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.

A questo orientamento, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del “danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.

Ricorda ancora l’ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito “esistenziale”:

tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perchè non presuppone l’esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perchè non costituirebbe un mero patema d’animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest’ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.

L’ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.

Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.

Così riassunti i contrapposti orientamenti, l’ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto “quesiti”. 1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.

3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale “tipico”, nega la concepibilità del danno esistenziale.

4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell’ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell’illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.

5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.

6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.

7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il cd. danno tanatologico o da morte immediata.

8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art. 2059 c.c. (“Danni non patrimoniali”) secondo cui “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

All’epoca dell’emanazione del codice civile l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 c.p. del 1930.

La giurisprudenza, nel dare applicazione all’art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte.

2.1. L’insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono l’affermazione i seguenti argomenti:

a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall’art. 2059 c.c. ai casi determinati dalla legge;

b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona;

c) l’estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);

d) l’esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c. e la completano nei termini seguenti.

2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c. si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c..

L’art. 2059 c.c. non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata:

Corte cost. n. 372/1994; S.u. n. 576, 581, 582, 584/2008).

2.4. L’art. 2059 c.c. è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

L’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

2.5. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato (“Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”).

2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2:

mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c. il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall’art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall’origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).

2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003;

n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell’illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell’interesse protetto.

Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.

2.10. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.u. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.u. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

La limitazione alla tradizionale figura del cd. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l’art. 2059 c.c. nè l’art. 185 c.p. parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.

Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte cost. n. 87/1979).

Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno (Corte cost. n. 348/2007).

2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

2.13. In tali ipotesi non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.

E’ solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.

In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza. n. 233/2003 della Corte costituzionale.

Le menzionate sentenze, d’altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono.

2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.

La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost. ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.

3. Si pone ora la questione se, nell’ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il cd. danno esistenziale.

3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni ’90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all’epoca risarcito nell’ambito dell’art. 2043 c.c. in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal cd. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c. in collegamento all’art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.

Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c. e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c. inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l’espressione “danno esistenziale”.

Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona.

Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all’integrità psicofisica.

3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell’art. 2043 c.c. nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l’alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell’ingiustizia del danno, di quale fosse l’interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l’insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all’ammissione a risarcimento.

Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull’ingiustizia del danno (per lesione dell’interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c. e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all’epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all’educazione ed all’istruzione, integrante danno-evento.

La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall’accertata lesione di un interesse rilevante.

La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l’agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d’altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.

In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una “voce” del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.

Altre decisioni hanno riconosciuto, nell’ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia.

3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.

3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.

3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.

3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (cd. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.

Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del cd. “danno estetico” che del cd. “danno alla vita di relazione”), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.

Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell’illecito che, cagionando ad una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio.

Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.

Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all’interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell’alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell’interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.

La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all’evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell’ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.

Essa si risolve sostanzialmente nell’abrogazione surrettizia dell’art. 2059 c.c. nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento dannoso.

3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. è incentrato sull’assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell’art. 2043 c.c. dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l’ordinamento, contraddicendo l’affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.

E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c. come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte cost. n. 87/1979).

3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Va ricordato che l’effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.u. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).

3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell’ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).

Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell’ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell’ambito del rapporto di lavoro.

Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.).

Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli art. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle cd. liti bagatellari.

Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell’ambito dell’area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l’offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell’epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall’impossibilità di uscire di casa per l’esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest’ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all’art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).

3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).

Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.u. n. 16265/2002).

3.12. I limiti fissati dall’art. 2059 c.c. non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad Euro millecento, in cui decide secondo equità.

La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte cost. n. 206/2004).

3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c. che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.

4. Il danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento delle obbligazioni, secondo l’opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L’ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all’art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l’ostacolo, nel caso in cui oltre all’inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell’esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all’azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell’art. 2059 c.c. in collegamento con l’art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Dalle strettoie dell’art. 2059 c.c. si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell’art. 2043 c.c. (Corte cost. n. 184/1986).

4.1. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c. consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.

Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni.

4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L’individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell’area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).

4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i cd. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l’inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.

In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell’ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).

I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all’autodeterminazione (art. 32 Cost., comma 2, e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell’obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.

4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l’allievo e l’istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.u. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell’allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).

4.5. L’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.

E’ questo il caso del contratto di lavoro. L’art. 2087 c.c. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell’integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

Nell’ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni- conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.

4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell’integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).

Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all’ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all’ipotesi dell’illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

4.7. Nell’ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.

L’art. 1218 c.c. nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c. secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

D’altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall’inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all’art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell’art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta.

Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 1229 c.c., comma 2, (E’ nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).

Varranno le specifiche regole del settore circa l’onere della prova (come precisati da Sez. un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.

Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c. identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del cd. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sé considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poiché la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il cd. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell’integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come “voce” del danno biologico, che il cd. danno estetico pacificamente incorpora.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.

Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.

E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perché la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perché deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

B) Ricorso n. 1688/04. 1. Con il primo motivo, denunciando, in riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, errata interpretazione ed applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. e dell’art. 2 Cost., i ricorrenti svolgono due censure.

1.1. Censurano, in primo luogo la sentenza impugnata per aver rigettato la domanda di risarcimento del danno biologico, malgrado fosse stato accertato mediante C.T.U. che per circa un anno si erano verificate immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità soprattutto in ore notturne, addebitando agli attori di non aver fornito, con la produzione di certificati medici o richiedendo una consulenza tecnica medicolegale, la prova della lesione psicofisica determinata dall’inquinamento acustico.

Osservano che la corte è incorsa in palese contraddizione, non avendo considerato che prove testimoniali sulla durata e persistenza del rumore ed una consulenza medico-legale sul cambiamento intervenuto dal punto di vista della salute e della qualità della vita nelle loro persone erano state richieste dagli attori in primo grado, ma non erano state ammesse dal tribunale, per adesione alla tesi secondo cui nel caso di violazione del diritto alla salute il danno è in re ipsa. A siffatta carenza di attività istruttoria, non addebitabile agli attori, la corte avrebbe dovuto d’ufficio porre rimedio, e non rigettare la domanda.

1.2. Ulteriore censura è rivolta dai ricorrenti alla sentenza nella parte in cui ha affermato che la domanda non poteva essere accolta neppure considerandola rivolta ad ottenere il risarcimento del cd. danno esistenziale, poichè anche per tale categoria di danno è necessario il concreto accertamento della sua effettiva esistenza, mancato nel caso in esame.

Premettono i ricorrenti che il danno esistenziale, figura elaborata dalla dottrina per porre rimedio all’inadeguatezza della disciplina del danno non patrimoniale dettata dall’art. 2059 c.c. a fronte della violazione di diritti fondamentali della persona, e che è stata recepita dalla giurisprudenza, si connota per la forzosa rinuncia allo svolgimento di attività non remunerative, fonte di compiacimento o benessere per il danneggiato, differenziandosi dal danno biologico, per non essere determinata la perdita dalla lesione dell’integrità psicofisica, dal danno morale, perchè non consiste in una sofferenza (pati), ma nella rinuncia ad attività concrete (non tacere), e dal danno patrimoniale in quanto prescinde dalla riduzione della capacità reddituale.

Affermano che il fondamento della risarcibilità del danno esistenziale va individuato nell’art. 2 Cost., che tutela i diritti inviolabili dell’uomo, fra i quali vi è certamente il diritto alla qualità della vita.

Circa il suo contenuto, in particolare nel caso di immissioni rumorose, il pregiudizio si risolve in una alterazione del benessere psicofisico, dei normali ritmi di vita che si riflettono sulla tranquillità personale del soggetto danneggiato, alterando le normali attività quotidiane e provocando uno stato di malessere psichico diffuso che, pur non sfociando in una vera e propria malattia, provoca ansia, irritazione, difficoltà a far fronte alle normali occupazioni.

Soggiungono che si tratta di “danno evento”, da accertare mediante presunzioni, quando le conseguenze negative fatte valere rimangono per la loro tipicità entro i limiti dell’id quod plerumque accidit.

Non costituendo i riflessi negativi indotti dal torto una vera e propria malattia, non sono necessarie consulenze medico-legali, perchè si presume che il danno ci sia per il solo fatto che l’immissione abbia ecceduto la normale tollerabilità.

Rilevano infine che l’automatismo del danno viene accolto in giurisprudenza anche con riguardo al danno biologico, sul presupposto, a sostegno del quale si i invoca il fatto notorio fondato su conoscenze tecnico-scientifiche, che il rumore che eccede di tre decibel il rumore di fondo non può non produrre un pregiudizio alla salute.

2. Il motivo è solo in parte fondato.

2.1. Va disatteso, per le considerazioni svolte in sede di trattazione della questione di particolare importanza (da punto 3.3. a 3.13), il secondo profilo di censura concernente il rigetto della domanda per mancata dimostrazione del danno esistenziale.

2.2. Il primo profilo di censura è fondato e va accolto.

Il giudice di primo grado, essendo stato accertato, mediante C.T.U., che gli impianti di condizionamento, ininterrottamente funzionanti di giorno e di notte, avevano provocato nelle vicine abitazioni immissioni rumorose eccedenti la normale tollerabilità, e che tale situazione si era protratta per circa un anno, fino al momento in cui era intervenuto il divieto di funzionamento nelle ore notturne, aveva ritenuto che un inquinamento acustico nocivo siffatto dovesse necessariamente produrre, nella persona di ciascun attore, un danno biologico temporaneo risarcibile. Ha quindi disatteso la richiesta di consulenza medicolegale e di prove testimoniali, e, dichiarando di avvalersi della regola di comune esperienza secondo cui le immissioni rumorose anche notturne, impedendo il riposo ristoratore, sono di per sè idonee a provocare la lesione del sistema nervoso, e quindi un danno biologico temporaneo di tipo psichico, ha accolto la domanda.

La corte d’appello ha ritenuto scorretto ricollegare in via presuntiva il danno biologico ad ogni forma di inquinamento acustico eccedente la normale tollerabilità, senza procedere al concreto accertamento di una effettiva lesione dell’integrità psicofisica delle persone conseguente alla sofferenza provocata dallo stress da rumore, ed ha rigettato la domanda per carenza di prova.

In tal modo la corte ha posto a carico degli attori una carenza istruttoria dovuta ad una scelta del giudice circa l’individuazione dei mezzi di prova di cui avvalersi. Non ha infatti considerato che la mancata acquisizione di prove era stata determinata dall’impostazione data all’istruttoria dal primo giudice, che aveva ritenuto superfluo il ricorso alla consulenza medico-legale ed alle prove testimoniali e si era affidato a regole di comune esperienza, e non i dovuta al difetto di iniziativa degli attori. La domanda non poteva quindi essere rigettata per difetto di prova, ma alla mancata istruttoria doveva porsi rimedio in appello ammettendo la consulenza tecnica e le prove richieste in primo grado.

3. L’accoglimento del primo motivo determina l’assorbimento del secondo, concernente la compensazione delle spese.

4. La sentenza va quindi cassata. Il giudice di rinvio, che si designa nella Corte d’appello di Milano in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo, dichiara assorbito il secondo, cassa e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2008


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 24-06-2008) 11-11-2008, n. 26972

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. VITTORIA Paolo – Presidente di sezione

Dott. PREDEN Roberto – rel. Presidente

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 734/2006 proposto da:

A.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA GERMANICO 107, presso lo studio dell’avvocato GELERA Giorgio, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato DAL LAGO UGO, giusta a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

S.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PANAMA 88, presso lo studio dell’avvocato SPADAFORA Giorgio, che lo rappresenta e difende, giusta delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

ULSS/(OMISSIS);

– intimata –

avverso la sentenza n. 1933/2004 della CORTE D’APPELLO di VENEZIA, depositata il 11/11/2004;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 24/06/2008 dal Presidente Dott. ROBERTO PREDEN;

uditi gli avvocati Ugo DAL LAGO, Giorgio SPADAFORA;

udito il P.M., in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
A.L., sottoposto nel (OMISSIS) ad intervento chirurgico per ernia inguinale sinistra, subì la progressiva atrofizzazione del testicolo sinistro che gli fu asportato nel (OMISSIS) in seguito ad inutili terapie antalgiche.

Nel (OMISSIS) convenne in giudizio il Dott. S.F. e la U.L.S.S. n. (OMISSIS) (in seguito n. (OMISSIS)) di (OMISSIS), assumendo che il secondo intervento era stato reso necessario da errori connessi al primo e domandando la condanna dei convenuti al risarcimento di tutti i danni patiti.

Il Tribunale di Vicenza, con sentenza del 9.7.1998, riconosciuto il danno biologico, condannò i convenuti a versare all’attore la somma ulteriore di L. 6.411.484 a titolo di interessi maturati sulla somma di L. 23.000.000 già corrisposta nel 1995 dall’assicuratore dei convenuti.

Con sentenza n. 1933/04 la corte d’appello di Venezia ha rigettato il gravame dell’ A. in punto di liquidazione del danno sui rilievi: che dalla espletata consulenza tecnica era inequivocamente emerso che la perdita del testicolo non aveva inciso sulla capacità riproduttiva, rimasta integra, provocando soltanto un limitato danno permanente all’integrità fisica dell’ A., apprezzato nella misura del 6%; che la richiesta di liquidazione del danno esistenziale, in quanto formulata per la prima volta in grado di appello, costituiva domanda nuova, come tale inammissibile ex art. 345 c.p.c., nella previgente formulazione; e che del pari inammissibili erano le richieste istruttorie di prove orali articolate per supportare la relativa domanda.

Avverso detta sentenza ricorre per cassazione l’ A., affidandosi a due motivi, illustrati anche da memoria, cui resiste con controricorso S.F..

L’intimata U.L.S.S. n. (OMISSIS) non ha svolto attività difensiva.

All’udienza del 19.12.2007, la terza sezione, rilevato che il ricorso investe questione di particolare importanza, in relazione al c.d. danno esistenziale, ha rimesso la causa al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, in base alle considerazioni svolte con l’ordinanza resa nel ricorso n. 10517/2004, trattato nella medesima udienza, che ha assunto il n. 4712/2008.

Il Primo Presidente ha disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

Motivi della decisione
A) Esame della questione di particolare importanza.

1. L’ordinanza di rimessione n. 4712/2008 – relativa al ricorso n. 10517/2004, alla quale integralmente rinvia l’ordinanza della terza sezione che eguale questione ha ritenuto sussistere nel ricorso in esame – rileva che negli ultimi anni si sono formati in tema di danno non patrimoniale due contrapposti orientamenti giurisprudenziali, l’uno favorevole alla configurabilità, come autonoma categoria, del danno esistenziale – inteso, secondo una tesi dottrinale che ha avuto seguito nella giurisprudenza, come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico, in assenza di lesione dell’integrità psico-fisica, e dal c.d. danno morale soggettivo, in quanto non attiene alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare areddituale del soggetto – l’altro contrario.

Osserva l’ordinanza che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno ridefinito rispetto alle opinioni tradizionali presupposti e contenuti del risarcimento del danno non patrimoniale. Quanto ai presupposti hanno affermato che il danno non patrimoniale è risarcibile non solo nei casi espressamente previsti dalla legge, secondo la lettera dell’art. 2059 c.c., ma anche in tutti i casi in cui il fatto illecito abbia leso un interesse o un valore della persona di rilievo costituzionale non suscettibile di valutazione economica. Quanto ai contenuti, hanno ritenuto che il danno non patrimoniale, pur costituendo una categoria unitaria, può essere distinto in pregiudizi di tipo diverso: biologico, morale ed esistenziale.

A questo orientamento, prosegue l’ordinanza di rimessione, ha dato continuità la Corte Costituzionale, la quale, con sentenza n. 233/2003, nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., ha tributato un espresso riconoscimento alla categoria del danno esistenziale, da intendersi quale terza sottocategoria di danno non patrimoniale.

Ricorda ancora l’ordinanza di rimessione che altre decisioni di legittimità hanno ritenuto ammissibile la configurabilità di un tertium genus di danno non patrimoniale, definito “esistenziale”: tale danno consisterebbe in qualsiasi compromissione delle attività realizzatrici della persona umana (quali la lesione della serenità familiare o del godimento di un ambiente salubre), e si distinguerebbe sia dal danno biologico, perché non presuppone l’esistenza di una lesione in corpore, sia da quello morale, perchè non costituirebbe un mero patema d’animo interiore di tipo soggettivo. Tra le decisioni rilevanti in tal senso l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 7713/2000, n. 9009/2001, n. 6732/2005, n. 13546/2006, n. 2311/2007, e, soprattutto, la sentenza delle Sezioni unite n. 6572/2006, la quale ha dato una precisa definizione del danno esistenziale da lesione del fare areddittuale della persona, ed una altrettanto precisa distinzione di esso dal danno morale, in quanto, al contrario di quest’ultimo, il danno esistenziale non ha natura meramente emotiva ed interiore.

L’ordinanza di rimessione osserva poi che al richiamato orientamento, favorevole alla configurabilità del danno esistenziale come categoria autonoma di danno non patrimoniale, si è contrapposto un diverso orientamento, il quale nega dignità concettuale alla nuova figura di danno.

Secondo questo diverso orientamento il danno non patrimoniale, essendo risarcibile nei soli casi previsti dalla legge, tra i quali rientrano, in virtù della interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., fornita dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, i casi di lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti, manca del carattere della atipicità, che invece caratterizza il danno patrimoniale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Di conseguenza non sarebbe possibile concepire categorie generalizzanti, come quella del danno esistenziale, che finirebbero per privare il danno non patrimoniale del carattere della tipicità. Tra le decisioni espressione di questo orientamento l’ordinanza menziona le sentenze di questa Corte n. 15760/2006, n. 23918/2006, n. 9510/2006, n. 9514/2007, n. 14846/2007.

Così riassunti i contrapposti orientamenti, l’ordinanza di rimessione conclude invitando le Sezioni unite a pronunciarsi sui seguenti otto “quesiti”. 1. Se sia concepibile un pregiudizio non patrimoniale, diverso tanto dal danno morale quanto dal danno biologico, consistente nella lesione del fare areddituale della vittima e scaturente dalla lesione di valori costituzionalmente garantiti.

2. Se sia corretto ravvisare le caratteristiche di tale pregiudizio nella necessaria sussistenza di una offesa grave ad un valore della persona, e nel carattere di gravità e permanenza delle conseguenze da essa derivate.

3. Se sia corretta la teoria che, ritenendo il danno non patrimoniale “tipico”, nega la concepibilità del danno esistenziale.

4. Se sia corretta la teoria secondo cui il danno esistenziale sarebbe risarcibile nel solo ambito contrattuale e segnatamente nell’ambito del rapporto di lavoro, ovvero debba affermarsi il più generale principio secondo cui il danno esistenziale trova cittadinanza e concreta applicazione tanto nel campo dell’illecito contrattuale quanto in quello del torto aquiliano.

5. Se sia risarcibile un danno non patrimoniale che incida sulla salute intesa non come integrità psicofisica, ma come sensazione di benessere.

6. Quali debbano essere i criteri di liquidazione del danno esistenziale.

7. Se costituisca peculiare categoria di danno non patrimoniale il c.d. danno tanatologico o da morte immediata.

8. Quali siano gli oneri di allegazione e di prova gravanti sul chi domanda il ristoro del danno esistenziale.

2. Il risarcimento del danno non patrimoniale è previsto dall’art. 2059 c.c. (“Danni non patrimoniali”) secondo cui “Il danno non patrimoniale deve essere risarcito solo nei casi determinati dalla legge”.

All’epoca dell’emanazione del codice civile l’unica previsione espressa del risarcimento del danno non patrimoniale era racchiusa nell’art. 185 cod. pen. del 1930.

La giurisprudenza, nel dare applicazione all’art. 2059 c.c., si consolidò nel ritenere che il danno non patrimoniale era risarcibile solo in presenza di un reato e ne individuò il contenuto nel c.d. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza contingente, turbamento dell’animo transeunte.

2.1. L’insostenibilità di siffatta lettura restrittiva è stata rilevata da questa Corte con le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003, in cui si è affermato che nel vigente assetto dell’ordinamento, nel quale assume posizione preminente la Costituzione – che, all’art. 2, riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo – il danno non patrimoniale deve essere inteso nella sua accezione più ampia di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Sorreggono l’affermazione i seguenti argomenti:

a) il cospicuo incremento, nella legislazione ordinaria, dei casi di espresso riconoscimento del risarcimento del danno non patrimoniale anche al di fuori dell’ipotesi di reato, in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7; L. n. 89 del 2001, art. 2, con conseguente ampliamento del rinvio effettuato dall’art. 2059 c.c., ai casi determinati dalla legge;

b) il riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione (a partire dalla sentenza n. 3675/1981) di quella peculiare figura di danno non patrimoniale, diverso dal danno morale soggettivo, che è il danno biologico, formula con la quale si designa la lesione dell’integrità psichica e fisica della persona;

c) l’estensione giurisprudenziale del risarcimento del danno non patrimoniale, evidentemente inteso come pregiudizio diverso dal danno morale soggettivo, anche in favore delle persone giuridiche (sent. n. 2367/2000);

d) l’esigenza di assicurare il risarcimento del danno non patrimoniale, anche in assenza di reato, nel caso di lesione di interessi di rango costituzionale, sia perchè in tal caso il risarcimento costituisce la forma minima di tutela, ed una tutela minima non è assoggettabile a limiti specifici, poichè ciò si risolve in rifiuto di tutela nei casi esclusi, sia perchè il rinvio ai casi in cui la legge consente il risarcimento del danno non patrimoniale ben può essere riferito, dopo l’entrata in vigore della Costituzione, anche alle previsioni della legge fondamentale, atteso che il riconoscimento nella Costituzione dei diritti inviolabili inerenti la persona non aventi natura economica implicitamente, ma necessariamente, ne esige la tutela, ed in tal modo configura un caso determinato dalla legge, al massimo livello, di risarcimento del danno non patrimoniale.

2.2. Queste Sezioni unite condividono e fanno propria la lettura, costituzionalmente orientata, data dalle sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 all’art. 2059 c.c., e la completano nei termini seguenti.

2.3. Il danno non patrimoniale di cui parla, nella rubrica e nel testo, l’art. 2059 c.c., si identifica con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

Il suo risarcimento postula la verifica della sussistenza degli elementi nei quali si articola l’illecito civile extracontrattuale definito dall’art. 2043 c.c..

L’art. 2059 c.c., non delinea una distinta fattispecie di illecito produttiva di danno non patrimoniale, ma consente la riparazione anche dei danni non patrimoniali, nei casi determinati dalla legge, nel presupposto della sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della struttura dell’illecito civile, che si ricavano dall’art. 2043 c.c. (e da altre norme, quali quelle che prevedono ipotesi di responsabilità oggettiva), elementi che consistono nella condotta, nel nesso causale tra condotta ed evento di danno, connotato quest’ultimo dall’ingiustizia, determinata dalla lesione, non giustificata, di interessi meritevoli di tutela, e nel danno che ne consegue (danno-conseguenza, secondo opinione ormai consolidata: Corte cost. n. 372/1994; S.U. n. 576, 581, 582, 584/2008).

2.4. L’art. 2059 c.c., è norma di rinvio. Il rinvio è alle leggi che determinano i casi di risarcibilità del danno non patrimoniale.

L’ambito della risarcibilità del danno non patrimoniale si ricava dall’individuazione delle norme che prevedono siffatta tutela.

2.5. Si tratta, in primo luogo, dell’art. 185 c.p., che prevede la risarcibilità del danno patrimoniale conseguente a reato (“Ogni reato, che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui”).

2.6. Altri casi di risarcimento anche dei danni non patrimoniali sono previsti da leggi ordinarie in relazione alla compromissione di valori personali (L. n. 117 del 1998, art. 2: danni derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati dall’esercizio di funzioni giudiziarie; L. n. 675 del 1996, art. 29, comma 9: impiego di modalità illecite nella raccolta di dati personali; D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 44, comma 7: adozione di atti discriminatori per motivi razziali, etnici o religiosi; L. n. 89 del 2001, art. 2: mancato rispetto del termine ragionevole di durata del processo).

2.7. Al di fuori dei casi determinati dalla legge, in virtù del principio della tutela minima risarcitoria spettante ai diritti costituzionali inviolabili, la tutela è estesa ai casi di danno non patrimoniale prodotto dalla lesione di diritti inviolabili della persona riconosciuti dalla Costituzione.

Per effetto di tale estensione, va ricondotto nell’ambito dell’art. 2059 c.c., il danno da lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost.) denominato danno biologico, del quale è data, dal D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, specifica definizione normativa (sent. n. 15022/2005; n. 23918/2006). In precedenza, come è noto, la tutela del danno biologico era invece apprestata grazie al collegamento tra l’art. 2043 c.c. e l’art. 32 Cost. (come ritenuto da Corte Cost. n. 184/1986), per sottrarla al limite posto dall’art. 2059 c.c., norma nella quale avrebbe ben potuto sin dall’origine trovare collocazione (come ritenuto dalla successiva sentenza della Corte n. 372/1994 per il danno biologico fisico o psichico sofferto dal congiunto della vittima primaria).

Trova adeguata collocazione nella norma anche la tutela riconosciuta ai soggetti che abbiano visto lesi i diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.) (sent. n. 8827 e n. 8828/2003, concernenti la fattispecie del danno da perdita o compromissione del rapporto parentale nel caso di morte o di procurata grave invalidità del congiunto).

Eguale sorte spetta al danno conseguente alla violazione del diritto alla reputazione, all’immagine, al nome, alla riservatezza, diritti inviolabili della persona incisa nella sua dignità, preservata dagli artt. 2 e 3 Cost. (sent. n. 25157/2008).

2.8. La rilettura costituzionalmente orientata dell’art. 2959 c.c., come norma deputata alla tutela risarcitoria del danno non patrimoniale inteso nella sua più ampia accezione, riporta il sistema della responsabilità aquiliana nell’ambito della bipolarità prevista dal vigente codice civile tra danno patrimoniale (art. 2043 c.c.) e danno non patrimoniale (art. 2059 c.c.) (sent. n. 8827/2003; n. 15027/2005; n. 23918/2006).

Sul piano della struttura dell’illecito, articolata negli elementi costituiti dalla condotta, dal nesso causale tra questa e l’evento dannoso, e dal danno che da quello consegue (danno-conseguenza), le due ipotesi risarcitorie si differenziano in punto di evento dannoso, e cioè di lesione dell’interesse protetto.

Sotto tale aspetto, il risarcimento del danno patrimoniale da fatto illecito è connotato da atipicità, postulando l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c., la lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante (sent. 500/1999), mentre quello del danno non patrimoniale è connotato da tipicità, perchè tale danno è risarcibile solo nei casi determinati dalla legge e nei casi in cui sia cagionato da un evento di danno consistente nella lesione di specifici diritti inviolabili della persona (sent. n. 15027/2005; n. 23918/2006).

2.9. La risarcibilità del danno non patrimoniale postula, sul piano dell’ingiustizia del danno, la selezione degli interessi dalla cui lesione consegue il danno. Selezione che avviene a livello normativo, negli specifici casi determinati dalla legge, o in via di interpretazione da parte del giudice, chiamato ad individuare la sussistenza, alla stregua della Costituzione, di uno specifico diritto inviolabile della persona necessariamente presidiato dalla minima tutela risarcitoria.

2.10. Nell’ipotesi in cui il fatto illecito si configuri (anche solo astrattamente: S.U. n. 6651/1982) come reato, è risarcibile il danno non patrimoniale, sofferto dalla persona offesa e dagli ulteriori eventuali danneggiati (nel caso di illecito plurioffensivo: sent. n. 4186/1998; S.U. n. 9556/2002), nella sua più ampia accezione di danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica.

La limitazione alla tradizionale figura del c.d. danno morale soggettivo transeunte va definitivamente superata. La figura, recepita per lungo tempo dalla pratica giurisprudenziale, aveva fondamento normativo assai dubbio, poichè nè l’art. 2059 c.c., nè l’art. 185 c.p., parlano di danno morale, e tantomeno lo dicono rilevante solo se sia transitorio, ed era carente anche sul piano della adeguatezza della tutela, poichè la sofferenza morale cagionata dal reato non è necessariamente transeunte, ben potendo l’effetto penoso protrarsi anche per lungo tempo (lo riconosceva quella giurisprudenza che, nel caso di morte del soggetto danneggiato nel corso del processo, commisurava il risarcimento sia del danno biologico che di quello morale, postulandone la permanenza, al tempo di vita effettiva: n. 19057/2003; n. 3806/2004; n. 21683/2005).

Va conseguentemente affermato che, nell’ambito della categoria generale del danno non patrimoniale, la formula “danno morale” non individua una autonoma sottocategoria di danno, ma descrive, tra i vari possibili pregiudizi non patrimoniali, un tipo di pregiudizio, costituito dalla sofferenza soggettiva cagionata dal reato in sè considerata. Sofferenza la cui intensità e durata nel tempo non assumono rilevanza ai fini della esistenza del danno, ma solo della quantificazione del risarcimento.

In ragione della ampia accezione del danno non patrimoniale, in presenza del reato è risarcibile non soltanto il danno non patrimoniale conseguente alla lesione di diritti costituzionalmente inviolabili (come avverrà, nel caso del reato di lesioni colpose, ove si configuri danno biologico per la vittima, o nel caso di uccisione o lesione grave di congiunto, determinante la perdita o la compromissione del rapporto parentale), ma anche quello conseguente alla lesione di interessi inerenti la persona non presidiati da siffatti diritti, ma meritevoli di tutela in base all’ordinamento (secondo il criterio dell’ingiustizia ex art. 2043 c.c.), poichè la tipicità, in questo caso, non è determinata soltanto dal rango dell’interesse protetto, ma in ragione della scelta del legislatore di dire risarcibili i danni non patrimoniali cagionati da reato.

Scelta che comunque implica la considerazione della rilevanza dell’interesse leso, desumibile dalla predisposizione della tutela penale.

2.11. Negli altri casi determinati dalla legge la selezione degli interessi è già compiuta dal legislatore. Va notato che, nei casi previsti da leggi vigenti richiamati in precedenza, il risarcimento è collegato alla lesione di diritti inviolabili della persona: alla libertà personale, alla riservatezza, a non subire discriminazioni.

Non può tuttavia ritenersi precluso al legislatore ampliare il catalogo dei casi determinati dalla legge ordinaria prevedendo la tutela risarcitoria non patrimoniale anche in relazione ad interessi inerenti la persona non aventi il rango costituzionale di diritti inviolabili, privilegiandone taluno rispetto agli altri (Corte Cost. n. 87/1979).

Situazione che non ricorre in relazione ai diritti predicati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955, quale risulta dai vari Protocolli susseguitisi, ai quali non spetta il rango di diritti costituzionalmente protetti, poichè la Convenzione, pur essendo dotata di una natura che la distingue dagli obblighi nascenti da altri Trattati internazionali, non assume, in forza dell’art. 11 Cost., il rango di fonte costituzionale, nè può essere parificata, a tali fini, all’efficacia del diritto comunitario nell’ordinamento interno (Corte Cost. n. 348/2007).

2.12. Fuori dai casi determinati dalla legge è data tutela risarcitoria al danno non patrimoniale solo se sia accertata la lesione di un diritto inviolabile della persona: deve sussistere una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

2.13. In tali ipotesi non emergono, nell’ambito della categoria generale “danno non patrimoniale”, distinte sottocategorie, ma si concretizzano soltanto specifici casi determinati dalla legge, al massimo livello costituito dalla Costituzione, di riparazione del danno non patrimoniale.

E’ solo a fini descrittivi che, in dette ipotesi, come avviene, ad esempio, nel caso di lesione del diritto alla salute (art. 32 Cost.), si impiega un nome, parlando di danno biologico. Ci si riferisce in tal modo ad una figura che ha avuto espresso riconoscimento normativo nel D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139, recante il Codice delle assicurazioni private, che individuano il danno biologico nella “lesione temporanea o permanente all’integrità psicofisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di reddito”, e ne danno una definizione suscettiva di generale applicazione, in quanto recepisce i risultati ormai definitivamente acquisiti di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale.

Ed è ancora a fini descrittivi che, nel caso di lesione dei diritti della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), si utilizza la sintetica definizione di danno da perdita del rapporto parentale.

In tal senso, e cioè come mera sintesi descrittiva, vanno intese le distinte denominazioni (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale) adottate dalle sentenze gemelle del 2003, e recepite dalla sentenza, n. 233/2003 della Corte Costituzionale.

Le menzionate sentenze, d’altra parte, avevano avuto cura di precisare che non era proficuo ritagliare all’interno della generale categoria del danno non patrimoniale specifiche figure di danno, etichettandole in vario modo (n. 8828/2003), e di rilevare che la lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., doveva essere riguardata non già come occasione di incremento delle poste di danno (e mai come strumento di duplicazione del risarcimento degli stessi pregiudizi), ma come mezzo per colmare le lacune della tutela risarcitoria della persona (n. 8827/2003). Considerazioni che le Sezioni unite condividono.

2.14. Il catalogo dei casi in tal modo determinati non costituisce numero chiuso.

La tutela non è ristretta ai casi di diritti inviolabili della persona espressamente riconosciuti dalla Costituzione nel presente momento storico, ma, in virtù dell’apertura dell’art. 2 Cost., ad un processo evolutivo, deve ritenersi consentito all’interprete rinvenire nel complessivo sistema costituzionale indici che siano idonei a valutare se nuovi interessi emersi nella realtà sociale siano, non genericamente rilevanti per l’ordinamento, ma di rango costituzionale attenendo a posizioni inviolabili della persona umana.

3. Si pone ora la questione se, nell’ambito della tutela risarcitoria del danno non patrimoniale, possa inserirsi, come categoria autonoma, il c.d. danno esistenziale.

3.1. Secondo una tesi elaborata in dottrina nei primi anni ’90 il danno esistenziale era inteso come pregiudizio non patrimoniale, distinto dal danno biologico (all’epoca risarcito nell’ambito dell’art. 2043 c.c., in collegamento con l’art. 32 Cost.), in assenza di lesione dell’integrità psicofisica, e dal c.d. danno morale soggettivo (unico danno non patrimoniale risarcibile, in presenza di reato, secondo la tradizionale lettura restrittiva dell’art. 2059 c.c., in collegamento all’art. 185 c.p.), in quanto non attinente alla sfera interiore del sentire, ma alla sfera del fare non reddituale del soggetto.

Tale figura di danno nasceva dal dichiarato intento di ampliare la tutela risarcitoria per i pregiudizi di natura non patrimoniale incidenti sulla persona, svincolandola dai limiti dell’art. 2059 c.c., e seguendo la via, già percorsa per il danno biologico, di operare nell’ambito dell’art. 2043 c.c., inteso come norma regolatrice del risarcimento non solo del danno patrimoniale, ma anche di quello non patrimoniale concernente la persona.

Si affermava che, nel caso in cui il fatto illecito limita le attività realizzatrici della persona umana, obbligandola ad adottare nella vita di tutti i giorni comportamenti diversi da quelli passati, si realizza un nuovo tipo di danno (rispetto al danno morale soggettivo ed al danno biologico) definito con l’espressione “danno esistenziale”.

Il pregiudizio era individuato nella alterazione della vita di relazione, nella perdita della qualità della vita, nella compromissione della dimensione esistenziale della persona.

Pregiudizi diversi dal patimento intimo, costituente danno morale soggettivo, perchè non consistenti in una sofferenza, ma nel non poter più fare secondo i modi precedentemente adottati, e non integranti danno biologico, in assenza di lesione all’integrità psicofisica.

3.2. Va rilevato che, già nel quadro dell’art. 2043 c.c., nel quale veniva inserito, la nuova figura di danno si risolveva nella descrizione di un pregiudizio di tipo esistenziale (il peggioramento della qualità della vita, l’alterazione del fare non reddituale), non accompagnata dalla necessaria individuazione, ai fini del requisito dell’ingiustizia del danno, di quale fosse l’interesse giuridicamente rilevante leso dal fatto illecito, e l’insussistenza della lesione di un interesse siffatto era ostativa all’ammissione a risarcimento.

Di siffatta carenza, non percepita dalla giurisprudenza di merito, mostratasi favorevole ad erogare tutela risarcitoria al danno così descritto (danno-conseguenza) senza svolgere indagini sull’ingiustizia del danno (per lesione dell’interesse), è stata invece avvertita questa Corte, in varie pronunce precedenti alle sentenze gemelle del 2003.

La sentenza n. 7713/2000, pur discorrendo di danno esistenziale, ed impiegando il collegamento tra art. 2043 c.c., e norme della Costituzione (nella specie gli artt. 29 e 30), analogamente a quanto all’epoca avveniva per il danno biologico, ravvisò il fondamento della tutela nella lesione del diritto costituzionalmente protetto del figlio all’educazione ed all’istruzione, integrante danno-evento.

La decisione non sorregge quindi la tesi che vede il danno esistenziale come categoria generale e lo dice risarcibile indipendentemente dall’accertata lesione di un interesse rilevante.

La menzione del danno esistenziale si rinviene anche nella sentenza n. 4783/2001, che ha definito esistenziale la sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche (e quindi in presenza di reato), alle quali era seguita dopo breve tempo la morte, ed era rimasta lucida durante l’agonia, e riconosciuto il risarcimento del danno agli eredi della vittima. La decisione non conforta la teoria del danno esistenziale. Nel quadro di una costante giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per le perdita della vita (sent. n. 1704/1997, n. 491/1999, n. 13336/1999, n. 887/2002, n. 517/2006), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile (sent. n. 6404/1998, n. 9620/2003, n. 4754/2004, n. 15404/2004), ed a questo lo commisura, la sentenza persegue lo scopo di riconoscere il risarcimento, a diverso titolo, delle sofferenze coscientemente patite in quel breve intervallo. Viene qui in considerazione il tema della risarcibilità della sofferenza psichica, di massima intensità anche se di durata contenuta, nel caso di morte che segua le lesioni dopo breve tempo. Sofferenza che, non essendo suscettibile di degenerare in danno biologico, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, non può che essere risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione. Nè, d’altra parte, può in questa sede essere rimeditato il richiamato indirizzo giurisprudenziale, non essendosi manifestato in questa Corte un argomentato dissenso.

In tema di danno da irragionevole durata del processo (L. n. 89 del 2001, art. 2) la sentenza n. 15449/2002, ha espressamente negato la distinta risarcibilità del pregiudizio esistenziale, in quanto costituente solo una “voce” del danno non patrimoniale, risarcibile per espressa previsione di legge.

Altre decisioni hanno riconosciuto, nell’ambito del rapporto di lavoro (e quindi in tema di responsabilità contrattuale, ponendo questione sulla quale si tornerà più avanti), il danno esistenziale da mancato godimento del riposo settimanale (sent. n. 9009/2001) e da demansionamento (sent. n. 8904/2003), ravvisando nei detti casi la lesione di diritti fondamentali del lavoratore, e quindi ricollegando la risarcibilità ad una ingiustizia costituzionalmente qualificata.

Al danno esistenziale era dato ampio spazio dai giudici di pace, in relazione alle più fantasiose, ed a volte risibili, prospettazioni di pregiudizi suscettivi di alterare il modo di esistere delle persone: la rottura del tacco di una scarpa da sposa, l’errato taglio di capelli, l’attesa stressante in aeroporto, il disservizio di un ufficio pubblico, l’invio di contravvenzioni illegittime, la morte dell’animale di affezione, il maltrattamento di animali, il mancato godimento della partita di calcio per televisione determinato dal black-out elettrico. In tal modo si risarcivano pregiudizi di dubbia serietà, a prescindere dall’individuazione dell’interesse leso, e quindi del requisito dell’ingiustizia.

3.3. Questi erano dunque i termini nei quali viveva, nelle opinioni della dottrina e nelle applicazioni della giurisprudenza, la figura del danno esistenziale.

Dopo che le sentenze n. 8827 e n. 8828/2003 hanno fissato il principio, condiviso da queste Sezioni unite, secondo cui, in virtù di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., unica norma disciplinante il risarcimento del danno non patrimoniale, la tutela risarcitoria di questo danno è data, oltre che nei casi determinati dalla legge, solo nel caso di lesione di specifici diritti inviolabili della persona, e cioè in presenza di una ingiustizia costituzionalmente qualificata, di danno esistenziale come autonoma categoria di danno non è più dato discorrere.

3.4. Come si è ricordato, la figura del danno esistenziale era stata proposta nel dichiarato intento di supplire ad un vuoto di tutela, che ormai più non sussiste.

3.4.1. In presenza di reato, superato il tradizionale orientamento che limitava il risarcimento al solo danno morale soggettivo, identificato con il patema d’animo transeunte, ed affermata la risarcibilità del danno non patrimoniale nella sua più ampia accezione, anche il pregiudizio non patrimoniale consistente nel non poter fare (ma sarebbe meglio dire: nella sofferenza morale determinata dal non poter fare) è risarcibile.

La tutela risarcitoria sarà riconosciuta se il pregiudizio sia conseguenza della lesione almeno di un interesse giuridicamente protetto, desunto dall’ordinamento positivo, ivi comprese le convenzioni internazionali (come la già citata Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, ratificata con la L. n. 88 del 1955), e cioè purchè sussista il requisito dell’ingiustizia generica secondo l’art. 2043 c.c.. E la previsione della tutela penale costituisce sicuro indice della rilevanza dell’interesse leso.

3.4.2. In assenza di reato, e al di fuori dei casi determinati dalla legge, pregiudizi di tipo esistenziale sono risarcibili purchè conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona.

Ipotesi che si realizza, ad esempio, nel caso dello sconvolgimento della vita familiare provocato dalla perdita di congiunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), poichè il pregiudizio di tipo esistenziale consegue alla lesione dei diritti inviolabili della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.).

In questo caso, vengono in considerazione pregiudizi che, in quanto attengono all’esistenza della persona, per comodità di sintesi possono essere descritti e definiti come esistenziali, senza che tuttavia possa configurarsi una autonoma categoria di danno.

Altri pregiudizi di tipo esistenziale attinenti alla sfera relazionale della persona, ma non conseguenti a lesione psicofisica, e quindi non rientranti nell’ambito del danno biologico (comprensivo, secondo giurisprudenza ormai consolidata, sia del c.d. “danno estetico” che del c.d. “danno alla vita di relazione”), saranno risarcibili purchè siano conseguenti alla lesione di un diritto inviolabile della persona diverso dal diritto alla integrità psicofisica.

Ipotesi che si verifica nel caso (esaminato dalla sentenza n. 6607/1986) dell’illecito che, cagionando ad una persona coniugata l’impossibilità di rapporti sessuali è immediatamente e direttamente lesivo del diritto dell’altro coniuge a tali rapporti, quale diritto-dovere reciproco, inerente alla persona, strutturante, insieme agli altri diritti-doveri reciproci, il rapporto di coniugio.

Nella fattispecie il pregiudizio è conseguente alla violazione dei diritti inviolabili della famiglia spettanti al coniuge del soggetto leso nella sua integrità psicofisica.

3.5. Il pregiudizio di tipo esistenziale, per quanto si è detto, è quindi risarcibile solo entro il limite segnato dalla ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento di danno. Se non si riscontra lesione di diritti costituzionalmente inviolabili della persona non è data tutela risarcitoria.

Per superare tale limitazione, è stata prospettata la tesi secondo cui la rilevanza costituzionale non deve attenere all’interesse leso, bensì al pregiudizio sofferto. Si sostiene che, incidendo il pregiudizio di tipo esistenziale, consistente nell’alterazione del fare non reddituale, sulla sfera della persona, per ciò soltanto ad esso va riconosciuta rilevanza costituzionale, senza necessità di indagare la natura dell’interesse leso e la consistenza della sua tutela costituzionale.

La tesi pretende di vagliare la rilevanza costituzionale con riferimento al tipo di pregiudizio, cioè al danno-conseguenza, e non al diritto leso, cioè all’evento dannoso, in tal modo confonde il piano del pregiudizio da riparare con quello dell’ingiustizia da dimostrare, e va disattesa.

Essa si risolve sostanzialmente nell’abrogazione surrettizia dell’art. 2059 c.c., nella sua lettura costituzionalmente orientata, perchè cancella la persistente limitazione della tutela risarcitoria (al di fuori dei casi determinati dalla legge) ai casi in cui il danno non patrimoniale sia conseguenza della lesione di un diritto inviolabile della persona, e cioè in presenza di ingiustizia costituzionalmente qualificata dell’evento dannoso.

3.6. Ulteriore tentativo di superamento dei limiti segnati dalla lettura costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., è incentrato sull’assunto secondo cui il danno esistenziale non si identifica con la lesione di un bene costituzionalmente protetto, ma può scaturire dalla lesione di qualsiasi bene giuridicamente rilevante.

La tesi è inaccettabile, in quanto si risolve nel ricondurre il preteso danno sotto la disciplina dell’art. 2043 c.c., dove il risarcimento è dato purchè sia leso un interesse genericamente rilevante per l’ordinamento, contraddicendo l’affermato principio della tipicità del danno non patrimoniale.

E non è prospettabile illegittimità costituzionale dell’art. 2059 c.c., come rinvigorito da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003, in quanto non ammette a risarcimento, al di fuori dei casi previsti dalla legge (reato ed ipotesi tipiche), i pregiudizi non patrimoniali conseguenti alla lesione non di diritti inviolabili, ma di interessi genericamente rilevanti, poichè la tutela risarcitoria minima ed insopprimibile vale soltanto per la lesione dei diritti inviolabili (Corte Cost. n. 87/1979).

3.7. Il superamento dei limiti alla tutela risarcitoria dei danni non patrimoniali, che permangono, nei termini suesposti, anche dopo la rilettura conforme a Costituzione dell’art. 2059 c.c., può derivare da una norma comunitaria che preveda il risarcimento del danno non patrimoniale senza porre limiti, in ragione della prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno.

Va ricordato che l’effetto connesso alla vigenza di norma comunitaria è quello non già di caducare, nell’accezione propria del termine, la norma interna incompatibile, bensì di impedire che tale norma venga in rilievo per la definizione della controversia innanzi al giudice nazionale (Corte cost. n. 170/1984; S.U. n. 1512/1998; Cass. n. 4466/2005).

3.8. Queste Sezioni unite, con la sentenza n. 6572/2006, trattando il tema del riparto degli oneri probatori in tema di riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale biologico o esistenziale da demansionamento o dequalificazione, nell’ambito del rapporto di lavoro, hanno definito il danno esistenziale, come ogni pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile, provocato sul fare areddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini di vita e gli assetti relazionali che gli erano propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto alla espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. La pronuncia è stata seguita da altre sentenze (n. 4260/2007; n. 5221/2007; n. 11278/2007; n. 26561/2007).

Non sembra tuttavia che tali decisioni, che si muovono nell’ambito della affermata natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro (così ponendo la più ampia questione della risarcibilità del danno non patrimoniale da inadempimento di obbligazioni, che sarà trattata più avanti e positivamente risolta), confortino la tesi di quanti configurano il danno esistenziale come autonoma categoria, destinata ad assumere rilievo anche al di fuori dell’ambito del rapporto di lavoro.

Le menzionate sentenze individuano specifici pregiudizi di tipo esistenziale da violazioni di obblighi contrattuali nell’ambito del rapporto di lavoro. In particolare, dalla violazione dell’obbligo dell’imprenditore di tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore (art. 2087 c.c.). Vengono in considerazione diritti della persona del lavoratore che, già tutelati dal codice del 1942, sono assurti in virtù della Costituzione, grazie all’art. 32 Cost., quanto alla tutela dell’integrità fisica, ed agli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., quanto alla tutela della dignità personale del lavoratore, a diritti inviolabili, la cui lesione da luogo a risarcimento dei pregiudizi non patrimoniali, di tipo esistenziale, da inadempimento contrattuale. Si verte, in sostanza, in una ipotesi di risarcimento di danni non patrimoniali in ambito contrattuale legislativamente prevista.

3.9. Palesemente non meritevoli dalla tutela risarcitoria, invocata a titolo di danno esistenziale, sono i pregiudizi consistenti in disagi, fastidi, disappunti, ansie ed in ogni altro tipo di insoddisfazione concernente gli aspetti più disparati della vita quotidiana che ciascuno conduce nel contesto sociale, ai quali ha prestato invece tutela la giustizia di prossimità.

Non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva il diritto ad essere felici.

Al di fuori dei casi determinati dalla legge ordinaria, solo la lesione di un diritto inviolabile della persona concretamente individuato è fonte di responsabilità risarcitoria non patrimoniale.

In tal senso, per difetto dell’ingiustizia costituzionalmente qualificata, è stato correttamente negato il risarcimento ad una persona che si affermava “stressata” per effetto dell’istallazione di un lampione a ridosso del proprio appartamento per la compromissione della serenità e sicurezza, sul rilievo che i menzionati interessi non sono presidiati da diritti di rango costituzionale (sent. n. 3284/2008).

E per eguale ragione non è stato ammesso a risarcimento il pregiudizio sofferto per la perdita di un animale (un cavallo da corsa) incidendo la lesione su un rapporto, tra l’uomo e l’animale, privo, nell’attuale assetto dell’ordinamento, di copertura costituzionale (sent. n. 14846/2007).

3.10. Il risarcimento di pretesi danni esistenziali è stato frequentemente richiesto ai giudici di pace ed ha dato luogo alla proliferazione delle c.d. liti bagatellari.

Con tale formula si individuano le cause risarcitorie in cui il danno consequenziale è futile o irrisorio, ovvero, pur essendo oggettivamente serio, è tuttavia, secondo la coscienza sociale, insignificante o irrilevante per il livello raggiunto.

In entrambi i casi deve sussistere la lesione dell’interesse in termini di ingiustizia costituzionalmente qualificata, restando diversamente esclusa in radice (al dei fuori dei casi previsti dalla legge) l’invocabilità dell’art. 2059 c.c..

La differenza tra i due casi è data dal fatto che nel primo, nell’ambito dell’area del danno-conseguenza del quale è richiesto il ristoro è allegato un pregiudizio esistenziale futile, non serio (non poter più urlare allo stadio, fumare o bere alcolici), mentre nel secondo è l’offesa arrecata che è priva di gravità, per non essere stato inciso il diritto oltre una soglia minima: come avviene nel caso del graffio superficiale dell’epidermide, del mal di testa per una sola mattinata conseguente ai fumi emessi da una fabbrica, dal disagio di poche ore cagionato dall’impossibilità di uscire di casa per l’esecuzione di lavori stradali di pari durata (in quest’ultimo caso non è leso un diritto inviolabile, non spettando tale rango al diritto alla libera circolazione di cui all’art. 16 Cost., che può essere limitato per varie ragioni).

3.11. La gravità dell’offesa costituisce requisito ulteriore per l’ammissione a risarcimento dei danni non patrimoniali alla persona conseguenti alla lesione di diritti costituzionali inviolabili.

Il diritto deve essere inciso oltre una certa soglia minima, cagionando un pregiudizio serio. La lesione deve eccedere una certa soglia di offensività, rendendo il pregiudizio tanto serio da essere meritevole di tutela in un sistema che impone un grado minimo di tolleranza.

Il filtro della gravità della lesione e della serietà del danno attua il bilanciamento tra il principio di solidarietà verso la vittima, e quello di tolleranza, con la conseguenza che il risarcimento del danno non patrimoniale è dovuto solo nel caso in cui sia superato il livello di tollerabilità ed il pregiudizio non sia futile. Pregiudizi connotati da futilità ogni persona inserita nel complesso contesto sociale li deve accettare in virtù del dovere della tolleranza che la convivenza impone (art. 2 Cost.).

Entrambi i requisiti devono essere accertati dal giudice secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico (criterio sovente utilizzato in materia di lavoro, sent. n. 17208/2002; n. 9266/2005, o disciplinare, S.U. n. 16265/2002).

3.12. I limiti fissati dall’art. 2059 c.c., non possono essere ignorati dal giudice di pace nelle cause di valore non superiore ad euro millecento, in cui decide secondo equità.

La norma, nella lettura costituzionalmente orientata accolta da queste Sezioni unite, in quanto pone le regole generali della tutela risarcitoria non patrimoniale, costituisce principio informatore della materia in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, che il giudice di pace, nelle questioni da decidere secondo equità, deve osservare (Corte Cost. n. 206/2004).

3.13. In conclusione, deve ribadirsi che il danno non patrimoniale è categoria generale non suscettiva di suddivisione in sottocategorie variamente etichettate. In particolare, non può farsi riferimento ad una generica sottocategoria denominata “danno esistenziale”, perchè attraverso questa si finisce per portare anche il danno non patrimoniale nell’atipicità, sia pure attraverso l’individuazione della apparente tipica figura categoriale del danno esistenziale, in cui tuttavia confluiscono fattispecie non necessariamente previste dalla norma ai fini della risarcibilità di tale tipo di danno, mentre tale situazione non è voluta dal legislatore ordinario nè è necessitata dall’interpretazione costituzionale dell’art. 2059 c.c., che rimane soddisfatta dalla tutela risarcitoria di specifici valori della persona presidiati da diritti inviolabili secondo Costituzione (principi enunciati dalle sentenze n. 15022/2005, n. 11761/2006, n. 23918/2006, che queste Sezioni unite fanno propri).

3.14. Le considerazioni svolte valgono a dare risposta negativa a tutti i quesiti, in quanto postulanti la sussistenza della autonoma categoria del danno esistenziale.

4. Il danno non patrimoniale conseguente all’inadempimento delle obbligazioni, secondo l’opinione prevalente in dottrina ed in giurisprudenza, non era ritenuto risarcibile.

L’ostacolo era ravvisato nella mancanza, nella disciplina della responsabilità contrattuale, di una norma analoga all’art. 2059 c.c., dettato in materia di fatti illeciti.

Per aggirare l’ostacolo, nel caso in cui oltre all’inadempimento fosse configurabile lesione del principio del neminem laedere, la giurisprudenza aveva elaborato la teoria del cumulo delle azioni, contrattuale ed extracontrattuale (sent. n. 2975/1968, seguita dalla n. 8656/1996, nel caso del trasportato che abbia subito lesioni nell’esecuzione del contratto di trasporto; sent. n. 8331/2001, in materia di tutela del lavoratore).

A parte il suo dubbio fondamento dogmatico (contestato in dottrina), la tesi non risolveva la questione del risarcimento del danno non patrimoniale in senso lato, poichè lo riconduceva, in relazione all’azione extracontrattuale, entro i ristretti limiti dell’art. 2059 c.c., in collegamento con l’art. 185 c.p., sicchè il risarcimento era condizionato alla qualificazione del fatto illecito come reato ed era comunque ristretto al solo danno morale soggettivo.

Dalle strettoie dell’art. 2059 c.c., si sottraeva il danno biologico, azionato in sede di responsabilità aquiliana, grazie al suo inserimento nell’art. 2043 c.c. (Corte Cost. n. 184/1986).

4.1. L’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 2059 c.c., consente ora di affermare che anche nella materia della responsabilità contrattuale è dato il risarcimento dei danni non patrimoniali.

Dal principio del necessario riconoscimento, per i diritti inviolabili della persona, della minima tutela costituita dal risarcimento, consegue che la lesione dei diritti inviolabili della persona che abbia determinato un danno non patrimoniale comporta l’obbligo di risarcire tale danno, quale che sia la fonte della responsabilità, contrattuale o extracontrattuale.

Se l’inadempimento dell’obbligazione determina, oltre alla violazione degli obblighi di rilevanza economica assunti con il contratto, anche la lesione di un diritto inviolabile della persona del creditore, la tutela risarcitoria del danno non patrimoniale potrà essere versata nell’azione di responsabilità contrattuale, senza ricorrere all’espediente del cumulo di azioni.

4.2. Che interessi di natura non patrimoniale possano assumere rilevanza nell’ambito delle obbligazioni contrattuali, è confermato dalla previsione dell’art. 1174 c.c., secondo cui la prestazione che forma oggetto dell’obbligazione deve essere suscettibile di valutazione economica e deve corrispondere ad un interesse, anche non patrimoniale, del creditore.

L’individuazione, in relazione alla specifica ipotesi contrattuale, degli interessi compresi nell’area del contratto che, oltre a quelli a contenuto patrimoniale, presentino carattere non patrimoniale, va condotta accertando la causa concreta del negozio, da intendersi come sintesi degli interessi reali che il contratto stesso è diretto a realizzare, al di là del modello, anche tipico, adoperato; sintesi, e dunque ragione concreta, della dinamica contrattuale (come condivisibilmente affermato dalla sentenza n. 10490/2006).

4.3. Vengono in considerazione, anzitutto, i c.d. contratti di protezione, quali sono quelli che si concludono nel settore sanitario. In questi gli interessi da realizzare attengono alla sfera della salute in senso ampio, di guisa che l’inadempimento del debitore è suscettivo di ledere diritti inviolabili della persona cagionando pregiudizi non patrimoniali.

In tal senso si esprime una cospicua giurisprudenza di questa Corte, che ha avuto modo di inquadrare nell’ambito della responsabilità contrattuale la responsabilità del medico e della struttura sanitaria (sent. n. 589/1999 e successive conformi, che, quanto alla struttura, hanno applicato il principio della responsabilità da contatto sociale qualificato), e di riconoscere tutela, oltre al paziente, a soggetti terzi, ai quali si estendono gli effetti protettivi del contratto, e quindi, oltre alla gestante, al nascituro, subordinatamente alla nascita (sent. n. 11503/1003; n. 5881/2000); ed al padre, nel caso di omessa diagnosi di malformazioni del feto e conseguente nascita indesiderata (sent. n. 6735/2002; n. 14488/2004; n. 20320/2005).

I suindicati soggetti, a seconda dei casi, avevano subito la lesione del diritto inviolabile alla salute (art. 32 Cost., comma 1), sotto il profilo del danno biologico sia fisico che psichico (sent. n. 1511/2007); del diritto inviolabile all’autodeterminazione (art. 32 Cost., comma 2, e art. 13 Cost.), come nel caso della gestante che, per errore diagnostico, non era stata posta in condizione di decidere se interrompere la gravidanza (sent. n. 6735/2002 e conformi citate), e nei casi di violazione dell’obbligo del consenso informato (sent. n. 544/2006); dei diritti propri della famiglia (artt. 2, 29 e 30 Cost.), come nel caso di cui alle sentenze n. 6735/2002 e conformi citate.

4.4. Costituisce contratto di protezione anche quello che intercorre tra l’allievo e l’istituto scolastico. In esso, che trova la sua fonte nel contatto sociale (S.U. n. 9346/2002; sent. n. 8067/2007), tra gli interessi non patrimoniali da realizzare rientra quello alla integrità fisica dell’allievo, con conseguente risarcibilità del danno non patrimoniale da autolesione (sentenze citate).

4.5. L’esigenza di accertare se, in concreto, il contratto tenda alla realizzazione anche di interessi non patrimoniali, eventualmente presidiati da diritti inviolabili della persona, viene meno nel caso in cui l’inserimento di interessi siffatti nel rapporto sia opera della legge.

E’ questo il caso del contratto di lavoro. L’art. 2087 c.c. (“L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”), inserendo nell’area del rapporto di lavoro interessi non suscettivi di valutazione economica (l’integrità fisica e la personalità morale) già implicava che, nel caso in cui l’inadempimento avesse provocato la loro lesione, era dovuto il risarcimento del danno non patrimoniale.

Il presidio dei detti interessi della persona ad opera della Costituzione, che li ha elevati a diritti inviolabili, ha poi rinforzato la tutela. Con la conseguenza che la loro lesione è suscettiva di dare luogo al risarcimento dei danni conseguenza, sotto il profilo della lesione dell’integrità psicofisica (art. 32 Cost.) secondo le modalità del danno biologico, o della lesione della dignità personale del lavoratore (artt. 2, 4, 32 Cost.), come avviene nel caso dei pregiudizi alla professionalità da dequalificazione, che si risolvano nella compromissione delle aspettative di sviluppo della personalità del lavoratore che si svolge nella formazione sociale costituita dall’impresa.

Nell’ipotesi da ultimo considerata si parla, nella giurisprudenza di questa Corte (sent. n. 6572/2006), di danno esistenziale. Definizione che ha valenza prevalentemente nominalistica, poichè i danni- conseguenza non patrimoniali che vengono in considerazione altro non sono che pregiudizi attinenti alla svolgimento della vita professionale del lavoratore, e quindi danni di tipo esistenziale, ammessi a risarcimento in virtù della lesione, in ambito di responsabilità contrattuale, di diritti inviolabili e quindi di ingiustizia costituzionalmente qualificata.

4.6. Quanto al contratto di trasporto, la tutela dell’integrità fisica del trasportato è compresa tra le obbligazioni del vettore, che risponde dei sinistri che colpiscono la persona del viaggiatore durante il viaggio (art. 1681 c.c.).

Il vettore è quindi obbligato a risarcire a titolo di responsabilità contrattuale il danno biologico riportato nel sinistro dal viaggiatore. Ove ricorra ipotesi di inadempimento-reato (lesioni colpose), varranno i principi enunciati con riferimento all’ipotesi del danno non patrimoniale da reato, anche in relazione all’ipotesi dell’illecito plurioffensivo, e sarà dato il risarcimento del danno non patrimoniale nella sua ampia accezione.

4.7. Nell’ambito della responsabilità contrattuale il risarcimento sarà regolato dalle norme dettate in materia, da leggere in senso costituzionalmente orientato.

L’art. 1218 c.c., nella parte in cui dispone che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento del danno, non può quindi essere riferito al solo danno patrimoniale, ma deve ritenersi comprensivo del danno non patrimoniale, qualora l’inadempimento abbia determinato lesione di diritti inviolabili della persona. Ed eguale più ampio contenuto va individuato nell’art. 1223 c.c., secondo cui il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta, riconducendo tra le perdite e le mancate utilità anche i pregiudizi non patrimoniali determinati dalla lesione dei menzionati diritti.

D’altra parte, la tutela risarcitoria dei diritti inviolabili, lesi dall’inadempimento di obbligazioni, sarà soggetta al limite di cui all’art. 1225 c.c. (non operante in materia di responsabilità da fatto illecito, in difetto di richiamo nell’art. 2056 c.c.), restando, al di fuori dei casi di dolo, limitato il risarcimento al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui l’obbligazione è sorta.

Il rango costituzionale dei diritti suscettivi di lesione rende nulli i patti di esonero o limitazione della responsabilità, ai sensi dell’art. 1229 c.c., comma 2 (E’ nullo qualsiasi patto preventivo di esonero o di limitazione della responsabilità per i casi in cui il fatto del debitore o dei suoi ausiliari costituisca violazione di obblighi derivanti da norme di ordine pubblico).

Varranno le specifiche regole del settore circa l’onere della prova (come precisati da Sez. Un. n. 13533/2001), e la prescrizione.

4.8. Il risarcimento del danno alla persona deve essere integrale, nel senso che deve ristorare interamente il pregiudizio, ma non oltre.

Si è già precisato che il danno non patrimoniale di cui all’art. 2059 c.c., identificandosi con il danno determinato dalla lesione di interessi inerenti la persona non connotati da rilevanza economica, costituisce categoria unitaria non suscettiva di suddivisione in sottocategorie.

Il riferimento a determinati tipi di pregiudizio, in vario modo denominati (danno morale, danno biologico, danno da perdita del rapporto parentale), risponde ad esigenze descrittive, ma non implica il riconoscimento di distinte categorie di danno.

E’ compito del giudice accertare l’effettiva consistenza del pregiudizio allegato, a prescindere dal nome attribuitogli, individuando quali ripercussioni negative sul valore-uomo si siano verificate e provvedendo alla loro integrale riparazione.

4.9. Viene in primo luogo in considerazione, nell’ipotesi in cui l’illecito configuri reato, la sofferenza morale. Definitivamente accantonata la figura del c.d. danno morale soggettivo, la sofferenza morale, senza ulteriori connotazioni in termini di durata, integra pregiudizio non patrimoniale.

Deve tuttavia trattarsi di sofferenza soggettiva in sè considerata, non come componente di più complesso pregiudizio non patrimoniale.

Ricorre il primo caso ove sia allegato il turbamento dell’animo, il dolore intimo sofferti, ad esempio, dalla persona diffamata o lesa nella identità personale, senza lamentare degenerazioni patologiche della sofferenza. Ove siano dedotte siffatte conseguenze, si rientra nell’area del danno biologico, del quale ogni sofferenza, fisica o psichica, per sua natura intrinseca costituisce componente.

Determina quindi duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale nei suindicati termini inteso, sovente liquidato in percentuale (da un terzo alla metà) del primo. Esclusa la praticabilità di tale operazione, dovrà il giudice, qualora si avvalga delle note tabelle, procedere ad adeguata personalizzazione della liquidazione del danno biologico, valutando nella loro effettiva consistenza le sofferenze fisiche e psichiche patite dal soggetto leso, onde pervenire al ristoro del danno nella sua interezza.

Egualmente determina duplicazione di risarcimento la congiunta attribuzione del danno morale, nella sua rinnovata configurazione, e del danno da perdita del rapporto parentale, poichè la sofferenza patita nel momento in cui la perdita è percepita e quella che accompagna l’esistenza del soggetto che l’ha subita altro non sono che componenti del complesso pregiudizio, che va integralmente ed unitariamente ristorato.

Possono costituire solo “voci” del danno biologico nel suo aspetto dinamico, nel quale, per consolidata opinione, è ormai assorbito il c.d. danno alla vita di relazione, i pregiudizi di tipo esistenziale concernenti aspetti relazionali della vita, conseguenti a lesioni dell’integrità psicofisica, sicchè darebbe luogo a duplicazione la loro distinta riparazione.

Certamente incluso nel danno biologico, se derivante da lesione dell’integrità psicofisica, è il pregiudizio da perdita o compromissione della sessualità, del quale non può, a pena di incorrere in duplicazione risarcitoria, darsi separato indennizzo (diversamente da quanto affermato dalla sentenza n. 2311/2007, che lo eleva a danno esistenziale autonomo).

Ed egualmente si avrebbe duplicazione nel caso in cui il pregiudizio consistente nella alterazione fisica di tipo estetico fosse liquidato separatamente e non come “voce” del danno biologico, che il c.d. danno estetico pacificamente incorpora.

Il giudice potrà invece correttamente riconoscere e liquidare il solo danno morale, a ristoro della sofferenza psichica provata dalla vittima di lesioni fisiche, alle quali sia seguita dopo breve tempo la morte, che sia rimasta lucida durante l’agonia in consapevole attesa della fine. Viene così evitato il vuoto di tutela determinato dalla giurisprudenza di legittimità che nega, nel caso di morte immediata o intervenuta a breve distanza dall’evento lesivo, il risarcimento del danno biologico per la perdita della vita (sent. n. 1704/1997 e successive conformi), e lo ammette per la perdita della salute solo se il soggetto sia rimasto in vita per un tempo apprezzabile, al quale lo commisura (sent. n. 6404/1998 e successive conformi). Una sofferenza psichica siffatta, di massima intensità anche se di durata contenuta, non essendo suscettibile, in ragione del limitato intervallo di tempo tra lesioni e morte, di degenerare in patologia e dare luogo a danno biologico, va risarcita come danno morale, nella sua nuova più ampia accezione.

4.10. Il danno non patrimoniale, anche quando sia determinato dalla lesione di diritti inviolabili della persona, costituisce danno conseguenza (Cass. n. 8827 e n. 8828/2003; n. 16004/2003), che deve essere allegato e provato.

Va disattesa, infatti, la tesi che identifica il danno con l’evento dannoso, parlando di “danno evento”. La tesi, enunciata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 184/1986, è stata infatti superata dalla successiva sentenza n. 372/1994, seguita da questa Corte con le sentenze gemelle del 2003.

E del pari da respingere è la variante costituita dall’affermazione che nel caso di lesione di valori della persona il danno sarebbe in re ipsa, perchè la tesi snatura la funzione del risarcimento, che verrebbe concesso non in conseguenza dell’effettivo accertamento di un danno, ma quale pena privata per un comportamento lesivo.

Per quanto concerne i mezzi di prova, per il danno biologico la vigente normativa (D.Lgs. n. 209 del 2005, artt. 138 e 139) richiede l’accertamento medico-legale. Si tratta del mezzo di indagine al quale correntemente si ricorre, ma la norma non lo eleva a strumento esclusivo e necessario. Così come è nei poteri del giudice disattendere, motivatamente, le opinioni del consulente tecnico, del pari il giudice potrà non disporre l’accertamento medico-legale, non solo nel caso in cui l’indagine diretta sulla persona non sia possibile (perchè deceduta o per altre cause), ma anche quando lo ritenga, motivatamente, superfluo, e porre a fondamento della sua decisione tutti gli altri elementi utili acquisiti al processo (documenti, testimonianze), avvalersi delle nozioni di comune esperienza e delle presunzioni.

Per gli altri pregiudizi non patrimoniali potrà farsi ricorso alla prova testimoniale, documentale e presuntiva.

Attenendo il pregiudizio (non biologico) ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva è destinato ad assumere particolare rilievo, e potrà costituire anche l’unica fonte per la formazione del convincimento del giudice, non trattandosi di mezzo di prova di rango inferiore agli altri (v., tra le tante, sent. n. 9834/2002). Il danneggiato dovrà tuttavia allegare tutti gli elementi che, nella concreta fattispecie, siano idonei a fornire la serie concatenata di fatti noti che consentano di risalire al fatto ignoto.

B) Ricorso n. 734/06. 1. Con il primo motivo di ricorso è dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., comma 1, nel testo vigente prima del 30.4.1995, e vizio di motivazione su punto decisivo, in riferimento alla affermata inammissibilità della domanda di risarcimento del danno esistenziale.

Il ricorrente si duole anzitutto che la corte d’appello abbia ritenuto che la richiesta di risarcimento del danno esistenziale integrasse una domanda nuova senza considerare che essa costituiva la mera riproposizione di richieste già formulate in primo grado.

Afferma che, in quella sede, ci si era specificamente riferiti alle singole voci di danno (estetico, alla vita di relazione, alla vita sessuale) che sarebbero state poi ricompresse nella nozione di danno esistenziale, all’epoca non ancora elaborata, e censura la sentenza per aver dato rilievo alla qualificazione giuridica data alla richiesta, piuttosto che alle circostanze di fatto poste a fondamento della domanda originaria: circostanze identiche, come poteva rilevarsi dalla lettura dell’atto di citazione e di quello di appello (i cui passi sono riportati in ricorso), e concernenti lo stato di disagio in cui versava nel mostrarsi privo di un testicolo, con conseguenti ripercussioni negative nella sfera relativa ai propri rapporti sessuali.

Sostiene poi che erroneamente i giudici di merito avevano ritenuto che la nozione di danno alla salute ricomprenda i concreti pregiudizi alla sfera esistenziale, che concerne invece la lesione di altri interessi di rango costituzionale inerenti alla persona (che nella specie potevano ritenersi provati anche mediante ricorso a presunzioni).

2. Con il secondo motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., commi 1 e 2, nel testo vigente prima del 30.4.1995, con riferimento alla affermata inammissibilità della prova richiesta in appello in punto di disagio del leso nel mostrare i propri organi genitali e delle conseguenti limitazioni dei suoi rapporti sessuali.

La sentenza è censurata per aver ritenuto inammissibile la prova testimoniale articolata in appello sul senso di “vergogna” provato dal ricorrente nei momenti di intimità interpersonale e sul suo conseguente desiderio di limitare nel numero e nel tempo i rapporti sessuali.

Si sostiene che, una volta escluso che fosse stata proposta una domanda nuova, l’art. 345 c.p.c., comma 2, nella previgente formulazione, non sarebbe stato d’ostacolo all’ammissione della prova testimoniale, invece ritenuta inammissibile proprio perchè vertente su una domanda erroneamente qualificata come nuova, e come tale inammissibile.

2.1. Il primo motivo è fondato nei sensi che seguono.

Le considerazioni svolte in sede di esame della questione di particolare importanza consentono di affermare che il pregiudizio della vita di relazione, anche nell’aspetto concernente i rapporti sessuali, allorchè dipenda da una lesione dell’integrità psicofisica della persona, costituisce uno dei possibili riflessi negativi della lesione dell’integrità fisica del quale il giudice deve tenere conto nella liquidazione del danno biologico, e non può essere fatta valere come distinto titolo di danno, e segnatamente a titolo di danno “esistenziale” (punto 4.9).

Al danno biologico va infatti riconosciuta portata tendenzialmente omnicomprensiva, confermata dalla definizione normativa adottata dal D.Lgs. n. 209 del 2005, recante il Codice delle assicurazioni private (“per danno biologico si intende la lesione temporanea o permanente dell’integrità psico-fisica della persona, suscettibile di valutazione medico-legale, che esplica un’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico-relazionali della vita del danneggiato, indipendentemente da eventuali ripercussioni sulla sua capacità di produrre reddito”), suscettibile di essere adottata in via generale, anche in campi diversi da quelli propri delle sedes materiae in cui è stata dettata, avendo il legislatore recepito sul punto i risultati, ormai generalmente acquisiti e condivisi, di una lunga elaborazione dottrinale e giurisprudenziale. In esso sono quindi ricompresi i pregiudizi attinenti agli “aspetti dinamico- relazionali della vita del danneggiato”.

Ed al danno esistenziale non può essere riconosciuta dignità di autonoma sottocategoria del danno non patrimoniale (punto 3.13).

Nella specie, in primo grado, l’attore aveva fatto valere, tra i pregiudizi denunciati, quello concernente la limitazione dell’attività sessuale nei suoi rapporti interpersonali, qualificandolo come pregiudizio di tipo esistenziale. Il primo giudice aveva riconosciuto il danno biologico, senza considerare il segnalato aspetto attinente alla vita relazionale. Di ciò si era lamentato, con l’appello, l’attore ed aveva richiesto prove a sostegno del dedotto profilo di danno, qualificandolo come esistenziale (prove che potevano essere richieste in secondo grado, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., nel testo previgente, trattandosi di giudizio introdotto prima del 30.4.2005). Ma la corte territoriale ha ritenuto nuova tale domanda e conseguentemente inammissibili le prove.

La decisione non è corretta.

La domanda risarcitoria relativa ai pregiudizi subiti per la limitazione dell’attività sessuale del leso non era nuova, come è univocamente evincibile dalla sostanziale identità di contenuto delle deduzioni del primo e del secondo grado, al di là della richiesta di risarcimento del “danno esistenziale” subordinatamente formulata col terzo motivo di appello; appello col quale l’attuale ricorrente s’era doluto della inadeguata considerazione delle conseguenze del tipo di lesione subita in relazione alla sua età all’epoca del fatto (45 anni) ed al suo stato civile di celibe.

La corte territoriale ha, dunque, impropriamente fatto leva sul nomen iuris assegnato dall’appellante alla richiesta di risarcimento del pregiudizio che viene in considerazione e che era stato già puntualmente prospettato in primo grado, dove era stato anche correttamente inquadrato nell’ambito del danno biologico.

3. All’accoglimento del primo motivo per quanto di ragione consegue quello del secondo, avendo la corte d’appello escluso che la prova testimoniale fosse ammissibile per la sola ragione che essa si riferiva ad una domanda erroneamente ritenuta nuova.

4. La sentenza va dunque cassata.

5. Il giudice del rinvio, che si designa nella stessa corte d’appello in diversa composizione, non dovrà necessariamente procedere all’ammissione della prova testimoniale, non essendogli precluso di ritenere vero – anche in base a semplice inferenza presuntiva – che la lesione in questione abbia prodotto le conseguenze che si mira a provare per via testimoniale e di procedere, dunque, all’eventuale personalizzazione del risarcimento (nella specie, del danno biologico); la quale non è mai preclusa dalla liquidazione sulla base del valore tabellare differenziato di punto, segnatamente alla luce del rilievo che il consulente d’ufficio ha dichiaratamente ritenuto di non attribuire rilevanza, nella determinazione del grado percentuale di invalidità permanente, al disagio che la menomazione in questione provoca nei momenti di intimità (ed ai suoi consequenziali riflessi).

6. Il giudice del rinvio liquiderà anche le spese del giudizio di cassazione.

7. Ricorrono i presupposti di cui al D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, art. 52, comma 2, in materia di protezione dei dati personali.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa e rinvia, anche per le spese, alla corte d’appello di Venezia in diversa composizione;

dispone che, in caso di diffusione della presente sentenza in qualsiasi forma, per finalità di informazione giuridica, su riviste, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica, sia omessa l’indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati.

Così deciso in Roma, il 24 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 11 novembre 2008


Cass. civ. Sez. V, (ud. 09-10-2008) 05-11-2008, n. 26542

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere

Dott. BURSESE Gaetano Antonio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

D.V.V., elettivamente domiciliato in Roma, Via A. Granisci 14, presso l’avv. GIGLIO Antonella, che lo rappresenta e difende, unitamente all’avv. Maurizio Leone, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, ed Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore, domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che li rappresenta e difende per legge;

– controricorrenti –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 263/01/04 del 2/7/04;

Udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 9/10/08 dal Relatore Cons. Dott. Paolo D’Alessandro;

Udito l’avv. Maurizio Leone;

Udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PIVETTI Marco, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
D.V.V. propone ricorso per Cassazione, illustrato da successiva memoria, in base a due motivi, contro la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che ha rigettato l’appello da lui proposto contro la pronuncia di primo grado che aveva a sua volta respinto i ricorsi proposti dal contribuente contro due cartelle di pagamento, impugnate sul presupposto del vizio di notifica dei rispettivi atti di accertamento.

Il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate resistono con controricorso.

Motivi della decisione
1.- Con il primo motivo il ricorrente deduce la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, con la sentenza n. 360 del 2003, nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello dell’avvenuta variazione anagrafica.

Il ricorrente in sostanza lamenta l’erroneità della sentenza per avere ritenuto valide le notifiche degli atti di accertamento effettuate, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., nei Comuni di Rapallo e di S. Giorgio a Cremano, in epoche in cui egli risultava, dai certificati anagrafici, residente a (OMISSIS).

1.1.- Il mezzo è fondato.

1.2.- Va premesso che, per effetto della sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., nella parte in cui prevede che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente, non risultanti dalla dichiarazione annuale, hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dal sessantesimo giorno successivo a quello della avvenuta variazione anagrafica, è stato espunto dall’ordinamento, con conseguente espansione della regola generale, secondo la quale l’effetto delle variazioni anagrafiche, ai fini delle notifiche, è immediato.

Invero, seppure, nella motivazione della sentenza, si afferma che il legislatore ben può prevedere che l’effetto della variazione, nei confronti dell’amministrazione finanziaria, non sia immediato, purché l’eventuale dilazione sia contenuta in termini ragionevoli, tale indicazione è appunto rivolta al solo legislatore, rimanendo escluso che l’interprete possa, per proprio conto, individuare un termine di dilazione degli effetti della variazione, non previsto dalla legge.

Il nuovo termine dilatorio di trenta giorni, introdotto dal D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 27, convertito con modificazioni nella L. 4 agosto 2006, n. 248, non può d’altro canto certamente applicarsi riguardo a notificazioni eseguite prima della entrata in vigore del D.L..

1.3.- Ciò, posto, deve osservarsi, nel merito, che, quanto alla cartella n. (OMISSIS), il giudice tributario precisa che i relativi atti di accertamento risultano notificati, ex art. 140 c.p.c., presso la casa comunale di (OMISSIS), in data 21/12/01, pur avendo il contribuente trasferito la propria residenza in (OMISSIS) il 10/12/01. Lo stesso giudice ritiene tuttavia valida la notificazione, pur tenuto conto della sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, sul rilievo che il contribuente, nella successiva dichiarazione per l’anno 2001, presentata il 26/7/02, aveva indicato quello di Rapallo come domicilio fiscale al 31/12/01.

La decisione è evidentemente erronea.

Come già ricordato, per effetto della più volte citata sentenza della Corte Costituzionale n. 360 del 2003, ai fini delle notificazioni, le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo del contribuente hanno effetto dal momento stesso della avvenuta variazione anagrafica e non, come previsto dall’originario testo del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, u.c., dal sessantesimo giorno successivo.

Ne consegue pertanto che la notificazione ex art. 140 c.p.c., effettuata, undici giorni dopo la variazione anagrafica, nel comune di precedente residenza ((OMISSIS)) deve ritenersi radicalmente nulla, non rilevando che il contribuente, nel successivo modello unico per l’anno 2001, presentato nel luglio del 2002, abbia indicato, come residenza fiscale al (OMISSIS), il Comune di (OMISSIS), non potendo tale, in ipotesi non veritiera, dichiarazione spiegare alcun effetto rispetto ad una notificazione precedentemente effettuata.

Nemmeno, d’altro canto, assume alcun rilievo la circostanza che il D.V., nella diversa veste di rappresentante legale della A.P.M. s.a.s., di cui era socio al 55%, avesse impugnato i medesimi accertamenti, ritualmente notificati alla società ma non a lui come socio.

1.4.- Parimenti, quanto alla cartella n. (OMISSIS), gli atti di accertamento presupposti risultano notificati, ai sensi dell’art. 140 c.p.c., in S. Giorgio a Cremano il 29/12/99 e il 10/11/98, laddove deve aversi per pacifico – essendo espressamente ammesso dai controricorrenti (a pag. 5 del controricorso) – che il D.V., in base al certificato anagrafico, è stato residente a (OMISSIS) dal (OMISSIS) al (OMISSIS).

Anche in tal caso, dunque, le notifiche risultano nulle, essendo privo di rilievo il fatto che il contribuente, nel successivo modello unico per l’anno 1999, presentato nel luglio 2000, abbia indicato il comune di S. Giorgio a Cremano come domicilio fiscale per l’anno 1999. 2.- Resta assorbito il secondo motivo, relativo a difetto di motivazione.

3.- La sentenza impugnata va pertanto cassata.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, con l’accoglimento dei ricorsi introduttivi del contribuente.

La sopravvenienza, dopo il giudizio di primo grado, della sentenza di illegittimità costituzionale giustifica l’integrale compensazione delle spese.

P.Q.M.
la Corte accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie i ricorsi introduttivi del contribuente; compensa le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 9 ottobre 2008.

Depositato in Cancelleria il 5 novembre 2008


Cass. civ. Sez. I, (ud. 19-09-2008) 30-10-2008, n. 26118

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PANEBIANCO Ugo Riccardo – Presidente

Dott. PICCININNI Carlo – Consigliere

Dott. GIULIANI Paolo – Consigliere

Dott. PANZANI Luciano – Consigliere

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI PORTO MANTOVANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSSERIA 5, presso l’avvocato ROMANELLI GUSTAVO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ARRI A. CLAUDIO, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 662/2003 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA, depositata il 22/08/2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/09/2008 dal Consigliere Dott. GIANCOLA MARIA CRISTINA;

udito, per il ricorrente, l’Avvocato ROMANELLI GUIDO FRANCESCO, per delega, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Patrone Ignazio, per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza del 12 – 20.04.2000, il Tribunale di Brescia respingeva le domande proposte nel 1994, dal Ministero delle Finanze nei confronti del Comune di Porto Mantovano, volte al risarcimento dei danni derivati dalla erronea e tardiva notificazione di un avviso di rettifica per IVA in danno di un contribuente, dall’amministrazione statale demandata ai messi comunali, in base al disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60. Il Tribunale riteneva che con riferimento alle notificazioni di atti nell’interesse dell’Amministrazione finanziaria, il Comune non fosse tenuto a rispondere dei danni arrecati dal messo comunale, ancorchè dipendente dell’ente locale.

Con sentenza del 2.04 – 22.08.2003, la Corte di appello di Brescia accoglieva l’impugnazione proposta dal Ministero delle Finanze e dall’Agenzia delle Entrate e conclusivamente condannava l’ente locale al risarcimento dei danni in favore dell’Agenzia delle Entrate, subentrata nel rapporto controverso, liquidandoli all’attualità in complessivi Euro 56.612,54, oltre agli interessi legali ex art. 1282 c.c.. La Corte distrettuale riteneva in sintesi:

che non potesse essere condiviso il presupposto della decisione impugnata, aderente ad un risalente arresto giurisprudenziale della Corte dei Conti, secondo cui la richiesta dell’amministrazione finanziaria di notifica di un atto d’imposizione fiscale determinasse l’inquadramento del messo comunale nell’organizzazione della stessa richiedente che, invece, in aderenza al principio affermato da questa Suprema Corte e pregevolmente argomentato, il Comune avrebbe dovuto rispondere del danno, in ragione della violazione del rapporto di preposizione gestoria intercorrente con l’Amministrazione finanziaria e qualificabile in termini di mandato ex lege, non essendo ravvisabile l’instaurazione di un rapporto di servizio diretto tra la medesima Amministrazione finanziaria ed i messi comunali, operanti alle esclusive dipendenze dell’ente locale che la richiesta dell’Amministrazione finanziaria di notificazione di un avviso di rettifica tributaria al contribuente, pervenuta al Comune di Porto Mantovano, il 22 dicembre 1989, avrebbe dovuto essere attuata secondo le modalità previste dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, che, invece, non solo erano rimaste inosservate ma, inoltre, si erano concluse con l’inoltro di una lettera raccomandata, il 12 gennaio 1990, dopo la scadenza del termine decadenziale del 30.12.1989, che in particolare la procedura concretamente seguita dal messo incaricato della notificazione, concretatasi tra l’altro nella affissione all’Albo pretorio, “preceduta” dalla reiterata apposizione di avvisi alla porta dell’abitazione del destinatario, dell’intero atto da notificare in luogo del prescritto avviso dell’avvenuto deposito di esso nella casa comunale, fosse o meno riconducibile all’art. 140 c.p.c., in ogni caso non era stata compiuta nel rispetto delle previste formalità nè esaurita in un solo giorno, come sarebbe stato possibile che con decisione del 1990, confermata dalla Commissione di secondo grado, il giudice tributario aveva accolto il ricorso del contribuente, riconoscendo fondata l’eccezione dallo stesso proposta di tardività della notificazione e di conseguente decadenza dell’Amministrazione finanziaria dalla pretesa fiscale che quanto alla determinazione del risarcimento, l’Amministrazione finanziaria poteva giovarsi della presunzione di corrispondenza del danno all’ammontare delle imposte e degli accessori al cui recupero l’avviso di rettifica era volto, a ciò aggiungendosi che nel ricorso proposto dinanzi alla Commissione tributaria il contribuente si era limitato ad eccepire la tardità della notificazione dell’avviso, senza sollevare alcuna eccezione di merito avverso la pretesa impositiva che sul punto il Comune aveva opposto una generica contestazione, omettendo di dedurre e provare l’insussistenza dei presupposti di fatto e di diritto dell’obbligazione tributaria, ed anzi addossando alla controparte l’onere di provare la fondatezza della pretesa fiscale che il fallimento del contribuente era sopravvenuto dopo quattro anni dai fatti controversi, ragione per cui non poteva nemmeno ritenersi che il recupero del credito tributario non avrebbe potuto essere attuato prima dell’apertura della procedura concorsuale, nell’ambito della quale, del resto, il credito in questione avrebbe assunto collocazione privilegiata che sino alla data della pronuncia giudiziale, all’amministrazione statale competeva anche la rivalutazione del credito e, con decorrenza dal 31.12.1989, il ristoro del danno da lucro cessante per il ritardo nel pagamento, oltre agli interessi legali sulla somma finale, ai sensi dell’art. 1282 c.c., e con decorrenza dalla data dell’attuata liquidazione.

Avverso questa sentenza il Comune di Porto Mantovano ha proposto ricorso per Cassazione notificato il 16.04.2004, fondato su due motivi ed illustrato da memoria. Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate hanno resistito con controricorso notificato il 26.05.2004.

Motivi della decisione
Con il primo motivo di ricorso il Comune di Porto Mantovano denunzia:

“Violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 3, in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e art. 137 c.p.c. e ss., (in specie art. 140) e ai rapporti inter organici tra amministrazioni diverse nonchè art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo dell’illogica, errata e contraddittoria motivazione e valutazione dei fatti”.

Contesta conclusivamente l’applicabilità del principio secondo cui il Comune deve rispondere dell’operato del messo comunale anche quando la notificazione sia avvenuta ad istanza di diverso ente pubblico e segnatamente dell’Amministrazione finanziaria. Sostiene, inoltre, che la notificazione doveva aversi per rituale, essendo avvenuta in ossequio alle disposizioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e che comunque è mancata la precisazione delle modalità in concreto seguite dal messo municipale, cui ancorare la valutazione d’inosservanza delle prescrizioni legali.

Il motivo in tutti i suoi profili non ha pregio, sostanziandosi essenzialmente in critiche o generiche ed apodittiche o contrarie in linea meramente enunciativa, avulsa da concreti riferimenti a decisive risultanze istruttorie inficianti gli accertamenti in fatto compiuti dai Giudici di merito. In primo luogo, anche attenendosi all’orientamento ormai costante di questa Corte di legittimità – non smentito dall’evoluzione normativa e giurisprudenziale relativa al diverso tema del riparto di giurisdizione tra AGO e Giudice contabile relativamente ai giudizi di responsabilità amministrativa nei confronti dei messi notificatori dei Comuni (in tema, tra le altre, Cass. S.U. 200319662) – i Giudici di merito hanno ineccepibilmente qualificato come mandato ex lege il conferimento – attuato ratione temporis in base al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. a), (preceduto dal D.P.R. n. 645 del 1958, art. 38) – da parte dell’Amministrazione finanziaria al Comune di Porto Mantovano (R.D. n. 383 del 1934, art. 273, comma 4), del compito di procedere tramite i messi municipali alla notificazione dell’avviso tributario di rettifica nonchè escluso che tale iniziativa potesse sostanziarsi in un rapporto diretto tra l’amministrazione pubblica e i messi comunali, per essere questi dipendenti dell’ente locale e, quindi, per avere agito, anche nell’esecuzione del compito in questione, in adempimento degli obblighi derivanti dal loro rapporto di impiego con il Comune (Cass. SU 199002083; 199710929; 199805987; 199900360, 20020711, in tema cfr anche Cass. SU 200506409).

Ampio e logico conto, dunque, è stato dato delle ragioni sottese alla decisione (e così pure chiarito il discostamento da quelle di cui al richiamato, diverso e peraltro risalente arresto della Corte dei Conti), espressamente ricondotte, in aderenza al dettato normativo, al rapporto di dipendenza che astringe i messi municipali al Comune, nell’ambito della cui struttura organizzativa sono stabilmente e gerarchicamente inseriti, con conseguente sia assoggettamento al potere dell’ente di controllo e verifica dell’esatto adempimento degli obblighi inerenti al loro servizio e sia configurabilità delle connesse responsabilità.

In secondo luogo la Corte distrettuale, verificata anche la tempestività della richiesta della P.A. di notificazione dell’avviso rispetto al tempo occorrente per il relativo adempimento, ha del pari irreprensibilmente escluso che le modalità che in concreto il messo comunale aveva seguito fossero aderenti alle formalità imposte dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 comma 1, per la notificazione degli atti al contribuenti; ciò sia in rapporto a quanto prescritto dall’ivi richiamato art. 140 c.p.c., che in rapporto a quanto invece previsto in via residuale dalla lett. e) del cit. comma (in tema, cfr. tra le altre Cass. 199704587), rilevando in sintesi che in ogni caso era anche mancato il deposito dell’atto presso la casa comunale, l’avviso al contribuente di tale deposito, secondo le diverse forme imposte dai due tipi alternativi di notifica, e, quanto alla prima anche l’invio (e non la ricezione) della prescritta raccomandata con avviso di ricevimento in data anteriore alla scadenza del termine imposto a pena di decadenza per l’esperibilità della pretesa fiscale.

D’altra parte inammissibili perchè nuovi e comunque inconferenti si palesano i rilievi del Comune inerenti alla conoscenza che il contribuente aveva di fatto potuto avere dell’avviso fiscale o all’errore scusabile in cui era incorso il messo comunale, inidonei per un verso ad elidere il danno subito dalla Amministrazione per effetto della mancata tempestiva conoscenza legale dell’atto da parte del contribuente, acclarata dal Giudice tributario, e per altro verso la responsabilità contrattuale del Comune verso l’amministrazione statale, connessa al negligente svolgimento del demandatogli mandato ex lege.

Con il secondo motivo di ricorso il Comune deduce “Violazione dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5: errata valutazione del danno sotto il profilo della motivazione e dell’onere probatorio e in relazione agli artt. 1277 e 1244 c.c., in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, e art. 137 c.p.c. e ss., (in specie art. 140) e ai rapporti inter organici tra amministrazioni diverse nonchè art. 360 c.p.c., n. 5, sotto il profilo dell’illogica, errata e contraddittoria motivazione e valutazione dei fatti”, essenzialmente riferendosi alla prova del pregiudizio ed ai criteri applicati per la relativa liquidazione.

Anche tale motivo in tutte le sue articolazioni non è fondato.

Premesso che si verte in tema di responsabilità contrattuale (in tema cfr, Cass. SU 200200711; Cass. 200303397; 200411469), irreprensibilmente la Corte territoriale appare avere ritenuto non solo il Comune inadempiente all’incarico ricevuto e, quindi, tenuto a risarcire il danno subito dall’Amministrazione finanziaria, ma anche che quest’ultima tramite presunzioni aveva fornito, come era suo onere, la prova dell’esistenza e dell’entità del pregiudizio sofferto.

Come noto, infatti, le presunzioni semplici costituiscono una prova completa alla quale il giudice di merito può attribuire rilevanza, anche in via esclusiva, ai fini della formazione del proprio convincimento, nell’esercizio del potere discrezionale, istituzionalmente demandatogli, di individuare le fonti di prova, controllarne l’attendibilità e la concludenza e, infine, scegliere, fra gli elementi probatori sottoposti al suo esame, quelli ritenuti più idonei a dimostrare i fatti costitutivi della domanda o dell’eccezione. Spetta, pertanto, al Giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità.

Nella specie, il ragionamento decisorio seguito dalla Corte distrettuale non appare affetto da alcuna illogicità o contraddittorietà laddove, anche in linea con i principi già ripetutamente affermati in questa sede (Cass. Su 198400878; Cass. 19960327, 199805263; 199805987; 200309370; 200411469), ha ritenuto dall’amministrazione finanziaria provati in via presuntiva l’esistenza e l’ammontare del danno in questione, correlandosi sia all’entità della pretesa fiscale dalla quale l’amministrazione era stata dichiarata decaduta dal giudice tributario e sia al tenore dell’impugnativa svolta dal contribuente in sede tributaria, muta in ordine a profili di merito della pretesa azionata in sede tributaria.

D’altra parte i Giudici di merito nell’esaminare le tesi difensive avverse, hanno rilevato l’assenza in punto di esistenza del danno di qualsiasi deduzione o prova contraria da parte del Comune, rilievo che rende meramente accademica e, quindi, inammissibile per difetto di interesse, la censura del medesimo ente locale inerente alla eccessiva gravosità dell’onere probatorio a suo carico teoricamente configurato dalla medesima Corte.

Quanto alla liquidazione del risarcimento, in primo luogo la Corte distrettuale appare avere adeguatamente e logicamente argomentato la svalutazione della tesi sostenuta dal Comune della compromissione totale o parziale delle possibilità della amministrazione finanziaria di recupero del credito in ragione del sopravvenuto fallimento del contribuente, riferendosi alla pluriennale distanza di tempo intercorsa tra la vicenda controversa e la successiva apertura della procedura concorsuale, in cui, comunque al credito fiscale sarebbe spettata collocazione privilegiata. In secondo luogo ineccepibile risulta pure la qualificazione del risarcimento dovuto dall’ente locale come debito non di valuta ma di valore (tra le numerose altre, Cass. 200209517), soggetto, dunque, anche al cumulo di rivalutazione monetaria ed interessi, trattandosi di debito d’indole risarcitoria da inadempimento di un’obbligazione non pecuniaria (ma ex mandato) e non per legge direttamente rapportato all’entità della pretesa fiscale pregiudicata, ma a questa solo commisurato per equivalente pecuniario.

Conclusivamente il ricorso deve essere respinto, con conseguente condanna del Comune soccombente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, in favore delle parti intimate e controricorrenti.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna il Comune di Porto Mantovano a rimborsare al Ministero dell’Economia e delle Finanze ed all’Agenzia delle Entrate le spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 3.000,00, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 19 settembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2008


Cass. civ. Sez. II, (ud. 29-09-2008) 27-10-2008, n. 25860

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COLARUSSO Vincenzo – Presidente

Dott. ODDO Massimo – rel. Consigliere

Dott. SCHERILLO Giovanna – Consigliere

Dott. BUCCIANTE Ettore – Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L. – rappresentata e difesa in virtù di procura speciale a mancata integrazione margine del ricorso dagli avv.ti Ruotolo Domenico e Daniela del foro di Verona ed elettivamente domiciliata in Roma, alla via A. Bertoloni, n. 26, presso l’avv. Rulli M. Grazia;

– ricorrente –

contro

D.M. – rappresentato e difeso in virtù di procura speciale in calce al controricorso dall’avv. Mignone Roberto, presso il quale è elettivamente domiciliato in Salerno, alla via SS. Martiri Salernitani, n. 66;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Salerno n. 2 del 12 gennaio 2004 – notificata il 10 febbraio 2004;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29 settembre 2008 dal Consigliere Dott. Oddo Massimo;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Lo Voi Francesco, che ha concluso per l’inammissibilità o, in subordine, il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con atto notificato il 7 aprile 1993, B.L. convenne D.M. davanti al Tribunale di Salerno e, esponendo di essere figlia ed unica erede del padre B.G., deceduto il (OMISSIS), e che il convenuto, profittando della degenerazione delle facoltà cognitive e critiche del defunto, aveva da questo acquistato il 22 maggio 1989 al prezzo di L. 270 milioni, un locale commerciale in Salerno, il cui valore all’epoca del trasferimento era di L. 600 milioni, domandò la declaratoria della nullità o l’annullamento della compravendita stipulata dal suo dante causa perché compiuto in pregiudizio di un soggetto in stato d’incapacità naturale.

Si costituì il D. e, contestandone la fondatezza, chiese il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, il risarcimento del danno per avergli la trascrizione della domanda dell’attrice impedito l’accensione di un mutuo.

Integrato il contraddittorio nei confronti di B.W., poi estromessa dal giudizio, nonché di L.G., B. A. e V., S. e G.M., rimasti contumaci, il Tribunale con sentenza del 31 agosto 2001 rigettò sia la domanda dell’attrice che quella riconvenzionale del convenuto.

La B. propose gravame avverso la decisione e la Corte di appello di Salerno il 12 gennaio 2004 dichiarò inammissibile l’impugnazione perchè, “anche al di là della notifica alle altre parti oltre il termine, perentorio, assegnato dal Giudice”, l’atto di integrazione del contraddittorio, disposto nella prima udienza dal consigliere istruttore, non era “stato affatto notificato ai signori G.A. S. e G., risultati trasferiti”.

La B. è ricorsa con due motivi per la cassazione della sentenza, l’intimato D. ha resistito con controricorso notificato il 14 maggio 2004 ed entrambe le parti hanno depositato memorie.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, il ricorso denuncia la nullità della sentenza impugnata, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione e falsa applicazione dell’art. 140 c.p.c., nonché insufficiente e contraddittoria motivazione sull’omessa notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio, avendo il Giudice dichiarato l’inammissibilità dello appello senza verificare se l’omissione fosse dipesa da fatto imputabile unicamente alla negligenza dell’ufficiale giudiziario, pur non avendo egli certificato l’attività svolta per verificare l’avvenuto trasferimento dei destinatati della notifica appreso da “alcuni vicini” e l’appellante avesse fatto istanza di offrire una prova orale e documentale della correttezza dell’indirizzo indicato nell’atto. Con il secondo motivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., e falsa applicazione dell’art. 153 c.p.c., giacché, costituendo l’eventuale trasferimento dei destinatali della notifica una causa di omessa notificazione non addebitabile alla parte onerata, il Giudice doveva escludere la decadenza dell’appellante dal termine per integrare il contraddittorio e, secondo una interpretazione estensiva dell’art. 184 bis c.p.c., conforme al principio costituzionale dell’effettività del contraddittorio, doveva fissare un nuovo termine per l’integrazione.

Il primo motivo è inammissibile.

Nel caso in cui l’ufficiale giudiziario attesti il mancato rinvenimento del destinatario della notifica di un atto nel luogo (di residenza, dimora o domicilio) indicato dal richiedente e la notizia appresa dai vicini del suo trasferimento altrove, la prima attestazione ed il contenuto estrinseco della seconda sono assistite da fede fino a querela di falso, attenendo a circostanze frutto della diretta attività e percezione del pubblico ufficiale, mentre la notizia appresa dai terzi è assistita da una presunzione di veridicità iuris tantum (cfr.: Cass. civ., sez. 3^, sent. 11 aprile, 2000, n. 4590), che non consente al Giudice di disconoscere, in assenza di prova contraria risultante dagli atti del procedimento o fornita dalle parti, la regolarità dell’attività svolta dall’ufficiale giudiziario e gli effetti che ad essa ricollega l’ordinamento nel caso in cui si risolva nell’omessa notifica di un atto nel termine perentorio fissato dalla legge o stabilito dal Giudice.

La parte che in sede di legittimità si dolga dell’attendibilità attribuita dal Giudice all’attestazione dell’ufficiale giudiziario dell’impossibilità di effettuare la notificazione di un atto per non avere egli rinvenuto il suo destinatario nell’indirizzo indicato ed avere appreso dai vicini il suo trasferimento altrove è quindi onerata dal principio di autosufficienza del ricorso alla specificazione degli atti non esaminati od inadeguatamente valutati dal Giudice dai quali emerge il fondamento della sua doglianza e/o i mezzi richiesti nel giudizio a riprova di essa, elencandoli ed indicandone esattamente il tenore onde consentire una verifica della loro ammissibilità e decisività. A tanto non ha soddisfatto la ricorrente, atteso che la sua sola affermazione della legittimità della propria istanza di offrire valida prova orale e documentale”(nei termini che solo il prosieguo del gravame avrebbe potuto consentire)” dell’effettiva abitazione dei notificandi nell’indirizzo da lei indicato negli atti di integrazione del contraddittorio non consente di apprezzare la correttezza del contrario assunto della sentenza che l’appellante aveva omesso di dedurre e provare di non avere potuto provvedere alla notifica per fatti ad essa non imputabili.

Il secondo motivo è infondato.

In seguito alle decisioni della Corte costituzionale n. 477 del 2000, nn. 28 e 97 del 2004 e n. 154 del 2005, nel caso, in cui il Giudice dell’impugnazione abbia ordinato l’integrazione del contraddittorio, è sufficiente e necessario al fine del rispetto del termine assegnato per la notifica dell’atto alle parti pretermesse che entro detto termine l’atto sia consegnato all’ufficiale giudiziario e, conseguentemente, la parte notificante non incorre nella decadenza correlata alla sua inosservanza ove, in caso di iniziale esito negativo della notifica per causa alla stessa non imputabile, provveda senza ingiustificata soluzione di continuità allo svolgimento di tutte le ulteriori attività occorrenti al perfezionamento del procedimento notificatorio di cui è onerata, anche se questo avvenga oltre la data stabilita dal Giudice (cfr.: Cass. civ., sez. 5^, sent. 12 marzo 2008, n. 6547; Cass. civ., sez. 2^, sent. 19 marzo 2007, n. 6360).

Nel caso di esito negativo della notifica per causa alla stessa imputabile o di ingiustificata soluzione di continuità delle ulteriori attività occorrenti alla notifica, la parte onerata non si sottrae, quindi, alla decadenza dal termine assegnatole ed all’inammissibilità dell’impugnazione che ne deriva a norma dell’art. 331 c.p.c., giacchè la fissazione di un nuovo termine per l’integrazione del contraddittorio equivarrebbe alla concessione di una proroga di un termine perentorio, espressamente vietata espressamente dall’art. 153 c.p.c.. E’ vero che a tale divieto è stato ritenuto possibile derogare, peraltro non in ragione dell’applicabilità anche alla fase di proposizione delle impugnazioni dell’istituto della rimessione in termini, che l’art. 184 bis c.p.c., limita alla fase istruttoria, bensì della rilevanza da riconoscere, secondo un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 331 c.p.c., ad una situazione di forza maggiore certa ed obiettiva, che abbia impedito alla parte l’osservanza del termine stesso, dovendo escludersi che la sanzione di inammissibilità dell’impugnazione prevista per la sua inosservanza, in quanto rivolta a colpire l’incuria e la negligenza della parte, possa tradursi in danno il soggetto che provi di non essere stata in grado di rispettare il termine fissato dal Giudice per fatti ad essa non imputabili.

A tale fine, tuttavia, deve tenersi conto che il termine per l’integrazione del contraddittorio viene concesso non soltanto per il conferimento dell’incarico all’ufficiale giudiziario, ma anche per lo svolgimento di tutte le attività ad esso prodromiche, quali le indagini di stato civile ed anagrafiche eventualmente necessarie per individuare i soggetti destinatari della notifica ed il luogo ove questa deve essere eseguita, ed è normalmente stabilito dal Giudice in misura di tale ampiezza da permettere alla parte anche di rimediare eventuali errori nei quali sia incorsa nella notificazione dell’atto (Cass. civ., sez. 1^, sent. 14 ottobre 2005, n. 20000).

Di tal che, se la notifica dell’atto di integrazione del contraddittorio sia mancata per avere la parte onerata richiesto la notifica all’ufficiale giudiziario, come in specie, due giorni prima della scadenza del termine fissato per l’adempimento senza alcun preventivo accertamento della residenza, del domicilio o della dimora dei notificandi, facendo affidamento sull’avvenuta notifica di altro atto del procedimento in epoca remota, e la parte si sia successivamente astenuta da qualsiasi altra attività diretta al perfezionamento di essa senza prospettare nessun ostacolo al loro compimento, non è ravvisabile alcuna situazione di forza maggiore che abbia impedito alla parte l’osservanza dell’onere del quale era gravata.

Al contrario nel suo comportamento è ravvisabile una colpevole negligenza sia perché si è posta in condizione di verificare l’esito della notifica soltanto all’atto o dopo la scadenza del termine stabilito dal Giudice, nonostante l’incognita di una variazione nel lungo periodo dell’abitazione dei destinatari e l’agevole possibile riscontro dell’attuale loro residenza anagrafica e sia perché si è disinteressata della negatività di tale esito facendo ingiustificatamente incorrere il processo in una stasi che proprio la fissazione del termine perentorio per l’integrazione era diretta ad evitare.

All’inammissibilità od infondatezza dei motivi seguono il rigetto del ricorso e la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in dispositivo.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, che liquida in Euro 2.800,00, di cui Euro 100,00, per spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 settembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 27 ottobre 2008


Cass. civ. Sez. V, (ud. 09-07-2008) 03-10-2008, n. 24622

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. CICALA Mario – Consigliere

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE ed AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui Uffici, in Roma, Via dei Portoghesi, 12 sono elettivamente domiciliati;

– ricorrenti –

contro

C.C.A. – COOPERATIVA CUSTODI AUTOMOBILI S.C.A.R.L., con sede in (OMISSIS), in Liquidazione Coatta Amministrativa, in persona del legale rappresentante pro tempore;

– intimata –

avverso la sentenza n. 04 della Commissione Tributaria Regionale di Genova – Sezione n. 17, in data 25/01/2005, depositata il 24/02/2005;

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 09 luglio 2008 dal Relatore Cons. Dott. Antonino Di Blasi;

Vista la richiesta scritta del Sostituto Procuratore Generale, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La società contribuente, impugnava in sede giurisdizionale la cartella esattoriale, portante carico tributario, derivante da avviso di rettifica IVA, – relativo all’anno 1994 -, in precedenza notificato e non impugnato.

L’adita Commissione Tributaria Provinciale di Genova, accoglieva il ricorso, con decisione che veniva confermata in appello dalla CTR. In particolare, quest’ultima, riteneva di dover confermare l’operato dei Giudici di primo grado, – che avevano annullato la cartella esattoriale -, anzitutto, in accoglimento della preliminare eccezione, secondo cui il presupposto avviso di accertamento non era stato regolarmente notificato a mani delle persone, abilitate alla ricezione ex art. 145 c.p.c., di poi, anche per le ragioni di merito, esplicitate nell’appellata decisione.

Con ricorso notificato l’11-15 aprile 2006, il Ministero e l’Agenzia hanno chiesto la cassazione dell’impugnata decisione.

L’intimata, non ha svolto difese in questa sede.

Con istanza 30.01.2007, il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso, per manifesta fondatezza, ex art. 375 c.p.c..

Motivi della decisione
La Corte;

Visto il ricorso, come sopra proposto e notificato, con cui l’impugnata decisione viene censurata per violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e per omessa o insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, nonchè per motivazione apparente ed illogica, violazione dell’art. 100 c.p.c., D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30, D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, ed omessa motivazione su punto decisivo della controversia;

Vista la richiesta del Sostituto Procuratore Generale;

Considerato che l’impugnazione del Ministero dell’Economia e delle Finanze è a ritenersi inammissibile, in quanto non è stato parte nel giudizio di appello – cui ha partecipato solo l’Agenzia delle Entrate di (OMISSIS) – ed il ricorso risulta notificato l’11-15 aprile 2006, quindi, dopo la data dell’1 gennaio 2001, a decorrere dalla quale l’Agenzia delle Entrate è subentrata all’Amministrazione delle Finanze nei rapporti giuridici già facenti capo a quest’ultima;

Ritenuto che i Giudici di appello hanno confermato la decisione di primo grado, con argomentazione non coerente con il consolidato orientamento giurisprudenziale e sulla base di generiche espressioni di condivisione della decisione di primo grado;

Considerato, infatti, sotto il primo profilo, che l’affermazione della CTR – secondo la quale la notifica della cartella era a ritenersi nulla, per essere stata effettuata a mani di un socio e non già di alcuno dei soggetti contemplati nell’art. 145 c.p.c., si pone in contrasto con il principio secondo cui “La disposizione dell’art. 46 c.c., secondo cui, qualora la sede legale della persona giuridica sia diversa da quella effettiva, i terzi possono considerare come sede della persona giuridica anche quest’ultima, vale anche in tema di notificazione, con conseguente applicabilità dell’art. 145 c.p.c.; ne consegue che, ai fini della regolarità della notificazione di atti a persona giuridica presso la sede legale o quella effettiva, è sufficiente che il consegnatario sia legato alla persona giuridica stessa da un particolare rapporto che, non dovendo necessariamente essere di prestazione lavorativa, può risultare anche dall’incarico, eventualmente provvisorio o precario, di ricevere la corrispondenza – sicché, qualora dalla relazione dell’Ufficiale Giudiziario o postale risulti in alcuna delle predette sedi la presenza di una persona che si trovava nei locali della sede stessa, è da presumere che tale persona fosse addetta alla ricezione degli atti diretti alla persona giuridica, anche se da questa non dipendente, laddove la società, per vincere la presunzione in parola, ha l’onere di provare che la stessa persona, oltre a non essere alle sue dipendenze, non era addetta neppure alla ricezione di atti, per non averne mai ricevuto incarico alcuno” (Cass. n. 12754/2005, n. 11804/2002);

Considerato, altresì, per l’altro aspetto, che la mera espressione di condivisione della decisione di primo grado nel merito, non assolve all’obbligo motivazionale, non risultando indicati i concreti elementi utilizzati, al fine di riconoscere la legittimità e fondatezza delle doglianze della contribuente;

Considerato, in proposito, che costituisce principio consolidato e condiviso, sia quello secondo cui “la motivazione di una sentenza per relationem ad altra sentenza, è legittima quando il giudice, riportando il contenuto della decisione evocata, non si limiti a richiamarla genericamente ma la faccia propria con autonoma e critica valutazione” (Cass. n. 1539/2003; n. 6233/2003; n. 2196/2003; n. 11677/2002), sia pure quell’altro secondo cui è configurabile l’omessa motivazione, “quando il giudice di merito omette di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indica tali elementi senza una approfondita disamina logico- giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento (Cass. n. 890/2006, n. 1756/2006, n. 2067/1998);

Considerato, in buona sostanza, che le espressioni adoperate dalla C.T.R. non solo appaiono inadeguate sotto il profilo giuridico e della coerenza logico formale, rivelando un sintomo d’ingiustizia nella soluzione della questione di fatto, ma pure rivelano decisive pretermissioni di elementi, che ove esaminate e valutate, avrebbero, ragionevolmente, potuto indurre ad un diverso decisum;

Considerato, conclusivamente, che il ricorso va, per tali ragioni, accolto, con assorbimento di ogni altro profilo di doglianza, e, per l’effetto cassata l’impugnata sentenza, la causa va rinviata ad altra sezione della C.T.R. della Liguria, la quale, procederà al riesame e, attenendosi ai richiamati principi, pronuncerà, anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, motivando congruamente.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso del Ministero dell’Economia e delle Finanze; accoglie l’impugnazione dell’Agenzia delle Entrate, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese del giudizio, ad altra sezione della C.T.R. della Liguria.

Così deciso in Roma, il 9 luglio 2008.

Depositato in Cancelleria il 3 ottobre 2008


Cass. pen. Sez. VI, (ud. 17-06-2008) 01-10-2008, n. 37354

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGINIO Adolfo – Presidente

Dott. OLIVA Bruno – Consigliere

Dott. SERPICO Francesco – Consigliere

Dott. MILO Nicola – rel. Consigliere

Dott. COLLA Giorgio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) E.A., nato (OMISSIS);

2) F.M., nato (OMISSIS);

3) D.R., nato (OMISSIS);

4) FI.Ma., nato (OMISSIS);

avverso la sentenza 25/10/2007 della Corte d’Appello di Torino;

Visti gli atti, la sentenza denunziata e i ricorsi;

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere Dr. Nicola Milo;

udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DELEHAYE E., che ha concluso per il rigetto dei ricorsi di E. e F. e l’annullamento senza rinvio per D. e Fi. per non avere commesso il fatto;

udito il difensore di p.c. avv. R. Borasio, che ha concluso per il rigetto o l’inammissibilità dei ricorsi;

uditi i difensori dei ricorrenti avv. MUSSA C. (per E. e F.), avv. C. Rossa e avv. M. Pellerino (per D. e Fi.), che hanno concluso per l’accoglimento dei rispettivi ricorsi.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con riferimento al solo aspetto che è oggetto della sollecitata verifica di legittimità, va rilevato, in punto di fatto, che, a seguito di gravame del P.M., la Corte d’Appello di Torino, con sentenza 25/10/2007, in riforma – tra l’altro – della decisione assolutoria con formula di merito (fatto non costituisce reato) emessa – il 7/4/2006 – dal locale Tribunale, dichiarava non doversi procedere nei confronti di E.A., F.M., D.R. e Fi.Ma. in ordine al reato di abuso d’ufficio rubricato originariamente sotto il capo a), perchè estinto per prescrizione.

L’addebito mosso agli imputati è di avere, l’ E. quale sindaco di (OMISSIS), il F. quale segretario generale, il D. e il Fi. quali componenti della Giunta comunale, adottato, tra il 1995 e il 1999, una serie di atti, in palese violazione di legge, finalizzati a danneggiare la dirigente del detto Comune, Dr.ssa B.M., invisa ai detti amministratori, la quale venne esonerata dalle funzioni esercitate (vice segretario, collaborazione esterna con l’Associazione dei Comuni) e assegnata – il 5/10/1999 -all’Ufficio Studi, istituito con decreto sindacale del successivo 3 novembre, a cui faceva seguito la Delib. Giunta 1 dicembre 1999, Ufficio rimasto assolutamente inoperativo, tanto che, nel 2001, a seguito del commissariamento del Comune, la B. venne destinata a sovrintendere anche la ripartizione commercio.

Il Giudice distrettuale, all’esito di un’approfondita analisi dei vari atti amministrativi adottati e sulla base delle testimonianze acquisite agli atti, evidenziava che “l’affrettata scelta di assegnare la B. all’Ufficio Studi non ancora costituito, quindi l’istituzione ex novo di detta struttura organizzativa in via d’urgenza, da parte del sindaco e poi da parte della Giunta… nascondeva di fatto la volontà di allontanare anche fisicamente dal palazzo comunale la funzionaria, senza con ciò mirare al raggiungimento… di un fine di pubblico interesse, essendo stato conseguito con tale scelta l’esatto contrario in termini di pubblica utilità”.

Hanno proposto ricorso per cassazione, tramite i rispettivi difensori, gli imputati. Il D. e il Fi. hanno denunciato la violazione della legge processuale, con riferimento all’art. 521 c.p.p., comma 2 e art. 522 c.p.p., avendo la sentenza ricostruito la vicenda relativa all’istituzione dell’Ufficio Studi in maniera difforme da quella oggetto di contestazione. Tutti, poi, hanno dedotto la violazione della legge penale e di altre norme di cui si deve tenere conto nell’applicazione della stessa, sostenendo, con argomentazioni varie e articolate, che nella loro condotta sarebbe difettato il requisito della “violazione di legge o di regolamento” e, quindi, uno degli elementi strutturali del reato contestato, e hanno lamentato, inoltre, la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.

I ricorsi non sono fondati.

La doglianza di natura processuale del D. e del Fi. è priva di pregio.

Osserva, invero, la Corte che per aversi mutamento del fatto, con conseguente violazione del principio di correlazione di cui all’art. 521 c.p.p., occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto dell’imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti di difesa. Conseguentemente l’indagine volta ad accertare la violazione del principio richiamato non va esaurita nel pedissequo e mero confronto letterale tra contestazione e sentenza, ma deve tenersi conto della concreta possibilità avuta dall’imputato, attraverso l’iter del processo, di difendersi in ordine all’oggetto dell’imputazione, circostanza quest’ultima verificatasi nella specie nel corso della lunga e approfondita istruttoria dibattimentale, con l’effetto che la denunciata violazione della regola processuale deve ritenersi del tutto insussistente.

Quanto al merito della vicenda, deve rilevarsi che la sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e della normativa di riferimento, chiarendo che gli imputati, nel rispettivo ruolo ricoperto, posero in essere, nel disporre l’assegnazione della dr.ssa B. all’istituendo Ufficio Studi e la successiva istituzione dello stesso presso il Comune di Carmagnola, una serie di violazioni di legge, con l’unico intento, concretamente conseguito, di emarginare la detta funzionaria che, per il suo spirito di indipendenza da qualsiasi pressione politica, non era gradita all’Organo esecutivo del Comune e al segretario generale F., che affiancava ed ispirava l’azione del primo. Non manca la sentenza, inoltre, di motivare sotto il profilo fattuale, in maniera adeguata e logica, la conclusione alla quale perviene in relazione al ritenuto abuso d’ufficio posto in essere dagli imputati, illecito – però – dichiarato estinto per prescrizione. I corrispondenti motivi di ricorso non tolgono valenza agli argomenti in fatto e diritto su cui riposa la sentenza di merito.

Quanto alla deduzione difensiva, fatta anche nel corso dell’odierna discussione orale, del D. e del Fi. circa la loro asserita buona fede e l’errore scusabile sulla legge extrapenale, essendosi essi limitati a prendere parte all’atto deliberativo della Giunta, ritenendolo perfettamente regolare, e circa il connesso vizio di motivazione su tali specifici punti della sentenza di merito, va osservato che, stante la causa estintiva del reato, non è rilevabile in questa sede il denunciato vizio della sentenza impugnata, perché, pur a volerlo ritenere meritevole di una qualche considerazione, ciò comporterebbe l’inevitabile rinvio della causa all’esame del giudice di merito, il che è incompatibile con l’obbligo dell’immediata declaratoria di proscioglimento, ex art. 129 c.p.p., comma 1, per intervenuta estinzione del reato.

Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento in solido delle spese processuali. Non essendo stata mai pronunciata, nei precedenti gradi di merito, la condanna degli imputati per il reato loro ascritto, non possono porsi a loro carico, almeno allo stato, le spese sostenute dalla costituita parte civile, spese che dovranno essere liquidate, in base al relativo esito, nell’eventuale giudizio civile che potrà instaurarsi tra le parti contrapposte.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 1 ottobre 2008


Cass. pen. Sez. feriale, (ud. 26-08-2008) 01-09-2008, n. 34503

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE FERIALE PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE ROBERTO Giovanni – Presidente

Dott. ESPOSITO Antonio – Consigliere

Dott. KOVERECH Oscar – Consigliere

Dott. MACCHIA Alberto – Consigliere

Dott. GAZZARA Santi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) R.P. N. IL (OMISSIS);

2) S.J. N. IL (OMISSIS);

avverso SENTENZA del 17/01/2008 CORTE APPELLO di PALERMO;

visti gli atti, la sentenza ed il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. MACCHIA ALBERTO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. FEBBRARO Giuseppe, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
OSSERVA

Con sentenza del 17 gennaio 2008, la Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Termini Imerese, Sezione distaccata di Cefalù, il 5 maggio 2007 nei confronti di R.P. e S.J., ha escluso la circostanza aggravante di cui all’art. 625 c.p., n. 7, confermando la pena di mesi sei di reclusione ed Euro 300,00, di multa inflitta nei confronti del predetti quali imputati del delitto di furto di capi di abbigliamento commesso con destrezza.

Propone ricorso per cassazione il difensore deducendo vari motivi di ricorso. Nel primo, riproponendo questione già sollevata e disattesa nel gravame di merito, rileva che, contrariamente all’assunto della Corte territoriale doveva essere ritenuta valida la dichiarazione di domicilio effettuata dagli imputati presso il consolato tedesco contestando la fondatezza della tesi secondo la quale la elezione di domicilio avvenga in Italia. Pertanto, le notificazioni dovevano essere effettuate presso il domicilio dichiarato dagli imputati, e cioè presso il consolato tedesco. Si contesta, poi, la sussistenza della circostanza aggravante di cui all’art. 625 c.p., n. 4, e si lamenta, infine, che i giudici dell’appello, pur eliminando l’aggravante di cui all’art. 625 c.p., n. 7, abbiano mantenuto inalterato il trattamento sanzionatorio, senza svolgere sul punto adeguata motivazione.

Il ricorso è manifestamente infondato. A proposito del primo motivo, va infatti qui ribadito che deve essere ritenuta invalida ed inidonea agli scopi di legge l’elezione di domicilio presso una ambasciata od un consolato straniero, non essendo consentito procedere a notificazione in detti luoghi, caratterizzati da extraterritorialità (Cass., Sez. 3, 27 giugno 2007, Musaraj; Cass., Sez. 2, 13 gennaio 1986, Chasar). Le restanti censure si rivelano, da un lato, del tutto generiche, dall’altro inconsistenti, avuto riguardo alla più che esauriente motivazione che i giudici del merito hanno svolto per asseverare la sussistenza della aggravante della destrezza – alla luce della più che consolidata giurisprudenza consolidatasi sul punto – ed in merito alla determinazione di mantenere inalterato il trattamento sanzionatorio stabilito nella sentenza di primo grado;

trattamento che i giudici a quibus hanno, con motivazione incensurabile nella presente sede, reputato adeguato alla vicenda ed ai parametri di legge, stante il mantenuto giudizio di equivalenza che ha “sterilizzato”, agli effetti della pena, il risalto della residua circostanza aggravante.

Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso segue la condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle ammende di una somma che si stima equo determinare in Euro 1.000,00 ciascuno, alla luce dei principi affermati dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 186 del 2000.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna i ricorrenti in solido al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille ciascuno in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 26 agosto 2008.

Depositato in Cancelleria il 1 settembre 2008


Cass. civ. Sez. II, (ud. 29-04-2008) 29-08-2008, n. 21816

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. MIGLIUCCI Emilio – rel. Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

V.I., elettivamente domiciliata in ROMA VIA CARLO MIRABELLO 14, presso lo studio dell’avvocato MARINO GIANCARLO, che la difende, giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3126/05 del Giudice di pace di ROMA del 18.1.05, depositata il 24/01/05;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 29/04/08 dal Consigliere Dott. MIGLIUCCI Emilio;

lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale Dott. UCCELLA Fulvio, che ha concluso per la manifesta fondatezza del ricorso, con ogni ulteriore provvedimento come per legge.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
V.I. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Giudice di Pace di Roma dep. il 24 gennaio 2005 che aveva rigettato l’opposizione dalla medesima proposta avverso il verbale di contravvenzione elevato per violazione dell’art. dell’art. 146 C.d.S..

Il Giudice di Pace riteneva provato in base al verbale di contravvenzione, che l’opponente aveva proseguito la marcia nonostante che la lanterna semaforica proiettasse al momento del suo passaggio luce rossa.

Non ha svolto attività difensiva l’intimato.

Attivatasi procedura ex art. 375 cod. proc. civ., il Procuratore Generale ha inviato richiesta scritta di accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza.

Deve, infatti, accogliersi l’unico motivo con cui la ricorrente ha denunciato violazione e falsa applicazione di legge (art. 360 cod. proc. civ., n. 3) nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., n. 5),avendo la sentenza basato il proprio convincimento sull’efficacia fino querela di falso del verbale di contravvenzione, la cui veridicità poteva essere inficiata da un eventuale errore nella percezione della realtà.

Occorre considerare che con riferimento al verbale di accertamento di una violazione del codice della strada, l’efficacia di piena prova fino a querela di falso, che ad esso deve riconoscersi – ex art. 2700 cod. civ., in dipendenza della sua natura di atto pubblico – oltre che quanto alla provenienza dell’atto ed alle dichiarazioni rese dalle parti, anche relativamente “agli altri fatti che il pubblico ufficiale che lo redige attesta essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”, non sussiste nè con riguardo ai giudizi valutativi che esprima il pubblico ufficiale, nè con riguardo alla menzione di quelle circostanze relative a fatti i quali, in ragione delle loro modalità di accadimento repentino, non si siano potuti verificare e controllare secondo un metro sufficientemente obbiettivo, ed abbiano pertanto potuto dare luogo ad una percezione sensoriale implicante margini di apprezzamento, come nell’ipotesi in cui quanto attestato dal pubblico ufficiale concerna non la percezione di una realtà statica (come la descrizione dello stato dei luoghi, senza oggetti in movimento), bensì – come appunto nella specie – l’indicazione di un corpo o di un oggetto in movimento, con riguardo allo spazio che cade sotto la percezione visiva del verbalizzante (Cass. 457/2006;

1408/2005, 3522/1999).

Il giudicante,erroneamente attribuendo efficacia di prova munita di fede privilegiata al verbale di contravvenzione ex art. 2700 cod. civ., ha ritenuto provati i fatti senza compiere i necessari accertamenti, non ammettendo la prova testimoniale articolata dall’opponente.

Il ricorso va accolto;

La sentenza va cassata,con rinvio,anche per le spese della presente fase, al Giudice di Pace di Roma in persona di altro magistrato.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese della presente fase, al Giudice di Pace di Roma in persona di altro magistrato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 29 aprile 2008.

Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2008


Cass. civ. Sez. II, (ud. 05-06-2008) 28-08-2008, n. 21778

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ELEFANTE Antonino – Presidente

Dott. GOLDONI Umberto – Consigliere

Dott. TROMBETTA Francesca – Consigliere

Dott. MAZZACANE Vincenzo – Consigliere

Dott. MIGLIUCCI Emilio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

P.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIA MONSERRATO 34, presso lo studio dell’avvocato ARACHI TOMMASO, che lo difende unitamente all’avvocato UGO VESCIO, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

TELECOM ITALIA SPA, in persona del procuratore Speciale Dott.ssa S.B., elettivamente domiciliata in ROMA VIA D. CHELINI 5, presso lo studio dell’avvocato NUCCI FRANCESCO, che la difende unitamente all’avvocato LORENZO CASONI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso l’ordinanza n. 1206 bis/03 del Tribunale di FIRENZE, Sez. Stralcio depositata il 18/04/03 (R.G. 94/99);

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/06/08 dal Consigliere Dott. Emilio MIGLIUCCI;

udito l’Avvocato NUCCI Francesco, difensore del resistente che ha chiesto il rigetto del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. GAMBARDELLA Vincenzo che ha concluso per l’accoglimento del ricorso per quanto di ragione.

Svolgimento del processo
Con sentenza n. 11685/1997 la Corte di Cassazione annullava con rinvio l’ordinanza pronunciata dal Tribunale di Firenze ai sensi della L. n. 794 del 1942, art. 30, relativamente al credito per prestazioni professionali azionato con decreto ingiuntivo dall’avv. P.G. nei confronti della Telecom Italia s.p.a. che aveva proposto opposizione;

riassunto dalla Telecom Italia s.p.a il giudizio di rinvio, che era celebrato in contumacia del P., questi con provvedimento emesso dal Tribunale di Firenze l’11 aprile 2003, veniva condannato restituire le somme percepite in più rispetto al credito di cui era stato riconosciuto titolare.

Avverso tale decisione propone ricorso per cassazione il P. sulla base di un unico motivo.

Resiste con controricorso Telecom Italia s.p.a. che ha depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione
Va innanzitutto disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla resistente secondo cui, essendosi il giudizio di rinvio svoltosi secondo il rito ordinario, il provvedimento aveva natura di sentenza, natura che era confermata dal tipo di numerazione dell’atto: pertanto era suscettibile del rimedio impugnatorio dell’appello.

Al riguardo occorre considerare che il provvedimento impugnato è stato emesso all’esito del giudizio di rinvio dalla Cassazione che aveva annullato l’ordinanza emessa ai sensi della L. n. 742 del 1942, art. 30; orbene, il giudizio di rinvio costituisce prosecuzione del giudizio conclusosi con il provvedimento impugnato ed è regolato delle medesime norme che disciplinano quest’ultimo: l’eventuale inosservanza di tale disciplina o del rito prescritto può assumere rilievo eventualmente per dedurre i vizi del provvedimento ma non può incidere sulla sua natura.

Nella specie,in cui il giudice di rinvio ha pronunciato l’ordinanza all’esito del procedimento ex L. n. 742 del 1942, è del tutto irrilevante la numerazione dell’atto come sentenza.

Con l’unico motivo il ricorrente, lamentando violazione e falsa applicazione dell’art. 139 cod. proc. civ., denuncia la nullità del procedimento (art. 360 cod. proc. civ., n. 4) per inesistenza della notificazione dell’atto di riassunzione del giudizio di rinvio che gli era stato notificato – secondo quanto da lui casualmente appreso -in (OMISSIS) corso (OMISSIS) con consegna al Dr. A.A. presso studio, in luogo diverso da quello in cui il medesimo ha la residenza ((OMISSIS) via (OMISSIS)) e da quello da lui eletto nel corso del procedimento; d’altra parte non era indicata la relazione fra il ricorrente e colui che ebbe a ricevere l’atto notificato ex art. 139 cod. proc. civ..

Il motivo è fondato.

Occorre rilevare che l’atto di riassunzione del giudizio di rinvio,nel quale l’attuale ricorrente non ebbe a costituirsi, è risultato notificato al P. in (OMISSIS) corso (OMISSIS) che, secondo l’originale depositato dalla resistente, venne consegnato al Dott. A.A. addetto allo studio che ne cura la consegna: al riguardosa considerato che nel caso di discordanza tra i dati emergenti dalla copia dell’atto restituita a colui che ha richiesto la notificazione e quelli emergenti dalla copia dell’atto consegnato al destinatario, per stabilire se si sia verificata una decadenza a carico del primo deve aversi riguardo all’originale a lui restituito, mentre per stabilire se si sia verificata una decadenza a carico del secondo, deve aversi riguardo alla copia a lui consegnata (Cass. 20783/2006).

Nella specie, dovendo verificarsi se sia incorsa in decadenza la Telecom nel procedere alla riassunzione del giudizio di rinvio, occorre fra riferimento all’atto restituito ed in possesso del soggetto notificante.

1. Ciò premesso, va innanzitutto disatteso il rilievo formulato dalla resistente secondo cui, atteso che tutti i contatti fra le parti si erano svolti esclusivamente presso quello che era lo studio del legale del ricorrente ubicato in (OMISSIS) corso (OMISSIS), nell’ambito del rapporto contrattuale intercorso fra la parti il professionista doveva ritenersi a tutti gli effetti ivi domiciliato.

L’art. 141 cod. proc. civ., che regola la notificazione presso il domiciliatario, va coordinato con l’art. 47 cod. civ., secondo cui il domicilio eletto rappresenta una deroga al domicilio legale, atteso che la norma prevede che la dichiarazione di elezione di domicilio deve riguardare determinati atti o affari ed essere espressa per iscritto in modo in equivoco (Cass. 13987/2003).

Pertanto, non può ritenersi che la notificazione sia stata effettuata a quello che la resistente ha erroneamente considerato il domicilio eletto con riferimento al rapporto contrattale intercorso fra le parti, atteso che sarebbe stata al riguardo necessaria una specifica dichiarazione del P. secondo le forme di cui sopra si è detto.

2. In realtà, dalla documentazione in atti (corrispondenza intercorsa fra le parti; estratto albo ordine avvocati Pistoia), che può essere direttamente esaminata dalla Corte in considerazione della natura processuale del vizio denunciato – è emerso che il ricorrente aveva in (OMISSIS) corso (OMISSIS) il proprio studio legale.

Orbene,indipendentemente dalle modalità e dalla qualità della persona che ebbe a ricevere l’atto, la notificazione effettuata direttamente allo studio del professionista, cioè in uno del luoghi indicati in ordine successivo dall’art. 139 cod. proc. civ., anziché alla residenza (non coincidente con il primo), è da ritenere affetta da nullità ma non è certo inesistente, atteso che: a) è inesistente la notificazione fatta a soggetto o in luogo totalmente estraneo al destinatario, mentre è nulla e suscettibile di sanatoria quella effettuata in luogo o a persona che, pur diversi da quelli indicati dalla norma processuale, abbiano un qualche riferimento con il destinatario dell’atto (Cass. 17587/2007; 17555/2007); b) poiché l’ordine dei luoghi indicati dall’art. 139 cod. proc. civ., commi 1 e 6, per la notifica – se non possibile in mani proprie, ai sensi dell’art. 138 cod. proc. civ. – è in successione preferenziale, soltanto se la residenza e il domicilio del destinatario sono nello stesso luogo la notifica può effettuarsi alternativamente nell’una o nell’altro; se invece i rispettivi luoghi sono diversi, la notifica nel domicilio è nulla, se la residenza non è ignota (Cass. 1753/2005); c) costituisce onere del notificante compiere le ricerche anagrafiche necessarie per accertare la residenza effettiva del destinatario dell’atto da notificare.

Nella specie, il vizio della notificazione era, pertanto sanabile con la rinnovazione dell’atto che, non essendosi costituito il P., doveva essere disposta dal giudice ai sensi dell’art. 291 cod. proc. civ., la nullità della notificazione dell’atto di riassunzione ha comportato la conseguente nullità del giudizio di rinvio e del provvedimento impugnato che va cassato con rinvio, anche per le spese della presente fase, al Tribunale di Firenze in persona di altro magistrato.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso cassa l’ordinanza impugnata e rinvia, anche per le spese della presente fase, al Tribunale di Firenze in persona di altro magistrato.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 5 giugno 2008.

Depositato in Cancelleria il 28 agosto 2008