Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-06-2009) 03-07-2009, n. 15752

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

G.M. residente a (OMISSIS), rappresentato e difeso, giusta delega in calce al ricorso, dall’Avv. SALERNO Francesco, elettivamente domiciliato in Roma, Via Ettore Petrolini n. 2 presso lo studio dell’avv. Angela Ludovica Sirignani;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, nei cui uffici, in Roma, Via dei Portoghesi, 12 è domiciliata;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 53/01/2004, emessa inter partes dalla Commissione Tributaria Regionale di Milano – Sezione n. 01, in data 19/10/2004 e depositata il 10 novembre 2004.

Udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 04 giugno 2 009 dal Relatore Dott. Antonino Di Blasi;

Viste le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore Generale.

Svolgimento del processo
Il contribuente impugnava in sede giurisdizionale il silenzio rifiuto opposto alla domanda di rimborso dell’Irap degli anni dal 1998 al 2000.

L’adita CTP di Milano accoglieva il ricorso, con decisione che veniva riformata dal Giudice di appello, il quale, invece, riteneva fondato il gravame dell’Agenzia Entrate, e sussistenti i presupposti impositivi.

Con ricorso notificato il 17-20 ottobre 2005, il contribuente ha chiesto la cassazione dell’impugnata decisione.

L’Agenzia della Entrate, giusto controricorso notificato il 22.11.2005, ha chiesto che il ricorso venga dichiarato inammissibile e, comunque, rigettato, per infondatezza.

Con istanza 23.03.2009, il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l’accoglimento del ricorso per manifesta fondatezza.

Motivi della decisione
La Corte:

Visto il ricorso, come sopra notificato, con cui il contribuente censura l’impugnata decisione per violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 2, nonché per vizio di motivazione;

Visto il controricorso dell’Agenzia delle Entrate;

Vista la richiesta del Sostituto Procuratore Generale;

Considerato che il ricorso è a ritenersi fondato, sulla base di quanto enunciato dalla Corte di Cassazione in pregresse condivise pronunce, nelle quali è stato affermato il principio secondo cui “a norma del combinato disposto dal D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 2, primo periodo, e art. 3, comma 1, lett. c), l’esercizio delle attività di lavoro autonomo è escluso dall’applicazione dell’imposta regionale sulle attività produttive (IRAP) solo qualora si tratti di attività non autonomamente organizzata; il requisito dell’autonoma organizzazione, il cui accertamento spetta al giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità, se congruamente motivato, ricorre quando il contribuente: a) sia sotto qualsiasi forma, il responsabile dell’organizzazione e non sia, quindi, inserito in strutture organizzative riferibili ad altrui responsabilità ed interesse; b) impieghi beni strumentali eccedenti, secondo l’id quod plerumque accidit, il minimo indispensabile per l’esercizio dell’attività in assenza di organizzazione, oppure si avvalga in modo non occasionale di lavoro altrui. Costituisce onere del contribuente che chieda il rimborso dell’imposta asseritamente non dovuta dare la prova dell’assenza delle condizioni sopraelencate”. (Cass. n. 3680/2007, 3678/2007, n. 3676/2007, n. 3672/2007);

Considerato che i Giudici di appello, ritenendo che l’attività professionale svolta dal contribuente, dovesse considerarsi autonomamente organizzata, in presenza di elementi di supporto, anche minimali, affermando pure, che “solo per quei professionisti sprovvisti totalmente di propria organizzazione difetta il presupposto di applicabilità dell’Irap”, e giungendo, per tale via, a riconoscere l’esistenza dell’autonoma organizzazione, senza, per altro, indicare gli elementi indici dell’autonoma organizzazione quali desumibili dall’ormai consolidato orientamento giurisprudenziale, hanno fatto malgoverno dei principi desumibili dalle richiamate pronunce;

Considerato, infatti, che la sentenza omette di indicare, verificare e valutare, in concreto, alla stregua del ricordato principio, gli elementi indice dell’autonoma organizzazione, ed in particolare, la natura e consistenza dei beni strumentali e le spese per prestazioni di lavoro dipendente e collaborazioni coordinate e continuative;

elementi che, secondo l’assunto del ricorrente e dei Giudici di primo grado, erano insignificanti e/o inesistenti, ai fini della configurazione di una autonoma organizzazione;

Considerato, altresì, che la CTR, al riguardo sembra non essere andata oltre una apparente motivazione, e che, quindi, sussiste anche il vizio denunciato con il secondo mezzo, essendo principio consolidato quello secondo cui “ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legittimità, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il Giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento” (Cass. n. 1756/2006, n. 890/2006);

Considerato che la decisione impugnata va, quindi, cassata e, per l’effetto, la causa rinviata ad altra sezione della CTR della Lombardia, perchè proceda al riesame e, quindi, attenendosi ai richiamati principi ed al quadro normativo di riferimento, decida nel merito, ed anche sulle spese del presente giudizio di legittimità, motivando congruamente.

P.Q.M.
accoglie il ricorso del contribuente, cassa l’impugnata sentenza e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Lombardia.

Così deciso in Roma, il 4 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2009


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 28/05/2009) 03/07/2009, n. 15718

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30596-2005 proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

DELTAFRUTTA SRL in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CRESCENZIO 91, presso lo studio dell’avvocato LUCISANO CLAUDIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato COLOMBO LUIGI, giusta delega a margine;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 77/2005 della COMM. TRIB. REG. di MILANO, depositala il 03/10/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/05/2009 dal Consigliere dott. CAMILLA DI IASI;

udito per il resistente l’Avvocato COLOMBO, che si riporta agli scritti;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze e ‘Agenzia delle Entrate ricorrono nei confronti della s.r.l. Deltafrutta (che resiste con controricorso successivamente illustrato da memoria) e avverso la sentenza n. 71/26/05, depositata il 3-10-05, con la quale, in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento Irpef e Ilor per il 1995, la C.T.R. Lombardia, in riforma della sentenza di primo grado (che aveva accolto solo parzialmente il ricorso della contribuente), accoglieva l’appello della suddetta contribuente, in particolare rilevando che la parte di costi ripresi a tassazione e non annullati dai primi giudici riguardava premi che la società era “costretta” a riconoscere ogni fine anno in base al quantitativo di merce acquistata e che i primi giudici avevano motivato il rigetto del ricorso introduttivo sul punto col rilievo che la società non era stata in grado di produrre contratti di fornitura in cui fosse prevista la spettanza al cliente dei suddetti premi, senza considerare che il riconoscimento di tali premi è notoriamente una prassi per chi commercia all’ingrosso ed ha a che fare con grosse aziende ed inoltre che la società aveva “giustificato” i premi contestati con documenti quali fatture e note di accredito.

Motivi della decisione
Col primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 53 nonchè difetto assoluto di motivazione, i ricorrenti rilevano che, benchè nelle controdeduzioni fosse stata eccepita l’inammissibilità dell’appello perchè notificato all’Ufficio di Milano (OMISSIS) dell’Agenzia delle Entrate e non all’Ufficio Milano (OMISSIS) – che aveva partecipato al giudizio di primo grado ed era in ogni caso l’Ufficio competente, i giudici d’appello avevano deciso il merito senza spendere alcuna motivazione sulla suddetta eccezione.

La censura è infondata.

In particolare, non sussiste il denunciato vizio di violazione di Legge, alla luce della giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), secondo la quale la notifica da parte del contribuente dell’atto di impugnazione – nel caso di specie l’appello – presso un ufficio dell’Agenzia delle Entrate non territorialmente competente, perchè diverso da quello che aveva emesso l’atto impositivo, non comporta nè nullità nè decadenza dell’impugnazione, sia per il carattere unitario della stessa Agenzia delle Entrate, sia per il principio di effettività della tutela giurisdizionale, che impone di ridurre al massimo le ipotesi di inammissibilità, sia, infine, per la natura impugnatoria del processo tributario, che attribuisce la qualità di parte necessaria all’organo che ha emesso l’atto o il provvedimento impugnato (v. Cass. n. 29465 del 2008).

La censura di difetto di motivazione è invece inammissibile.

In proposito, premesso che il difetto di motivazione denunciato, ancorchè assoluto, riguarda la sola questione in esame, e pertanto non è configurabile nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., n. 4, è sufficiente rilevare che la questione dell’ammissibilità o meno di una impugnazione notificata ad un Ufficio dell’Agenzia delle Entrate non territorialmente competente è questione di diritto e che, secondo in costante giurisprudenza di questo giudice di legittimità, quando viene denunciato un difetto di motivazione non riguardante un accertamento in fatto, bensì un’astratta questione di diritto, il giudice di legittimità – investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione (manchevole o inesatta) della sentenza impugnata – è chiamato a valutare se la soluzione adottata dal giudice del merito sia oggettivamente conforme alla legge, piuttosto che a sindacarne la motivazione, con la conseguenza che l’eventuale mancanza o erroneità di questa deve ritenersi del tutto irrilevante, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. tra le altre Cass. n. 15764 del 2004 e n. 12753 del 1999).

Col secondo moti vo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. 917/8652, art. 75 e art. 115 c.p.c. nonchè dei principi in tema di documentazione delle spese e degli altri componenti negativi ammessi in deduzione, nonchè di fatti notori, oltre che difetto d i motivazione, i ricorrenti rilevano che la necessaria prova delle spese chieste in deduzione deve essere rigorosa e deve riguardare sia l’an che il quantum della spesa, aggiungendo che il fatto notorio comporta una deroga al principio dispositivo e va perciò inteso in senso rigoroso, come tatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, non potendo ritenersi rientranti nella nozione di fatto notorio elementi valutativi che implicano cognizioni particolari o la pratica di determinate situazioni e non potendo in ogni caso il fatto notorio concernere il quantum della spese, che riguarda i singoli contratti e le singole pattuizioni rimesse all’andamento del mercato, alla cd. forza di penetrazione del prodotto, nonchè alla rilevanza commerciale ed economica delle parti contrattuali.

La censura è fondata.

Giova infatti innanzitutto premettere che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, qualora l’ufficio finanziario sostenga il carattere fittizio di determinate operazioni, può limitarsi a contestarne il compimento, gravando sul contribuente, che intenda insistere per la deducibilità dei relativi costi, di fornire la prova della loro effettiva sopportazione (v. tra le altre Cass. n. 21474 del 2004 e n. 6591 del 2008), con la conseguenza che gravava sulla contribuente l’onere di fornire la prova sia della sussistenza che del l’ammontare dei suddetti costi.

Nella specie la suddetta prova non risulta fornita, posto che, come emerge dalla sentenza impugnata, la documentazione in proposito fornita è costituita da non meglio identificate fatture e note di accredito, non certo da contratti, di fornitura in cui sia prevista la spettanza al cliente dei suddetti premi ed il loro ammontare, mentre, ove anche si volesse ritenere (prescindendo da ogni altra possibile considerazione) provato per tatto notorio che il riconoscimento di tali premi è una prassi per chi commercia all’ingrosso ed ha a che tare con grosse aziende, mancherebbe in ogni caso la prova del l’ammontare dei suddetti premi.

Con riguardo alla possibilità, per il cedente del bene o il prestatore del servizio, secondo il D.P.R. n. 633 del 1972, di portare in detrazione l’imposta, ai sensi del precedente art. 19, comma 1, registrando la corrispondente variazione d’imposta quando l’operazione commerciale per la quale sia stata emessa fattura veda ridotto il suo ammontare in conseguenza, tra l’altro, di abbuoni o sconti commerciali contrattualmente previsti, a condizione che venga praticato dal contribuente uno sconto sul prezzo di vendita e che la riduzione del corrispettivo al cliente sia frutto di un accordo, sia esso documentale, verbale e finanche successivo, giova evidenziare che la norma riguarda l’IVA e i cd. sconti, non i premi, come peraltro evidenziato dalla stessa giurisprudenza citata dalla contribuente nella memoria illustrativa, secondo la quale “nessun diritto a detrazione può essere riconosciuto quando nelle riduzioni operate sia ravvisabile la natura di premio di fine anno anzi che di sconto” (v. in termini Cass. n. 5006 del 2007 e v. anche Cass. n. 4770 del 2009.

Alla luce di quanto sopraesposto, il primo motivo deve essere rigettato e il secondo deve essere accolto. La sentenza impugnata devi essere cassata in relazione al motivo accolto con rinvio ad altro giudice che provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Rigetta il primo motivo di ricorso e accoglie il secondo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese a diversa sezione della C.T.R. Lombardia.

Così deciso in Roma, il 28 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 3 luglio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 18-03-2009) 02-07-2009, n. 15525

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MERONE Antonio – Presidente

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

ESATRI – Esazione Tributi s.p.a. in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa in forza di mandato generale alle liti del 9.9.1999 n. 38925/2584 di repertorio del Notaio Stefano Zanardi di Milano e di delega a margine del ricorso dagli avvocati Bertolotti Maria e dagli avvocati Simona Napolitani e Antonio Spinoso, con domicilio eletto presso lo studio dei secondi in Roma, Viale delle Milizie n. 1;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DI ITALGRUPPI s.a.s. di Pappalardo Banino e C. e del socio accomandatario P.B. in persona del Curatore C. M., elettivamente domiciliato per il giudizio di secondo grado in Lecco, via Cavour n. 52 presso il dott. Marco Barassi.

– resistente non costituita nel presente grado del giudizio –

avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale di Milano – Sezione n. 42 – n. 16/42/05 pronunciata il 19 gennaio 2005, depositata il 3 febbraio 2005 e notificata il 19 maggio 2005;

udita la relazione del Consigliere Dr. Renato Polichetti;

Viste le conclusioni scritte del P.G. Dott. Ennio Attilio Sepe.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza del 24.09.2001 la Commissione Tributaria Provinciale di Milano rigettava il ricorso della società Italgruppi s.a.s. di Pappalardo Banino e c. fallita in persona del Curatore fallimentare, avverso gli avvisi di mora, notificati in data 26.06.2000, emessi dalla concessionaria dalla riscossione Esatri s.p.a. in materia di IVA e accessori per gli anni 1992, 1994, 1995 e 1996 per un totale di L. 682.129.637 pari ad attuali Euro 352.290,56.

Tale sentenza veniva appellata dal Curatore fallimentare, autorizzato dal giudice delegato, adducendo la nullità degli avvisi di mora non preceduti da regolare notifica delle cartelle di pagamento cui i suddetti avvisi si riferivano. La Commissione Tributaria Regionale di Milano accoglieva l’appello e per l’effetto annullava i suddetti avvisi di mora.

Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso innanzi a questa Corte La Esatri s.p.a. deducendo la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 30 così come modificato dal D.L. 31 dicembre 1996, art. 5, comma 4, lett. B convertito nella L. n. 30 del 1997, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la predetta norma non prevedeva alcuna sanzione in relazione alla mancata notifica della cartella esattoriale ed essendo sufficiente la sola notifica dell’avviso di mora.

Deduceva, inoltre, la società ricorrente la violazione e falsa applicazione dell’art. 145 c.p.c., comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, in quanto la cartelle esattoriali prodromi che agli avvisi di mora impugnati erano stati effettuati presso la sede della società destinataria degli stessi; in ogni caso doveva trovare applicazione il comma 3 del suddetto articolo che, con il richiamo agli artt. 138, 139 e 141 c.p.c. attribuisce validità alla notifica effettuata a mani di soggetti diversi dal legale rappresentante peraltro elencati solo in modo esemplicativo.: Nel caso di specie la notifica doveva ritenersi valida anche se effettuato non a mani del legale rappresentante. Deduceva infine la società ricorrente la insufficienza e contraddittorietà della motivazione su di un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto la Commissione Tributaria Regionale avrebbe operato una erronea equiparazione tra procedimento di riscossione e procedimento esecutivo. Il primo motivo di ricorso è infondato. Come stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte: “In materia di riscossione delle imposte, atteso che la correttezza del procedimento di formazione della pretesa tributaria è assicurata mediante il rispetto di una sequenza procedimentale di determinati atti, con le relative notificazioni, allo scopo di rendere possibile un efficace esercizio del diritto di difesa del destinatario, l’omissione della notifica di un atto presupposto costituisce un vizio procedurale che comporta la nullità dell’atto consequenziale notificato. Poichè tale nullità può essere fatta valere dal contribuente mediante la scelta, consentita dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 3, di impugnare solo l’atto consequenziale notificatogli (avviso di mora, cartella di pagamento, avviso di liquidazione), facendo valere il vizio derivante dall’omessa notifica dell’atto presupposto, o di impugnare cumulativamente anche quello presupposto (nell’ordine, cartella di pagamento, avviso di accertamento o avviso di liquidazione) non notificato, facendo valere i vizi che inficiano quest’ultimo, per contestare radicalmente la pretesa tributaria spetterà al giudice di merito, interpretando la domanda, verificare la scelta compiuta dal contribuente, con la conseguenza che, nel primo caso, dovrà verificare solo la sussistenza o meno del difetto di notifica al fine di pronunciarsi sulla nullità dell’atto consequenziale (con eventuale estinzione della pretesa tributaria a seconda se i termini di decadenza siano o meno decorsi), nel secondo la pronuncia dovrà riguardare l’esistenza, o no, di tale pretesa” (Sez. U, Sentenza n. 5791 del 04/03/2008 (Rv. 602254)).

Ciò vale per l’omessa notifica di avvisi di accertamento effettuati, come nel caso in esame, in epoca anteriore alla riforma introdotta dal D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46 (Cass. Sezioni Unite 25.07.2007 n. 16412 Rv. 598269).

Anche il secondo motivo di ricorso è infondato.

Al riguardo deve essere rilevata la contraddittorietà di tale motivo che equipara il comma 3 del citato art. 145 c.p.c., al comma 1.

La norma in questione infatti stabilisce, al comma 1, che: “La notificazione alle persone giuridiche si esegue nella loro sede, mediante consegna di copia dell’atto al rappresentante o alla persona incaricata di ricevere le notificazioni o, in mancanza, ad altra persona addetta alla sede stessa”.

Solo nel caso in cui la notificazione non possa essere eseguita a norma del comma precedente e nell’atto è indicata la persona fisica che rappresenta l’ente, si osservano le disposizioni degli artt. 138, 139 e 141 c.p.c..

Se dunque la notifica era stata effettuata ai sensi del comma 1 del suddetto articolo, come sostenuto dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la sede della società, la notifica andava eseguita ai soggetti ivi indicati e non certamente come nel caso di specie a persona qualificatasi quale “conoscente del legale rappresentante”.

Il terzo motivo di ricorso è del pari infondato alla luce della giurisprudenza citata in occasione dell’esame del primo motivo di ricorso.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso. Nulla spese.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 2 luglio 2009


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 06-05-2009) 22-06-2009, n. 14586

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MATTONE Sergio – Presidente

Dott. ROSELLI Federico – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

Dott. MELIADO’ Giuseppe – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.F., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SCIPIONI 182, presso lo studio dell’avvocato SANSONI MAURIZIO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato BOGGIO MARZET CARLO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

CIME BIANCHE S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PACUVIO 34, presso lo studio dell’avvocato ROMANELLI GUIDO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SORMANO MARCO, giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 522/2007 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 18/04/2007 R.G.N. 1522/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/05/2009 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE MELIADO’;

udito l’Avvocato ROMANELLI GUIDO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RIELLO Luigi, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
Con sentenza in data 13/18.4.2007 la Corte di appello di Torino, in riforma della sentenza del Tribunale di Biella dell’8.6.2006, impugnata dalle Cime Bianche srl, rigettava la domanda proposta da M.F. per l’annullamento del licenziamento intimatogli il 13.7.2005.

Osservava in sintesi la corte territoriale che, ai fini della legittimità del licenziamento, rilevava che la condotta del lavoratore aveva determinato il blocco, pur solo momentaneo, delle macchine e l’abbandono del posto di lavoro di cui lo stesso aveva la responsabilità, e che ciò era ancor più grave se si considera che il fatto era avvenuto in orario notturno, ove presumibilmente minori erano i controlli dei superiori, senza che potesse avere rilievo la lunga carriera lavorativa del dipendente, l’assenza di precedenti sanzioni, la mancanza di alcun danno alla produzione o la previsione di una più lieve sanzione da parte del contratto collettivo, trattandosi di elencazione meramente esemplificativa e rilevando nella fattispecie la posizione di responsabile del reparto del dipendente.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso M.F. con quattro motivi. Resiste con controricorso la Cime Bianche s.r.l., illustrato con memoria.

Motivi della decisione
Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, il ricorrente lamenta violazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 1 in relazione agli artt. 72 e 74 del CCNL del settore tessile.

In particolare osserva che la corte piemontese, omettendo una lettura sistematica delle indicate disposizioni contrattuali, non ha considerato che, sulla base delle stesse, l’estrema sanzione del licenziamento è prevista come adeguata solo rispetto alla ipotesi di abbandono del posto di lavoro, che determini pregiudizio all’incolumità delle persone o alla sicurezza degli impianti:

circostanze nella specie non sussistenti, essendosi trattato del momentaneo allontanamento dalla postazione lavorativa, con permanenza del lavoratore negli stessi locali aziendali, a breve distanza dalla prima e senza alcun danno per la attività produttiva.

Con il secondo motivo, svolto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 1455, 2106, 2119 e 2697 c.c. e alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 5, il ricorrente si duole che la corte territoriale ha adottato la massima sanzione senza alcuna effettiva indagine circa la posizione di responsabilità del dipendente, fatta derivare da documenti inutilizzabili (in quanto relativi a procedimenti disciplinari archiviati) e senza accertare la sua riconducibilità al piano tecnico, più che a quello gerarchico. Con il terzo motivo, il ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 in relazione agli artt. 1455, 2106, 2119, 2697 e 2727 c.c. e alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 5, che la corte di merito ha connotato di particolare gravità il comportamento contestato tenendo conto dell’orario in cui l’episodio si è verificato senza, tuttavia, accertare l’effettiva assenza di controlli e l’assoluta occasionalità della presenza del direttore nello stabilimento in orario serale.

Con l’ultimo motivo, infine, il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 1455, 2106 e 2119 c.c. e art. 116 c.p.c., nonché vizio di motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio osservando che la sentenza impugnata, omettendo una valutazione concreta e complessiva dei fatti, sia sotto il profilo soggettivo che oggettivo, ha mancato di vagliare la lunga durata del rapporto di lavoro, l’assenza di recidiva e il comportamento successivo stesso del datore di lavoro, il quale si era interessato per reperire al dipendente una nuova occupazione.

I motivi, per la connessione delle argomentazioni e delle problematiche, vanno esaminati congiuntamente e risultano meritevoli di accoglimento nei limiti che saranno oltre specificati.

Deve premettersi, con riferimento al principio di necessaria proporzionalità fra fatto addebitato e recesso (che costituisce il tema controverso essenziale della presente controversia), come la giurisprudenza di questa Suprema Corte abbia da tempo individuato l’inadempimento idoneo a giustificare il licenziamento in ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali (cfr. per tutte Cass. n. 14551/2000; Cass. n. 16260/2004), sicchè quel che è veramente decisivo, ai fini della valutazione della proporzionalità fra addebito e sanzione, è l’influenza che sul rapporto di lavoro sìa in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Ne deriva che la proporzionalità della sanzione non può essere valutata solo in conformità alla funzione dissuasiva che la stessa sia destinata ad esercitare sul comportamento degli altri dipendenti, dal momento che il principio di proporzionalità implica un giudizio di adeguatezza eminentemente soggettivo, e cioè calibrato sulla gravità della colpa e sull’intensità della violazione della buona fede contrattuale che esprimano i fatti contestati, alla luce di ogni circostanza utile (in termini soggettivi ed oggettivi) ad apprezzarne l’effettivo disvalore ai fini della prosecuzione del rapporto contrattuale.

Solo a queste condizioni, del resto, il principio di proporzionalità risulta in grado di influire sul comportamento degli altri dipendenti senza assumere un valore di “esemplarità” disgiunto dalla misura della responsabilità del dipendente e dalla conseguente realizzazione dell’interesse aziendale in termini proporzionati alla portata della prima, garantendo in tal modo, per come si è detto, la reale eticità del rapporto.

Sulla base di tale configurazione, spetta, pertanto, al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitatola tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi, innanzi tutto, rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia.

In particolare merita di essere ribadito che, se la nozione di giusta causa è nozione legale ed il giudice non è vincolato alle previsioni contrattuali configuranti determinate condotte quali giusta causa di recesso, tuttavia ciò non gli impedisce di far riferimento alle valutazioni che le parti sociali abbiano fatto della gravità di determinate condotte come espressive di criteri di normalità (cfr. Cass. n. 2906/2005), con la conseguenza che il datore di lavoro non potrà in linea di principio (e cioè, in assenza di puntuali controindicazioni in punto di proporzionalità) irrogare un licenziamento per giusta causa quando questo costituisca una sanzione più grave di quella prevista dal contratto collettivo in relazione ad una determinata infrazione (cfr. Cass. n. 19053/2005).

La sentenza impugnata non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati. In particolare, la corte piemontese, non operando una valutazione coordinata e unitaria dei dati legalmente rilevanti ai fini della valutazione della proporzionalità della sanzione, ha assegnato esclusivo ed autosufficiente rilievo alla posizione (peraltro non formalizzata) di responsabilità del dipendente, senza considerare, nell’ambito di un apprezzamento che doveva essere necessariamente globale e non parcellizzato, innanzi tutto le difformi previsioni della contrattazione collettiva, che, enucleate al fine di “garantire un rapporto quanto più definito tra sanzione e mancanza”, hanno tipizzato espressamente il fatto contestato prevedendo, con riferimento allo stesso, le minori sanzioni della sospensione o della multa; previsioni dalle quali la corte di merito non poteva prescindere, specie in un contesto professionale (sicuramente rilevante ai fini della prognosi circa la correttezza del futuro adempimento) caratterizzato da una durata ultraventennale del rapporto e dall’assenza di precedenti sanzioni.

A ciò si aggiunga che, nella ricostruzione dei fatti (sulla quale pure è pesato il rilievo assorbente ed autosufficiente riconosciuto alla posizione di responsabilità del dipendente), i giudici di appello hanno omesso di valutare, anche alla luce delle previsioni contrattuali, se si trattò di vero e proprio abbandono del posto di lavoro, ovvero di momentaneo allontanamento dalla postazione lavorativa, con trasferimento per un assai breve arco di tempo in locali attigui a quelli ove erano siti gli impianti (e quindi, di sospensione del lavoro), così come si è trascurato di considerare il carattere non preordinato della riunione e l’assoluta assenza di danno per la produzione (sospesa per non più di dieci minuti).

Il che implica che la corte di merito ha operato una valutazione sostanzialmente astratta della vicenda processuale, incapace di cogliere, attraverso la rilevazione degli elementi sintomatici essenziali della sua gravità, l’effettivo disvalore del comportamento addebitato.

La sentenza impugnata va, pertanto, cassata e la causa rimessa ad altra corte territoriale, la quale, decidendo anche in ordine alle spese, provvederà a nuovo esame da compiersi alla luce del seguente principio di diritto: “In caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, viene in considerazione ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto si risolva in un pregiudizio per gli scopi aziendali, essendo determinante, ai fini del giudizio di proporzionalità, l’influenza che sul rapporto di lavoro sia in grado di esercitare il comportamento del lavoratore che, per le sue concrete modalità e per il contesto di riferimento, appaia suscettibile di porre in dubbio la futura correttezza dell’adempimento e denoti una scarsa inclinazione ad attuare diligentemente gli obblighi assunti, conformando il proprio comportamento ai canoni di buona fede e correttezza.

Spetta al giudice di merito valutare la congruità della sanzione espulsiva non sulla base di una valutazione astratta del fatto addebitatola tenendo conto di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, alla luce di un apprezzamento unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto ad un’utile prosecuzione del rapporto di lavoro, assegnandosi a tal fine preminente rilievo alla configurazione che delle mancanze addebitate faccia la contrattazione collettiva, ma pure all’intensità dell’elemento intenzionale, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto (ed in specie alla sua durata e all’assenza di precedenti sanzioni), alla sua particolare natura e tipologia”.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia anche per le spese alla Corte di appello di Genova.

Così deciso in Roma, il 6 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2009


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 13-03-2009) 22-06-2009, n. 14528

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SENESE Salvatore – Presidente

Dott. TALEVI Alberto – Consigliere

Dott. AMATUCCI Alfonso – rel. Consigliere

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Consigliere

Dott. D’AMICO Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso 30949/2005 proposto da:

V.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI Gina, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

HDI ASSIC SPA, in persona del suo procuratore speciale P. M. elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSTANTINO MORIN 45, presso lo studio dell’avvocato ARDITI DI CASTELVETERE MICHELE, che la rappresenta e difende in forza di procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

S.A., N.M., SARA ASSIC SPA, C.A., C.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4714/2005 del TRIBUNALE di ROMA, Sezione Dodicesima emessa il 04/02/05; depositata il 25/02/2005; R.G.N. 32424/02;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 13/03/2009 dal Consigliere Dott. ALFONSO AMATUCCI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RUSSO Libertino Alberto, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
1.- V.A., passeggera sull’autovettura Alfa 75 condotta da C.A. di proprietà di C. M. ed assicurata presso HDI Assicurazioni s.p.a., convenne in giudizio innanzi al giudice di pace N.M., S. A. e Sara s.p.a. (nelle rispettive qualità di conducente, proprietario ed assicuratrice della Lancia Prisma antagonista) chiedendone la condanna solidale al risarcimento dei danni alla persona riportati a seguito dello scontro tra le due autovetture, che affermò essersi verificato a (OMISSIS) per colpa esclusiva del conducente della Lancia;

2.- Furono in seguito chiamati in causa i C. e HDI Assicurazioni, dei quali pure l’attrice domandò la condanna.

Nella dichiarata contumacia di S.A. (per quanto in questa sede interessa), con sentenza n. 23810/01 il giudice di pace condannò i primi convenuti ( N., S. e Sara) al risarcimento del 50% dei danni riportati dall’attrice, che propose appello, cui resistettero il S., il N. e HDI Assicurazioni s.p.a..

2.- Con sentenza n. 4714/05 il tribunale di Roma, in accoglimento delle eccezioni dei convenuti, ha dichiarato la V. decaduta dall’appello nei confronti di HDI ex art. 327 c.p.c., comma 1, e, rilevata la nullità della notificazione dell’atto di citazione in primo grado ad S.A., ha rimesso la causa al primo giudice per la rinnovazione della notificazione al medesimo della citazione introduttiva.

3.- Avverso detta sentenza ricorre per cassazione V.A. affidandosi a due motivi, cui resiste con controricorso la sola HDI Assicurazioni s.p.a..

Motivi della decisione
1. La società controricorrente prospetta l’inammissibilità del ricorso sul rilievo che il testo della procura speciale rilasciata al difensore, riportato sulla copia notificata del ricorso, non è, in tale copia, sottoscritto dalla parte che la ha rilasciata, sicchè non sarebbe possibile verificare l’effettiva anteriorità della procura rispetto al momento di proposizione del ricorso.

L’eccezione si presta ad essere considerata infondata alla stregua del principio affermato da Cass., 2.7.2007, n. 14697, secondo la quale, ai fini dell’ammissibilità del ricorso per Cassazione, pur essendo necessario che il mandato al difensore sia stato rilasciato in data anteriore o coeva alla notificazione del ricorso all’intimato, non occorre che la procura sia integralmente trascritta nella copia notificata all’altra parte, ben potendosi pervenire d’ufficio, attraverso altri elementi, purchè specifici ed univoci, alla certezza che il mandato sia stato conferito prima della notificazione dell’atto. Ed ha ritenuto sufficiente, ai fini della prova dell’anteriorità della procura, l’apposizione della stessa a margine dell’originale dell’atto.

La controcorrente sembra addirittura ipotizzare che colui che rilascia la procura debba apporre, in calce alla stessa, due sottoscrizioni: una sull’originale ed una sulla copia notificata del ricorso. Ma a tanto osta il rilievo che la legge (art. 137 cod. proc. civ., comma 2) impone la notificazione di una “copia” dell’atto (esso solo da sottoscrivere anche dal difensore ex art. 125 cod. proc. civ., comma 1), sicchè l’eccezione si presta ad essere ritenuta infondata alla stregua del principio sopra esposto, in linea con la regola generale – che ormai decisamente connota le decisioni di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass., n. 25727 del 2008) in materia processuale – secondo la quale le norme di rito debbono essere interpretate in modo razionale e in correlazione con il principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), in guisa da rapportare gli oneri di ogni parte alla tutela degli interessi della controparte, dovendosi escludere che l’ordinamento imponga nullità non collegabili con la tutela di alcun ragionevole interesse processuale delle stesse (art. 156 c.p.c., comma 3).

2.- Col primo motivo di ricorso sono denunciate violazione e falsa applicazione degli artt. 139 e 160 c.p.c., nonchè della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, in relazione alla ritenuta nullità della notificazione dell’atto di citazione di primo grado ad S. A., ravvisata dal tribunale in quanto “l’atto di citazione risulta inviato a mezzo del servizio postale (art. 149 c.p.c.) presso il domicilio di Vico 2 S. Nicola alla Dogana 15 Napoli (dove peraltro l’atto d’appello è stato regolarmente notificato) e ritirato in data 21.3.2000, non risultando tuttavia nell’avviso di ricevimento alcuna menzione circa la persona (e qualità della stessa) cui il piego veniva consegnato. Di qui l’impossibilità, essendo il S. rimasto contumace in primo grado, di vetrificare la ritualità o meno della notifica ai sensi della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, con riferimento all’art. 149 c.p.c.”.

Vi si afferma che l’avviso di ricevimento indica che la copia dell’atto è stata consegnata al ricevente che ha sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile, nello spazio riservato al “destinatario o persona delegata” e che Cass., Sez. un., n. 21712 del 2004, ha affermato che la circostanza comporta necessariamente attestazione, facente prova fino a querela di falso, che l’atto è stato consegnato a persona coincidente col destinatario della notificazione; attestazione non superabile dal mero diniego della ricezione dell’atto.

2.1.- Col secondo motivo sono dedotte violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 331 c.p.c., per avere il tribunale dichiarato V.A. decaduta dall’appello nei confronti di HDI assicurazioni s.p.a. nell’assunto che, essendo stata la notificazione dell’appello effettuata nel domicilio reale anzichè in quello eletto presso il difensore, la costituzione in appello della HDI avvenuta oltre il termine di cui all’art. 327 c.p.c., al solo scopo di eccepire l’intervenuto passaggio in giudicato della sentenza di primo grado non avesse sanato la nullità, “non ricorrendo l’ipotesi dell’art. 331 c.p.c.”.

Ipotesi che invece ricorreva, vertendosi tra l’altro in un caso di gravame avverso sentenza emessa in causa promossa con azione diretta nei confronti dell’assicuratore per la responsabilità civile ex L. n. 990 del 1969, che contempla un caso di litisconsorzio necessario tra l’assicuratore ed il proprietario del veicolo.

3.- Lo scrutinio del primo motivo, potenzialmente assorbente, induce al rilievo che la sopra citata Cass., Sez. un., n. 21712 del 2004, in fattispecie nella quale era stata eccepita la nullità del procedimento per l’omessa notificazione dell’avviso di discussione dinanzi al Consiglio Nazionale Forense, ha testualmente affermato:

“risulta che la convocazione per l’udienza di discussione è stata notificata alla ricorrente a mezzo del servizio postale e che l’avviso di ricevimento, depositato in atti, indica che la copia dell’atto è stata consegnata al ricevente che ha sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile, ciò comporta l’attestazione, facente prova fino a querela di falso (Cass. 1 marzo 2003, n. 3065), che l’atto è stato consegnato a persona coincidente con il destinatario della notificazione, (indicato come …), e tale attestazione non può essere superata dal mero diniego della ricezione dell’atto”.

L’inequivoco corollario di tale enunciazione – non supportata da motivazione ulteriore rispetto a quella sopra riportata – sarebbe l’enunciazione, nel caso di specie, di un principio del seguente contenuto: “se dall’avviso di ricevimento della notificazione effettuata ex art. 149 c.p.c., a mezzo del servizio postale non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 2, deve ritenersi che la sottoscrizione illeggibile apposta nello spazio riservato alla firma del ricevente sia stata vergata dallo stesso destinatario, con la conseguenza che la notificazione è valida, non risultando integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 cod. proc. civ.”. Alla stregua di tale principio, la censura dovrebbe essere accolta e la sentenza cassata, in quanto dovrebbe concludersi nel senso che il tribunale abbia errato nel ritenere nulla una notificazione invece regolare.

Senonchè il collegio ritiene che a giustificare tale conclusione possa non rivelarsi sufficiente il rilievo che la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 4, preveda che “quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario, la firma deve essere seguita …dalla qualità rivestita dal consegnatario” e che, dunque, possa ritenersi a contrario che l’indicazione della qualità non è necessaria quando il ricevente sia il destinatario medesimo; con la conseguenza che, se nulla sia scritto di seguito alla firma, deve aversi per certo che ricevente e destinatario coincidano, appunto fino a querela di falso.

Il modello dell’avviso di ricevimento, che non consta essere stato predisposto dall’amministrazione in difformità dalla normativa che lo contempla, prevede invero ben 10 ipotesi di “ricevente”, con altrettante caselle destinate ad essere barrate dall’agente postale che effettua la consegna: tra tali ipotesi (e tra tali caselle) le prime due concernono proprio il destinatario (persona fisica o giuridica); sicchè, tutte le volte che il modulo risulti compiutamente compilato dall’agente postale, è comunque rivelata la qualità rivestita dal consegnatario, quand’anche egli sia lo stesso destinatario.

Nella specie, nessuna delle caselle risulta barrata.

La soluzione della questione sembra di determinante rilievo, attenendo alla instaurazione del contraddittorio. Appare dunque opportuno disporre che gli atti siano trasmessi al Primo presidente in vista dell’eventuale assegnazione alle Sezioni unite.

P.Q.M.
LA CORTE DI CASSAZIONE dispone la trasmissione degli atti al Primo presidente in vista dell’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 13 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 22 giugno 2009


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 18-03-2009) 19-06-2009, n. 14466

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’AGOSTINO Giancarlo – rel. Presidente

Dott. COLETTI DE CESARE Gabriella – Consigliere

Dott. LA TERZA Maura – Consigliere

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12061-2008 proposto da:

D.R.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI GINA, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

I.N.P.S. ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA;

SOCIALE, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli avvocati RICCIO ALESSANDRO, PULLI CLEMENTINA, VALENTE NICOLA, giusta mandato in calce del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1272/2007 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 07/05/2007 R.G.N. 860/06;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/03/2009 dal Consigliere Dott. GIANCARLO D’AGOSTINO;

udito l’Avvocato PULLI CLEMENTINA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RIELLO Luigi che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo
La Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 1272 depositata il 7 maggio 2007, ha rigettato l’appello proposto da D.R.E., quale erede di B.M., avverso la sentenza 1884/05 del Tribunale di Roma, che aveva dichiarato inammissibile per difetto di valida procura la domanda intesa ad ottenere la condanna dell’INPS al pagamento di interessi e rivalutazione sui ratei di pensione corrisposti in ritardo.

La Corte di Appello ha ritenuto nulla la procura alle liti all’avv. Gina Tralicci perchè rilasciata all’estero ed autenticata dal difensore italiano, mentre avrebbe dovuto essere autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge dello Stato Estero ad attribuirle pubblica fede.

Per la cassazione di tale sentenza la sig.ra D.R. ha proposto ricorso con un motivo. L’INPS resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Con l’unico motivo di ricorso si denuncia violazione degli art. 83 c.p.c. e art. 2693 c.c. e si sostiene che quando l’autentica della sottoscrizione sia stata effettuata da un difensore esercente in Italia, il rilascio del mandato e l’autentica devono presumersi avvenuti in Italia. Grava di conseguenza sulla parte che eccepisce che la procura non è stata conferita in Italia l’onere di provare tale fatto.

Il ricorso è fondato.

La Corte di Appello, ha correttamente richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo cui la procura alle liti rilasciata all’estero non può essere autenticata dal difensore italiano della parte, ma deve essere autenticata da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge dello Stato estero (Cass. n. 8867/2003, n. 6776/2004); tuttavia, quando l’autentica della sottoscrizione sia stata effettuata da un difensore esercente in Italia, il rilascio del mandato e l’autentica della sottoscrizione devono presumersi avvenuti nel territorio dello Stato, anche quando il mandante risieda all’estero, in difetto di prova contraria da parte di chi ne contesti la validità (Cass. n. 10485/2002, n. 5840/2007).

Di tali principi, però, la Corte territoriale non ha poi fatto corretta applicazione ritenendo nullo il mandato alle liti sul rilievo che “la procura, e l’atto in cui è contenuta, non contengono alcuna indicazione del luogo ove essa sia stata rilasciata, mentre la D.R. è indicata risiedere stabilmente in (OMISSIS)” e valorizzando la circostanza che la ricorrente non si è presentata a rendere l’interrogatorio di cui agli artt. 420 e 442 c.p.c..

La mancata indicazione nell’atto del luogo in cui la procura alle liti è stata rilasciata, e la firma del mandante autenticata, non costituisce, infatti, circostanza idonea a superare la presunzione di rilascio nel territorio dello Stato, atteso che l’art. 83 c.p.c. non richiede che il difensore, nel certificare l’autenticità della sottoscrizione, indichi anche il luogo in cui tale autenticazione è avvenuta, da presumersi fatta nella circoscrizione giudiziaria al cui Albo il professionista è iscritto.

La mancata presentazione della ricorrente all’udienza per rendere F interrogatorio libero di cui all’art. 420 c.p.c., inoltre, è circostanza che può essere valutata dal giudice ai fini del giudizio di fondatezza o meno della domanda, ma che non influisce certo sulla validità della procura alle liti, non potendo da tale circostanza desumersi che il mandato sia stato rilasciato all’estero.

In mancanza di prova contraria da parte dell’Istituto previdenziale, che ne ha contestata la validità, il giudice di appello non poteva dunque ritenere nulla la procura alle liti rilasciata dalla ricorrente.

Il ricorso va dunque accolto e la sentenza impugnata cassata, con rinvio della causa per un nuovo esame alla stessa Corte di Appello di Roma in diversa composizione, che si atterrà al principio di diritto sopra enunciato e provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di cassazione, alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 18 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 19 giugno 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 04-05-2009) 11-06-2009, n. 13510

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. MAGNO Giuseppe Vito Antonio – Consigliere

Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere

Dott. MARINUCCI Giuseppe – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

S.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 29/2002 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 21/05/2002;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/05/2009 dal Consigliere Dott. MARIO BERTUZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI MASSIMO, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
S.M. propose ricorso dinanzi alla Commissione tributaria di Roma per l’annullamento della cartella esattoriale che gli intimava il pagamento di una somma a titolo di irpef ed ilor per l’anno 1982, assumendo la nullità dell’atto opposto per non essergli mai stato notificato il presupposto avviso di accertamento di contestazione del maggior reddito.

Il giudice di primo grado respinse il ricorso ma, in sede di gravame, la Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 29/08/02 del 21.5.2002, riformò la decisione impugnata, ritenendo la cartella illegittima in quanto il pregresso avviso di accertamento era stato invalidamente notificato in data 30.11.1988 presso l’abitazione di (OMISSIS) e ricevuto da persona qualificatasi moglie convivente, mentre dalla documentazione prodotta risultava che il contribuente si era già trasferito, dal (OMISSIS) e non era altresì più convivente con la moglie essendosi separato in data (OMISSIS).

Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato il 7.7.2003, ricorrono, sulla base di un unico motivo, il Ministero delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate. S.M. non si è costituito.

Motivi della decisione
L’unico motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione dell’art. 139 cod. proc. civ. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto nulla la notificazione dell’avviso di accertamento, senza considerare che essa era stata ricevuta da persona qualificatasi convivente con il destinatario ed era stata effettuata presso l’indirizzo del contribuente risultante dalla sua dichiarazione annuale, dando per contro rilievo alla variazione anagrafica della residenza pur in mancanza della prova che essa fosse srata comunicata all’Ufficio procedente dal Comune interessato.

Il motivo è infondato.

La sentenza impugnata ha dichiarato illegittima la cartella di pagamento impugnata in ragione della ritenuta nullità della notifica dell’avviso di accertamento, rilevando che la stessa, sulla base della documentazione offerta dal ricorrente, era stata eseguita presso il suo vecchio indirizzo e quindi ricevuta da persona che non risultava, all’epoca, più convivente.

La valutazione così effettuata dal giudice di merito – incensurabile in sede di legittimità in ordine all’accertamento delle circostanze di fatto da cui essa muove – appare pienamente rispondente al dettato normativo. Con riferimento al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, atteso che esso prescrive che a notificazione degli avvisi deve essere eseguita presso il domicilio fiscale del contribuente, ma stabilisce, nel contempo, che le variazioni e le modificazioni dell’indirizzo non risultanti dalla dichiarazione annuale hanno effetto, ai fini delle notificazioni, dall’avvenuta variazione anagrafica (comma 3). In particolare, tale lettura della norma si impone a seguito della sua declaratoria di illegittimità operata dalla sentenza n. 360 del 2003 della Corte costituzionale, che ha espunto l’inciso che condizionava l’efficacia della variazione al decorso del termine di 60 giorni (Cass. n. 26542 del 2008). L’interpretazione di tale disposizione patrocinata dall’Ufficio ricorrente, secondo cui la variazione dell’indirizzo avrebbe efficacia trascorsi 60 giorni nemmeno dalla variazione anagrafica, quanto dalla successiva comunicazione della stessa da parte del comune all’Ufficio medesimo, appare pertanto del tutto insostenibile alla luce del sopravvenuto (rispetto alla data di proposizione del ricorso) arresto del giudice delle leggi.

Nè può essere condivisa la tesi dell’Amministrazione che, lamentando la violazione dell’art. 139 cod. proc. civ. assume la validità della notifica in discorso per essere stato comunque l’atto ricevuto da persona (il coniuge) qualificatasi convivente. Da tale dichiarazione non può invero trarsi altro che una mera presunzione relativa di convivenza (Cass. n. 1508 del 2005; Cass. n. 4590 del 2000), presunzione, a sua volta, superabile dall’interessato mediante prova contraria, prova che, nella specie, il giudice a quo, con accertamento di fatto non censurabile se non sotto il profilo – qui non sollevato – del difetto di detta motivazione, ha ritenuto assolta in forza della documentazione da cui risultava sia il precedente cambio di indirizzo della residenza anagrafica del contribuente rispetto al luogo in cui era stata eseguita la notificazione, che l’intervenuta separazione personale con il coniuge che aveva ricevuto la notifica.

Il ricorso va pertanto respinto.

Nulla si dispone sulle spese di giudizio, non avendo la parte intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 4 maggio 2009.

Depositato in Cancelleria il 11 giugno 2009


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 09-06-2009) 24-07-2009, n. 17352

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. SENESE Salvatore – Presidente di sezione

Dott. ELEFANTE Antonio – Presidente di sezione

Dott. VIDIRI Guido – Consigliere

Dott. ODDO Massimo – Consigliere

Dott. SETTIMJ Giovanni – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. TOFFOLI Saverio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 14639-2008 proposto da:

COMPAGNIA ELETTRICA ITALIANA S.R.L. (già LIRI ENERGIA S.R.L.) ((OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA E. Q. VISCONTI 99, presso lo studio degli avvocati CONTE ERNESTO, CONTE MICHELE, CONTE GIOVANNI BATTISTA, che la rappresentano e difendono, per procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI SORA ((OMISSIS)), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE G. MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato VENCHI ANNA MARIA, rappresentato e difeso dall’avvocato MAZZENGA DONATO, per procura in calce al controricorso;

CONSORZIO DI BONIFICA N. (OMISSIS) CONCA DI SORA ((OMISSIS)), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO GRAMSCI 9, presso lo studio degli avvocati GUZZO ARCANGELO, MARTINO CLAUDIO, che lo rappresentano e difendono, per procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 90/2007 del TRIBUNALE SUPERIORE DELLE ACQUE PUBBLICHE, depositata il 05/06/2007;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/06/2009 dal Consigliere Dott. SAVERIO TOFFOLI;

uditi gli avvocati Ernesto CONTE, Arcangelo GUZZO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’inammissibilità dei primi due motivi, accoglimento del terzo e quarto.

Svolgimento del processo
La Compagnia Elettrica Italiana s.r.l., società incorporante la s.r.l. Liri Energia, titolare di concessioni di derivazione d’acque per l’esercizio di tre centrali idroelettriche (denominate (OMISSIS)), propone ricorso alle Sezioni unite della Corte di Cassazione avverso la sentenza del Tribunale superiore delle acque pubbliche (TSAP), con cui è stato definito l’appello proposto dalla Soc. Liri Energia avverso la sentenza del Tribunale regionale delle acque pubbliche (TRAP) di Roma, depositata il 10.1.2005, che aveva rigettato la domanda proposta dalla medesima società per ottenere la dichiarazione della illegittimità dalle sottensioni di acqua effettuate dai convenuti Consorzio di Bonifica della Conca di Sora e Comune di Sora dalle sorgenti e dal corso del fiume (OMISSIS), affluente del (OMISSIS), e per il risarcimento del danno o l’attribuzione di un indennizzo in caso di legittimità delle derivazioni.

L’appello è stato dichiarato inammissibile nei confronti del Consorzio di Bonifica ed infondato nei confronti del Comune di Sora.

Infatti il TSAP, premesso che si era in presenza di cause scindibili, ha ritenuto che l’atto di appello era stato notificato, in data 1.3.2006, al Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) Conca di Sora oltre un anno e quarantasei giorni dopo la pubblicazione della sentenza di primo grado e quindi (pur tenuta presente la sospensione feriale dei termini) oltre il termine lungo di cui all’art. 327 c.p.c., applicabile anche al procedimento speciale.

Nel merito il TSAP ha rilevato che il Comune di Sora, nel complesso sorgentizio del fiume (OMISSIS), attingeva acqua da quattro pozzi, di cui due realizzati nel (OMISSIS), con capacità complessiva di 30 litri al secondo, e gli altri due, costruiti nel (OMISSIS), con capacità complessiva di 50 litri al secondo.

Il primo di detti attingimenti doveva ritenersi legittimo. Il TRAP di Roma aveva correttamente presunto la legittimità del prelievo di 30 litri/secondo dai due pozzi costruiti a fine ‘800, per antico uso, ritenuto anteriore al 1884 in riferimento a quanto previsto dal R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 2, T.U. acque. Infatti la costruzione di pozzi nel 1892 dimostrava la presenza già a tale data un uso di acque dall’ente locale, e questa circostanza poteva far presumere utilizzazioni anteriori con diritto acquisito all’attingimento, solo da riconoscersi con atto dichiarativo e non costitutivo (concessione). Osservava anche che in senso favorevole alla presunzione di legittimità di tale utilizzazione dei pozzi poteva richiamarsi il R.D. 27 luglio 1934, n. 1265, art. 248 prevedente, all’art. 248, che “ogni comune deve essere fornito per uso potabile di acqua pura e di buona qualità”; la L. 5 gennaio 1994, n. 36, art. 2, comma 1, – norma abrogata dall’art. 175, lett. u), del codice dell’ambiente (D.Lgs. 30 aprile 2006, n. 152) – che successivamente aveva previsto la priorità dell’uso dell’acqua per il consumo umano, con un principio confermato dall’art. 96, comma 3, del richiamato codice dell’ambiente, che consente l’assentimento di uso delle risorse idriche diverso da quello potabile solo in presenza di adeguate disponibilità delle predette risorse per uso umano.

Sottolineava anche che il favore legislativo per la provvista di risorse di acqua potabile a favore degli enti locali (e ora degli enti acquedottistici) è particolarmente richiamabile quando si è in presenza come nella specie, di prelievi che rientrano nei piani acquedottistici regionali, legalmente approvati dalla stessa autorità che provvede alle concessioni.

Quanto all’attingimento dagli altri due, più recenti pozzi, di cui il giudice di primo grado aveva accertato la non legittimità, il TSAP non ha ritenuto fondate le critiche alla ritenuta mancanza di prova del danno riferibile alla centrale (OMISSIS), la sola che attingeva dal (OMISSIS). Ha ricordato al riguardo che il c.t.u. aveva stimato una perdita complessiva annua di produzione elettrica imputabile a tutte le sottensioni in questione in 112.215 KWh e che di essa solo circa il 62% poteva ritenersi imputabile agli attingimenti effettivamente illeciti, per complessivi 1.585.935 KWh per i dodici anni dal (OMISSIS) oggetto della domanda. Tale quantitativo – ha osservato il TSAP, così come quello annuale, risultava assolutamente esiguo rispetto alle potenzialità produttive delle centrali, e, tenendo anche presente che il concreto esercizio di queste ultime era caratterizzato dal mancato sfruttamento di gran parte delle loro potenzialità rilevate dall’U.T.I.F, (da due terzi alla metà, cioè da circa 42 a 22 milioni di KWh) – mancato sfruttamento riconducibile chiaramente a scelte programmatiche di politica industriale – risultava impossibile stabilire se alla effettiva perdita produttiva concorrevano casualmente anche gli attingimenti illeciti dai pozzi in questione. Ha rilevato anche che la mancata registrazione, e quindi la mancata prova, delle portate effettivamente derivate dagli impianti produttivi, e delle quantità di energia prodotte, non consentiva la verifica dell’incidenza della derivazione operata dal Comune.

Ai quattro motivi di ricorso, di cui i primi due relativi alla posizione del Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) Conca di Sora e gli altri due alla posizione del Comune di Sora, questi due enti resistono con separati controricorsi, memorie da parte della ricorrente e del consorzio di bonifica.

Motivi della decisione
1. I primi due motivi si riferiscono alla pronuncia nei confronti del Consorzio di bonifica.

1.1. Il primo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 327 e 330 c.p.c. e del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82. La ricorrente deduce che la notifica dell’atto di appello al Consorzio di bonifica era stata eseguita, entro il termine lungo, presso il domicilio eletto nel processo di primo grado, come risultante dalla relativa comparsa di costituzione del 16.10.1997 nonché dall’intestazione della sentenza di primo grado; che tale domicilio al momento della notificazione era risultato trasferito altrove, di modo che la notifica non si era perfezionata; che si trattava di un caso di mutamento del domicilio eletto presso un luogo diverso dal domicilio del difensore (in quanto il difensore avv. Loreto Antonucci era domiciliato in Roma presso lo studio dell’avv. Bruno Bonanni) e che pertanto tale mutamento avrebbe dovuto essere comunicato alle altre parti del processo. Tenuto anche presente che ai sensi del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, art. 154 “sono sempre valide ad ogni effetto le notificazioni degli atti (…) fatte al procuratore o avvocato legalmente costituito”, si sostiene che la notifica avvenuta nel luogo dove si era trasferito lo studio Bonanni (rinvenuto dopo le opportune ricerche), doveva considerarsi efficace, anche se effettuata dopo il decorso del termine lungo di impugnazione, in applicazione del principio secondo cui in simili circostanze la notifica effettuata presso domicilio indicato impedisce la decadenza (anche se non andata a buon fine).

1.2. Il secondo motivo, deducendo il vizio di omessa motivazione, lamenta il mancato esame delle circostanze specifiche già dedotte nel giudizio di appello in merito alla tempestività della notificazione dell’impugnazione al Consorzio di bonifica.

2. Il ricorso è fondato nei confronti del Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) di Sora.

Al riguardo rileva il solo primo motivo poiché in sostanza si fanno valere violazioni di norme sul procedimento e la Cassazione in tal caso ha cognizione diretta anche riguardo all’accertamento del fatto, con la conseguenza che non sono di per sè rilevanti eventuali vizi di motivazione della sentenza impugnata.

3. Dagli atti si evince che in primo grado, davanti al Tribunale regionale delle acque pubbliche con sede presso la Corte d’appello di Roma, il Consorzio di bonifica era rappresentato e difeso dall’avv. Loreto Antonucci, il quale, avendo come è pacifico, il suo domicilio professionale in Sora, aveva eletto domicilio in Roma, unitamente alla parte rappresentata, in via dei Gracchi n. 278, presso lo studio dell’avv. Bruno Bonanni, cioè in sostanza presso quest’ultimo (che nella specie l’elezione di domicilio riguardasse anche il difensore della parte e non solo la parte personalmente risulta implicitamente dal tenore dell’intestazione della comparsa di costituzione, firmata naturalmente dall’avv. Antonucci, prevedente – in conformità a quanto previsto anche nella procura in calce al ricorso avversario – l’elezione di domicilio della parte presso il suo stesso difensore in Roma in via dei Gracchi n. 278 c/o lo studio dell’avv. Bruno Bonanni).

La notifica del ricorso in appello davanti al TSAP venne chiesta il 22.2.2006 e il giorno seguente l’ufficiale giudiziario diede atto della mancata notifica a causa del trasferimento altrove dell’avv. Bonanni. Chiesta il giorno 1.3.2006 la notifica presso il nuovo domicilio dell’avv. Bonanni, nello stesso giorno essa fu eseguita.

Tenuta presente la data di deposito della sentenza impugnata (10.1.2005), il termine lungo andava a scadere il 24.2.2006, sicché l’impugnazione sarebbe tempestiva dando rilievo alla data del 22.2.2006 di originaria richiesta della notificazione, mentre sarebbe tardiva se si desse rilievo alla data di richiesta di notificazione al nuovo indirizzo.

4.1. Negli ultimi anni, come è noto, con riferimento alle notificazioni degli atti processuali e al rispetto dei termini perentori entro cui in numerosi casi le medesime devono essere eseguite, si è dato luogo, nella giurisprudenza di questa Corte, ad interpretazioni dirette a salvaguardare la posizione delle parti che senza loro responsabilità non abbiano conseguito un tempestivo perfezionamento della notificazione. Dopo che, per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 477/2002 (che si era posta in linea con i principi precedentemente enunciati a proposito delle notificazioni a soggetti residenti all’estero) e del pronto adeguamento della giurisprudenza di questa Corte ai principi ispiratori della giurisprudenza costituzionale (dalla medesima ulteriormente ribaditi con varie pronunce), si era affermato il principio che sia nelle notificazioni a mezzo posta che nelle notificazioni ordinarie l’effetto della notificazione si compie per il notificante, cui sia richiesto il rispetto di determinati termini, fin dalla data della richiesta della notificazione, anche se subordinatamente al successivo perfezionamento della notificazione nei confronti del destinatario, Cass. Sez. Un. n. 10216/2006, in riferimento a un caso in cui la notificazione di un’opposizione a decreto ingiuntivo non si era perfezionata per ragioni non coinvolgenti la responsabilità dell’istante (l’ufficiale giudiziario aveva omesso la notifica dando peso all’errata informazione resa da un terzo circa il trasferimento del destinatario), osservarono che gli stessi principi alla base di tale scissione dei momenti di compimento della notificazione giustificavano una interpretazione costituzionalmente orientata anche nell’ipotesi di incolpevole mancato esito della procedura notificatoria. Si doveva quindi ritenere – ammessa in tal caso una rinnovazione del procedimento notificatorio effettuata con rispetto di un termine che nella specie doveva essere desunto dalla disciplina dell’opposizione tardiva a decreto ingiuntivo.

Si sono ricollegate a tale precedente delle Sezioni unite Cass. n. 24702/2006, 6360/2007 e 6547/2008, le quali in relazione appunto ad ipotesi in cui la notificazione non si era perfezionata per ragioni non implicanti la responsabilità del notificante, hanno ritenuto, in linea con la giurisprudenza sulla scissione dei tempi di perfezionamento della notificazione e nel quadro dei principi desumibili dagli artt. 3 e 24 Cost. e della esigenza di un contemperamento degli interessi delle parti coinvolte, che anche in simili evenienze la notificazione debba ritenersi perfezionata per il notificante alla data della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, qualora la parte, una volta conosciuto il motivo dell’esito negativo della notificazione per causa indipendente dalla sua volontà, abbia operato ai fini di una ripresa in un tempo ragionevole del procedimento notificatorio. Le prime due citate sentenze hanno anche rilevato che l’ipotesi della notificazione dell’atto di impugnazione non era suscettibile di essere ricondotta alle previsioni normative di rimessione in termini o a disposizioni specifiche come l’art. 650 c.p.c.. Si può anche richiamare Cass. n. 7018/2004 che, in relazione a ipotesi analoga relativa alla notificazione del controricorso, aveva già in precedenza ritenuto idonea una notificazione rinnovata, senza tuttavia prevedere l’esigenza di un particolare vincolo di tempestività per la ripresa della procedura notificatoria.

4.2. Da ultimo Cass. Sez. un. n. 3818/2009, nel quadro della adesione agli orientamenti interpretativi secondo cui, nel caso in cui il procedimento di notificazione di un atto di impugnazione non abbia potuto concludersi non per colpa della parte interessata, deve ammettersi, in ossequio dei principi di uguaglianza e di tutela del diritto di difesa di cui agli artt. 3 e 24 Cost. e della giurisprudenza costituzionale prima richiamata, la riattivabilità del procedimento notificatorio, ha specificamene esaminato la questione relativa alla imputabilità o meno allo stesso istante del mancato perfezionamento della notificazione dell’atto di impugnazione nel caso in cui la parte abbia indicato, per l’esecuzione della notificazione, un indirizzo del procuratore costituito della controparte nel precedente grado di giudizio (o del procuratore domiciliatario), esercente nello stesso circondario a cui sia professionalmente assegnato, diverso da quello effettivo e regolarmente risultante dall’albo professionale. A tale questione le Sezioni unite hanno dato la risposta rigorosa, secondo cui, nel caso di difensore svolgente le sue funzioni nello stesso circondario del tribunale a cui egli sia professionalmente assegnato, è onere della parte interessata ad eseguire la notifica accertare, anche mediante riscontro delle risultanze dell’albo professionale, quale sia l’effettivo domicilio professionale del difensore, con la conseguenza che non può ritenersi giustificata l’indicazione nella richiesta di notificazione di un indirizzo diverso, ancorché eventualmente corrispondente a indicazione fornita dal medesimo difensore nel giudizio non seguita dalla comunicazione nell’ambito del giudizio stesso del successivo mutamento.

4.3. Ma questa specifica valutazione interpretativa non rileva nella specie, dato che la stessa sentenza delle Sezioni unite ora in considerazione ha evidenziato come nel diverso caso di procuratore svolgente le sue funzioni processuali in un circondario diverso da quello di assegnazione, sono le norme professionali (del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 83) a prevedere l’obbligo del medesimo di eleggere un domicilio nel luogo dove ha sede l’autorità giudiziaria presso cui il giudizio è in corso e quindi anche di comunicarne i mutamenti (cfr., nell’analogo senso che sussiste l’onere della comunicazione del cambio di indirizzo nell’ipotesi di domicilio “eletto autonomamente”, Cass. n. 19477/2007 e 17086/2008). Nella specie indubbiamente il mutamento vi è stato ed è incontestato che al riguardo nessuna comunicazione era stata fornita. Né può ipotizzarsi che sussistesse un onere di informazione da parte della attuale ricorrente in considerazione della circostanza che il domiciliatario del difensore era a sua volta un avvocato. Infatti, a parte anche il fatto che non è stato dedotto che si trattasse di un avvocato legalmente esercente in Roma, in ogni caso, almeno nei confronti delle controparti, non poteva spiegare alcuna rilevanza una circostanza del genere, in quanto l’elezione di domicilio nel luogo sede dell’ufficio giudiziario può essere compiuta presso qualsiasi soggetto, di cui non assume rilievo l’eventuale qualità professionale.

Nella specie deve quindi considerarsi non imputabile a responsabilità del notificante, ma della controparte, l’iniziale mancato perfezionamento della notificazione.

4.4. Conseguentemente, in adesione agli orientamenti giurisprudenziali in materia e alle relative motivazioni, precedentemente richiamati, nella specie deve ritenersi giustificata una ripresa, o rinnovazione, del procedimento notificatorio, in occasione del quale ci si ricolleghi alla iniziale data di instaurazione del medesimo ai fini del rispetto del termine di decadenza per la proposizione dell’impugnazione.

4.5. E’ opportuno però esaminare se può considerarsi rituale il fatto che la stessa parte notificante di sua iniziativa abbia promosso la ripresa del procedimento notificatorio, chiedendo all’ufficiale giudiziario la notifica al nuovo indirizzo. Infatti la già esaminata sentenza delle Sezioni unite n. 3818/2009 ha ritenuto invece – sia pure in quello che potrebbe essere qualificato come un mero obiter dictum, poichè la decisione è basata sul rilievo che nella specie l’iniziale insuccesso della notificazione era imputabile alla mancata previa individuazione del domicilio professionale del difensore della controparte – che, essendo la riattivazione della notificazione subordinata al perfezionamento dell’impugnazione per il notificante, la stessa debba essere promossa mediante istanza del giudice ad quem di fissazione di un termine perentorio per il completamento della notifica, da depositare, unitamente alla relativa documentazione, nel termine stabilito per la costituzione della parte nel caso di regolare instaurazione del contraddittorio. Nel caso poi, in cui risulterebbe la violazione dei termini di comparizione a favore della controparte, dovrebbe chiedersi un termine perentorio, a norma dell’art. 164 c.p.c., per la rinnovazione dell’impugnazione.

4.6. Al riguardo si ritiene che debba darsi continuità all’orientamento interpretativo di cui a Cass. Sez. Un. n. 10216/2006 e alle sentenze delle sezioni semplici n. 24702/2006, 6360/2007 e 6547/2008, secondo cui, in caso di interruzione del procedimento notificatorio per ragioni non imputabili all’istante, quest’ultimo ha la facoltà di chiederne la riattivazione al fine di giovarsi, ove concorrano determinati requisiti di tempestività, della data della iniziale richiesta di notificazione, nel quadro della scissione dei momenti di realizzazione della notificazione per il notificante e il destinatario, ai fini del rispetto di termini perentori da parte del primo.

Questa soluzione, innanzitutto, è congrua con la stessa natura dello strumento giuridico a cui si fa riferimento per giustificare la retrodatazione relativa degli effetti della notificazione. In altri termini, se si fa riferimento alla scissione (a taluni fini) degli effetti della notificazione nei confronti dell’istante e del destinatario, valorizzando, rispettivamente, la data iniziale e quella di perfezionamento del procedimento, è logico che debbano essere salvaguardate – almeno per quanto possibile – la continuità e la speditezza del procedimento stesso, ed è chiaro che, invece, tale esigenza sarebbe contraddetta dalla necessità del ricorso al giudice.

Il fatto, poi, che nel corso del procedimento di notificazione insorgano difficoltà, esigenze di ulteriori indagini circa i luoghi in cui il destinatario ha la residenza, il domicilio o la dimora, ecc, è un’evenienza ricorrente e direttamente o indirettamente prevista dalle disposizioni di legge, e lo stesso ufficiale giudiziario può, e dovrebbe, assumere iniziative al riguardo come rilevato dalla giurisprudenza (cfr., per esempio, Cass. n. 12183/2004, 11332/2005, 17453/2006, 2909/2008). In questo quadro appartiene alla fisiologia del procedimento notificatorio anche lo scambio di utili informazioni tra parte istante e ufficiale giudiziario ed è congruo ritenere la sostanziale unità del procedimento quando, dopo che una prima fase del procedimento non abbia avuto positiva conclusione per l’accertata mancata corrispondenza della situazione di fatto a quella indicata dall’istante, quest’ultimo fornisca ulteriori indicazioni ai fini del perfezionamento della notificazione. Naturalmente, anche in relazione a questa prospettazione rimane salva la valutazione circa la imputabilità o meno al richiedente della inesattezza delle iniziali indicazioni, in quanto la giurisprudenza sulla dissociazione dei tempi della notificazione per il richiedente e il destinatario è basata sull’assunto che a detrimento del primo non debbano andare aspetti del procedimento che non siano sotto il suo controllo.

L’interpretazione nel senso che è possibile l’assunzione diretta da parte dell’interessato dell’iniziativa finalizzata al positivo compimento della notificazione corrisponde anche all’esigenza di rispettare la direttiva costituzionale sul giusto processo, secondo cui la legge ne assicura la ragionevole durata (art. 111 Cost., comma 2), essendo evidente che la necessità di una previa costituzione in giudizio per la richiesta di un provvedimento giudiziale sulla rinnovazione della notificazione comporta un rilevante allungamento dei tempi del giudizio, oltre che un appesantimento delle procedure.

Giova anche ricordare che la giurisprudenza di questa Corte ammette l’iniziativa diretta e preventiva della parte per la rinnovazione di notificazioni affette da profili di nullità, che valga ad anticipare un’iniziativa in tal senso del giudice, pur in questo caso espressamente prevista dall’art. 291 c.p.c. (cfr., ex plurimis, Cass. n. 11623/2003 e 27450/2005).

Inoltre il riferimento ai termini previsti per la costituzione in giudizio della parte, ipotizzato allo scopo di fornire un’indicazione certa riguardo alla tempestività dell’iniziativa che fa seguito all’iniziale insuccesso della notificazione, appare non funzionale anche sotto altri aspetti. Deve rilevarsi infatti che l’esigenza di rispettare un termine perentorio per la notificazione si presenta in giudizio non solo per le impugnazioni, ma anche in svariate situazioni in cui non è applicabile un termine per la costituzione o un altro termine che possa svolgere una funzione analoga. Inoltre, anche rimanendo nel campo delle impugnazioni, nel rito del lavoro la costituzione dell’appellante, mediante il deposito del ricorso, precede la notificazione di quest’ultimo.

Può infine rilevarsi sul punto che, a ben vedere, il preventivo ricorso al giudice non è utile neanche al fine di avere una previa valutazione certa circa la sussistenza delle condizioni per la ripresa del procedimento di notificazione, in quanto si tratterebbe solo di una valutazione preliminare effettuata non in sede decisoria e per di più in assenza del contraddittorio con la controparte interessata.

4.7. Ritenuta ammissibile la diretta iniziativa della parte interessata, quanto alle modalità temporali della stessa l’unico criterio possibile di carattere generale è quello indicato da alcune sentenze precedentemente richiamate (Cass. n. 24702/2006, 6360/2007 e 6547/2008), secondo cui l’iniziativa per la ripresa del procedimento L notificatorio deve intervenire entro un tempo ragionevole, tenuti presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per venire a conoscenza dell’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie. E tale criterio, considerata la specificità del tipo di difficoltà procedurale incontrata e dello strumento a disposizione per il suo superamento, deve ritenersi applicabile, ove possibile, in relazione ad ogni tipo di termine perentorio entro cui debba avvenire una notificazione.

Ne consegue anche che, nel quadro dell’introduzione di una norma sulla rimessione in termini di carattere generale, e quindi applicabile anche ai termini di impugnazione (art. 153 c.p.c., comma 2, inserito dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 46), non potrà ritenersi dipendente da causa non imputabile una decadenza che avrebbe potuto essere ovviata mediante il completamento della procedura di notificazione ad iniziativa della parte.

Potrà rimanere salva, invece, la facoltà di richiedere l’intervento del giudice nei casi in cui non sia possibile una semplice (e ragionevolmente tempestiva) ripresa del medesimo procedimento notificatorio ad iniziativa della parte, per particolari circostanze, eventualmente anche collegate all’iter procedimentale entro cui si inserisca la notificazione prevista a pena di decadenza (si pensi, per esempio, alla necessità, menzionata da Cass. Sez. un. n. 3818/2009, cit. di ottenere una nuova fissazione dell’udienza ai fini del rispetto dei termini di comparizione). Rimangono inoltre al di fuori del tema ora trattato gli imprevisti procedurali che coinvolgano non già la conclusione del procedimento notificatorio nei confronti di soggetto già individuato, ma la esatta identificazione della controparte, dando luogo quindi, semmai, ad ipotesi di nullità della citazione (cfr. Cass. Sez. un. n. 19343/2008).

4.8. In conclusione può enunciarsi il seguente principio di diritto:

“Nel caso in cui la notificazione di un atto processuale da compiere entro un termine perentorio non si concluda positivamente per circostanze non imputabili al richiedente, quest’ultimo, ove se ne presenti la possibilità, ha la facoltà e l’onere di richiedere la ripresa del procedimento notificatorio, e la conseguente notificazione, ai fini del rispetto del termine, avrà effetto fin dalla data della iniziale attivazione del procedimento, semprechè la ripresa del medesimo sia intervenuta entro un tempo ragionevolmente contenuto, tenuti anche presenti i tempi necessari secondo la comune diligenza per venire a conoscenza dell’esito negativo della notificazione e per assumere le informazioni ulteriori conseguentemente necessarie.” 4.9. Nel caso in esame si è già visto come l’iniziale insuccesso della notificazione non può ritenersi imputabile alla società attualmente ricorrente e, senza dubbio, deve ritenersi congruo il molto breve lasso di tempo impiegato al fine di utilmente indirizzare la notificazione. Il fatto che la controparte si sia costituita in giudizio, d’altra parte, rende irrilevante l’ipotesi che la nuova notifica avrebbe potuto essere effettuata anche presso la cancelleria del giudice a quo.

5. successivi motivi si riferiscono al Comune di Sora.

6.1. Il terzo motivo denuncia violazione del R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, artt. 2 e 3 e contraddittoria ed insufficiente motivazione su un fatto controverso e decisivo. La società ricorrente, con riferimento al rigetto della domanda nei confronti del Comune di Sora relativamente ai due pozzi con portata di 30 litri/secondo, censura la sentenza sul presupposto che, pur avendo il riconoscimento delle utenze di acqua pubbliche natura dichiarativa, è necessario comunque, ai fini di ritenere la legittimità della derivazione ai sensi del R.D. n. 1775 del 1933, art. 2 un provvedimento di accertamento dell’antico uso (o della pregressa concessione), che nella specie mancava anche perché il Comune era decaduto dal richiederlo, a norma dell’art. 3, R.D. cit.. Né al fine di presumere l’uso legittimo è sufficiente l’evoluzione legislativa richiamata in sentenza sull’impiego potabile delle acque pubbliche. Aggiunge la ricorrente che la motivazione appare contraddittoria, laddove fa derivare dal fatto che i pozzi furono costruiti nel 1892 l’inizio della utilizzazione a prima del 1884, ed erronea, perché a ( norma del R.D. n. 1775 del 1933, art. 2, comma 1, lett. B) l’antico uso che legittima l’attingimento deve essere iniziato trenta anni prima della L. 10 agosto 1884, n. 2644.

La ricorrente formula il seguente quesito: “Viola il R.D. 11 dicembre 1933, n. 1775, artt. 2 e 3 l’attribuire la titolarità di un diritto di utenza di acqua pubblica ad un soggetto che sia privo del provvedimento amministrativo di riconoscimento dell’antico uso delle acque pubbliche previsto dall’art. 3 del detto Testo Unico?”. 6.2. Il motivo non merita accoglimento. Al riguardo è opportuno premettere che, ai fini dell’identificazione delle censure in linea di diritto con lo stesso proposte, occorre fare riferimento al conclusivo quesito di diritto, che ha la funzione di consentire la puntuale identificazione della questione di diritto che la parte intende proporre con il ricorso per cassazione, ferma restando la funzione della parte espositiva di illustrare la rilevanza e la fondatezza delle questione (nel senso che l’ammissibilità del motivo è condizionata alla formulazione di un quesito, compiuta e autosufficiente, dalla cui risoluzione scaturisca necessariamente il segno della decisione, cfr., ex plurimis, Cass., sez. un., n. 18759 del 2008 e n. 3519 del 2008).

La giurisprudenza di questa Corte ha rilevato che il riconoscimento amministrativo di un’antica utenza ai sensi del R.D. n. 1775 del 1933, (T.U. acque) ha valore solo dichiarativo e che quindi la sua mancanza non esclude la posizione di vantaggio del singolo utente nei confronti di un altro soggetto (Cass. n. 123/1962). Ha precisato anche che l’esistenza dell’antico uso, a prescindere dal suo successivo riconoscimento, delimita all’origine i diritti derivanti dalle concessioni assentite nel corso del suo esercizio (Cass. Sez. un. n. 486/1974). Nella specie, in applicazione di tali principi, deve ritenersi che correttamente il TSAP, pur in mancanza del riconoscimento nella sede amministrativa dell’antico uso a norma del R.D. n. 1775 del 1933, art. 3 abbia ritenuto, nei rapporti tra Comune di Sora e il soggetto titolare di una successiva concessione, che gli attingimenti conformi all’antico uso non ledessero i diritti del concessionario, necessariamente limitati dal precedente titolo.

Quanto alle ulteriori deduzioni contenute nella esposizione del motivo, deve rilevarsi che l’ipotesi della decadenza del Comune di Sora dalla posizione di vantaggio inerente all’antico uso non è sorretta nè da un riscontro nel quesito di diritto nè da un preciso riferimento alle circostanze di fatto al riguardo rilevanti.

Relativamente, poi alla deduzione di vizi di motivazione, deve rilevarsi che difetta il requisito della “chiara indicazione” previsto dall’art. 366 bis c.p.c., mancando quel momento di sintesi che anche in proposito comunemente è richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte (e comunque una puntuale indicazione dei termini della ipotizzata contraddittorietà della motivazione, al di fuori di una diversa valutazione degli elementi di fatto). Né possono assumere rilievo prospettazioni di contrarietà della motivazione a principi di diritto, in mancanza di un’idonea formulazione delle relative censure anche in sede di conclusivo quesito di diritto.

7.1. Il quarto motivo denuncia omessa, o insufficiente, o contradditoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Nel censurare la ritenuta carenza di prova di nesso causale tra le sottensioni ritenute illecite e perdite di produzione di energie elettrica da parte della attuale ricorrente, si sostiene l’insufficienza del riferimento al fatto che dalle denunce di produzione presentate all’Ufficio tecnico erariale (UTIF) risultava che gli impianti avevano sfruttato solo una parte modesta della loro potenzialità produttiva. Doveva tenersi presente, infatti, che le centrali idroelettriche ad acqua fluente, come quelle di cui si tratta, non sono in grado di modulare la produzione di energia, ma sono costruite in modo tale da sfruttare tutta l’acqua che in ogni momento sia presente nel fiume, fino al punto nel quale, superata la potenzialità massima degli impianti, l’acqua deve per forza sfiorare per evitare il superamento della portata massima del corso d’acqua concessa all’utente. Ne consegue che non sono ipotizzabili scelte programmatiche di politica industriale atte ad interrompere il nesso di causalità tra il fatto illecito e il danno.

Si lamenta anche che sia ritenuta la mancanza di prova della produzione effettiva delle centrali, mentre tale prova è stata fornita mediante la produzione delle dichiarazioni rese all’UTIF in epoca non sospetta, dichiarazioni dalla stessa sentenza ritenute utili a provare la scarsa produttività delle centrali rispetto alla loro produttività astratta.

7.2. Anche questo motivo non è fondato.

Le critiche alla motivazione della sentenza impugnata, infatti, sono inficiate dal fatto che è meramente assertiva la tesi secondo cui le centrali in questione, ai fini della produzione di energia elettrica, avrebbero sempre sfruttato, nella misura massima possibile consentita dalla loro configurazione, i flussi d’acqua disponibili, con la conseguenza che ogni sottensione avrebbe avuto una corrispondente incidenza sulla produttività delle stesse centrali. Al riguardo deve in particolare rilevarsi, da un lato, che non risulta plausibile la ragione tecnica al riguardo prospettata e, dall’altro, che il giudice a quo ha, tra l’altro, osservato che il c.t.u. non aveva potuto reperire dati certi sulle portate dei fiumi (OMISSIS) e sugli altri elementi necessari per individuare la misura dell’energia producibile. La ricorrente, d’altra parte, non ha censurato validamente sotto altri profili (per esempio con il riferimento ad elementi di prova circa gli sbocchi industriali o commerciali della sua produzione) la correttezza dell’assunto che l’entità concreta della produzione può nella specie essere dipesa, nella radicale carenza di riscontri probatori, non dalle risorse idriche disponibili ma da scelte imprenditoriali dell’azienda.

8. In conclusione, il ricorso deve essere accolto nei confronti del Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) di Sora e rigettato nei confronti del Comune di Sora. Pertanto la sentenza deve essere cassata con riguardo solo alla prima di dette parti, con rinvio della causa al TSAP in diversa composizione per l’esame nel merito dell’appello proposto nei confronti di detto Consorzio di bonifica. Al giudice di rinvio si demanda anche la regolazione delle spese di questo grado tra la ricorrente e il Consorzio. Tra la ricorrente e il Comune di Sora le spese vengono compensate in considerazione della particolarità e complessità delle questioni.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso nei confronti del Comune di Sora, con compensazione delle spese. Accoglie il ricorso nei confronti del Consorzio di Bonifica n. (OMISSIS) di Sora, cassa conseguentemente la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, al Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nelle Sezioni unite civili, il 9 giugno 2009.

Depositato in Cancelleria il 24 luglio 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 17-04-2009) 04-05-2009, n. 10177

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. BERNARDI Sergio – rel. Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. MELONCELLI Achille – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

IL PELLICANO SRL in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO TRIESTE N. 87, presso lo studio dell’avvocato ANTONUCCI ARTURO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIOVANNELLI GIANLUCA, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AMMINISTRAZIONE DELL’ECONOMIA E FINANZE, UFFICIO II DD DI FIRENZE (OMISSIS) UFFICIO, UFFICIO DISTRETTUALE II DD DI FIRENZE (OMISSIS) UFFICIO, AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DISTRETTUALE II DD DI FIRENZE (OMISSIS) UFFICIO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 26/2000 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE, depositata il 15/03/2000;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/04/2009 dal Consigliere Dott. SERGIO BERNARDI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FEDELI Massimo, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
La società a r.l. La Regionale Service impugnava l’avviso di accertamento per Irpef ed ilor 1991 emesso dall’Ufficio II DD di Firenze assumendo, tra l’altro, che ne era nulla la notificazione, avvenuta nel giugno e reiterata nell’agosto del (OMISSIS) presso la residenza dell’amministratore anziché presso la sede legale della società. L’Ufficio opponeva che, prima delle notificazioni al domicilio dell’amministratore, l’avviso era stato ritualmente notificato presso la sede sociale ex art. 140 c.p.c. in data 23.4.1994, ed era divenuto definitivo non essendo stato impugnato nei termini. Sopravvenuta l’iscrizione a ruolo, nel (OMISSIS) la contribuente impugnava anche la cartella di pagamento, perché non preceduta da valida notifica dell’avviso. La Commissione tributaria provinciale riuniva i ricorsi e li accoglieva. Sull’appello dell’Ufficio la CTR affermava per contro la validità della notificazione del 23.4.1994 e dichiarava inammissibili i ricorsi perché tardivi.

La società (ora denominata Il Pellicano s.r.l.) ricorre per la cassazione della sentenza della CTR con un motivo. L’Amministrazione finanziaria non si è difesa.

MOTIVI

Motivi della decisione
La stampiglia in calce all’atto di accertamento prodotto dall’Ufficio recita che esso è stato notificato in data 23 aprile 1994 alla s.r.l. La Regionale Service con sede in via (OMISSIS) “mediante deposito nella Casa Comunale e affissione dell’avviso di deposito all’Albo Pretorio D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e)”. La società contribuente ha sostenuto nei gradi di merito (e sostiene col motivo di ricorso) la nullità di tale notificazione perché i presupposti di applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e) non ricorrevano. In temporanea assenza di persona addetta al ritiro, avrebbe dovuto applicarsi l’art. 140 c.p.c., procedendo alla affissione dell’avviso alla porta della azienda e dandosene comunicazione con raccomandata. La CTR ha ritenuto la validità della notificazione affermando che “fra le disposizioni richiamate (dell’art. 140 c.p.c. e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e)) non vi è antinomia, ma complementarietà. Esclusa l’applicabilità dell’art. 143 c.p.c. (art. 60, comma 1, lett. f) è evidente che la lettera e) trova applicazione nei casi disciplinati dall’art. 140 c.p.c. (irreperibilità, incapacità, rifiuto), che presuppone l’effettività della sede o del domicilio e la momentanea irreperibilità di persone idonee a ricevere la notifica, ma in tal caso l’avviso di deposito non deve essere affisso alla porta del notificando come nella generalità dei casi, ma all’albo del comune, come vuole la norma tributaria”.

La ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione delle indicate disposizioni normative, affermando che “contrariamente a quanto ha affermato la Commissione Tributaria Regionale, non vi è alcuna complementarietà tra le suddette norme in quanto esse regolano fattispecie del tutto diverse e non possono essere quindi applicate simultaneamente e in modo coordinato”. Essendo nota la sede, e solo temporaneamente assente persona idonea al ritiro, non avrebbe potuto procedersi D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 60, lett. e), come se la contribuente fosse stata irreperibile.

11 motivo è fondato. Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la notificazione dell’avviso di accertamento Tributario deve essere effettuata secondo il rito previsto dall’art. 140 cod. proc. civ. quando siano conosciuti la residenza e l’indirizzo del destinatario ma non si sia potuto eseguire la consegna perché questi (o altro possibile consegnatario) non è stato rinvenuto in detto indirizzo, da dove tuttavia non risulta trasferito; mentre deve essere effettuata applicando la disciplina di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, lett. e), – sostitutivo, per il procedimento tributario, dell’art. 143 cod. proc. civ. – quando il messo notificatore non reperisca il contribuente che, dalle notizie acquisite all’atto della notifica, risulti trasferito in luogo sconosciuto (v. tra le altre Cass. n. 10189 del 2003, n, 7268 del 2002, n. 10799 del 1999, n. 4587 del 1997). Poichè il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 non esclude l’applicabilità dell’art. 140 c.p.c., e non prevede neppure implicitamente una diversa disciplina per le ipotesi contemplate nella suddetta disposizione del codice, deve invero ritenersi, in virtù del generale richiamo alla disciplina stabilita dall’art. 137 e ss. c.p.c., che nel caso di assenza, incapacità o rifiuto di ricevere la copia da parte delle persone indicate nell’art. 139 c.p.c., la notifica vada effettuata, a norma del citato art. 140 c.p.c., seguendo esattamente la procedura ivi indicata (deposito di copia, affissione di avviso di deposito e invio di raccomandata), mentre solo nella diversa ipotesi in cui il contribuente risulti trasferito in luogo sconosciuto, disciplinata nel codice di rito dall’art. 143 c.p.c. – poiché tale norma è stata espressamente esclusa da quelle applicabili – occorre fare riferimento alla disciplina dettata dal D.P.R. citato, citato art. 60, lett. e).

Va dunque accolto il ricorso; cassata la sentenza impugnata e – decidendo nel merito (giacché non sono necessari altri accertamenti di fatto – respinto l’appello proposto avverso la decisione di primo grado.

Ricorrono giusti motivi per disporre la compensazione delle fasi di gravame.

P.Q.M.
Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata e – decidendo nel merito – rigetta l’appello proposto avverso la decisione di primo grado. Dichiara compensate le spese delle fasi di gravame.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 17 aprile 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 maggio 2009


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 24-02-2009) 21-04-2009, n. 9474

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente

Dott. ROSELLI Federico – rel. Consigliere

Dott. MONACI Stefano – Consigliere

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 6496/2006 proposto da:

CLINIC CENTER S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DEL PARADISO 55, presso lo studio dell’avvocato DELLA CHIESA D’ISASCA FLAMINIA, rappresentato e difeso dall’avvocato RIZZO NUNZIO giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

F.G.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SICILIA 235, presso lo studio dell’avvocato DI GIOIA GIULIO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3067/2005 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 27/07/2005 R.G.N. 8314/04;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/02/2009 dal Consigliere Dott. DI NUBILA VINCENZO;

udito l’Avvocato RIZZO NUNZIO;

udito l’Avvocato ITALICO PERLINI per delega DI GIOIA GIULIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LO VOI Francesco, che ha concluso per: accoglimento per due motivi, assorbito il terzo.

Svolgimento del processo
1. Con ricorso depositato in data 4.12.2002, F.G. M. conveniva dinanzi al Tribunale di Napoli la spa Clinic Center ed esponeva di avere lavorato per la convenuta quale aiuto medico specialista in geriatria dal (OMISSIS), con rapporto di lavoro a tempo parziale di trenta ore settimanali; nel contempo, rivestiva la carica di direttore sanitario del Centro Futura srl., fino al (OMISSIS), circostanza questa nota alla Clinic Center. Dopo un periodo di malattia ((OMISSIS)) aveva ripreso servizio, ma in data (OMISSIS) aveva dovuto nuovamente assentarsi per l’insorgenza di coxoartrosi post-necrotica: pendente un ciclo riabilitativo consigliato in attesa di intervento chirurgico, la società gli contestava alcuni illeciti disciplinari; ricevuta la lettera di giustificazioni, lo licenziava per giusta causa. Egli impugnava il licenziamento e chiedeva la reintegra, in una col risarcimento del danno per avere riportato una crisi ansioso – depressiva a causa di tale licenziamento.

2. Previa costituzione ed opposizione della Clinic Center spa, il Tribunale respingeva la domanda attrice. Proponeva appello l’attore e la Corte di Appello, previa costituzione della convenuta, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, ordinando la reintegra del F. e la corresponsione delle retribuzioni “medio tempore” maturate; non riconosceva invece l’ulteriore danno richiesto dall’attore. Questa, in sintesi, la motivazione della sentenza di appello:

altro giudizio tra le parti, inerente al riconoscimento di mansioni superiori, non ha rilevanza nella presente controversia;

irrilevante è pure la mancata affissione del codice disciplinare, dato che le mancanze addebitate (simulazione dello stato di malattia, avere ritardato la guarigione, avere svolto attività concorrenziale) costituiscono mancanze inerenti ad ogni rapporto di lavoro e non tipiche dell’attività svolta dal datore di lavoro;

lo stato invalidante è accertato dal giudice di primo grado e sul punto la sentenza è passata in giudicato; il F. è stato visto mentre, perdurante la malattia, guidava una motocicletta, si recava al mare e quindi si portava presso il Centro Futura per prestare ivi la propria attività;

viene addebitato all’attore di avere, con tali comportamenti, ritardato la guarigione, ma di ciò non vi è prova; la terapia in acqua era consigliata, non risulta che la guida della motocicletta sia incompatibile col processo di guarigione;

l’attività presso il Centro Futura era nota alla Clinic Center;

essendo il F. assunto a tempo parziale; egli avrebbe potuto richiedere autorizzazione al riguardo, ma nella specie tale autorizzazione non era necessaria in ragione della consapevolezza della Clinic Center, dell’ampia tolleranza al riguardo esercitata ed infine al fatto che, se del caso, doveva essere contestata la mancata richiesta dell’autorizzazione e non la prestazione in sè;

gli ulteriori danni non erano ricollegabili con nesso causale al licenziamento.

3. Ha proposto ricorso per Cassazione la Clinic Center spa, deducendo tre motivi. Resiste con controricorso F.F.M.. La ricorrente ha presentato memoria integrativa.

Motivi della decisione
4. Col primo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 2697, 2730 e 2909 c.c., nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5: erroneamente la Corte di Appello ha ritenuto che si sia formato il giudicato interno sul punto inerente alla (insussistente) dimostrazione dello stato di malattia; infatti la parte convenuta, totalmente vittoriosa in primo grado, non aveva l’onere di proporre appello incidentale, ma poteva limitarsi a riproporre in appello la questione ritenuta assorbita. In ogni caso, l’attività ludica e non, espletata dall’attore durante la presunta malattia, doveva essere ritenuta idonea a dimostrare che il F. ben avrebbe potuto prestare il proprio lavoro anche presso la Clinic Center. Il fatto di avere guidato in più occasioni una moto di grossa cilindrata, di essersi recato al mare a prendere bagni; di avere guidato l’autovettura, di essersi recato presso il Centro Futura, doveva far ritenere sussistente, quanto meno, un’attività dell’attore in contrasto con gli obblighi di cura e riposo, in modo da non compromettere ulteriormente la guarigione.

5. Il motivo è fondato nei limiti di cui “infra”. Si premette che la parte totalmente vittoriosa in primo grado non ha l’onere di proporre appello incidentale, ma può limitarsi a riproporre una questione che il giudice di primo grado abbia ritenuto “assorbita”. Nella specie, il Tribunale ha respinto la tesi della simulazione dello stato di malattia, ma l’ha superata addebitando al lavoratore un comportamento comunque illegittimo. La questione non è stata specificamente riproposta in appello, tanto è vero che la ricorrente richiamava genericamente tutte le deduzioni svolte in primo grado. Devesi pertanto ritenere che lo stato di malattia sia coperto da giudicato.

6. La Corte di Appello ha però ritenuto che i vari comportamenti ascritti al F. non fossero in contrasto coi doveri del dipendente durante il periodo di malattia. Ha perciò ritenuto che il fatto di avere guidato una motocicletta, nonostante la coxo-artrosi dell’anca, di avere preso bagni di mare e di avere comunque prestato una (limitata) attività presso il Centro Futura non fossero idonei a compromettere l’interesse del datore di lavoro ad una pronta guarigione del lavoratore. Quanto affermato dalla Corte di Appello appare in contrasto coi principi più volte affermati da questa Corte di Cassazione in ordine ai doveri del lavoratore durante la malattia.

Si veda al riguardo Cass. 7.6.1995 n. 6399: “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà ove tale attività esterna, prestata o meno a titolo oneroso, sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una sua fraudolenta simulazione ovvero quando, valutata in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, l’attività stessa possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio del lavoratore”. 7. Si veda ancora Cass. 1.7.2005 n. 14046: “Lo svolgimento di altra attività lavorativa da parte del dipendente assente per malattia può giustificare il recesso del datore di lavoro, in relazione alla violazione dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia per sè sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, dimostrando, quindi, una fraudolenta simulazione, anche nel caso in cui la medesima attività, valutata con giudizio ex ante in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione e il rientro in servizio, con conseguente irrilevanza della tempestiva ripresa del lavoro alla scadenza del periodo di malattia. (Nella specie, la sentenza di merito, confermata dalla S.C., aveva riconosciuto legittimo il licenziamento di un dipendente che era stato sorpreso a lavorare con mansioni di carico e scarico merci e servizio ai tavoli nel circolo ricreativo gestito dalla moglie durante un periodo di assenza dal servizio per distorsione al ginocchio)”. 7. Applicando i suddetti principi alla fattispecie in esame si ha che l’espletamento di altra attività lavorativa ed extralavorativa da parte del lavoratore durante lo stato di malattia è idonea a violare i doveri contrattuali di correttezza e buonafede nell’adempimento dell’obbligazione, posto che il fatto di guidare una moto di grossa cilindrata, di recarsi in spiaggia e di prestare una seconda attività lavorativa sono di per sè indici di una scarsa attenzione del lavoratore alla propria salute ed ai relativi doveri di cura e di non ritardata guarigione, oltreché dimostrativi del fatto che lo stato di malattia non è assoluto e non impedisce comunque l’espletamento di una attività ludica o lavorativa.

8. Con il secondo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, degli artt. 1362 c.c. e segg., art. 2105 c.c., in relazione agli artt. 14 e 30 del CCNL di settore; della L.R. n. 377 del 1998 e vizio di motivazione: la Corte di Appello ha errato ritenendo che l’attività presso altro centro clinico fosse consentita, sulla base di una infondata interpretazione della norma contrattuale. La norma del CCNL, se intesa nel senso di autorizzare comunque un’attività in favore di terzi, è nulla per contrasto con l’art. 2105 cit.; in ogni caso il F. doveva chiedere l’autorizzazione.

9. Il motivo è infondato. L’argomentazione secondo la quale la norma contrattuale sarebbe nulla per contrasto con norma imperativa è nuova ed inammissibile. In ogni caso, trattandosi di rapporto di lavoro “part time”, la prestazione di ulteriore attività “part time” presso altro centro medico non può essere ritenuta vietata “tout court”. Ma diversa è la “ratio decidendi” della Corte di Appello:

muovendo dall’art. 30 del CCNL, essa ha ritenuto che non sussiste divieto di prestare la propria opera presso terzi in caso di lavoratori a tempo definito, essendo in tal caso sufficiente una richiesta di autorizzazione. Nella specie, come accerta la Corte di Appello, la Clinic Center era da tempo a conoscenza dell’ulteriore attività del F. – per circa dieci ore settimanali – e nulla aveva rilevato al proposito; circostanza questa tale da integrare gli estremi della tolleranza, ovvero da indurre a diversa e più tenue valutazione dell’infrazione nel giudizio di proporzionalità tra mancanza e sanzione. Il motivo si risolve quindi in una censura in fatto, inammissibile nel giudizio di legittimità, avendo la Corte di Appello giustificato il proprio convincimento sul punto con motivazione esauriente, immune da vizi logici o contraddizioni, talchè essa si sottrae ad ogni censura in sede di legittimità 10. Col terzo motivo del ricorso, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione, a sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, della L. n. 300 del 1970, art. 18, e vizio di motivazione, per avere la Corte di Appello condannato essa Clinic Center al versamento delle retribuzioni globali di fatto, senza tenere conto dell’”aliunde perceptum” in ragione del rapporto di lavoro presso il Centro Futura.

11. Il motivo è manifestamente infondato e va rigettato. Trattasi infatti di rapporto di lavoro “part time”, onde quanto percepito in conseguenza di una diversa attività lavorativa per un orario di lavoro ulteriore non costituisce “aliunde perceptum” rispetto all’orario praticato presso la Clinic Center. La ricorrente avrebbe dovuto allegare e dimostrare la sussistenza di una diversa fonte di guadagno, sostitutiva della retribuzione dovuta dalla convenuta.

12. La sentenza impugnata deve essere pertanto cassata limitatamente al primo motivo del ricorso, che viene accolto, ed il processo va rinviato alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione, anche per le statuizioni circa le spese. Il principio di diritto è quello indicato al par. n. 7 che precede.

P.Q.M.
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE Accoglie il primo motivo del ricorso, rigetta il secondo e il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di Appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 24 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 21 aprile 2009


Cass. civ. Sez. Unite, Ord., (ud. 17-03-2009) 16-04-2009, n. 9004

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. GEMELLI Torquato – Presidente Aggiunto

Dott. PRESTIPINO Giovanni – Presidente Aggiunto

Dott. MENSITIERI Alfredo – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. FIORETTI Francesco M. – Consigliere

Dott. FELICETTI Francesco – Consigliere

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

FALLIMENTO MG MONTAGGI GENERALI, in persona del Curatore pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COLLINA 36, presso lo studio dell’avvocato JACONO GAETANO, rappresentato e difeso dall’avvocato MOSCATO ANGELO, per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

COZZOLINO NICOLA e COZZOLINO REMIGIO S.N.C.;

– intimata –

avverso la sentenza n. 151/2005 del TRIBUNALE di GELA, depositata il 03/05/2005;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 17/03/2009 dal Consigliere Dott. ANGELO SPIRITO;

lette le conclusioni scritte dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Antonio MARTONE, il quale chiede che le Sezioni unite della Corte, in camera di consiglio, enuncino il principio secondo cui in caso di ricorso ordinario in cassazione – o di istanza di regolamento di competenza – l’obbligo, previsto a pena di improcedibilità dell’art. 369 cod. proc. civ., comma 2, del deposito da parte del ricorrente della copia autentica della decisione impugnata con la relazione di notifica se questa è avvenuta – o del biglietto di cancelleria di comunicazione del deposito nel caso del regolamento – può essere adempiuto soltanto con il deposito contestuale al ricorso o comunque entro il termine a tal fine previsto dal precedente comma 1; con le conseguenze di legge.

Svolgimento del processo
Il Fallimento M.G. Montaggi generali s.r.l. ha ottenuto, nei confronti della s.n.c. Cozzolino Nicola e Remigio, decreto ingiuntivo per somma di danaro costituente corrispettivo parziale della costruzione di un’imbarcazione da pesca, al quale s’è opposta l’ingiunta, eccependo, tra l’altro, l’incompetenza territoriale del giudice adito. L’eccezione è stata accolta dal Tribunale di Gela.

Il Fallimento propone istanza di regolamento di competenza notificata il (OMISSIS). La società Cozzolino non si difende nel procedimento. il procuratore Generale ha chiesto, ex art. 375 c.p.c., che il regolamento di competenza sia dichiarato inammissibile, perchè proposto oltre trenta giorni dopo il deposito della sentenza, senza che risulti dimostrato che la comunicazione della sentenza impugnata sia avvenuta il 17 maggio 2005. La ricorrente ha depositato memoria e documenti.

La terza sezione civile della Corte, rilevato sul punto un contrasto di giurisprudenza, con ordinanza del 19 febbraio 2008 ha rimesso gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle sezioni unite, rilevando che la ricorrente ha documentato che la comunicazione della sentenza di incompetenza ebbe luogo il 17 maggio 2005, data utile per la proposizione del ricorso; l’elenco dei documenti è stato depositato il 20 novembre 2007; la produzione è stata notificata a controparte, ex art. 372 c.p.c., in data 14 novembre 2007 (come risulta dalla relata depositata il 26 novembre 2007 presso la cancelleria della sezione); chi propone ricorso per regolamento di competenza ha l’onere di depositare, nella cancelleria della Corte di Cassazione, a pena di improcedibilità, il ricorso e i documenti nel termine di giorni venti dall’ultima notificazione alle parti contro le quali è proposto (onere desumibile dal combinato disposto degli artt. 47 e 369 c.p.c.); l’art. 369 c.p.c., n. 2, stabilisce che insieme col ricorso deve essere depositata la copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta; in forza dell’art. 372 c.p.c., comma 2, il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso e del controricorso, ma deve essere notificato, mediante elenco, alle altre parti.

Ciò premesso l’ordinanza di rimessione pone il problema se il ritardato deposito del biglietto di cancelleria attestante la data di ricevimento della comunicazione della sentenza di incompetenza possa aver luogo, ai sensi dell’art. 372 c.p.c., unitamente alla memoria depositata dal ricorrente, previa notifica alla controparte della produzione effettuata. La causa è stata assegnata alle sezioni unite come questione di massima di particolare importanza.

Motivi della decisione
1. – LA QUESTIONE DI MASSIMA DI PARTICOLARE IMPORTANZA. 1 – Premessa.

La terza sezione civile ha reso tre ordinanze interlocutorie che affrontano il tema dell’improcedibilità del ricorso per cassazione stabilita dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2.

Più in particolare, due delle ordinanze interlocutorie (la n. 7950 del 27 marzo 2008 e la n. 9302 del 9 aprile 2008) riguardano il caso in cui il ricorrente dichiara nel ricorso che la sentenza impugnata gli è stata notificata in una certa data, ma si limita a depositare la copia autentica della sentenza senza la relazione di notificazione. Nè la copia della sentenza notificata è depositata (con apposito elenco notificato alla controparte) nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso, fissato dall’art. 369 c.p.c., comma 1 per il deposito del ricorso stesso nella cancelleria della Corte. La terza ordinanza (n. 4229 del 19 febbraio 2008) pone, poi, lo stesso problema con riferimento al ricorso contenente l’istanza di regolamento di competenza ex art. 47 c.p.c., per il caso in cui la parte dichiara nel ricorso stesso che la sentenza le è stata comunicata in una certa data, ma omette di depositare, insieme con l’atto d’impugnazione (o, comunque, separatamente, ma nel suddetto termine di venti giorni), il biglietto di cancelleria dal quale risulti che effettivamente la comunicazione è avvenuta in quella data, non consentendo, così, alla Corte di delibare la tempestività del ricorso. In quest’ultimo caso, però, l’ordinanza pone il problema sotto il profilo del contrasto giurisprudenziale, rilevando che al maggioritario orientamento rigoristico si contrappongono sporadici precedenti che hanno ammesso degli equipollenti (sananti) rispetto al deposito della copia autentica della sentenza notificata, quale il reperimento della stessa nel fascicolo d’ufficio o della controparte, oppure la formazione del contraddittorio sul punto. Conviene subito dire che la problematica va trattata congiuntamente (come, peraltro, congiuntamente la trattano le ordinanze di rimessione), sia che si tratti di ricorso ordinario ex art. 360 c.p.c., sia che si tratti di ricorso per regolamento di competenza ex art. 47 c.p.c.. Il disegno codicistico, nella sua struttura fondamentale, appare identico per entrambe (come, peraltro, esplicitamente affermato nel progetto Grandi), nel senso che l’istanza di regolamento di competenza risulta modellata secondo la forma ed i modi del ricorso per cassazione, con la sola riduzione dei termini di proposizione da sessanta a trenta giorni, ma pur sempre con l’imposizione al ricorrente di depositare, nel termine di venti giorni dalla notificazione, “il ricorso con i documenti necessari”. Richiamo, quest’ultimo, che inevitabilmente realizza il collegamento con l’art. 369 c.p.c. ed, in particolare, con l’onere per il ricorrente di depositare (tra l’altro) il biglietto di cancelleria dal quale risulti la data di avvenuta comunicazione del provvedimento impugnato. Il discorso successivo sarà, dunque, articolato in modo comune per entrambi i modelli processuali trattati.

2. – Lo stato della giurisprudenza in ordine agli adempimenti di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2.

E’ indiscusso che la previsione dell’onere di deposito, a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c., della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione (ove questa sia avvenuta) è funzionale al riscontro, da parte della Corte di cassazione, della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione; il quale, intervenuta la notificazione della sentenza, può essere fatto valere soltanto con l’osservanza del termine breve, salvaguardandosi, perciò, anche la tutela dell’esigenza pubblicistica del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale. Tuttavia, fin dai primi impatti applicativi di tale norma si sono sviluppati essenzialmente tre filoni giurisprudenziali correlati all’interpretazione della norma ed all’individuazione dei possibili meccanismi di riparazione dell’omissione del deposito dei documenti di cui al suo comma 2:

1) secondo un risalente, rigoroso indirizzo, il mancato deposito (nel richiamato termine) della copia autentica della decisione impugnata (in uno alla corrispondente relata di notificazione) comportava, in ogni caso, l’improcedibilità del ricorso, la quale andava dichiarata d’ufficio, senza che all’omissione potesse ovviarsi con il successivo deposito di detta copia nelle forme di cui all’art. 372 c.p.c. e senza che, ai fini dell’esclusione dell’improcedibilità, potesse attribuirsi rilievo al deposito di tale copia effettuato da parte del controricorrente o all’esistenza, agli atti, di copia non autentica della decisione stessa (cfr. Cass. 3 luglio 1971, n. 2076; Cass. 26 febbraio 1980, n. 1333; Cass. 11 settembre 1980, n. 5246; Cass. 20 dicembre 1982, n. 7023; Cass. 12 gennaio 1983, n. 209; v. , altresì, con specifico riferimento all’istanza di regolamento di competenza, Cass. 7 marzo 1968, n. 747; Cass. 6 aprile 1971, n. 997; Cass. 28 gennaio 1972, n. 216; Cass. 19 settembre 1972, n. 2764; Cass. 24 novembre 1972, n. 3448; Cass. 18 maggio 1973, n. 1439; Cass. 22 maggio 1973, n. 1504; Cass. 7 giugno 1974, n. 1704; Cass. 31 luglio 1977, n. 3262; Cass. 20 gennaio 1984, n. 499; Cass. 7 aprile 1987, n. 3372);

2) ad avviso di un altro più liberale orientamento era stato statuito che l’obbligo del deposito, da parte del ricorrente, di copia autentica della sentenza impugnata (con la relata di notifica) si sarebbe dovuto considerare soddisfatto o quando tale deposito fosse avvenuto contestualmente a quello del ricorso per cassazione, o quando, pur in difetto di tale contestualità, fosse comunque stato effettuato con le modalità fissate dall’art. 372 c.p.c., comma 2, c.p.c. (cfr. Cass. 8 gennaio 1980, n. 125; Cass. 11 maggio 1981, n. 3121; Cass. 18 gennaio 1982, n. 343; Cass. 23 giugno 1986, n. 4172;

Cass. 4 luglio 1986, n. 4388; Cass. 21 ottobre 1995, n. 10959);

3) secondo un ulteriore indirizzo, schieratosi in una posizione intermedia tra i primi due orientamenti indicati, si sarebbe dovuto ritenere che l’onere del deposito della copia autentica della decisione impugnata (in uno alla relazione di notificazione), sanzionato a pena di improcedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c., era validamente assolto anche se non intervenuto in modo contestuale rispetto al deposito del ricorso stesso, purchè avvenuto nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso mediante le modalità previste dal cit. art. 372 c.p.c., comma 2 (Cass. 11 dicembre 1986, n. 7380; Cass. 19 dicembre 1996, n. 11361).

A dirimere le oscillazioni diffusesi sulla precisata questione intervennero le Sezioni unite, con la sentenza n. 11932 del 25 novembre 1998, la quale stabilì che la disposizione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2 non impedisce che il deposito della copia autentica della sentenza o della decisione impugnata con la relazione di notificazione sia effettuato separatamente rispetto al deposito del ricorso (ex art. 372 c.p.c., che consente il deposito autonomo di documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso e che può applicarsi estensivamente anche ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso stesso), purchè nel termine perentorio di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso. La stessa disposizione non consente, però, secondo l’ultimo precedente in commento, di evitare la sanzione dell’improcedibilità mediante equipollenti, quali il deposito da parte del controricorrente di copia della sentenza stessa o l’esistenza della medesima nel fascicolo d’ufficio.

In particolare, la pronunzia delle sezioni unite spiegò che l’indirizzo che ammette quegli equipollenti al deposito non è condivisibile, perchè si pone in inconciliabile contrasto con il dettato dell’art. 369 c.p.c., il quale sancisce l’improcedibilità del ricorso, senza alcuna eccezione, nel caso in cui la copia autentica della sentenza impugnata non sia depositata. Degli altri due indirizzi il più rigoroso è stato ritenuto inaccettabile, giacchè l’obbligo di legge deve ritenersi soddisfatto, sia se il deposito avvenga col ricorso, sia se si verifichi successivamente, purchè nel termine di venti giorni dall’ultima notificazione del ricorso stesso alle parti contro le quali esso è proposto (art. 369 c.p.c., comma 1). Lo scopo che si prefigge la norma è, infatti, quello di consentire la verifica della tempestività dell’atto d’impugnazione e la fondatezza dei suoi motivi; la sanzione d’improcedibilità colpisce, perciò, l’inosservanza del termine perentorio e non anche la mancanza di contestualità del ricorso e della decisione impugnata. La norma dell’art. 372 c.p.c., la quale consente il deposito autonomo di documenti riguardanti l’ammissibilità del ricorso, deve ritenersi estensibile ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso, considerato che l’art. 375 c.p.c., che prevede la pronuncia d’inammissibilità del ricorso in camera di consiglio, include logicamente anche la declaratoria d’improcedibilità. La giurisprudenza sviluppatasi successivamente sul tema si è uniformata, in modo nettamente prevalente, all’indirizzo tracciato dalla menzionata pronuncia delle Sezioni unite (in tal senso si sono orientate, soprattutto, Cass. 28 ottobre 2000, n. 14240; Cass. 30 marzo 2004, n. 6350; Cass. 22 luglio 2004, n. 13679; Cass. 1 ottobre 2004, n. 19654; Cass. 1 marzo 2005, n. 4248; Cass. 10 marzo 2005, n. 5263; Cass. 4 agosto 2005, n. 16375;

Cass. 18 gennaio 2006, n. 888; Cass. 12 febbraio 2007, n. 3008 e Cass. 12 giugno 2007, n. 13705).

In particolare, nel ribadire il principio, Cass. n. 19654 del 2004 ha escluso la rilevanza dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente, ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata, o, ancora, della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione.

Lo stesso quanto a Cass. n. 888 del 2006, la quale spiega che non è ammesso il recupero di una condizione di procedibilità mancante al momento della scadenza del termine per il deposito del ricorso, la cui ammissibilità condurrebbe a far dipendere la procedibilità del ricorso dal tempo in cui lo stesso è deciso, introducendo nel sistema elementi di alea ed imprevedibilità che sarebbero gravemente pregiudizievoli del principio della certezza del diritto, finendo con il far dipendere il giudizio sull’osservanza delle forme e dei termini, e l’esito stesso del giudizio, da circostanze casuali ed imponderabili. Il termine dell’art. 369 c.p.c., in quanto perentorio, è inoltre improrogabile, e governato dalla regola generale di cui all’art. 153 c.p.c., con la conseguenza che la sanzione dell’improcedibilità non può essere evitata invocando il caso di forza maggiore o fatti imprevedibili non imputabili al ricorrente, essendo la decadenza impedita esclusivamente dall’esercizio del diritto. La conformità della norma in questione ai principi fondamentali dettati dalla Costituzione in relazione alla salvaguardia del diritto di difesa è stata recentemente riaffermata con l’ordinanza n. 22108 del 16 ottobre 2006, in virtù della quale risulta, per l’appunto, ribadito che è manifestamente infondata l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, nella parte in cui stabilisce che il ricorso per cassazione è improcedibile quando il ricorrente non abbia depositato copia autentica del provvedimento impugnato, sollevata in riferimento all’art. 24 Cost., comma 2, e art. 111 Cost., in quanto la norma mira a garantire, non irragionevolmente, le esigenze di certezza della conformità della copia del provvedimento all’originale, stabilendo un adempimento che non è particolarmente complesso, e non si pone in contrasto con le regole che devono improntare il giusto processo e neppure ostacola apprezzabilmente l’esercizio del diritto di difesa.

Pur in presenza di questo quadro giurisprudenziale, sostanzialmente omogeneo nell’aderire all’indirizzo espresso dalla Sezioni unite con la sentenza n. 11932 del 1998, non sono mancate, nel corso successivo dell’elaborazione giurisprudenziale, delle sporadiche pronunce – evidenziate anche nell’ordinanza di rimessione n. 4229 del 2008 – con le quali è stato ripreso l’orientamento in base al quale può ritenersi legittima la producibilità dei documenti previsti dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, anche oltre il termine previsto dal primo comma della stessa norma, con l’espletamento delle modalità stabilite dall’art. 372 c.p.c., comma 2.

In proposito, con riguardo, ad esempio, all’istanza per regolamento di competenza, l’ordinanza n. 18019 del 17 dicembre 2002 (terza sezione) ha affermato il principio in base al quale “ove il ricorrente non abbia, depositato la copia autentica della ordinanza impugnata con il regolamento di competenza, la relativa istanza non può essere dichiarata, per ciò solo, improcedibile allorchè il fascicolo d’ufficio, tempestivamente richiesto dalla parte al cancelliere dell’ufficio a quo ai sensi dell’art. 47 c.p.c., comma 3, e pervenuto nella cancelleria della Corte di cassazione, contenga l’originale dell’ordinanza impugnata”.

Successivamente, con la più recente sentenza (della sez. tributaria) n. 2452 del 5 febbraio 2007, è stato ritenuto, in riferimento al ricorso in sede di legittimità in generale, che “nel giudizio di cassazione, l’onere, imposto dall’art. 372 c.p.c., comma 2, di notificare alle altre parti l’elenco dei documenti relativi all’ammissibilità del ricorso, che siano stati prodotti successivamente al deposito dello stesso, è inteso a garantire il contraddittorio sulla produzione di parte, e deve pertanto ritenersi adempiuto qualora risulti che tale contraddittorio è stato comunque assicurato: è conseguentemente ammissibile la produzione all’udienza di discussione della documentazione comprovante l’avvenuta notifica della sentenza di secondo grado, e quindi la decorrenza del termine breve per l’impugnazione, qualora tale produzione sia avvenuta alla presenza del difensore della controparte, intervenuto alla medesima udienza”.

Nella relativa motivazione, con riguardo all’aspetto concernente la ritualità della sopravvenuta produzione della sentenza impugnata all’udienza di discussione, si osserva che l’art. 372 c.p.c. prevede che il deposito della documentazione relativa all’ammissibilità del ricorso possa avvenire indipendentemente dal deposito del ricorso e del controricorso e perciò anche successivamente ad essi. E’ vero che in tal caso la norma citata prevede che la documentazione così prodotta venga notificata mediante elenco alle controparti, ma trattasi evidentemente di previsione intesa a garantire il contraddittorio sulla produzione di parte e perciò da ritenersi osservata ogni volta che sul punto il contraddittorio risulti essere stato comunque garantito. Nella specie il contraddittorio risultava garantito, posto che la produzione era avvenuta in udienza, alla presenza del difensore di controparte, che nulla aveva eccepito in proposito.

Da ultimo, con sentenza n. 7027 del 14 marzo 2008, la Sezione lavoro, pronunciandosi in generale sulla questione in esame, ha operato una distinzione tra gli effetti della mancata produzione della sola sentenza impugnata e quelli conseguenti all’omessa tempestiva allegazione congiunta della relata di notificazione, stabilendo che la sanzione dell’improcedibilità del ricorso per cassazione prevista dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, trova applicazione soltanto in riferimento alla prescrizione principale concernente l’onere di produzione di copia autentica della sentenza impugnata e non già rispetto alla ulteriore prescrizione di dettaglio riguardante la produzione della copia con la relazione di notificazione. Secondo la sentenza in commento, ad escludere l’applicazione della sanzione di improcedibilità rispetto alla ipotesi da ultimo menzionata militano plurime ragioni di ordine sistematico e segnatamente: a) la sanzione non sarebbe comunque idonea a garantire il perseguimento dello scopo di consentire la verifica d’ufficio della mancata formazione della cosa giudicata, essendo a tal fine funzionale soltanto l’esplicazione del contraddittorio; b) essa verrebbe irrogata, di regola, proprio quando la verifica del rispetto del termine breve di impugnazione sarebbe consentita dalla produzione della sentenza con la relata di notificazione ad iniziativa del controricorrente; d) ove il ricorrente indichi soltanto, senza documentarla, la data di notificazione della sentenza, non sarebbe ragionevole attribuire rilievo a tale dichiarazione soltanto per la parte pregiudizievole al ricorrente medesimo; c) nel caso di notificazione a mezzo del servizio postale, la sanzione risulterebbe priva di giustificazione giacché, da un lato, la relazione di notificazione non evidenzia affatto la data di perfezionamento della medesima e, dall’altro, la parte destinataria dell’atto non è in possesso, in genere, di un’esauriente ed inequivoca prova documentale di tale data, la cui produzione non è comunque prevista da alcuna norma.

3. – Le ordinanze interlocutorie della terza sezione civile. Tornando alle ordinanze interlocutorie della terza sezione civile, esse si fanno carico di riassumere il percorso giurisprudenziale seguito in quest’ultimo decennio dalla materia in trattazione, evidenziano contrasti o mere distonie emerse nel dibattito, per proporre (soprattutto le due riguardanti il ricorso per cassazione in generale) uno sforzo evolutivo che, in estrema sintesi, dia della improcedibilità una lettura che non faccia del dettato dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, un’altra forma d’inammissibilità e la consideri, invece, una prescrizione ordinata a consentire la prova dell’inammissibilità, sì da trovare integrazione nella norma dell’art. 372 c.p.c., alla stessa stregua di quanto è stato di recente affermato dalle Sezioni unite in ordine alla prova del completamento del procedimento di notificazione (Cass. sez. un. 14 gennaio 2008, n. 627).

Più in particolare, le ordinanze osservano che la funzione della norma è quella di consentire alla Corte, nel momento in cui si tratta di decidere sul ricorso, di stabilire se il ricorrente abbia rispettato, oltre al termine di decadenza di cui all’art. 327 c.p.c., anche il termine di cui all’art. 325 c.p.c., che decorre dalla data in cui la sentenza è notificata e se dunque il ricorso, quando è stato proposto, poteva esserlo o la sentenza era già passata in giudicato. La disposizione detterebbe cioè una norma sul procedimento, che ha una natura strumentale, quella di consentire di verificare se il dovere della Corte di pronunciarsi sul fondo del ricorso è stato reso operante, perché è stata osservata una della serie delle altre norme che dettano le condizioni di ammissibilità originaria del ricorso, in particolare quella sui termini della impugnazione (tant’è che la sanzione che la norma descrive come “improcedibilità” non va applicata, nonostante la avvenuta notificazione della sentenza e la mancata produzione della copia notificata, quante volte il ricorso è proposto nello spazio di sessanta giorni dalla data di pubblicazione della sentenza).

L’improcedibilità sanzionata dalla disposizione processuale in questione potrebbe essere, dunque, intesa – secondo le ordinanze in commento – in due modi: a) la si potrebbe dire una variante verbale dell’inammissibilità (ossia, il legislatore avrebbe inteso imporre la stessa sanzione per la mancata osservanza sia delle condizioni di ammissibilità del ricorso, che vanno osservate nel momento in cui è esso è proposto, sia delle forme imposte a fini di prova di quelle condizioni e la diversa nomenclatura sarebbe in sostanza dovuta ad una preoccupazione di tipo descrittivo, perché il secondo ordine di regole riguarda non il momento in cui il ricorso è proposto, ma il momento in cui va depositato); b) le si potrebbe attribuire, invece, un diverso valore, quello per cui nel momento in cui si tratta di decidere sul fondo del ricorso, la Corte non può procedere oltre nel suo esame, se non sia posta in condizione di verificare se un ricorso, in ipotesi ammissibile, lo sia effettivamente.

L’inosservanza del termine entro il quale va data prova delle condizioni di ammissibilità del ricorso descritte nella norma (ed in particolare di quella che si considera) diverrebbe, allora, rilevante nella fase di decisione del ricorso e la funzione strumentale della norma (di consentire la verifica del rispetto di date condizioni di ammissibilità) permetterebbe di dare rilievo a modalità alternative di accertamento.

Aggiungono le ordinanze che, per come la disposizione è formulata, la norma non impone al ricorrente di dichiarare, nel ricorso, a pena di inammissibilità, se la sentenza gli è stata notificata, ma solo, ed a pena di improcedibilità, di depositare la sentenza con la relazione di notificazione, se questa sia avvenuta. Di qui il possibile verificarsi di una serie di situazioni definite paradossali: a) la parte non dice che la sentenza le è stata notificata, sebbene lo sia stata, e non la produce; l’altra parte non solleva questione circa l’ammissibilità, perché il termine per l’impugnazione è stato rispettato, nè pone la questione dell’improcedibilità per mancato deposito della copia della sentenza notificata;

il rilievo di ufficio dell’improcedibilità e l’applicazione della sanzione sarebbero in questo caso impedite dall’atteggiamento processuale della parte che ne potrebbe profittare; b) la parte non dice che la sentenza le è stata notificata e non la produce; l’altra parte, che lo allega, ha l’onere di dimostrare che la sentenza è stata notificata; la sentenza notificata è prodotta e ne risulta che il termine per l’impugnazione è stato rispettato: se risultasse il contrario il ricorso sarebbe da dichiarare inammissibile; se si attribuisce in questo caso rilievo al fatto in sè che il ricorrente non ha depositato la copia nel termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1, si perverrebbe al risultato paradossale che si deve considerare la Corte impedita dall’esame del fondo del ricorso, nel momento stesso in cui è messa in grado di riscontrare che è ammissibile; c) la parte, che non vi è tenuta, dichiara che la sentenza le è stata notificata in una certa data, perchè la sentenza le è stata notificata, e intende far constare che il termine per la impugnazione è stato rispettato; l’altra parte, perchè non è in condizioni di provare il contrario non lo contesta;

l’applicazione della sanzione di improcedibilità è resa qui possibile dal fatto che il ricorrente confessa che la sentenza gli è stata notificata e perciò dal fatto che è possibile alla Corte rilevare di ufficio che la prescrizione imposta dall’art. 369 c.p.c. non è stata osservata; singolare situazione processuale, in cui le parti concordano sul fatto che la sentenza è stata notificata in data rispetto alla quale il successivo ricorso è tempestivo, che riceve un trattamento diverso da quello in cui lo stesso consenso si forma sul fatto che non sia stata notificata o il ricorso sia tempestivo rispetto alla data in cui lo è stata e le parti sono talmente d’accordo sul punto che ne tacciono. Come sarebbe paradossale che (in modo non diverso da quanto accade nel caso b) la Corte debba risultare impedita dall’esaminare il fondo del ricorso nel momento stesso in cui la parte dimostra la ammissibilità del ricorso, producendo la copia notificata, in risposta al preannunzio della sanzione di improcedibilità, che avrà dovuto esserle fatto con la relazione prevista dall’art. 380 bis c.p.c., applicabile al caso della dichiarazione di improcedibilità, non diversamente che al caso della, dichiarazione di inammissibilità (ambedue da comprendersi nella previsione di cui all’art. 375 c.p.c., n. 2, nel testo riformulato, come prima in base all’art. 138 disp. att.).

4. – La dottrina.

In dottrina, a fronte di autori che esaltano il carattere perentorio del termine fissato dall’art. 369 c.p.c. e la conseguente impossibilità di convalidare ogni atto intervenuto dopo la sua scadenza ed altri che escludono qualsiasi interferenza tra gli artt. 372 e 369 c.p.c. (così da negare pure la possibilità del deposito della sentenza impugnata separatamente dal ricorso e nel termine dell’art. 369 c.p.c., comma 1), altri, più recentemente, hanno aderito ad una ricostruzione meno rigida, individuando degli spazi di operatività di una possibile sanatoria dell’omissione riconducibile al mancato deposito tempestivo della copia autentica della decisione impugnata corredata della relata di notificazione, per come prescritto dal cit. art. 369 c.p.c.. E’ proprio questa dottrina che, nel fornire supporto alle ordinanze interlocutorie in commento, sostiene l’applicabilità alla specifica disciplina del ricorso per cassazione del generalissimo principio di strumentalità delle forme, con tutti i suoi corollari, ivi inclusa la generale sanabilità delle inosservanze di forme per raggiungimento dello scopo (consentire la verifica della tempestività del ricorso e la fondatezza dei suoi motivi). Ecco, dunque, che non sarebbe possibile individuare alcuna ragione sostanziale, riconducibile alle funzioni della Corte (o del p.m.), che imponga di anticipare tassativamente al momento del deposito del ricorso, o comunque nel termine per il deposito del ricorso stesso, la copia autentica della sentenza impugnata (con la relata di notifica, se avvenuta); per l’altro, che se tale copia autentica è stata depositata dal controricorrente o è inserita nel fascicolo d’ufficio, la Corte sarebbe perfettamente in grado, al momento della decisione (e il pubblico ministero al momento in cui deve esprimere le proprie conclusioni), di valutare la tempestività dell’impugnazione e la fondatezza dei motivi di ricorso, proprio come avrebbe fatto in ipotesi di deposito tempestivo da parte del ricorrente. Insomma, il deposito da parte del controricorrente e/o la presenza della sentenza nel fascicolo d’ufficio opererebbero come causa di sanatoria dell’improcedibilità per raggiungimento dello scopo dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, relativamente alle funzioni della Corte e del pubblico ministero.

5. – La soluzione della questione.

Dalla disamina che s’è svolta in precedenza appare evidente che intorno alla questione dibattuta si scontrano due grandi linee di pensiero: una che riconosce nel processo e nelle sue forme una funzione eminentemente pubblicistica, tesa a dettare regole che ne consentano l’ordinato svolgimento e che, come tali, non ammettono equipollenti e non sono disponibili dalle parti; un’altra, sostanzialistica, che guarda allo scopo della regola, alla strumentalità delle forme e, dunque, alla possibilità di sanarne gli effetti sanzionatori nel caso in cui quello scopo sia stato comunque raggiunto, oppure la relativa violazione non risulti contestata dalla parte che ne abbia interesse.

Non v’è dubbio che l’improcedibilità è una sanzione, certamente grave, stabilita dalla legge processuale nel caso in cui il contendente non assolva ad un onere che gli è imposto perché il processo prosegua. La parte è investita del potere di far procedere la propria azione, purché lo faccia secondo determinate modalità ed in determinati termini. Scaduti questi, il potere cessa e scatta la sanzione. Sul punto è imprescindibile il collegamento con l’art. 387 c.p.c., il quale sancisce che il ricorso dichiarato inammissibile o improcedibile non può essere riproposto “anche se non è scaduto il termine fissato dalla legge”. Neppure v’è dubbio che la lettera della disposizione normativa della quale s’è finora discusso non offre spazi interpretativi. L’art. 369 c.p.c. sanziona con l’improcedibilità il tardivo deposito del ricorso, così come sanziona “sempre a pena d’improcedibilità” (la frase è significativa della continuazione di un unico discorso) il mancato deposito di una serie di atti, tra i quali il decreto di concessione del gratuito patrocinio, la copia autentica del provvedimento impugnato con la relazione di notificazione, se questa è avvenuta, la procura, se questa è conferita con atto separato rispetto al ricorso, gli atti e i documenti sui quali il ricorso si fonda. Con un deciso stacco, non è, invece, richiesto a pena di improcedibilità il deposito dell’istanza di trasmissione del fascicolo d’ufficio alla cancelleria della Corte.

Il discorso sull’improcedibilità del ricorso per cassazione non può dunque prescindere dall’intero contesto in cui essa è sancita, dovendo riguardare tutte le ipotesi previste dalla disposizione normativa e non solo quella del n. 2, comma 2. Una prima riflessione proviene dalla risposta che fornì la Corte costituzionale (sent. n. 471 del 1992) quando questa stessa S.C. le rimise il giudizio di costituzionalità dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 3 dubitando della ragionevolezza della prescrizione di un termine perentorio per il deposito della procura speciale e stimando la correlata sanzione d’improcedibilità sproporzionata rispetto ad un onere che, sebbene legato da un rapporto di necessaria funzionalità rispetto al processo, costituiva pur sempre una formalità non finalizzata al perseguimento di un interesse connesso con la tutela di valori essenziali o comunque equivalenti a quello sacrificato. In quell’occasione il giudice delle leggi dichiarò inammissibile la questione di costituzionalità, sul rilievo che il giudice remittente, chiedendo di superare la perentorietà del termine previsto dall’art. 369 c.p.c., finiva in sostanza per domandare una pronunzia di tipo additivo, comportante la possibilità di applicare sanatorie al mancato o tardivo deposito della procura speciale, così introducendo nel processo innovazioni di carattere politico che solo al legislatore è consentito apportare.

Ed, infatti, il legislatore, ove riconosca la sussistenza in concreto di uno specifico interesse pubblico che ne giustifichi l’adozione, può legittimamente imporre all’esercizio di facoltà e di poteri processuali limitazioni temporali immutabili ed irreversibili, per il fatto che i termini perentori, cui sono connaturati i caratteri dell’improrogabilità e dell’insanabilità, tendono a garantire, oltre alla fondamentale esigenza di giustizia relativa alla celerità o alla speditezza dei processi, un’effettiva parità dei diritti delle parti in causa mediante il contemperamento dell’esercizio dei rispettivi diritti di difesa. Tendono a garantire, soprattutto, la certezza del giudicato.

Sembra al collegio che medesimo discorso debba farsi riguardo all’ipotesi dell’art. 369 c.p., comma 2, n. 2 (della cui legittimità costituzionale, come s’è già visto in precedenza, questa Corte non ha in passato dubitato).

Un discorso che, per altro verso, non può prescindere dalla specialissima caratteristica del giudizio di cassazione, dal suo rilievo costituzionale, dalla sua assoluta differenza rispetto ai giudizi di merito, dalla speciale procura della quale deve essere munito il difensore, dagli speciali motivi di impugnazione nei quali deve articolarsi il ricorso introduttivo, dalle speciali pronunzie attraverso cui la Corte si esprime. Non può omettersi di considerare che il fine del giudizio di cassazione è la nomofilachia (come esplicitamente rimarcato dalle recenti riforme legislative), che il caso concreto sottoposto al giudizio di legittimità non è altro che un’occasione perché la Corte enunci il principio di diritto ed eserciti così il suo potere regolatore. Come pure non deve essere trascurato il carattere altamente tecnico del dibattito instaurato con il ricorso, tant’è che il recente legislatore ha introdotto l’onere per il ricorrente di formulare quesiti di diritto a pena d’inammissibilità.

In quest’ottica, appare affatto ragionevole che il legislatore abbia imposto delle regole rigide a chi intende innescare un siffatto tipo di processo, che – si badi – dopo la fase introduttiva, retta dalle poche regole sulla procedibilità, si svolge tutto in maniera officiosa.

Tra queste regole v’è, appunto, quella che assegna al ricorrente l’onere di depositare in termine la sentenza impugnata con la relazione di notificazione, se questa v’è stata. Non è in discussione che la disposizione abbia lo scopo di consentire alla Corte di verificare la tempestività del ricorso e, dunque, un requisito d’ammissibilità. Sicuramente, se il ricorso o l’istanza di regolamento di competenza fossero proposti nel termine rispettivo di sessanta o di trenta giorni dal deposito del provvedimento impugnato neppure si porrebbe il problema del deposito del provvedimento stesso notificato o del biglietto di cancelleria da cui evincersi la relativa comunicazione. Così come neppure si pone il problema nel caso in cui il ricorrente non dichiari affatto che la sentenza gli è stata notificata e non la produca (in tal modo intendendo avvalersi del termine lungo per impugnare) e la controparte nulla eccepisca in merito.

Tuttavia, la circostanza che lo scopo della disposizione possa essere raggiunto anche in altri modi (attraverso gli equipollenti dei quali s’è ampiamente detto in precedenza) o che esso possa essere soddisfatto dalla mancata contestazione della controparte non può portare all’estrema conseguenza di disattivare la precisa ed in equivoca regola del rito.

Non c’è regola che non abbia un suo scopo e se non l’avesse sarebbe incostituzionale in quanto irragionevole, discriminatoria, impeditiva del giusto processo e della giustizia sostanziale. Qui il problema non è lo scopo (indiscusso), il problema sono i tempi. Ossia, v’è da chiedersi perché il legislatore abbia ristretto nei venti giorni un onere di deposito di atti che servono per verificare l’ammissibilità del ricorso; ammissibilità che potrebbe essere verificata anche dopo quel termine, prima della discussione, all’esito della discussione, al momento della decisione.

La risposta la si è già data in precedenza: perché quello di cassazione è un giudizio diverso e speciale rispetto a quello di primo e secondo grado, denotato da celerità, da semplicità, da quasi totale officiosità.

D’altronde, una volta scardinata la regola dell’improcedibilità, bisognerebbe ipotizzare l’uso senza tempo dello strumento dell’art. 372 c.p.c., oppure rimettere il gioco nelle mani del contraddittore.

Ma non solo, si potrebbe giungere ad estendere il dettato dell’art. 182 c.p.c. ed immaginare che il deposito degli atti possa essere effettuato dietro invito del giudice anche dopo l’inizio della discussione, se non addirittura al termine dell’udienza, attraverso l’emissione di un’ordinanza interlocutoria che rimetta la parte in termine per il deposito.

Tutto questo, l’estensione di forme di sanatoria all’art. 369 c.p.c. rimesse all’autonomia delle parti o all’intervento collaborativo del giudice, è immaginabile ed è possibile. Si possono eliminare tutte le cause d’improcedibilità o distinguere tra quelle sanzionate con termine perentorio e quelle sanabili, si può pensare al provvedimento di sanatoria in camera di consiglio o in udienza, si può fissare un termine finale per l’esercizio del potere giudiziale di regolarizzazione. Però, tutto questo può farlo solo il legislatore, perché – come ebbe a dire la già citata sentenza costituzionale – significa modificare l’attuale ruolo del giudice di legittimità ed, inoltre, scegliere discrezionalmente tra un’estrema molteplicità di modalità d’attuazione.

Se ci si pone in quest’ottica, appare chiaro che l’improcedibilità non è una “variante verbale dell’inammissibilità” (come ipotizzano due delle ordinanze interlocutorie in commento), non è una sorta di tagliola tesa dal legislatore al ricorrente, ma è la sanzione per la mancata osservanza di una regola imposta ai fini della prova delle condizioni di ammissibilità. Prova che il legislatore vuole che sia sin dall’inizio fornita dal ricorrente, in maniera da porre subito la Corte nella possibilità di delibare, anche mediante l’apposito procedimento camerale predisposto, l’ammissibilità del ricorso.

Se ci si pone in quest’ottica, i risultati ai quali si può pervenire attraverso l’applicazione del dettato normativo non sono affatto paradossali (ossia delle conclusioni che, per la contrarietà con le previsioni, appaiono sorprendenti ed incredibili) ma l’ovvia conseguenza sanzionatoria di un comportamento contrario ad una regola d’accesso (peraltro neppure estremamente gravosa) che il legislatore ha ritenuto appropriata al tipo di processo. E che il processo per cassazione richieda dei meccanismi selettivi d’accesso che ne favoriscano il rapido esito è una preoccupazione che tuttora affligge il legislatore, il quale di recente è intervenuto (ed in questi giorni si sta nuovamente adoperando) per introdurre nuovi sistemi filtranti. Neppure questa lettura della norma potrebbe dirsi contraria ai principi del giusto processo, costituzionalizzati dall’art. ili Cost. (come adombra una delle ordinanze di rimessione), posto che il giusto processo è quello “regolato dalla legge” e che, se per un verso deve tendere il più possibile al conseguimento di una giustizia sostanziale, per altro verso deve svolgersi in termini ragionevoli, per rispettare i quali è indispensabile porre preclusioni ed oneri a carico delle parti. Il principio di ragionevole durata del processo è stato definito “asse portante” (Cass. sez. un. n. 24883 del 2008, sulla nuova lettura dell’art. 37 c.p.c.) nella lettura delle norme processuali, che, per quanto rivolto al legislatore, ben può fungere da parametro interpretativo e costituzionale rispetto a quelle disposizioni del rito le quali – rispetto al fine primario del processo che consiste nella realizzazione del “diritto delle parti ad ottenere una risposta, affermativa o negativa, in ordine al bene della vita, oggetto della loro contesa” (v. Corte Cost. n. 77 del 2007 cit.) – prevedano rallentamenti o tempi lunghi, inutili passaggi di atti da un organo all’altro, formalità superflue non giustificate da garanzie difensive, nè da esigenze repressive o di altro genere. E non v’è dubbio che procrastinare fino al momento della discussione (o anche dopo) la produzione di atti utili all’indagine sull’ammissibilità, che la parte, invece, avrebbe potuto sin dall’inizio mettere a disposizione del giudice, senza sforzi particolarmente gravosi, comporta un inutile e dannoso rallentamento della procedura, senza per nulla, dall’altro verso, comprimere garanzie difensive o impedire il conseguimento di una risposta in ordine alla contesa.

Allora, ammettere equipollenti al tempestivo deposito contraddirebbe la previsione dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, quale adempimento che deve essere eseguito entro il termine per il deposito del ricorso, in funzione dell’ordinato e celere svolgimento del giudizio di cassazione ed, inoltre, metterebbe la sorte del giudizio di cassazione nelle mani del controricorrente, dalla cui decisione di produzione della suddetta copia con la relata dipenderebbe la procedibilità. Nè, in riferimento ai suddetti equipollenti, potrebbe giustificarsi l’esclusione della sanzione di improcedibilità sulla base del principio del raggiungimento dello scopo della previsione dell’indicata produzione, cioè considerandosi che diviene possibile la valutazione della tempestività dell’impugnazione. A tale applicazione di uno dei principi regolatori della disciplina generale delle nullità formali osta, infatti, la circostanza che l’adempimento dell’onere del deposito della copia con la relata di notifica è assoggettato, come si è detto, al termine di deposito del ricorso e, pertanto, lo scopo della previsione di tale onere (da identificarsi nella messa a disposizione della Corte di cassazione della copia della sentenza con la relata entro quel termine) non potrebbe apparire raggiunto per effetto del deposito avvenuto con il controricorso dell’intimato della copia con detta relata o della sua presenza nel fascicolo d’ufficio, collocandosi detti eventi dopo la scadenza di quel termine.

Un’ultima annotazione riguarda l’invito, fatto da due delle ordinanze di rimessione in commento, ad applicare alla fattispecie in trattazione gli stessi principi affermati dalla recente Cass. sez. un. 14 gennaio 2008, n. 627, in tema di produzione dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 c.p.c., o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario da notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c. La sentenza ha ritenuto che questa produzione è richiesta dalla legge esclusivamente in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio e ne ha fatto derivare che l’avviso non allegato al ricorso e non depositato successivamente può essere prodotto fino all’udienza di discussione di cui all’art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione prevista dal primo comma della citata disposizione, ovvero fino all’adunanza della Corte in camera di consiglio di cui all’art. 380 bis c.p.c., anche se non notificato mediante elenco alle altre parti ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2.

Il collegio ritiene che il richiamo a questa diversa vicenda non sia conferente. Infatti, in caso di notifica a mezzo posta, il deposito dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato rappresenta l’unica prova dell’effettivo compimento del procedimento notificatorio del ricorso e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio.

Come tale serve a dimostrare l’ammissibilità del ricorso e l’art. 372 c.p.c. stabilisce che “il deposito dei documenti relativi all’ammissibilità può avvenire indipendentemente da quello del ricorso”, laddove, invece, l’art. 369 c.p.c. assegna al ricorrente (a pena d’improcedibilità) l’onere di depositare (tra l’altro) la copia della sentenza notificata “insieme col ricorso”. Ecco perchè, nel primo caso, le sezioni unite hanno ritenuto che la produzione possa avvenire fino all’udienza di discussione e che l’omessa notifica dell’elenco di cui all’art. 372 c.p.c., comma 2, integri una violazione di carattere meramente formale, cui non consegue la inutilizzabilità del documento.

Si tratta, dunque, di due vicende affatto differenti che non possono soggiacere allo stesso trattamento.

In conclusione e riepilogando quanto finora detto, le sezioni unite intendono confermare la decisione alla quale pervennero già con la sentenza n. 11932 del 1998, che offre la soluzione più equilibrata per regolare la vicenda; e, dunque, il riscontro dell’osservanza, da parte della Corte di cassazione, si atteggia, evidentemente, in maniera diversa, secondo che la parte ricorrente alleghi espressamente (enunciando la circostanza nel ricorso) oppure implicitamente (producendo copia autentica della sentenza impugnata, recante la relata di notificazione idonea ai fini del decorso del termine per l’impugnazione) che la sentenza, contro cui ricorre, sia stata notificata; oppure non formuli alcuna allegazione.

Nel primo caso, (fermo che non pone problemi l’allegazione implicita, atteso che essa soddisfa senz’altro il precetto legislativo), l’allegazione espressa del ricorrente determina a suo carico l’onere (in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, citato n. 2 ed in ottemperanza alla regola di giudizio sull’onere della prova, applicata alla dimostrazione dei presupposti e delle condizioni di regolarità del processo) di depositare la copia autentica della sentenza con la relata di notificazione, unitamente al ricorso (o anche – a norma dell’art. 372 c.p.c., comma 2, applicabile estensivamente ai documenti concernenti la procedibilità del ricorso – separatamente, ma comunque entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c.). Ove tale produzione non avvenga, la sanzione della improcedibilità non è eludibile, non solo per effetto della mancata contestazione da parte dell’intimato che abbia resistito al ricorso, ma anche attraverso equipollenti, come il deposito di una copia con la relata di notifica da parte del controricorrente o come la circostanza che nel fascicolo d’ufficio trasmesso dal giudice a quo risulti inserita una copia con detta relata.

Nell’ipotesi di mancata allegazione da parte del ricorrente del fatto dell’avvenuta la notificazione della sentenza impugnata e di produzione soltanto della copia autentica della sentenza stessa, la Corte di cassazione deve, invece, ritenere che il ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il termine lungo ed il suo potere di riscontro della tempestività di detto esercizio si accentrerà su tale verifica.

Qualora, tuttavia, o per eccezione dell’unica o di alcuna delle parti controricorrenti (che rilevino che, invece, era avvenuta la notificazione e producano la copia della sentenza con la relata della stessa) o, anche in difetto di tale eccezione, sulla base dell’esame delle produzioni delle parti (cioè sia del ricorrente, sia di parti controricorrenti) o anche dello stesso fascicolo d’ufficio, la Corte riscontri che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno dell’esercizio del diritto di impugnazione rispetto al termine breve decorrente da quella notificazione, essa deve rilevare che la parte ricorrente non ha ottemperato all’onere di deposito della copia notificata della sentenza e dichiarare la improcedibilità del ricorso (rilievo che precede quello dell’eventuale inammissibilità dell’impugnazione, eccepita o meno che sia, per l’intempestività del ricorso in relazione al termine breve dalla notificazione decorso). Per questi ultimi concetti, cfr. soprattutto la già citata Cass. n. 19654 del 2004.

Tutte le ragioni sopra esposte possono essere opportunamente adeguate al ricorso per regolamento di competenza, per quanto già affermato in precedenza sub I.1.. Sicché, posto che l’art. 47 c.p.c., nel sancire che, nel termine perentorio di venti giorni dalla notificazione del ricorso, la parte che propone l’istanza di regolamento “deve depositare nella cancelleria il ricorso con i documenti necessari”, fa inequivoco riferimento all’art. 369 c.p.c., bisogna ritenere che, a pena d’improcedibilità, la stessa parte, al fine di consentire alla Corte di verificare la tempestività dell’impugnazione, debba depositare il biglietto di cancelleria insieme con il ricorso, oppure con le modalità indicate dall’art. 372 c.p.c., comma 2, ma pur sempre nel termine di venti giorni stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1.

In sintesi, possono essere enucleati i seguenti principi:

– Nell’ipotesi in cui il ricorrente per cassazione non alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, la Corte di cassazione deve ritenere che il ricorrente abbia esercitato il diritto di impugnazione entro il cd. termine lungo e procedere all’accertamento della sua osservanza. Tuttavia, qualora o per eccezione del controricorrente o per le emergenze del diretto esame delle produzioni delle parti o del fascicolo d’ufficio emerga che la sentenza impugnata era stata notificata ai fini del decorso del termine di impugnazione, la Corte, indipendentemente dal riscontro della tempestività o meno del rispetto del termine breve, deve rilevare che la parte ricorrente non ha ottemperato all’onere del deposito della copia notificata della sentenza impugnata entro il termine di cui al primo comma dell’art. 369 c.p.c. e dichiarare improcedibile il ricorso, atteso che il riscontro della improcedibilità del ricorso per cassazione precede quello dell’eventuale sua inammissibilità;

– La previsione – di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, – dell’onere di deposito a pena di improcedibilità, entro il termine di cui al primo comma della stessa norma, della copia della decisione impugnata con la relazione di notificazione, ove questa sia avvenuta, è funzionale al riscontro, da parte della Corte di Cassazione – a tutela dell’esigenza pubblicistica (e, quindi, non disponibile dalle parti) del rispetto del vincolo della cosa giudicata formale – della tempestività dell’esercizio del diritto di impugnazione, il quale, una volta avvenuta la notificazione della sentenza, è esercitatile soltanto con l’osservanza del cosiddetto termine breve. Nell’ipotesi in cui il ricorrente, espressamente od implicitamente, alleghi che la sentenza impugnata gli è stata notificata, limitandosi a produrre una copia autentica della sentenza impugnata senza la relata di notificazione, il ricorso per cassazione dev’essere dichiarato improcedibile, restando possibile evitare la declaratoria di improcedibilità soltanto attraverso la produzione separata di una copia con la relata avvenuta nel rispetto dell’art. 372 c.p.c., comma 2 applicabile estensivamente, purchè entro il termine, di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1, e dovendosi, invece, escludere ogni rilievo dell’eventuale non contestazione dell’osservanza del termine breve da parte del controricorrente ovvero del deposito da parte sua di una copia con la relata o della presenza di tale copia nel fascicolo d’ufficio, da cui emerga in ipotesi la tempestività dell’impugnazione.

In tema di ricorso per regolamento di competenza, l’obbligo del deposito, da parte del ricorrente, unitamente alla copia autentica della sentenza impugnata, del biglietto di cancelleria da cui desumere la tempestività della proposizione dell’istanza di regolamento (obbligo fissato, a pena di improcedibilità, dal combinato disposto dell’art. 47 c.p.c. e dell’art. 369 c.p.c., comma 2) può essere soddisfatto o mediante il deposito del predetto documento contestualmente a quello del ricorso per cassazione (come previsto, per l’appunto, dall’art. 369 c.p.c. citato, comma 2) oppure attraverso le modalità previste dall’art. 372 c.p.c., comma 2 (deposito e notifica mediante elenco alle altre parti), purché nel termine stabilito dall’art. 369 c.p.c., comma 1.

Il ricorso per regolamento di competenza nella specie proposto deve essere, dunque, dichiarato improcedibile, siccome il biglietto di cancelleria non è stato depositato né insieme con il ricorso, né, separatamente, nel termine di cui all’art. 369 c.p.c., comma 1.

La mancata difesa della parte intimata esime la Corte dal provvedere sulle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte dichiara improcedibile il ricorso.

Così deciso in Roma, il 17 marzo 2009.

Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2009


Cass. pen. Sez. II, (ud. 12-12-2008) 13-03-2009, n. 11131

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. COSENTINO Giuseppe Maria – Presidente

Dott. FIANDANESE Franco – Consigliere

Dott. PRESTIPINO Antonio – Consigliere

Dott. CAMMINO Matilde – Consigliere

Dott. RENZO Michele – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

L.F.E. n. (OMISSIS);

avverso l’ordinanza emessa in data 7 maggio 2008 dal Tribunale di Cosenza;

Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Matilde Cammino;

udita la requisitoria del Pubblico Ministero, Sost. Proc. Gen. Dott. STABILE Carmine, che ha chiesto il rigetto del ricorso;

sentito il difensore avv. COSCARELLA Giovanni del foro di Cosenza che rinuncia al ricorso nella parte riflettente il sequestro delle autovetture perchè dissequestrate e per la restante parte chiede l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
OSSERVA

L.F.E., legale rappresentante della Spees Control, ha presentato ricorso per cassazione avverso l’ordinanza in data 7 maggio 2008 del Tribunale di Cosenza con la quale era stata rigettata la richiesta di riesame del decreto di sequestro preventivo emesso in data 10 aprile 2008 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Paola e avente ad oggetto sette autovetture e tutti gli apparecchi di rilevamento della velocità (autovelox) di proprietà dell’impresa individuale Speed Control, beni utilizzati per l’attività di rilevazione della velocità dei veicoli in transito nei comuni di (OMISSIS).

Detta attività, secondo la tesi accusatoria, era intenzionalmente preordinata a trarre in inganno gli automobilisti, in contrasto con lo spirito della normativa in materia diretta a prevenire incidenti più che a reprimere.

Secondo il Tribunale, l’attuale formulazione dell’art. 142 C.d.S. (modif., dal D.L. 3 agosto 2007, n. 117, conv. dalla L. n. 160 del 2007) prevede che le postazioni di controllo debbano essere segnalate e ben visibili. Anche la circolare 3 agosto 2007 del ministero dell’Interno prescrive la segnalazione almeno 400 metri prima del punto in cui l’apparecchio di rilevamento della velocità era collocato. Il D.M. 15 agosto 2007 e la Circolare Ministeriale 8 ottobre 2007 ribadivano l’esigenza di segnalare le postazioni di controllo con adeguato anticipo e in modo da garantirne il tempestivo avvistamento. Dagli accertamenti svolti dalla polizia giudiziaria risultava invece che, nei tre comuni calabresi per i quali la Speed Control era titolare della concessione per il noleggio delle apparecchiature autovelox, le apparecchiature in questione erano state ben occultate in autovetture spesso di proprietà del titolare il quale, ricevendo un compenso parametrato su ogni verbale di infrazione per il quale era riscossa la relativa sanzione, era interessato ad incrementare le riscossioni. Veniva pertanto ritenuto sussistente il reato di truffa, mentre il periculum in mora era individuato nei prevedibili ulteriori esborsi illegittimi da parte degli automobilisti sulla base di un rilevamento automatico della velocità così organizzato.

Con il ricorso presentato dal L. tramite il suo difensore si deduce l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale nonchè la totale mancanza di motivazione in ordine al fumus commissi delicti, affermato nell’ordinanza impugnata senza tener conto delle risultanze processuali e della documentazione prodotta dalla difesa e omettendo qualunque indagine sull’elemento psicologico del reato ipotizzato.

Il ricorso è inammissibile.

In relazione al sequestro delle autovetture, restituite con provvedimento del 29 giugno 2008, il difensore all’odierna udienza ha formalmente rinunciato al ricorso così manifestando il venir meno dell’interesse da parte del ricorrente. Le deduzioni difensive comunque nel loro complesso sono generiche e manifestamente infondate.

Va infatti premesso che – secondo quanto affermato più volte da questa Corte, anche a Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 29 maggio 2008 n. 25932, Ivanov; 28 gennaio 2004 n. 5876, p.c. Ferrazzi in proc. Bevilacqua; 28 maggio 2003 n. 25080, Pellegrino) – il ricorso per cassazione avverso le ordinanze emesse a norma degli artt. 322 bis e 324 c.p.p. in materia di sequestro preventivo e di sequestro probatorio (in quest’ultimo caso per effetto del rinvio operato dall’art. 257 c.p.p. all’art. 324 c.p.p.) può essere proposto esclusivamente per il vizio di violazione di legge, comprendente sia l’inosservanza o erronea applicazione della legge penale sostanziale e processuale (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b e c) sia il difetto di motivazione che si traduca, a sua volta, in una violazione della legge processuale (art. 125 c.p.p., comma 3) perché l’apparato argomentativo manchi completamente o risulti privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e di ragionevolezza che consentano di rendere comprensibile l’iter logico posto a fondamento del provvedimento impugnato (motivazione meramente apparente).

Il ricorrente nel caso di specie si duole dell’omessa valutazione da parte del giudice di merito delle censure articolate con la richiesta di riesame e della documentazione difensiva, senza tuttavia indicarne specificamente, sia pure in modo sommario, il contenuto, al fine di consentire l’individuazione delle questioni che si assumono irrisolte e sulle quali si sollecita il sindacato di legittimità. Il ricorso sotto questo profilo è inammissibile in quanto, non autosufficiente, essendo privo della precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica. Requisito indispensabile dei motivi di impugnazione è infatti la specificità, consistente nella precisa e determinata indicazione dei punti di fatto e delle questioni di diritto da sottoporre al giudice del gravame (Cass. sez. 6, 19 dicembre 2006 n. 21858, Tagliente, sez. 5, 9 dicembre 1998 n. 2896, La Mantia; Sez. unite 11 novembre 1994 n. 21).

Alla Corte è peraltro preclusa in tema di sequestro preventivo una valutazione che possa risolversi in un’anticipata decisione della questione di merito e quindi una verifica in concreto della fondatezza della tesi accusatoria. Il sindacato sulle condizioni di legittimità della misura cautelare reale si realizza infatti attraverso una delibazione sommaria della congruità degli elementi rappresentati in cui, senza prescindere dalle concrete risultanze processuali e dalle contestazioni difensive (Cass. sez. 4, 29 gennaio 2007 n. 10979, Veronese; sez. 1, 19 dicembre 2003 n. 1885, Cantoni;

sez. 2, 21 ottobre 2003 n. 47402, Di Gioia; sez. 3, 11 giugno 2002 n. 36538, Pianelli; sez. 6, 3 marzo 1998 n. 731, Campo; Sez. Un. 20 novembre 1996 n. 23, Bassi), possono rilevare eventuali difformità tra fattispecie legale e fattispecie reale solo se ravvisabili ictu oculi.

Entro questi limiti la Corte ritiene che nell’ordinanza impugnata il Tribunale del riesame – contrariamente a quanto affermato nel ricorso – sia pervenuto ad affermare la sussistenza del fumus del reato di truffa attraverso un percorso argomentativo immune da vizi logici e giuridici, all’esito di un’approfondita analisi della normativa in materia di rilevamento della velocità dei veicoli attraverso postazioni di controllo sulla rete stradale e di un circostanziato esame dei concreti risultati delle indagini di polizia giudiziaria, senza peraltro trascurare le argomentazioni della difesa del L. e la documentazione dalla stessa prodotta (come si desume dalla menzione della fotografia prodotta dalla difesa e riguardante la segnalazione della postazione mobile di rilevamento della velocità nel Comune di (OMISSIS)).

Quanto all’elemento psicologico del reato di truffa, la Corte osserva che il sequestro preventivo è legittimamente disposto in presenza di un reato che risulti sussistere in concreto, indipendentemente dall’accertamento della sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’agente o della sussistenza dell’elemento psicologico, atteso che la verifica di tali elementi è estranea all’adozione della misura cautelare reale (Cass. sez. 14 aprile 2006 n. 15298, Bonura; sez. 1, 9 luglio 1999 n. 2762, Faustini; sez. 3, 5 maggio 1994 n. 1428, Menietti).

Alla inammissibilità del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p. la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 12 dicembre 2008.

Depositato in Cancelleria il 13 marzo 2009


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 22-01-2009) 26-02-2009, n. 4622

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – Presidente

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere

Dott. MELONCELLI Achille – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 10461/2002 proposto da:

B.S., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato TACCHI VENTURI PIER CESARE, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO che li rappresenta e difende ope legis;

– controricorrenti –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE UFFICIO DI (OMISSIS);

– intimato –

avverso la sentenza n. 229/2000 della COMM. TRIB. REG. di VENEZIA, depositata il 26/02/2001;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 22/01/2009 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato D’AYALA VALVA, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del terzo motivo del ricorso, assorbiti gli altri.

Svolgimento del processo
Il sig. B.S. ha impugnato due avvisi di accertamento con i quali il competente ufficio finanziario ha rettificato la dichiarazione dei redditi della Dolciaria del Garba srl, riferita all’esercizio 1989, della quale il B. è stato amministratore fino al (OMISSIS), ed ha conseguentemente contestato che in relazione al maggior reddito accertato non erano state effettuate e versate le ritenute di acconto sugli utili distribuiti ai soci della società, a ristretta base partecipativa.

A sostegno dell’originario ricorso, il contribuente eccepiva vizi di motivazione degli atti impugnati, illegittimità delle pretese fiscali avanzate nei confronti di un ex legale rappresentante e infondatezza nel merito delle pretese stesse.

La commissione tributaria provinciale, previa riunione dei ricorsi, ha rigettato l’eccezione di difetto di legittimazione del B., sollevata dall’ufficio, sul rilievo che in quanto destinatario degli atti il contribuente era legittimato ad impugnarli; nel merito, ha accolto il ricorso ritenendo illegittimo l’accertamento effettuato con metodo induttivo.

L’ufficio ha impugnato la decisione di primo grado riproponendo l’eccezione di difetto di legittimazione del B., deducendo tra l’altro che l’ex legale rappresentante della società poteva contestare soltanto il la sussistenza del vincolo dell’obbligazione solidale per il pagamento delle sopratasse e delle pene pecuniarie previsto dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, comma 6.

La commissione tributaria regionale ha accolto l’appello dell’ufficio ritenendo che il B. non fosse legittimato ad impugnare gli atti in contestazione, essendo estraneo alla compagine sociale, che è il soggetto passivo d’imposta: avrebbe potuto far valere eventualmente questa sua estraneità in sede di riscossione.

Avverso quest’ultima decisione ricorre il contribuente con cinque motivi.

L’amministrazione finanziaria dello Stato resiste con controricorso, insistendo nel prospettare la tesi della carenza di legittimazione del B., al quale gli avvisi sarebbero stati notificati “solo per conoscenza… per le sole implicazioni penali ed amministrative” (v. p. 1 dell’odierno ricorso).

Motivi della decisione
Il ricorso appare fondato in relazione al terzo motivo, assorbiti tutti gli altri motivi, fatta eccezione per il primo, che è infondato.

Infatti, con il primo motivo di ricorso viene denunciata la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, anche sotto il profilo della omessa pronuncia, in quanto la CTR non avrebbe tenuto conto della eccezione di inammissibilità dell’appello dell’ufficio, per mancanza di motivi specifici di impugnazione. Tale censura appare infondata, oltre ad essere formulata in maniera ambigua. In ogni caso, dalla lettura dei brani riportati nel ricorso odierno (p. 5) emerge con chiarezza che i motivi posti a sostegno dell’appello non erano generici, risultando incentrati sulla questione della violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, che è il tema sul quale, in particolare, si è sviluppata la vicenda processuale. D’altra parte, secondo la giurisprudenza di questa Corte, “nel processo tributario, l’indicazione dei motivi specifici dell’impugnazione, richiesta dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e formalistica enunciazione delle ragioni invocate a sostegno dell’appello, richiedendosi, invece, soltanto una esposizione chiara ed univoca, anche se sommaria, sia della domanda rivolta al giudice del gravame, sia delle ragioni della doglianza” (Cass. 1224/2007).

Quanto alla censura di omessa pronuncia, la sentenza impugnata si dilunga proprio sulla questione della legittimazione processuale del B., sul merito della quale è incentrato il terzo fondato motivo di ricorso, che va esaminato con precedenza su tutti gli altri.

Con il terzo motivo, infatti, il ricorrente lamenta la violazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98, comma 6, perchè erroneamente la CTR ha ritenuto che il B. non fosse legittimato ad impugnare gli atti notificatigli, perchè da questi non poteva derivargli alcun pregiudizio.

Giova preliminarmente chiarire che trattasi di avvisi di accertamento notificati il 21.11.1997, vale a dire prima dell’entrata in vigore del D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 16, (operante dal 1 aprile 1998, ai sensi dell’art. 29, dello stesso D.Lgs.) che ha abrogato il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 98.

Nel merito, la censura appare fondata. Non è affatto vero che la notifica degli avvisi di accertamento era un atto “indifferente” per il contribuente, tanto più se, come osserva l’Ufficio, l’accertamento notificato alla società era divenuto definitivo. La stessa amministrazione ricorrente riconosce che gli avvisi contestati sono stati notificati al B. per le implicazioni penali ed amministrative. La difesa del contribuente, che all’epoca dei fatti era l’amministratore della società, non può essere limitata al solo profilo della sussistenza del vincolo della obbligazione solidale degli effetti sanzionatori, come erroneamente scrive la CTR, ma può e deve essere estesa a tutti i profili che attengono alla sussistenza delle violazioni contestate, che sono il presupposto dei profili sanzionatori. Il “palo” può difendersi dall’accusa del concorso in furto sia dimostrando di non aver svolto tale ruolo di “sentinella”, ma anche dimostrando che il furto non si è verificato.

Il fatto che l’avviso di accertamento non sia stato impugnato da chi aveva la rappresentanza della società quando è stato notificato il relativo atto dimostra che una efficace tutela giudiziaria del B. non può che essere affidata alla sua iniziativa “a tutto campo” rispetto ad atti impositivi che gli andavano comunque notificati. D’altra parte, o il B. veniva chiamato in giudizio come litisconsorte necessario o comunque avrebbe potuto poi formulare tutte le eccezioni utili alla sua difesa, di merito e di rito, rispetto alle contestazioni fiscali anche in sede di riscossione. La mancata impugnazione dell’avviso notificato alla società non lo vincola in alcun modo sul piano delle conseguenze sanzionatorie. Così come non lo avrebbe vincolato l’eventuale giudicato formatosi nei confronti dei destinatari dell’atto di accertamento diretto alla società, in considerazione dei limiti soggettivi del giudicato. D’altra parte, se il B. non avesse impugnato gli atti notificatigli, facendoli diventare definitivi, non avrebbe potuto poi impugnare gli atti successivi, come ad esempio l’iscrizione a ruolo, se non per vizi propri (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, comma 3).

In definitiva, l’ufficio non può notificare a proprio piacimento atti impositivi assumendo che siano privi di effetti giuridici e pretendere che il contribuente se ne stia tranquillo “tanto non accade nulla”. Ogni atto giuridico produce effetti e se un atto viene definito inutile dallo stesso emittente c’è da chiedersi (a parte i dubbi legittimi sulla sanità mentale e/o idoneità professionale delle persone fisiche responsabili di tali comportamenti) perchè sia stato adottato e notificato, fermo restando gli effetti di danno che può comunque produrre nella sfera giuridica del destinatario, a prescindere dalle intenzioni dell’emittente (in un caso come quello in esame, ad esempio, è evidente che il destinatario degli atti ha la necessità di rivolgersi ad un professionista per verificare se e quali effetti possa produrre un atto definito “innocuo” dalla controparte, anche se poi in ipotesi l’atto si riveli effettivamente innocuo, contrariamente a quanto avvenuto nella specie).

Tutte le altre censure attengono al merito della vicenda e sono quindi assorbite, dovendo eventualmente essere esaminate dal giudice del rinvio.

Conseguentemente, il ricorso va accolto in relazione al terzo motivo, rigettato il primo ed assorbiti gli altri, e la sentenza impugnata va cassata con rinvio al giudice di merito, per il giudizio di appello. Il giudice del rinvio provvederà anche alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il terzo, assorbiti tutti gli altri, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese, ad altra sezione della commissione tributaria regionale del Veneto.

Così deciso in Roma, il 22 gennaio 2009.

Depositato in Cancelleria il 26 febbraio 2009


Cass. civ. Sez. I, Sent., (ud. 06-02-2009) 25-02-2009, n. 4587

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MORELLI Mario Rosario – Presidente

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. FORTE Fabrizio – Consigliere

Dott. FITTIPALDI Onofrio – Consigliere

Dott. GIUSTI Alberto – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso, per legge, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliato in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

CONSOB – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 43, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliata in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

P.B., P.A., G.F., S.L., rappresentati e difesi, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 43, dall’Avvocatura Generale dello Stato, e presso gli Uffici di questa domiciliati in Roma, Via dei Portoghesi, n. 12;

successivamente, in corso di causa: P.B. rappresentato e difeso, in forza di procura speciale notarile del 28 ottobre 2005 (Notaio Giancarlo Mazza di Roma, rep. n. 52341), dagli Avv. Diego Corapi e Vittorio Cappuccini, elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma, Via Flaminia, n. 318; P.A. rappresentato e difeso, in forza di procura speciale notarile del 14 aprile 2005 (Notaio Giulia Ardissone di Torino, rep. n. 8803), dagli Avv. Giuseppe Celona e Andrea Manzi, elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma, Via Federico Confalonieri, n. 5; G. F. rappresentato e difeso, in forza di procura speciale notarile del 13 marzo 2006 (Notaio Pietro Mazza di Roma, rep. N. 104133), dall’Avv. Mario Nuzzo, elettivamente domiciliato presso il suo studio in Roma, Via Cassiodoro, n. 9;

– ricorrenti –

contro

S.R. ed altri 897 sottoscrittori di quote della S.r.l.

Hotel Villaggio S.T.: SI.LI. Ved. B., + ALTRI OMESSI e, per loro nome e conto, G.I., nonché G.I. in proprio, rappresentati e difesi, per procura speciale in calce al controricorso, dagli Avv. DANOVI Remo e Francesco Giorgianni, elettivamente domiciliati nello studio di quest’ultimo in Roma, Via Sistina, n. 42;

– controricorrenti –

e sul ricorso proposto da:

S.R. ed altri 897 sottoscrittori di quote dalla S.r.l.

Hotel Villaggio Santa Teresa, come sopra elencati, e per loro nome e conto G.I., nonché G.I. personalmente, rappresentati e difesi, per procura speciale in calce al controricorso, dagli Avv. Remo Danovi e Francesco Giorgianni, elettivamente domiciliati nello studio di quest’ultimo in Roma, Via Sistina, n. 42;

– ricorrenti in via incidentale –

contro

MINISTERO dell’ECONOMIA e delle FINANZE, in persona del Ministro pro tempore; CONSOB – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, in persona del legale rappresentante pro tempore; P.B., P.A., G.F. e S.L.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano n. 2841 depositata il 21 ottobre 2003.

Udita la relazione della causa svolta nell’udienza Pubblica del 6 febbraio 2009 dal Consigliere relatore Dott. Alberto Giusti;

uditi, per i ricorrenti, l’Avvocato dello Stato Salvatorelli e gli Avv. Nuzzo, Cappuccini e Celona, e, per i controricorrenti e ricorrenti incidentali, l’Avv. Giorgianni;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per l’estinzione dei giudizi nei confronti delle parti che hanno depositato gli atti di rinuncia, per l’accoglimento del sesto motivo del ricorso principale, per il rigetto del resto e del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
1.- In data 21 luglio 1983 veniva pubblicato, mediante deposito presso la CONSOB – Commissione Nazionale per le Società e la Borsa, il prospetto informativo (a norma del D.L. 8 aprile 1974, n. 95, art. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 7 giugno 1974, n. 216, nel testo risultante dalle modifiche apportate dalla L. 23 marzo 1983, n. 77, art. 12) relativo all’offerta al pubblico della sottoscrizione di titoli atipici afferenti l’operazione “Hotel Villaggio Santa Teresa” (d’ora in poi, anche HVST).

I proponenti l’operazione – le socc. S. p.a., Hotel Villaggio S.T. a r.l., Istituto Fiduciario L. a r.l., Istituto Fiduciario L. Servizi a r.l. – precisavano che intendevano collocare presso il pubblico, e per l’intero capitale sociale (L. 44 miliardi), le quote della soc. HVST (che deteneva il capitale della s.p.a. S. Grandi Alberghi, proprietaria del complesso immobiliare-villaggio turistico sito in (OMISSIS)) e che le quote sarebbero state acquistate mediante mandato, e con successiva intestazione fiduciaria, alla soc. Istituto Fiduciario L. Procedutosi a massiccia sottoscrizione di quote nei mesi successivi, ed all’esito di ripetute notizie di stampa su irregolarità nell’esercizio delle attività finanziarie da parte delle società promotrici, il Tribunale di Milano, con sentenze in data 7 maggio 1985 e 13 dicembre 1985, dichiarava il fallimento delle soc. IFL (poi posta in liquidazione coatta amministrativa), IFL Servizi e S. Grandi Alberghi, nel mentre era posta in liquidazione la soc. HVST. Con atto di citazione notificato in data 8-9 maggio 1987 un primo gruppo di sottoscrittori delle quote della soc. HVST ( G.I. ed altri quattro) conveniva innanzi al Tribunale di Milano i componenti pro tempore della CONSOB e due suoi funzionari ( P. B., M.V., P.A., S.L., G.F.), chiedendone la condanna al risarcimento dei danni patiti per effetto della indebita autorizzazione alla operazione data dalla CONSOB il (OMISSIS), a cagione della quale essi avevano proceduto all’acquisto da IFL delle quote della HVST. Con atto in data 10 luglio 1987, quindi, intervenivano in giudizio G.I., F.G., G.E., nella qualità di procuratori speciali di S.R. e di altri numerosi sottoscrittori, che, del pari, chiedevano la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni. Gli attori lamentavano, tra l’altro, che il prospetto informativo depositato presso la CONSOB era assolutamente carente di veridicità, posto che all’epoca del deposito il capitale della soc. HVST ammontava non già a L. 44 miliardi ma a soli L. 20 milioni, e che, pur dopo le successive delibere di aumento e pur dopo la loro esecuzione, il capitale, al 31 dicembre 1983, ammontava a L. 22 miliardi; che – come noto ai commissari CONSOB – la S., che avrebbe dovuto cedere ad HVST la partecipazione nella soc. S. Grandi Alberghi, tal partecipazione non aveva neanche essa ancora acquisito; che il valore del bene era infinitamente inferiore al capitale di L. 44 miliardi e la stessa stampa, appena nel settembre 1983, già aveva riferito di preoccupanti iniziative.

Nella resistenza dei convenuti e dei terzi chiamati in causa – Ministero del Tesoro e CONSOB -, il Tribunale di Milano con sentenza pubblicata l’11 marzo 1996 rigettava tutte le domande.

2. – La sentenza era impugnata da S.R. e dagli altri sottoscrittori (e per essi dal procuratore speciale G.I., anche in proprio).

2.1. – Nel contraddittorio con tutti gli appellati, l’adita Corte di Milano, con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 13 novembre 1998, rigettava l’appello.

La Corte territoriale affermava che:

– nell’esame della sussistenza e rilevanza degli addebiti denunciati non aveva alcun effetto di vincolo la sentenza penale con la quale il giudice istruttore del Tribunale di Milano aveva dichiarato non doversi procedere per amnistia nei confronti degli imputati G. F., S.L. e P.A., posto che, ai sensi dell’art. 28 abrogato cod. proc. pen., l’efficacia vincolante della statuizione agli effetti civili sarebbe potuta derivare solo da sentenze di condanna o di assoluzione, non anche di proscioglimento per amnistia.

Restava però indubbia la possibilità di tenere conto degli atti penali, pur nella piena facoltà di rivalutarli;

– quanto ai poteri della CONSOB all’epoca dei fatti di causa, doveva escludersi qualsiasi potestà di tale organo di indagare sulla veridicità dei fatti dichiarati nel prospetto illustrativo (e in particolare sulla convenienza economica della proposta operazione);

– la CONSOB aveva fatto inserire nel prospetto la duplice avvertenza secondo cui l’adempimento di pubblicazione del prospetto stesso non conteneva alcun giudizio di convenienza della Commissione sull’investimento e la veridicità e completezza dei dati erano esclusiva responsabilità dei redattori del prospetto: in tal modo la CONSOB aveva adempiuto all’onere di mettere gli investitori sull’avviso quanto ai limiti (legali) dell’indagine di essa Commissione sulla operazione sollecitata con il prospetto. E se tale contegno non esonerava la Commissione dalle conseguenze di proprie condotte dolose o gravemente colpose, certamente rendeva più rigorosa l’esigenza di prova del comportamento inadempiente addebitato;

– le gravi inesattezze contenute nel prospetto non avevano potuto avere un ruolo decisivo nella causazione del danno, perché: (a) nello stesso prospetto erano dichiarate modalità di attuazione dell’aumento di capitale tali da far emergere agli occhi dei sottoscrittori la inidoneità informativa, al proposito, dei dati dichiarati; (b) gli eventi indicati inesattamente (nel (OMISSIS)) ebbero poi a verificarsi entro il (OMISSIS); (c) le perdite subite dai sottoscrittori non erano derivate da inesattezze del prospetto bensì dalla differenza tra il valore unitario della quota sottoscritta (L. 10.000) e il valore unitario effettivo (stimato in L. 5.810); (d) il valore immobiliare effettivo dell’operazione finiva per coincidere con quanto (circa L. 30 miliardi) da S. comunicato a CONSOB il (OMISSIS), sicché dalla non correttezza dell’informazione non poteva discendere alcuna omissione informativa della Commissione; il danno subito era collegato al fatto che il canone del complesso immobiliare non poteva affatto rappresentare una componente attiva dell’operazione, dato che il relativo credito (circostanza del tutto sottaciuta) era stato ceduto alla BNL, sicché il complesso immobiliare non poteva – per tal ragione – generare a breve termine proventi di sorta: e tanto attestava bensì le gravi responsabilità dei promotori dell’iniziativa ma escludeva qualsiasi responsabilità a carico della CONSOB, che non aveva alcun potere di rivedere le stime immobiliari;

– le successive notizie di stampa sul carattere “avventuroso” dell’investimento, lungi dal consentire alla CONSOB alcun intervento a posteriori, che la legge all’epoca non autorizzava, stante anche il carattere discrezionale dei poteri di cui al D.L. n. 95 del 1974, art. 3, lett. b e c, e art. 4, come modificato dalla L. n. 77 del 1983, tal intervento finivano per rendere affatto inutile: infatti da nuove comunicazioni CONSOB il pubblico non avrebbe ricevuto protezione maggiore di quella già assicurata dallo stesso clamore della vicenda.

3. – Per la cassazione di tale sentenza S.R. e gli altri sottoscrittori di quote (e per essi il procuratore speciale G.I., anche in proprio) proponevano ricorso, con atto notificato il 18 novembre 1999, affidato a cinque motivi.

3.1. – La Sezione Prima Civile della Corte di Cassazione, con sentenza n. 3132 del 3 marzo 2001, ha rigettato il primo motivo di ricorso, ha accolto il secondo e, per quanto di ragione, il terzo, quarto e quinto motivo; ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa, anche per le spese del giudizio di cassazione, ad altra sezione della Corte d’appello di Milano. Più in particolare:

(a) ha rigettato il (primo) motivo con cui era stata prospettata l’efficacia vincolante in sede civile delle statuizioni (di responsabilità dei commissari e funzionari CONSOB) contenute nella sentenza del giudice istruttore del Tribunale di Milano che ebbe a dichiarare non doversi procedere a carico dei predetti per amnistia;

(b) nell’accogliere il secondo motivo di ricorso, ha affermato che in base alla normativa vigente nel (OMISSIS) la CONSOB aveva la potestà di controllare la veridicità dei dati contenuti nella comunicazione predisposta dai promotori dell’operazione di pubblica sottoscrizione di titoli atipici e nel relativo prospetto informativo, nonché quella di intervenire, una volta accertata la loro falsità o incompletezza, con iniziative istruttorie, integrative e repressive;

(c) ha statuito, quanto al terzo motivo, che è irrilevante la dichiarazione, fatta apporre in testa e in calce al prospetto informativo, con cui la CONSOB aveva inteso autoesonerarsi dalla responsabilità per danni derivanti dall’inosservanza dell’obbligo di controllare la veridicità e la completezza dei dati in esso riportati;

(d) nel dichiarare in parte fondata la censura contenuta nel quarto motivo del ricorso, ha affermato che la pronuncia impugnata, indagando sulla causalità tra condotta omissiva e danno patito, aveva finito per negarla sulla base di rilievi afferenti la mera quantificazione del danno, senza interrogarsi – con specifico riguardo alle date ed alle modalità delle varie sottoscrizioni – sulla possibilità che l’uso dei poteri conferitile dalla legge avrebbe dovuto indurre la CONSOB a far pubblicare sul prospetto, previa le menzionate iniziative ed integrazioni, solo notizie veridiche (nel (OMISSIS)) ovvero, ed in caso di non ottemperanza alle proprie iniziative, a non autorizzarne affatto la pubblicazione.

Avrebbe quindi dovuto il giudice d’appello scrutinare la pretesa causalità, pur nella difficoltà della valutazione e con l’uso di ogni potere assegnato al giudice del merito, ma facendo applicazione dei principi in tema di concorso di cause statuiti dall’art. 41 cod. pen., ed applicabili anche a regolare la causalità nell’illecito extracontrattuale; ed avrebbe poi dovuto formulare prognosi sulla sorte delle iniziative di sottoscrizione in presenza dei possibili esiti del corretto e tempestivo esercizio della vigilanza CONSOB. E solo ove avesse dato al relativo quesito risposta positiva – concludendo nel senso della presumibile esclusione di questa o quella sottoscrizione “dannosa”, per effetto del tempestivo esercizio delle potestà di legge – avrebbe dovuto spostare l’attenzione dalla responsabilità degli organi (scrutinandone la condotta “colposa” alla stregua delle indicazioni dianzi formulate) alla specifica ed individuale responsabilità dei componenti o dipendenti;

(e) in ordine al quinto motivo, ha statuito che la circostanza che i potenziali investitori, in epoca successiva alla pubblicazione del prospetto informativo contenente dati inesatti ed incompleti, avessero avuto contezza dei rischi connessi all’operazione di pubblica sottoscrizione di titoli atipici, per effetto delle notizie diffuse dalla stampa circa il carattere “avventuroso” dell’investimento in atto, non esimeva la CONSOB dall’attivare i suoi poteri e, quindi, non valeva nemmeno ad esonerare da responsabilità nei confronti dei sottoscrittori per i danni derivanti dall’omesso intervento, mentre poteva essere valutata ai fini dell’eventuale concorso del fatto colposo dei danneggiati.

5. – Con sentenza resa pubblica mediante deposito in cancelleria il 21 ottobre 2003, la Corte d’appello di Milano, pronunciando in sede di rinvio, ha – per quanto qui rileva – condannato in solido la CONSOB, il Ministero dell’economia e delle finanze (succeduto al Ministero del Tesoro), P.B., P.A., S.L. e G.F. a pagare agli appellanti la somma complessiva di Euro 6.301.291,63 (pari a L. 12.201.001.950), suddivisa tra gli stessi appellanti secondo quanto risultante dai singoli certificati prodotti, oltre interessi legali dalle singole sottoscrizioni, ed ha regolato le spese delle varie fasi del giudizio secondo il principio di soccombenza.

5.1. – Secondo il giudice del rinvio, la falsità di rilevanti informazioni contenute nel prospetto era facilmente accertabile dall’esame della documentazione allegata nonché in base agli elementi di sospetto evidenziati anche dagli organi di stampa.

Emergendo dagli stessi atti depositati la falsità delle notizie contenute nel prospetto illustrativo dell’operazione, la Commissione ha illegittimamente omesso di attivare, in base alla normativa esistente, l’attività ispettiva e di vigilanza, alla quale era obbligata al fine di garantire la trasparenza del mercato e la protezione del risparmio, valore costituzionalmente tutelato, che nella fattispecie trovava realizzazione attraverso la chiarezza, completezza e veridicità dell’informazione al pubblico.

In ordine al nesso di causalità materiale intercorrente tra il comportamento omissivo colposo della CONSOB, concretatosi nell’omissione di vigilanza, ed il danno subito dai sottoscrittori, la Corte ambrosiana ha rilevato che il tempestivo e corretto esercizio dei poteri di vigilanza della Commissione avrebbe dissuaso gli investitori dall’operazione, orientandoli verso altre forme di investimento, nell’ambito della medesima percentuale di rischio.

Difatti – ha osservato quel Collegio – gli investitori hanno sottoscritto le quote anche e soprattutto in base alle informazioni pubblicate nel prospetto, facendo affidamento sulla veridicità delle stesse, passate al vaglio della vigilanza della CONSOB; essi non avrebbero acquistato tali quote, il cui valore effettivo, all’epoca della sottoscrizione, risultava quasi dimezzato rispetto al valore nominale, ove avessero saputo che: (a) il capitale sociale ammontava a L. 20 milioni anziché a L. 44 miliardi; (b) il valore patrimoniale del bene, indicato nel prospetto in L. 44 miliardi, era notevolmente inferiore; (c) i proponenti, all’epoca, non erano ancora proprietari del bene; (d) dal prezzo di acquisto avrebbero dovuto essere detratti i mutui gravanti sulla società; (e) il credito per il canone di affitto era stato ceduto alla BNL, rendendo l’investimento privo di redditività. Anche un investitore con notevole propensione al rischio si sarebbe rivolto verso altre forme di investimento, ove fosse stato a conoscenza della reale situazione del proponente l’operazione.

Secondo la Corte di Milano, il rapporto causale è ulteriormente rafforzato dal potere della Commissione di vietare l’operazione in presenza di gravi anomalie e inesattezze del prospetto informativo.

Ove tale potere fosse stato correttamente esercitato, l’operazione di sottoscrizione non avrebbe avuto neanche inizio e non avrebbe, quindi, causato alcun danno ai risparmiatori-investitori.

Il giudice del rinvio ha escluso che vi sia spazio per una responsabilità concorrente degli investitori, ai quali non è possibile richiedere una attività di verifica e di controllo della veridicità delle informazioni contenute nel prospetto, essendo detta attività espressamente demandata alla CONSOB, organo istituzionalmente preposto a tale compito. Né le allarmistiche notizie di stampa, non smentite dalla Commissione, avrebbero potuto indurre gli investitori ad effettuare accertamenti e controlli sulla veridicità delle stesse, in quanto era proprio la CONSOB a doversi attivare per controllare l’infondatezza o meno di tali notizie giornalistiche e il mancato intervento della Commissione può, al contrario, avere avuto l’effetto di tranquillizzare i risparmiatori sulla infondatezza delle notizie di stampa.

Il danno sopportato da ciascun sottoscrittore è stato ritenuto pari al prezzo pagato per l’acquisto della quota, mentre è stato escluso che il valore della quota possa decurtarsi della somma pari alla differenza tra il valore nominale e il valore effettivo della quota all’epoca dell’investimento, in quanto i sottoscrittori non avrebbero acquistato le relative quote di valore inferiore al prezzo nominale ed in mancanza di prospettive serie di futuri utili.

Sull’importo liquidato la Corte d’appello ha riconosciuto la debenza degli interessi legali, con decorrenza dalle singole sottoscrizioni, mentre ha escluso il danno da svalutazione monetaria ex art. 1224 c.c., venendo in considerazione nella specie un “debito non suscettibile di automatica rivalutazione” e nulla essendo stato provato (o anche solo allegato) “che valga a dimostrare, o a far presumere l’esistenza di un maggiore danno”. “Invero, quest’ultimo, derivante dalla svalutazione monetaria, spetterà non automaticamente, ma in virtù dell’onere di allegazione e prova dei presupposti di fatto su cui fondare il giudizio, anche solo presuntivo, che il tempestivo pagamento avrebbe evitato al creditore le conseguenze depauperative legate al fenomeno inflattivo”.

Premesso che “la responsabilità della P.A. per fatti di suoi funzionari e dipendenti, i quali abbiano agito nell’ambito dei compiti ad essi affidati e non per fini propri, è una responsabilità diretta, identificandosi nei funzionari e dipendenti gli organi attraverso i quali lo Stato e gli enti pubblici agiscono, onde la loro azione è azione dell’ente, che ne risponde in modo immediato”, la Corte d’appello ha ritenuto la responsabilità della CONSOB estensibile anche ai funzionari ed esperti CONSOB che hanno contribuito, con il loro comportamento omissivo colposo, a provocare il danno agli investitori : una responsabilità “nei rapporti coi danneggiati … solidale ed illimitata … solamente nei rapporti interni essendo possibile una graduazione delle rispettive colpe in relazione alla diversa incidenza causale del danno”.

La Corte territoriale ha considerato tutti i funzionari ed esperti della CONSOB chiamati in causa, ad eccezione del solo M.V., “solidalmente responsabili, quali componenti dell’organo collegiale, avendo avuto a disposizione la documentazione inerente al prospetto informativo da cui avrebbero dovuto rendersi conto della falsità dello stesso ed avendo, invece, approvato il prospetto, senza porre in essere le opportune e dovute attività di controllo e vigilanza”.

In particolare, la Corte d’appello ha addebitato al P.B. di essere stato presente alle riunioni della CONSOB in cui venne discusso ed approvato il prospetto, senza disporre alcuna attività di verifica e controllo. A tale riguardo, è stata valorizzata la dichiarazione resa dallo stesso P.B. – nell’interrogatorio in data 12 dicembre 1987 davanti alla 3^ Sezione del Tribunale di Milano – in cui si afferma che, nella seduta del (OMISSIS), era stata letta davanti a tutti i commissari CONSOB la lettera in data (OMISSIS), a firma dell’amministratore unico della S. Dott. C., in cui si evidenziava che l’operazione di acquisto delle azioni della S. Grandi Alberghi era ancora in corso di perfezionamento.

Relativamente ai convenuti G.F., S.L. e P. A., la rispettiva responsabilità è desumibile, secondo la Corte d’appello, dalle stesse risultanze della sentenza istruttoria con cui nei loro confronti venne applicata l’amnistia.

6. – Per la cassazione della sentenza della Corte d’appello, notificata il 7 gennaio 2004, hanno proposto ricorso, congiuntamente, il Ministero dell’economia e delle finanze, la CONSOB, nonché P. B., P.A., G.F. e S.L., con atto notificato il 4-10 marzo 2008, sulla base di sei motivi.

Hanno resistito, con controricorso, S.R. e gli altri 897 sottoscrittori di quote della S.r.l. Hotel Villaggio Santa Teresa indicati in epigrafe, e per loro nome e conto G.I., nonché G.I. personalmente, proponendo, a loro volta, ricorso incidentale, affidato ad un motivo.

Successivamente, con atto depositato il 30 maggio 2005, il Ministero dell’economia e delle finanze e la CONSOB hanno rinunciato al ricorso per cassazione e, con lo stesso atto, S.R. e gli altri sottoscrittori HVST hanno rinunciato, nei soli confronti del Ministero e della Commissione, al proprio controricorso con ricorso incidentale, con reciproca accettazione e con compensazione delle spese del giudizio di Cassazione.

In prossimità dell’udienza hanno depositato memorie illustrative: il Ministero dell’economia e delle finanze con la CONSOB e S. L.; G.F.; P.A.; i sottoscrittori HVST.

Motivi della decisione
1. – Il ricorso principale ed il ricorso incidentale devono essere riuniti, a norma dell’art. 335 cod. proc. civ., essendo entrambe le impugnazioni relative alla stessa sentenza.

2. – Con atto in data 11 aprile 2005, depositato in cancelleria il 30 maggio 2005, i ricorrenti principali Ministero dell’economia e delle finanze e CONSOB, da una parte, ed i controricorrenti e ricorrenti incidentali S.R. ed altri 897 sottoscrittori di quote HVST e, per loro nome e conto, G.I., nonché G. I. in proprio, dall’altra, hanno comunicato di essersi accordati per una composizione bonaria della controversia ed hanno rinunciato, rispettivamente, al ricorso principale e, nei soli confronti del Ministero e della CONSOB, al controricorso e al ricorso incidentale, con reciproca accettazione e con compensazione delle spese del grado.

Essendo la rinuncia conforme a quanto prescritto dall’art. 390 cod. proc. civ., deve dichiararsi l’estinzione del giudizio promosso con il ricorso principale del Ministero e della CONSOB e del giudizio promosso, nei confronti del Ministero e della CONSOB, con il ricorso incidentale di S.R. ed altri.

Non vi è luogo a pronuncia sulle spese, avendo le altre parti aderito personalmente alle rinunce.

3. – Restano, pertanto, da esaminare il ricorso principale di P. B., P.A., S.L. e G.F. ed il ricorso incidentale promosso nei confronti di costoro da S. R. e dagli altri 897 sottoscrittori di quote HVST, e per loro nome e conto, da G.I., nonché da G.I. personalmente.

4. – È, però, preliminare l’esame della eccezione di inammissibilità del ricorso, sollevata dai sottoscrittori HVST controricorrenti sul presupposto della giuridica inesistenza o nullità della notificazione o comunque tardività della stessa rispetto al termine di legge per impugnare.

4.1. – A sostegno della eccezione, i controricorrenti osservano che:

i ricorrenti per cassazione hanno chiesto ed ottenuto l’autorizzazione alla notifica ex art. 150 cod. proc. civ. e art. 50 disp. att. cod. proc. civ., e, a fronte di tale istanza, è stata autorizzata la notifica per pubblici proclami a S.R. quale destinatario della notificazione nelle forme ordinarie e nei confronti degli altri destinatari per pubblici proclami nelle forme stabilite dall’art. 150 cod. proc. civ., commi 3 e 4, nonché mediante consegna per posta o per corriere di un’unica copia del ricorso presso il domicilio eletto dei medesimi in (OMISSIS);

– la notificazione ex art. 150 cod. proc. civ., pur essendo costituita da una pluralità eterogenea di atti, si connota giuridicamente come un unico ed invisibile procedimento, destinato a realizzarsi soltanto con il compimento di tutti i singoli atti che lo compongono e a perfezionarsi solo nel momento in cui viene posto in essere l’atto finale al quale le precedenti attività risultano preordinate; in particolare, il legislatore ricollega l’effetto giuridico della conoscenza legale dell’atto notificato unicamente all’avvenuto deposito, da parte dell’ufficiale giudiziario e nella cancelleria del giudice davanti al quale si procede, di una copia dell’atto notificato e dei documenti attestanti l’avvenuto espletamento degli altri atti di cui si compone il procedimento di notificazione per pubblici proclami;

– nella specie non sono state effettuate le pubblicazioni sulla Gazzetta Ufficiale e sul foglio degli annunzi legali delle province in cui risiedono la maggior parte dei destinatari, e comunque presso la cancelleria della Corte di Cassazione non è stato depositato alcun documento in proposito;

– il termine perentorio di sessanta giorni per proporre il ricorso era destinato a scadere l’8 marzo 2004 (essendo il 7 marzo domenica), ma solo in data 10 marzo 2004 è stata notificata nel domicilio eletto dai sottoscrittori HVST una copia del ricorso in Cassazione a S.R. e per esso al procuratore speciale G.I., ed altra copia agli altri sottoscrittori sempre in persona del procuratore speciale G.I.;

– non risultando effettuata la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale e nel foglio degli annunzi legali, gli atti processuali posti in essere dai ricorrenti, mancando alcune delle formalità previste dall’art. 150 cod. proc. civ., e dal provvedimento autorizzativo, non sarebbero neppure giuridicamente ascrivibili alla fattispecie della notificazione per pubblici proclami.

4.2. – L’eccezione di inammissibilità del ricorso è infondata.

Risultano dagli atti le seguenti circostanze:

– che il Primo Presidente della Corte di Cassazione – nel provvedere sull’istanza con la quale l’Avvocatura Generale dello Stato, in rappresentanza del Ministero dell’economia e delle Finanze e degli altri ricorrenti, chiedeva di essere autorizzata a notificare il ricorso per cassazione avverso la sentenza in data 21 ottobre 2003 della Corte d’appello di Milano nelle forme ordinate dal giudice, ai sensi dell’art. 151 cod. proc. civ., ovvero, in subordine, per pubblici proclami, a norma dell’art. 150 cod. proc. civ. – ha, con Decreto 23 febbraio 2004, “designato S.R. quale destinatario della notificazione nelle forme ordinarie ed autorizzato, nei confronti degli altri destinatari, la notificazione per pubblici proclami nelle forme stabilite dall’art. 150 cod. proc. civ., commi 3 e 4, nonché mediante consegna per posta o per corriere di un’unica copia del ricorso presso il domicilio eletto dai medesimi in (OMISSIS)”;

– che affidato l’atto all’ufficiale giudiziario in data 4 marzo 2004 – nei confronti di S.R. (e, per suo nome e conto, di G.I.) la notifica del ricorso per cassazione è avvenuta a mezzo del servizio postale, ai sensi dell’art. 149 cod. proc. civ., mediante spedizione, il 5 marzo 2004, della copia del ricorso in piego raccomandato con avviso di ricevimento;

– che nei confronti del predetto S.R. il procedimento notificatorio si è perfezionato il successivo 10 marzo con la consegna del plico nel domicilio eletto.

Ciò stando, la notificazione del ricorso per cassazione nei confronti dello S.R. deve ritenersi rituale e tempestiva.

Rituale, perché – contrariamente a quanto prospettato dalla difesa dei controricorrenti – la norma dell’art. 150 cod. proc. civ., là dove indica il perfezionamento della notificazione per pubblici proclami, rispetto ai destinatari, nel momento in cui l’ufficiale giudiziario deposita, presso la cancelleria del giudice davanti al quale si procede, una copia dell’atto con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta (formalità nella specie non rispettata), non trova applicazione rispetto al destinatario per il quale il giudice abbia stabilito, con il decreto di autorizzazione, che la notificazione debba essere eseguita nei modi ordinari.

Tempestiva, perché, per pacifica giurisprudenza di questa Corte (tra le tante, Sez. Un., 26 luglio 2004, n. 13970), in tema di notificazioni a mezzo del servizio postale, a seguito della sentenza della Corte Costituzione n. 477 del 2002 – dichiarativa della illegittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 149 cod. proc. civ. e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 4, comma 3, nella parte in cui prevedeva che la notificazione di atti a mezzo posta si perfezionasse, per il notificante, alla data di ricezione dell’atto da parte del destinatario – la notifica del ricorso per Cassazione – anche nel regime, ratione temporis applicabile, anteriore alla nuova disciplina dell’art. 149 cod. proc. civ., comma 3, aggiunto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263, art. 2, comma 1, lett. e) – si intende perfezionata, per il notificante, alla data di consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario: e nel caso che ci occupa tale consegna è avvenuta in data anteriore all’8 marzo 2004, come si ricava sia dal timbro apposto dall’ufficiale giudiziario sull’atto da notificare (Cass., Sez. Un., 20 giugno 2007, n. 14294) recante il numero cronologico e la data del 4 marzo 2004, sia, ulteriormente, dalla spedizione del piego raccomandato ad opera dello stesso ufficiale giudiziario in data 5 marzo 2004.

Quanto agli altri destinatari – diversi da S.R. – nei confronti dei quali è stata autorizzata la notificazione per pubblici proclami, nelle forme stabilite dall’art. 150 cod. proc. civ., commi 3 e 4, nonché mediante consegna per posta o per corriere di un’unica copia del ricorso presso il domicilio eletto dai medesimi in (OMISSIS), occorre innanzitutto osservare che, anche in questo caso, i ricorrenti, una volta ottenuto il decreto di autorizzazione, hanno provveduto, anteriormente alla scadenza del termine per l’impugnazione, ad affidare l’atto da notificare per pubblici proclami all’ufficiale giudiziario, che funge da tramite necessario del notificante nel relativo procedimento. La circostanza del tempestivo affidamento dell’atto all’ufficiale giudiziario si ricava, ancora una volta, sia dal timbro apposto dall’ufficiale giudiziario sull’atto da notificare recante il numero cronologico e la data del 4 marzo 2004, sia dalla spedizione del piego raccomandato ad opera dello stesso ufficiale giudiziario in data 5 marzo 2004 e dal deposito, a ministero di questo, di una copia dell’atto presso nella casa comunale di Roma, sempre in data 5 marzo 2004.

Per effetto della citata sentenza della Corte Costituzionale n. 477 del 2002, risulta ormai presente nell’ordinamento processuale civile, tra le norme generali sulla notificazione degli atti, il principio secondo il quale – relativamente alla funzione che sul piano processuale, cioè come atto della sequenza del processo, la notificazione è destinata a svolgere per il notificante – il momento in cui la notifica si deve intendere perfezionata per il medesimo deve distinguersi da quello in cui essa si perfeziona per il destinatario, pur restando fermo che la produzione degli effetti che alla notificazione stessa sono ricollegati è condizionata al perfezionamento del procedimento notificatorio anche per il destinatario (v. Corte cost., sentenza n. 28 del 2004).

Tale principio – della c.d. scissione soggettiva del momento perfezionativo della notificazione tra notificante e destinatario – si applica anche in rapporto alla notificazione per pubblici proclami, a norma dell’art. 150 cod. proc. civ., di talché pure con riguardo a questa forma di notificazione gli effetti della notificazione, rispetto al soggetto istante, devono intendersi rapportati al momento in cui questi, ottenuta la preventiva autorizzazione del capo dell’ufficio giudiziario davanti al quale si procede, abbia consegnato l’atto all’ufficiale giudiziario per le attività e formalità di cui all’art. 150 cod. proc. civ., commi 3 e 4. Diversamente, rispetto al destinatario, la notifica è destinata ad acquisire la medesima rilevanza solo in esito al perfezionamento del procedimento notificatorio, che si ha quando – esaurite le formalità del comma 3 del citato art. 150, e quelle, ulteriori, disposte dal capo dell’ufficio giudiziario – l’ufficiale giudiziario deposita una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria del giudice davanti al quale si procede.

Ai fini della ritualità della notificazione per pubblici proclami non rileva la mancata inserzione di un estratto del ricorso nel foglio degli annunzi legali delle province dove risiedono i destinatari o si presume che risieda la maggior parte di essi, giacché, avendo la L. 24 novembre 2000, n. 340, art. 31 (Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999) abolito i fogli degli annunzi legali delle province e abrogato le forme di pubblicazione ad essi relative (L. 30 giugno 1876, n. 195; D.M. 25 maggio 1895, recante istruzioni speciali per l’esecuzione della L. 30 giugno 1876, n. 3195; R.D.L. 25 gennaio 1932, n. 97, convertito dalla L. 24 maggio 1932, n. 583; L. 26 giugno 1950, n. 481), deve ritenersi sufficiente l’inserzione di un estratto dell’atto nella Gazzetta Ufficiale. E nella specie, contrariamente a quanto dedotto dai controcorrenti, l’estratto del ricorso per Cassazione, a norma dell’art. 150 cod. proc. civ., è stato pubblicato nella parte 2^ della Gazzetta Ufficiale in data 9 marzo 2004.

Tanto premesso, qualsiasi indagine sulla ipotizzata nullità della notifica per pubblici proclami ai sottoscrittori HVST a causa della violazione di talune delle prescrizioni imposte (e ciò in quanto l’ufficiale giudiziario, dopo avere depositato copia dell’atto nella casa comunale e dopo averne fatto invio a mezzo del servizio postale mediante piego raccomandato con avviso di ricevimento, ha omesso – una volta che si era provveduto all’inserzione per estratto nella Gazzetta Ufficiale – di depositare una copia dell’atto, con la relazione e i documenti giustificativi dell’attività svolta, nella cancelleria della Corte di cassazione), è resa ultronea dalla intervenuta sanatoria ex tunc per raggiungimento dello scopo in ragione dell’esercizio di attività difensiva nel giudizio per cassazione da parte degli intimati, cui la notificazione per pubblici proclami era diretta, a nulla rilevando che tale esercizio sia avvenuto per eccepire la tardività, la nullità o l’inesistenza della notificazione, e che i controricorrenti abbiano spiegato difese nel merito e proposto ricorso incidentale soltanto in via subordinata (cfr. Cass., Sez. 1^, 28 luglio 1997, n. 7033; Cass., Sez. 1^, 6 luglio 1999, n. 7012; Cass., Sez. 3^, 1 giugno 2004, n. 10495; Cass., Sez. 5^, 11 agosto 2004, n. 15530).

5. – Passando al merito, con il primo motivo i ricorrenti in via principale P.B. ed altri denunciano “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 384 cod. proc. civ., degli artt. 2043 e 2697 cod. civ., della L. n. 216 del 1974, artt. 18 e 18 quater”, nonché “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia (art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5)”.

Ad avviso dei ricorrenti, il riconoscimento di un comportamento colposo da parte della CONSOB nella vicenda de qua sarebbe stato compiuto dalla Corte d’appello sull’assorbente (ed anzi esclusivo) presupposto dell’essere la stessa Corte vincolata alle affermazioni in punto di fatto contenute nella sentenza n. 3132 del 2001 della Corte di Cassazione in ordine ad una (asseritamente) pacifica ed acclarata falsità dei dati contenuti nel prospetto. Su tali basi, la Corte milanese avrebbe ritenuto non soltanto che non fosse proprio compito, ma addirittura che fosse precluso alla medesima procedere ad un autonomo accertamento dei termini della controversia.

Il giudice del rinvio si sarebbe erroneamente ritenuto vincolato ad affermazioni in punto di fatto contenute nella pronuncia della Corte di legittimità, rispetto alle quali sarebbe, invece, da escludere qualsivoglia effetto vincolante, perché il principio di diritto affermato dalla sentenza rescindente non presupporrebbe di per sé alcun accertamento in punto di fatto sul comportamento concretamente posto in essere dalla CONSOB nella vicenda in esame.

Contrariamente a quanto affermato nella sentenza impugnata, nessuna acclarata e pacifica falsità dei dati contenuti nel prospetto relativo all’operazione HVST, né alcuna pacifica conoscenza della stessa falsità da parte della CONSOB sarebbe stata accertata dalla Corte d’appello di Milano con la prima sentenza del 1998. Le stesse affermazioni contenute nella pronuncia rescindente della Cassazione “devono essere ritenute … il frutto di un evidente travisamento della pronuncia cassata, consistente nell’aver considerato come valutazioni della Corte Territoriale quelli che, invece, erano gli addebiti mossi dagli appellanti nei confronti della CONSOB”.

Era compito della Corte di Milano, quale giudice del rinvio, valutare in via autonoma se, tenuto conto dell’esatto contenuto dei poteri esistenti in capo alla CONSOB all’epoca dei fatti di causa, fosse ravvisabile nel caso di specie una colposa omissione nell’esercizio di tali poteri da parte della stessa Commissione; e ciò tanto più ove si consideri che la Corte di Cassazione aveva espressamente disposto che dovesse essere compiuto un “nuovo, completo esame della controversia, esame che sarà condotto sulla base dei formulati principi di diritto e seguendo una corretta logica argomentativa”.

D’altra parte, la Corte ambrosiana sarebbe comunque incorsa nel vizio di omessa pronuncia o di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, perché avrebbe mancato di chiarire da quali elementi in punto di fatto sarebbe dovuta emergere la – invero soltanto asserita – falsità del prospetto informativo e, per l’effetto, la responsabilità della Commissione.

In definitiva, il giudice del rinvio avrebbe dato per dimostrate delle circostanze in punto di fatto, decisive ai fini di una responsabilità della CONSOB, sulle quali, invece, nessuna certezza è mai stata raggiunta, ed il cui onere probatorio gravava sui sottoscrittori HVST.

5.1. – Il motivo è infondato.

Con la sentenza rescindente n. 3132 del 2001, la Corte di Cassazione ha dettato il principio di diritto secondo cui, in base alla normativa vigente nel (OMISSIS), la CONSOB, cui la legislazione attribuisce un penetrante potere di controllo della veridicità e della completezza dei dati forniti dai promotori dell’operazione, risulta titolare di poteri – ispettivi, informativi e repressivi – idonei, se esercitati, ad esercitare le inesattezze e le falsità palesi (in quanto risultanti prima facie, ex actis) dei documenti depositati, nonché a portare all’interruzione dell’operazione; ed ha precisato che una diversa interpretazione “confligge in modo macroscopico anche con la razionalità del sistema di garanzie perseguite con l’istituzione della CONSOB”: “ipotizzare che l’intero procedimento di comunicazione di dati, di allegazione di documentazione e di pubblicazione del prospetto riassuntivo fosse stato ideato al solo fine di consentire una programmata pubblicità della operazione ed affermare che in tal quadro alla CONSOB spettasse solo di regolare-integrare i modi di pubblicizzazione, significherebbe ridurre il ruolo dell’Organo di garanzia a quello di un ufficio di deposito atti”.

Al fine di enunciare il principio di diritto sulla configurabilità, in capo alla CONSOB, dei poteri di controllo sulla veridicità dei dati fattuali comunicati dai promotori, di intervento correttivo sugli stessi, finalizzato all’inserimento sostitutivo dei dati veri, e di repressione, consistenti nel vietare l’esecuzione dell’operazione inottemperante agli interventi stessi, la Corte di cassazione ha preso in esame le questioni di fatto costituenti il presupposto, necessario ed inderogabile, della pronuncia espressa in diritto.

Si legge, infatti, nella sentenza rescindente che “una volta accertato (come effettuato dalla (prima) sentenza (della Corte d’appello di Milano) impugnata pagg. 29, 30, 31, 35) che ex actis risultava (tanto emergendo dalla documentazione allegata alla comunicazione effettuata dai promotori) la falsità di essenziali dati della prescritta comunicazione e della necessaria informazione pubblica (il prospetto), l’organo pubblico istituzionalmente preposto ad assicurare l’effettività di minimi standards informativi ave(va) la potestà legale di intervenire con iniziative istruttorie, integrative, repressive su operazioni che, prima, facie, quel livello di veridicità non fornivano”.

Nel dettaglio, la sentenza n. 3132 del 2001 ha evidenziato che, sulla base della “incontestata prospettazione attorea”, tali circostanze, di per sé “elequen(ti)”, consistevano: (a) nella falsa attestazione dell’assunzione ed esecuzione della delibera di aumento del capitale sociale della soc. HVST a 44 miliardi, mentre l’aumento non era stato eseguito ed il capitale era all’epoca di 20 milioni; (b) nel deposito del prospetto “benché i proponenti non fossero ancora proprietari del bene” e “il prezzo di acquisto fosse stato dichiarato in una somma inferiore a quella di 44 miliardi”; (c) nel fatto che “il valore della operazione non considerasse i mutui gravanti sulla società”; (d) nell’impossibilità per il canone del complesso immobiliare di “rappresentare per il gruppo S.- C. una componente di reddito attiva ed una disponibilità liquida effettiva”, dato che “il relativo credito (circostanza questa del tutto sottaciuta) aveva formato oggetto di cessione o vincolo a favore della BNL”.

Correttamente, pertanto, nell’applicare il suesposto principio di diritto, il giudice del rinvio ha considerato come ormai accertati in via definitiva, quali premesse logico-giuridiche della sentenza di annullamento, le “evidenti falsità”, facilmente “rilevabili dai documenti depositati”, dei “dati contenuti nel prospetto”; mentre avrebbe esorbitato dai limiti impostigli dalla sentenza rescindente se avesse rimesso in discussione gli accertamenti di fatto, sulla falsità del prospetto e sulla rilevabilità ictu oculi ad opera della CONSOB, già svolti nei precedenti gradi di giudizio, declassandoli – come ora pretendono i ricorrenti – a meri obiter dieta o a considerazioni svolte in via meramente concessiva ed ipotetica.

Invero, i principi espressi dal giudice di legittimità nelle sentenze di cassazione con rinvio per (o anche per) violazione di legge non sono mere enunciazioni teoriche ad applicazione solo eventuale, ma devono indefettibilmente trovare applicazione concreta nel successivo giudizio di rinvio, giacché la pronuncia della Corte di Cassazione vincola non solo al principio affermato ma anche ai relativi presupposti di fatto. Da tanto consegue che il giudice del rinvio deve uniformarsi non solo alla regola giuridica enunciata, ma anche alle premesse logiche della decisione adottata, attenendosi agli accertamenti già compresi nell’ambito di tale enunciazione, senza possibilità di modificare l’accertamento e la valutazione dei fatti, acquisiti al processo, costituenti il presupposto stesso della pronuncia di annullamento, atteso che il riesame di essi verrebbe a porre nel nulla o a limitare gli effetti della pronuncia di cassazione, in contrasto con il principio della loro intangibilità (Cass., Sez. Un., 28 ottobre 1997, n. 10598; Cass., Sez. 1^, 27 aprile 1976, n. 1478; Cass., Sez. lav., 19 luglio 2002, n. 10622;

Cass., Sez. lav., 12 settembre 2003, n. 13446).

Con tali vincoli e limitazioni, pertanto, è stato correttamente espletato il “nuovo, completo, esame della controversia” affidato al giudice di rinvio dalla Corte di Cassazione, tanto più che essa ha specificato che l’indagine in proposito doveva essere “condotta sulla base dei formulati principi di diritto”.

6. – Il secondo mezzo del ricorso principale (violazione e falsa applicazione dell’art. 41 cod. pen., degli artt. 112 e 384 cod. proc. civ. e degli artt. 1223 e 2697 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5) lamenta che il ragionamento svolto dalla Corte Territoriale al fine di affermare la sussistenza di un valido nesso causale tra la (presunta) condotta colposa della CONSOB e il danno (asseritamente) sofferto dai sottoscrittori sia viziato sotto più profili.

La Corte del rinvio – lungi dal procedere ad un nuovo ed autonomo giudizio prognostico sulla sorte delle iniziative di sottoscrizione in presenza dei possibili esiti del corretto e tempestivo esercizio della vigilanza CONSOB, da compiere con specifico riguardo alle date ed alle modalità delle varie sottoscrizioni – si sarebbe limitata ad affermare la sussistenza di un rapporto di causalità tra la condotta omissiva della Commissione ed il danno asseritamente sofferto dai sottoscrittori sulla esclusiva base di una serie di argomentazioni apodittiche.

Secondo i ricorrenti, il giudice del rinvio, ove avesse proceduto a quanto ad esso demandato dalla Corte regolatrice, avrebbe dovuto concludere che le asserite perdite subite dai sottoscrittori non erano in alcun modo derivate dalle presunte inesattezze del prospetto (peraltro, più apparenti che reali, o comunque non occultate e perfettamente rilevabili dagli stessi sottoscrittori), ma dalla differenza tra il valore unitario delle quote (L. 10.000) ed il loro valore effettivo (stimato dal consulente tecnico d’ufficio in L. 5.810). Differenza, questa, a sua volta dipendente dal fatto che il canone del complesso immobiliare (derivante dal contratto di affitto stipulato con il Club Mediterranee) non poteva rappresentare una componente attiva dell’operazione, dato che il relativo credito era stato ceduto alla BNL. Di tale circostanza (unica vera falsità del prospetto), tuttavia, non avrebbe potuto essere chiamata a rispondere la CONSOB, la quale non disponeva di alcun elemento per sospettare lo stato dei rapporti con il Club Mediterranee, dal momento che detta cessione è sempre stata sottaciuta alla Commissione da parte dei promotori. La Corte Territoriale avrebbe dovuto escludere alla radice la configurabilità di qualsivoglia nesso eziologico tra il comportamento della CONSOB ed il presunto danno sofferto dai sottoscrittori HVST, essendo quest’ultimo integralmente imputabile al comportamento fraudolento dei promotori dell’operazione, ovvero alla condotta degli stessi sottoscrittori, i quali in maniera negligente e colposa (se non altro nel senso della consapevole accettazione del rischio) avrebbero aderito ad un’operazione finanziaria la quale, per sua natura, manifestava evidenti indici di incertezza e rischiosità.

Inoltre, secondo i ricorrenti, la Corte Territoriale, nell’accertamento sulla sussistenza del rapporto eziologico, avrebbe finito per fare applicazione della teoria della condicio sine qua non, in violazione dei principi basilari accolti dal nostro sistema giuridico in tema di causalità, perché l’eventuale (ed in ogni caso contestata) negligenza da parte della CONSOB assurgerebbe a mera occasione, e mai a concausa dell’evento.

Ancora una volta, il giudice del rinvio avrebbe in realtà dato per provate circostanze in ordine alla sussistenza del nesso di causalità, sulle quali, invece, nessuna certezza è mai stata raggiunta, ed il cui onere probatorio gravava sui sottoscrittori HVST. Sotto un ultimo profilo, il giudice del rinvio avrebbe omesso di procedere ad una valutazione individualizzata della posizione dei singoli sottoscrittori, nel senso della verifica puntuale ed analitica della concreta incidenza causale delle eventuali omissioni della CONSOB sulle singole iniziative di sottoscrizione: con ciò la Corte Territoriale non soltanto sarebbe venuta meno al compito ad essa affidata dalla Corte di cassazione, ma avrebbe altresì omesso di pronunciare su un punto decisivo della controversia. In particolare, la Corte d’appello avrebbe dovuto escludere la sussistenza di un valido nesso di causalità tra le presunte omissioni e l’asserito danno, quanto meno con riferimento alle sottoscrizioni intervenute successivamente al (OMISSIS). A quella data, infatti, tutte le asserite irregolarità del prospetto (o, per lo meno, quelle che rientravano nella sfera di conoscibilità della Commissione) erano state sanate.

6.1. – Il motivo non coglie nel segno.

Per quanto riguarda, innanzitutto, le “irregolarità contenute nel prospetto relativo all’operazione Hotel Villaggio S.T.” – che, ad avviso del ricorrenti, non sussisterebbero in alcun modo, “essendo in realtà soltanto apparenti”, ed alle quali, pertanto, non potrebbe “essere attribuito un contributo eziologico nella causazione dei danni”, non avendo i sottoscrittori, per di più, assolto all’onere della prova su di essi gravante -, valgono le considerazioni esposte retro, sub 5.1., con riferimento all’esame del primo motivo di ricorso, dovendo qui ribadirsi che la falsità di rilevanti informazioni contenute nel prospetto e la facile accertabilità di essa da parte dell’Organo di vigilanza costituiscono accertamenti di fatto definitivi, come tali vincolanti per il giudice del rinvio.

Quanto alla deduzione secondo cui avrebbe errato il giudice del rinvio ad affermare la sussistenza della causalità tra omissione imputabile alla CONSOB e danno, essendo semmai il danno patito dagli investitori individuabile – come già affermato dalla Corte di Milano nella prima sentenza del novembre 1998 – nella divergenza tra valore di sottoscrizione delle quote e valore effettivo delle stesse (a sua volta indotta dalla sottaciuta assenza di componenti di reddito nell’investimento proposto, determinata dalla pregressa cessione dei canoni alla BNL), occorre osservare che tale prospettazione prescinde totalmente dalle statuizioni contenute nella sentenza rescindente di questa Corte: la quale, nell’esaminare il quarto motivo del ricorso, ha censurato che la Corte di Milano, indagando sulla causalità tra condotta omissiva e danno patito, avesse finito per negarla proprio “sulla base di rilievi afferenti la mera quantificazione del danno, senza interrogarsi … sulla possibilità che l’uso dei poteri conferitile dalla legge avrebbe dovuto indurre CONSOB a far pubblicare sul prospetto, previe le menzionate iniziative ed integrazioni, solo notizie veridiche (nel (OMISSIS)) ovvero, ed in caso di non ottemperanza alle proprie iniziative, a non autorizzarne affatto la pubblicazione”.

Né è esatto che la Corte del merito avrebbe omesso di prendere posizione sulla possibile imputazione del danno alla consapevole accettazione del rischio da parte dei sottoscrittori. Il giudice del rinvio ha infatti accertato, con logico e motivato apprezzamento, che “anche un investitore con notevole propensione al rischio si sarebbe rivolto verso altre forme di investimento, ove fosse stato a conoscenza della reale situazione del proponente l’operazione”, e che “tale mancata conoscenza è imputabile alla CONSOB, per non avere esercitato l’attività di vigilanza e controllo a cui, nella fattispecie , era obbligata”.

Più in generale, la statuizione del giudice del rinvio in ordine alla sussistenza di un nesso di causalità tra l’omissione colposa nella vigilanza ed il danno subito dagli investitori si sottrae alla censura, prospettata dai ricorrenti, di violazione e falsa applicazione dell’art. 41 cod. pen.

Invero, la Corte di Milano ha accertato che gli investitori sottoscrissero le quote anche e soprattutto in base alle informazioni pubblicate nel prospetto, facendo affidamento sulla veridicità delle stesse, passate al vaglio della vigilanza CONSOB, e che essi non avrebbero acquistato tali quote – il cui valore effettivo, all’epoca della sottoscrizione, risultava quasi dimezzato rispetto al valore nominale – ove avessero saputo che: (a) il capitale sociale ammontava a L. 20 milioni anziché a L. 44 miliardi; (b) il valore patrimoniale del bene, indicato nel prospetto in L. 44 miliardi, era notevolmente inferiore; (c) i proponenti, all’epoca, non erano ancora proprietari del bene; (d) dal prezzo di acquisto avrebbero dovuto essere detratti i mutui gravanti sulla società; (e) il credito per il canone di affitto era stato ceduto alla BNL, rendendo l’investimento privo di redditività.

Muovendo da tali premesse, la Corte territoriale -facendo applicazione dei principi sulla conditio sine qua non e sulla causalità adeguata, di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen. – è pervenuta alla conclusione che un tempestivo e corretto esercizio dei poteri di vigilanza della CONSOB avrebbe dissuaso gli investitori dall’operazione, orientandoli verso altre forme di investimento, e che, inoltre, ove la Commissione avesse esercitato il potere, del quale pure essa disponeva, di vietare, data la presenza di gravi anomalie e inesattezze del prospetto informative, la sollecitazione all’investimento, l’operazione di sottoscrizione non avrebbe avuto neppure inizio e non avrebbe, quindi, causato alcun danno ai risparmiatori-investitori.

Così statuendo, la Corte di Milano si è correttamente attenuta al seguente principio di diritto. Accertata la negligenza della CONSOB che, con la sua condotta omissiva, abbia permesso la diffusione di un prospetto informativo gravemente mendace nella comunicazione predisposta dai promotori dell’operazione di pubblica sottoscrizione di titoli atipici, il giudice del merito – al quale compete procedere all’accertamento del nesso di causalità, con un apprezzamento insindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi – ben può ritenere, nel quadro dei principi della equivalenza causale e della causalità adeguata, a norma degli artt. 40 e 41 cod. pen., che tale omissione sia stata causa della perdita subita dai risparmiatori, danneggiati dall’aver fatto affidamento sulla veridicità dei dati riportati nel prospetto informativo, e che, per converso, la condotta doverosa dall’autorità di garanzia preposta al settore del mercato mobiliare, se fosse stata tenuta, avrebbe impedito la verificazione dell’evento, perché, in presenza di un effettivo esercizio di poteri di vigilanza e repressivi, l’investimento non ci sarebbe stato.

Né infine sussiste il denunciato vizio di violazione e falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., o, comunque, di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, prospettato sul rilievo che il giudice del rinvio non avrebbe proceduto, nell’indagine relativa al nesso di causalità, ad una valutazione individualizzata della posizione dei singoli sottoscrittori.

È bensì vero che la sentenza rescindente ha demandato al giudice del rinvio un giudizio prognostico “sulla sorte delle iniziative di sottoscrizione in presenza dei possibili esiti del corretto e tempestivo esercizio della vigilanza CONSOB” e sulla “presumibile esclusione di questa o quella sottoscrizione dannosa per effetto del tempestivo esercizio delle potestà di legge”, avendo “riguardo alle date ed alle modalità delle varie sottoscrizioni”; ma queste indicazioni non precludevano al giudice del rinvio di ritenere dimostrata, all’esito di un nuovo e completo esame della controversia, l’efficienza causale del comportamento omissivo della Commissione in rapporto al danno subito da tutti i sottoscrittori. A questa conclusione la Corte ambrosiana è pervenuta, facendo applicazione dei principi in tema di concorso di cause statuiti dagli artt. 40 e 41 cod. pen., ed applicabili anche a regolare la causalità nell’illecito extracontrattuale, dopo avere, in modo analitico e puntuale, all’esito del rinnovato esame accertato: (a) che tutti gli investitori sottoscrissero le quote perché avevano fatto affidamento sulla veridicità dei dati riportati nel prospetto informativo e passati al vaglio della vigilanza CONSOB; (b) che anche il risparmiatore abituato a muoversi, nella messa a frutto del proprio capitale monetario, al di fuori delle tipologie più prudenti o con un basso profilo di rischio, si sarebbe diretto verso forme di investimento diverse da quella in oggetto, ove fosse stato a conoscenza della reale situazione del proponente l’operazione finanziaria.

In questo quadro, la stessa affermazione dei ricorrenti secondo cui il giudice del rinvio avrebbe dovuto escludere la sussistenza di un valido nesso di causalità con riferimento alle sottoscrizioni intervenute successivamente al (OMISSIS), più che risolversi nella indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni del giudice del rinvio, finisce con il contrapporre una propria valutazione delle risultanze di causa diversa da quella alla quale, motivatamente, è giunta la Corte territoriale, e con il prospettare un diverso esame del merito della regiudicanda, senza neppure indicare da quali risultanze processuali emergerebbe il carattere pacifico ed incontestato del fatto della completa sanatoria, a quella data, di tutte le decottive informazioni contenute nel prospetto.

Sotto questo profilo, la censura sollevata si risolve in una contestazione degli apprezzamenti in fatto compiuti dalla Corte di merito ed in una sollecitazione ad una nuova e diversa lettura delle risultanze di cause. Ma ciò fuoriesce dai limiti del sindacato di questa Corte, perché le deduzioni delle parti ricorrenti, oltre ad infrangersi contro la palese sussistenza, nella sentenza impugnata, dei requisiti strutturali dell’argomentazione, si sostanziano nel ripercorrere criticamente il ragionamento decisorio svolto dal giudice a quo, sicché incidono sull’intrinseco delle opzioni nelle quali propriamente si concreta il giudizio di merito, risultando per ciò stesso estranee all’ambito meramente estrinseco entro il quale è circoscritto il giudizio di legittimità.

7. – Il terzo motivo (violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 384 cod. proc. civ. e degli artt. 1227 e 2697 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ai sensi dell’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3, 4 e 5) censura che la Corte del rinvio abbia escluso la configurabilità di un concorso di colpa dei sottoscrittori HVST. La Corte d’appello avrebbe innanzitutto omesso di prendere posizione:

sul fatto che il prospetto informativo manifestava comunque evidenti indici di incertezza e rischiosità dell’investimento, perfettamente rilevabili dai sottoscrittori; sulla circostanza che questi ultimi dovevano ritenersi soggetti qualificati e provvisti di una sufficiente propensione al rischio; infine, sulla natura intrinsecamente aleatoria dell’operazione.

La sentenza impugnata sarebbe altresì viziata là dove ha escluso la rilevanza, ai fini dell’applicazione dell’art. 1227 cod. civ., della diffusione, successivamente alla pubblicazione del prospetto informativo, di notizie di stampa concernenti il carattere “avventuroso” dell’operazione.

E lo sarebbe, innanzitutto, per violazione e falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., essendo stati disattesi i criteri direttivi stabiliti al riguardo per il giudizio di rinvio dal Supremo Collegio; in secondo luogo, sotto il profilo della illogicità e contraddittorietà della motivazione, perché se la diffusione di notizie di stampa avrebbe dovuto rendere facilmente accertabile e rilevabile ictu oculi, da parte della CONSOB, il carattere “avventuroso” dell’operazione, allora la medesima evidenza ed accertabilità avrebbero dovuto sussistere anche con riferimento ai sottoscrittori, tanto più che trattavasi di soggetti particolarmente esperti del mercato mobiliare.

Infine, la sentenza impugnata sarebbe viziata per violazione e falsa applicazione dell’art. 384 cod. proc. civ., nonché per omessa pronuncia o per vizio di motivazione nella parte in cui non ha proceduto ad una valutazione individualizzata del concorso di colpa dei singoli sottoscrittori nella produzione del danno lamentato dagli stessi.

7.1. – Il motivo è in parte fondato, nei termini di seguito precisati.

7.1.1. – Occorre prendere le mosse dal rilievo che, in un’operazione finanziaria di pubblica sottoscrizione, i risparmiatori compiono le loro scelte di investimento sulla base del prospetto e ripongono fiducia nel fatto che le informazioni in esso contenute sono per legge sottoposte ad un’attività di controllo, idonea, secondo la normativa ratione temporis applicabile, a verificarne la completezza e la esattezza: le informazioni contenute nel prospetto creano tra il pubblico una disponibilità all’investimento proposto ed il superamento del vaglio della supervising authority in ordine all’operazione di sollecitazione del pubblico risparmio ingenera negli investitori il legittimo affidamento che quelle informazioni contengono dati veritieri e sono realmente descrittive dei termini dell’affare.

Correttamente, pertanto, la Corte di Milano ha affermato che nessun investitore, neppure quello con la maggiore propensione al rischio, si sarebbe indotto a sottoscrivere i titoli in questione se avesse realmente conosciuto dati rilevanti dell’investimento offerto, che invece gli sono stati prospettati in modo inveritiero od ingannevole o che gli sono stati taciuti; ed ha rilevato che tale difetto di conoscenza era imputabile alla CONSOB, la quale aveva, in allora, la potestà di accertare le falsità evidenti dei dati che il promotore intendeva comunicare ai risparmiatori attraverso il prospetto sottoposto alla sua approvazione.

In questa prospettiva, il giudice del merito – al quale, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3^, 13 luglio 1967, n. 1760; Sez. 3^, 10 marzo 1969, n. 774; Sez. lav., 5 aprile 1975, n. 1224; Sez. 1^, 2 febbraio 1998, n. 1023), spetta di accertare, con un apprezzamento di mero fatto, se sia configurabile un fatto colposo del danneggiato che abbia concorso al verificarsi dell’evento dannoso, ai sensi dell’art. 1227 cod. civ., comma 1 – ha escluso la ravvisabilità di qualsiasi comportamento colposo degli investitori, ai quali non può rimproverarsi di non avere verificato autonomamente, prima di decidersi a compiere l’operazione, che le caratteristiche dell’investimento corrispondessero a quanto illustrato nel prospetto informativo, passato al vaglio della competente Commissione. Difatti – ha precisato la Corte Territoriale – “il risparmiatore legittimamente può fare affidamento sulla veridicità del prospetto informativo relativo all’investimento finanziario, sottoposto al controllo della CONSOB, e non può imporsi allo stesso una ulteriore verifica, gravosa per lo stesso e sostanzialmente superflua, stante il controllo di veridicità del prospetto informativo” spettante all’autorità di vigilanza.

La conclusione alla quale è pervenuta al riguardo la Corte di Milano sfugge alle censure dei ricorrenti: i quali – nel dedurre, genericamente, che “l’investimento prospettato, per la sua complessità, era destinato non a comuni risparmiatori, ma ad un ambiente selezionato di specifici investitori finanziari, destinati a svolgere (in via mediata) un’attività imprenditoriale”, e nel sottolineare che non può essere posta “a carico della CONSOB una garanzia ex lege sul buon esito degli investimenti mobiliari, con l’effetto (ontologicamente inaccettabile) di azzerare il rischio economico sotteso alle operazioni finanziarie, attraverso una socializzazione dello stesso” – non allegano circostanze decisive in ordine alle quali la motivazione della sentenza impugnata presenti lacune o vizi logici. Per un verso, infatti, l’affermazione secondo cui i sottoscrittori HVST non potrebbero essere considerati alla stregua di investitori retail – oltre ad essere priva di agganci a concrete risultanze processuali – non indica in base a quali circostanze dovrebbe predicarsi l’appartenenza degli investitori alla categoria degli operatori qualificati e professionali; per l’altro verso, le deduzioni contenute nel ricorso in ordine alla aleatorietà degli investimenti effettuati nell’ambito del mercato mobiliare non tengono conto della circostanza che la sentenza impugnata non ha certo addossato sulla CONSOB, in quanto autorità pubblica preposta alla vigilanza sui mercati mobiliari, le perdite derivanti da un investimento mobiliare non andato a buon fine a causa dell’andamento negativo del mercato o della normale alea sulla redditività di un investimento, ma ha evidenziato che il danno lamentato si ricollega nella specie direttamente alla presenza di un prospetto informativo gravemente mendace e alla omessa vigilanza dell’autorità che, per la sua funzione istituzionale, aveva il compito di garantire il pubblico dei risparmiatori circa la veridicità delle informazioni contenute nel detto documento.

7.1.2. – Incorre, invece, nelle censure articolate dai ricorrenti la statuizione che ha escluso la rilevanza della diffusione di notizie di stampa sul carattere rischioso dell’operazione finanziaria in questione, sotto il profilo del concorso di colpa dei danneggiati, messi sull’avviso, o del contegno degli stessi idoneo a produrre un aggravamento del danno.

Va premesso che la più volte citata sentenza di questa Corte, nell’accogliere il quinto motivo del ricorso, ha statuito che l’avere avuto i potenziali investitori, in epoca successiva alla pubblicazione del prospetto informativo, contezza dei rischi connessi all’operazione per effetto delle notizie diffuse dalla stampa sul carattere “avventuroso” dell’investimento in atto, non esimeva la CONSOB dall’obbligo istituzionale di attivare le potestà disponibili, ed anzi imponeva la sollecita attivazione degli interventi – doverosi – sino a quel momento negletti.

La detta sentenza – nel cassare la pronuncia dei giudici milanesi, che aveva affermato la sostanziale inefficienza causale di un intervento della CONSOB assunto nel pieno di una campagna giornalistica di informazione – ha tuttavia evidenziato che “le notizie in discorso avrebbero potuto essere considerate come originanti una situazione – pervero caratterizzata dall’ampio di spiegamento cronologico delle sottoscrizioni (iniziate all’indomani della pubblicazione del prospetto e continuate anche nell’anno (OMISSIS)) – nella quale, semmai, il comportamento dei sottoscrittori (o di parte di essi) avrebbe potuto ricevere una valutazione alla stregua dell’art. 2056 cod. civ., comma 1, e art. 1227 cod. civ.”.

Alla base del dictum della sentenza rescindente vi è, da un lato, la considerazione che, per logica di sistema, gli investitori, quando scelgono di investire nello specifico strumento finanziario oggetto di sollecitazione all’investimento, lo fanno proprio sulla base delle informazioni ufficiali provenienti dal prospetto, la cui pubblicazione è autorizzata dalla CONSOB; dall’altro, la sottolineatura che, allorché una notizia di stampa pone all’attenzione del pubblico la possibilità che una fonte di informazione ufficiale possa non essere più attendibile, l’investitore prudente deve valutare anche il contenuto della notizia di stampa, e che la colpa del risparmiatore danneggiato va apprezzata sotto il profilo del concorso di questo nella produzione dell’evento o ai fini della riduzione del risarcimento.

È esatto che, come è reso palese dall’uso dell’avverbio semmai, l’indagine sulla rilevanza, sub specie di concorso del fatto colposo del danneggiato o di comportamento suscettibile di avere determinato un aggravamento del danno, della pubblicazione di dette notizie di stampa, era affidato, nel quadro di un “nuovo, completo, esame della controversia”, al giudice del rinvio: il quale, “seguendo una corretta logica argomentativa”, non necessariamente, ma solo, appunto, eventualmente, era tenuto a dare alle notizie di stampa una valutazione alla stregua dell’art. 1227 cod. civ.

Sennonché la Corte di merito – nell’escludere che i risparmiatori, messi sull’avviso dalla stampa, avrebbero dovuto attivarsi per verificare la corrispondenza al vero delle notizie pubblicate ed eventualmente non investire nell’operazione o provvedere a disinvestire prontamente i capitali, evitando o limitando le perdite lamentate – ha motivato esclusivamente in astratto, osservando che proprio la mancata attivazione della CONSOB anche in seguito alla pubblicazione di notizie di stampa “può … avere avuto l’effetto di tranquillizzare i risparmiatori sulla infondatezza delle notizie di stampa”.

Così decidendo, la Corte Territoriale si è sottratta all’indagine che ad essa era stata affidata dalla sentenza rescindente, disattendo i criteri direttivi stabiliti per il giudizio di rinvio ed incorrendo nel denunciato vizio di motivazione. Anziché compiere un’analisi delle notizie di stampa, del loro contenuto e della loro consistenza (se, cioè, recanti soltanto mere opinioni del giornalista o riportanti valutazioni suffragate da fatti obiettivi ed elementi concreti), del loro grado di diffusione e della loro ripercussioni sul mercato dei titoli in questione, il giudice del rinvio ha infatti finito con l’escludere, in tesi e in assoluto, che le notizie giornalistiche tout court debbano o possano costituire una fonte di informazione per l’attento risparmiatore; e, anziché procedere ad un’indagine individualizzata in ordine al concorso di colpa di ciascun sottoscrittore anche in relazione all’epoca dell’investimento, è pervenuto ad una conclusione uniforme e generalizzante, senza distinguere le posizioni dei singoli investitori, né, pertanto, prendere in diversa considerazione la posizione di coloro che, senza porsi dubbi sull’attendibilità del prospetto autorizzato, acquistarono quote nel periodo successivo alla diffusione delle notizie de quibus e di coloro che, avendo aderito ab origine all’operazione, avrebbero potuto, in ipotesi, ridurre il danno attraverso una liquidazione delle quote acquistate.

8. – Con il sesto motivo – che in ordine logico va esaminato prima dei restanti quarto e quinto motivo – i ricorrenti in via principale denunciano violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 116 e 384 cod. proc. civ., del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 23, del D.L. n. 534 del 1996, art. 3, convertito nella L. n. 639 del 1996, e della l. n. 216 del 1974, artt. 1 e 2, nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia .

Con esso lamentano che la condanna al risarcimento integrale nei confronti dei sottoscrittori sia stata pronunciata, in solido con la CONSOB ed il Ministero, anche nei confronti di P.B., P.A., G.F. e S.L., in qualità di funzionari ed esperti della CONSOB.

Il giudice del rinvio si sarebbe limitato ad indagare sulla sussistenza di un comportamento genericamente colposo ascrivibile ai singoli funzionari ed esperti della CONSOB, senza tuttavia interrogarsi in alcun modo sulla gravità o meno di tale (eventuale) colpa. In tal modo, la Corte Territoriale avrebbe ignorato il disposto del D.P.R. n. 3 del 1957, art. 23, a tenore del quale la responsabilità civile dei funzionari e dipendenti della P.A. sussiste soltanto in presenza di comportamenti dolosi o gravemente colposi. La Corte del merito, pertanto, non si sarebbe potuta limitare ad indagare sulla sussistenza, nel comportamento di tali soggetti, degli ordinari elementi costitutivi dell’illecito aquiliano, ma avrebbe dovuto verificare la ravvisabilità degli estremi di una colpa grave.

Gli elementi di prova utilizzati dal giudice del rinvio onde dimostrare il comportamento illecito dei singoli funzionari ed esperti sarebbero insufficienti e addirittura inammissibili.

Quanto alla responsabilità del P.B., la Corte Territoriale si sarebbe limitata a far leva su una dichiarazione, priva di valore confessorio, resa dallo stesso in sede penale, nonché sulla circostanza – di per sé neutra e non decisiva – della partecipazione dello stesso alle riunioni della CONSOB in cui il prospetto venne discusso ed approvato.

In ordine a quella del P.A., del G.F. e del S.L., il giudice del rinvio si sarebbe riferito, in modo del tutto acritico e passivo, a mere valutazioni espresse dal giudice penale nella sentenza istruttoria con cui fu disposto il proscioglimento per amnistia.

Con ciò la Corte milanese avrebbe violato il principio – ribadito anche nella sentenza n. 3132 del 2001 della Corte di cassazione – per cui la libera valutabilità del giudice civile sussiste unicamente per le prove acquisite in sede penale, giammai con riguardo a mere valutazioni espresse in quella sede, le quali sono invece prive di qualsivoglia valore probatorio.

La Corte di Milano avrebbe inoltre omesso di sottoporre alla necessaria rivalutazione gli elementi tratti dalla sentenza penale.

Da ultimo, la sentenza impugnata sarebbe viziata nella parte in cui ha condannato all’integrale risarcimento in favore dei sottoscrittori tanto i commissari quanto gli esperti della CONSOB, senza distinguere in alcun modo le rispettive posizioni e funzioni. La Corte del merito non si sarebbe resa conto che, dei soggetti condannati, soltanto i funzionari P.B. e P.A. ricoprivano il ruolo di commissari della CONSOB all’epoca dei fatti di causa, e che pertanto soltanto questi ultimi approvarono il prospetto, laddove gli avvocati G.F. e S.L. erano due degli esperti della CONSOB, ai quali erano devolute attribuzioni e funzioni totalmente differenti. G.F. e S.L. erano addetti al Servizio giuridico della Commissione, ed il loro compito istituzionale era soltanto quello di verificare che i prospetti informativi presentati alla CONSOB fossero conformi, dal punto di vista formale e tecnico- giuridico, con lo schema-tipo predisposto dalla stessa Commissione.

Del resto, all’approvazione del prospetto si pervenne – come risulta dal verbale della riunione della CONSOB del (OMISSIS) – soltanto a seguito della lettura di una lettera riservata indirizzata dai promotori dell’operazione al presidente della Commissione, della quale pertanto gli esperti G.F. e S.L. – i quali si erano occupati della sola fase istruttoria – nulla potevano sapere.

8.1. – Il motivo è fondato.

In primo luogo, la sentenza impugnata ha omesso di distinguere la posizione dei commissari e degli esperti della CONSOB evocati in giudizio, laddove il diverso ruolo istituzionale degli stessi e le attività concretamente svolte da ciascuno di essi nella vicenda in esame avrebbe reso necessari una precisa indagine ed una separata valutazione in ordine alla responsabilità di ognuno, tenendo conto – con particolare riguardo agli esperti – degli specifici compiti assegnati nella struttura organizzativa della Commissione e del ruolo avuto nella vicenda.

In secondo luogo, la Corte del merito – mentre con riguardo al P. B. ha desunto in via autonoma il comportamento colposo dall’essere stato presente alle riunioni della Commissione in cui venne discusso ed approvato il prospetto, senza disporre alcuna attività di verifica e controllo, nonostante fosse stata data lettura, nella seduta del (OMISSIS), di una missiva del (OMISSIS), a firma C., in cui si evidenziava che l’operazione di acquisto delle azioni S. Grandi Alberghi era ancora in corso di perfezionamento – con riguardo agli altri convenuti ( P.A., G.F. e S.L.) ha fondato le conclusioni di responsabilità sulle valutazioni espresse dal giudice penale nella sentenza istruttoria di proscioglimento per applicazione dell’amnistia, nella quale era stato sottolineato: che costoro “non potevano non essersi resi conto dello stato del prospetto, delle sue lacune documentali e delle sue ambigue osservazioni”; che il G. F. e il S.L. “avevano il compito di istruire la pratica prima dell’esame in Commissione”; che il P.A. “si occupò concretamente di tale operazione, senza, peraltro, rilevare nulla in merito ai punti in discussione …, attesa la specifica competenza del P.A.”.

Non v’è dubbio che la sentenza penale, anche quando non faccia stato nel giudizio civile circa il compiuto accertamento dei fatti materiali formanti oggetto del giudizio penale, costituisce un documento che il giudice civile può esaminare e dal quale può trarre elementi di giudizio, sia pure non vincolanti (Cass., Sez. 1^, 15 febbraio 2001, n. 2200; Cass., Sez. 1^, 24 febbraio 2004, n. 3626). Ma il giudice civile non può adagiarsi acriticamente sulle valutazioni effettuate dal giudice penale, dovendo in ogni caso sottoporre le conclusioni cui sia giunto quest’ultimo al proprio vaglio critico (Cass., Sez. 3^, 21 giugno 2004, n. 11483; Cass., Sez. Ili, 7 febbraio 2005, n. 2409). In questo senso, del resto, il giudice del rinvio era vincolato in base al principio di diritto enunciato dalla sentenza rescidente, la quale – esclusa l’efficacia di giudicato nel giudizio civile delle statuizioni contenute nella sentenza istruttoria di proscioglimento degli imputati per applicazione di amnistia – ha invitato la Corte di merito, nell’opera di necessaria rivalutazione del fatto, a “tenere conto degli elementi di prova ritualmente acquisiti nel processo penale”.

Con riguardo alle posizioni dei convenuti P.A., G.F. e S.L., la Corte di Milano – pur declamando (pag. 43) di volere desumere dalla sentenza penale istruttoria “argomenti di prova” – ha finito con il conferire proprio alle valutazioni espresse dal giudice penale un’autosufficienza decisoria nel giudizio civile di responsabilità, laddove il fondamento fattuale della decisione del giudice del rinvio avrebbe dovuto essere ancorato, piuttosto, agli elementi di prova ritualmente acquisiti dal giudice penale, se ed in quanto confermati (o comunque non smentiti) dal contesto degli altri dati disponibili.

Infine – e questa volta in relazione alla posizione di tutti i commissari ed esperti – la Corte di Milano – alla quale compete ogni accertamento in proposito (Cass., Sez. 3^, 25 novembre 2003, n. 17914) – ha omesso di interrogarsi espressamente sul grado della colpa di ciascuno, né la generica motivazione sul punto consente di ritenere che essa abbia, sia pure implicitamente, qualificato come grave le inosservanze addebitate a costoro. Al riguardo, il giudice del rinvio avrebbe dovuto considerare che – anche nel vigore della disciplina anteriore a quella, ratione temporis non applicabile (posto che, in materia di illecito civile, il criterio di imputazione della responsabilità segue la legge vigente al momento in cui si è verificato il fatto o l’evento dannoso: Cass., Sez. 3^, 24 settembre 2002, n. 13907), dettata dalla L. 28 dicembre 2005, n. 262, art. 24, comma 6 bis (Disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari), aggiunto dal D.Lgs. 29 dicembre 2006, n. 303, art. 4, comma 3 (Coordinamento con la legge 28 dicembre 2005, n. 262, del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia e del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria) – perché possa configurarsi, a norma dell’art. 28 Cost., la responsabilità per danni verso i terzi dei commissari della CONSOB nonché dei loro dipendenti od esperti in conseguenza di atti o comportamenti adottati nell’esercizio delle loro funzioni, è necessario che essi abbiano agito con dolo o colpa grave, così come previsto dal D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, art. 23 (T.U. disposizioni concernenti lo statuto degli impiegati civili dello Stato), applicabile, in quanto espressione di un principio generale, a chiunque sia legato da un rapporto di servizio con la Commissione.

A questo esame dovrà nuovamente procedere il giudice del rinvio;

tenendo presente che la limitazione della responsabilità civile dei commissari ed esperti della CONSOB alle ipotesi di (dolo o) colpa grave non significa che l’ordinamento tolleri un comportamento lassista di costoro o li esponga alla responsabilità nei confronti dei terzi danneggiati solo in presenza di macroscopiche inosservanze dei doveri di ufficio o di abuso delle funzioni per il perseguimento di fini personali, giacché si ha colpa grave anche quando l’agente, pur essendone obbligato iure, non faccia uso della diligenza, della perizia e della prudenza professionali esigibili in relazione al tipo di servizio pubblico o ufficio rivestito.

9. – L’accoglimento del sesto motivo del ricorso principale rende virtualmente assorbito l’esame degli ulteriori motivi del ricorso principale e dell’unico mezzo del ricorso incidentale, essendo tutti relativi a profili – i criteri di determinazione del danno subito dagli investitoti HVST e di aggiornamento o di adeguamento monetario della somma liquidata dal giudice – in ordine logico successivi rispetto al momento dell’an della responsabilità dei commissari ed esperti, sul quale il giudice del rinvio dovrà nuovamente a pronunciare.

Tuttavia, poiché la vicenda giudiziaria de qua pende ormai da numerosi anni e poiché le censure con tali motivi sollevate investono anche questioni di interpretazione della legge, sulle quali il giudice di legittimità è chiamato, secondo le attribuzioni che ad esso sono proprie, ad esercitare la propria funzione nomofilattica, il Collegio ritiene che ragioni di cautela acceleratoria, intimamente legate al rispetto del principio di ragionevole durata del processo e di buon andamento dell’amministrazione del servizio giustizia, impongano uno scrutinio di essi, onde evitare che le parti del giudizio – ove in esito al giudizio di rinvio sia confermata, in tutto o in parte, la responsabilità dei commissari e degli esperti della CONSOB – siano costrette a rivolgersi ancora una volta a questa Corte per prospettare doglianze, sulla misura del danno e sulla sua natura, che già oggi sono all’attenzione del giudice di legittimità. 10. – Passando, quindi, all’esame del quarto motivo del ricorso principale (violazione e falsa applicazione degli artt. 1223, 2041 e 2697 cod. civ.; omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia; il tutto in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., nn. 3 e 5), con esso si contesta la liquidazione del danno in favore dei sottoscrittori HVST nell’intero ammontare dell’investimento dagli stessi effettuato.

La Corte del merito avrebbe dovuto detrarre dalla somma richiesta quanto meno il valore residuo delle quote acquistate. Si sarebbe dovuto considerare la circostanza – diffusamente evidenziata – che il complesso immobiliare alberghiero di cui è proprietaria la società HVST a r.l. (e quindi, per il tramite di essa, i sottoscrittori) è tuttora esistente nella sua materialità, e mantiene, quale bene immobile, un proprio valore di mercato. A seguire il ragionamento svolto nella sentenza impugnata, si perverrebbe – assumono i ricorrenti – al risultato di far conseguire agli investitori una illegittima ed ingiustificata locupletazione.

La Corte Territoriale avrebbe dato per dimostrate circostanze decisive ai fini della quantificazione del danno – e cioè, in ultima analisi, la totale mancanza di valore residuo delle quote acquistate dai sottoscrittori – sulle quali, invece, nessuna certezza è mai stata raggiunta, ed il cui onere probatorio gravava sui sottoscrittori HVST.

10.1. – La censura articolata con il motivo è infondata.

Correttamente il giudice del rinvio ha affermato che, poiché gli investitori non avrebbero acquistato i titoli mobiliari in questione se la CONSOB avesse proceduto alla doverosa attività di vigilanza e di controllo, il risarcimento deve coprire il danno subito dagli investitori medesimi in termini di perdita del capitale investito. E siccome nessun valore, neppure minimo, può essere attualmente riconosciuto alle quote HVST acquistate, non essendo stato recuperato alcunché dall’insinuazione al passivo delle procedure concorsuali alle quali sono state sottoposte le varie società promotrici dell’operazione, il danno sopportato da ciascun sottoscrittore è stato fatto coincidere con l’intero prezzo pagato per l’acquisto della quota.

Pervero, i ricorrenti, nel contestare (anche) in punto di fatto la conclusione cui è pervenuta la Corte di merito, sostengono che sussisterebbe un valore residuo di mercato delle quote acquistate dai sottoscrittori: ma la deduzione si risolve nella prospettazione di un punto di vista diverso dal motivato apprezzamento della sentenza impugnata, perché nel motivo di ricorso non vengono trascritte – come invece sarebbe stato onere dei ricorrenti, in base al principio di autosufficienza – le risultanze processuali, indicative del detto valore residuo di mercato, che la Corte del merito avrebbe omesso di prendere in considerazione.

11. – Il quinto mezzo del ricorso principale (violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056 e 1223 cod. civ.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia) lamenta che la sentenza impugnata abbia riconosciuto la debenza degli interessi legali con decorrenza dalle singole sottoscrizioni. L’obbligazione per accessori avrebbe dovuto decorrere dalla data della pronuncia o, quanto meno, da quella del verificarsi del danno, non coincidente con la stessa data della sottoscrizione.

11.1. – In relazione al medesimo capo della sentenza impugnata relativo agli interessi, i sottoscrittori HVST, con l’unico motivo del ricorso incidentale, prospettano violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 2056, 1224 e 1225 cod. civ., nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia. Essi sostengono che nella specie, venendo in considerazione un debito di valore, sull’ammontare del risarcimento riconosciuto in favore dei singoli risparmiatori avrebbe dovuto essere applicata anche la rivalutazione monetaria.

11.2. – Il quinto motivo del ricorso principale e l’unico mezzo del ricorso incidentale vanno esaminati congiuntamente, stante la loro connessione.

È fondato il motivo del ricorso incidentale, giacché sono erronee le premesse dalle quali ha preso le mosse la Corte di Milano nell’escludere il danno da svalutazione monetaria.

L’obbligazione risarcitoria da fatto illecito extracontrattuale per le perdite subite dal risparmiatore in conseguenza della omessa attivazione, da parte della CONSOB, dei poteri di vigilanza su di un’operazione di sollecitazione al pubblico risparmio, costituisce un debito di valore. Né siffatta configurazione è destinata a mutare per il fatto che l’evento dannoso coincide con la perdita della somma di danaro investita, giacché nella responsabilità aquiliana – dove l’obbligazione risarcitoria mira alla reintegrazione del patrimonio del danneggiato – ai fini del risarcimento del danno viene in rilievo la perdita del valore oggetto, nella specie, dell’operazione finanziaria di investimento, e ciò che il danneggiante deve non è la corresponsione di una data somma di danaro ma l’integrale risarcimento del danno, di cui la somma originaria costituisce solo una componente ai fini della relativa commisurazione (cfr., in ambiti diversi, Cass., Sez. 2^, 21 luglio 1980, n. 4776; Cass., Sez. 3^, 23 aprile 1982, n. 2534; Cass., Sez. 3^, 20 febbraio 1987, n. 1817; Cass., Sez. 1^, 25 maggio 2005, n. 11018).

La Corte di Milano, affermando di non potere riconoscere il danno da svalutazione monetaria (che avrebbe dovuto essere dimostrato, o almeno allegato, dagli investitori) ed essendosi limitata a statuire la debenza degli interessi legali, ha erroneamente considerato l’obbligazione risarcitoria de qua alla stregua di un debito di valuta.

Trattandosi, invece, di obbligazione di valore, non occorreva che gli investitori danneggiati si adoperassero a provare la svalutazione, in quanto l’obbligazione di risarcimento del danno è sottratta al principio nominalistico e deve, pertanto, essere quantificata dal giudice, anche d’ufficio, tenendo conto della svalutazione monetaria sopravvenuta fino alla data della liquidazione (Cass., Sez. 3^, 22 giugno 2005, n. 13401; Cass., Sez. 1^, 7 ottobre 2005, n. 19636).

Sulla somma riconosciuta ai danneggiati a titolo di risarcimento del danno, il giudice avrebbe dovuto considerare, in sede di liquidazione, la rivalutazione monetaria degli esborsi sostenuti dai sottoscrittori dal giorno in cui è verificato l’evento dannoso; e – secondo i principi più volte affermati da questa Corte (Sez. Un., 17 febbraio 1995, n. 1712; Sez. 3^, 25 gennaio 2002, n. 883; Sez. 3^, 8 maggio 2002, n. 6590; Sez. 3^, 10 marzo 2006, n. 5234) – avrebbe dovuto liquidare il nocumento finanziario (lucro cessante) da essi subito a causa del ritardato conseguimento del relativo importo, con la tecnica degli interessi, computati – non sulla somma originaria né su quella rivalutata al momento della liquidazione – ma sulla somma originaria rivalutata anno per anno, ovvero sulla somma rivalutata in base ad un indice medio.

L’accoglimento del motivo del ricorso incidentale assorbe l’esame della censura articolata con il ricorso principale.

12. – La sentenza impugnata è cassata in relazione alle censure accolte.

La causa deve essere rinviata alla Corte d’appello di Milano che, in diversa composizione, la deciderà facendo applicazione dei principi di diritto sopra enunciati.

Il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del giudizio di Cassazione.

P.Q.M.
La Corte, riuniti i ricorsi, così provvede:

(a) dichiara estinto, per intervenuta rinuncia, il giudizio promosso con il ricorso principale del Ministero dell’economia e delle finanze e della CONSOB;

(b) dichiara estinto, per intervenuta rinuncia, nei soli confronti del Ministero dell’economia e delle finanze e della CONSOB, il giudizio promosso con il ricorso incidentale introdotto da S. R. e dagli altri 897 sottoscrittori di quote HVST indicati in epigrafe e, per loro nome e conto, da G.I., nonché da G.I. in proprio;

(c) rigetta il primo, il secondo ed il quarto motivo del ricorso principale; accoglie il terzo, nei termini di cui in motivazione, ed il sesto motivo del ricorso principale; accoglie il ricorso incidentale e dichiara assorbito, in conseguenza di tale accoglimento, l’esame del quinto motivo del ricorso principale;

(d) cassa, in ragione delle censure accolte, la sentenza impugnata e rinvia la causa, anche per le spese del giudizio di Cassazione, alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2009


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 04-02-2009) 20-02-2009, n. 4239

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FINOCCHIARO Mario – Presidente

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere

Dott. SPIRITO Angelo – rel. Consigliere

Dott. FRASCA Raffaele – Consigliere

Dott. D’AMICO Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA INTERLOCUTORIA

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI PATTI, in persona del sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIERLUIGI DA PALESTRINA 19, presso lo studio dell’avvocato BALDUCCI PAOLA, rappresentato e difeso dall’avvocato PIZZUTO FRANCESCO con studio in 98051 – Brolo (ME), Via Leonardo Da Vinci n. 5, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.T.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 101/2004 della GIUDICE DI PACE di PATTI, emessa il 23/03/2004, depositata il 30/03/2004, R.G. 284/C/03;

udita la relazione della causa svolta nella Udienza pubblica del 04/02/2009 dal Consigliere Dott. SPIRITO ANGELO;

udito l’Avvocato Francesco PIZZUTO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CENICCOLA Raffaele, che ha concluso per il rinvio alle SS.UU..

La Corte:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
rilevato che nel primo motivo di ricorso il Come di Patti pone questione di giurisdizione, sostenendo che questa (trattandosi di canone acque reflue per l’anno 1997) spettasse alla Commissione Tributaria;

che, dunque, la questione stessa deve essere sottoposta al giudizio delle SS.UU. di questa Corte.

P.Q.M.
Dispone la trasmissione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle SS.UU..

Così deciso in Roma, il 4 febbraio 2009.

Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2009