Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 25-06-2010) 24-08-2010, n. 32290

Pubblico dipendente che attesta falsamente la sua presenza sul posto di lavoro – La falsa attestazione della presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata quando il dipendente si allontana senza far risultare i periodi di assenza. Tuttavia, quando le assenze si limitano complessivamente a poche ore, va riconosciuta l’”attenuante del valore lieve”.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo – Presidente

Dott. PAGANO Filiberto – rel. Consigliere

Dott. NUZZO Laurenza – Consigliere

Dott. GALLO Domenico – Consigliere

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) P.S., N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 5212/2006 CORTE APPELLO di NAPOLI, del 08/10/2008;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/06/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. FILIBERTO PAGANO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Gialanella Antonio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il difensore di P.S. ricorre avverso la sentenza sopra indicata che ha confermato la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di truffa continuata aggravata commessa quale dipendente del comune di (OMISSIS) alterando il registro delle presenze e facendo figurare una non effettuata presenza in ufficio. La Corte ha assolto il P. dal delitto di falso rilevando che i registri delle presenze non hanno la qualità di atti pubblici.

Il ricorrente deduce difetto di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di truffa rilevando che gli accertati non buoni rapporti con gli altri dipendenti inficiano la valenza delle testimonianze relative alle assenze dall’ufficio che comunque furono limitate a poche ore, dato che doveva consentire la concessione “dell’attenuante del valore lieve”.

Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte che statuisce che la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare, come nel caso concreto, economicamente apprezzabili (Cass. 2, 6.10.06 n. 34210, depositata 12.10.06, rv. 23530; Cass. 2, 16.3.04 n. 19302, depositata 26.4.04, rv. 229439). Le doglianze in ordine alla valutazione probatoria sono inammissibili risolvendosi in una assertiva negazione di quanto non illogicamente considerato dalla Corte territoriale e sopra tutto dal giudice di primo grado. Ai sensi del disposto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità comporta dimostrare che il provvedimento è manifestamente carente di motivazione o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti operata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (Cass. S.U. 19.6.96, De Francesco).

Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv. 207944, Dessimone).

E’ invece fondato l’ultimo motivo di ricorso non avendo il giudice di appello dato risposta alla richiesta di applicazione dell’attenuante chiesta essendo il fatto accertato limitato ai giorni 24, 27 e 30 dicembre 2010.

All’annullamento segue la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la verifica della sussistenza della chiesta attenuante, fermo restando il passaggio in giudicato dell’affermazione di colpevolezza per il delitto, in quanto nella fattispecie vale il principio che il giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l’applicazione di cause estintive successive all’annullamento parziale, trattandosi di cause sopravvenute non incidenti su quanto deciso in maniera definitiva (Cass. S.U. 23.5.97 n. 4904, ud. 26.3.97, rv. 207640).

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla omessa pronuncia sulla richiesta dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per il giudizio sul punto.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il data 25 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2010


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 25-05-2010) 26-07-2010, n. 17511

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. STILE Paolo – Consigliere

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

IM.EL.CA. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in. ROMA, VIA MATTEO BOIARDO 12, presso lo studio dell’avvocato MORABITO GIUSEPPE, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio,, degli avvocati STUDIO ANTONINO SPINOSO – SIMONA NAPOLITANI, rappresentato e difeso dall’avvocato POLIMENI DOMENICO, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 240/2007 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 27/03/2007 r.g.n. 1844/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato MORABITO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato POLIMENI DOMENICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso notificato il 12-13 dicembre 2007, la IM.EL.CA s.n.c. ha chiesto, con due motivi, la cassazione della sentenza depositata il 27 marzo 2007, con la quale la Corte d’appello di Reggio Calabria, riformando la decisione del giudice di primo grado, l’aveva condannata a pagare a B.L. la somma di Euro 4.905,44 – oltre accessori di legge – a titolo di compenso per il lavoro straordinario da questi prestato, nel corso del rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti, per trasportare, per un’ora al giorno, con automezzo aziendale, dalla sede della società ai singoli cantieri gli operai e i mezzi di questa.

Resiste alle domande della società Leandro Battaglia, con rituale controricorso, illustrato poi con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1 – Col primo motivo di ricorso, la società deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c..

In proposito, il giudice di primo grado aveva dichiarato d’ufficio nullo il ricorso introduttivo del giudizio per la insufficiente esposizione dei fatti costitutivi dei diritti azionati.

Viceversa la Corte d’appello aveva ritenuto che il ricorso avesse sufficientemente esposto tali fatti, mentre la ricorrente sostiene che, mancando la indicazione del contratto collettivo applicabile al rapporto, la domanda avrebbe dovuto essere dichiarata nulla.

Il motivo conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Chiarisca la Corte … se, per i motivi sopra evidenziati il ricorso privo dell’esatta determinazione dell’oggetto della domanda o dell’esposizione dei fatti e degli elementi normativi sui quali si basa è, per giurisprudenza costante, affetto da nullità, ai sensi degli artt. 414, 164 e 156 c.p.c., risultando precluso alla parte produrre nel corso del giudizio i contratti collettivi non citati nel ricorso ed al giudice agire sulla scorta del principio iura novit curia;

– sempre per i motivi sopra argomentati, chiarisca la Corte … se la nullità dell’atto introduttivo, con riferimento alla mancanza o assoluta incertezza dei requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., n. 3 e 4, opera pregiudizialmente rispetto al merito, traducendosi in inammissibilità della domanda senza che operi sanatoria per la costituzione del convenuto che eccepisca anche l’infondatezza nel merito della domanda e senza che sia possibile una integrazione successiva mediante note illustrative depositate nel corso del giudizio, ovvero senza che possa essere sanata dall’esercizio dei poteri previsti dall’art. 421, comma 2, da parte del giudice”. 2 – Col secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2107 e 2108 c.c., in quanto la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere come lavorativo il tempo necessario al dipendente per recarsi sul luogo di lavoro.

Comunque, secondo la ricorrente, la Corte avrebbe altresì errato in f)J quanto l’art. 12 del C.C.N.L. disporrebbe che l’operaio che percepisce, come l’appellante, la diaria per la trasferta, ha l’obbligo di trovarsi sul posto di lavoro per l’ora stabilita per l’inizio del lavoro.

Quesito:

“Chiarisca la Corte, alla luce delle superiori argomentazioni confermate dalle risultanze processuali, se il tempo impiegato per raggiungere il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, non essendo connaturato alla prestazione stessa – tenuto presente che il lavoratore, pur non rivendicando con il proposto giudizio la diversa qualifica di autista, si portava presso la sede dell’azienda non per disposizione datoriale ma per comodità propria – resta comunque estraneo ali attività lavorativa vera e propria non sommandosi quindi al normale orario di lavoro?”.

Il ricorso conclude pertanto con la richiesta di annullamento della sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge.

Il ricorso, scarsamente rispettoso del principio di autosufficienza (su cui, anche recentemente, cfr, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09) e i cui quesiti di diritto sono generici e non sempre aderenti alla fattispecie concreta illustrata (in argomento, cfr., tra le altre, Cass. S.U. ord. 5 febbraio 2008 n. 2658 e 5 gennaio 2007 n. 36), è comunque manifestamente infondato.

La sentenza impugnata ha infatti riformato quella di primo grado, dichiarativa della nullità del ricorso per indeterminatezza, accertando viceversa che in esso erano stati sufficientemente determinati il petitum nonchè i presupposti di fatto e di diritto posti a sostegno della pretesa.

La Corte territoriale ha altresì accertato che i fatti costitutivi del diritto al compenso per lavoro straordinario azionato non erano stati contestati dalla società, la quale aveva unicamente obiettato che erroneamente il B. avrebbe qualificato come tempo di lavoro (come tale da retribuire) quello necessario per recarsi al cantiere in cui di volta in volta doveva operare.

I giudici dell’appello hanno infine rilevato che anche i conteggi elaborati dal C.T.U. sulla base di determinati contratti collettivi non erano stati corte-stati.

A fronte di tali accertamenti, la società lamenta ora, col primo motivo, la mancata allegazione fin dall’inizio, nel ricorso introduttivo del giudizio, del contratto collettivo applicabile al rapporto, dei conteggi e dei prospetti e deduce di avere contestato la normativa contrattuale collettiva utilizzata nei propri conteggi dal C.T.U. nominato nel giudizio di primo grado.

Sul primo punto, va anzitutto rilevato che la fonte normativa primaria del compenso per lavoro straordinario è la legge, la quale stabilisce comunque determinati criteri di determinazione del relativo compenso in assenza della contrattazione collettiva, per cui la mancata invocazione di quest’ultima potrebbe semmai comportare la diretta applicazione dei criteri di legge, viceversa non richiesta dalla ricorrente.

Per il resto, la società non specifica quando e in quali precisi termini essa abbia effettivamente contestato la mancanza di conteggi allegati al ricorso introduttivo nonchè l’erronea utilizzazione di determinati contratti collettivi in sede di C.T.U., per cui di ciò non deve tenersi conto in questa sede.

Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.

La Corte territoriale non ha infatti affermato in via di principio che il tempo necessario al dipendente per recarsi sul luogo di lavoro debba essere considerato come lavorativo, correttamente richiamando viceversa la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 14 marzo 2006 n. 5496), citata anche dalla società ricorrente, secondo cui ciò si verifica unicamente nel caso in cui lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione, il che in particolare si verifica ove il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa; che è la situazione concretamente accertata nel caso di specie, in cui il B. era altresì gravato dell’ulteriore incombenza di guidare l’automezzo aziendale verso tali località, trasportando mezzi e uomini.

Infine, la società invoca “l’art. 12 del C.C.N.L. all’epoca vigente”, per sostenere che, alla stregua di tale norma, il dipendente che percepisce (come il B. diaria di trasferta sarebbe obbligato a trovarsi sul luogo di lavoro per l’ora stabilita.

In proposito, va peraltro rilevato che non solo tale deduzione non è specificata con la riproduzione della norma contrattuale collettiva invocata, ma quest’ultima non risulta neppure contestualmente depositata nella cancelleria della Corte, come prescritto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (nè, del resto, prodotta in sede di giudizio di merito, come rilevato dalla stessa sentenza di appello, sul punto non censurata).

Concludendo, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle relative spese, così come operato in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al B. le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 16,00 per spese ed Euro 1.500,00, oltre accessori di legge, per onorari, che distrae all’avv. Domenico Polimeni.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2010


Cassazione Civile Sez. Trib., Sent. n. 14434 del 15-06-2010

Non basta l’iscrizione all’Aire per evitare la tassazione in Italia

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13965/2006 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

G.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 12/2005 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE, depositata il 07/03/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/05/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato DE BELLIS GIANNI, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE NUNZIO Wladimiro, che ha concluso per l’accoglimento.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della C.T.R. della Toscana.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

G.L., ha impugnato l’avviso di accertamento con cui è stato rettificato l’imponibile IRPEF, ILOR e CSSN per il periodo in contestazione, a seguito di accertamento analitico del reddito per interessi percepiti su prestiti a favore di terzi, rilevati da schede personali del contribuente, e di accertamento sintetico D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, sulla base della capacità economica rilevata da elementi emersi da un testamento olografo del 1998 e da schede separate del contribuente, rettificandosi in aumento l’imponibile per redditi da disponibilità degli immobili e per quote di risparmio di 1/6, per il periodo in contestazione, relativamente alle regalie in favore di familiari ed ai redditi da altri prestiti a terzi.

La C.T.R. accoglieva parzialmente il ricorso, confermando la rettifica da accertamento analitico e limitando quella da incrementi patrimoniali a L. 5.109.895; pur riconoscendo un reddito per possessi immobiliari in Italia, non si pronunciava in dispositivo. La C.T.R., con la sentenza indicata in epigrafe, riformava la sentenza di primo grado e limitava il reddito imponibile a quello attribuibile alla disponibilità (peraltro in locazione e non a titolo di proprietà) della villa in (OMISSIS).

L’Agenzia ha proposto ricorso per Cassazione, basato su quattro motivi. Il contribuente non ha svolto attività difensiva.

Con il primo motivo, l’Agenzia, denunziando violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi da 4 a 6, e D.M. 10 settembre 1979, art. 2, comma 1, lamenta che la C.T.R. avrebbe illegittimamente ritenuto, quanto all’utilizzo di immobili abitativi quale indice di capacità contributiva, che all’Ufficio incomberebbe anche l’onere di accertare che essi siano nella disponibilità del contribuente, essendo, invece, sufficiente a far sorgere la presunzione di reddito non dichiarato la sola proprietà degli stessi (“indiscussa” nella specie).

Con il secondo motivo, l’Agenzia denunzia illogicità e contraddittorietà della motivazione, perché la C.T.R.: a. affermando “l’Ufficio si è basato su un c.d. testamento, che tale non appare nel testo prodotto in giudizio e su schede di provenienza incerta (nel testo prodotto in giudizio”, non ha considerato che era irrilevante che il testamento non potesse essere considerato tale e che il G. ne avesse contestato solo l’utilizzabilità, giammai la provenienza né la sottoscrizione, cosi come non aveva disconosciuto la provenienza delle schede, nè la veridicità del loro contenuto; b. ritenendo che l’Ufficio avesse presunto le superfici degli immobili sulla base del valore degli stessi indicato nel c.d. testamento e che, nel determinare il reddito attribuibile al possesso di immobili, si fosse basato su una serie di presunzioni, anziché su di un fatto certo, non ha considerato che il reddito presunto derivava da elementi certi (dichiarazione sostanzialmente confessoria del G. circa gli immobili nella sua disponibilità), che nessuna rilevanza poteva avere il dato della superficie desunto dal valore dichiarato e che la disponibilità nel periodo in contestazione derivava dalla presunzione di accumulo per quote costanti di cui all’art. 38, comma 5, D.P.R. cit..

Con il terzo motivo, la parte erariale deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, comma 2, nonché motivazione insufficiente illogica e contraddittoria. Lamenta che la C.T.R. avrebbe illegittimamente: a. escluso che potessero assumere rilievo gli immobili situati all’estero, trattandosi di contribuente fiscalmente residente all’estero, per il quale rileva unicamente la capacità contributiva in Italia; b. ritenuto che rispetto alla dichiarazione e documentazione dell’iscrizione all’A.I.R.E. fin dal 1978 non avrebbe mai provato il contrario, limitandosi a presunzioni e deduzioni soggettive ed al riferimento a circostanze di cui non si conosce la collocazione temporale, nè il soggiorno obbligato in Italia poteva considerarsi residenza fiscale e, comunque, non era provato per il 1993; e. ritenuto che la stipula di un contratto di locazione non potesse significare necessariamente una presenza abituale nell’immobile locato. In particolare, erroneamente la C.T.R. avrebbe attribuito rilievo decisivo all’iscrizione all’A.I.R.E. e ritenuto non provato il contrario in aperto contrasto con gli atti di causa, da cui risultava almeno la “dimora abituale” in Italia. Ripercorre alcuni di tali elementi e deduce che l’omessa valutazione degli stessi configura il vizio di motivazione insufficiente su punto decisivo. La C.T.R. infine non avrebbe precisato la durata del soggiorno obbligato nè lo avrebbe adeguatamente valutato insieme alla locazione dell’immobile come idoneo ad accertare l’oggettiva situazione di residenza di fatto in Italia (indipendentemente dall’iscrizione anagrafica altrove).

Con il quarto motivo, l’Agenzia deducendo violazione dell’art. 38, commi da 4 a 6, e motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria, censura la decisione della C.T.R. nella parte in cui ha ritenuto infondato l’accertamento basato sulla disponibilità d’ingenti prestiti e regalie, solo perché il contribuente avrebbe fornito la prova di “essere beneficiario di una enorme fortuna economica”, senza pretendere che il medesimo fornisse, invece, la prova che detta ingente disponibilità economica fosse giustificata dal possesso di somme derivanti “in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta” (art. 38, comma 6, D.P.R. cit.).

Il ricorso si rivela fondato.

Secondo l’ordine logico delle questioni, va anzitutto esaminato il terzo motivo, riguardante l’accertamento della residenza fiscale. La censura è fondata e va accolta. Infatti, sussistono sia la violazione di legge che il vizio motivazionale dedotti dalla parte erariale.

In tema d’imposte sui redditi, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2, comma 2, individua, perché sussista la residenza fiscale nello Stato, tre presupposti, indicati in via del tutto alternativa : il primo, formale, rappresentato dall’iscrizione nelle anagrafi delle popolazioni residenti, gli altri due, di fatto, costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato ai sensi del codice civile; ne consegue che – diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata – l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorché il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali (Cass. n. 13803/01; 10179/03). Al riguardo, utili elementi interpretativi possono desumersi dalla giurisprudenza comunitaria, perché, pure in riferimento ad un rapporto non caratterizzato dalla rilevanza delle relative norme e benché la materia delle imposte dirette non rientri nelle competenze dell’Unione, non può negarsi che l’esercizio di tale competenza da parte degli Stati membri non può prescindere dal diritto UE. Orbene, l’interpretazione qui accolta del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, è in armonia con l’affermazione della giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui “ai fini della determinazione del luogo della residenza normale, devono essere presi in considerazione sia i legami professionali e personali dell’interessato in un luogo determinato, sia la loro durata, e, qualora tali legami non siano concentrati in un solo Stato membro, l’art. 7, n. 1, comma 2, della direttiva 83/182/CEE riconosce la preminenza dei legami personali sui legami professionali. Nell’ambito della valutazione dei legami personali e professionali dell’interessato, tutti gli elementi di fatto rilevanti devono essere presi in considerazione, vale a dire, in particolare, la presenza fisica di quest’ultimo nonchè quella dei suoi familiari, la disponibilità di un’abitazione, il luogo di esercizio delle attività professionali e quello in cui vi siano interessi patrimoniali (v., in tal senso, sentenza 12 luglio 2001 in causa C-262/99, Louloudakis, punti 52, 53 e 55, i cui principi sono stati ribaditi da Corte giust. 7 giugno 2007, in causa C-156/04, Commissione c. Grecia).

La sentenza impugnata, invece, si è posta in netto contrasto con tali principi: non ha considerato che i presupposti indicati nell’art. 2, D.P.R. cit. sono alternativi, con la conseguenza che illegittimamente ha ritenuto che l’iscrizione del soggetto all’A.I.R.E. potesse essere elemento determinante per escluderne la residenza (fiscale) in Italia, dovendosi, invece, verificare se sussistessero le condizioni della terza ipotesi prevista dalla norma in questione: l’avere il soggetto avuto il proprio domicilio in Italia, inteso come sede principale degli affari e degli interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali. Al riguardo, va affermato che il carattere soggettivo ed elettivo della “scelta” dell’interessato rileva principalmente quanto alla libertà dell’effettuazione della stessa (l’ordinamento deve riconoscere e garantire l’effettivo esercizio della libertà di stabilimento del centro principale dei propri interessi), ma, allorchè si deve rilevare quale sia il risultato di quella scelta, la volontà individuale va contemperata con le esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi, di modo che il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato nel luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente, vale a dire in modo riconoscibile dai terzi. Ne deriva che deve prevalere un criterio di effettività (come in tema di individuazione del giudice competente per la dichiarazione di fallimento: Cass. 12285/05; 9753/01), non un elemento meramente soggettivo.

Sussiste anche il correlato vizio motivazionale, in quanto gli elementi dedotti dalle parti a sostegno delle rispettive posizioni in ordine al domicilio fiscale del soggetto avrebbero dovuto essere adeguatamente valutati proprio al fine della verifica della sussistenza anche della terza (alternativa) ipotesi prevista dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2.

Possono essere trattate congiuntamente le violazioni del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, lamentate nel primo e nella prima parte del quarto motivo, nonché i vizi motivazionali dedotti nel secondo e nella seconda parte del quarto motivo, in quanto tutte attinenti all’assetto dell’onere probatorio ed alla valutazione delle relative allegazioni.

Anche tali censure si rivelano fondate.

L’accertamento sintetico, con metodo induttivo, consentito all’amministrazione finanziaria dalle norme contenute nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, commi 4 e 5, (disposizioni introdotte dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 1), consiste nell’applicazione di presunzioni, in virtù delle quali l’ufficio finanziario è legittimato a risalire da un fatto noto (nel caso di specie, per un verso, la disponibilità d’immobili, per l’altro le elargizioni e le “regalie”) a quello ignorato (sussistenza di un certo reddito e, quindi, di capacità contributiva). La suddetta presunzione genera peraltro l’inversione dell’onere della prova, trasferendo al contribuente l’impegno di dimostrare che il dato di fatto sul quale essa si fonda non corrisponde alla realtà (Cass. n. 14778/2000; 327/2006; 5991/2006, nonché per il carattere legale di detta presunzione, Cass. n. 16284/07).

Nel caso di specie, rispetto alle puntuali contestazioni dell’atto di accertamento (riportante il “testamento olografo”, che indicava le proprietà immobiliari in Italia e all’estero, e le schede personali, che specificavano il denaro ed i preziosi donati ai familiari), il thema decidendum era perciò circoscritto alla questione della sufficienza della prova, che il contribuente doveva offrire, sul fatto che gli elementi posti dal fisco a base della presunzione di reddito non fossero invece dimostrativi di capacità contributiva.

A questo percorso argomentativo, conforme a legge, non è improntata la sentenza impugnata, per cui non resiste alle censure mosse. La C.T.R., in particolare, ha genericamente ed acriticamente svalutato la “certezza” degli elementi contestati, senza tenere conto che essi provenivano da documentazione redatta proprio dal contribuente. Il “testamento” conteneva l’indicazione d’immobili in Italia ed all’estero che il soggetto intendeva attribuire ai beneficiari dei lasciti, con ciò dimostrando che il medesimo riteneva di averne la “disponibilità” in senso tecnico-giuridico (a prescindere, in questa sede, dalla qualificabilità, o meno, dell’atto come testamento). La disponibilità è uno degli elementi caratterizzanti il diritto di proprietà, che, salvo diverso assetto (non dedotto nella specie) compete proprio al titolare dello stesso (art. 832 c.c.). Nè la C.T.R. ha fornito adeguata spiegazione della generica mancata conoscenza della disponibilità, delle caratteristiche e della consistenza dei beni indicati in detto documento, riportato nell’atto impositivo, in quanto tali affermazioni non tengono conto del consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’ufficio finanziario che procede ad accertamento con metodo sintetico ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, non ha l’onere di indicare i singoli cespiti dai quali derivi il maggior reddito accertato, essendo invece sufficiente che sia indicato un reddito globale, traendo tale determinazione o da manifestazioni di spesa non coordinabili con un minor reddito dichiarato ovvero da situazioni indicative di una capacità di spesa di natura reddituale (Cass. 24 ottobre 2005 n. 20588; 22 dicembre 1995 n. 13089; 27 luglio 1993, n. 8392; 13 novembre 2000, n. 14691; 17 giugno 2002, n. 8665).

Così, rispetto al denaro ed ai preziosi oggetto di regalie, la C.T.R. ne ha erroneamente escluso la rilevanza, quali indici di capacità contributiva, sulla base della semplice deduzione del contribuente di “essere beneficiario di una enorme fortuna economica”, mentre il medesimo avrebbe dovuto puntualmente provare che l’enorme disponibilità economica fosse giustificata dal possesso di somme derivanti da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.

Si deve, infatti, ribadire, che “il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici elementi indicatori di capacità contributiva esposti dall’Ufficio, non ha il potere di togliere a tali “elementi” la capacità presuntiva “contributiva” connessa alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale (e, quindi, non imponibile o perchè già sottoposta ad imposta o perchè esente) delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma” (Cass. n. 14665/06; 19252/05).

A seguito dell’accoglimento del ricorso, la causa va pertanto rinviata per nuovo motivato esame della pretesa erariale, alla luce dei descritti principi in tema d’individuazione del domicilio fiscale e di ripartizione dell’onere probatorio in tema di accertamento a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, nonchè per la determinazione in ordine alle spese anche del presente giudizio, ad altra Sezione della medesima C.T.R..


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 05-05-2010) 15-06-2010, n. 14366

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 16550/2007 proposto da:

COMUNE DI GENOVA in persona del Sindaco e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA A. FARNESE 7, presso lo studio dell’avvocato COGLIATI DEZZA Alessandro, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato UCKMAR VICTOR, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

T.F.;

– intimata –

sul ricorso 18216/2007 proposto da:

T.F., in qualità di erede di L.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LOVISOLO ANTONIO, giusta delega in calce;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

COMUNE DI GENOVA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 11/2 006 della COMM. TRIB. REG. di GENOVA, depositata il 24/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 05/05/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato COGLIATI DEZZA, che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato D’AYALA VALVA, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale.

La contribuente sopra indicata ha impugnato l’avviso di accertamento emesso dal Comune di Genova per il pagamento dell’ICI per il periodo d’imposta in contestazione e relative sanzioni.

La C.T.P. accoglieva il ricorso, ritenendo applicabile, anche in presenza d’intervento di recupero edilizio, la norma agevolativa prevista per gli immobili d’interesse storico e artistico di cui al D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5, conv. con L. n. 75 del 1993, dato il suo carattere di specialità rispetto alla norma generale di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5. Con la sentenza indicata in epigrafe, la C.T.R. respingeva l’appello principale del Comune e quello incidentale della contribuente, affermando che nella specie, come pacifico tra le parti, si trattava di lavori non di ristrutturazione, ma di “recupero abitativo del patrimonio esistente di cui alla L. n. 457 del 1978, art. 31 lett. b e c” (i soli autorizzabili dal Comune in relazione ad edificio storico), con conseguente inapplicabilità della L. n. 504 del 1992, posta a fondamento dell’atto impositivo.

Ricorre per cassazione il Comune con due motivi; resiste la contribuente con controricorso, nel quale propone anche ricorso incidentale, basato su due motivi.

A seguito di rimessione da parte della C.T.P. di Genova, la Corte costituzionale, con ordinanza n. 6 del 2003, resa in causa avente ad oggetto la medesima questione, ha osservato che il giudizio verte sulla determinazione della base imponibile ai fini ICI relativamente ad un immobile, sottoposto a vincolo storico-artistico, interessato da lavori di riattamento interno, debitamente autorizzati. Ha aggiunto che la rilevanza della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 5, comma 6, si fondava sull’implicito presupposto dell’applicabilità di tale norma alla fattispecie considerata e che, tuttavia il rimettente non dava conto dell’esistenza di altra norma – D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 2, comma 5 (convertito, con modificazioni, nella L. 24 marzo 1993, n. 75) – specificamente riguardante la determinazione della base imponibile per i fabbricati di interesse storico o artistico, ispirata ad una ratio di evidente favore per tali immobili la cui tassazione risulta, pertanto, inferiore a quella degli altri fabbricati. Secondo il Giudice delle leggi, la mancata indicazione delle ragioni per le quali il rimettente riteneva applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame la norma censurata anzichè quella relativa agli immobili di interesse storico o artistico, si traduceva in un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione, che andava perciò dichiarata manifestamente inammissibile.

Nella presente controversia, a seguito del monito emergente da detta ordinanza della Corte costituzionale, la C.T.P. ha espressamente ritenuto la norma agevolativa per i beni artistici “speciale” rispetto a quella relativa alla determinazione della base imponibile ICI di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6; tale impostazione risulta confermata dalla sentenza impugnata in questa sede, seppure non si sia esplicitamente pronunziata sul punto.

Rileva la Sezione che la sussistenza, o meno, del rapporto di specialità tra le norme in esame – che, come emerso nella discussione orale, possono reputarsi entrambe “speciali” rispetto al regime generale d’imponibilità ai fini ICI, ma ciascuna ad un precipuo fine – è alla base della soluzione delle questioni coinvolte dai motivi di diritto proposti nel presente giudizio.

In presenza dell’indicato monito del Giudice delle Leggi, potrebbe profilarsi una questione di massima di particolare importanza (art. 374 c.p.c.), riguardante la verifica in via interpretativa della sussistenza di detto rapporto di specialità, dato che, ad avviso di questo Collegio, la norma agevolativa di cui al D.L. 23 gennaio 1993, n. 16 (convertito, con modificazioni, nella L. 24 marzo 1993, n. 75), art. 2, comma 5, non appare necessariamente inquadrabile tra le norme che determinano la base imponibile, qual è, invece, il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6.

P.Q.M.
Rinvia la causa a nuovo ruolo, disponendo la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2010


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 29-04-2010) 15-06-2010, n. 14423

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – rel. Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30445/2006 proposto da:

COMUNE DI GERMIGNAGA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NAPOLI MARCO con studio in LUINO VIA B. LUINI 17 (avviso postale), giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

B.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 98/2005 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 29/07/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/04/2010 dal Consigliere Dott. EUGENIA MARIGLIANO;

udito per il ricorrente l’Avvocato PIO CORTI per delega Avv. NAPOLI MARCO, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo
In data 28.10.1991, l’U.T.E. di Varese revisionava gli estimi relativi ad un immobile, sito nel comune di Germignana, già destinato ad opificio e di proprietà di B.L.. Tali estimi venivano impugnati dalla contribuente innanzi alla C.T.P. di quella città.

Nelle more, il 6.12.1991, presentava denuncia di variazione di destinazione dello stesso immobile.

Con sentenza n. 207/12/99 del 29.10.1999 la C.T.P. annullava gli estimi impugnati, disponendo che l’U.T.E. di Varese rideterminasse la rendita; la sentenza diveniva definitiva l’8.7.2000.

L’U.T.E. non ottemperava a tale disposto in quanto, a seguito della denuncia di variazione della B., aveva già attribuito, in data 28.4.1999, una nuova rendita, non notificata alla contribuente nè pubblicata sull’albo pretorio.

In data 11.1.2001 la contribuente, venuta a conoscenza dei nuovi dati catastali, li impugnava innanzi alla C.T.P. Nel giudizio non si costituiva l’Agenzia del territorio, interveniva però il Comune di Germignana ad adiuvandum, eccependo l’inammissibilità del ricorso.

La C.T.P. dichiarava inammissibile il ricorso perchè proposto contro un atto inefficace. Proponeva gravame la contribuente, si costituivano sia l’Agenzia del territorio che il Comune di Germignana, che eccepiva l’inammissibilità dell’appello per omessa indicazione delle parti nei cui confronti era stata proposta l’impugnazione.

La C.T.R. respinta l’eccezione processuale, affermava che, poichè l’attribuzione della nuova rendita era stata effettuata il 28.4.1999 quindi anteriormente al 31.12.1999, la ricorrente era legittimata all’impugnativa entro i sessanta giorni dall’entrata in vigore della L. n. 342 del 2000, e, richiamata la sentenza definitiva n. 207/12/99, che aveva annullato le precedenti rendite e che aveva imposto all’U.T.E. di rideterminare le rendite, l’immobile non poteva essere considerato opificio per cui andava classificato come categoria C. Avverso detta decisione il Comune di Germignana propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, integrati da memoria. Le altre parti non risultano costituite.

Motivi della decisione
Con il primo motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, per non avere la C.T.R. dichiarato inammissibile l’appello, malgrado che quell’atto fosse privo dell’indicazione delle parti nei cui confronti era stata proposta l’impugnazione ed, in particolare, dell’indicazione del Comune di Germignana, pur intervenuto in quel procedimento.

La C.T.R. aveva deciso ritenendo che dal contesto dell’impugnazione si deduceva chiaramente che la controparte fosse l’Agenzia de territorio e che la contribuente non fosse tenuta a notificare l’appello a pena di inammissibilità anche al Comune.

Con la seconda censura si deduce la falsa applicazione della L. n. 342 del 2000, art. 74, nonchè insufficiente motivazione, per avere la C.T.R. affermato che l’U.T.E. aveva rideterminato la rendita a seguito della pronuncia definitiva della C.T.P. n. 207/12/99 del 29.10.1999 – 7.3.2000, mentre la messa in atti era stata eseguita in epoca precedente al 31.12.1999 e, quindi prima del passaggio in giudicato di detta sentenza.

Si sostiene, inoltre, che la rendita attribuita non poteva essere impugnata in quanto non era stata nè notificata alla parte, nè affissa sull’albo pretorio, per cui non poteva essere divenuta definitiva e, conseguentemente, non era applicabile la L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 2, ultima parte, ma solo il comma 3, che non prevede la riapertura dei termini per l’impugnazione, ma solo la possibilità per gli enti impositori di procedere alla liquidazione o all’accertamento delle imposte entro i termini di decadenza o prescrizione. Poichè nella specie, nessun atto impositivo era stato notificato alla contribuente, il ricorso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per mancanza dell’atto.

Il primo motivo di ricorso deve essere respinto.

Lamenta sostanzialmente il Comune la mancata notifica dell’appello nei suoi confronti pur essendo state parte nel giudizio di primo grado.

Nella specie la C.T.R. ha ritenuto che, pur non essendo state espressamente indicate le parti nell’atto di appello, tuttavia questo fosse ammissibile, dato che dall’epigrafe e dal contesto dello stesso si evinceva in modo inequivocabile che la parte appellata fosse l’Agenzia del territorio; riteneva peraltro irrilevante la mancata indicazione anche del Comune, interventore ad adiuvandum in primo grado.

Tale ultima considerazione è errata, infatti, in tema di contenzioso tributario ed in ipotesi di litisconsorzio, per l’esistenza di una situazione che comporti l’obbligo di chiamare in causa anche in appello, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., tutte le parti presenti nella prima fase del processo, è necessario che i rapporti dedotti in causa siano inscindibili, non suscettibili di soluzioni differenti nei confronti delle varie parti del giudizio, o che due (o più) rapporti dipendano logicamente l’uno dall’altro, o da un presupposto di fatto comune, in modo tale da non consentire razionalmente l’adozione nei confronti delle diverse parti di soluzioni non conformi perchè comporterebbero capi di decisione logicamente in contraddizione tra loro.

Anche nel processo tributario, che espressamente ammette l’istituto dell’intervento D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 14, – nei limiti ivi indicati -, l’intervento adesivo dipendente determina un’ipotesi di causa inscindibile, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., con conseguente configurabilità di un litisconsorzio necessario processuale in grado di appello. L’omessa notifica dell’impugnazione al litisconsorte necessario non comporta però l’inammissibilità del gravame (tempestivamente proposto nei confronti dell’altra parte), ma soltanto l’esigenza dell’integrazione del contraddittorio per ordine del giudice e, in mancanza di questo, la nullità dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità. Pertanto la mancata notifica dell’impugnazione all’interventore non comporta l’inammissibilità dell’appello, dovendo il giudice nell’ambito del suo dovere di verificare la regolarità della costituzione del contraddittorio, ordinarne l’integrazione.

Tuttavia,nella specie, pur in assenza da parte del giudice di tale ordine, poichè la parte, pur non intimata, era presente nel giudizio di secondo grado, con la propria costituzione ha sanato la nullità del giudizio, anche perchè dal disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, – secondo il quale “il ricorso in appello è proposto… nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado…” non si deduce che l’inosservanza di questa prescrizione sia sanzionata con la nullità, sia perchè comunque, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., nessuna nullità può essere comminata se non espressamente prevista o quando comunque l’atto ha raggiunto il suo scopo.

Anche il secondo motivo è infondato.

E’ pur vero che la C.T.R. ha errato nel affermare che l’U.T.E. aveva rideterminato la rendita a seguito della pronuncia definitiva della C.T.P. n. 207/12/99 del 29.10.1999 – 7.3.2000, mentre la messa in atti della rendita impugnata in questo procedimento non poteva essere eseguita in ottemperanza di quel comando giudiziario in quanto era stata effettuata in epoca precedente alla data della pronuncia e del passaggio in giudicato di quella sentenza. Tuttavia la mancata inottemperanza di quel giudicato è assolutamente irrilevante, in quanto a seguito dell’istanza di attribuzione di una nuova rendita per variazione della consistenza dell’immobile, l’adeguamento della vecchia rendita sarebbe stata del tutto inutile e priva di efficacia, stante la necessità di adeguare la stessa alla nuova situazione di fatto.

E’, invece, conforme a diritto la pronuncia della C.T.R. relativa alla legittimità e tempestività dell’impugnativa della rendita messa in atti il 28.4.1999 e, quindi, anteriormente al 31.12.1999; infatti ai sensi della L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 2, ultimo periodo, la ricorrente era legittimata all’impugnativa entro i sessanta giorni dall’entrata in vigore di tale normativa, non potendosi dedurre, nel silenzio della legge, come, invece, sostenuto dal Comune ricorrente, che fosse necessario che la rendita fosse stata notificata al contribuente o che fosse stata recepita in un atto impositivo.

Tutto ciò premesso e dichiarata assorbita ogni altra censura, il ricorso deve essere respinto. Non si fa luogo alla liquidazione delle spese, poichè le parti intimate non hanno svolto alcuna attività difensiva in questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, il 29 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2010


Corte Suprema di Cassazione, Sez. V Trib., n. 14373 del 15.06.2010

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

E.M., elettivamente domiciliata in Torino, in via XX Settembre n. 62, presso l’avv. GENTILLI GIORGIO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CASALBORGONE, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. CAPIROSSI MASSIMO ed elettivamente domiciliato in Roma al Lungotevere dei Mellini n. 44, presso l’avv. Salvatore Mileto;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 25/32/03, depositata il 30 ottobre 2003;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3 febbraio 2010 dal Relatore Cons. Dott. Antonio Greco;

Uditi l’avv. Salvatore Mileto per la ricorrente ed il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per il rigetto del primo e del sesto motivo del ricorso e per l’accoglimento dei restanti.

Svolgimento del processo

E.M. impugnò l’atto con il quale il Comune di Casalborgone le richiedeva il pagamento, per L. 163.000, della t.a.r.s.u. dell’anno 2000, dopo aver provveduto al pagamento del tributo, ed impugnò assieme ad esso la delibera della Giunta comunale, il ruolo, e la comunicazione di iscrizione a ruolo, considerata equipollente alla cartella esattoriale, e perciò compresa nell’elenco degli atti impugnabili di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19. Chiese in via preliminare di dichiarare l’inesistenza dell’iscrizione a ruolo, ed in via principale di annullarla per carenza di potere del soggetto sottoscrittore.

Il Comune si costituì chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso in quanto l’atto, una semplice comunicazione, non iscritta a ruolo, non era impugnabile.

In primo grado il ricorso era dichiarato inammissibile perchè l’atto impugnato, non avente le caratteristiche nè di avviso di liquidazione nè di cartella esattoriale e neppure di ruolo, non era compreso nell’elenco, da ritenersi tassativo, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19.

La Commissione tributaria regionale del Piemonte rigettava l’appello della E., ritenendo non impugnabile l’atto contestato: non essendo questo di per sè destinato a produrre alcun effetto giuridico, il contribuente non aveva alcun interesse a proporre ricorso avverso di esso.

Nei confronti della decisione la contribuente propone ricorso per cassazione articolato in sette motivi.

Il Comune di Casalborgone resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria.

Motivi della decisione

Col primo motivo la ricorrente censura la sentenza, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, per la mancata integrazione del contraddittorio al concessionario per la riscossione, trattandosi di causa inscindibile.

Il motivo è infondato, in quanto “il fatto che il contribuente venga a conoscenza del ruolo, formato dall’ente locale, soltanto tramite la notificazione dello stesso ad opera del concessionario della riscossione, non determina nel processo tributario, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 14, comma 1, una situazione di litisconsorzio necessario, nè sostanziale nè processuale, tra l’ente impositore ed il concessionario stesso, atteso che quest’ultimo (a parte l’esercizio dei poteri propri, volti alla riscossione delle imposte iscritte nel ruolo), nell’operazione di portare a conoscenza del contribuente il ruolo, dispiega una mera funzione di notifica, ovverosia di trasmissione al destinatario del titolo esecutivo così corre (salva l’ipotesi di errore materiale) formato dall’ente e, pertanto, non è passivamente legittimato a rispondere di vizi propri del ruolo, come trasfuso nella cartella” (Cass. n. 933 del 2009, n. 10580 del 2007).

Con il secondo motivo censura la sentenza, per violazione di legge e vizio di motivazione, per aver considerato non autonomamente impugnabile il ruolo, atto di natura impositiva e come tale impugnabile secondo la previsione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 1, lett. d), prima parte.

Con il terzo motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, deduce che l’atto, qualificato “comunicazione di iscrizione a ruolo” – e non notificazione di iscrizione a ruolo, per essere stato “recapitato per posta ordinaria e non tramite notifica” -, è comunque atto autonomamente impugnabile, in base al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 32, comma 1, lett. a).

Con il quarto motivo critica la sentenza, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, per aver affermato come nella specie il contribuente non avesse interesse ad impugnare l’atto in quanto destinato di per sè a non produrre alcun effetto giuridico, evidenziando le ragioni di interesse a promuovere azione a tutela della propria situazione giuridica.

Con il quinto motivo lamenta la violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 2, lett. c), e art. 10, nonchè vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata affermato che la comunicazione impugnata indicava espressamente che “contro di essa non è ammesso ricorso giurisdizionale”, negando così “l’esistenza di un organo giurisdizionale da adire per la tutela della propria situazione giuridicamente rilevante”, e per aver fatto proprie le considerazioni dell’ente impositore secondo cui, una volta effettuato spontaneamente il pagamento, non vi sarebbe alcuna cartella esattoriale, e quindi la possibilità di tutelarsi in sede giurisdizionale, se non presentando istanza di rimborso ed impugnando il provvedimento, tacito o espresso, di rifiuto.

Col sesto motivo lamenta, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, che in primo grado la procura ad litem dell’ente impositore sia stata rilasciata nei confronti di ” G.R.”, e non di E.M., attuale ricorrente. La circostanza che con unica delibera la Giunta comunale abbia autorizzato il Sindaco a resistere in diciotto procedimenti nei confronti di altrettanti contribuenti non toglierebbe che mentre l’atto di giunta è atto generale, la procura ad litem risulterebbe essere un atto specifico. Non essendosi espresso il giudice d’appello sul punto, la sentenza dovrebbe essere cassata per omessa pronuncia.

Con il settimo motivo censura per ultra petizione il regolamento delle spese tanto in primo che in secondo grado.

Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, che vanno esaminati congiuntamente perchè strettamente connessi, sono fondati.

Le sezioni unite di questa Corte hanno affermato – in un giudizio analogo, nel quale era parte il Comune qui controricorrente – che nel processo tributario sono qualificabili come avvisi di accertamento o di liquidazione, impugnabili ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, tutti quegli atti con cui l’Amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, ancorchè tale comunicazione non si concluda con una formale intimazione di pagamento, sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto, non assumendo alcun rilievo la mancanza della formale dizione “avviso di liquidazione” o “avviso di pagamento” o la mancata indicazione del termine o delle forme da osservare per l’impugnazione o della commissione tributaria competente, le quali possono dar luogo soltanto ad un vizio dell’atto o renderlo inidoneo a far decorrere il predetto termine, o anche giustificare la rimessione in termini del contribuente per errore scusabile (Cass. sez. unite, 24 luglio 2007, n. 16293).

Nell’ambito di questa impostazione di diritto, che l’ente impostore non può riedificare a suo piacimento dichiarando “non impugnabili” atti che impugnabili sono, spetta al giudice di merito sceverare con congrua motivazione gli atti impositivi dagli atti che impositivi non sono, esaminando gli aspetti sostanziali dell’atto, che possono non trovare compiuta corrispondenza nei suoi aspetti formali.

Nella presente controversia è sufficiente rilevare come la sentenza impugnata sottolinei che “la comunicazione” impugnata contiene la determinazione della esatta somma dovuta dal contribuente, indicando che “in mancanza del suo pagamento seguirà l’iscrizione a ruolo” e che per chiarimenti, “richieste di sgravio o di rimborso il contribuente può rivolgersi all’ente impositore”, elementi dai quali è ragionevole dedurre che ci si trovi di fronte alla comunicazione di una pretesa impositiva, di guisa che l’atto si atteggia come una vera e propria liquidazione dell’imposta, che incide sulla posizione patrimoniale del contribuente.

L’accoglimento dei detti motivi comporta l’assorbimento dell’esame del quinto e del settimo motivo.

Il sesto motivo, concernente l’erronea indicazione del contribuente ricorrente in primo grado nei confronti del quale l’ente impositore avrebbe conferito la procura ad litem, è invece infondato, atteso che non risulta che il rilievo sia stato riproposto in appello con specifico riferimento alla contribuente appellante E.M. nè che sia stato dibattuto nel merito.

In conclusione, vanno accolti il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso, assorbito l’esame del quinto e del settimo motivo, e vanno rigettati il primo ed il settimo motivo; la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Piemonte, la quale procederà ad un nuovo esame della controversia uniformandosi ai principi sopra enunciati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso, assorbiti il quinto ed il settimo, rigetta il primo ed il sesto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte.


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 25-02-2010) 15-06-2010, n. 14389

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

su ricorso (iscritto al n. 18902/05 di R.G.) proposto da:

Comune di Castelrotto (BZ), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma alla Via Bassano del Grappa n. 24 presso lo studio dell’avv. COSTA MICHELE che lo rappresenta e difende, insieme con l’avv. Alfred MUSLER (del Foro di Bolzano), in forza della procura speciale rilasciata a margine della seconda facciata del ricorso;

– ricorrente –

contro

O.A., elettivamente domiciliato in Roma alla Via Federico Confalonieri n. 5 presso lo studio dell’avv. MANZI ANDREA che lo rappresenta e difende in forza della procura speciale rilasciata a margine (della seconda facciata) del controricorso;

– controricorrente –

nonchè sul ricorso incidentale (iscritto ai n. 24149/05 di R.G.) proposto da:

O.A., come innanzi rappresentato e difeso;

– ricorrente incidentale –

contro

il Comune di Castelrotto (BZ);

– intimato –

entrambi i ricorsi avverso la sentenza n. 15/03/05 depositata il 2 maggio 2005 dalla Commissione Tributaria di secondo grado di Bolzano, notificata il giorno 11 maggio 2005;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 febbraio 2010 dal Cons. Dott. Michele D’ALONZO;

sentite le difese delle parti, perorate dall’avv. Michele COSTA, per il Comune, e dall’avv. Salvatore Di Matteo (delegato), per l’ O.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE NUNZIO Wladimiro, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, con assorbimento di quello incidentale.

Svolgimento del processo
Con ricorso notificato a O.A. il giorno 8 luglio 2005 (depositato il 26 luglio 2005), il Comune di Castelrotto (BZ) – premesso che con delibera del 6 ottobre 2003 la sua Giunta aveva dichiarato che “l’abitazione” nella quale l’ O. (con lettera del 19 maggio 2003) aveva indicato di “dimorare per la maggior parte dell’anno” (nel mentre “la moglie”, “assieme alle figlie comuni”, “dimorava nel di lei appartamento a (OMISSIS), per il quale… fruiva dell’agevolazione sull’abitazione principale da parte del Comune di Bolzano”) “non poteva considerasi abitazione principale ai sensi della Delib. Consiliare n. 81 del 2000 risp…. e dell’art. 4 regolamento ICI, negandogli di conseguenza l’applicazione dell’aliquota ridotta prevista per le abitazioni principali” -, in forza di cinque motivi, chiedeva, di cassare la sentenza n. 15/03/05 della Commissione Tributaria di secondo grado di Bolzano (depositata il 2 maggio 2005, notificata il giorno 11 maggio 2005) che aveva accolto l’appello dell’ O. avverso la decisione (24/01/04) della Commissione Tributaria di primo grado dello stesso capoluogo la quale aveva respinto il ricorso del contribuente.

Nel controricorso notificato il 30 settembre 2005 (depositato il 17 ottobre 2005), l’ O. instava per il rigetto dell’impugnazione del Comune e spiegava ricorso incidentale condizionato fondato su un solo motivo.

L’ O. ed il Comune depositavano le rispettive memorie ex art. 378 c.p.c., il 17 ed il 19 febbraio 2010.

Motivi della decisione
1. In via preliminare, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., deve essere disposta la riunione del ricorso incidentale dell’ O. all’anteriore proposto dal Comune siccome avente ad oggetto l’impugnazione della medesima sentenza.

2. Con questa la Commissione Tributaria Regionale – esposto (a) che l’art. 4 del regolamento comunale ICI recepiva la definizione di “abitazione principale” contenuta nel D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e (b) che “con provvedimento dd. 20 aprile 1994 il Commissario del Governo… statuiva che il sig. O. trascorre la maggior parte dell’anno nella propria abitazione nel comune di Castelrotto, che per tale motivo si realizza il requisito della dimora abituale e quindi che esistono le condizioni per l’iscrizione anagrafica nel Comune di Castelrotto” – ha accolto l’appello del contribuente osservando:

– “il sig. O…. risulta… da allora iscritto nel registro dell’anagrafe del Comune di Castelrotto senza che quest’ultimo abbia mai fornito la prova od indizio… di una modifica di tale dimora abituale”;

– “anche in considerazione dell’art. 2129 c.c., si deve presumere che il sig. O. … effettivamente dimora abitualmente nel Comune di Castelrotto e non a Bolzano”, per cui “il ricorrente… adempie… tutti i presupposti previsti dall’art. 4 del regolamento comunale ICI per poter usufruire delle agevolazioni fiscali per la sua abitazione sita nel territorio comunale”, della quale “è proprietario”;

– “la circostanza che la moglie del ricorrente sia proprietaria di un appartamento in Bolzano e che ivi dimori abitualmente non ha alcuna rilevanza sull’agevolazione fiscale da concedere dal Comune di Castelrotto” perchè “se l’art. 4 venisse interpretato come richiesto dal Comune, nè l’appellante nè sua moglie potrebbero mai usufruire dell’agevolazione fiscale prevista per l’abitazione principale”. 3. Il Comune censura tale decisione con cinque motivi.

A. Con il primo l’ente impositore denunzia “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 3, per omessa sottoscrizione in originale della copia del ricorso depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria” affermando che “la sentenza impugnata non prende assolutamente in considerazione l’eccezione formulata… nell’appello incidentale”.

B. Con il secondo motivo il Comune denunzia “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 12, comma 3”, per invalidità della “procura alle liti… perchè non apposta in originale sul ricorso” esponendo che “anche con riguardo a tale eccezione formulata in secondo grado… il giudice non si esprimeva, mentre il giudice di primo grado l’aveva rigettata”: per il ricorrente “anche la firma del difensore per autenticare la sottoscrizione della procura alle liti (cfr. Cass. n. 5295/2001) deve essere apposta in originale sulla copia del ricorso depositato in segreteria”.

C. Con il terzo motivo l’ente denunzia “violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 112 e 277 c.p.c.”, nonchè “omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia” sostenendo che il giudice di appello ha violato detto “combinato disposto” perchè “ha omesso di pronunciarsi su una domanda (rectius eccezione) propostagli” non avendo preso “assolutamente in considerazione l’appello incidentale… relativamente all’eccezione d’inammissibilità del ricorso introduttivo per la mancata sottoscrizione in originale della copia dello stesso, depositata presso la segreteria della Commissione Tributaria”, “nonostante il giudice di primo grado avesse espressamente statuito sul punto” e “accertato” che la “copia… depositata in segreteria non recava in calce alla delega la firma in originale, nè del ricorrente nè del procuratore”, “detta omissione di pronuncia rileva anche agli effetti della omessa motivazione su un punto decisivo della controversia”.

D. Con il quarto motivo il Comune – esposto di aver contestato e di contestare “tutt’ora anche il fatto che il sig. O. dimori abitualmente a (OMISSIS)”) – denunzia “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 8, comma 2, nonchè dell’art. 4 del regolamento ICI” esponendo che per tali norme “un’abitazione”, “ai fini della qualifica ad abitazione principale”, deve rappresentare “non solo la dimora abituale del contribuente… ma anche dei suoi familiari” per cui “la circostanza che i familiari” dell’ O. “non dimorano abitualmente nell’abitazione di quest’ultimo a (OMISSIS)” comporta “il venir meno di uno dei due presupposti richiesti dalla legge” e dal regolamento ICI “per la qualifica di un’abitazione quale abitazione principale” e “rende del tutto superflua la questione se il sig. O. stesso dimori o meno abitualmente nella sua abitazione a (OMISSIS)”.

E. Con il quinto (ultimo) motivo il ricorrente denunzia “insufficiente motivazione circa l’effettiva dimora abituale a (OMISSIS) del sig. O.” sostenendo “non corrisponde(re) affatto alla realtà” che il contribuente “dimori abitualmente a (OMISSIS) e non assieme alla sua famiglia a (OMISSIS)” perchè (in sintesi), “come dimostrato… mediante la documentazione prodotta in primo grado”, quella dell’ O. in (OMISSIS) è una “mera abitazione di villeggiatura” e non “un’abitazione principale”. 4. L’ O., a sua volta, propone ricorso incidentale condizionato con il cui unico motivo denunzia “violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 112 e 277 c.p.c.” (anche “in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”) adducendo che il giudice di appello ha “illegittimamente esteso la propria indagine a circostanze nuove rispetto a quelle originariamente invocate dal’amministrazione comunale” atteso che “il provvedimento… impugnato non era… stato motivato con ragioni attinenti all’asserita mancanza di dimora abituale (di esso) O. nella sua abitazione a (OMISSIS)”. 5. Dei ricorso proposto dal Comune deve essere accolto, perchè fondato, solo il quarto motivo; i primi tre (scrutinabili congiuntamente), invece, vanno respinti; l’esame del quinto motivo resta assorbito dall’accoglimento detto.

Il ricorso incidentale del contribuente, invece ed in aderenza all’accoglimento del gravame principale, deve essere disatteso.

A. La terza censura – a prescindere dall’accertamento della effettiva sua sussistenza – denunzia, nella sostanza, un vizio privo di qualsivoglia rilevanza – comunque non idoneo, da solo, a determinare la cassazione della sentenza impugnata – atteso che essa, giusta quanto espone lo stesso ricorrente, investe soltanto la interpretazione delle norme invocate dal medesimo.

In tale ipotesi, però, in ossequio al disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 2, (numerazione dei commi applicabile alla specie ratione temporis anteriore a quella introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12) – per il quale “non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto” -, questa Corte, una volta riscontrata la rispondenza “al diritto” del dispositivo adottato nella sentenza impugnata, non può procedere alla cassazione di quest’ultima in quanto il positivo riscontro di detta conformità consente soltanto di “correggere la motivazione” della stessa.

Il vizio denunziato, peraltro, non potrebbe portare alla cassazione della decisione gravata che ne fosse affetta neppure in ipotesi di riscontrata non rispondenza del suo dispositivo “al diritto” atteso che l’ultimo inciso del medesimo art. 384 c.p.c., comma 1, (numerazione detta) impone a questo giudice di legittimità di decidere “la causa nel merito” tutte le volte che “non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”, “accertamenti”, di norma, non necessari quando la doglianza involge esclusivamente (come nella censura in esame) questioni di diritto.

B. Le prime due doglianza investono la “copia” del ricorso di primo grado “depositata” dal contribuente presso la segreteria della commissione di primo grado di Bolzano.

Il Comune – sulla scorta del principio enunciato da questa Corte nelle decisioni dallo stesso indicate (in appresso esaminate) – sostiene l’inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio perchè detta “copia” e la “procura alle liti” contenuta nella stessa non recano la sottoscrizione “in originale”.

A sostegno si invoca:

(1) il disposto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 18, comma 3, per il quale (1) “il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del ricorrente e contenere l’indicazione dell’incarico a norma dell’art. 12, comma 3, salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente, nel qua caso vale quanto disposto dall’art. 12, comma 6”, e (2) “la sottoscrizione del difensore o detta parte deve essere apposta tanto nell’originale quanto nelle copie del ricorso destinate alle altre parti, fatto salvo quanto previsto dall’art. 14, comma 2” (art. 14, comma 2: “se il ricorso non è stato proposto da o nei confronti di tutti i soggetti indicati nel comma 1 è ordinata l’integrazione del contraddittorio mediante la loro chiamata in causa entro un termine stabilito a pena di decadenza” ), nonchè (2) quello dell’art. 12, comma 3, del medesimo D.Lgs. secondo cui “ai difensori… deve essere conferito l’incarico… anche in calce o a margine di un atto del processo, nel qual caso la sottoscrizione autografa è certificata dallo stesso incaricato”.

B.1. Specificamente in ordine all’inciso “la sottoscrizione del difensore o della parte deve essere apposta tanto nell’originale quanto nelle copie del ricorso destinate alle altre parti”, invero, questa sezione – sentenza 21 marzo 2001 n. 4051 resa propriamente in fattispecie di atto (ricorso) di “appello” che “nell’originale e nella copia depositata reca in calce al testo soltanto la… sottoscrizione” del “ricorrente” e non pure “quella del difensore a mezzo del quale era stato proposto” (anche se “il difensore…, nell’originale, aveva certificato l’autografia della procura”), da cui gli excerpta che seguono, come la conforme n. 5295 depositata il 9 aprile 2001 – ha statuito che “il ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, nella disciplina del D.Lgs. n. 546 del 1992, ove direttamente proposto per mezzo del servizio postale o con consegna all’ufficio finanziario, è inammissibile, quando manchi la sottoscrizione dell’autore dell’atto (la parte od il suo difensore) nella copia depositata con la costituzione in giudizio, indipendentemente dall’eventualità che la controparte non contesti la sottoscrizione dell’originale” osservando che l’”innovazione” “rispetto alle norme del previgente D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, (artt. 15 e 22)” costituita dalla affermata necessità (attesa la comminata “inammissibilità”) della sottoscrizione del ricorso “tanto nell’originale quanto nella copia”, va col legata “alle disposizioni riguardanti le modalità di proposizione del ricorso (in primo grado od in appello) e di costituzione della parte attrice (D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 20 e 22, richiamati dal successivo art. 53)” atteso che “nelle ipotesi di notificazione diretta, l’originale rimane al destinatario” per cui “il ricorrente dispone soltanto della copia, e deve depositarla, al momento della costituzione in giudizio, nella segreteria della commissione adita, con dichiarazione di conformità all’originale (art. 22)”: “detta copia, in quelle ipotesi, è dunque l’unico documento sul quale il giudice può effettuare il doveroso controllo sull’esistenza e validità dell’atto d’impulso processuale, a differenza di quanto si verifica in caso di notificazione per ufficiale giudiziario, con deposito in sede di costituzione dell’originale, ovvero si verificava nel rito anteriore, in cui l’atto doveva essere spedito o consegnato alla segreteria della commissione” e “le indicate peculiarità spiegano l’onere della sottoscrizione anche della copia, con previsione d’inammissibilità del ricorso in assenza di essa, ed al contempo superano i sospetti d’illegittimità costituzionale…, perchè la diversità di disciplina trova base logica nella circostanza che soltanto la copia è inclusa nel fascicolo processuale e consente il predetto controllo”.

Nella medesima decisione si è, altresì, osservato che “non può evitare l’inammissibilità” detta neppure “il fatto che la parte evocata in giudizio non contesti la sottoscrizione dell’originale in suo possesso (come in quella specie, in relazione all’idoneità della firma del difensore per autenticazione della procura ad integrare firma dell’intero atto)” in quanto “le norme sui requisiti di forma indispensabili per l’attivazione del giudizio rispondono ad interessi anche pubblicistici, hanno carattere imperativo e si sottraggono alla disponibilità dei contendenti, e che, quindi, il riscontro officioso della loro inosservanza non trova ostacolo nel comportamento difensivo delle parti”.

Sulla stessa scia, nella successiva sentenza 10 gennaio 2004 n. 205 (al fine di “stabilire se la mancata sottoscrizione del ricorso (esemplare depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale) sia causa di inammissibilità del medesimo”) si è ribadito che “il ricorso introduttivo del giudizio tributario è inammissibile tutte le volte in cui manchi, nella copia depositata con la costituzione in giudizio, la sottoscrizione dell’autore dell’atto, cioè della parte ovvero il suo difensore, indipendentemente dalla circostanza che la controparte non contesti la sottoscrizione dell’originale”.

La tesi è stata, infine, ancor di recente sostanzialmente riaffermata da Cass., trib., 18 giugno 2009 n. 14117.

B.2. Siffatti principi – diversamente da quanto (peraltro immotivatamente) ritenuto anche da Cass., trib., 22 marzo 2006 n. 6591 – non sono affatto condivisibili perchè gli stessi, fondamentalmente, non considerano (1) che le “copie del ricorso”, di cui l’art. 18 impone la sottoscrizione a pena di inammissibilità, sono soltanto quelle “destinate alle altre parti” – quindi le copie impiegate per la “notificazione” (nel senso del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, per il quale “le notificazioni possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento”, “ovvero”, se dirette ad un “ufficio” tributario od all’”ente locale”, “mediante consegna dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia”) del medesimo ricorso a dette “altre parti” – e (2) che nella previsione (certamente in senso tecnico) delle “altre parti” del processo, giusta la identificazione delle stesse operata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, non è compreso, nè può essere compreso, il giudice perchè soggetto (come le parti) del processo ma non parte dello stesso processo, attesa anche la necessaria sua posizione (art. 111 Cost.) di terzo rispetto a quelle.

Di conseguenza (tenuto conto della sua finalità, quale univocamente desumibile dal tenore letterale e dalla collocazione della stessa) la norma indicata (ed invocata dal Comune ricorrente) regola unicamente (e si applica, quindi, soltanto al)l’ipotesi di ricorso proposto contro più parti (come, ad esempio, in caso di ricorso proposto contro l’ente impositore e il concessionario della riscossione o di appello proposto non da tutti i litisconsorzi necessari e da notificare agli stessi per l’integrità del contraddittorio), non già alla “costituzione in giudizio del ricorrente” (e/o dell’appellante, tenuto conto del disposto del successivo art. 53, comma 2: “il ricorso in appello… deve essere depositato a norma dell’art. 22, commi 1, 2 e 3”), perchè l’attività di “costituzione in giudizio del ricorrente” è specificamente, nonchè diversamente, regolata dal medesimo D.Lgs. del 1992, art. 22, per il comma 1, del quale, per quanto interessa, “il ricorrente” deve depositare (“entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità” ), “nella segreteria della commissione tributaria adita” (ovvero trasmettere “a mezzo posta, in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento”) “l’originale del ricorso” se “notificato a norma dell’art. 137 c.p.c. e segg.”, ovvero “copia del ricorso consegnato o spedito per posta”, con la precisazione (comma 3) che “in caso di consegna o spedizione a mezzo di servizio postale la conformità dell’atto depositato a quello consegnato o spedito è attestata conforme dallo stesso ricorrente” e l’ulteriore specificazione che “se l’atto depositato nella segreteria della commissione non è conforme a quello consegnato o spedito alla parte nei cui confronti il ricorso è proposto, il ricorso è inammissibile e si applica il comma precedente” (“l’inammissibilità del ricorso è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche se la parte resistente si costituisce a norma dell’articolo seguente”).

B.3. La portata del contestato principio richiamato innanzi (supra, sub B.1.), peraltro, è già stata (opportunamente) precisata e delimitata nella già richiamata decisione n. 6391 del 2006 – seguita anche da Cass., trib., 14 maggio 2007 n. 10958 nonchè dalla coeva 30 giugno 2006 n. 15159 che richiama l’analoga decisione n. 21170 del 30 ottobre 2005, anch’ essa sulla specifica, significativa fattispecie (nella stessa esaminata) di rovesciamento dell’ordine procedimentale determinato dalla consegna (da parte del ricorrente) della copia dell’atto, anzichè dell’originale, all’ufficio e dal deposito dell’originale, in luogo della copia conforme, presso l’organo giurisdizionale – nel senso che la “mancanza di sottoscrizione” sanzionabile con l’inammissibilità del ricorso “va intesa in modo davvero radicale, ossia” solo “come mancanza materiale del requisito imposto dalla legge”.

La sentenza del 2006, invero, ha giustamente evidenziato che la sanzione dell’”inammissibilità” del ricorso (“rilevabile d’ufficio”; non sanata nè sanabile neppure dalla costituzione in giudizio del resistente) “appartiene al novero di quelle c.d. forti”, cioè delle sanzioni “caratterizzate dalla insanabilità del vizio”, e, pertanto, per il suo “rigore sanzionatorio”, la portata della stessa – tenuto “presente l’insegnamento fornito dalla corte costituzionale, con particolare riguardo al processo tributario, secondo il quale le disposizioni processuali tributarie devono essere lette in armonia con i valori della tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità” (sentenze nn. 189 del 2000 e 520 del 2002) e di cui questa Corte ha già fatto applicazione nella materia di cui all’art. 22 cit. (v. la sent. n. 18088 del 2004) – deve essere intesa (cfr., sul punto, Cass., trib., 31 ottobre 2005 n. 21170) “in senso restrittivo”, cioè “riservando” ad essa “un limitato campo di operatività, comprensivo cioè di quei soli casi nei quali il rigore estremo dell’inammissibilità (vera e propria ex tre ma rado) è davvero giustificato”.

“La previsione di inammissibilità” – si è statuito con detta sentenza (come nelle altre innanzi ricordate) -, quindi, “deve farsi conseguire solo là dove e nei limiti in cui la mancanza della sottoscrizione sia effettiva, non quando essa risulti presente per relationem, attraverso il rinvio implicito dalla fotocopia all’atto (originale) depositato” (in detta ipotesi erroneamente) “presso la segreteria dell’Ufficio e questa conformità non sia stata contestata o, se anche lo sia stata, essa è comunque infondata”: a maggior ragione, pertanto, deve ritenersi ed affermarsi che non può sanzionarsi con l’inammissibilità la pretesa mancanza di sottoscrizione “in originale” della copia del ricorso da depositare e depositata presso la segreteria del giudice tributario, in ordine alla quale copia l’art. 22, comma 3, prescrive, come visto, che il ricorrente attesti esso stesso, unicamente, “la conformità dell’atto depositato” (quindi della “copia”) a “quello” (costituente l’”originale”) “consegnato o spedito” alla controparte.

B.4. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, peraltro, come perspicuamente evidenziato nella più volte richiamata sentenza n. 6391 del 2006, “fornisce la chiave di volta dell’intero regime delle inammissibilità del ricorso introduttivo o dell’appello” allorchè (comma 5) stabilisce che “ove sorgano contestazioni il giudice tributario ordina l’esibizione degli originali degli atti e dei documenti di cui ai precedenti commi”, quindi ed in particolare, anche ove le “contestazioni” riguardino la conformità all’originale della copia del ricorso depositata nella segreteria: per tale decisione, infatti, l’inciso detto stabilisce “una sorta di possibile causa di esclusione della sanzione (… vera e propria extrema ratio) quando vi sia modo di accertare la sostanziale regolarità dell’atto e l’osservanza delle regole processuali fondamentali”, in particolare “l’esistenza della sottoscrizione della parte e del difensore del ricorrente” nell’”originale” del ricorso.

Specificamente in ipotesi di deposito, quale copia del ricorso, della fotocopia dell’originale (recante in calce “chiaramente leggibile la firma del difensore” e “l’attestazione di conformità alla copia (recte: originale) consegnata all’ente impositore”, nella sentenza 15 marzo 2004 n. 5257 di questa sezione – ricordato aver la Corte affermato, “con riguardo all’atto di citazione”, che “lo stesso non è affetto da nullità quando nella copia notificata la firma del difensore sia riprodotta soltanto fotostaticamente e tale atto contenga inoltre (…) le indicazioni che ne evidenziano la provenienza dal difensore munito di mandato (Cass. 6480/1998; altresì, Cass. 10491/1994)” – si è condivisibilmente statuito che quella copia non è un “un atto del tutto privo di sottoscrizione” per cui non “opera la sanzione della inammissibilità D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 18, commi 3 e 4”.

B.5. In conclusione, deve affermarsi che la mancata sottoscrizione “in originale” della copia del ricorso depositata dal ricorrente presso la segreteria del giudice tributario, denunziata dal Comune, non costituisce affatto irregolarità di tale copia perchè il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, richiede soltanto che la parte e/o il suo difensore (quando e se nominato) attestino la conformità di tale copia all’originale dello stesso ricorso spedito o consegnato alla controparte, e, comunque, perchè l’eventuale “irregolarità” afferente a quella mancanza non integra affatto una “nullità insanabile” avendo di certo lo stesso Comune (che tanto non ha contestato) potuto e dovuto riscontrare l’esistenza della firma della parte (e/o del suo difensore) nell’originale del ricorso ad esso spedito e/o consegnato.

B.6. In ordine, poi, alla irrilevanza giuridica della mancanza della sottoscrizione “in originale” della procura (sempre nella copia depositata) – nonostante il contrario (isolato) avviso espresso da questa sezione (Cass., trib., 5 marzo 2010 n. 5371), non condivisibile sia per l’esegesi del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 22, innanzi svolta sia per le ragioni che seguono – va ribadito (Cass. trib., 6 giugno 2007 n. 13208) esser sufficiente “che la sottoscrizione della parte sia contenuta nell’originale e sia seguita dall’autenticazione del difensore e che la copia notificata contenga” soltanto “elementi idonei a dimostrare la provenienza dell’atto da difensore munito di procura speciale, come la trascrizione o l’indicazione del mandato (ex multis Cass. 5323/04, 13369/03, 15072/01)” per cui “la sottoscrizione della procura (come pure dell’autenticazione del difensore)” deve esser “sempre rilevata con riferimento all’originale dell’atto e non alla copia notificata”.

Già in precedenza, peraltro, in applicazione al processo tributario dei principi sviluppati per quello civile ordinario – per i quali “non occorre che la procura sia integralmente trascritta nella copia notificata all’altra parte, ben potendosi pervenire, attraverso altri elementi, alla ragionevole certezza che il mandato sia stato conferito prima della notificazione dell’atto (cfr. Cass. civ. sentt. nn. 15173 del 2001 e 15354 del 2004)” – si è precisato (Cass., trib., 12 aprile 2006 n. 8601, da cui gli excerpta) che “la conformità del ricorso rispetto all’originale notificato dal contribuente all’ufficio impositore deve riguardare il contenuto dell’atto” per cui “deve ritenersi sufficiente l’apposizione” (nella copia) di una “nota che attesti la presenza… sull’originale” del “mandato rilasciato al difensore”.

C. In ordine alla questione propriamente di merito (accertamento della spettanza, al contribuente, per l’immobile posseduto nel territorio del Comune ricorrente, della stessa) va ribadito che anche la particolare “detrazione” prevista, all’epoca (anno 2003) cui si riferisce la pretesa fiscale dedotta in giudizio, dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 8, comma 2, per l’”unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo” (per la nozione di “unità immobiliare” ai fini della detrazione in esame cfr.: Cass., trib.: 29 ottobre 2008 n. 25902; 9 dicembre 2009 n. 25729; 12 febbraio 2010 n. 3393) costituisce (Cass., trib., 7 agosto 2008 n. 21332) un’”agevolazione fiscale” (alla quale “il contribuente ha diritto solo se abbia operato in conformità alle leggi che la prevedono”) la cui “natura eccezionale” impone un “interpretazione rigorosa”: “le norme agevolative fiscali”, infatti (Cass., trib.: 2 ottobre 2009 n. 21144; 16 dicembre 2008 n. 29371; 29 febbraio 2008 n. 5447 oltre, ex multis, quelle richiamate nella citata decisione n. 21332 del 2008), sono “di stretta interpretazione e quindi non estensibili ai casi non espressamente previsti” perchè costituiscono comunque “deroga al principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost.”.

Analogamente è a dirsi quanto alla riduzione dell’aliquota applicabile alle unità immobiliari in questione.

L’”interpretazione rigorosa”, quindi, deve sorreggere anche quella relativa all’ultimo inciso dell’art. 8, comma 2, detto il quale, come noto, dispone che “per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente”.

In base a tale disposizione, ai fini della spettanza della detrazione e della applicabilità dell’aliquota ridotta, una “abitazione” (ovverosia una “unità immobiliare” adibita a tale uso) posseduta dal contribuente per uno dei titoli previsti dalla norma può (e deve) essere ritenuta “principale” soltanto se nella stessa “dimorano abitualmente” sia il “contribuente” che i “suoi familiari”: per il sorgere del diritto alla detrazione, quindi, non è sufficiente che il contribuente dimori abitualmente nell’unità immobiliare se (come è pacifico nel caso) i “suoi familiari” dimorino altrove.

La norma – come desumibile inequivocamente dalla totale “esenzione” (“è esclusa”), “a decorrere dall’anno 2008”, dall’imposta comunale disposta, specificamente per “l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo”, con il D.L. 27 maggio 2008, n. 91, art. 1, comma 1 (convertito nella L. 27 luglio 2008, n. 126) – costituisce manifestazione del complessivo favore del legislatore nella determinazione del trattamento fiscale dell’”abitazione principale” (come, analogamente, per l’acquisto della c.d. “prima casa”), rinvenibile (specificamente in materia di ICI), ad esempio, nel D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 59, lett. e), (il quale ha espressamente previsto la possibilità, per il Comune, di “considerare abitazioni principati, con conseguente applicazione dell’aliquota ridotta od anche della detrazione per queste previste, quelle concesse in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale, stabilendo il grado di parentela”) o nel D.L. 27 maggio 2005, n. 86, art. art. 5 bis, comma 4, (convertito nella L. 26 luglio 2005, n. 148) con il quale, al dichiarato “fine di incrementare la disponibilità di alloggi da destinare ad abitazione principale”, si è concesso ai Comuni (alla “”condizione” ivi prevista) la facoltà (“possono”) di “deliberare la riduzione, anche al di sotto del limite minimo previsto dalla legislazione vigente, delle aliquote dell’imposta comunale sugli immobili stabilite per gli immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario”.

Il concetto di “abitazione principale” considerato dalla norma – tenuto conto della identità della ratio ispiratrice, tesa comunque a tutelare una specifica situazione fattuale involgente i membri della famiglia -, all’evidenza, richiama quello tradizionale di “residenza della famiglia” desumibile dall’art. 144 c.c., comma 1, (testo sostituito dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 26: “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”) per cui è del tutto legittima l’applicazione al primo dell’elaborazione giurisprudenziale propria della norma codicistica, in particolare del principio per il quale (Cass., 1^, 24 aprile 2001 n. 6012, che richiama “Cass. 5 maggio 1999, n. 4492; 26 giugno 1992, n. 8019”) per “residenza della famiglia” – da tenere distinta dai luoghi di “eventuali domicili fissati altrove ai sensi dell’art. 45 c.c.” – deve intendersi il “luogo” (“in relazione al quale”, in particolare, “deve realizzarsi, con gli adattamenti resi necessari dalle esigenze lavorative di ciascun coniuga, l’obbligo di convivenza posto dall’art. 143 c.c.”) di “ubicazione della casa coniugale” perchè questo luogo “individua presuntivamente la residenza di tutti i componenti della famìglia”, “salvo che” (si aggiunge opportunamente) “tale presunzione sia superata dalla prova” che lo “dello spostamento… della propria dimora abituale” sia stata causata dal “verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza”.

Dalle considerazioni che precedono discende l’erroneità della sentenza impugnata laddove (1) ha riconosciuto spettare al contribuente il trattamento fiscale proprio dell’”abitazione principale” unicamente per il fatto (allo stato non interessa, perchè irrilevante, se vero) che egli dimori “abitualmente” nella sua casa ubicata nel Comune ricorrente e (2) non ha considerato la necessità, imposta dal legislatore, di tener conto non già della sola dimora del contribuente ma, unicamente, di quella della sua famiglia, risultando, peraltro, fallace perchè non vera l’asserzione secondo la quale l’interpretazione propugnata dal Comune ricorrente (da ritenersi giuridicamente fondata per le ragioni svolte) dovrebbe importare la negazione dell’agevolazione sia al contribuente (per l’immobile sito nel Comune ricorrente) che alla moglie (per l’immobile di questa in (OMISSIS)) atteso che la incontestata convivenza del contribuente (che non ha neppure addotto il “verificarsi di una frattura” di quel “rapporto”) con la moglie e con i figli in Bolzano attribuisce solo all’unità immobiliare sita in questo Comune la qualità, voluta dalla norma, di “abitazione principale”.

D. L’accertata carenza del necessario presupposto dato dalla destinazione ad “abitazione principale” dell’unità abitativa nel Comune ricorrente e l’affermata insufficienza della sola circostanza della (quand’anche effettiva) dimora abituale in detta unità, ovviamente, rendono del tutto superfluo l’esame dell’ultimo motivo di doglianza del Comune e impongono il rigetto del ricorso incidentale del contribuente perchè aventi entrambi ad oggetto l’accertamento di un elemento (effettività della dimora) irrilevante.

E. In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata perchè affetta dall’evidenziato errore.

La causa, però, non abbisogna di nessun ulteriore accertamento di fatto e, pertanto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., deve esse essere decisa nel merito da questa Corte con il rigetto del ricorso di primo grado del contribuente attesa l’infondatezza della sua pretesa di fruire, ai fini dell’imposta comunale dovuta sul suo, immobile, del trattamento fiscale previsto dalla legge soltanto per le unità immobiliari adibite ad “abitazione principale”. 6. La novità della questione oggetto della fattispecie principale consiglia l’integrale compensazione tra le parti delle spese processali dell’intero giudizio ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta i primi tre motivi del ricorso principale; accoglie il quarto e dichiara assorbito il quinto motivo dello stesso ricorso; rigetta il ricorso incidentale dell’ O.; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta il ricorso di primo grado del contribuente; compensa integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2010


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 13-04-2010) 07-05-2010, n. 11087

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso 15165/2009 proposto da:

EQUITALIA GERIT S.P.A. – AGENTE DELLA RISCOSSIONE DELLA PROVINCIA DI LATINA ((OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 18, presso EQUITALIA GERIT S.P.A., rappresentata e difesa dall’avvocato CASSONI SANDRA, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

P.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1853/2008 del GIUDICE DI PACE di LATINA, depositata il 22/12/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/04/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;

udito l’Avvocato Paolo PANNELLA per delega dell’avvocato Sandra Cassoni;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto del ricorso (A.G.O.).

Svolgimento del processo
Il sig. P.L. ha proposto opposizione, dinanzi al giudice di pace, avverso un preavviso di fermo amministrativo predisposto a carico di una sua autovettura, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86.

Il giudice adito, rigettando in parte l’eccezione di (totale) difetto di giurisdizione, sollevata dalla Equitalia Gertt spa – Agente della Riscossione, si è pronunciato sulla legittimità del provvedimento impugnato, soltanto nei limiti in cui il fermo serva a garantire crediti extratributari (per i quali non è competente il giudice tributario), annullando, entro tali limiti, il preavviso di fermo, ritenuto illegittimo “in caso di riscossione di crediti relativi a sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada”.

L’Equitalia ricorre per la cassazione della decisione del giudice di pace, meglio indicata in epigrafe, sulla base di tre motivi.

Nessuna attività difensiva ha svolto la parte intimata.

Motivi della decisione
Il ricorso non può trovare accoglimento.

Con il primo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, la società ricorrente prospetta alla Corte il seguente quesito di diritto: “se, nel caso di impugnazione di un semplice preavviso di fermo, debba ravvisarsi la competenza del giudice tributario o la diversa competenza del giudice ordinario”. Il quesito è inammissibile per la sua genericità ed astrattezza, mancando il riferimento alla fattispecie concreta. Non viene precisato, infatti, se nella specie, secondo la parte ricorrente, si discuta o meno soltanto di debiti tributari o anche di debiti di altro tipo. Il quesito non scalfisce la ratio decidendi della sentenza impugnata, peraltro assolutamente corretta, secondo la quale al giudice tributario appartiene la cognizione delle obbligazioni di natura fiscale, mentre il giudice ordinario giudica delle altre materia nella specie obbligazioni dovute a titolo di sanzioni amministrative pecuniarie dovute per violazioni al codice della strada). In altri termini, il giudice di merito ha tenuto discinte le obbligazioni tributarie da quelle extratributarie, limitando la portata del suo decisum soltanto a queste ultime.

Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c., la società ricorrente prospetta il seguente quesito di diritto “se il preavviso assume il valore di comunicazione di iscrizione di fermo amministrativo che, quale atto preordinato all’espropriazione forzata e, comunque, alla realizzazione di un credito è atto impugnabile”. L’Equitalia prospetta, sostanzialmente la tesi della non impugnabilità di un atto considerato meramente preparatorio,, in relazione al quale il destinatario non avrebbe alcun interesse ad impugnare. In realtà, l’atto impugnato (il cui esame è consentito in relazione al giudizio di ammissibilità del ricorso introduttivo) contiene (oltre all’invito al pagamento da effettuarsi entro venti giorni dalla notifica) la comunicazione ultima che decorso inutilmente il termine per pagare si provvedere alla iscrizione del “fermo presso il Pubblico Registro Automobilistico senza ulteriore comunicazione”. Quindi, l’atto impugnato vale come comunicazione ultima della iscrizione del fermo entro i successivi venti giorni (salvo pagamento). Di qui l’interesse ad impugnare. Peraltro, a seguire la tesi opposta, il contribuente dovrebbe attendere il decorso dei venti giorni per impugnare direttamente l’iscrizione del fermo, direttamente in sede di esecuzione, con aggravio di spese e perdita di tempo assolutamente priva di senso. E’ noto che il disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86, comma 2, in forza del quale il concessionario deve dare comunicazione del provvedimento di fermo al soggetto nei cui confronti si procede, decorsi sessanta giorni dalla notificazione della cartella esattoriale (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50), è stato superato dalla prassi di invitare ulteriormente l’obbligato ad effettuare il pagamento, comunicando contestualmente che alla scadenza dell’ulteriore termine si procede all’iscrizione del fermo (si tratta di prassi notorie che traggono origine da istruzioni dell’Agenzia delle Entrate alle società di riscossione, altrettante notorie, fornite con nota 57413 del 9 aprile 2003 e ribadite con risoluzione del 9 gennaio 2006, n. 2). Quanto alla specifica e diretta impugnabilità del preavviso del fermo, non ignora il Collegio che taluni arresti, anche recenti (Cass. Sez. 2^, 20301/2008, 8890/2009) hanno escluso la impugnabilità del provvedimento per carenza di interesse, ma tale indirizzo deve ritenersi superato dall’intervento di queste SS. UU. secondo il quale “Il preavviso di fermo amministrativo D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ex art. 86, che riguardi una pretesa creditoria dell’ente pubblico di natura tributaria è impugnabile innanzi al giudice tributario, in quanto atto funzionale a portare a conoscenza del contribuente una determinata pretesa tributaria, rispetto alla quale sorge ex art. 100 c.p.c., l’interesse del contribuente alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva, a nulla rilevando che detto preavviso non compaia esplicitamente nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, in quanto tale elencazione va interpretata in senso estensivo, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A., che in conseguenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448” (Cass. 10672/2009). Analoghe considerazioni valgono, mutatis mutandis, allorquando il preavviso riguardi obbligazioni extratributarie.

Ne deriva che la tesi della non impugnabilità del preavviso, prospettata con il secondo motivo, non può trovare accoglimento.

Infine, con il terzo motivo vengono denunciati vizi di motivazione (omissione, insufficienza e contraddittorietà) e viene prospettato alla Corte il seguente quesito di diritto: ” se il preavviso è l’unico provvedimento contro il quale il debitore può opporsi, oppure se il destinatario del preavviso di fermo debba invece attendere che il fermo venga effettivamente iscritto”. A parte i profili di inammissibilità del motivo con il quale viene contraddittoriamente prospettata la omissione (carenza) della motivazione e, contemporaneamente, la sua contraddittorietà (sovrabbondanza); a parte che a fronte di una censura formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non viene indicato il fatto controverso e decisivo per il giudizio, ma viene invece prospettato un quesito di diritto (altro profilo di inammissibilità), il motivo è infondato. Infatti, come già è stato detto, il destinatario del preavviso ha un interesse specifico e diretto alla controllo della legittimità sostanziale della pretesa che è alla base del preannunciato provvedimento cautelare.

Conseguentemente, il ricorso va rigettato, senza la liquidazione delle spese, non avendo la parte intimata svolto alcuna attività processuale.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2010


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 13-04-2010) 27-04-2010, n. 9962

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – rel. Consigliere

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso 30949/2005 proposto da:

V.A. ((OMISSIS)), elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 20, presso lo studio dell’avvocato TRALICCI GINA, che la rappresenta e difende, per delega a margine del ricorso;

– ricorrente –

HDI ASSICURAZIONI S.P.A. ((OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSTANTINO MORIN 45, presso lo studio dell’avvocato ARDITI DI CASTELVETERE MICHELE, che la rappresenta e difende, per delega in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

S.A., N.M., SARA ASSICURAZIONI S.P.A., C.A., C.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 4714/2005 del TRIBUNALE di ROMA, depositata il 25/02/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/04/2010 dal Consigliere Dott. MARIO FINOCCHIARO;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per l’accoglimento del primo motivo del ricorso, dichiarazione di inammissibilità del secondo motivo.

Svolgimento del processo
V.A., passeggera sull’autovettura Alfa 75 condotta da C.A. e di proprietà di C.M., assicurata presso la HDI Assicurazioni s.p.a. a seguito della collisione di tale veicolo con altra auto di proprietà di S.A., condotta da N.M. e assicurata presso la Sara s.p.a., ha convenuto in giudizio innanzi al giudice di pace di Roma il N., il S. e la Sara Assicurazioni (nelle rispettive qualità di conducente, proprietario ed assicuratrice dell’auto Lancia Prisma con la quale si era scontrata la Alfa 75 sulla quale essa attrice era trasportata), chiedendone la condanna solidale al risarcimento dei danni alla persona riportati a seguito dello scontro tra le due autovetture, scontro che ha affermato essersi verificato a (OMISSIS) per colpa esclusiva del conducente dell’auto Lancia Prisma.

Nel giudizio di primo grado, nella dichiarata contumacia del S., sono stati chiamati in causa i C. e la HDI Assicurazioni (nelle rispettive qualità di proprietario e conducente, nonchè assicuratore del veicolo sul quale era trasportata l’attrice) nei cui confronti la V. ha esteso la domanda.

Svoltasi la istruttoria del caso con sentenza n. 23810 del 2001, il giudice di pace ha condannato i convenuti N., S. e Sara s.p.a. in solido al risarcimento del 50% dei danni riportati dall’attrice.

Avverso tale sentenza ha proposto appello la V. chiedendo – in via principale – fosse affermata, quanto al verificarsi del sinistro oggetto di controversia, la esclusiva responsabilità del N. e che questi fosse condannato al risarcimento del danno nella sua integrità.

In subordine, la V. ha chiesto che – accertato il concorso di colpa tra il N. ed il C. – venisse condannato anche questo ultimo al risarcimento dei danni subiti da essa appellante.

Costituitisi in giudizio il S., il N. e la HDI Assicurazioni s.p.a., mentre gli appellati S. e N. hanno eccepito la nullità della notificazione dell’atto introduttivo di primo grado, la HDI Assicurazioni s.p.a. ha invocato la improcedibilità dell’appello nei propri confronti.

Il tribunale di Roma, nella contumacia della SARA s.p.a., di C.A. e di C.M., con sentenza 4 – 25 febbraio 2005 ha definito tale giudizio dichiarando la V. decaduta dal diritto di proporre appello nei confronti della HDI Ass.ni s.p.a. e disposto la rimessione della causa innanzi al giudice di Roma per la rinnovazione della citazione introduttiva del giudizio di primo grado nei confronti di S.A..

Per la cassazione di tale sentenza, non notificata, ha proposto ricorso la V., con atto 30 novembre 2005 affidato a due motivi, nei confronti di S.A., N.M., HDI Assicurazioni s.p.a., Sara Assicurazioni s.p.a., C.A. e C.M..

Resiste con controricorso la HDI Assicurazioni s.p.a..

Non hanno svolto attività difensiva in questa sede gli altri intimati.

La causa, inizialmente assegnata alla terza sezione civile è stata rimessa a queste Sezioni Unite a seguito della ordinanza 22 giugno 2009, n. 14528, per la risoluzione di una questione di massima di particolare importanza in margine al primo motivo di ricorso e, in particolare, quanto alla ritualità della notifica qualora questa ultima sia fatta al destinatario al suo indirizzo a mezzo del servizio postale e consegnata al ricevente che abbia sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile, nello spazio riservato alla “firma del destinatario o di persona delegata” senza che tuttavia sia stata barrata la casella relativa al destinatario e che vi sia indicazione relativa alla coincidenza del ricevente con il destinatario.

Motivi della decisione
1. In limine la controricorrente HDI Assicurazioni s.p.a. ha eccepito la l’inammissibilità del ricorso avversario, atteso che il testo della procura speciale rilasciata al difensore – riportato sulla copia notificata del ricorso – non è, in tale copia, sottoscritto dalla parte che la ha rilasciata, sicchè non sarebbe possibile verificare l’effettiva anteriorità della procura rispetto al momento di proposizione del ricorso.

2. L’eccezione – come già anticipato dall’ordinanza 22 giugno 2009, n. 13528 – è manifestamente infondata.

Deve ribadirsi – infatti – in conformità a una giurisprudenza decisamente maggioritaria di questa Corte regolatrice, che ai fini dell’ammissibilità del ricorso per cassazione, pur essendo necessario che il mandato al difensore sia stato rilasciato in data anteriore o coeva alla notificazione del ricorso all’intimato, non occorre che la procura sia integralmente trascritta nella copia notificata all’altra parte, ben potendosi pervenire d’ufficio, attraverso altri elementi, purchè specifici ed univoci, alla certezza che il mandato sia stato conferito prima della notificazione dell’atto (Cass. 2 luglio 2007, n. 14967, che ha ritenuto ammissibile il ricorso, considerando sufficiente, ai fini della prova dell’anteriorità della procura, l’apposizione della stessa a margine dell’originale dell’atto. Analogamente, per il rilievo che la mancanza della procura ad litem sulla copia notificata del ricorso per cassazione non determina l’inammissibilità del ricorso, ove risulti che l’atto provenga da difensore già munito di mandato speciale, Cass. 16 settembre 2009, n. 19971, specie in motivazione).

Anche a prescindere dai rilievi che precedono si osserva che la controcorrente sembra ipotizzare che colui che rilascia la procura debba apporre, in calce alla stessa, due sottoscrizioni: una sull’originale ed una sulla copia notificata del ricorso.

L’assunto non può seguirsi.

La legge (art. 137 c.p.c., comma 2) – infatti – impone la notificazione di una “copia” dell’atto (esso solo da sottoscrivere anche dal difensore ex art. 125 c.p.c., comma 1), sicchè l’eccezione è infondata alla stregua del principio sopra esposto, in linea con la regola generale che ormai decisamente connota le decisioni di questa Corte in materia processuale secondo la quale le norme di rito debbono essere interpretate in modo razionale in correlazione con il principio costituzionale del giusto processo (art. 111 Cost.), in guisa da rapportare gli oneri di ogni parte alla tutela degli interessi della controparte, dovendosi escludere che l’ordinamento imponga nullità non ricollegabili con la tutela di alcun ragionevole interesse processuale delle stesse (art. 156 c.p.c., comma 3) (cfr. Cass. 24 ottobre 2008, n. 25727).

3. Come accennato in parte espositiva, il tribunale, sulla scorta delle deduzioni del S. – che si è costituito in appello allo scopo – ha dichiarato la nullità della notificazione dell’atto introduttivo di primo grado nei confronti del convenuto S., pur dichiarato contumace, in quanto l’atto di citazione risultava inviato a mezzo del servizio postale presso il domicilio del destinatario (nello stesso luogo dove peraltro l’appello era stato pure in seguito notificato), senza tuttavia che nell’avviso di ricevimento risultasse alcuna indicazione circa la persona alla quale il plico era stato consegnato (e, per l’effetto, ha rimesso la causa dinanzi al giudice di pace di Roma per la rinnovazione della citazione introduttiva nei confronti del S.).

4. Con il primo motivo la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte de qua, lamentando “violazione e falsa applicazione degli artt. 139 e 160 c.p.c., e della L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”.

L’atto di citazione al S. – evidenzia la ricorrente – è stato notificato a mezzo del servizio postale e l’avviso di ricevimento, regolarmente depositato, indica che la copia dell’atto è stata consegnata al ricevente che ha sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile (ha infatti sottoscritto nello spazio riservato al “destinatario o persona delegata”).

Tale attestazione – prosegue la ricorrente – fa prova fino a querela di falso e non può essere confutata dal mero diniego della ricezione dell’atto.

5. Con specifico riferimento a tale motivo di ricorso, la terza sezione civile con ordinanza 22 giugno 2009, n. 14528 ha evidenziato che in una fattispecie identica alla presente – in cui la notifica era stata fatta al destinatario al suo indirizzo a mezzo del servizio postale e consegnata al ricevente che aveva sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile – Cass., sez. un., 17 novembre 2004, n. 21712 ha ritenuto valida una tale notificazione atteso che indicando “l’avviso di ricevimento, depositato in atti, che la copia dell’atto è stata consegnata al ricevente che ha sottoscritto per esteso, ancorchè con grafia illeggibile, ciò comporta l’attestazione, facente prova fino a querela di falso, che l’atto è stato consegnato a persona coincidente con il destinatario della notificazione… e tale attestazione non può essere superata dal mero diniego della ricezione dell’atto”.

Corollario di tale affermazione – evidenzia ancora la ricordata ordinanza n. 14528 del 2009 – è l’enunciazione, nel caso di specie, del seguente principio di diritto: “se dall’avviso di ricevimento della notificazione effettuata ex art. 149 c.p.c., a mezzo del servizio postale non risulti che il piego sia stato consegnato dall’agente postale a persona diversa dal destinatario tra quelle indicate dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 2, deve ritenersi che la sottoscrizione illeggibile apposta nello spazio riservato alla firma del ricevente sia stata vergata dallo stesso destinatario, la notificazione è valida, non risultando integrata alcuna delle ipotesi di nullità di cui all’art. 160 c.p.c.”.

Peraltro, si osserva sempre nella ricordata ordinanza, che a fondare una tale conclusione non è sufficiente il rilievo che la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 7, comma 4, preveda che “quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario, la firma deve essere seguita… dalla qualità rivestita dal consegnatario” e che, dunque, possa ritenersi a contrario che l’indicazione della qualità non è necessaria quando il ricevente sia il destinatario medesimo, con la conseguenza che, se nulla sia scritto di seguito alla firma, deve aversi per certo che ricevente e destinatario coincidano, appunto fino a querela di falso.

Si sottolinea – infatti – che il modello dell’avviso di ricevimento (che nel caso non consta essere stato predisposto dall’amministrazione in difformità dalla normativa che lo contempla), prevede ben 10 ipotesi di ricevente, con altrettante caselle destinate ad essere barrate da chi effettua la consegna e tra tali caselle le prime due concernono proprio il destinatario (persona fisica o giuridica), sicchè tutte le volte che il modulo risulti compiutamente compilato dall’agente postale è comunque rilevata la qualità rivestita dal consegnatario,. quand’anche egli sia lo stesso destinatario.

Diversamente – conclude l’ordinanza – nel caso di specie nessuna casella risulta esser stata sbarrata.

6. Ritengono queste Sezioni Unite che il sopra riferito iter argomentativo non possa essere seguito, con conseguente conferma della precedente pronunzia di queste Sezioni Unite e accoglimento del primo motivo del ricorso.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

6.1. Prevede la L. 20 novembre 1982, n. 390, art. 4, (in tema di notificazioni di atti a mezzo posta), da un lato, che l’avviso di ricevimento del piego raccomandato, completato in ogni sua parte e munito del bollo dell’ufficio postale recante la data dello stesso giorno di consegna, è spedito in raccomandazione all’indirizzo già predisposto dall’ufficiale giudiziario (comma 1), dall’altro, che l’avviso di ricevimento costituisce prova della eseguita notificazione (comma 3).

Dispone, ancora, l’art. 7, della stessa legge, da un lato, che l’agente postale consegna il piego nelle mani proprie del destinatario, anche se dichiarato fallito (comma 1), dall’altro, che l’avviso di ricevimento ed il registro di consegna debbono essere sottoscritti dalla persona alla quale è consegnato il piego e, quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario, la firma deve essere seguita, su entrambi i documenti summenzionati, dalla specificazione seguita, su entrambi i documenti summenzionati, dalla specificazione della qualità rivestita dal consegnatario, con l’aggiunta, se trattasi di familiare, dell’indicazione di convivente anche se temporaneo (comma 4).

6.2. Non prescrivendo la norma positiva che l’avviso di ricevimento debba essere sottoscritto, dal consegnatario del piego, con firma leggibile, è palese che il precetto di legge è soddisfatto anche nella eventualità – come nella specie – in cui la sottoscrizione sia illeggibile.

In una tale eventualità – inoltre – è irrilevante – contrariamente a quanto si adombra nella ordinanza 14528 del 2009 – che non siano state indicate, dall’agente postale, le esatte generalità della persona a mani della quale è stato consegnato il piego.

Certo, infatti – come ricordato sopra – che l’agente postale ai sensi della L. n. 890 del 1892, art. 7, comma 1, è tenuto a consegnare al destinatario la copia dell’atto da notificare e che, ove la copia non venga consegnata personalmente al destinatario, detto agente è tenuto, ai sensi del sopra trascritto art. 7 comma 4, a specificare nella relata la persona diversa nei cui confronti la notifica fu eseguita, l’eventuale grado di parentela esistente tra il destinatario e tale persona cui la copia dell’atto fu consegnata, l’eventuale indicazione della convivenza sia pure temporanea tra il destinatario e la persona cui la copia dell’atto fu consegnata è palese che la omessa indicazione da parte dell’agente postale del compimento delle formalità previste dal citato art. 7, comma 4, induce a ritenere, salvo querela di falso, che tale agente abbia consegnata la copia dell’atto da notificare personalmente al destinatario, e che questo ultimo ha sottoscritto l’avviso di ricevimento, a nulla rilevando che manchi nell’avviso di ricevimento stesso l’ulteriore specificazione “personalmente al destinatario” (in questo senso cfr. ad esempio, Cass. 1 marzo 2003, n. 3065, in motivazione).

6.3. Irrilevante, al fine di pervenire a una diversa conclusione e di affermare (come ritenuto dalla sentenza ora oggetto di ricorso per cassazione e auspicato dall’ordinanza n. 14528 del 2009 di questa Corte) che in una tale eventualità sussiste nullità della notificazione, è la circostanza che il modello dell’avviso di ricevimento predisposto dalla Amministrazione postale prevede ben dieci ipotesi di ricevente con altrettante caselle destinata a essere barrate dall’agente postale che effettua la consegna e che tra tali ipotesi (e tra tali caselle) le prime due concernono proprio il destinatario, persona fisica o giuridica, sicchè tutte le volte che il modulo risulti compiutamente compilato dall’agente postale è comunque rivelata la qualità rivestita dal consegnatario, quand’anche egli sia lo stesso destinatario, mentre, nella specie nessuna delle case risulta barrata.

In particolare è la stessa legge – come osservato sopra – che prevede, in termini non equivoci, che l’avviso di ricevimento deve essere sottoscritto dalla persona alle quale è consegnato il piego e quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario la firma deve essere seguita., dalla specificazione della qualità rivestita dal destinatario Ciò – giusta la previsione testuale di cui all’art. 12 preleggi – non può che significare, a prescindere dalle modalità con cui è stato predisposto il modello di avviso di ricevimento da parte delle Poste Italiane – che nessun obbligo sussiste per l’agente postale, allorchè consegna il piego al destinatario dello stesso di far risultare (nelle caselle che precedono la sottoscrizione o di seguito a questa) che la consegna è avvenuta a mani proprie dello stesso destinatario.

Non essendosi il giudice di appello attenuto ai principi di cui sopra è evidente, come anticipato, che il primo motivo del ricorso meriti integrale accoglimento, con conseguente cassazione della sentenza impu-gnata nella parte in cui ha dichiarato la nullità della notificazione dell’atto introduttivo del giudizio in primo grado con conseguente rimessione della causa innanzi al giudice di pace di Roma.

7. Benchè la HDI si fosse costituita in primo grado eleggendo domicilio presso il proprio difensore – ha fatto presente il tribunale – l’atto di appello le era stato notificato presso la sede legale della società, con conseguente nullità della notifica, nullità non sanata dalla costituzione oltre il termine della HDI (essendo tale costituzione effettuata al solo scopo di eccepire il vizio e l’improcedibilità dell’appello a seguito del passaggio in giudicato della sentenza nei suoi confronti).

8. Con il secondo motivo la ricorrente denunziando “violazione e falsa applicazione degli artt. 330 e 331 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”, censura la sentenza impugnata nella parte de qua (in cui, da un lato, ha dichiarato la decadenza di essa concludente dalla facoltà di proporre appello avverso la HDI Ass.ni s.p.a., per essere stato l’atto di appello notificato alla sede legale della stessa HDI Ass.ni piuttosto che al domiciliatario indicato, dall’altro, ritenuto la inammissibilità dell’appello nei confronti della stessa, nonostante l’inscindibilità del relativo rapporto rispetto a quello degli altri litisconsorzi).

9. La controricorrente HDI Assicurazioni resiste a tale deduzione facendone presente la infondatezza.

Nel corso del giudizio di primo grado – espone; al riguardo la contro ricorrente – la V. non aveva proposto alcuna domanda nei confronti di essa concludente (e del proprio assicurato) avendo chiesto il risarcimento dei darmi patiti esclusivamente nei confronti del conducente del proprietario e della società assicuratrice della, vettura antagonista a quella sulla quale era trasportata, si che – a prescindere darla ritualità, o meno, della notifica dell’atto di appello nei confronti di essa concludente il giudice ài appello non poteva, comunque, non rilevare la inammissibilità di una domanda nuova, inammissibilmente introdotta per la prima volta in grado di appello dalla V..

10. Tale ultimo rilievo non coglie nei segno. Si osserva, infatti, che il giudice ai appello ha ritenuto la decadenza della V. dall’appello nei confronti della HDI Assicurazioni per inesistenza della notifica dell’atto di appello (e non la inammissibilità dello stesso, perchè contenente domanda nuova preclusa in appello) si che le difese svolte dalla HDI assicurazioni s.p.a. non sono in alcun modo pertinenti, rispetto ai motivo di ricorso per cassazione in esame.

11. Premesso quanto sopra e evidenziano che la questione specifica (circa l’eventuale inammissibilità dell’appello per novità della domanda della V. ancorchè l’HDI Assicurazioni s.p.a. e il proprietario nonchè il conducente del veicolo dalla stessa assicurata siano stati già chiamati in causa nel giudizio di primo grado e sia stata, in quella sede, accertata la concorrente responsabilità del conducente di tale vetture in ordine al verificarsi del sinistro denunciato dall’attrice potrà e dovrà essere sottoposta all’esame del giudice del rinvio, osserva la Corte che anche il secondo motivo di ricorso è fondato e meritevole di accoglimento.

In termini opposti a quanto affermato dalla sentenza impugnata e in conformità a una giurisprudenza da lustri consolidata di questa Corte regolatrice, infatti, si osserva che la notifica dell’appello (o del ricorso per Cassazione) al domicilio reale della parte costituita nel precedente grado di giudizio non determina la inesistenza giuridica dell’impugnazione bensì la sua nullità, sanata con effetto ex tunc dalla tempestiva costituzione della controparte (Cass. 29 novembre 2006, n. 25364; Cass. 11 maggio 2004, n. 8893; Cass. 27 giugno 2002, n. 9362; Cass. 23 giugno 1997, n. 5576, tra le tantissime).

E’ palese, di conseguenza, che nella specie il tribunale non poteva dichiarare – come ha dichiarato – la decadenza della V. dall’appello nei confronti della HDI Assicurazioni s.p.a. ma esaminare questo nel merito.

12. La sentenza impugnata, in conclusione, deve essere cassata e la causa va rimessa, per nuovo esame, allo stesso tribunale di Roma, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso;

cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa, per nuovo esame, allo stesso tribunale di Roma, in diversa composizione, anche per le spese di questo giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni Unite Civili della Corte di Cassazione, il 13 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 27 aprile 2010


Corte Suprema di Cassazione n. 9897 del 26.04.2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

SO.IM. s.r.l., in persona dell’amministratore unico, legale rappresentante, sig. S.D., rappresentata e difesa dall’avv. Cavaliere Raffaele, presso il cui studio in Roma, Piazza Gentile da Fabriano n. 3, è elett.te dom.ta;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 9820/05 del Giudice di pace di Roma, depositata il 1^ marzo 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 10 dicembre 2009 dal Consigliere Dott. Carlo DE CHIARA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. LECCISI Giampaolo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

La s.r.l. SO.IM. proponeva davanti al Giudice di pace di Roma opposizione alla cartella di pagamento n. (OMISSIS), notificatale dal concessionario della riscossione in relazione a sanzioni amministrative pecuniarie per violazioni del codice della strada. Sosteneva di non aver mai ricevuto notifica dei verbali di accertamento, elevati dalla Polizia Municipale, su cui la cartella era basata.

Radicatosi il contraddittorio con il Comune di Roma, l’opponente eccepiva la nullità delle notifiche dei verbali – le cui relate il convenuto aveva nel frattempo depositato in giudizio – perché eseguite a mani del portiere dello stabile in cui era situata la sede della società, modalità non consentita dall’art. 145 c.p.c., per la notifica alle persone giuridiche.

Il Giudice di pace, con la sentenza indicata in epigrafe, ha respinto l’opposizione osservando che la notifica era stata correttamente eseguita ai sensi dell’art. 139 c.p.c., cui rinvia il terzo comma dell’art. 145 cit., per il caso in cui non sia stato possibile eseguire la notifica ai sensi dei commi precedenti, prevedendo in tal modo “un criterio sussidiario di notificazione, mediante la consegna dell’atto a mani del portiere dello stabile ove ha sede la società, in assenza di altre persone capaci di riceverlo”. Inoltre, secondo il giudice, era applicabile la sanatoria per raggiungimento dello scopo, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., ult. co., onde sarebbe stato necessario che la società avesse dimostrato di non essere mai venuta a conoscenza degli atti consegnati al portiere.

La società soccombente ha quindi proposto ricorso per Cassazione articolando due motivi di censura, cui non ha resistito l’amministrazione comunale intimata.

La causa è stata rimessa alla pubblica udienza, con ordinanza collegiale, dopo l’iniziale assegnazione alla camera di consiglio ai sensi dell’art. 375 c.p.c..

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo di ricorso, denunciando violazione degli artt. 145 e 139 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, si censura l’affermazione della ritualità della notifica eseguita a mani del portiere dello stabile, osservando che ciò non è consentito per le notifiche a persone giuridiche, disciplinate dall’art. 145 c.p.c., il cui comma 3 rinvia alle forme di cui all’art. 139 c.p.c., per il solo caso, pacificamente qui non ricorrente, che dall’atto risulti il nome della persona fisica che rappresenta l’ente.

1.1. – Il motivo è fondato.

A norma del combinato disposto degli art. 145 c.p.c., (nel testo, qui applicabile ratione temporis, anteriore alla modifica introdotta dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263) e art. 139 c.p.c. la notificazione alla persona giuridica non può essere effettuata, in mancanza delle persone menzionate dalla prima parte di dette norme, in mani del portiere dello stabile in cui essa ha sede ed il richiamo all’art. 139 c.p.c., cit., opera soltanto per l’eventualità che l’atto da notificare faccia menzione della persona fisica che rappresenta l’ente, sicchè, verificandosi la mancanza suddetta e divenendo conseguentemente effettuabile la notificazione a tale rappresentante, la consegna può essere eseguita al portiere dello stabile ove il rappresentante (non l’ente) ha la sua residenza, quando non sia stato possibile provvedervi in alcuno degli altri modi previsti per la notificazione alle persone fisiche (cfr., per tutte, Cass. 5918/1981); diversamente – e in particolare nel caso, qui ricorrente, di consegna al portiere dello stabile in cui è situata la sede dell’ente – la notifica è nulla (cfr., tra le altre, Cass. 1461/1994, 7949/1999).

2. – Con il secondo motivo, denunciando violazione dell’art. 156 c.p.c. e vizio di motivazione, si contesta l’affermazione dell’avvenuta sanatoria della nullità, fatta dal giudice in difetto di qualsiasi elemento implicante il raggiungimento dello scopo delle notifiche nulle.

2.1. – Anche questo motivo è fondato, chiaro essendo che il Giudice di pace ha ritenuto di applicare l’istituto di cui all’art. 156 c.p.c., pur in mancanza del necessario presupposto costituito, appunto, dal riscontrato raggiungimento dello scopo delle notifiche nulle, ossia dalla conoscenza, da parte della società, degli atti invalidamente notificati prima della loro produzione in giudizio da parte del Comune.

3. – La. sentenza impugnata va pertanto cassata. Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 334 c.p.c., comma 1, ult. parte, con l’accoglimento dell’opposizione e l’annullamento della cartella impugnata.

Le spese dell’intero giudizio, sia di merito che di legittimità, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, accoglie l’opposizione ed annulla la cartella di pagamento opposta; condanna l’amministrazione intimata alle spese dell’intero giudizio, liquidate in Euro 600,00, di cui Euro 500,00 per diritti e onorari, quanto al giudizio di merito, e in Euro 600,00, di cui Euro 400,00 per onorari, quanto al giudizio di legittimità, oltre spese generali ed accessori di legge.


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 17-03-2010) 22-04-2010, n. 9590

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – rel. Presidente

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. IACOBELLIS Marcello – Consigliere

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

D.B.V.;

– intimato –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania n. 145/28/07 del 15/10/07.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Considerato che il Consigliere relatore, nominato ai sensi dell’art. 377 c.p.c., ha depositato la relazione scritta prevista dall’art. 380 bis, nei termini che di seguito si trascrivono:

“L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione contro la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania che, in riforma della pronuncia di primo grado, ha accolto il ricorso del contribuente contro una cartella di pagamento per difetto di notifica dell’accertamento presupposto.

L’intimato non si è costituito.

Il ricorso contiene un motivo. Può essere trattato in camera di consiglio (art. 375 c.p.c., n. 5) ed accolto, per manifesta fondatezza, alla stregua delle considerazioni che seguono:

L’Agenzia, sotto il profilo della violazione dell’art. 139 c.p.c., censura la sentenza impugnata, che ha ritenuto irrituale la notifica effettuata a mani di un congiunto, poi risultato non convivente con il destinatario.

Il mezzo è manifestamente fondato.

Questa Corte ha infatti affermato che la notificazione mediante consegna a persona di famiglia non postula necessariamente l’ulteriore requisito della convivenza – non espressamente menzionato dall’art. 139 c.p.c. -, risultando sufficiente l’esistenza di un vincolo (di parentela o affinità) tale da giustificare la presunzione che la “persona di famiglia” consegnerà l’atto al destinatario (Cass. 1550/07)”;

che le parti non hanno presentato memorie;

che il collegio condivide la proposta del relatore;

che pertanto, accolto il ricorso, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Campania.

P.Q.M.
la Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale della Campania.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria, il 17 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2010


Cass. civ. Sez. III, Ord., (ud. 25-02-2010) 15-04-2010, n. 8996

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PREDEN Roberto – Presidente

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso proposto da:

MINISTERO DELLE POLITICHE AGRICOLE E FORESTALI in persona del Ministro pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

COMUNE DI CAROVIGNO, REGIONE PUGLIA, E.G.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 988/2009 del TRIBUNALE di LECCE, depositata il 29/04/2009;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 25/02/2010 dal Consigliere Relatore Dott. RAFFAELE FRASCA. E’ presente il P.G. in persona del Dott. LIBERTINO ALBERTO RUSSO.

Svolgimento del processo
Quanto segue:

p. 1. Il Tribunale di Lecce, investito dell’appello proposto dal Ministero per le Politiche Agricole e Forestali avverso la sentenza resa in primo grado dal Giudice di pace di San Vito dei Normanni nella controversia fra esso appellante, E.G., la Regione Puglia ed il Comune di Carovigno, ha dichiarato – con sentenza del 29 aprile 2009 – la propria incompetenza territoriale sull’appello e la competenza del Tribunale di Brindisi, reputando che la norma del R.D. n. 1611 del 1933, art. 7, non fosse idonea a giustificare la propria investitura come tribunale del luogo sede dell’Avvocatura dello Stato in seno al distretto in cui era stata pronunciata la sentenza di primo grado.

Avverso la sentenza il Ministero ha proposto istanza di regolamento di competenza adducendo l’erroneità della declaratoria di competenza sull’appello.

Gli intimati non hanno svolto attività difensiva. p. 2. Il ricorso è soggetto alla disciplina delle modifiche al processo di cassazione, disposte dal D.Lgs. n. 40 del 2006, che si applicano ai ricorsi proposti contro le sentenze ed i provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 compreso, cioè dalla data di entrata in vigore del d.lgs. (tale D.Lgs., art. 27, comma 2). p. 3. Essendosi ritenute sussistenti le condizioni per la decisione con il procedimento di cui all’art. 3&0-bis c.p.c, è stata redatta relazione ai sensi di tale norma, che è stata notificata alla difesa della parte ricorrente e comunicata al Pubblico Ministero presso la Corte.

Parte ricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione
Quanto segue:

p. 1. Nella relazione redatta ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., si è osservato quanto segue:

” (…) 3. – L’istanza di regolamento di competenza è tempestiva, in quanto è stata consegnata per la notificazione nei trenta giorni dalla sua pronuncia avvenuta a seguito di discussione orale. Parte ricorrente dovrà, tuttavia, documentare il perfezionamento della notificazione per i destinatari.

L’istanza prospetta il seguente quesito di diritto: “Dica codesta S.C. se l’applicabilità della regola del cosiddetto foro erariale ai giudizi di appello, ricavabile dal combinato disposto degli articoli 25 del codice di rito e R.D. n. 1611 del 1933, art. 7, comma 2,trovi o meno applicazione anche nei giudizi di impugnazione delle sentenze dei giudici di pace, ancorché non espressamente contemplati al predetto comma 2 in virtù della natura speciale dell’art. 25”.

Alla questione posta dall’istanza e prospettata con il quesito, questa Corte aveva già dato risposta positiva con la sentenza n. 17759 del 2007. Successivamente, proprio in relazione a decisioni rese dal Tribunale di Lecce su controversie similari a quella di cui al ricorso, la Corte si è espressa nel medesimo senso con le ordd. n. 15020 del 2008 e n. 19781 del 2008, nonché con numerosi altri provvedimenti, fra cui le ordd. n. 11242 e 11243 del 2009. Il Tribunale ha ignorato tali precedenti, che doveva conoscere, per essere essi – tranne gli ultimi due – antecedenti la sua decisione e lo ha fatto, del resto, con una motivazione che, pur considerando proprio un precedente di questa Corte – Cass. (ord.) n. 747 del 2008 – appartenente allo stesso ormai consolidato orientamento e relativo proprio ad impugnazione di una decisione dello stesso Tribunale di Lecce, appare del tutto dispregiativa del valore del precedente e della funzione di nomofilachia della Corte di cassazione, cioè che nel caso di specie si sarebbe in presenza di sentenza di giudice di pace resa in altro “territorio”, il che integra proprio il presupposto di fatto dello spostamento della “competenza” per causa erariale.

Andrà, dunque, dichiarata la competenza territoriale sull’appello del Tribunale di Lecce sulla base del seguente principio di diritto:

“Sussiste la competenza del foro erariale, ai sensi del R.D. 30 ottobre 1933, n. 1611, art. 7, comma 2, per le cause di appello avverso le sentenze emesse dal giudice di pace, pur essendo rimasta immutata la originaria formulazione letterale di detta norma di legge a seguito delle riforme ordinamentali e processuali comportanti l’introduzione dell’ufficio del giudice di pace. Tale conclusione è giustificata dall’interpretazione evolutiva della norma, coerente alla sua “ratio legis”, consistente nel recupero, in grado di appello, per evidenti esigenze organizzative di concentrazione delle attività dell’Avvocatura dello Stato, della speciale competenza del foro erariale di cui al predetto R.D., art. 6.”. p. 2. Il Collegio preliminarmente da atto che parte ricorrente, come enuncia nella sua memoria, ha depositato gli avvisi di ricevimento relativi alle notificazioni agli intimati.

Il Collegio condivide le argomentazioni e le conclusioni della relazione, alle quali nulla è necessario aggiungere. p. 3. E’, pertanto, dichiarata la competenza del Tribunale di Lecce, davanti al quale le parti vanno rimesse, con termine per la riassunzione di mesi tre dalla comunicazione del deposito della presente.

Il giudice di merito provvederà sulle spese dell’istanza di regolamento di competenza.

P.Q.M.
La Corte dichiara la competenza del Tribunale di Lecce, davanti al quale rimette le parti, anche per le spese del giudizio di regolamento di competenza, con termine di sei mesi dalla comunicazione del deposito della presente.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 25 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 aprile 2010


Cass. civ. Sez. III, Sent., (ud. 01-03-2010) 31-03-2010, n. 7809

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VARRONE Michele – Presidente –

Dott. FILADORO Camillo – Consigliere –

Dott. FEDERICO Giovanni – Consigliere –

Dott. MASSERA Maurizio – Consigliere –

Dott. VIVALDI Roberta – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 12173/2006 proposto da:

\A. A.\ *.*, \SALPIETRA CARMELA\, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA SARDEGNA 38, presso lo studio dell’avvocato DI GIOVANNI FRANCESCO, rappresentati e difesi dall’avvocato ZUMMO Vincenzo giusta delega a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

AZIENDA OSPEDALIERA *VITTORIO EMANUELE DI GELA* *01414550853*, in persona del suo legale rappresentante pro tempore, Direttore Generale Dr. \FAILLA CORRADO\, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 11, presso lo studio dell’avvocato DURANTI STEFANO, rappresentata e difesa dall’avvocato DELL’OLIO Michele con studio in 90141 PALERMO – VIA SAMMARTINO 4 giusta delega a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 583/2005 della CORTE D’APPELLO di PALERMO Sezione Seconda Civile, emessa il 6/05/2005, depositata il 12/05/2005 R.G.N. 1343/2003;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 01/03/2010 dal Consigliere Dott. ROBERTA VIVALDI;

udito l’Avvocato MICHELE DELL’OLIO;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DESTRO Carlo, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

\A. @A.\ proponeva opposizione avverso la convalida di sfratto per morosità emessa dal tribunale di Palermo sostenendone la nullità per la omessa notificazione dell’intimazione, contestando, comunque, sia la propria legittimazione passiva, perché nel contratto di locazione, a seguito del decesso di \A. F.\, era subentrata la moglie \C. @S.\, sia la legittimazione attiva dell’intimante Azienda Ospedaliera “*V. Emanuele di Gela*”.

Quest’ultima si costituiva contestando l’ammissibilità’ dell’opposizione, della quale chiedeva il rigetto.

Interveniva nel giudizio \C. .S.\ rilevando, a sua volta, la nullità della notificazione dell’atto di citazione nei confronti del dante causa \F.@A.\.

Il tribunale, con sentenza in data 11.2.2003, dichiarava inammissibile l’opposizione tardiva proposta, condannando il ricorrente e l’intervenuta al pagamento delle spese giudiziali.

Questi ultimi proponevano appello sostenendo l’ammissibilità’ dell’opposizione tardiva dagli stessi proposta, poiché nella relazione di notificazione dell’atto l’ufficiale giudiziario non aveva indicato il soggetto che, secondo la stessa relazione, si era rifiutato di ricevere l’atto e perché, comunque, mancava la prova dell’avvenuta ricezione del successivo avviso di ricevimento della raccomandata ex art. 140 c.p.c., concludendo per la nullità del procedimento e dell’ordinanza di convalida di sfratto, nonché il difetto di legittimazione passiva dell’intimante.

La Corte d’Appello, con sentenza del 12.5.2005, rigettava la proposta impugnazione.

Hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi illustrati da memoria, \A.@A.\ e \C.@S.\.

Resiste con controricorso l’Azienda Ospedaliera *V. Emanuela di Gela*.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti denunciano la violazione e falsa applicazione degli artt. 139, 140, 148 e 668 c.p.c..

Con il secondo motivo denunciano la contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza.

I due motivi, per l’intima connessione delle censure con gli stessi proposte, possono essere esaminati congiuntamente.

Essi non sono fondati.

Ed invero, l’indicazione delle generalità e della qualità della persona cui la copia è consegnata è richiesta dall’art. 148 c.p.c. (e la relativa omissione è sanzionata da nullità dall’art. 160 c.p.c.) quale elemento necessario per verificare la sussistenza di quel rapporto familiare o professionale tra destinatario dell’atto e consegnatario, sul quale l’art. 139 c.p.c., pone l’affidamento che l’atto stesso sarà portato a conoscenza del primo.

Tale esigenza non ricorre nella diversa ipotesi in cui il soggetto trovato sul posto rifiuti – ovviamente sempre che non si tratti dello stesso destinatario – di ricevere la copia, configurandosi, in tale ipotesi, una situazione sostanzialmente conforme a quella della irreperibilità delle persone legittimate alla ricezione (v. anche Cass. 23.6.2009 n. 14628; Cass. 4.5.1993 n. 5178).

Di qui la correttezza del ricorso al procedimento disciplinato dall’art. 140 c.p.c., in ordine al quale, pertanto, l’ulteriore riferimento al soggetto non qualificato che rifiuti la consegna si risolverebbe in un inciso superfluo, non richiesto all’ufficiale giudiziario che cura la notificazione.

Coerentemente, quindi, la Corte di merito ha ritenuto l’ininfluenza della mancata menzione, da parte dell’ufficiale giudiziario, nella relata di notificazione dell’atto di citazione, delle generalità della persona che aveva rifiutato di ricevere l’atto.

Con il terzo motivo i ricorrenti denunciano la violazione dell’art. 140 c.p.c..

Sostengono l’erroneità’ della sentenza impugnata che ha ritenuto non necessaria, ai fini del perfezionamento della notificazione dell’intimazione di sfratto, la sottoscrizione dell’avviso di ricevimento da parte del destinatario.

Il motivo è fondato per le ragioni che seguono.

Invero, è principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte, enunciato da S.U. ord. int. 13.1.2005 n. 458 e ribadito da S.U. 14.1.2008 n. 627, quello per cui, qualora il ricorso per cassazione sia stato notificato ai sensi dell’art. 140 c.p.c., al fine del rispetto del termine di impugnazione, è sufficiente che il ricorso stesso sia stato consegnato all’ufficiale giudiziario entro il predetto termine, fermo restando che il consolidamento di tale effetto anticipato per il notificante dipende dal perfezionamento del procedimento notificatorio nei confronti del destinatario.

Con le decisioni indicate, la Suprema Corte ha enunciato una serie di principi che vanno rispettati ai fini della prova dell’avvenuta, tempestiva e regolare notificazione.

A tal fine, è stato ribadito che il procedimento, nei casi disciplinati dall’art. 140 c.p.c., prevede il compimento degli adempimenti da tale norma stabiliti, quali il deposito della copia dell’atto nella casa del comune dove la notificazione deve eseguirsi; l’affissione dell’avviso del deposito in busta chiusa e sigillata alla porta dell’abitazione o dell’ufficio o dell’azienda del destinatario; la notizia del deposito al destinatario mediante raccomandata con avviso di ricevimento.

In questi casi, il termine per il deposito del ricorso, stabilito a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., comma 1, decorre dal perfezionamento della notifica per il destinatario; e la notificazione nei confronti del destinatario si ha per eseguita con il compimento dell’ultimo degli adempimenti prescritti (spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento).

Tuttavia, poiché tale adempimento persegue lo scopo di consentire la verifica che l’atto sia pervenuto nella sfera di conoscibilità del destinatario, l’avviso di ricevimento deve essere allegato all’atto notificato, e la sua mancanza provoca la nullità della notificazione, che resta sanata dalla costituzione dell’intimato o dalla rinnovazione della notifica, ai sensi dell’art. 291 c.p.c..

Con la sentenza 14.1.2008 n. 627, poi, in particolare, le Sezioni Unite di questa Corte hanno precisato che è necessaria la produzione, in sede di giudizio di cassazione, dell’avviso di ricevimento del piego raccomandato contenente la copia del ricorso per cassazione spedita per la notificazione a mezzo del servizio postale ai sensi dell’art. 149 c.p.c., o della raccomandata con la quale l’ufficiale giudiziario da notizia al destinatario dell’avvenuto compimento delle formalità di cui all’art. 140 c.p.c..

Una tale produzione è richiesta dalla legge esclusivamente in funzione della prova dell’avvenuto perfezionamento del procedimento notificatorio e, dunque, dell’avvenuta instaurazione del contraddittorio.

Con la conseguenza che l’avviso, non allegato al ricorso e non depositato successivamente, può essere prodotto fino all’udienza di discussione di cui all’art. 379 c.p.c., ma prima che abbia inizio la relazione prevista dal primo comma della disposizione citata, ovvero fino all’adunanza della corte in Camera di consiglio di cui all’art. 380 bis c.p.c., anche se non notificato mediante elenco alle altre parti ai sensi dell’art. 372 c.p.c., comma 2.

In caso, però, di mancata produzione dell’avviso di ricevimento, ed in assenza di attività difensiva da parte dell’intimato, il ricorso per cassazione è inammissibile, non essendo consentita la concessione di un termine per il deposito e non ricorrendo i presupposti per la rinnovazione della notificazione ai sensi dell’art. 291 c.p.c..

Comunque, il difensore del ricorrente presente in udienza od all’adunanza della corte in Camera di consiglio può domandare di essere rimesso in termini, ai sensi dell’art. 184 bis c.p.c., per il deposito dell’avviso che affermi di non avere ricevuto, offrendo la prova documentale di essersi tempestivamente attivato nel richiedere all’amministrazione postale un duplicato dell’avviso stesso, secondo quanto previsto dalla L. n. 890 del 1982, art. 6, comma 1.

Il sistema così delineato è stato, però, modificato con la sentenza n. 3 del 2010, con la quale la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità’ costituzionale dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anziché con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

La Corte ha ritenuto che la disposizione denunciata, così come interpretata dal diritto vivente, facendo decorrere i termini per la tutela in giudizio del destinatario da un momento anteriore alla concreta conoscibilità dell’atto a lui notificato, violi i parametri costituzionali di cui agli artt. 3 e 24 Cost..

E ciò per due serie di ragioni: da una parte, per il non ragionevole bilanciamento tra gli interessi del notificante – sul quale ormai non gravano più i rischi connessi ai tempi del procedimento notificatorio – e quelli del destinatario, in una materia nella quale, invece, le garanzie di difesa e di tutela del contraddittorio devono essere improntate a canoni di effettività e di parità; e, dall’altra per l’ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla fattispecie, normativamente assimilabile, della notificazione di atti giudiziari a mezzo posta, disciplinata dalla L. n. 890 del 1982, art. 8.

Applichiamo, ora, i principi enunciati al caso in esame.

La Corte di merito da atto, nella sentenza impugnata, che l’odierna resistente, sulla base della produzione effettuata nel giudizio di primo grado, ha rispettato e documentato tutti gli adempimenti richiesti dall’art. 140 c.p.c., concludendo, in ordine al rilievo mosso alla sentenza di primo grado dagli odierni ricorrenti, che nessuna sottoscrizione dell’avviso di ricevimento da parte del destinatario era richiesta ai fini del perfezionamento della notificazione nei suoi confronti; rimanendo a carico del destinatario l’onere di provare di non avere avuto conoscenza dell’intimazione di sfratto per irregolarità della notificazione, o per caso fortuito, o per forza maggiore.

Ma in un sistema modificato, a seguito della dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 140 c.p.c., come interpretato fino alla sentenza della Corte Costituzionale citata, ovviamente di immediata applicazione, le conclusioni cui era correttamente giunta la Corte di merito non possono più essere seguite.

In atti non è dato rinvenire la prova del ricevimento e della sottoscrizione del relativo avviso da parte dell’\Avellino\; nè la resistente nel giudizio di cassazione – in cui pure le sarebbe stato consentito produrre la relativa documentazione, beneficiando dei principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte di legittimità sopra richiamata – ha prodotto o chiesto di potere produrre alcunché.

Conclusivamente, vanno rigettati il primo ed il secondo motivo. Va accolto il terzo.

Va dichiarata la nullità della notificazione dell’intimazione di sfratto; con la conseguente cassazione delle sentenze di primo e secondo grado.

La causa va rimessa al tribunale di Palermo, quale giudice di primo grado, per l’esame della fondatezza o meno dell’opposizione tardiva, proposta avverso l’ordinanza di convalida di sfratto per morosità, con la fissazione del termine di giorni trenta, decorrenti dalla comunicazione della presente sentenza, per la sua riassunzione.

Le spese vanno rimesse al giudice del rinvio.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo e secondo motivo di ricorso; accoglie il terzo. Dichiara la nullità della notificazione dell’intimazione di sfratto. Cassa le sentenze di primo e secondo grado e rimette le parti, anche per le spese, al tribunale di Palermo, fissando il termine, per la riassunzione, di giorni trenta dalla comunicazione della presente sentenza.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 1 marzo 2010.

Depositato in Cancelleria il 31 marzo 2010


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 18-01-2010) 24-02-2010, n. 4410

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PAPA Enrico – Presidente

Dott. BERNARDI Sergio – rel. est. Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

Dott. MELONCELLI Achille – Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Cimina Salumi s.r.l. in liquidazione, in persona del liquidatore D.M.A., domiciliata in Roma piazzale Clodio n. 14, presso l’avv. Gianfranco Graziani, rappresenta e difesa dall’avv. PERUGI GIULIANO giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso la stessa domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 79/14/05 della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata in data 23 giugno 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18 gennaio 2010 dal consigliere relatore Dott. Sergio Bernardi;

udito l’avv. Angelo Colucci – delegato – per la ricorrente;

udito l’avv. Massimo Santoro per la controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FUZIO Riccardo, che ha concluso per la inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo
La Cimina Salumi s.r.l. impugnava l’avviso di rettifica n. (OMISSIS) emesso a seguito del processo verbale di constatazione n. 24 redatto dalla Guardia di Finanza in data 19.01.1999. Il ricorso era dichiarato inammissibile perché proposto oltre sessanta giorni dopo la notificazione dell’atto impugnato.

La sentenza di primo grado era confermata in appello. La società ricorre avverso la sentenza della CTR del Lazio deducendo violazione degli artt. 145 e 139 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. Sostiene che la notificazione dell’avviso di rettifica era nulla, sicché il termine di impugnazione non sarebbe mai iniziato a decorrere. L’Agenzia delle Entrare resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Il ricorso non inammissibile per “omessa esposizione dei fatti di causa”, perché contiene una descrizione della fattispecie sufficiente a delineare chiaramente i termini della doglianza proposta.

Col ricorso originario la società Cimina Salumi aveva dedotto la nullità della notificazione dell’avviso impugnato per violazione degli artt. 138, 139 e 145 c.p.c.. L’atto risultava notificato “nel comune di (OMISSIS) mediante consegna al sig. V.P.R. vicina di casa addetta al ritiro che firma”, e “Nessuna altra indicazione risultava dalla relazione di notifica nella quale, in particolare, neppure appariva chi ne fosse il destinatario”. Il messo notificatore aveva successivamente inviato presso la sede sociale di via (OMISSIS) una raccomandata “per portare a conoscenza del contribuente l’avvenuta consegna dell’atto nelle mani della vicina di casa”. Ma “stante l’assenza nella sede sociale delle persone indicate nell’art. 145 c.p.c., ed apparendo nella intestazione dell’atto da notificare la persona fisica che rappresentava l’ente, il Messo Notificatore avrebbe dovuto seguire le disposizioni degli artt. 138 e 141 c.p.c.”. Disposizioni che – secondo il ricorrente – non erano state osservate. Anche perché “la lettera raccomandata richiamata dall’Agenzia… risulterebbe inviata ancora alla “società contribuente” presso la sede sociale, con ulteriore disapplicazione delle norme previste dagli artt. 138 e 139 c.p.c.”.

Nel controricorso si sostiene invece che tali disposizioni furono osservate. “Considerata l’assenza dei soggetti richiamati dall’art. 139 c.p.c., commi 1 e 2, in applicazione dell’art. 139 c.p.c., comma 3, ultima parte, richiamato dall’art. 145 c.p.c., comma 3, la notificazione è stata effettuata legittimamente alla sig.ra V.P.R. quale “vicina di casa che accetti di riceverla” (art. 139 c.p.c., comma 3), facendo seguire alla consegna la prevista raccomandata che ne dava comunicazione al contribuente. Invero “come evidenziato nell’avviso di rettifica, il liquidatore sig. D.M.A. risultava essere domiciliato presso il domicilio fiscale della Cimina Salumi s.r.l. in liquidazione, dunque in via (OMISSIS)”, dove la copia dell’atto da notificare era stata accettata dalla vicina di casa.

Osserva la corte che la dedotta nullità non sussiste. Il procedimento previsto per l’ipotesi che sia impossibile la consegna presso la sede della persona giuridica, ma sia indicata nell’atto la persona fisica che rappresenta l’ente, prevede che la notificazione sia eseguita “a mani proprie” di quest’ultima o presso la sua residenza, che nella specie coincideva con la sede sociale. Ed in caso di assenza del destinatario e di persona di famiglia o addetta alla sua casa la consegna può avvenire, se manca il portiere, ad “un vicino di casa che accetti di riceverla”. Ciò è quanto è avvenuto nella specie. Poiché sede sociale ed abitazione del legale rappresentante coincidevano, la consegna dell’atto, da parte del messo notificatore, ad una vicina di casa implicava insieme la attestazione che quella consegna non era al momento altrimenti possibile né nella sede né nell’abitazione, e la raccomandata spedita all’indirizzo del destinatario ha perfezionato il procedimento sia se indirizzata alla società persona giuridica che se indirizzata al legale rappresentante nella qualità, trattandosi comunque dello stesso soggetto diversamente denominato.

Va dunque dichiarato inammissibile il ricorso, ma possono compensarsi le spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Compensa fra le parti le spese del giudizio.

Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 febbraio 2010


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 03-12-2009) 30-12-2009, n. 27887

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCIARELLI Guglielmo – Presidente

Dott. VIDIRI Guido – rel. Consigliere

Dott. LAMORGESE Antonio – Consigliere

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 12862-2006 proposto da:

L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 116, presso lo studio dell’avvocato DIERNA ANTONINO, rappresentato e difeso dall’avvocato MUGNAI FRANCO, giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI;

– intimato –

e sul ricorso 15266-2006 proposto da:

MINISTERO DELLE INFRASTRUTTURE E DEI TRASPORTI, domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso L’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende, ope legis;

– ricorrente –

contro

L.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA S. TOMMASO D’AQUINO 116, presso lo studio dell’avvocato DIERNA ANTONINO, rappresentato e difeso dall’avvocato MUGNAI FRANCO, giusta mandato in calce al ricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 686/2 005 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE, depositata il 06/05/2005 R.G.N. 1377/02;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/12/2009 dal Consigliere Dott. GUIDO VIDIRI;

udito l’Avvocato BUCCI FEDERICO per delega MUGNAI FRANCO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio che ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, rigetto del ricorso incidentale.

Svolgimento del processo
Con ricorso depositato in data 11 febbraio 2002 il dott. ing. L. L., dipendente del Ministero delle infrastrutture e trasporti con la qualifica di (OMISSIS) qualifica professionale, adiva il Tribunale di Grosseto al fine di ottenere – previo accertamento dell’asserito svolgimento di mansioni superiori “per essere stato adibito alla Direzione dell’Ufficio Provinciale della M.C.T.C. di Grosseto” – la condanna del Ministero al pagamento del trattamento economico corrispondente a quello di (OMISSIS), a far data dal 1 dicembre 1998, oltre interessi e rivalutazione monetaria.

Dopo la costituzione dell’amministrazione convenuta, il Tribunale di Grosseto accoglieva la domanda del L. ed, a seguito del gravame del Ministero, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza impugnata, condannava l’amministrazione al pagamento delle differenze retributive maturate nel periodo corrente dal 1 dicembre 1998 sino al 2 agosto 2000, oltre interessi legali dalle singole scadenze al saldo effettivo. Osservava al riguardo la Corte territoriale – per quanto ancora rileva in questa sede di legittimità – che nel periodo per il quale andavano riconosciute le differenze retributive il L. aveva esercitato funzioni dirigenziali in via permanente e duratura ed aveva diretto un ufficio, al quale, sulla base della documentazione dello stesso Ministero, doveva essere preposto un dipendente con qualifica dirigenziale. Per il periodo successivo all’agosto 2000 – con un decreto avente, contrariamente a quanto ritenuto dal primo giudice, non un mero valore di atto interno ma forza vincolante anche nei riguardi del L. perchè regolarmente pubblicato nella Gazzetta Ufficiale – il Ministero aveva individuato in relazione ai suoi 112 uffici periferici (sulla base dell’ampiezza dell’area territoriale di competenza e del carico di lavoro effettivamente gravante su ciascuna unità) solo 61 posizioni dirigenziali, e tra queste non era compresa la posizione dell’Ufficio provinciale di Grosseto. Da qui il diritto del L. al riconoscimento delle differenze retributive solo sino al 2 agosto 2000, data di pubblicazione del suddetto decreto di classificazione dei suddetti uffici.

Avverso tale sentenza hanno spiegato ricorso sia il L., affidandosi a tre motivi, che il Ministero delle Infrastrutture, con due motivi, la cui fondatezza è stata dal L. contestata con controricorso.

Motivi della decisione
1. Ai sensi dell’art. 335 c.p.c. i ricorsi del L. e del Ministero vanno riuniti perchè proposti ambedue contro la stessa decisione.

2. Con il primo e secondo motivo del suo ricorso il L. deduce violazione di legge e nella specie degli artt. 2697 c.c., artt. 101, 426, 421 e 437 c.p.c., anche in relazione alla L. 23 agosto 1988, n. 400, art. 17 laddove prevede espressamente al numero 4 che i regolamenti sono pubblicati nella Gazzetta ufficiale, ed ancora denunzia insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine alla applicazione della suddetta normativa sostanziale e processuale alla fattispecie in oggetto. In particolare lamenta che, contrariamente a quanto ha ritenuto la impugnata sentenza, il diritto alle differenze retributive non è venuto meno in concomitanza con l’asserita emanazione del D.M. 2 agosto 2000 n. 148, atteso che era preciso onere dell’Amministrazione, che aveva eccepito l’inesistenza del diritto azionato, dimostrare che l’atto regolamentare fosse efficace in quanto rispettoso del procedimento di cui alla L. n. 400 del 1988, art. 17. La Corte fiorentina, pertanto, a fronte di un fatto non contestato dal Ministero (che nulla aveva eccepito con riferimento alla inefficacia del regolamento in esame) aveva in violazione dell’art. 2697 c.c., dato invece conto della pubblicazione del regolamento di cui al D.M. n. 148 de 2000, sopperendo in tal modo all’inerzia dell’amministrazione sul punto ed esercitando così poteri officiosi in difetto però dei requisiti richiesti.

2.1. Con il terzo motivo il ricorrente denunzia un error in procedendo assumendo che il giudice di merito, in pregiudizio del diritto di difesa di esso ricorrente e del principio del contraddittorio, aveva fatto un uso non corretto dei suoi poteri ufficiosi anche in relazione alla L. 23 agosto 1988, art. 17, n. 400, incorrendo in un vizio di ultrapetizione deducibile a norma dell’art. 112 c.p.c.. Rileva in particolare che l’uso non corretto dei poteri officiosi denunziati nel primo motivo di ricorso aveva finito per concretizzare un error in procedendo capace di rendere nullo il procedimento d’appello e la sentenza impugnata.

3. Con il primo motivo del suo ricorso il Ministero deduce violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25; disposizione poi successivamente modificata dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 e ora contenuta nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52. In particolare più precisamente che appartenendo il L. alla ex qualifica (OMISSIS), cui risultavano con decreto conferite ad interini le funzioni direttive dell’Ufficio Provinciale M.C.T.C. di Grosseto, non potevano trovare applicazione i principi normativi di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 disciplinante la diversa ipotesi di mansioni superiori rispetto alla qualifica di appartenenza.

3.1. Con il secondo motivo il Ministero addebita alla impugnata sentenza violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 266 del 1987, art. 20, comma 1, e della L. n. 870 del 1986, art. 13, comma 2, in relazione a quanto previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1. Assume a tale riguardo il Ministero che si era in presenza – con riferimento all’ufficio della motorizzazione della Provincia di Grosseto – di una reggenza, e cioè si era in presenza di una semplice misura organizzativa tesa ad assicurare una continuità dell’azione di pubblici poteri mediante l’utilizzazione di un funzionario adibito a compiti diversi. Proprio in virtù della radicale differenza tra la reggenza da parte del funzionario pubblico e l’incarico di direzione, affidato al titolare proprio nella qualità di dirigente, non potevano al L., chiamato a reggere il suddetto ufficio, riconoscersi gli emolumenti spettanti al dirigente.

4. I motivi dei due ricorsi, per comportare la soluzione di questioni tra loro strettamente connesse, vanno esaminati unitariamente.

5. Va in primo luogo ritenuta infondata l’eccezione, sollevata dal L., di inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 3 del ricorso del Ministero per ricavarsi dal suo contenuto, contrariamente a quanto sostenuto da controparte, i fatti rilevanti ai fini della decisione e le censure in fatto e diritto mosse alla impugnata sentenza.

6. Va esaminata anche l’altra eccezione del L. secondo cui essendo la sua impugnazione notificata per prima tutte le eventuali successive impugnazioni proposte avverso la stessa sentenza dovevano essere avanzate nello stesso procedimento e nella forma del ricorso incidentale.

6.1. L’eccezione è infondata. Ed invero questa Corte di cassazione ha più volte ribadito che atteso il principio di unità dell’impugnazione, sancito dall’art. 333 cod. proc. civ. – il quale implica che l’impugnazione proposta per prima determina la pendenza dell’unico processo nel quale sono destinate a confluire, sotto pena di decadenza, per essere decise simultaneamente, tutte le eventuali impugnazioni successive proposte avverso la stessa sentenza, le quali, in conseguenza, possono assumere soltanto carattere incidentale – nei procedimenti con pluralità di parti, una volta avvenuta ad istanza di una di esse la notificazione del ricorso per cassazione, le altre parti, alle quali il ricorso sia stato notificato, debbono proporre, a pena di decadenza, i loro eventuali ricorsi avverso la medesima sentenza nello stesso procedimento e, perciò, nella forma del ricorso incidentale, ai sensi dell’art. 371 c.p.c., in relazione all’art. 333 c.p.c.. Tuttavia, l’inosservanza della forma del ricorso incidentale, in ragione della mancanza di una espressa affermazione da parte della legge circa l’essenzialità dell’osservanza di tale requisito formale, va apprezzata secondo i principi generali relativi alla nullità per inosservanza dei requisiti formali, con la conseguenza che – una volta che l’impugnazione principale e quella successiva autonomamente proposta, anzichè esercitata in via incidentale, siano state riunite ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ. – essa non impedisce la conversione di detto ricorso in ricorso incidentale, qualora esso risulti proposto nel rispetto dei termini temporali entro i quali avrebbe dovuto proporsi, cioè entro i quaranta giorni dalla notificazione del primo ricorso principale. Ed invero si determina in tale ipotesi il verificarsi di una fattispecie di idoneità de secondo ricorso a raggiungere quello stesso scopo che avrebbe raggiunto la rituale proposizione dell’impugnazione nella forma incidentale (cfr. in tali sensi: Cass. 6 agosto 2004 n. 15199, cui adde ex plurimis: Cass., Sez. Un., 25 giugno 2002 n. 9232, ed ancora in epoca successiva, Cass. 22 ottobre 2004 n. 20593).

6.2. In applicazione di tali principi alla fattispecie in esame, in cui i due processi vanno riuniti, il ricorso del Ministero deve ritenersi ammissibile perchè lo stesso da considerarsi incidentale per essere stato proposto successivamente a quello del L., è stato notificato alla controparte entro il termine di cui all’art. 370 c.p.c., per avere il suddetto L. notificato il proprio ricorso in modo rituale il 24 aprile 2006 (in Roma presso l’Avvocatura generale dello Stato) al Ministero, che ha a sua volta notificato la propria impugnazione alla controparte il 6 maggio 2006. 7. Passando all’esame del merito della controversia, va premesso che la sentenza impugnata ha affermato – con una motivazione congrua e corretta sul piano logico-giuridico e pertanto non assoggettabile su tale punto ad alcuna censura in questa sede di legittimità – che nella ipotesi in esame, contrariamente a quanto sostenuto nel ricorso del Ministero, non poteva affermarsi che l’incarico di direttore generale appartenesse al profilo professionale proprio della (OMISSIS) qualifica funzionale rivestita dal L., perchè svolto in regime di semplice reggenza in attesa della destinazione nell’ufficio stesso di un dirigente titolare.

Era rimasto infatti accertato che le mansioni superiori erano state invece assegnate al L. – in ragione delle numerose incombenze cui doveva assolvere l’ufficio della M.C.T.C. di Grossetto – a partire dal 1993 e si erano protratte per circa 12 anni sicchè non poteva parlarsi di funzioni vicarie. L’esercizio delle funzioni vicarie per rientrare nei compiti propri dei dipendenti con la nona qualifica, non potevano in alcun caso dare diritto ad alcuna differenza retributiva, mentre nel caso di specie non si trattava di sopperire ad una esigenza sopravvenuta e limitata nel tempo, ma si era reso necessario coprire per molti anni un posto rimasto vacante sicchè non poteva parlarsi di espletamento di mere funzioni vicarie.

7.1. Corollario di tale accertamento è il principio di diritto affermato più volte dai giudici di legittimità secondo cui in materia di pubblico impiego contrattualizzato – come si evince anche dal D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56, comma 6, nel testo, sostituito dal D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 25 e successivamente modificato dal D.Lgs. n. 387 del 1998, art. 15 ora riprodotto nel D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 32 – l’impiegato cui sono state assegnate, al di fuori dei casi consentiti, mansioni superiori ha diritto, in conformità alla giurisprudenza della Corte costituzionale (tra le altre, sentenze n. 908 del 1988; n. 57 del 1989; n. 236 del 1992; n. 296 del 1990), ad una retribuzione proporzionata e sufficiente ai sensi dell’art. 36 Cost.; norma quest’ultima che deve trovare integrale applicazione – senza sbarramenti temporali di alcun genere – pure nel pubblico impiego privatizzato, sempre che le mansioni superiori assegnate siano state svolte, sotto il profilo quantitativo e qualitativo, nella loro pienezza, e sempre che, in relazione all’attività spiegata, siano stati esercitati i poteri ed assunte le responsabilità correlate a dette superiori mansioni (cfr. in tali esatti termini: Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cui adde, più di recente, Cass. 17 settembre 2008 n. 23741).

7.2. Nel pervenire a tale conclusione i suddetti giudici hanno rimarcato : che la Corte costituzionale con numerose pronunzie ha patrocinato la diretta applicabilità al rapporto di pubblico impiego dei principi dettati dall’art. 36 Cost., specificando al riguardo che detta norma “determina l’obbligo di integrare il trattamento economico del dipendente nella misura della quantità del lavoro effettivamente prestato”, a prescindere dalla eventuale irregolarità dell’atto o dall’assegnazione o meno dell’impiegato a mansioni superiori (Corte Cost. 23 febbraio 1989 n. 57; Corte Cost ord. 26 luglio 1988 n. 908), precisando anche che “il principio dell’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni mediante pubblico concorso non è incompatibile con il diritto dell’impiegato, assegnato a mansioni superiori alla sua qualifica, di percepire il trattamento economico della qualifica corrispondente, giusta il principio di equa retribuzione sancito dall’art. 36 Cost.” (Corte Cost. 27 maggio 1992 n. 236).Ed ancora il giudice delle leggi ha rilevato che il mantenere da parte della pubblica amministrazione l’impiegato a mansioni superiori, oltre i limiti prefissati per legge, determina una mera illegalità, che però non priva il lavoro prestato della tutela collegata al rapporto – ai sensi dell’art. 2126 c.c. e, tramite detta disposizione, dell’art. 36 Cost. – perchè non può ravvisarsi nella violazione della mera ristretta legalità quella illiceità che si riscontra, invece, nel contrasto “con norme fondamentali e generali e con i principi basilari pubblicistici dell’ordinamento” e che, alla stregua della citata norma codicistica, porta alla negazione di ogni tutela del lavoratore (Corte Cost. 19 giugno 1990 n. 296 attinente ad una fattispecie riguardante il trattamento economico del personale del servizio sanitario nazionale in ipotesi di affidamento di mansioni superiori in violazione del disposto del D.P.R. n. 761 del 1979, art. 29, comma 2) (cfr. per richiami ai pronunziati della Corte Costituzionale: Cass., Sez. Un., 11 dicembre 2007 n. 25837 cit.).

7.3 A tale riguardo va rimarcato anche come l’estensione della norma costituzionale nei sensi ora precisati all’impiego pubblico sia stato condiviso dalla dottrina giuslavoristica che ha evidenziato come – pur essendo a seguito del D.Lgs. n. 165 del 2001 il trattamento economico dell’impiegato disciplinato dalla contrattazione collettiva e pur essendo detta contrattazione non priva di vincoli unilateralmente apposti per fini di controllo della spesa pubblica (quali quelli derivanti dai primi tre commi dell’art. 48 del suddetto Decreto) – i suddetti vincoli derivanti da esigenze di bilancio non possano impedire comunque la piena operatività, anche nel settore del lavoro pubblico, dei principi costituzionali di proporzionalità ed efficienza della retribuzione espressi dall’art. 36 Cost., per poggiare tale principio sulla peculiare corrispettività del rapporto lavorativo, qualificato dalla specifica rilevanza sociale che assume in esso la retribuzione volta a compensare “una attività contrassegnata dall’implicazione della stessa persona del lavoratore”, il quale ricava da tale attività il mezzo normalmente esclusivo di sostentamento suo e della sua famiglia. Assunto questo che ha anche condotto un indirizzo dottrinario, da un lato, a sganciare il rapporto giuridico retributivo dal novero dei diritti di credito per inquadrarlo tra i diritti assoluti della persona, e dall’altro ha spinto ad affermare – sulla base di una coessenzialità o di una stretta relazione dei due principi della “sufficienza” e della “proporzionalità” ostativa a qualsiasi rapporto gerarchico tra gli stessi – che l’attenuazione del principio sinallagmatico, integrato nel caso in esame dalla rilevanza della persona umana (che determina una traslazione sul datore di lavoro del rischio della inattività del prestatore di lavoro, come in caso di sospensione del rapporto), mostra con palmare evidenza una dimensione sociale della retribuzione ed attesta contestualmente la necessità della copertura a livello costituzionale dei diritti inderogabili del lavoratore.

7.4. In questo contesto ordinamentale si è anche precisato che le uniche ipotesi in cui potrebbe essere disconosciuto il diritto alla retribuzione superiore dovrebbero essere circoscritte ai casi in cui l’espletamento di mansioni superiori sia avvenuto all’insaputa o contro la volontà dell’ente (invito o proibente domino) oppure allorquando sia il frutto della fraudolenta collusione tra dipendente e dirigente.

8. Orbene, le considerazioni svolte forniscono le coordinate per la soluzione della problematica oggetto della presente controversia perchè risultano assorbire tutte le questioni sollevate dalle parti sulla produzione nel presente giudizio e sulla sua rilevanza del D.M. 2 agosto 2000, n. 148, che – è bene però sottolinearlo – secondo quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità doveva, stante la sua natura di atto amministrativo, essere ritualmente e tempestivamente prodotto dal Ministero, che su di esso fondava il suo assunto (cfr. al riguardo: Cass., Sez Un, 29 aprile 2004 n. 9941).

8.1. Ed invero, la regola, secondo cui anche nel pubblico impiego privatizzato l’esercizio di mansioni superiori da diritto ai sensi dell’art. 36 Cost. alle differenze retributive a favore del lavoratore,induce a riformare la sentenza impugnata nella parte in cui ha negato al L. per il periodo successivo al 2 agosto 2000 le differenze retributive rivendicate, riconoscendole invece per il solo periodo corrente dal 1 dicembre 1998 al 2 agosto 2000. 8.2. Il lavoratore pubblico cui vanno riconosciute le differenze retributive ai sensi dell’art. 36 Cost. per avere svolto mansioni superiori a quelle della propria qualifica ha diritto a non vedersi diminuita a seguito di un provvedimento della pubblica amministrazione la retribuzione percepita dovendosi alla suddetta fattispecie estendersi l’applicazione della prescrizione di cui l’art. 2103 c.c. – secondo cui il prestatore di lavoro deve essere adibito “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione” – la cui ratio non può non trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui la diminuzione della retribuzione si verifichi nel corso di svolgimento delle stesse superiori mansioni.

8.3. La fondatezza della soluzione seguita riceve un riscontro, anche se indiretto, da alcune significative regole normative. A tale riguardo va fatto riferimento: al divieto di reformatio in peius – ritenuto un principio generale dell’ordinamento anche se non a copertura costituzionale -introdotto dal disposto del R.D. 3 marzo 1934, n. 383, art. 227, (t.u.), volto a riconoscere al lavoratore (in caso di modifica di qualifica o di nuovo inquadramento o di passaggio da una amministrazione all’altra o, infine, di mobilità) il diritto alla corresponsione del trattamento economico in godimento; ed ancora all’art. 202, cit. t.u. impiegati civili dello stato (D.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3) che, sempre in osservanza del suddetto divieto, contempla la conservazione del trattamento economico in godimento attraverso l’attribuzione di un assegno ad personam, utile a comporre la base pensionabile e pari alla differenza fra lo stipendio in godimento all’atto del passaggio e quello spettante nella nuova posizione.

9. Per concludere l’excursus argomentativo sulla problematica in esame, oggetto delle censure spiegate dalle parti in causa sulla base di contrapposte considerazioni, va enunciato – in osservanza a quanto voluto dall’art. 384 c.p.c., comma 1 in presenza di questioni di diritto di particolare importanza – la regola di diritto nei seguenti termini: “Il principio della retribuzione proporzionata e sufficiente ex art. 36 Cost., è applicabile anche al dipendente pubblico nelle fattispecie in cui la pretesa del suddetto dipendente ad una retribuzione adeguata si basi sullo svolgimento di mansioni corrispondenti ad una qualifica superiore a quella posseduta, sempre che tali mansioni siano in concreto svolte nella loro pienezza, sia per quanto attiene al profilo quantitativo che qualitativo dell’attività spiegata sia per quanto attiene all’esercizio dei poteri ed alle correlative responsabilità attribuite. Da ciò consegue che il lavoratore pubblico, cui sono state riconosciute ai sensi del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, art. 52, comma 5, tali differenze ha diritto a non vedersi diminuita – a seguito di un provvedimento della pubblica amministrazione – per tutto il periodo in cui esercita le stesse superiori mansioni la retribuzione percepita dovendosi estendere alla suddetta fattispecie pure la prescrizione di cui al disposto dell’art. 2103 c.c. – secondo cui il prestatore di lavoro deve essere adibito “a mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, senza alcuna diminuzione della retribuzione” – la cui ratio non può non trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui il lavoratore sia adibito “alle stesse mansioni”. 10. Alla stregua dell’enunciato principio il ricorso principale del L. va, dunque, accolto e le stesse ragioni poste a fondamento di tale accoglimento portano al rigetto del ricorso incidentale, con la consequenziale cassazione della sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto.

11. Ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la controversia va decisa nel merito con l’accoglimento della domanda del L. nei termini di cui alla sentenza di primo grado, che va confermata anche in ordine alla statuizione sulle spese.

12. Con riferimento alle spese del gravame e del presente giudizio di cassazione, tenuto conto della natura della controversia, della complessità delle questioni trattate e dell’esito della lite nei diversi gradi del processo, le spese dell’appello vanno compensate tra le parti ricorrendo giusti motivi, mentre il Ministero delle infrastrutture e trasporti va condannato al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate unitamente agli onorari difensivi come in dispositivo.

P.Q.M.
la Corte riunisce i ricorsi, accoglie il ricorso principale del L. e rigetta quello incidentale, cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e, decidendo nel merito, accoglie la domanda del ricorrente principale nei termini di cui alla sentenza di primo grado, che conferma anche in ordine alla statuizione sulle spese. Compensa tra le parti le spese dell’appello e condanna il Ministero al pagamento delle spese del presente giudizio di cassazione, liquidate in Euro 75,00 oltre Euro 3.000,00(tremila/00) per onorari difensivi, ed oltre IVA, CPA e spese generali.

Così deciso in Roma, il 3 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 30 dicembre 2009