Cass. civ., Sez. VI – Lavoro, Ord., (data ud. 11/02/2011) 25/02/2011, n. 4748

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BATTIMIELLO Bruno – Presidente

Dott. CURCURUTO Filippo – Consigliere

Dott. BANDINI Gianfranco – rel. Consigliere

Dott. MAMMONE Giovanni – Consigliere

Dott. CURZIO Pietro – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 1076/2010 proposto da:

ZOFA SRL ((OMISSIS)) in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEGLI SCIPIONI 268/A, presso lo studio dell’avvocato PETRETTI Alessio, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato SAPONARO MARIO E., giusta procura ad litem a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

INAIL – ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI

Direttore della Direzione Centrale Rischi, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA IV NOVEMBRE 144, rappresentato e difeso dagli Avvocati CATALANO Giandomenico e VITO ZAMMATURO, giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

contro

INPS – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE (OMISSIS), in persona del Presidente pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DELLA FREZZA 17, presso l’AVVOCATURA CENTRALE DELL’ISTITUTO, rappresentato e difeso dagli Avvocati SGROI ANTONINO, CALIULO LUIGI, MARITATO LELIO giusta procura in calce al ricorso notificato;

– resistente –

avverso la sentenza n. 318/2009 della CORTE D’APPELLO di BRESCIA del 28/5/09, depositata il 22/08/2009;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio dell’11/02/2011 dal Consigliere Relatore Dott. GIANFRANCO BANDINI;

udito per il resistente l’Avvocato MARTITATO LELIO che ha chiesto il rigetto del ricorso;

è presente il Procuratore Generale in persona del Dott. RUSSO LIBERTINO ALBERTO che aderisce alla relazione.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
1. Con sentenza del 28.5 – 22.8.2009 la Corte d’Appello di Brescia ha dichiarato inammissibile l’appello proposto dalla Zofa srl nei confronti dell’Inail e dell’Inps.

La Corte territoriale ha fatto applicazione del principio secondo cui, in ipotesi di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la stessa, nei confronti del destinatario, si ha per eseguita con il compimento dell’ultimo degli adempimenti prescritti da tale norma, vale a dire con la spedizione della raccomandata con avviso di ricevimento (cfr, ex plurimis, Cass., n. 2082/1999); in fatto la Corte territoriale ha rilevato che la notifica della sentenza di primo grado era avvenuta nelle forme di cui all’art. 140 c.p.c., che era stato affisso l’avviso alla porta del destinatario, depositato l’atto alla Casa Comunale e, in data il 5.12.2008, spedito avviso con lettera raccomandata con ricevuta di ritorno; conseguentemente l’appello, depositato il 12.1.2009, risultava tardivo, essendo stato superato il termine di 30 giorni dalla notificazione della sentenza.

Avverso tale sentenza della Corte territoriale la Zofa srl ha proposto ricorso per cassazione fondato su due motivi; l’Inail ha resistito con controricorso; l’Inps non ha svolto attività difensiva.

A seguito di relazione, la causa è stata decisa in Camera di consiglio ex art. 380 bis c.p.c..

2. L’eccezione di inammissibilità de ricorso per tardività svolta dall’Inail è infondata poichè, come questa Corte ha potuto direttamente accertare ex actis, la sentenza impugnata è stata notificata alla Società ricorrente nel domicilio eletto il 2.11.2009 e il ricorso per cassazione è stato notificato all’Inps il 28.12.2009 e all’Inail il 29.12.2009, dunque ne rispetto del termine di cui all’art. 325 c.p.c., comma 2. 3. Con il primo motivo, denunciando violazione dell’art. 140 c.p.c., la ricorrente sostiene che la notificazione nei confronti del destinatario, in ipotesi di ricorso alla procedura di cui all’art. 140 c.p.c., deve ritenersi perfezionata all’atto del ricevimento della raccomandata ovvero, in caso di mancato recapito, deve aversi per eseguita decorsi 10 giorni dalla data di spedizione ovvero dalla data di ritiro dei piego se anteriore a tale termine; ne caso di specie, secondo l’assunto della ricorrente, la notificazione doveva ritenersi perfezionata con il ritiro del piego in data 11.12.2008 (prima della compiuta giacenza), con la conseguente tempestività de ricorso in appello, avvenuto con deposito dell’atto il 12.1.2009, posto che il 30 giorno dalla data della notificazione cadeva i 10.1.2009, coincidente con la giornata del sabato.

Con il secondo motivo la ricorrente si duole che, nell’ipotesi in cui dovesse essere ritenuta l’effettiva tardività della notifica, non sia stata disposta la rimessione in termini, essendo la tardiva proposizione del ricorso ascrivibile ad errore del difensore.

4. La Corte Costituzionale, con sentenza n. 3 del 2010, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 140 c.p.c., nella parte in cui prevede che la notifica si perfeziona, per il destinatario, con la spedizione della raccomandata informativa, anzichè con il ricevimento della stessa o, comunque, decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione; questa Corte, con sentenza n. 7809/2010, ha già avuto modo di affermare che tale pronuncia è di immediata applicazione e che, conseguentemente, devono essere provati il ricevimento e la sottoscrizione del relativo avviso da parte del destinatario.

Nel caso di specie, come risulta ex actis, il plico, stante la temporanea assenza del destinatario, è stato depositato presso l’Ufficio il 6.12.2008 e ritirato l’11.12.2008 (prima dunque della compiuta giacenza); a tale ultima data deve quindi ritenersi perfezionata, per il destinatario, la notificazione della sentenza di primo grado.

5. Il termine per la proposizione dell’appello scadeva perciò il 10.1.2009 (cfr art. 325 c.p.c., comma 1); poichè tuttavia tale data cadeva nella giornata di sabato, il termine medesimo risultava prorogato al primo giorno seguente non festivo, in base a quanto previsto dal combinato disposto dell’art. 155 c.p.c., commi 4 e 5 (giusta la novella introdotta dalla L. n. 263 del 2005, art. 2, comma 1, lett. f), applicabile alla presente controversia, contrariamente a quanto eccepito dal l’Inail, poichè, secondo quanto risulta dall’impugnata sentenza, il ricorso giudiziario è stato depositato nel giugno 2006 e, quindi, successivamente a 1.3.2006; il primo giorno seguente non festivo era il lunedì 12.1.2009, data in cui venne depositato il ricorso d’appello.

6. Il primo motivo di ricorso si presenta quindi come manifestamente fondato, in applicazione del principio di diritto secondo cui, a seguito della pronuncia della Corte Costituzionale n. 3/2010, in caso di notificazione ai sensi dell’art. 140 c.p.c., la stessa si perfeziona, per il destinatario, con il ricevimento della raccomandata informativa, se anteriore alla compiuta giacenza, ovvero decorsi dieci giorni dalla relativa spedizione.

7. Restando assorbita la disamina dei secondo motivo, il ricorso va dunque accolto.

La sentenza impugnata va per l’effetto cassata in relazione alla censura accolta, con rinvio al Giudice indicato in dispositivo, che giudicherà conformandosi al suindicato principio di diritto; il Giudice del rinvio provvedere altresì sulle spese del presente giudizio di cassazione.

P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’Appello di Milano.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 11 febbraio 2011.

Depositato in Cancelleria il 25 febbraio 2011


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-12-2010) 04-01-2011, n. 38

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ESPOSITO Antonio – Presidente

Dott. GENTILE Domenico – Consigliere

Dott. PRESTIPINO Antonio – Consigliere

Dott. DAVIGO Piercamillo – Consigliere

Dott. RAGO Geppino – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

parte civile Azienda Sanitaria Locale (OMISSIS) della Regione Piemonte;

nei confronti di:

B.L., nata a (OMISSIS) il (OMISSIS);

avverso la sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Torino, in data 15.2.2007;

Sentita la relazione della causa fatta dal consigliere Dr. Piercamillo Davigo.

Udita la requisitoria del sostituto procuratore generale, Dott. Tindari Baglione, il quale ha concluso chiedendo che la sentenza impugnata sia annullata con rinvio.

osserva:

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Con sentenza del 15.2.2007, il Giudice per l’udienza preliminare presso il Tribunale di Torino, ai sensi dell’art. 426 cod. proc. pen., dichiarò non doversi procedere nei confronti di B. L. in ordine ai reati di truffa aggravata e continuata (capo A) e di cui agli artt. 81, 479, 493 cod. pen., commessi fra il (OMISSIS), perchè il fatto non sussiste.

Avverso tale sentenza ricorrono i difensori della parte civile Azienda Sanitaria Locale (OMISSIS) della Regione Piemonte limitatamente alla dichiarazione di non doversi procedere in ordine al reato di truffa aggravata e continuata deducendo violazione di legge e vizio di motivazione in quanto gli argomenti posti a base della pronunzia confliggono con le risultanze delle indagini e la sentenza sarebbe viziata da errori interpretativi.

Il G.U.P. ha ritenuto non provato che l’imputata non fosse stata autorizzata a recarsi fuori sede per ragioni di lavoro, ma le persone informate sui fatti O.M. e L.R. hanno escluso di aver rilasciato tale autorizzazione e comunque la presenza dell’imputata presso il Tribunale di Torino non implicava che la stessa potesse “timbrare” in luogo diverso da quello di lavoro. Le allegazioni difensive sarebbero tardive e contraddittorie. La sentenza avrebbe dato eccessivo rilievo al fatto che T. abbia dichiarato di aver occasionalmente parlato con l’imputata in via P.. La tesi difensiva sarebbe infondata in quanto le attività che l’imputata assume di aver svolto sarebbero estranee alle sua mansioni, T. e B. hanno escluso di averla incontrata in via (OMISSIS). Nessuna puntuale spiegazione sarebbe stata fornita dall’imputata in ordine agli accessi all’ospedale Maria Vittoria. Per un episodio (18.3.2004) l’imputata ha ammesso di aver soddisfatto interessi personali.

Non sarebbe condivisibile l’assunto del G.U.P., secondo cui mancherebbero artifici o raggiri, dal momento che gli uffici non avrebbero potuto verificare in tempo reale l’effettivo luogo di timbratura e non assumerebbe rilievo l’eventuale scarsa diligenza o la mancanza di controlli e verifiche.

Sussisterebbe un ingiusto profitto con danno dell’Azienda in quanto le registrazioni fuori sede avrebbero consentito alla B. di beneficiare di compenso straordinario. In ogni caso l’intento truffaldino deve essere riconosciuto nell’ipotesi in cui il dipendente abbandoni il posto di lavoro senza registrare l’uscita o nel caso in cui il dipendente timbri in entrata ed in uscita senza presentarsi effettivamente al lavoro. Le timbrature fuori sede hanno consentito alla B. in 20 casi su 32 di maturare straordinario e nei restanti 12 casi di documentare una continuità della prestazione lavorativa.

Il ricorso è fondato.

Va premesso che il controllo di legittimità della sentenza di non luogo a procedere, per il parametro del vizio di motivazione e dell’omessa assunzione di una prova decisiva, non può comunque avere ad oggetto gli elementi acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini e non può risolversi nella verifica del puntuale rispetto dei criteri di valutazione della prova di cui all’art. 192 cod. proc. pen., perchè la sentenza di non luogo a procedere esprime una valutazione prognostica negativa circa l’eventuale condanna in giudizio e non un convincimento intorno ad un accertamento svolto ai fini di una possibile condanna. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 28743 del 14.5.2010 dep. 22.7.2010 rv 247860).

Nello stesso senso di è espressa questa Sezione affermando che lo scrutinio demandato al Giudice dell’udienza preliminare in ordine all’emissione della sentenza di non luogo a procedere attiene alla valutazione della insussistenza delle condizioni su cui fondare la prognosi di evoluzione in senso favorevole all’accusa del materiale probatorio raccolto. (Cass. Sez.; 2, Sentenza n. 45046 in data 11.11.2008 dep. 03.12.2008 Rv. 242222).

In questi limiti va censurata la prognosi di ritenuta inutilità del dibattimento.

Il G.U.P. ha anzitutto ritenuto che le timbrature in sede diversa da quella di assegnazione avrebbero determinato il conseguimento di un ingiusto profitto con danno dell’azienda, dal momento che in molti casi l’orario era inferiore a quello contrattuale e che comunque non vi fossero artifizi o raggiri.

Questa Corte ha affermato che la falsa attestazione del pubblico dipendente, circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza su luogo di lavoro, e integra il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare economicamente apprezzabili. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26722 del 12.6.2008 dep. 2.7.2008 rv 240700).

La timbratura in altro luogo implica l’attestazione della continuità della prestazione, rispetto alla quale non vi era alcuna possibilità di controllo, essendo l’imputata uscita.

Quanto alla ritenuta mancanza di prova della assenza di autorizzazione, va rammentato che tale prova avrebbe dovuto essere fornita in dibattimento.

La sentenza impugnata deve pertanto essere annullata con rinvio (non essendo intervenuta prescrizione in relazione a tutti i fatti) al Tribunale di Torino per nuovo esame.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tribunale di Torino per nuovo esame.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 21 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 4 gennaio 2011


Cass. civ. Sez. Unite, Sent., (ud. 28-09-2010) 09-12-2010, n. 24851

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IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VITTORIA Paolo – Primo Presidente f.f.

Dott. PAPA Enrico – Presidente di Sezione

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente di Sezione

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – rel. Consigliere

Dott. RORDORF Renato – Consigliere

Dott. TOFFOLI Saverio – Consigliere

Dott. AMOROSO Giovanni – Consigliere

Dott. SPAGNA MUSSO Bruno – Consigliere

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 9431/2006 proposto da:

PREFETTURA – UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO DI GORIZIA, in persona del Prefetto pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

B.D.;

– intimato –

sul ricorso 14229/2006 proposto da:

B.D., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ITALO CARLO FALBO 22, presso lo studio dell’avvocato COLUCCI ANGELO, che lo rappresenta e difende, per delega in calce al controricorso e ricorso incidentale;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

UFFICIO TERRITORIALE DEL GOVERNO DI GORIZIA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 29/2005 del GIUDICE DI PACE di MONFALCONE, depositata il 31/01/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/09/2010 dal Consigliere Dott. LUCIO MAZZIOTTI DI CELSO;

uditi gli avvocati Alessandra BRUNI dell’Avvocatura Generale dello Stato, Angelo COLUCCI;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto di entrambi i ricorsi.

Svolgimento del processo
Il 9 dicembre 2003 la Polizia Stradale di Udine sull’autostrada (OMISSIS) accertava, a mezzo autovelox, eccesso di velocità (111 km orari in luogo dei 60 km orari consentiti) del veicolo di proprietà di B.D.. Il verbale di contestazione veniva emesso il 22/3/2004 e notificato il 22/6/2004 al trasgressore il quale proponeva opposizione eccependo tra l’altro che la notifica del verbale era avvenuta oltre il termine di cui all’art. 201 C.d.S..

Il Prefetto di Gorizia resisteva costituendosi a mezzo di funzionario delegavo.

L’adito giudice di pace di Monfalcone, con sentenza 31/1/2005, accoglieva l’opposizione osservando: che la notifica del verbale era stata tentata invano nella residenza del B. risultante dai pubblici registri in (OMISSIS) ove non era stato rinvenuto il destinatario, nè individuato alcun luogo a lui riferibile; che in seguito il verbale era stato notificato il 22/6/2004 con ritiro personale del plico in (OMISSIS), Comune nel quale l’opponente risiedeva dal 18/9/2002 come risultava da certificato storico di residenza; che tra il 9/12/2003 e il 22/6/2004 erano trascorsi più di 150 giorni: che quindi andava annullato il verbale opposto.

Il Prefetto di Gorizia, difeso dall’avvocatura di Stato, ha proposto ricorso per cassazione affidato ad un solo motivo.

Il B. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale sonetto da tre motivi poi illustrati da memoria. la seconda sezione civile di questa Corte, con ordinanza 28/12/2009 n. 27394. ha rimesso il procedimento al Primo Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite segnalando sia l’esistenza di un contrasto, sia la necessità di risolvere una questione di massima di particolare importanza con riferimento al l’individuazione del “dies a quo” di decorrenza del termine di notifica del verbale di contestazione delle infrazioni al c.d.s. nel caso di mutamento di residenza del trasgressore.

Il Primo Presidente ha quindi disposto l’assegnazione del ricorso alle sezioni unite.

Motivi della decisione
Il ricorso principale e quello incidentale vanno riuniti a norma dell’art. 335 c.p.c..

Con l’unico motivo del ricorso principale la Prefettura di Gorizia denuncia violazione dell’art. 201 C.d.S. deducendo che il citato articolo, nell’ipotesi in cui il trasgressore sia identificato in un momento successivo a quello dell’infrazione, fa decorrere i 150 giorni per la notifica del verbale di contestazione dalla data in cui “risultino dai pubblici registri o nell’archivio nazionale dei veicoli l’intestazione del veicolo e le altre indicazioni identificative degli interessati o comunque dalla data in cui la p.a. è posta in grado di provvedere alla loro identificazione”. Nella specie al momento della notificazione della violazione dall’archivio nazionale dei veicoli risultava che il B. risiedeva in (OMISSIS). Il B. ha proceduto alla trascrizione nei pubblici registri – con l’indicazione della nuova residenza – solo in data 17/3/2004 per cui solo da tale data decorre il termine di 150 giorni per la notifica del verbale di contestazione. Dunque, al contrario di quanto affermato dal giudice di pace, il detto termine deve ritenersi nella specie rispettato.

La questione da risolvere riguarda, come evidenziato nella ordinanza di rimessione sopra citata, il momento a partire dal quale decorre il termine di 150 giorni entro il quale – secondo quanto disposto dall’art. 201 C.d.S. – il verbale contenente la contestazione di infrazione al C.d.S. deve essere notificato al trasgressore allorché questi abbia mutato residenza.

L’ordinanza di rimessione segnala al riguardo un contrapposto orientamento giurisprudenziale facendo riferimento ad un primo orientamento secondo il quale il detto termine decorre sempre e comunque da quando il trasgressore abbia chiesto l’annotazione de cambio di residenza agli uffici dello stato civile dell’amministrazione comunale indipendentemente dall’eventuale analoga segnalazione anche all’Archivio Nazionale dei Veicoli tenuto dalla Motorizzazione civile.

Per un secondo orientamento il cittadino che muti la propria residenza ha l’obbligo di segnalare la circostanza sia agli uffici dello stato civile, sia alla Motorizzazione Civile e, ove ciò non faccia, il termine per la notifica decorre dall’annotazione del cambio di residenza nei registri della Motorizzazione Civile a nulla rilevando l’eventuale avvenuta precedente analoga annotazione presso l’anagrafe comunale.

In particolare l’ordinanza a seguito della quale la causa è stata assegnata a queste sezioni unite richiama – con riferimento al primo orientamento giurisprudenziale – il principio affermato dalla sentenza 9/7/2009 n. 16185 secondo cui “in tema di violazioni de codice della strada, la disposizione contenuta nell’art. 247 del Regolamento di esecuzione approvato con D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, nel prevedere che le comunicazioni al P.R.A. del cambio di residenza, già dichiarato dal proprietario all’anagrafe comunale, debbano essere eseguite a cura della P.A., comporta – anche in ragione del fatto che non esiste più una norma simile a quella di cui al D.P.R. 15 giugno 1959, n. 393, art. 59, (Codice della strada abrogato), che imponeva all’interessato la comunicazione del cambio di residenza – che la notifica effettuata, in forza del D.Lgs. 30 aprile 1992, n. 985, art. 201, comma 3, ultimo periodo, al precedente indirizzo del contravventore risultante dagli archivi, ove questi non siano aggiornati, non possa ritenersi validamente eseguita, atteso che il ritardo dell’Amministrazione nell’aggiornare i propri archivi non può produrre effetti negativi nella sfera giuridica del cittadino non inadempiente”.

In relazione al secondo orientamento l’ordinanza di rimessione fa riferimento alla sentenza 12/6/2008 n. 15831 con la quale si è affermato che “in tema di violazione del codice della strada, la notificazione del verbale di contestazione al proprietario dell’autoveicolo presso la residenza risultante dal pubblico registro automobilistico (P.R.A.) è valida ed efficace, anche se la residenza non corrisponde a quella effettiva, se i destinatario della contestazione non abbia provveduto ex art. 94 C.d.S., a comunicarne la modifica entro 60 gg. dal cambiamento, incombendo su di esso un obbligo di collaborazione la cui omissione integra un illecito amministrativo”. Secondo l’ordinanza di rimessione nel senso di questo orientamento andrebbero annoverate le sentenze 25635/07;

24673/06; 28244/05.

Le norme da applicare alla fattispecie in esame sono le seguenti:

– l’art. 201 C.d.S., comma 1:

“Qualora la violazione non possa essere immediatamente contestata, il verbale, con gli estremi precisi e dettagliati della violazione e con l’indicazione dei motivi che hanno reso impossibile la contestazione immediata, deve, entro centocinquanta giorni dal l’accertamento, essere notificato all’effettivo trasgressore o, quando questi non sia stato identificato e si tratti di violazione commessa dal conducente di un veicolo a motore, munito di targa, ad uno dei soggetti indicati nell’art. 196, quale risulta dai pubblici registri alla data dell’accertamento……… Qualora l’effettivo trasgressore od altro dei soggetti obbligati sia identificato successivamente alla commissione della violazione la notificazione può essere effettuata agli stessi entro centocinquanta giorni dalla data in cui risultino dai pubblici registri o nell’archivio nazionale dei veicoli l’intestazione del veicolo e le altre indicazioni identificative degli interessati o comunque dalla data precedente in cui la pubblica amministrazione è posta in grado di provvedere alla loro identificazione”;

– l’art. 94 C.d.S., commi 1 e 2:

“1. In caso di trasferimento di proprietà degli autoveicoli, motoveicoli e rimorchi o nel caso di costituzione dell’usufrutto o di stipulazione di locazione con facoltà di acquisto, il competente ufficio del P.R.A., su richiesta avanzata dall’acquirente entro sessanta giorni dalla data in cui la sottoscrizione dell’atto è stata autenticata o giudizialmente accertata, provvede alla trascrizione di trasferimento o degli altri mutamenti indicati, nonché all’emissione e al rilascio del nuovo certificato di proprietà. 2) L’ufficio competente del Dipartimento per i trasporti terrestri, su richiesta avanzata dall’acquirente entro il termine di cui al comma 1, provvede al rinnovo o all’aggiornamento della carta di circolazione che tenga conto dei mutamenti di cui al medesimo comma.

Analogamente si procede per i trasferimenti di residenza”;

– primi tre commi dell’articolo 247 del regolamento di esecuzione e di attuazione del C.d.S. (come modificato dal D.P.R. 16 settembre 1996, n. 610):

“1. Gli uffici provinciali della Direzione generale della M.C.T.C., comunicano agli uffici provinciali del P.R.A. i dati di identificazione dei veicoli di cui viene chiesto il trasferimento di residenza e di proprietà ed i dati anagrafici di chi si è rispettivamente dichiarato intestatario o nuovo intestatario, nei tempi di cui all’art. 245, commi 1 e 3, e con le modalità di cui al comma 2, dello stesso articolo.

2. Gli uffici provinciali del P.R.A. comunicano agli uffici provinciali della M.C.T.C. le informazioni relative ai veicoli di cui viene chiesto il trasferimento di proprietà nei tempi di cui all’art. 245, commi 1 e 3, e con le modalità di cui al comma 2 dello stesso articolo.

3. L’ufficio centrale operativo della Direzione generale della M.C.T.C. provvede ad aggiornare la carta di circolazione per i trasferimenti di residenza comunicati alle anagrafi comunali sei mesi dopo la data di pubblicazione del presente regolamento nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, trasmettendo per posta, alla nuova residenza del proprietario o dell’usufruttuario o del locatario del veicolo cui si riferisce la carta di circolazione, un tagliando di convalida da apporre sulla carta di circolazione medesima. A tal fine i comuni devono trasmettere al suddetto ufficio della Direzione generale della M.C.T.C, per via telematica o su supporto magnetico secondo i tracciati record prescritti dalla stessa Direzione generale, notizia dell’avvenuto trasferimento di residenza, nel termine di un mese decorrente dalla data di registrazione della variazione anagrafica. Gli ufficiali di anagrafe che ricevono la comunicazione del trasferimento di residenza, senza che sia stata ad essi dimostrata, previa consegna delle attestazioni, l’avvenuta effettuazione dei versamenti degli importi dovuti ai sensi della legge 1 dicembre 1986. n. 870 per l’aggiornamento della carta di circolazione, ovvero non sia stato ad essi contestualmente dichiarato che il soggetto trasferito non è proprietario o locatario o usufruttuario di autoveicoli, motoveicoli o rimorchi, sono responsabili in solido dell’omesso pagamento”.

Va aggiunto che, dopo le rilevanti modifiche apportate all’art. 247 sopra riportato comportanti evidenti semplificazioni, il Ministero dell’Interno, con circolare n. 1/97 del 10/1/1997, ha dettato disposizioni concernenti le procedure da seguire per l’aggiornamento della carta di circolazione per cambio di residenza o di abitazione.

Sono state quindi precisate le modalità di richiesta di iscrizione anagrafica ed è stato a tal fine predisposto un unico modello contenente i dati anagrafici del richiedente e, in caso di trasferimento dell’intera famiglia, di ciascun componente la famiglia anagrafica che sia in possesso di patente di guida o di almeno un veicolo. Al momento della richiesta va presentato un documento di riconoscimento e vanno comunicati i dati relativi alla patente ed ai mezzi di appartenenza propri e della famiglia. Presentata la domanda al richiedente viene rilasciata una ricevuta che va mantenuta all’interno della patente ed in copia nei rispettivi libretti di circolazione fino all’arrivo del tagliando definitivo della Motorizzazione Civile. Definita la pratica di cambio di residenza o di domicilio il Comune deve inviare al richiedente comunicazione scritta dell’avvenuta registrazione negli elenchi anagrafici. I Comuni devono altresì trasmettere all’ufficio centrale operativo della Direzione Generale della MCT notizia dell’avvenuto trasferimento di residenza nel termine di un mese decorrente dalla registrazione della variazione anagrafica. Secondo quanto disposto da detta circolare i cittadini, compilando il modello predisposto per il cambio di residenza o di domicilio contenente i dati relativi alla patente ad ai mezzi di. appartenenza, assolvono all’obbligo di aggiornare sia la patente di guida sia la carta di circolazione del veicolo di cui hanno la disponibilità.

Inoltrata la richiesta i cittadini non sono tenuti a presentare (neanche durante il periodo di trenta giorni concessi ai comuni per la trasmissione all’ufficio centrale operativo della Direzione generale della M.C.T.C, la notizia dell’avvenuto trasferimento di residenza) domanda di aggiornamento della carta di circolazione presso gli uffici della motorizzazione civile, ma devono solo attendere: a) che il comune comunichi l’accoglimento della richiesta e l’avvenuta registrazione negli elenchi anagrafici; b) che l’ufficio centrale operativo della direzione generale della MCT trasmetta “per posta” alla nuova residenza il tagliando di convalida da apporre sulla carta di circolazione.

Ciò posto va subito rilevato che – in base ad una coerente e corretta interpretazione del significato letterale e logico delle norme citate – va prestata adesione al primo orientamento giurisprudenziale riportato nell’ordinanza di rimessione e che risulta prevalente (tra le tante: 9/7/2009 n. 16185; 21 n. 1/2006 n. 24673;) oltre che confermato da recenti decisioni (20/1/2010 n. 928;

18/1/2010 n. 653) sorrette da ampie e convincenti motivazioni con richiamo alla disposizione di cui al citato art. 247 reg. esec. C.d.S., secondo cui le comunicazioni al P.R.A. del cambio di residenza ritualmente dichiarato dal proprietario all’anagrafe comunale (nel rispetto della procedura da seguire e con l’indicazione dei dati relativi alla patente ed ai mezzi di appartenenza) debbano essere eseguite di ufficio a cura della P.A. per cui. ove la P.A. non abbia proceduto all’aggiornamento dei relativi archivi, la notifica della contestazione effettuata al precedente indirizzo del contravventore risultante dagli archivi non aggiornati non può ritenersi correttamente eseguita.

In proposito va innanzitutto osservato che dalla attenta e completa lettura delle motivazioni delle sentenze segnalate nell’ordinanza di rimessione il ravvisato contrasto giurisprudenziale è meno evidente di quanto possa apparire dalla semplice lettura delle massime di dette pronunzie. Infatti, mentre tutte le sentenze che hanno fatto decorrere il “dies a quo” per la notifica del verbale dalla variazione anagrafica – e non dalla annotazione di essa nel P.R.A. – hanno ad oggetto casi in cui la detta variazione era stata debitamente comunicata dall’interessato al comune di residenza, le pronunzie che hanno fatto decorrere il “dies a quo” per la notifica del verbale al trasgressore, ne caso di trasferimento di residenza, dal momento della avvenuta variazione nel P.R.A., si riferiscono a fattispecie in cui il trasgressore non aveva comunicato il cambio della propria residenza né all’anagrafe nè al P.R.A..

Del pari non sussiste contrasto tra le previsioni normative di cui all’art. 94 C.d.S., comma 2, e l’art. 247 reg. esec. C.d.S., comma 3, (norme entrambe ispirate da un’evidente esigenza di semplificazione) atteso che solo per le prime tre ipotesi di cui alla prima norma è previsto che l’ufficio competente proceda “su richiesta dell’acquirente”, mentre per la quarta ipotesi (ossia per il trasferimento di residenza disposto a seguito di richiesta dell’interessato dagli uffici comunali e da questi trasmesso all’ufficio centrale operativo della Direzione generale della M.C.T.C.) il detto ufficio deve procedere “analogamente” alle prime tre ipotesi con logica esclusione della necessità di una preventiva domanda “”avanzata dall’acquirente”, requisito ovviamente non sussistente nel caso di trasferimento di residenza.

Pertanto i quesiti posti con l’ordinanza di rimessione a queste Sezioni Unite vanno risolti affermando i seguenti principi di diritto:

a) il “dies a quo” del termine di 150 giorni per la notifica del verbale di contestazione delle violazioni del codice della strada, nel caso in cui il destinatario abbia mutato residenza provvedendo a far ritualmente annotare la relativa variazione (con l’indicazione dei dati relativi ai veicoli di appartenenza) soltanto negli atti dello stato civile e non anche nel Pubblico Registro Automobilistico, va individuato nella data di annotazione della variazione di residenza negli atti dello stato civile;

b) non può ritenersi tempestiva la notifica del verbale di contestazione delle infrazioni al codice della strada quando siano trascorsi più di 150 giorni dalla variazione anagrafica del trasgressore conseguente alla rituale domanda di cambio di residenza con l’indicazione dei dati relativi ai veicoli di appartenenza, ma meno di 150 dalla relativa annotazione nel P.R.A. o nell’Archivio Nazionale Veicoli.

Il ricorso principale deve quindi essere rigettato posto che i riportati principi sono stati correttamente applicati dal giudice di pace nella fattispecie in esame caratterizzata dalle seguenti rilevanti date:

– 18 ottobre 2002: data di annotazione negli atti dello stato civile del cambio di residenza del trasgressore B. da (OMISSIS) a (OMISSIS);

– 9 dicembre 2001: data di accertamento dell’infrazione in questione:

– 17 marzo 2004: data di annotazione nell’archivio nazionale dei veicoli del cambio di residenza:

– 22 marzo 2004: data di emissione del verbale di contestazione;

– data del primo tentativo infruttuoso di notifica: imprecisata ma entro i 150 giorni dalla trasgressione:

– 22 giugno 2004: data di notifica del verbale presso la nuova residenza dei B. avvenuta oltre i 150 giorni dalla data di accertamento dell’infrazione in questione.

Deve solo precisarsi che nel caso in esame come sopra rilevato il ricorrente dopo aver dedotto che il B. ha trasferito la propria residenza “senza che il trasferimento della residenza anagrafica venisse accompagnato dalla comunicazione del trasferimento del veicolo ex art. 402 reg. esec. C.d.S., comma 7” – si è limitato a denunciare la violazione dell’art. 201 C.d.S., sostenendo che i centocinquanta giorni per la notifica del verbale di contestazione devono farsi decorrere non dalla data dell’accertamento posto che in tale data (nonché al momento della prima notifica della violazione) il contravventore risultava dall’archivio nazionale dei veicoli ancora residente in (OMISSIS) e non nella nuova residenza riportata nel detto archivio solo il 17/3/2004 per cui solo da detta data può farsi decorrere l’indicato termine per la notifica del verbale di accertamento dell’infrazione.

Il ricorrente non ha dedotto – né dalla lettura della sentenza impugnata risulta che abbia dedotto in sede di merito – che il B. al momento della richiesta di cambio di residenza ha dichiarato “di non essere proprietario o locatario o usufruttuario di autoveicoli”, dichiarazione che gli ufficiali di anagrafe (secondo quanto disposto dal D.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495, art. 247, comma 3, come modificato dal D.P.R. 16 settembre 1996, n. 610, art. 147) sono obbligati a farsi rilasciare per impedire di essere ritenuti responsabili in solido con il richiedente dell’omesso versamento “degli importi dovuti ai sensi della L. 1 dicembre 1986, n. 870”.

Parimenti non risulta che al resistente sia stata contestata la non osservanza delle disposizioni stabilite per il cambio di residenza, infrazione per la quale l’art. 94 C.d.S., comma 3, prevede la sanzione amministrativa pecuniaria di una somma da Euro 653,00 ad Euro 3.267,00.

Con il primo motivo del ricorso incidentale B.D. denuncia la mancata riunione del presente giudizio ad un altro avente ad oggetto “la medesima situazione fattuale”.

Con il secondo motivo del ricorso incidentale il B. denuncia la mancata disapplicazione della normativa incostituzionale e/o del “complesso” irrefrenabile d’attività amministrativa illegittima.

Con il terzo motivo il ricorrente incidentale denuncia la mancata condanna dell’amministrazione resistente “alle spese, o al ristoro dei danni, o ex art. 96 c.p.c., per l’attività illegittima, infondata e gravatoria”.

I primi due motivi del ricorso incidentale sono palesemente inammissibili per l’evidente assoluta incomprensibilità delle rispettive censure formulate in modo talmente oscuro ed incongruente da impedirne il significato e la portata.

Al riguardo è appena il caso di richiamare il principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’assoluta incomprensibilità della censura comporta che non è soddisfatto il requisito di cui all’art. 366 c.p.c., n. 4, il quale prescrive che il ricorso contenga a pena di inammissibilità i motivi per i quali si chiede la cassazione della sentenza impugnata (tra le tante, sentenze 17/5/2006 n. 11501; 4/2/2000 n. 1238).

Nella specie nel primo motivo del ricorso incidentale non si fa alcun riferimento alle parti, all’oggetto ed agli estremi identificativi del procedimento da riunire a quello in esame.

Nel secondo motivo del ricorso incidentale non vengono in alcun modo indicale le norme violate dal giudice del merito. In particolare va segnalato che il B. non ha sviluppato specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti intese a motivatamente dimostrare l’errore in diritto in cui sarebbe incorso il giudice di pace nel non disapplicare la “normativa incostituzionale” genericamente indicata senza alcuna precisa e puntuale indicazione di specifiche disposizioni normative o di principi costituzionali.

Il terzo motivo del ricorso incidentale è infine manifestamente infondato risultando evidente – dal complessivo tenore della sentenza impugnata e dalla attenta lettura della motivazione adottata a fondamento della pronuncia – l’implicito, ma chiaro, legittimo esercizio del potere di compensare le spese del giudizio in considerazione della peculiarità della fattispecie nonché della complessità della problematica giuridica affrontata. La operata compensazione delle spese contiene una ovvia esclusione dei presupposti richiesti per accogliere la domanda della parte soccombente al risarcimento dei danni per responsabilità processuale aggravata.

In definitiva devono essere rigettati sia il ricorso principale che quello incidentale.

Le spese del giudizio di cassazione vanno interamente compensate tra le parti stante la reciproca soccombenza.

P.Q.M.
la corte riunisce i ricorsi e li rigetta; compensa per intero tra le parti le spese del giudizio di cassazione.

Così deciso in Roma, il 28 settembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 9 dicembre 2010


Cass. civ., Sez. V, Sent., (data ud. 28/05/2010) 08/10/2010, n. 20851

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PIVETTI Marco – Presidente

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere

Dott. BERTUZZI Mario – Consigliere

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

COMUNE DI ROMA, in persona del Sindaco V.W., rappresentato e difeso dall’avv. Avenati Fabrizio e, in forza di procura speciale, dall’avv. Pasquali Giorgio, presso il quale è elettivamente domiciliato in Roma in via del Tempio di Giove n. 21;

– ricorrente –

contro

AZIENDE ALBERGHIERE BETTOJA spa, in persona del legale rappresentante B.A., rappresentato e difeso in forza di procura speciale dall’avv. Natola Giuseppe, presso il quale è elettivamente domiciliata in Roma in via Claudio Monteverdi n. 16;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 200/1/05, depositata il 13 ottobre 2005.

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28 maggio 2010 dal Relatore Cons. Dott. Antonio Greco;

uditi l’avv. Pasquali Giovanni per il ricorrente e l’avv. Giuseppe Natola per la controricorrente;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Zeno Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del primo, secondo, terzo e quarto motivo del ricorso, assorbiti gli altri, e per l’inammissibilità del controricorso.

Svolgimento del processo
La Commissione tributaria regionale del Lazio, rigettando l’appello del Comune di Roma, ha confermato l’annullamento di cinque avvisi di accertamento ai fini dell’ICI per gli anni 1998, 1999, 2000, 2001 e 2002 emessi da quel Comune nel 2003, sulla base delle rendite catastali attribuite nel 1997, nei confronti della spa Aziende Alberghiere Bettoja per emesso, insufficiente e tardivo versamento dell’imposta relativa ad un complesso immobiliare in (OMISSIS) adibito ad uso alberghiero.

La Commissione regionale ha anzitutto dichiarato inammissibile l’appello per vizio della notifica, eseguita a mezzo raccomandata in busta chiusa anzichè con plico raccomandato senza busta; ha inoltre dichiarato l’inammissibilità dell’appello per mancanza di specificità dei motivi in esso articolati.

Ha quindi rigettato i rilievi del Comune relativi alla dichiarata irricevibilità della costituzione in primo grado e delle controdeduzioni, ravvisando la mancanza di capacità processuale e di rappresentanza del funzionario responsabile designato dal dirigente preposto all’ufficio tributi del Comune, in base all’art. 34, comma 4, dello statuto dell’ente; ha ritenuto sufficiente a determinare la nullità degli avvisi la mancata allegazione degli atti in essi citati.

In ordine al rilievo del Comune – concernente l’interpretazione dell’art. 74 della legge 21 novembre 2000, n. 342 – secondo cui gli atti attributivi della rendita erano stati già notificati dall’amministrazione finanziaria nel 1997 ed impugnati dalla parte senza successo nello stesso anno, ha ritenuto che l’atto di attribuzione della rendita, ancorchè espressione della valutazione di un altro soggetto, solo al momento dell’emissione da parte del Comune dell’atto impositivo “diventa presupposto, cioè variabile indipendente della funzione impositiva esercitata e soltanto da quel momento è diretto al fine specifico, a nulla rilevando ogni precedente valutazione, ancorchè fatta dallo stesso altro soggetto, perchè l’atto potrebbe avere avuto finalità diverse, ovvero riferito addirittura a situazioni soggettive ed oggettive modificatesi nel tempo”, come sarebbe confermato al comma 3, ove si stabilisce “che gli atti impositivi delle attribuzioni o modificazioni della rendita “costituiscono a tutti gli effetti anche atti di notificazione della rendita”.

Nei confronti della decisione il Comune di Roma propone ricorso per cassazione affidato a sei motivi.

La società contribuente resiste con controricorso.

Motivi della decisione
Va anzitutto dichiarata la tardività del controricorso, in quanto notificato il 6 aprile 2006 e quindi, considerato che il ricorso era stato notificato il 16 febbraio 2006, oltre il termine fissato dall’art. 370 cod. proc. civ..

Con il primo motivo il Comune ricorrente, denunciando la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 10 e art. 11 cod. civ. eccepisce la inammissibilità dei ricorsi introduttivi perchè proposti nei confronti del Comune di Roma – Ufficio tributi – in persona del legale rappresentante pro tempore nella sede di via (OMISSIS).

Il motivo è infondato, in quanto i ricorsi furono chiaramente proposti nei confronti dell’ente in persona del suo legale rappresentante, ancorchè indirizzati alla sede, diversa da quella legale del Comune, dell’ufficio competente ratione materiae. Questa Corte ha al proposito affermato – in una fattispecie nella quale l’appello del contribuente, che avrebbe dovuto essere notificato all’Ufficio delle entrate, unica parte processuale legittimata, era stato invece per errore notificato al Centro di servizio – che il Centro di servizio, “in ossequio al principio generale di tutela dell’affidamento del contribuente ed al conseguente dovere di collaborazione (L. n. 212 del 2000, art. 10), è tenuto, facendo parte della medesima Amministrazione finanziaria, a trasmettere il ricorso al competente Ufficio delle Entrate, conseguendone, in difetto, che la mancata tempestiva costituzione dell’Ufficio in appello non è imputabile al contribuente, bensì all’Amministrazione medesima” (Cass. n. 2937 del 2010). E ciò senza dire che nel caso in esame la rituale costituzione del Gemine in primo grado sanò l’eventuale nullità.

Con il secondo motivo, articolato, come i successivi, in via subordinata, il ricorrente si duole che sia stata dichiarata l’inammissibilità dell’appello per vizio di notifica, per essere stata utilizzata la busta chiusa in luogo del piego raccomandato.

Il motivo è fondato, ove si consideri che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel processo tributario la spedizione del ricorso o dell’atto d’appello a mezzo posta in busta chiusa, pur se priva di qualsiasi indicazione relativa all’atto in esso racchiuso anzichè in plico senza busta come previsto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 20, costituisce una mera irregolarità se il contenuto della busta e la riferibilità alla parte non siano contestati (Cass. n. 13666 del 2009, n. 7797 del 2008, n. 17702 del 2004).

Con il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per il mancato esame del motivo d’appello con il quale era stato dedotto e documentato il passaggio in giudicato delle decisioni della Commissione tributaria provinciale di Roma, adita su altri ricorsi della società contribuente diretti a contestare l’attribuzione della rendita catastale, il che avrebbe reso legittimi gli accertamenti consequenziali ai fini dell’ICI, impedendo al giudice d’appello del presente giudizio di entrare nel merito dei motivi dedotti in primo grado, che intingevano appunto nel merito della consequenziale pretesa tributaria di esso Comune, e di confermare la sentenza di prime cure sull’applicazione della L. 21 novembre 2000, n. 342, art. 74; ed avrebbe, perciò, dovuto rigettare i ricorsi introduttivi del presente giudizio per definitività delle rendite.

Il motivo è fondato, ove si consideri il rapporto di pregiudizialità sussistente tra la controversia promossa avverso il provvedimento di attribuzione della rendita catastale ad un immobile da parte dell’Ufficio del Territorio e la controversia promossa avverso l’accertamento dell’ICI determinata dal Comune sulla base di detta rendita (Cass. n. 25678, n. 26380 del 2006, n. 18271 del 2004).

Sul rilievo formulato dal Comune con l’appello – riprodotto nel ricorso -, con indicazione degli estremi delle decisioni di primo grado, divenute definitive (che si indicano come allegate), di rigetto dei ricorsi della contribuente avverso le rendite catastali attribuite al complesso immobiliare, e segnatamente sulla definitività delle dette rendite, rilevante nel presente giudizio, la sentenza impugnata non si è pronunciata, incorrendo nel vizio denunciato.

Con il quarto motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c., comma 1, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. – Omessa pronuncia su un punto decisivo ex art. 112, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”, censura la sentenza per aver rilevato la mancanza di specificità dei motivi d’appello, perchè formulati in forma generalizzata e non critica, laddove le censure formulate nel gravame sarebbero state puntuali e documentate su ciascun singolo punto della controversia, e svolte anche in forma critica avverso la decisione di primo grado. E ciò con riguardo alla questione concernente il passaggio in giudicato delle decisioni della Commissione tributaria provinciale sulle rendite; con riguardo alla motivazione dell’accertamento, nel quale vengono indicate le definitive rendite catastali che ne costituiscono il fondamento, ed in ordine al rilievo della fin mancata allegazione agli avvisi degli atti in essi indicati, e segnatamente delle rendite catastali definitive, “già note alla contribuente perchè modificate in precedenza dall’ufficio del territorio ed anche impugnate”.

Il motivo è fondato, come si evince dalla lettura dell’atto di appello – riprodotto nel ricorso per cassazione – recante censure puntuali, tanto in ordine alle decisioni, analiticamente indicate, sugli atti di attribuzione delle rendite catastali, che in ordine alla motivazione degli avvisi di accertamento, che in ordine alla circostanza che le rendite attribuite, richiamate a fondamento degli accertamenti, erano, come si è visto, conosciute dalla contribuente.

Con il quinto motivo il ricorrente censura la sentenza, sotto i profili del vizio di motivazione e della violazione di legge, per aver affermato la mancanza di potere rappresentativo del dirigente dell’ufficio tributario del Comune, negando che ad esso spetti “la competenza a decidere l’instaurazione di un giudizio”.

Il motivo è fondato, ove si consideri che “in tema di contenzioso tributario, il D.L. 31 marzo 2005, n. 44, art. 3 bis, comma 1, convertito con modificazioni nella L. 31 maggio 2005, n. 88, in vigore dal 1 giugno 2005, sostituendo al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 11, il comma 3, sul contenzioso tributario, dispone che l’ente locale, nei cui confronti è proposto il ricorso, può stare in giudizio anche mediante il dirigente dell’ufficio tributi, o, in mancanza di tale figura dirigenziale, mediante il titolare della posizione organizzativa comprendente l’ufficio tributi; mentre l’art. 3 bis citato, comma 2 estende ai processi in corso la suddetta disposizione, relativa alla legittimazione processuale dei dirigenti locali – nella fattispecie, la S.C. ha ritenuto ammissibile l’appello proposto dal dirigente del servizio affissioni e pubblicità del Comune di Roma” (Cass. n. 14637 e n. 6727 del 2007, n. 13230 del 2009).

Con il sesto motivo, denunciando “violazione e falsa applicazione della L. n. 342 del 2000, art. 74, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. – Perplessità della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5”, censura come inconferente, perplesso ed illogico, e comunque erroneo nel merito il ragionamento secondo cui “gli atti impositivi delle attribuzioni o modificazioni della rendita costituiscono a tutti gli effetti anche atti di notificazione della predetta rendita”, trascurando di rilevare che tale previsione della L. 21 novembre 2000, n. 342, art. 74, si attaglia alla diversa fattispecie in cui non vi sia stata una precedente notifica della rendita, mentre nel caso di specie l’attribuzione della rendita, e la sua notifica, sono intervenute prima del 31 dicembre 1999, e l’atto sarebbe stato impugnato dalla controparte con esito negativo e definitivo davanti alla Commissione tributaria provinciale. A tale rendita, pertanto, esso Comune doveva rifarsi negli avvisi di accertamento.

Il motivo è fondato, in quanto è erronea l’affermazione del giudice di merito secondo cui l’atto impositivo costituirebbe “a tutti gli effetti” anche atto di notificazione della rendita posta a base dell’accertamento stesso, atteso che, nella specie, essa rendita risulterebbe non solo attribuita in epoca anteriore al 31 dicembre 1999, ma anche notificata alla contribuente e dalla stessa impugnata.

Con il settimo motivo la ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione della L. n. 289 del 2002 ed illegittimità derivata della statuizione riguardante la decadenza del potere impositivo per l’annualità 1998 in seguito all’accoglimento del motivo” del ricorso per cassazione diretto a censurare la riconosciuta nullità degli avvisi per difetto di motivazione, nullità che aveva reso superflua l’esame della questione in appello.

Il motivo è fondato, ove si consideri che l’avviso di accertamento relativo al periodo d’imposta 1998 fu notificato il 30 luglio 2003.

Il termine biennale originariamente stabilito dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 11, è stato infatti prorogato al 31 dicembre 2002 dalla L. 28 dicembre 2001, n. 448, art. 27, comma 9, e quindi prorogato al 31 dicembre 2003 dalla L. 27 dicembre 2002, n. 289, art. 31, comma 16, a tenore del quale “in deroga alle disposizioni della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, comma 3, concernente l’efficacia temporale delle norme tributarie, i termini per la liquidazione e l’accertamento dell’imposta comunale sugli immobili, che scadono il 31 dicembre 2002, sono prorogati al 31 dicembre 2003, limitatamente alle annualità d’imposta 1998 e successive”.

In conclusione, il primo motivo del ricorso deve essere rigettato, mentre vanno accolti tutti i successivi motivi, dal secondo al settimo, la sentenza deve essere cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto ed il settimo motivo del ricorso, mentre rigetta il primo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Lazio.

Conclusione
Così deciso in Roma, il 28 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 8 ottobre 2010


Corte Suprema di Cassazione, civ. Sez. V, n. 19733 del 17-09-2010

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PIVETTI Marco – rel. Presidente
Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere
Dott. POLICHETTI Renato – Consigliere
Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere
Dott. MELONCELLI Achille – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 28502-2006 proposto da:

S.M.M., elettivamente domiciliato in ROMA VIA PANAMA 95, presso lo studio dell’avvocato PICCIAREDDA FRANCO, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CAGLIARI – UFFICIO TRIBUTI, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA ARENULA 21, presso lo studio dell’avvocato LESTI QUINZIO BELARDINI ISABELLA, rappresentato e difeso dall’avvocato FARCI GENZIANA, giusta delega a margine;

– controricorrente –

e contro

BIPIESSE RISCOSSIONI SPA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 34/2006 della COMM. TRIB. REG. di CAGLIARI, depositata il 12/05/2006;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/05/2010 dal Presidente e Relatore MARCO PIVETTI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE NUNZIO Wladimiro, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo

La s.p.a. Bipiesse Riscossioni notificò il 6 ottobre 2003 alla sig.ra S.M.M., per conto del Comune di Cagliari, una cartella esattoriale n. (OMISSIS) per il pagamento di 158,03 Euro a titolo di ICI per il 1993. L’intimata propose opposizione con atto depositato il 23 ottobre 2003, deducendo come si legge nella sentenza di secondo grado – la nullità della cartella per mancanza di motivazione; per violazione della L. n. 212 del 2000, artt. 6 e 7: per l’intervenuta decadenza in ragione della tardività dell’iscrizione a ruolo; per violazione della L. n. 241 del 1990, art. 3 in relazione alla L. n. 212 del 2000, artt. 6, 7 e 17; perchè “non era stato dimostrato il ruolo cui la cartella faceva riferimento”; perchè l’imposta era stata pagata.
La Commissione tributaria provinciale, con sentenza depositata il 31 maggio 2004, rigettò il ricorso rilevando che il credito tributario non era più contestabile in quanto l’avviso di liquidazione dell’imposta n. (OMISSIS) era stato notificato il 6 aprile 2000 presso l’abitazione della contribuente mediante consegna a mani di tale P.S. e non era stato opposto tempestivamente.
La contribuente ha proposto appello alla Commissione tributaria regionale facendo valere, a quanto si legge nella sentenza qui impugnata, che la pretesa fiscale manifestata con la cartella in contestazione era illegittima perchè l’appellante aveva già pagato l’imposta richiesta; perchè mancante del necessario atto presupposto (avviso di liquidazione e/o di rettifica); per intervenuta decadenza, con particolare riferimento alla richiesta degli interessi nonchè all’irrogazione della sanzione in quanto l’iscrizione a ruolo risulta effettuata oltre i termini di legge; per carenza assoluta di motivazione; “per intervenuta decadenza circa un “improbabile “e “incomprensibile “atto n. (OMISSIS) notificato il 06.4.2000″. Veniva chiesto pertanto che fosse dichiarata la nullità della cartella impugnata A) – in via pregiudiziale, 1) – per duplicazione d’imposta già regolarmente pagata; 2) – per carenza assoluta dell’avvenuta notificazione del necessario atto (avviso di liquidazione e/o di rettifica). B) – in subordine, 1) – per illegittimità della pretesa; 2) – per carenza di motivazione.
Costituendosi in giudizio il Comune di Cagliari ha ribadito che la notifica dell’avviso di liquidazione era avvenuta presso l’abitazione della sig.ra S. e che l’atto risultava ritirato da tale P.S. o P.S., e cioè dalla stessa persona che aveva ritirato altro atto tributario notificato alla sig.ra S. in cui la cansegnataria aveva dichiarato di essere la domestica della contribuente e che non era stato mai impugnato. Ha quindi ribadito la legittimità della sentenza di primo grado e l’infondatezza delle deduzioni di merito della contribuente ed ha chiesto il rigetto dell’appello.
La Commissione tributaria regionale, con sentenza depositata il 12 maggio 2006, ha respinto l’appello, rilevando che – “se era vero che nella notifica dell’avviso non appariva la qualifica della ricevente, la stessa (qualifica) risultava con tutta evidenza in modo inconfutabile nel secondo atto relativo all’imposta ICI per l’anno 1996, notificato il 10 dicembre 2001 alla stessa destinataria, atto nel quale la stessa ricevente si definisce domestica della destina-taria sig.ra S.”. Ne conseguiva la decadenza della contribuente dal potere di opporsi all’avviso.
Contro tale pronunzia, la contribuente ha proposto ricorso per cassazione al quale ha resistito con controricorso il Comune di Cagliari, mentre la s.p.a. Pipiesse Riscossioni non ha partecipato al giudizio.

Motivi della decisione

Con l’unico motivo di ricorso la contribuente deduce violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60 in relazione al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 11, comma 2. Il quesito che conclude l’esposizione delle ragioni di censura è così formulato: “… dichiarare che in materia tributaria deve considerarsi inesistente la notifica dell’avviso di liquidazione avvenuta a mezzo posta tramite invio di raccomandata, nel caso in cui l’avviso di ricevimento risulti carente di taluni elementi essenziali, quali: l’indicazione precisa della qualità del ricevente, degli elementi riguardanti il luogo di destinazione, del numero, della data e della relata di notifica, ovvero, quando sia stata effettuata da soggetti non autorizzati alla notificazione degli atti di imposizione tributarie. Si chiede, in conseguenza, che l’Ecc.ma Corte voglia dichiarare l’intervenuta decadenza dell’Amministrazione comunale dal richiedere il pagamento dell’imposta ICI mediante cartella di pagamento …”.

Il motivo è infondato.

1. Quanto al profilo riguardante l’omessa menzione, nell’avviso di ricevimento, della qualità del consegnatario, è sufficiente richiamare la sentenza di questa Corte n. 4400 del 21 febbraio 2008 secondo cui “in tema di contenzioso tributario, è nulla la notifica dell’atto d’appello a mezzo del servizio postale ove nella relazione di notificazione sia indicato solo il nome del consegnatario ma non il suo rapporto con il destinatario, a meno che l’appellante non deduca e dimostri la sussistenza, tra consegnatario e destinatario, di uno dei rapporti richiesti dalla legge per la validità della notificazione (in senso conforme anche Cass. n. 1453 del 09/02/2000). A norma dell’art. 160 cod. proc. civ., infatti, la notificazione, anche se effettuata a mezzo della posta ed anche nell’ambito del contenzioso tributario, è nulla se non sono state effettivamente osservate le disposizioni circa la persona alla quale deve essere consegnata la copia e non anche se la relazione di notificazione non contiene le indicazioni necessarie per dimostrare che tali disposizioni sono state osservate, E’ pur vero infatti, che tali indicazioni sono prescritte dall’art. 149 cod. proc. civ. e dalla L. n. 890 del 1982, art. 7, comma 4, ma per l’inosservanza di tale prescrizione non è comminata la nullità sicchè essa, ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ., non può essere dichiarata dal giudice. In caso di mancanza di tali indicazioni l’osservanza delle disposizioni circa la persona alla quale la copia può essere consegnata può quindi essere dimostrata con ogni mezzo e solo in mancanza di tale prova la notifica potrà essere ritenuta nulla, ma ciò soltanto se il destinatario contesti specificamente che la persona alla quale la copia è stata consegnata non era con lui in alcuno dei rapporti richiesti dalla legge per la validità della notificazione. In caso contrario la sussistenza di tate rapporto deve ritenersi ammessa per non contestazione specifica e quindi non ha bisogno di essere provata.
Nella specie la sentenza impugnata ha accertato – e tale accertamento non è sindacabile in cassazione – che la persona alla quale la copia dell’avviso di accertamento venne consegnata era addetta alla casa della signora S. ed era a lei legata da rapporto di servizio. Va aggiunto che dal ricorso e dalla sentenza impugnata non risulta che l’attuale ricorrente abbia mai contestato il fatto che la consegnataria fosse effettivamente la sua domestica.

2. Con il medesimo motivo la ricorrente denunzia anche un secondo profilo di nullità della notifica dell’avviso di accertamento e presisamente il fatto che la notifica stessa sia stata effettuata da una agenzia privata di recapiti.

Si tratta peraltro di circostanza che non risulta essere stata mai dedotta nel giudizio di merito – o comunque il ricorso non fornisce indicazioni al riguardo – e che quindi non può essere fatta valere in questa sede. La stessa cosa deve dirsi per le altre mancanze imputate dal ricorso alla notificazione in esame (indicazione della città di destinazione, del numero civico, del numero e della data) che sono peraltro irrilevanti.

Il ricorso deve quindi essere respinto, con condanna della ricorrente alle spese del giudizio di cassazione.

P.Q.M.

– rigetta il ricorso;

– condanna la ricorrente alle spese del giudizio di cassazione liquidate in complessivi 500 Euro, di cui 100 per spese vive e 400 per onorari, oltre al contributo unificato, alle spese generali e agli accessori di legge.


Cass. civ. Sez. II, Ord., (ud. 13-04-2010) 17-09-2010, n. 19712

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – Presidente

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere

Dott. PARZIALE Ippolisto – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – rel. Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

C.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA EDOARDO D’ONOFRIO 43, presso lo studio dell’avvocato CASSANO UMBERTO, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA in persona del Sindaco pro-tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso l’AVVOCATURA COMUNALE, rappresentato e difeso dall’avvocato GRAZIOSI ANTONIO, giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 14953/2007 del TRIBUNALE di ROMA del 20.7.07, depositata il 02/08/2007;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/04/2010 dal Consigliere Relatore Dott. PASQUALE D’ASCOLA. E’ presente il P.G. in persona del Dott. UMBERTO APICE.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il tribunale di Roma, con sentenza del 2 agosto 2007, confermava la sentenza del locale giudice di pace, il quale aveva rigettato, perchè tardiva l’opposizione proposta da C.V. avverso il comune di Roma, per l’annullamento della cartella esattoriale n. (OMISSIS), relativa a violazione del codice della strada.

Ribadiva che il ritardo nel proporre l’opposizione (depositata il 23.6.2005, contro l’atto ricevuto il 15 marzo) non era addebitabile a vizio della notifica della cartella, perchè la notificazione mediante consegna al portiere dello stabile in cui risiede il destinatario si sarebbe perfezionata alla data stessa di consegna.

L’opponente ha proposto ricorso per cassazione, notificato il 15 luglio 2009; il comune ha resistito con controricorso.

Il giudice relatore ha avviato la causa a decisione con il rito previsto per il procedimento in camera di consiglio.

Con unico complesso motivo di ricorso, concluso da rituale quesito, il ricorrente lamenta che il giudice di merito non abbia dato adeguata risposta alla denuncia di invalidità della notifica della cartella a causa della effettuazione di essa a mani del portiere dello stabile, senza attestazione delle vane ricerche delle persone indicate in ordine preferenziale dall’art. 139 c.p.c..

La censura è fondata. Il tribunale ha fondato la decisione su una lettura giurisprudenziale (“La notificazione mediante consegna dell’atto al portiere si perfeziona con tale consegna ed alla data di essa, non con il successivo invio della raccomandata di cui all’art. 139 cod. proc. civ. “Cass 9329/97) da qualche tempo superata dalla Corte e in particolare da questa Sezione, la quale afferma invece che “Nella notificazione eseguita ex art. 139 cod. proc. civ., comma 3, l’omessa spedizione della raccomandata prescritta dal quarto comma della medesima disposizione non costituisce una mera irregolarità, ma un vizio dell’attività dell’ufficiale giudiziario che determina, fatti salvi gli effetti della consegna dell’atto dal notificante all’ufficiale giudiziario medesimo, la nullità1 della notificazione nei riguardi del destinatario”. (Cass. 17915/08; 7667/09; 1366/10 e indirettamente, C. Cost. 131/07).

Oltre a incorrere in tale errore la sentenza ha omesso di considerare la principale doglianza dell’opponente, relativa alla stessa legittimità della notifica al portiere in mancanza di preventive ricerche del destinatario. Sul punto le Sezioni Unite hanno già avuto modo di esprimersi, spiegando che: “In caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale giudiziario deve dare atto, oltre che dell’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, onde il relativo accertamento, sebbene non debba necessariamente tradursi in forme sacramentali, deve, nondimeno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 cod. proc. civ., comma 2, secondo la successione preferenziale da detta norma tassativamente stabilita. E’ pertanto nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata.” (SU 214/05; 11332/05).

Il tribunale non si è attenuto a tale insegnamento, che avrebbe invece potuto condurre, previe le necessarie verifiche di fatto, a diversa valutazione in ordine alla tempestività dell’opposizione e dunque all’esame delle ragioni di merito ivi dedotte.

Discende da quanto esposto l’accoglimento del ricorso.

La sentenza impugnata va cassata e la causa rimessa ad altro giudice del tribunale di Roma, che si atterrà al principio di diritto sopraevidenziato e in sede di rinvio liquiderà anche le spese di questo giudizio.

P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia ad altro giudice del tribunale di Roma, che provvederà anche sulla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile tenuta, il 13 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 17 settembre 2010


Cass. civ. Sez. II, Sent., (ud. 22-06-2010) 11-09-2010, n. 19417

È nulla la notifica a mani del portiere quando manca nella relata l’attestazione del mancato reperimento delle persone privilegiate per la notificazione, secondo la successione prevista dall’articolo 139 del c.p.c.

In caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale notificante deve dare atto, oltre che dell’inutile tentativo di consegna a mani proprie per l’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, onde nel riferire al riguardo, sebbene non debba necessariamente fare uso di formule sacramentali né riprodurre testualmente le ipotesi normative, deve, non di meno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dal secondo comma dell’art. 139 CPC, la successione preferenziale dei quali è nella norma tassativamente stabilita; è, pertanto, nulla la notificazione nelle mani del portiere quando la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SETTIMJ Giovanni – rel. Presidente

Dott. PETITTI Stefano – Consigliere

Dott. D’ASCOLA Pasquale – Consigliere

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere

Dott. DE CHIARA Carlo – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 11357/2007 proposto da:

I.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEGLI ORTI GIANICOLENSI 5, presso lo studio dell’avvocato MARCONI Riccardo, che lo rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI ROMA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 9369/2006 del GIUDICE DI PACE di ROMA, depositata il 21/02/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 22/06/2010 dal Presidente Relatore Dott. GIOVANNI SETTIMJ;

udito l’Avvocato Marconi Riccardo, difensore del ricorrente che si riporta agli scritti;

è presente il P.G. in persona del Dott. ANTONIETTA CARESTIA che si riporta alla relazione scritta.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
I.A. ha impugnato la sentenza n. 9369 del 21 febbraio 2006 con la quale il Giudice di Pace di Romane ha respinto il ricorso avverso la cartella esattoriale n. (OMISSIS) per l’importo complessivo di Euro 42,18 notificatagli in data 10 marzo 2005 ai sensi dell’art. 139 c.p.c. per il mancato pagamento di una sanzione amministrativa emessa dal Comune di Roma nell’anno 2001.

L’Amministrazione intimata non ha svolto attività difensiva.

Attivatasi procedura ex art. 375 c.p.c., il Procuratore Generale ha fatto pervenire requisitoria scritta nella quale, concordando con il parere espresso nella nota di trasmissione, ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.

Le considerazioni svolte nella relazione e condivise dal Procuratore Generale sono da recepire.

L’odierno ricorrente aveva dedotto con l’opposizione di non aver mai ricevuto la notificazione del verbale di cui alla cartella; quindi, depositatasi dal Comune in sede di costituzione la copia notificata del verbale, aveva contestato la validità della notificazione, in quanto effettuata al portiere dello stabile di sua residenza per difetto dei requisiti di legge.

Il Giudice di Pace ha respinto l’eccezione, ritenendola un indebito ampliamento dei motivi posti a fondamento del ricorso, qualificandola come mutatio libelli.

Con l’unico motivo di ricorso si deducono violazione e falsa applicazione dell’art. 320 c.p.c., nonchè vizi di motivazione su un punto decisivo della controversia per avere il G.d.P. erroneamente ritenuto di non doversi pronunciare sull’eccezione avanzata a seguito delle deduzioni e produzioni del Comune.

La censura è fondata.

Il motivo d’opposizione sollevato col ricorso era la mancata notifica del verbale posto a fondamento della cartella, onde incombeva al Comune provare l’avvenuta e rituale notifica, cosa che ha ritenuto di fare col deposito della copia notificata; soltanto una volta effettuato tale deposito l’opponente ha potuto sollevare la relativa eccezione di irregolarità della notificazione e, ciò facendo, non ha dedotto un nuovo motivo di opposizione, ma semplicemente specificato quello già proposto con l’atto introduttivo, evidenziando come la già dedotta mancata conoscenza del verbale per sua omessa notificazione fosse conseguenza dell’irritualità della notificazione stessa quale risultante dalla copia depositata dalla controparte.

La legittimità di specificazione siffatta deriva dall’espressa previsione dell’art. 183 c.p.c., comma 5.

L’oggetto, poi, di tale specificazione atteneva ad un vizio effettivo della notificazione, in quanto questa risultava eseguita a mani del portiere senza indovuta specificazione dell’esito negativo delle prioritarie ricerche delle altre persone preferenzialmente destinatarie della consegna.

Al riguardo, le SS.UU. di questa Corte, con sentenze 20.4.05 n. 8214 e 30.5.05 n. 11332, hanno evidenziato che “è principio ripetutamente affermato in materia che, in caso di notifica nelle mani del portiere, l’ufficiale notificante debba dare atto, oltre che dell’inutile tentativo di consegna a mani proprie per l’assenza del destinatario, delle vane ricerche delle altre persone preferenzialmente abilitate a ricevere l’atto, onde nel riferire al riguardo, sebbene non debba necessariamente fare uso di formule sacramentali nè riprodurre testualmente le ipotesi normative, deve, non di meno, attestare chiaramente l’assenza del destinatario e dei soggetti rientranti nelle categorie contemplate dall’art. 139 c.p.c., comma 2, la successione preferenziale dei quali è nella norma tassativamente stabilita … è, pertanto, nulla la notificazione nelle mani del portiere quando, come nella specie, la relazione dell’ufficiale giudiziario non contenga l’attestazione del mancato rinvenimento delle persone indicate nella norma citata (e pluribus, Cass. 11.5.98 n. 4739, 7.2.95 n. 1387, 21.11.83 n. 6956)”.

L’impugnata sentenza va, dunque, annullata in relazione al motivo accolto e, decidendosi nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2, in accoglimento altresì dei corrispondenti motivi d’opposizione, va annullata la cartella esattoriale opposta.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.
LA CORTE Accoglie il ricorso, cassa senza rinvio l’impugnata sentenza e, decidendo nel merito, accoglie l’originaria opposizione ed annulla la cartella esattoriale opposta; condanna il Comune di Roma alla refusione delle spese di lite che liquida in Euro 100,00 per esborsi ed Euro 500,00 per diritti ed onorari quanto alla fase di merito ed in Euro 200,00 per esborsi ed in Euro 400,00 per onorari quanto alla fase di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 22 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2010


Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 25-06-2010) 24-08-2010, n. 32290

Pubblico dipendente che attesta falsamente la sua presenza sul posto di lavoro – La falsa attestazione della presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata quando il dipendente si allontana senza far risultare i periodi di assenza. Tuttavia, quando le assenze si limitano complessivamente a poche ore, va riconosciuta l’”attenuante del valore lieve”.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BARDOVAGNI Paolo – Presidente

Dott. PAGANO Filiberto – rel. Consigliere

Dott. NUZZO Laurenza – Consigliere

Dott. GALLO Domenico – Consigliere

Dott. BRONZINI Giuseppe – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) P.S., N. IL (OMISSIS);

avverso la sentenza n. 5212/2006 CORTE APPELLO di NAPOLI, del 08/10/2008;

visti gli atti, la sentenza e il ricorso;

udita in PUBBLICA UDIENZA del 25/06/2010 la relazione fatta dal Consigliere Dott. FILIBERTO PAGANO;

Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Gialanella Antonio, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
Il difensore di P.S. ricorre avverso la sentenza sopra indicata che ha confermato la responsabilità dell’imputato in ordine al delitto di truffa continuata aggravata commessa quale dipendente del comune di (OMISSIS) alterando il registro delle presenze e facendo figurare una non effettuata presenza in ufficio. La Corte ha assolto il P. dal delitto di falso rilevando che i registri delle presenze non hanno la qualità di atti pubblici.

Il ricorrente deduce difetto di motivazione in ordine alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di truffa rilevando che gli accertati non buoni rapporti con gli altri dipendenti inficiano la valenza delle testimonianze relative alle assenze dall’ufficio che comunque furono limitate a poche ore, dato che doveva consentire la concessione “dell’attenuante del valore lieve”.

Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte che statuisce che la falsa attestazione del pubblico dipendente circa la presenza in ufficio riportata sui cartellini marcatempo o nei fogli di presenza, è condotta fraudolenta, idonea oggettivamente ad indurre in errore l’amministrazione di appartenenza circa la presenza sul luogo di lavoro, ed è dunque suscettibile di integrare il reato di truffa aggravata, ove il pubblico dipendente si allontani senza far risultare, mediante timbratura del cartellino o della scheda magnetica, i periodi di assenza, sempre che siano da considerare, come nel caso concreto, economicamente apprezzabili (Cass. 2, 6.10.06 n. 34210, depositata 12.10.06, rv. 23530; Cass. 2, 16.3.04 n. 19302, depositata 26.4.04, rv. 229439). Le doglianze in ordine alla valutazione probatoria sono inammissibili risolvendosi in una assertiva negazione di quanto non illogicamente considerato dalla Corte territoriale e sopra tutto dal giudice di primo grado. Ai sensi del disposto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E), la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione devono risultare dal testo del provvedimento impugnato, sicchè dedurre tale vizio in sede di legittimità comporta dimostrare che il provvedimento è manifestamente carente di motivazione o di logica e non già opporre alla logica valutazione degli atti operata dal giudice di merito una diversa ricostruzione, magari altrettanto logica, degli atti processuali (Cass. S.U. 19.6.96, De Francesco).

Esula infatti dai poteri della Corte di Cassazione quello di una diversa lettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è riservata in via esclusiva al giudice di merito senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa valutazione delle risultanze processuali ritenute dal ricorrente più adeguate (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv. 207944, Dessimone).

E’ invece fondato l’ultimo motivo di ricorso non avendo il giudice di appello dato risposta alla richiesta di applicazione dell’attenuante chiesta essendo il fatto accertato limitato ai giorni 24, 27 e 30 dicembre 2010.

All’annullamento segue la trasmissione degli atti ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli per la verifica della sussistenza della chiesta attenuante, fermo restando il passaggio in giudicato dell’affermazione di colpevolezza per il delitto, in quanto nella fattispecie vale il principio che il giudicato (progressivo) formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato, con la definitività della decisione su tali parti, impedisce l’applicazione di cause estintive successive all’annullamento parziale, trattandosi di cause sopravvenute non incidenti su quanto deciso in maniera definitiva (Cass. S.U. 23.5.97 n. 4904, ud. 26.3.97, rv. 207640).

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente alla omessa pronuncia sulla richiesta dell’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4 e rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Napoli per il giudizio sul punto.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il data 25 giugno 2010.

Depositato in Cancelleria il 24 agosto 2010


Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., (ud. 25-05-2010) 26-07-2010, n. 17511

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIDIRI Guido – Presidente

Dott. DE RENZIS Alessandro – Consigliere

Dott. DI NUBILA Vincenzo – Consigliere

Dott. STILE Paolo – Consigliere

Dott. IANNIELLO Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

IM.EL.CA. S.N.C., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in. ROMA, VIA MATTEO BOIARDO 12, presso lo studio dell’avvocato MORABITO GIUSEPPE, che la rappresenta e difende, giusta mandato a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

B.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE DELLE MILIZIE 1, presso lo studio,, degli avvocati STUDIO ANTONINO SPINOSO – SIMONA NAPOLITANI, rappresentato e difeso dall’avvocato POLIMENI DOMENICO, giusta mandato a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 240/2007 della CORTE D’APPELLO di REGGIO CALABRIA, depositata il 27/03/2007 r.g.n. 1844/03;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO IANNIELLO;

udito l’Avvocato MORABITO GIUSEPPE;

udito l’Avvocato POLIMENI DOMENICO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE Ignazio, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo
Con ricorso notificato il 12-13 dicembre 2007, la IM.EL.CA s.n.c. ha chiesto, con due motivi, la cassazione della sentenza depositata il 27 marzo 2007, con la quale la Corte d’appello di Reggio Calabria, riformando la decisione del giudice di primo grado, l’aveva condannata a pagare a B.L. la somma di Euro 4.905,44 – oltre accessori di legge – a titolo di compenso per il lavoro straordinario da questi prestato, nel corso del rapporto di lavoro subordinato intercorso tra le parti, per trasportare, per un’ora al giorno, con automezzo aziendale, dalla sede della società ai singoli cantieri gli operai e i mezzi di questa.

Resiste alle domande della società Leandro Battaglia, con rituale controricorso, illustrato poi con memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione
1 – Col primo motivo di ricorso, la società deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.p.c..

In proposito, il giudice di primo grado aveva dichiarato d’ufficio nullo il ricorso introduttivo del giudizio per la insufficiente esposizione dei fatti costitutivi dei diritti azionati.

Viceversa la Corte d’appello aveva ritenuto che il ricorso avesse sufficientemente esposto tali fatti, mentre la ricorrente sostiene che, mancando la indicazione del contratto collettivo applicabile al rapporto, la domanda avrebbe dovuto essere dichiarata nulla.

Il motivo conclude con la formulazione del seguente quesito di diritto: “Chiarisca la Corte … se, per i motivi sopra evidenziati il ricorso privo dell’esatta determinazione dell’oggetto della domanda o dell’esposizione dei fatti e degli elementi normativi sui quali si basa è, per giurisprudenza costante, affetto da nullità, ai sensi degli artt. 414, 164 e 156 c.p.c., risultando precluso alla parte produrre nel corso del giudizio i contratti collettivi non citati nel ricorso ed al giudice agire sulla scorta del principio iura novit curia;

– sempre per i motivi sopra argomentati, chiarisca la Corte … se la nullità dell’atto introduttivo, con riferimento alla mancanza o assoluta incertezza dei requisiti di cui all’art. 414 c.p.c., n. 3 e 4, opera pregiudizialmente rispetto al merito, traducendosi in inammissibilità della domanda senza che operi sanatoria per la costituzione del convenuto che eccepisca anche l’infondatezza nel merito della domanda e senza che sia possibile una integrazione successiva mediante note illustrative depositate nel corso del giudizio, ovvero senza che possa essere sanata dall’esercizio dei poteri previsti dall’art. 421, comma 2, da parte del giudice”. 2 – Col secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2107 e 2108 c.c., in quanto la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere come lavorativo il tempo necessario al dipendente per recarsi sul luogo di lavoro.

Comunque, secondo la ricorrente, la Corte avrebbe altresì errato in f)J quanto l’art. 12 del C.C.N.L. disporrebbe che l’operaio che percepisce, come l’appellante, la diaria per la trasferta, ha l’obbligo di trovarsi sul posto di lavoro per l’ora stabilita per l’inizio del lavoro.

Quesito:

“Chiarisca la Corte, alla luce delle superiori argomentazioni confermate dalle risultanze processuali, se il tempo impiegato per raggiungere il luogo di svolgimento della prestazione lavorativa, non essendo connaturato alla prestazione stessa – tenuto presente che il lavoratore, pur non rivendicando con il proposto giudizio la diversa qualifica di autista, si portava presso la sede dell’azienda non per disposizione datoriale ma per comodità propria – resta comunque estraneo ali attività lavorativa vera e propria non sommandosi quindi al normale orario di lavoro?”.

Il ricorso conclude pertanto con la richiesta di annullamento della sentenza impugnata, con ogni conseguenza di legge.

Il ricorso, scarsamente rispettoso del principio di autosufficienza (su cui, anche recentemente, cfr, Cass. nn. 5043/09, 4823/09 e 338/09) e i cui quesiti di diritto sono generici e non sempre aderenti alla fattispecie concreta illustrata (in argomento, cfr., tra le altre, Cass. S.U. ord. 5 febbraio 2008 n. 2658 e 5 gennaio 2007 n. 36), è comunque manifestamente infondato.

La sentenza impugnata ha infatti riformato quella di primo grado, dichiarativa della nullità del ricorso per indeterminatezza, accertando viceversa che in esso erano stati sufficientemente determinati il petitum nonchè i presupposti di fatto e di diritto posti a sostegno della pretesa.

La Corte territoriale ha altresì accertato che i fatti costitutivi del diritto al compenso per lavoro straordinario azionato non erano stati contestati dalla società, la quale aveva unicamente obiettato che erroneamente il B. avrebbe qualificato come tempo di lavoro (come tale da retribuire) quello necessario per recarsi al cantiere in cui di volta in volta doveva operare.

I giudici dell’appello hanno infine rilevato che anche i conteggi elaborati dal C.T.U. sulla base di determinati contratti collettivi non erano stati corte-stati.

A fronte di tali accertamenti, la società lamenta ora, col primo motivo, la mancata allegazione fin dall’inizio, nel ricorso introduttivo del giudizio, del contratto collettivo applicabile al rapporto, dei conteggi e dei prospetti e deduce di avere contestato la normativa contrattuale collettiva utilizzata nei propri conteggi dal C.T.U. nominato nel giudizio di primo grado.

Sul primo punto, va anzitutto rilevato che la fonte normativa primaria del compenso per lavoro straordinario è la legge, la quale stabilisce comunque determinati criteri di determinazione del relativo compenso in assenza della contrattazione collettiva, per cui la mancata invocazione di quest’ultima potrebbe semmai comportare la diretta applicazione dei criteri di legge, viceversa non richiesta dalla ricorrente.

Per il resto, la società non specifica quando e in quali precisi termini essa abbia effettivamente contestato la mancanza di conteggi allegati al ricorso introduttivo nonchè l’erronea utilizzazione di determinati contratti collettivi in sede di C.T.U., per cui di ciò non deve tenersi conto in questa sede.

Anche il secondo motivo è manifestamente infondato.

La Corte territoriale non ha infatti affermato in via di principio che il tempo necessario al dipendente per recarsi sul luogo di lavoro debba essere considerato come lavorativo, correttamente richiamando viceversa la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 14 marzo 2006 n. 5496), citata anche dalla società ricorrente, secondo cui ciò si verifica unicamente nel caso in cui lo spostamento sia funzionale rispetto alla prestazione, il che in particolare si verifica ove il dipendente, obbligato a presentarsi presso la sede aziendale, sia poi di volta in volta destinato in diverse località per svolgervi la sua prestazione lavorativa; che è la situazione concretamente accertata nel caso di specie, in cui il B. era altresì gravato dell’ulteriore incombenza di guidare l’automezzo aziendale verso tali località, trasportando mezzi e uomini.

Infine, la società invoca “l’art. 12 del C.C.N.L. all’epoca vigente”, per sostenere che, alla stregua di tale norma, il dipendente che percepisce (come il B. diaria di trasferta sarebbe obbligato a trovarsi sul luogo di lavoro per l’ora stabilita.

In proposito, va peraltro rilevato che non solo tale deduzione non è specificata con la riproduzione della norma contrattuale collettiva invocata, ma quest’ultima non risulta neppure contestualmente depositata nella cancelleria della Corte, come prescritto, a pena di improcedibilità, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 (nè, del resto, prodotta in sede di giudizio di merito, come rilevato dalla stessa sentenza di appello, sul punto non censurata).

Concludendo, il ricorso va respinto, con le normali conseguenze in ordine al regolamento delle relative spese, così come operato in dispositivo.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente a rimborsare al B. le spese di questo giudizio, liquidate in Euro 16,00 per spese ed Euro 1.500,00, oltre accessori di legge, per onorari, che distrae all’avv. Domenico Polimeni.

Così deciso in Roma, il 25 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 26 luglio 2010


Cassazione Civile Sez. Trib., Sent. n. 14434 del 15-06-2010

Non basta l’iscrizione all’Aire per evitare la tassazione in Italia

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 13965/2006 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12 presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;

– ricorrente –

contro

G.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 12/2005 della COMM. TRIB. REG. di FIRENZE, depositata il 07/03/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/05/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato DE BELLIS GIANNI, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE NUNZIO Wladimiro, che ha concluso per l’accoglimento.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, ad altra Sezione della C.T.R. della Toscana.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

G.L., ha impugnato l’avviso di accertamento con cui è stato rettificato l’imponibile IRPEF, ILOR e CSSN per il periodo in contestazione, a seguito di accertamento analitico del reddito per interessi percepiti su prestiti a favore di terzi, rilevati da schede personali del contribuente, e di accertamento sintetico D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38, sulla base della capacità economica rilevata da elementi emersi da un testamento olografo del 1998 e da schede separate del contribuente, rettificandosi in aumento l’imponibile per redditi da disponibilità degli immobili e per quote di risparmio di 1/6, per il periodo in contestazione, relativamente alle regalie in favore di familiari ed ai redditi da altri prestiti a terzi.

La C.T.R. accoglieva parzialmente il ricorso, confermando la rettifica da accertamento analitico e limitando quella da incrementi patrimoniali a L. 5.109.895; pur riconoscendo un reddito per possessi immobiliari in Italia, non si pronunciava in dispositivo. La C.T.R., con la sentenza indicata in epigrafe, riformava la sentenza di primo grado e limitava il reddito imponibile a quello attribuibile alla disponibilità (peraltro in locazione e non a titolo di proprietà) della villa in (OMISSIS).

L’Agenzia ha proposto ricorso per Cassazione, basato su quattro motivi. Il contribuente non ha svolto attività difensiva.

Con il primo motivo, l’Agenzia, denunziando violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi da 4 a 6, e D.M. 10 settembre 1979, art. 2, comma 1, lamenta che la C.T.R. avrebbe illegittimamente ritenuto, quanto all’utilizzo di immobili abitativi quale indice di capacità contributiva, che all’Ufficio incomberebbe anche l’onere di accertare che essi siano nella disponibilità del contribuente, essendo, invece, sufficiente a far sorgere la presunzione di reddito non dichiarato la sola proprietà degli stessi (“indiscussa” nella specie).

Con il secondo motivo, l’Agenzia denunzia illogicità e contraddittorietà della motivazione, perché la C.T.R.: a. affermando “l’Ufficio si è basato su un c.d. testamento, che tale non appare nel testo prodotto in giudizio e su schede di provenienza incerta (nel testo prodotto in giudizio”, non ha considerato che era irrilevante che il testamento non potesse essere considerato tale e che il G. ne avesse contestato solo l’utilizzabilità, giammai la provenienza né la sottoscrizione, cosi come non aveva disconosciuto la provenienza delle schede, nè la veridicità del loro contenuto; b. ritenendo che l’Ufficio avesse presunto le superfici degli immobili sulla base del valore degli stessi indicato nel c.d. testamento e che, nel determinare il reddito attribuibile al possesso di immobili, si fosse basato su una serie di presunzioni, anziché su di un fatto certo, non ha considerato che il reddito presunto derivava da elementi certi (dichiarazione sostanzialmente confessoria del G. circa gli immobili nella sua disponibilità), che nessuna rilevanza poteva avere il dato della superficie desunto dal valore dichiarato e che la disponibilità nel periodo in contestazione derivava dalla presunzione di accumulo per quote costanti di cui all’art. 38, comma 5, D.P.R. cit..

Con il terzo motivo, la parte erariale deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, comma 2, nonché motivazione insufficiente illogica e contraddittoria. Lamenta che la C.T.R. avrebbe illegittimamente: a. escluso che potessero assumere rilievo gli immobili situati all’estero, trattandosi di contribuente fiscalmente residente all’estero, per il quale rileva unicamente la capacità contributiva in Italia; b. ritenuto che rispetto alla dichiarazione e documentazione dell’iscrizione all’A.I.R.E. fin dal 1978 non avrebbe mai provato il contrario, limitandosi a presunzioni e deduzioni soggettive ed al riferimento a circostanze di cui non si conosce la collocazione temporale, nè il soggiorno obbligato in Italia poteva considerarsi residenza fiscale e, comunque, non era provato per il 1993; e. ritenuto che la stipula di un contratto di locazione non potesse significare necessariamente una presenza abituale nell’immobile locato. In particolare, erroneamente la C.T.R. avrebbe attribuito rilievo decisivo all’iscrizione all’A.I.R.E. e ritenuto non provato il contrario in aperto contrasto con gli atti di causa, da cui risultava almeno la “dimora abituale” in Italia. Ripercorre alcuni di tali elementi e deduce che l’omessa valutazione degli stessi configura il vizio di motivazione insufficiente su punto decisivo. La C.T.R. infine non avrebbe precisato la durata del soggiorno obbligato nè lo avrebbe adeguatamente valutato insieme alla locazione dell’immobile come idoneo ad accertare l’oggettiva situazione di residenza di fatto in Italia (indipendentemente dall’iscrizione anagrafica altrove).

Con il quarto motivo, l’Agenzia deducendo violazione dell’art. 38, commi da 4 a 6, e motivazione illogica, insufficiente e contraddittoria, censura la decisione della C.T.R. nella parte in cui ha ritenuto infondato l’accertamento basato sulla disponibilità d’ingenti prestiti e regalie, solo perché il contribuente avrebbe fornito la prova di “essere beneficiario di una enorme fortuna economica”, senza pretendere che il medesimo fornisse, invece, la prova che detta ingente disponibilità economica fosse giustificata dal possesso di somme derivanti “in tutto o in parte da redditi esenti o da redditi soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta” (art. 38, comma 6, D.P.R. cit.).

Il ricorso si rivela fondato.

Secondo l’ordine logico delle questioni, va anzitutto esaminato il terzo motivo, riguardante l’accertamento della residenza fiscale. La censura è fondata e va accolta. Infatti, sussistono sia la violazione di legge che il vizio motivazionale dedotti dalla parte erariale.

In tema d’imposte sui redditi, il D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 2, comma 2, individua, perché sussista la residenza fiscale nello Stato, tre presupposti, indicati in via del tutto alternativa : il primo, formale, rappresentato dall’iscrizione nelle anagrafi delle popolazioni residenti, gli altri due, di fatto, costituiti dalla residenza o dal domicilio nello Stato ai sensi del codice civile; ne consegue che – diversamente da quanto ritenuto nella sentenza impugnata – l’iscrizione del cittadino nell’anagrafe dei residenti all’estero non è elemento determinante per escludere la residenza fiscale in Italia, allorché il soggetto abbia nel territorio dello Stato il proprio domicilio, inteso come sede principale degli affari ed interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali (Cass. n. 13803/01; 10179/03). Al riguardo, utili elementi interpretativi possono desumersi dalla giurisprudenza comunitaria, perché, pure in riferimento ad un rapporto non caratterizzato dalla rilevanza delle relative norme e benché la materia delle imposte dirette non rientri nelle competenze dell’Unione, non può negarsi che l’esercizio di tale competenza da parte degli Stati membri non può prescindere dal diritto UE. Orbene, l’interpretazione qui accolta del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2, è in armonia con l’affermazione della giurisprudenza della Corte di giustizia, secondo cui “ai fini della determinazione del luogo della residenza normale, devono essere presi in considerazione sia i legami professionali e personali dell’interessato in un luogo determinato, sia la loro durata, e, qualora tali legami non siano concentrati in un solo Stato membro, l’art. 7, n. 1, comma 2, della direttiva 83/182/CEE riconosce la preminenza dei legami personali sui legami professionali. Nell’ambito della valutazione dei legami personali e professionali dell’interessato, tutti gli elementi di fatto rilevanti devono essere presi in considerazione, vale a dire, in particolare, la presenza fisica di quest’ultimo nonchè quella dei suoi familiari, la disponibilità di un’abitazione, il luogo di esercizio delle attività professionali e quello in cui vi siano interessi patrimoniali (v., in tal senso, sentenza 12 luglio 2001 in causa C-262/99, Louloudakis, punti 52, 53 e 55, i cui principi sono stati ribaditi da Corte giust. 7 giugno 2007, in causa C-156/04, Commissione c. Grecia).

La sentenza impugnata, invece, si è posta in netto contrasto con tali principi: non ha considerato che i presupposti indicati nell’art. 2, D.P.R. cit. sono alternativi, con la conseguenza che illegittimamente ha ritenuto che l’iscrizione del soggetto all’A.I.R.E. potesse essere elemento determinante per escluderne la residenza (fiscale) in Italia, dovendosi, invece, verificare se sussistessero le condizioni della terza ipotesi prevista dalla norma in questione: l’avere il soggetto avuto il proprio domicilio in Italia, inteso come sede principale degli affari e degli interessi economici, nonché delle proprie relazioni personali. Al riguardo, va affermato che il carattere soggettivo ed elettivo della “scelta” dell’interessato rileva principalmente quanto alla libertà dell’effettuazione della stessa (l’ordinamento deve riconoscere e garantire l’effettivo esercizio della libertà di stabilimento del centro principale dei propri interessi), ma, allorchè si deve rilevare quale sia il risultato di quella scelta, la volontà individuale va contemperata con le esigenze di tutela dell’affidamento dei terzi, di modo che il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato nel luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente, vale a dire in modo riconoscibile dai terzi. Ne deriva che deve prevalere un criterio di effettività (come in tema di individuazione del giudice competente per la dichiarazione di fallimento: Cass. 12285/05; 9753/01), non un elemento meramente soggettivo.

Sussiste anche il correlato vizio motivazionale, in quanto gli elementi dedotti dalle parti a sostegno delle rispettive posizioni in ordine al domicilio fiscale del soggetto avrebbero dovuto essere adeguatamente valutati proprio al fine della verifica della sussistenza anche della terza (alternativa) ipotesi prevista dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 2.

Possono essere trattate congiuntamente le violazioni del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, lamentate nel primo e nella prima parte del quarto motivo, nonché i vizi motivazionali dedotti nel secondo e nella seconda parte del quarto motivo, in quanto tutte attinenti all’assetto dell’onere probatorio ed alla valutazione delle relative allegazioni.

Anche tali censure si rivelano fondate.

L’accertamento sintetico, con metodo induttivo, consentito all’amministrazione finanziaria dalle norme contenute nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 38, commi 4 e 5, (disposizioni introdotte dalla L. 30 dicembre 1991, n. 413, art. 1), consiste nell’applicazione di presunzioni, in virtù delle quali l’ufficio finanziario è legittimato a risalire da un fatto noto (nel caso di specie, per un verso, la disponibilità d’immobili, per l’altro le elargizioni e le “regalie”) a quello ignorato (sussistenza di un certo reddito e, quindi, di capacità contributiva). La suddetta presunzione genera peraltro l’inversione dell’onere della prova, trasferendo al contribuente l’impegno di dimostrare che il dato di fatto sul quale essa si fonda non corrisponde alla realtà (Cass. n. 14778/2000; 327/2006; 5991/2006, nonché per il carattere legale di detta presunzione, Cass. n. 16284/07).

Nel caso di specie, rispetto alle puntuali contestazioni dell’atto di accertamento (riportante il “testamento olografo”, che indicava le proprietà immobiliari in Italia e all’estero, e le schede personali, che specificavano il denaro ed i preziosi donati ai familiari), il thema decidendum era perciò circoscritto alla questione della sufficienza della prova, che il contribuente doveva offrire, sul fatto che gli elementi posti dal fisco a base della presunzione di reddito non fossero invece dimostrativi di capacità contributiva.

A questo percorso argomentativo, conforme a legge, non è improntata la sentenza impugnata, per cui non resiste alle censure mosse. La C.T.R., in particolare, ha genericamente ed acriticamente svalutato la “certezza” degli elementi contestati, senza tenere conto che essi provenivano da documentazione redatta proprio dal contribuente. Il “testamento” conteneva l’indicazione d’immobili in Italia ed all’estero che il soggetto intendeva attribuire ai beneficiari dei lasciti, con ciò dimostrando che il medesimo riteneva di averne la “disponibilità” in senso tecnico-giuridico (a prescindere, in questa sede, dalla qualificabilità, o meno, dell’atto come testamento). La disponibilità è uno degli elementi caratterizzanti il diritto di proprietà, che, salvo diverso assetto (non dedotto nella specie) compete proprio al titolare dello stesso (art. 832 c.c.). Nè la C.T.R. ha fornito adeguata spiegazione della generica mancata conoscenza della disponibilità, delle caratteristiche e della consistenza dei beni indicati in detto documento, riportato nell’atto impositivo, in quanto tali affermazioni non tengono conto del consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’ufficio finanziario che procede ad accertamento con metodo sintetico ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, non ha l’onere di indicare i singoli cespiti dai quali derivi il maggior reddito accertato, essendo invece sufficiente che sia indicato un reddito globale, traendo tale determinazione o da manifestazioni di spesa non coordinabili con un minor reddito dichiarato ovvero da situazioni indicative di una capacità di spesa di natura reddituale (Cass. 24 ottobre 2005 n. 20588; 22 dicembre 1995 n. 13089; 27 luglio 1993, n. 8392; 13 novembre 2000, n. 14691; 17 giugno 2002, n. 8665).

Così, rispetto al denaro ed ai preziosi oggetto di regalie, la C.T.R. ne ha erroneamente escluso la rilevanza, quali indici di capacità contributiva, sulla base della semplice deduzione del contribuente di “essere beneficiario di una enorme fortuna economica”, mentre il medesimo avrebbe dovuto puntualmente provare che l’enorme disponibilità economica fosse giustificata dal possesso di somme derivanti da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.

Si deve, infatti, ribadire, che “il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici elementi indicatori di capacità contributiva esposti dall’Ufficio, non ha il potere di togliere a tali “elementi” la capacità presuntiva “contributiva” connessa alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale (e, quindi, non imponibile o perchè già sottoposta ad imposta o perchè esente) delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma” (Cass. n. 14665/06; 19252/05).

A seguito dell’accoglimento del ricorso, la causa va pertanto rinviata per nuovo motivato esame della pretesa erariale, alla luce dei descritti principi in tema d’individuazione del domicilio fiscale e di ripartizione dell’onere probatorio in tema di accertamento a norma del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, nonchè per la determinazione in ordine alle spese anche del presente giudizio, ad altra Sezione della medesima C.T.R..


Cass. civ. Sez. V, Ord., (ud. 05-05-2010) 15-06-2010, n. 14366

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPI Fernando – Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso 16550/2007 proposto da:

COMUNE DI GENOVA in persona del Sindaco e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA A. FARNESE 7, presso lo studio dell’avvocato COGLIATI DEZZA Alessandro, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato UCKMAR VICTOR, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

T.F.;

– intimata –

sul ricorso 18216/2007 proposto da:

T.F., in qualità di erede di L.A., elettivamente domiciliata in ROMA VIALE PARIOLI 43, presso lo studio dell’avvocato D’AYALA VALVA FRANCESCO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LOVISOLO ANTONIO, giusta delega in calce;

– controricorrente e ricorrente incidentale –

contro

COMUNE DI GENOVA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 11/2 006 della COMM. TRIB. REG. di GENOVA, depositata il 24/04/2006;

udita la relazione della causa svolta nella Pubblica udienza del 05/05/2010 dal Consigliere Dott. GIOVANNI GIACALONE;

udito per il ricorrente l’Avvocato COGLIATI DEZZA, che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il resistente l’Avvocato D’AYALA VALVA, che ha chiesto il rigetto;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale.

Svolgimento del processo – Motivi della decisione
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. APICE Umberto, che ha concluso per il rigetto del ricorso principale, assorbito l’incidentale.

La contribuente sopra indicata ha impugnato l’avviso di accertamento emesso dal Comune di Genova per il pagamento dell’ICI per il periodo d’imposta in contestazione e relative sanzioni.

La C.T.P. accoglieva il ricorso, ritenendo applicabile, anche in presenza d’intervento di recupero edilizio, la norma agevolativa prevista per gli immobili d’interesse storico e artistico di cui al D.L. n. 16 del 1993, art. 2, comma 5, conv. con L. n. 75 del 1993, dato il suo carattere di specialità rispetto alla norma generale di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5. Con la sentenza indicata in epigrafe, la C.T.R. respingeva l’appello principale del Comune e quello incidentale della contribuente, affermando che nella specie, come pacifico tra le parti, si trattava di lavori non di ristrutturazione, ma di “recupero abitativo del patrimonio esistente di cui alla L. n. 457 del 1978, art. 31 lett. b e c” (i soli autorizzabili dal Comune in relazione ad edificio storico), con conseguente inapplicabilità della L. n. 504 del 1992, posta a fondamento dell’atto impositivo.

Ricorre per cassazione il Comune con due motivi; resiste la contribuente con controricorso, nel quale propone anche ricorso incidentale, basato su due motivi.

A seguito di rimessione da parte della C.T.P. di Genova, la Corte costituzionale, con ordinanza n. 6 del 2003, resa in causa avente ad oggetto la medesima questione, ha osservato che il giudizio verte sulla determinazione della base imponibile ai fini ICI relativamente ad un immobile, sottoposto a vincolo storico-artistico, interessato da lavori di riattamento interno, debitamente autorizzati. Ha aggiunto che la rilevanza della questione di legittimità costituzionale del D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 5, comma 6, si fondava sull’implicito presupposto dell’applicabilità di tale norma alla fattispecie considerata e che, tuttavia il rimettente non dava conto dell’esistenza di altra norma – D.L. 23 gennaio 1993, n. 16, art. 2, comma 5 (convertito, con modificazioni, nella L. 24 marzo 1993, n. 75) – specificamente riguardante la determinazione della base imponibile per i fabbricati di interesse storico o artistico, ispirata ad una ratio di evidente favore per tali immobili la cui tassazione risulta, pertanto, inferiore a quella degli altri fabbricati. Secondo il Giudice delle leggi, la mancata indicazione delle ragioni per le quali il rimettente riteneva applicabile alla fattispecie sottoposta al suo esame la norma censurata anzichè quella relativa agli immobili di interesse storico o artistico, si traduceva in un difetto di motivazione sulla rilevanza della questione, che andava perciò dichiarata manifestamente inammissibile.

Nella presente controversia, a seguito del monito emergente da detta ordinanza della Corte costituzionale, la C.T.P. ha espressamente ritenuto la norma agevolativa per i beni artistici “speciale” rispetto a quella relativa alla determinazione della base imponibile ICI di cui al D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6; tale impostazione risulta confermata dalla sentenza impugnata in questa sede, seppure non si sia esplicitamente pronunziata sul punto.

Rileva la Sezione che la sussistenza, o meno, del rapporto di specialità tra le norme in esame – che, come emerso nella discussione orale, possono reputarsi entrambe “speciali” rispetto al regime generale d’imponibilità ai fini ICI, ma ciascuna ad un precipuo fine – è alla base della soluzione delle questioni coinvolte dai motivi di diritto proposti nel presente giudizio.

In presenza dell’indicato monito del Giudice delle Leggi, potrebbe profilarsi una questione di massima di particolare importanza (art. 374 c.p.c.), riguardante la verifica in via interpretativa della sussistenza di detto rapporto di specialità, dato che, ad avviso di questo Collegio, la norma agevolativa di cui al D.L. 23 gennaio 1993, n. 16 (convertito, con modificazioni, nella L. 24 marzo 1993, n. 75), art. 2, comma 5, non appare necessariamente inquadrabile tra le norme che determinano la base imponibile, qual è, invece, il D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 5, comma 6.

P.Q.M.
Rinvia la causa a nuovo ruolo, disponendo la rimessione degli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite.

Così deciso in Roma, il 5 maggio 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2010


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 29-04-2010) 15-06-2010, n. 14423

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ALTIERI Enrico – Presidente

Dott. D’ALONZO Michele – Consigliere

Dott. PERSICO Mariaida – Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – rel. Consigliere

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 30445/2006 proposto da:

COMUNE DI GERMIGNAGA, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato NAPOLI MARCO con studio in LUINO VIA B. LUINI 17 (avviso postale), giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

B.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 98/2005 della COMM.TRIB.REG. di MILANO, depositata il 29/07/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 29/04/2010 dal Consigliere Dott. EUGENIA MARIGLIANO;

udito per il ricorrente l’Avvocato PIO CORTI per delega Avv. NAPOLI MARCO, che ha chiesto l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SEPE Ennio Attilio, che ha concluso per il rigetto.

Svolgimento del processo
In data 28.10.1991, l’U.T.E. di Varese revisionava gli estimi relativi ad un immobile, sito nel comune di Germignana, già destinato ad opificio e di proprietà di B.L.. Tali estimi venivano impugnati dalla contribuente innanzi alla C.T.P. di quella città.

Nelle more, il 6.12.1991, presentava denuncia di variazione di destinazione dello stesso immobile.

Con sentenza n. 207/12/99 del 29.10.1999 la C.T.P. annullava gli estimi impugnati, disponendo che l’U.T.E. di Varese rideterminasse la rendita; la sentenza diveniva definitiva l’8.7.2000.

L’U.T.E. non ottemperava a tale disposto in quanto, a seguito della denuncia di variazione della B., aveva già attribuito, in data 28.4.1999, una nuova rendita, non notificata alla contribuente nè pubblicata sull’albo pretorio.

In data 11.1.2001 la contribuente, venuta a conoscenza dei nuovi dati catastali, li impugnava innanzi alla C.T.P. Nel giudizio non si costituiva l’Agenzia del territorio, interveniva però il Comune di Germignana ad adiuvandum, eccependo l’inammissibilità del ricorso.

La C.T.P. dichiarava inammissibile il ricorso perchè proposto contro un atto inefficace. Proponeva gravame la contribuente, si costituivano sia l’Agenzia del territorio che il Comune di Germignana, che eccepiva l’inammissibilità dell’appello per omessa indicazione delle parti nei cui confronti era stata proposta l’impugnazione.

La C.T.R. respinta l’eccezione processuale, affermava che, poichè l’attribuzione della nuova rendita era stata effettuata il 28.4.1999 quindi anteriormente al 31.12.1999, la ricorrente era legittimata all’impugnativa entro i sessanta giorni dall’entrata in vigore della L. n. 342 del 2000, e, richiamata la sentenza definitiva n. 207/12/99, che aveva annullato le precedenti rendite e che aveva imposto all’U.T.E. di rideterminare le rendite, l’immobile non poteva essere considerato opificio per cui andava classificato come categoria C. Avverso detta decisione il Comune di Germignana propone ricorso per cassazione sulla base di due motivi, integrati da memoria. Le altre parti non risultano costituite.

Motivi della decisione
Con il primo motivo si denuncia la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, per non avere la C.T.R. dichiarato inammissibile l’appello, malgrado che quell’atto fosse privo dell’indicazione delle parti nei cui confronti era stata proposta l’impugnazione ed, in particolare, dell’indicazione del Comune di Germignana, pur intervenuto in quel procedimento.

La C.T.R. aveva deciso ritenendo che dal contesto dell’impugnazione si deduceva chiaramente che la controparte fosse l’Agenzia de territorio e che la contribuente non fosse tenuta a notificare l’appello a pena di inammissibilità anche al Comune.

Con la seconda censura si deduce la falsa applicazione della L. n. 342 del 2000, art. 74, nonchè insufficiente motivazione, per avere la C.T.R. affermato che l’U.T.E. aveva rideterminato la rendita a seguito della pronuncia definitiva della C.T.P. n. 207/12/99 del 29.10.1999 – 7.3.2000, mentre la messa in atti era stata eseguita in epoca precedente al 31.12.1999 e, quindi prima del passaggio in giudicato di detta sentenza.

Si sostiene, inoltre, che la rendita attribuita non poteva essere impugnata in quanto non era stata nè notificata alla parte, nè affissa sull’albo pretorio, per cui non poteva essere divenuta definitiva e, conseguentemente, non era applicabile la L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 2, ultima parte, ma solo il comma 3, che non prevede la riapertura dei termini per l’impugnazione, ma solo la possibilità per gli enti impositori di procedere alla liquidazione o all’accertamento delle imposte entro i termini di decadenza o prescrizione. Poichè nella specie, nessun atto impositivo era stato notificato alla contribuente, il ricorso avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile per mancanza dell’atto.

Il primo motivo di ricorso deve essere respinto.

Lamenta sostanzialmente il Comune la mancata notifica dell’appello nei suoi confronti pur essendo state parte nel giudizio di primo grado.

Nella specie la C.T.R. ha ritenuto che, pur non essendo state espressamente indicate le parti nell’atto di appello, tuttavia questo fosse ammissibile, dato che dall’epigrafe e dal contesto dello stesso si evinceva in modo inequivocabile che la parte appellata fosse l’Agenzia del territorio; riteneva peraltro irrilevante la mancata indicazione anche del Comune, interventore ad adiuvandum in primo grado.

Tale ultima considerazione è errata, infatti, in tema di contenzioso tributario ed in ipotesi di litisconsorzio, per l’esistenza di una situazione che comporti l’obbligo di chiamare in causa anche in appello, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., tutte le parti presenti nella prima fase del processo, è necessario che i rapporti dedotti in causa siano inscindibili, non suscettibili di soluzioni differenti nei confronti delle varie parti del giudizio, o che due (o più) rapporti dipendano logicamente l’uno dall’altro, o da un presupposto di fatto comune, in modo tale da non consentire razionalmente l’adozione nei confronti delle diverse parti di soluzioni non conformi perchè comporterebbero capi di decisione logicamente in contraddizione tra loro.

Anche nel processo tributario, che espressamente ammette l’istituto dell’intervento D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ex art. 14, – nei limiti ivi indicati -, l’intervento adesivo dipendente determina un’ipotesi di causa inscindibile, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., con conseguente configurabilità di un litisconsorzio necessario processuale in grado di appello. L’omessa notifica dell’impugnazione al litisconsorte necessario non comporta però l’inammissibilità del gravame (tempestivamente proposto nei confronti dell’altra parte), ma soltanto l’esigenza dell’integrazione del contraddittorio per ordine del giudice e, in mancanza di questo, la nullità dell’intero processo di secondo grado e della sentenza che lo ha concluso, rilevabile d’ufficio anche in sede di legittimità. Pertanto la mancata notifica dell’impugnazione all’interventore non comporta l’inammissibilità dell’appello, dovendo il giudice nell’ambito del suo dovere di verificare la regolarità della costituzione del contraddittorio, ordinarne l’integrazione.

Tuttavia,nella specie, pur in assenza da parte del giudice di tale ordine, poichè la parte, pur non intimata, era presente nel giudizio di secondo grado, con la propria costituzione ha sanato la nullità del giudizio, anche perchè dal disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, – secondo il quale “il ricorso in appello è proposto… nei confronti di tutte le parti che hanno partecipato al giudizio di primo grado…” non si deduce che l’inosservanza di questa prescrizione sia sanzionata con la nullità, sia perchè comunque, ai sensi dell’art. 156 c.p.c., nessuna nullità può essere comminata se non espressamente prevista o quando comunque l’atto ha raggiunto il suo scopo.

Anche il secondo motivo è infondato.

E’ pur vero che la C.T.R. ha errato nel affermare che l’U.T.E. aveva rideterminato la rendita a seguito della pronuncia definitiva della C.T.P. n. 207/12/99 del 29.10.1999 – 7.3.2000, mentre la messa in atti della rendita impugnata in questo procedimento non poteva essere eseguita in ottemperanza di quel comando giudiziario in quanto era stata effettuata in epoca precedente alla data della pronuncia e del passaggio in giudicato di quella sentenza. Tuttavia la mancata inottemperanza di quel giudicato è assolutamente irrilevante, in quanto a seguito dell’istanza di attribuzione di una nuova rendita per variazione della consistenza dell’immobile, l’adeguamento della vecchia rendita sarebbe stata del tutto inutile e priva di efficacia, stante la necessità di adeguare la stessa alla nuova situazione di fatto.

E’, invece, conforme a diritto la pronuncia della C.T.R. relativa alla legittimità e tempestività dell’impugnativa della rendita messa in atti il 28.4.1999 e, quindi, anteriormente al 31.12.1999; infatti ai sensi della L. n. 342 del 2000, art. 74, comma 2, ultimo periodo, la ricorrente era legittimata all’impugnativa entro i sessanta giorni dall’entrata in vigore di tale normativa, non potendosi dedurre, nel silenzio della legge, come, invece, sostenuto dal Comune ricorrente, che fosse necessario che la rendita fosse stata notificata al contribuente o che fosse stata recepita in un atto impositivo.

Tutto ciò premesso e dichiarata assorbita ogni altra censura, il ricorso deve essere respinto. Non si fa luogo alla liquidazione delle spese, poichè le parti intimate non hanno svolto alcuna attività difensiva in questo giudizio di legittimità.

P.Q.M.
La Corte respinge il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, il 29 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2010


Corte Suprema di Cassazione, Sez. V Trib., n. 14373 del 15.06.2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MIANI CANEVARI Fabrizio – Presidente

Dott. CARLEO Giovanni – Consigliere

Dott. MARIGLIANO Eugenia – Consigliere

Dott. CAMPANILE Pietro – Consigliere

Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

E.M., elettivamente domiciliata in Torino, in via XX Settembre n. 62, presso l’avv. GENTILLI GIORGIO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

COMUNE DI CASALBORGONE, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. CAPIROSSI MASSIMO ed elettivamente domiciliato in Roma al Lungotevere dei Mellini n. 44, presso l’avv. Salvatore Mileto;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Piemonte n. 25/32/03, depositata il 30 ottobre 2003;

Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 3 febbraio 2010 dal Relatore Cons. Dott. Antonio Greco;

Uditi l’avv. Salvatore Mileto per la ricorrente ed il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CICCOLO Pasquale Paolo Maria, che ha concluso per il rigetto del primo e del sesto motivo del ricorso e per l’accoglimento dei restanti.

Svolgimento del processo

E.M. impugnò l’atto con il quale il Comune di Casalborgone le richiedeva il pagamento, per L. 163.000, della t.a.r.s.u. dell’anno 2000, dopo aver provveduto al pagamento del tributo, ed impugnò assieme ad esso la delibera della Giunta comunale, il ruolo, e la comunicazione di iscrizione a ruolo, considerata equipollente alla cartella esattoriale, e perciò compresa nell’elenco degli atti impugnabili di cui al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19. Chiese in via preliminare di dichiarare l’inesistenza dell’iscrizione a ruolo, ed in via principale di annullarla per carenza di potere del soggetto sottoscrittore.

Il Comune si costituì chiedendo di dichiarare l’inammissibilità del ricorso in quanto l’atto, una semplice comunicazione, non iscritta a ruolo, non era impugnabile.

In primo grado il ricorso era dichiarato inammissibile perchè l’atto impugnato, non avente le caratteristiche nè di avviso di liquidazione nè di cartella esattoriale e neppure di ruolo, non era compreso nell’elenco, da ritenersi tassativo, di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19.

La Commissione tributaria regionale del Piemonte rigettava l’appello della E., ritenendo non impugnabile l’atto contestato: non essendo questo di per sè destinato a produrre alcun effetto giuridico, il contribuente non aveva alcun interesse a proporre ricorso avverso di esso.

Nei confronti della decisione la contribuente propone ricorso per cassazione articolato in sette motivi.

Il Comune di Casalborgone resiste con controricorso, illustrato con successiva memoria.

Motivi della decisione

Col primo motivo la ricorrente censura la sentenza, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, per la mancata integrazione del contraddittorio al concessionario per la riscossione, trattandosi di causa inscindibile.

Il motivo è infondato, in quanto “il fatto che il contribuente venga a conoscenza del ruolo, formato dall’ente locale, soltanto tramite la notificazione dello stesso ad opera del concessionario della riscossione, non determina nel processo tributario, ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 14, comma 1, una situazione di litisconsorzio necessario, nè sostanziale nè processuale, tra l’ente impositore ed il concessionario stesso, atteso che quest’ultimo (a parte l’esercizio dei poteri propri, volti alla riscossione delle imposte iscritte nel ruolo), nell’operazione di portare a conoscenza del contribuente il ruolo, dispiega una mera funzione di notifica, ovverosia di trasmissione al destinatario del titolo esecutivo così corre (salva l’ipotesi di errore materiale) formato dall’ente e, pertanto, non è passivamente legittimato a rispondere di vizi propri del ruolo, come trasfuso nella cartella” (Cass. n. 933 del 2009, n. 10580 del 2007).

Con il secondo motivo censura la sentenza, per violazione di legge e vizio di motivazione, per aver considerato non autonomamente impugnabile il ruolo, atto di natura impositiva e come tale impugnabile secondo la previsione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, comma 1, lett. d), prima parte.

Con il terzo motivo, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, deduce che l’atto, qualificato “comunicazione di iscrizione a ruolo” – e non notificazione di iscrizione a ruolo, per essere stato “recapitato per posta ordinaria e non tramite notifica” -, è comunque atto autonomamente impugnabile, in base al D.Lgs. 26 febbraio 1999, n. 46, art. 32, comma 1, lett. a).

Con il quarto motivo critica la sentenza, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, per aver affermato come nella specie il contribuente non avesse interesse ad impugnare l’atto in quanto destinato di per sè a non produrre alcun effetto giuridico, evidenziando le ragioni di interesse a promuovere azione a tutela della propria situazione giuridica.

Con il quinto motivo lamenta la violazione della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 7, comma 2, lett. c), e art. 10, nonchè vizio di motivazione, per avere la sentenza impugnata affermato che la comunicazione impugnata indicava espressamente che “contro di essa non è ammesso ricorso giurisdizionale”, negando così “l’esistenza di un organo giurisdizionale da adire per la tutela della propria situazione giuridicamente rilevante”, e per aver fatto proprie le considerazioni dell’ente impositore secondo cui, una volta effettuato spontaneamente il pagamento, non vi sarebbe alcuna cartella esattoriale, e quindi la possibilità di tutelarsi in sede giurisdizionale, se non presentando istanza di rimborso ed impugnando il provvedimento, tacito o espresso, di rifiuto.

Col sesto motivo lamenta, sotto il profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione, che in primo grado la procura ad litem dell’ente impositore sia stata rilasciata nei confronti di ” G.R.”, e non di E.M., attuale ricorrente. La circostanza che con unica delibera la Giunta comunale abbia autorizzato il Sindaco a resistere in diciotto procedimenti nei confronti di altrettanti contribuenti non toglierebbe che mentre l’atto di giunta è atto generale, la procura ad litem risulterebbe essere un atto specifico. Non essendosi espresso il giudice d’appello sul punto, la sentenza dovrebbe essere cassata per omessa pronuncia.

Con il settimo motivo censura per ultra petizione il regolamento delle spese tanto in primo che in secondo grado.

Il secondo, il terzo ed il quarto motivo, che vanno esaminati congiuntamente perchè strettamente connessi, sono fondati.

Le sezioni unite di questa Corte hanno affermato – in un giudizio analogo, nel quale era parte il Comune qui controricorrente – che nel processo tributario sono qualificabili come avvisi di accertamento o di liquidazione, impugnabili ai sensi del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, tutti quegli atti con cui l’Amministrazione comunica al contribuente una pretesa tributaria ormai definita, ancorchè tale comunicazione non si concluda con una formale intimazione di pagamento, sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un invito bonario a versare quanto dovuto, non assumendo alcun rilievo la mancanza della formale dizione “avviso di liquidazione” o “avviso di pagamento” o la mancata indicazione del termine o delle forme da osservare per l’impugnazione o della commissione tributaria competente, le quali possono dar luogo soltanto ad un vizio dell’atto o renderlo inidoneo a far decorrere il predetto termine, o anche giustificare la rimessione in termini del contribuente per errore scusabile (Cass. sez. unite, 24 luglio 2007, n. 16293).

Nell’ambito di questa impostazione di diritto, che l’ente impostore non può riedificare a suo piacimento dichiarando “non impugnabili” atti che impugnabili sono, spetta al giudice di merito sceverare con congrua motivazione gli atti impositivi dagli atti che impositivi non sono, esaminando gli aspetti sostanziali dell’atto, che possono non trovare compiuta corrispondenza nei suoi aspetti formali.

Nella presente controversia è sufficiente rilevare come la sentenza impugnata sottolinei che “la comunicazione” impugnata contiene la determinazione della esatta somma dovuta dal contribuente, indicando che “in mancanza del suo pagamento seguirà l’iscrizione a ruolo” e che per chiarimenti, “richieste di sgravio o di rimborso il contribuente può rivolgersi all’ente impositore”, elementi dai quali è ragionevole dedurre che ci si trovi di fronte alla comunicazione di una pretesa impositiva, di guisa che l’atto si atteggia come una vera e propria liquidazione dell’imposta, che incide sulla posizione patrimoniale del contribuente.

L’accoglimento dei detti motivi comporta l’assorbimento dell’esame del quinto e del settimo motivo.

Il sesto motivo, concernente l’erronea indicazione del contribuente ricorrente in primo grado nei confronti del quale l’ente impositore avrebbe conferito la procura ad litem, è invece infondato, atteso che non risulta che il rilievo sia stato riproposto in appello con specifico riferimento alla contribuente appellante E.M. nè che sia stato dibattuto nel merito.

In conclusione, vanno accolti il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso, assorbito l’esame del quinto e del settimo motivo, e vanno rigettati il primo ed il settimo motivo; la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata, anche per le spese, ad altra sezione della Commissione tributaria regionale del Piemonte, la quale procederà ad un nuovo esame della controversia uniformandosi ai principi sopra enunciati.

P.Q.M.

La Corte accoglie il secondo, il terzo ed il quarto motivo del ricorso, assorbiti il quinto ed il settimo, rigetta il primo ed il sesto motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte.


Cass. civ. Sez. V, Sent., (ud. 25-02-2010) 15-06-2010, n. 14389

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. D’ALONZO Michele – rel. Presidente

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere

Dott. MERONE Antonio – Consigliere

Dott. PARMEGGIANI Carlo – Consigliere

Dott. GIACALONE Giovanni – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

su ricorso (iscritto al n. 18902/05 di R.G.) proposto da:

Comune di Castelrotto (BZ), in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma alla Via Bassano del Grappa n. 24 presso lo studio dell’avv. COSTA MICHELE che lo rappresenta e difende, insieme con l’avv. Alfred MUSLER (del Foro di Bolzano), in forza della procura speciale rilasciata a margine della seconda facciata del ricorso;

– ricorrente –

contro

O.A., elettivamente domiciliato in Roma alla Via Federico Confalonieri n. 5 presso lo studio dell’avv. MANZI ANDREA che lo rappresenta e difende in forza della procura speciale rilasciata a margine (della seconda facciata) del controricorso;

– controricorrente –

nonchè sul ricorso incidentale (iscritto ai n. 24149/05 di R.G.) proposto da:

O.A., come innanzi rappresentato e difeso;

– ricorrente incidentale –

contro

il Comune di Castelrotto (BZ);

– intimato –

entrambi i ricorsi avverso la sentenza n. 15/03/05 depositata il 2 maggio 2005 dalla Commissione Tributaria di secondo grado di Bolzano, notificata il giorno 11 maggio 2005;

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 25 febbraio 2010 dal Cons. Dott. Michele D’ALONZO;

sentite le difese delle parti, perorate dall’avv. Michele COSTA, per il Comune, e dall’avv. Salvatore Di Matteo (delegato), per l’ O.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DE NUNZIO Wladimiro, il quale ha concluso per l’accoglimento del ricorso principale, con assorbimento di quello incidentale.

Svolgimento del processo
Con ricorso notificato a O.A. il giorno 8 luglio 2005 (depositato il 26 luglio 2005), il Comune di Castelrotto (BZ) – premesso che con delibera del 6 ottobre 2003 la sua Giunta aveva dichiarato che “l’abitazione” nella quale l’ O. (con lettera del 19 maggio 2003) aveva indicato di “dimorare per la maggior parte dell’anno” (nel mentre “la moglie”, “assieme alle figlie comuni”, “dimorava nel di lei appartamento a (OMISSIS), per il quale… fruiva dell’agevolazione sull’abitazione principale da parte del Comune di Bolzano”) “non poteva considerasi abitazione principale ai sensi della Delib. Consiliare n. 81 del 2000 risp…. e dell’art. 4 regolamento ICI, negandogli di conseguenza l’applicazione dell’aliquota ridotta prevista per le abitazioni principali” -, in forza di cinque motivi, chiedeva, di cassare la sentenza n. 15/03/05 della Commissione Tributaria di secondo grado di Bolzano (depositata il 2 maggio 2005, notificata il giorno 11 maggio 2005) che aveva accolto l’appello dell’ O. avverso la decisione (24/01/04) della Commissione Tributaria di primo grado dello stesso capoluogo la quale aveva respinto il ricorso del contribuente.

Nel controricorso notificato il 30 settembre 2005 (depositato il 17 ottobre 2005), l’ O. instava per il rigetto dell’impugnazione del Comune e spiegava ricorso incidentale condizionato fondato su un solo motivo.

L’ O. ed il Comune depositavano le rispettive memorie ex art. 378 c.p.c., il 17 ed il 19 febbraio 2010.

Motivi della decisione
1. In via preliminare, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., deve essere disposta la riunione del ricorso incidentale dell’ O. all’anteriore proposto dal Comune siccome avente ad oggetto l’impugnazione della medesima sentenza.

2. Con questa la Commissione Tributaria Regionale – esposto (a) che l’art. 4 del regolamento comunale ICI recepiva la definizione di “abitazione principale” contenuta nel D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, e (b) che “con provvedimento dd. 20 aprile 1994 il Commissario del Governo… statuiva che il sig. O. trascorre la maggior parte dell’anno nella propria abitazione nel comune di Castelrotto, che per tale motivo si realizza il requisito della dimora abituale e quindi che esistono le condizioni per l’iscrizione anagrafica nel Comune di Castelrotto” – ha accolto l’appello del contribuente osservando:

– “il sig. O…. risulta… da allora iscritto nel registro dell’anagrafe del Comune di Castelrotto senza che quest’ultimo abbia mai fornito la prova od indizio… di una modifica di tale dimora abituale”;

– “anche in considerazione dell’art. 2129 c.c., si deve presumere che il sig. O. … effettivamente dimora abitualmente nel Comune di Castelrotto e non a Bolzano”, per cui “il ricorrente… adempie… tutti i presupposti previsti dall’art. 4 del regolamento comunale ICI per poter usufruire delle agevolazioni fiscali per la sua abitazione sita nel territorio comunale”, della quale “è proprietario”;

– “la circostanza che la moglie del ricorrente sia proprietaria di un appartamento in Bolzano e che ivi dimori abitualmente non ha alcuna rilevanza sull’agevolazione fiscale da concedere dal Comune di Castelrotto” perchè “se l’art. 4 venisse interpretato come richiesto dal Comune, nè l’appellante nè sua moglie potrebbero mai usufruire dell’agevolazione fiscale prevista per l’abitazione principale”. 3. Il Comune censura tale decisione con cinque motivi.

A. Con il primo l’ente impositore denunzia “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 18, comma 3, per omessa sottoscrizione in originale della copia del ricorso depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria” affermando che “la sentenza impugnata non prende assolutamente in considerazione l’eccezione formulata… nell’appello incidentale”.

B. Con il secondo motivo il Comune denunzia “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 12, comma 3”, per invalidità della “procura alle liti… perchè non apposta in originale sul ricorso” esponendo che “anche con riguardo a tale eccezione formulata in secondo grado… il giudice non si esprimeva, mentre il giudice di primo grado l’aveva rigettata”: per il ricorrente “anche la firma del difensore per autenticare la sottoscrizione della procura alle liti (cfr. Cass. n. 5295/2001) deve essere apposta in originale sulla copia del ricorso depositato in segreteria”.

C. Con il terzo motivo l’ente denunzia “violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 112 e 277 c.p.c.”, nonchè “omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia” sostenendo che il giudice di appello ha violato detto “combinato disposto” perchè “ha omesso di pronunciarsi su una domanda (rectius eccezione) propostagli” non avendo preso “assolutamente in considerazione l’appello incidentale… relativamente all’eccezione d’inammissibilità del ricorso introduttivo per la mancata sottoscrizione in originale della copia dello stesso, depositata presso la segreteria della Commissione Tributaria”, “nonostante il giudice di primo grado avesse espressamente statuito sul punto” e “accertato” che la “copia… depositata in segreteria non recava in calce alla delega la firma in originale, nè del ricorrente nè del procuratore”, “detta omissione di pronuncia rileva anche agli effetti della omessa motivazione su un punto decisivo della controversia”.

D. Con il quarto motivo il Comune – esposto di aver contestato e di contestare “tutt’ora anche il fatto che il sig. O. dimori abitualmente a (OMISSIS)”) – denunzia “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 504 del 1992, art. 8, comma 2, nonchè dell’art. 4 del regolamento ICI” esponendo che per tali norme “un’abitazione”, “ai fini della qualifica ad abitazione principale”, deve rappresentare “non solo la dimora abituale del contribuente… ma anche dei suoi familiari” per cui “la circostanza che i familiari” dell’ O. “non dimorano abitualmente nell’abitazione di quest’ultimo a (OMISSIS)” comporta “il venir meno di uno dei due presupposti richiesti dalla legge” e dal regolamento ICI “per la qualifica di un’abitazione quale abitazione principale” e “rende del tutto superflua la questione se il sig. O. stesso dimori o meno abitualmente nella sua abitazione a (OMISSIS)”.

E. Con il quinto (ultimo) motivo il ricorrente denunzia “insufficiente motivazione circa l’effettiva dimora abituale a (OMISSIS) del sig. O.” sostenendo “non corrisponde(re) affatto alla realtà” che il contribuente “dimori abitualmente a (OMISSIS) e non assieme alla sua famiglia a (OMISSIS)” perchè (in sintesi), “come dimostrato… mediante la documentazione prodotta in primo grado”, quella dell’ O. in (OMISSIS) è una “mera abitazione di villeggiatura” e non “un’abitazione principale”. 4. L’ O., a sua volta, propone ricorso incidentale condizionato con il cui unico motivo denunzia “violazione e falsa applicazione del combinato disposto di cui agli artt. 112 e 277 c.p.c.” (anche “in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”) adducendo che il giudice di appello ha “illegittimamente esteso la propria indagine a circostanze nuove rispetto a quelle originariamente invocate dal’amministrazione comunale” atteso che “il provvedimento… impugnato non era… stato motivato con ragioni attinenti all’asserita mancanza di dimora abituale (di esso) O. nella sua abitazione a (OMISSIS)”. 5. Dei ricorso proposto dal Comune deve essere accolto, perchè fondato, solo il quarto motivo; i primi tre (scrutinabili congiuntamente), invece, vanno respinti; l’esame del quinto motivo resta assorbito dall’accoglimento detto.

Il ricorso incidentale del contribuente, invece ed in aderenza all’accoglimento del gravame principale, deve essere disatteso.

A. La terza censura – a prescindere dall’accertamento della effettiva sua sussistenza – denunzia, nella sostanza, un vizio privo di qualsivoglia rilevanza – comunque non idoneo, da solo, a determinare la cassazione della sentenza impugnata – atteso che essa, giusta quanto espone lo stesso ricorrente, investe soltanto la interpretazione delle norme invocate dal medesimo.

In tale ipotesi, però, in ossequio al disposto dell’art. 384 c.p.c., comma 2, (numerazione dei commi applicabile alla specie ratione temporis anteriore a quella introdotta dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 12) – per il quale “non sono soggette a cassazione le sentenze erroneamente motivate in diritto, quando il dispositivo sia conforme al diritto” -, questa Corte, una volta riscontrata la rispondenza “al diritto” del dispositivo adottato nella sentenza impugnata, non può procedere alla cassazione di quest’ultima in quanto il positivo riscontro di detta conformità consente soltanto di “correggere la motivazione” della stessa.

Il vizio denunziato, peraltro, non potrebbe portare alla cassazione della decisione gravata che ne fosse affetta neppure in ipotesi di riscontrata non rispondenza del suo dispositivo “al diritto” atteso che l’ultimo inciso del medesimo art. 384 c.p.c., comma 1, (numerazione detta) impone a questo giudice di legittimità di decidere “la causa nel merito” tutte le volte che “non siano necessari ulteriori accertamenti di fatto”, “accertamenti”, di norma, non necessari quando la doglianza involge esclusivamente (come nella censura in esame) questioni di diritto.

B. Le prime due doglianza investono la “copia” del ricorso di primo grado “depositata” dal contribuente presso la segreteria della commissione di primo grado di Bolzano.

Il Comune – sulla scorta del principio enunciato da questa Corte nelle decisioni dallo stesso indicate (in appresso esaminate) – sostiene l’inammissibilità dell’atto introduttivo del giudizio perchè detta “copia” e la “procura alle liti” contenuta nella stessa non recano la sottoscrizione “in originale”.

A sostegno si invoca:

(1) il disposto del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 18, comma 3, per il quale (1) “il ricorso deve essere sottoscritto dal difensore del ricorrente e contenere l’indicazione dell’incarico a norma dell’art. 12, comma 3, salvo che il ricorso non sia sottoscritto personalmente, nel qua caso vale quanto disposto dall’art. 12, comma 6”, e (2) “la sottoscrizione del difensore o detta parte deve essere apposta tanto nell’originale quanto nelle copie del ricorso destinate alle altre parti, fatto salvo quanto previsto dall’art. 14, comma 2” (art. 14, comma 2: “se il ricorso non è stato proposto da o nei confronti di tutti i soggetti indicati nel comma 1 è ordinata l’integrazione del contraddittorio mediante la loro chiamata in causa entro un termine stabilito a pena di decadenza” ), nonchè (2) quello dell’art. 12, comma 3, del medesimo D.Lgs. secondo cui “ai difensori… deve essere conferito l’incarico… anche in calce o a margine di un atto del processo, nel qual caso la sottoscrizione autografa è certificata dallo stesso incaricato”.

B.1. Specificamente in ordine all’inciso “la sottoscrizione del difensore o della parte deve essere apposta tanto nell’originale quanto nelle copie del ricorso destinate alle altre parti”, invero, questa sezione – sentenza 21 marzo 2001 n. 4051 resa propriamente in fattispecie di atto (ricorso) di “appello” che “nell’originale e nella copia depositata reca in calce al testo soltanto la… sottoscrizione” del “ricorrente” e non pure “quella del difensore a mezzo del quale era stato proposto” (anche se “il difensore…, nell’originale, aveva certificato l’autografia della procura”), da cui gli excerpta che seguono, come la conforme n. 5295 depositata il 9 aprile 2001 – ha statuito che “il ricorso introduttivo del giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, nella disciplina del D.Lgs. n. 546 del 1992, ove direttamente proposto per mezzo del servizio postale o con consegna all’ufficio finanziario, è inammissibile, quando manchi la sottoscrizione dell’autore dell’atto (la parte od il suo difensore) nella copia depositata con la costituzione in giudizio, indipendentemente dall’eventualità che la controparte non contesti la sottoscrizione dell’originale” osservando che l’”innovazione” “rispetto alle norme del previgente D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 636, (artt. 15 e 22)” costituita dalla affermata necessità (attesa la comminata “inammissibilità”) della sottoscrizione del ricorso “tanto nell’originale quanto nella copia”, va col legata “alle disposizioni riguardanti le modalità di proposizione del ricorso (in primo grado od in appello) e di costituzione della parte attrice (D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 20 e 22, richiamati dal successivo art. 53)” atteso che “nelle ipotesi di notificazione diretta, l’originale rimane al destinatario” per cui “il ricorrente dispone soltanto della copia, e deve depositarla, al momento della costituzione in giudizio, nella segreteria della commissione adita, con dichiarazione di conformità all’originale (art. 22)”: “detta copia, in quelle ipotesi, è dunque l’unico documento sul quale il giudice può effettuare il doveroso controllo sull’esistenza e validità dell’atto d’impulso processuale, a differenza di quanto si verifica in caso di notificazione per ufficiale giudiziario, con deposito in sede di costituzione dell’originale, ovvero si verificava nel rito anteriore, in cui l’atto doveva essere spedito o consegnato alla segreteria della commissione” e “le indicate peculiarità spiegano l’onere della sottoscrizione anche della copia, con previsione d’inammissibilità del ricorso in assenza di essa, ed al contempo superano i sospetti d’illegittimità costituzionale…, perchè la diversità di disciplina trova base logica nella circostanza che soltanto la copia è inclusa nel fascicolo processuale e consente il predetto controllo”.

Nella medesima decisione si è, altresì, osservato che “non può evitare l’inammissibilità” detta neppure “il fatto che la parte evocata in giudizio non contesti la sottoscrizione dell’originale in suo possesso (come in quella specie, in relazione all’idoneità della firma del difensore per autenticazione della procura ad integrare firma dell’intero atto)” in quanto “le norme sui requisiti di forma indispensabili per l’attivazione del giudizio rispondono ad interessi anche pubblicistici, hanno carattere imperativo e si sottraggono alla disponibilità dei contendenti, e che, quindi, il riscontro officioso della loro inosservanza non trova ostacolo nel comportamento difensivo delle parti”.

Sulla stessa scia, nella successiva sentenza 10 gennaio 2004 n. 205 (al fine di “stabilire se la mancata sottoscrizione del ricorso (esemplare depositato presso la segreteria della Commissione Tributaria Provinciale) sia causa di inammissibilità del medesimo”) si è ribadito che “il ricorso introduttivo del giudizio tributario è inammissibile tutte le volte in cui manchi, nella copia depositata con la costituzione in giudizio, la sottoscrizione dell’autore dell’atto, cioè della parte ovvero il suo difensore, indipendentemente dalla circostanza che la controparte non contesti la sottoscrizione dell’originale”.

La tesi è stata, infine, ancor di recente sostanzialmente riaffermata da Cass., trib., 18 giugno 2009 n. 14117.

B.2. Siffatti principi – diversamente da quanto (peraltro immotivatamente) ritenuto anche da Cass., trib., 22 marzo 2006 n. 6591 – non sono affatto condivisibili perchè gli stessi, fondamentalmente, non considerano (1) che le “copie del ricorso”, di cui l’art. 18 impone la sottoscrizione a pena di inammissibilità, sono soltanto quelle “destinate alle altre parti” – quindi le copie impiegate per la “notificazione” (nel senso del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 16, comma 3, per il quale “le notificazioni possono essere fatte anche direttamente a mezzo del servizio postale mediante spedizione dell’atto in plico senza busta raccomandato con avviso di ricevimento”, “ovvero”, se dirette ad un “ufficio” tributario od all’”ente locale”, “mediante consegna dell’atto all’impiegato addetto che ne rilascia ricevuta sulla copia”) del medesimo ricorso a dette “altre parti” – e (2) che nella previsione (certamente in senso tecnico) delle “altre parti” del processo, giusta la identificazione delle stesse operata dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 10, non è compreso, nè può essere compreso, il giudice perchè soggetto (come le parti) del processo ma non parte dello stesso processo, attesa anche la necessaria sua posizione (art. 111 Cost.) di terzo rispetto a quelle.

Di conseguenza (tenuto conto della sua finalità, quale univocamente desumibile dal tenore letterale e dalla collocazione della stessa) la norma indicata (ed invocata dal Comune ricorrente) regola unicamente (e si applica, quindi, soltanto al)l’ipotesi di ricorso proposto contro più parti (come, ad esempio, in caso di ricorso proposto contro l’ente impositore e il concessionario della riscossione o di appello proposto non da tutti i litisconsorzi necessari e da notificare agli stessi per l’integrità del contraddittorio), non già alla “costituzione in giudizio del ricorrente” (e/o dell’appellante, tenuto conto del disposto del successivo art. 53, comma 2: “il ricorso in appello… deve essere depositato a norma dell’art. 22, commi 1, 2 e 3”), perchè l’attività di “costituzione in giudizio del ricorrente” è specificamente, nonchè diversamente, regolata dal medesimo D.Lgs. del 1992, art. 22, per il comma 1, del quale, per quanto interessa, “il ricorrente” deve depositare (“entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso, a pena d’inammissibilità” ), “nella segreteria della commissione tributaria adita” (ovvero trasmettere “a mezzo posta, in plico raccomandato senza busta con avviso di ricevimento”) “l’originale del ricorso” se “notificato a norma dell’art. 137 c.p.c. e segg.”, ovvero “copia del ricorso consegnato o spedito per posta”, con la precisazione (comma 3) che “in caso di consegna o spedizione a mezzo di servizio postale la conformità dell’atto depositato a quello consegnato o spedito è attestata conforme dallo stesso ricorrente” e l’ulteriore specificazione che “se l’atto depositato nella segreteria della commissione non è conforme a quello consegnato o spedito alla parte nei cui confronti il ricorso è proposto, il ricorso è inammissibile e si applica il comma precedente” (“l’inammissibilità del ricorso è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del giudizio, anche se la parte resistente si costituisce a norma dell’articolo seguente”).

B.3. La portata del contestato principio richiamato innanzi (supra, sub B.1.), peraltro, è già stata (opportunamente) precisata e delimitata nella già richiamata decisione n. 6391 del 2006 – seguita anche da Cass., trib., 14 maggio 2007 n. 10958 nonchè dalla coeva 30 giugno 2006 n. 15159 che richiama l’analoga decisione n. 21170 del 30 ottobre 2005, anch’ essa sulla specifica, significativa fattispecie (nella stessa esaminata) di rovesciamento dell’ordine procedimentale determinato dalla consegna (da parte del ricorrente) della copia dell’atto, anzichè dell’originale, all’ufficio e dal deposito dell’originale, in luogo della copia conforme, presso l’organo giurisdizionale – nel senso che la “mancanza di sottoscrizione” sanzionabile con l’inammissibilità del ricorso “va intesa in modo davvero radicale, ossia” solo “come mancanza materiale del requisito imposto dalla legge”.

La sentenza del 2006, invero, ha giustamente evidenziato che la sanzione dell’”inammissibilità” del ricorso (“rilevabile d’ufficio”; non sanata nè sanabile neppure dalla costituzione in giudizio del resistente) “appartiene al novero di quelle c.d. forti”, cioè delle sanzioni “caratterizzate dalla insanabilità del vizio”, e, pertanto, per il suo “rigore sanzionatorio”, la portata della stessa – tenuto “presente l’insegnamento fornito dalla corte costituzionale, con particolare riguardo al processo tributario, secondo il quale le disposizioni processuali tributarie devono essere lette in armonia con i valori della tutela delle parti in posizione di parità, evitando irragionevoli sanzioni di inammissibilità” (sentenze nn. 189 del 2000 e 520 del 2002) e di cui questa Corte ha già fatto applicazione nella materia di cui all’art. 22 cit. (v. la sent. n. 18088 del 2004) – deve essere intesa (cfr., sul punto, Cass., trib., 31 ottobre 2005 n. 21170) “in senso restrittivo”, cioè “riservando” ad essa “un limitato campo di operatività, comprensivo cioè di quei soli casi nei quali il rigore estremo dell’inammissibilità (vera e propria ex tre ma rado) è davvero giustificato”.

“La previsione di inammissibilità” – si è statuito con detta sentenza (come nelle altre innanzi ricordate) -, quindi, “deve farsi conseguire solo là dove e nei limiti in cui la mancanza della sottoscrizione sia effettiva, non quando essa risulti presente per relationem, attraverso il rinvio implicito dalla fotocopia all’atto (originale) depositato” (in detta ipotesi erroneamente) “presso la segreteria dell’Ufficio e questa conformità non sia stata contestata o, se anche lo sia stata, essa è comunque infondata”: a maggior ragione, pertanto, deve ritenersi ed affermarsi che non può sanzionarsi con l’inammissibilità la pretesa mancanza di sottoscrizione “in originale” della copia del ricorso da depositare e depositata presso la segreteria del giudice tributario, in ordine alla quale copia l’art. 22, comma 3, prescrive, come visto, che il ricorrente attesti esso stesso, unicamente, “la conformità dell’atto depositato” (quindi della “copia”) a “quello” (costituente l’”originale”) “consegnato o spedito” alla controparte.

B.4. Il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, peraltro, come perspicuamente evidenziato nella più volte richiamata sentenza n. 6391 del 2006, “fornisce la chiave di volta dell’intero regime delle inammissibilità del ricorso introduttivo o dell’appello” allorchè (comma 5) stabilisce che “ove sorgano contestazioni il giudice tributario ordina l’esibizione degli originali degli atti e dei documenti di cui ai precedenti commi”, quindi ed in particolare, anche ove le “contestazioni” riguardino la conformità all’originale della copia del ricorso depositata nella segreteria: per tale decisione, infatti, l’inciso detto stabilisce “una sorta di possibile causa di esclusione della sanzione (… vera e propria extrema ratio) quando vi sia modo di accertare la sostanziale regolarità dell’atto e l’osservanza delle regole processuali fondamentali”, in particolare “l’esistenza della sottoscrizione della parte e del difensore del ricorrente” nell’”originale” del ricorso.

Specificamente in ipotesi di deposito, quale copia del ricorso, della fotocopia dell’originale (recante in calce “chiaramente leggibile la firma del difensore” e “l’attestazione di conformità alla copia (recte: originale) consegnata all’ente impositore”, nella sentenza 15 marzo 2004 n. 5257 di questa sezione – ricordato aver la Corte affermato, “con riguardo all’atto di citazione”, che “lo stesso non è affetto da nullità quando nella copia notificata la firma del difensore sia riprodotta soltanto fotostaticamente e tale atto contenga inoltre (…) le indicazioni che ne evidenziano la provenienza dal difensore munito di mandato (Cass. 6480/1998; altresì, Cass. 10491/1994)” – si è condivisibilmente statuito che quella copia non è un “un atto del tutto privo di sottoscrizione” per cui non “opera la sanzione della inammissibilità D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 18, commi 3 e 4”.

B.5. In conclusione, deve affermarsi che la mancata sottoscrizione “in originale” della copia del ricorso depositata dal ricorrente presso la segreteria del giudice tributario, denunziata dal Comune, non costituisce affatto irregolarità di tale copia perchè il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 22, richiede soltanto che la parte e/o il suo difensore (quando e se nominato) attestino la conformità di tale copia all’originale dello stesso ricorso spedito o consegnato alla controparte, e, comunque, perchè l’eventuale “irregolarità” afferente a quella mancanza non integra affatto una “nullità insanabile” avendo di certo lo stesso Comune (che tanto non ha contestato) potuto e dovuto riscontrare l’esistenza della firma della parte (e/o del suo difensore) nell’originale del ricorso ad esso spedito e/o consegnato.

B.6. In ordine, poi, alla irrilevanza giuridica della mancanza della sottoscrizione “in originale” della procura (sempre nella copia depositata) – nonostante il contrario (isolato) avviso espresso da questa sezione (Cass., trib., 5 marzo 2010 n. 5371), non condivisibile sia per l’esegesi del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 18 e 22, innanzi svolta sia per le ragioni che seguono – va ribadito (Cass. trib., 6 giugno 2007 n. 13208) esser sufficiente “che la sottoscrizione della parte sia contenuta nell’originale e sia seguita dall’autenticazione del difensore e che la copia notificata contenga” soltanto “elementi idonei a dimostrare la provenienza dell’atto da difensore munito di procura speciale, come la trascrizione o l’indicazione del mandato (ex multis Cass. 5323/04, 13369/03, 15072/01)” per cui “la sottoscrizione della procura (come pure dell’autenticazione del difensore)” deve esser “sempre rilevata con riferimento all’originale dell’atto e non alla copia notificata”.

Già in precedenza, peraltro, in applicazione al processo tributario dei principi sviluppati per quello civile ordinario – per i quali “non occorre che la procura sia integralmente trascritta nella copia notificata all’altra parte, ben potendosi pervenire, attraverso altri elementi, alla ragionevole certezza che il mandato sia stato conferito prima della notificazione dell’atto (cfr. Cass. civ. sentt. nn. 15173 del 2001 e 15354 del 2004)” – si è precisato (Cass., trib., 12 aprile 2006 n. 8601, da cui gli excerpta) che “la conformità del ricorso rispetto all’originale notificato dal contribuente all’ufficio impositore deve riguardare il contenuto dell’atto” per cui “deve ritenersi sufficiente l’apposizione” (nella copia) di una “nota che attesti la presenza… sull’originale” del “mandato rilasciato al difensore”.

C. In ordine alla questione propriamente di merito (accertamento della spettanza, al contribuente, per l’immobile posseduto nel territorio del Comune ricorrente, della stessa) va ribadito che anche la particolare “detrazione” prevista, all’epoca (anno 2003) cui si riferisce la pretesa fiscale dedotta in giudizio, dal D.Lgs. 30 dicembre 1992, n. 504, art. 8, comma 2, per l’”unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo” (per la nozione di “unità immobiliare” ai fini della detrazione in esame cfr.: Cass., trib.: 29 ottobre 2008 n. 25902; 9 dicembre 2009 n. 25729; 12 febbraio 2010 n. 3393) costituisce (Cass., trib., 7 agosto 2008 n. 21332) un’”agevolazione fiscale” (alla quale “il contribuente ha diritto solo se abbia operato in conformità alle leggi che la prevedono”) la cui “natura eccezionale” impone un “interpretazione rigorosa”: “le norme agevolative fiscali”, infatti (Cass., trib.: 2 ottobre 2009 n. 21144; 16 dicembre 2008 n. 29371; 29 febbraio 2008 n. 5447 oltre, ex multis, quelle richiamate nella citata decisione n. 21332 del 2008), sono “di stretta interpretazione e quindi non estensibili ai casi non espressamente previsti” perchè costituiscono comunque “deroga al principio di capacità contributiva sancito dall’art. 53 Cost.”.

Analogamente è a dirsi quanto alla riduzione dell’aliquota applicabile alle unità immobiliari in questione.

L’”interpretazione rigorosa”, quindi, deve sorreggere anche quella relativa all’ultimo inciso dell’art. 8, comma 2, detto il quale, come noto, dispone che “per abitazione principale si intende quella nella quale il contribuente, che la possiede a titolo di proprietà, usufrutto o altro diritto reale, e i suoi familiari dimorano abitualmente”.

In base a tale disposizione, ai fini della spettanza della detrazione e della applicabilità dell’aliquota ridotta, una “abitazione” (ovverosia una “unità immobiliare” adibita a tale uso) posseduta dal contribuente per uno dei titoli previsti dalla norma può (e deve) essere ritenuta “principale” soltanto se nella stessa “dimorano abitualmente” sia il “contribuente” che i “suoi familiari”: per il sorgere del diritto alla detrazione, quindi, non è sufficiente che il contribuente dimori abitualmente nell’unità immobiliare se (come è pacifico nel caso) i “suoi familiari” dimorino altrove.

La norma – come desumibile inequivocamente dalla totale “esenzione” (“è esclusa”), “a decorrere dall’anno 2008”, dall’imposta comunale disposta, specificamente per “l’unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo”, con il D.L. 27 maggio 2008, n. 91, art. 1, comma 1 (convertito nella L. 27 luglio 2008, n. 126) – costituisce manifestazione del complessivo favore del legislatore nella determinazione del trattamento fiscale dell’”abitazione principale” (come, analogamente, per l’acquisto della c.d. “prima casa”), rinvenibile (specificamente in materia di ICI), ad esempio, nel D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 59, lett. e), (il quale ha espressamente previsto la possibilità, per il Comune, di “considerare abitazioni principati, con conseguente applicazione dell’aliquota ridotta od anche della detrazione per queste previste, quelle concesse in uso gratuito a parenti in linea retta o collaterale, stabilendo il grado di parentela”) o nel D.L. 27 maggio 2005, n. 86, art. art. 5 bis, comma 4, (convertito nella L. 26 luglio 2005, n. 148) con il quale, al dichiarato “fine di incrementare la disponibilità di alloggi da destinare ad abitazione principale”, si è concesso ai Comuni (alla “”condizione” ivi prevista) la facoltà (“possono”) di “deliberare la riduzione, anche al di sotto del limite minimo previsto dalla legislazione vigente, delle aliquote dell’imposta comunale sugli immobili stabilite per gli immobili adibiti ad abitazione principale del proprietario”.

Il concetto di “abitazione principale” considerato dalla norma – tenuto conto della identità della ratio ispiratrice, tesa comunque a tutelare una specifica situazione fattuale involgente i membri della famiglia -, all’evidenza, richiama quello tradizionale di “residenza della famiglia” desumibile dall’art. 144 c.c., comma 1, (testo sostituito dalla L. 19 maggio 1975, n. 151, art. 26: “i coniugi concordano tra loro l’indirizzo della vita familiare e fissano la residenza della famiglia secondo le esigenze di entrambi e quelle preminenti della famiglia stessa”) per cui è del tutto legittima l’applicazione al primo dell’elaborazione giurisprudenziale propria della norma codicistica, in particolare del principio per il quale (Cass., 1^, 24 aprile 2001 n. 6012, che richiama “Cass. 5 maggio 1999, n. 4492; 26 giugno 1992, n. 8019”) per “residenza della famiglia” – da tenere distinta dai luoghi di “eventuali domicili fissati altrove ai sensi dell’art. 45 c.c.” – deve intendersi il “luogo” (“in relazione al quale”, in particolare, “deve realizzarsi, con gli adattamenti resi necessari dalle esigenze lavorative di ciascun coniuga, l’obbligo di convivenza posto dall’art. 143 c.c.”) di “ubicazione della casa coniugale” perchè questo luogo “individua presuntivamente la residenza di tutti i componenti della famìglia”, “salvo che” (si aggiunge opportunamente) “tale presunzione sia superata dalla prova” che lo “dello spostamento… della propria dimora abituale” sia stata causata dal “verificarsi di una frattura del rapporto di convivenza”.

Dalle considerazioni che precedono discende l’erroneità della sentenza impugnata laddove (1) ha riconosciuto spettare al contribuente il trattamento fiscale proprio dell’”abitazione principale” unicamente per il fatto (allo stato non interessa, perchè irrilevante, se vero) che egli dimori “abitualmente” nella sua casa ubicata nel Comune ricorrente e (2) non ha considerato la necessità, imposta dal legislatore, di tener conto non già della sola dimora del contribuente ma, unicamente, di quella della sua famiglia, risultando, peraltro, fallace perchè non vera l’asserzione secondo la quale l’interpretazione propugnata dal Comune ricorrente (da ritenersi giuridicamente fondata per le ragioni svolte) dovrebbe importare la negazione dell’agevolazione sia al contribuente (per l’immobile sito nel Comune ricorrente) che alla moglie (per l’immobile di questa in (OMISSIS)) atteso che la incontestata convivenza del contribuente (che non ha neppure addotto il “verificarsi di una frattura” di quel “rapporto”) con la moglie e con i figli in Bolzano attribuisce solo all’unità immobiliare sita in questo Comune la qualità, voluta dalla norma, di “abitazione principale”.

D. L’accertata carenza del necessario presupposto dato dalla destinazione ad “abitazione principale” dell’unità abitativa nel Comune ricorrente e l’affermata insufficienza della sola circostanza della (quand’anche effettiva) dimora abituale in detta unità, ovviamente, rendono del tutto superfluo l’esame dell’ultimo motivo di doglianza del Comune e impongono il rigetto del ricorso incidentale del contribuente perchè aventi entrambi ad oggetto l’accertamento di un elemento (effettività della dimora) irrilevante.

E. In definitiva la sentenza impugnata deve essere cassata perchè affetta dall’evidenziato errore.

La causa, però, non abbisogna di nessun ulteriore accertamento di fatto e, pertanto, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., deve esse essere decisa nel merito da questa Corte con il rigetto del ricorso di primo grado del contribuente attesa l’infondatezza della sua pretesa di fruire, ai fini dell’imposta comunale dovuta sul suo, immobile, del trattamento fiscale previsto dalla legge soltanto per le unità immobiliari adibite ad “abitazione principale”. 6. La novità della questione oggetto della fattispecie principale consiglia l’integrale compensazione tra le parti delle spese processali dell’intero giudizio ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2.

P.Q.M.
La Corte riunisce i ricorsi; rigetta i primi tre motivi del ricorso principale; accoglie il quarto e dichiara assorbito il quinto motivo dello stesso ricorso; rigetta il ricorso incidentale dell’ O.; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta il ricorso di primo grado del contribuente; compensa integralmente tra le parti le spese dell’intero giudizio.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 febbraio 2010.

Depositato in Cancelleria il 15 giugno 2010


Cass. civ. Sez. Unite, (ud. 13-04-2010) 07-05-2010, n. 11087

SEZIONI UNITE CIVILI

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo – Primo Presidente

Dott. MERONE Antonio – rel. Consigliere

Dott. PICONE Pasquale – Consigliere

Dott. FINOCCHIARO Mario – Consigliere

Dott. MAZZIOTTI DI CELSO Lucio – Consigliere

Dott. SEGRETO Antonio – Consigliere

Dott. SALVAGO Salvatore – Consigliere

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sul ricorso 15165/2009 proposto da:

EQUITALIA GERIT S.P.A. – AGENTE DELLA RISCOSSIONE DELLA PROVINCIA DI LATINA ((OMISSIS)), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, LUNGOTEVERE FLAMINIO 18, presso EQUITALIA GERIT S.P.A., rappresentata e difesa dall’avvocato CASSONI SANDRA, per delega in calce al ricorso;

– ricorrente –

P.L.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1853/2008 del GIUDICE DI PACE di LATINA, depositata il 22/12/2008;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/04/2010 dal Consigliere Dott. ANTONIO MERONE;

udito l’Avvocato Paolo PANNELLA per delega dell’avvocato Sandra Cassoni;

udito il P.M. in persona dell’Avvocato Generale Dott. IANNELLI Domenico, che ha concluso per il rigetto del ricorso (A.G.O.).

Svolgimento del processo
Il sig. P.L. ha proposto opposizione, dinanzi al giudice di pace, avverso un preavviso di fermo amministrativo predisposto a carico di una sua autovettura, ai sensi del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86.

Il giudice adito, rigettando in parte l’eccezione di (totale) difetto di giurisdizione, sollevata dalla Equitalia Gertt spa – Agente della Riscossione, si è pronunciato sulla legittimità del provvedimento impugnato, soltanto nei limiti in cui il fermo serva a garantire crediti extratributari (per i quali non è competente il giudice tributario), annullando, entro tali limiti, il preavviso di fermo, ritenuto illegittimo “in caso di riscossione di crediti relativi a sanzioni amministrative per violazioni al codice della strada”.

L’Equitalia ricorre per la cassazione della decisione del giudice di pace, meglio indicata in epigrafe, sulla base di tre motivi.

Nessuna attività difensiva ha svolto la parte intimata.

Motivi della decisione
Il ricorso non può trovare accoglimento.

Con il primo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, la società ricorrente prospetta alla Corte il seguente quesito di diritto: “se, nel caso di impugnazione di un semplice preavviso di fermo, debba ravvisarsi la competenza del giudice tributario o la diversa competenza del giudice ordinario”. Il quesito è inammissibile per la sua genericità ed astrattezza, mancando il riferimento alla fattispecie concreta. Non viene precisato, infatti, se nella specie, secondo la parte ricorrente, si discuta o meno soltanto di debiti tributari o anche di debiti di altro tipo. Il quesito non scalfisce la ratio decidendi della sentenza impugnata, peraltro assolutamente corretta, secondo la quale al giudice tributario appartiene la cognizione delle obbligazioni di natura fiscale, mentre il giudice ordinario giudica delle altre materia nella specie obbligazioni dovute a titolo di sanzioni amministrative pecuniarie dovute per violazioni al codice della strada). In altri termini, il giudice di merito ha tenuto discinte le obbligazioni tributarie da quelle extratributarie, limitando la portata del suo decisum soltanto a queste ultime.

Con il secondo motivo, denunciando la violazione e falsa applicazione dell’art. 615 c.p.c., la società ricorrente prospetta il seguente quesito di diritto “se il preavviso assume il valore di comunicazione di iscrizione di fermo amministrativo che, quale atto preordinato all’espropriazione forzata e, comunque, alla realizzazione di un credito è atto impugnabile”. L’Equitalia prospetta, sostanzialmente la tesi della non impugnabilità di un atto considerato meramente preparatorio,, in relazione al quale il destinatario non avrebbe alcun interesse ad impugnare. In realtà, l’atto impugnato (il cui esame è consentito in relazione al giudizio di ammissibilità del ricorso introduttivo) contiene (oltre all’invito al pagamento da effettuarsi entro venti giorni dalla notifica) la comunicazione ultima che decorso inutilmente il termine per pagare si provvedere alla iscrizione del “fermo presso il Pubblico Registro Automobilistico senza ulteriore comunicazione”. Quindi, l’atto impugnato vale come comunicazione ultima della iscrizione del fermo entro i successivi venti giorni (salvo pagamento). Di qui l’interesse ad impugnare. Peraltro, a seguire la tesi opposta, il contribuente dovrebbe attendere il decorso dei venti giorni per impugnare direttamente l’iscrizione del fermo, direttamente in sede di esecuzione, con aggravio di spese e perdita di tempo assolutamente priva di senso. E’ noto che il disposto del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 86, comma 2, in forza del quale il concessionario deve dare comunicazione del provvedimento di fermo al soggetto nei cui confronti si procede, decorsi sessanta giorni dalla notificazione della cartella esattoriale (D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50), è stato superato dalla prassi di invitare ulteriormente l’obbligato ad effettuare il pagamento, comunicando contestualmente che alla scadenza dell’ulteriore termine si procede all’iscrizione del fermo (si tratta di prassi notorie che traggono origine da istruzioni dell’Agenzia delle Entrate alle società di riscossione, altrettante notorie, fornite con nota 57413 del 9 aprile 2003 e ribadite con risoluzione del 9 gennaio 2006, n. 2). Quanto alla specifica e diretta impugnabilità del preavviso del fermo, non ignora il Collegio che taluni arresti, anche recenti (Cass. Sez. 2^, 20301/2008, 8890/2009) hanno escluso la impugnabilità del provvedimento per carenza di interesse, ma tale indirizzo deve ritenersi superato dall’intervento di queste SS. UU. secondo il quale “Il preavviso di fermo amministrativo D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, ex art. 86, che riguardi una pretesa creditoria dell’ente pubblico di natura tributaria è impugnabile innanzi al giudice tributario, in quanto atto funzionale a portare a conoscenza del contribuente una determinata pretesa tributaria, rispetto alla quale sorge ex art. 100 c.p.c., l’interesse del contribuente alla tutela giurisdizionale per il controllo della legittimità sostanziale della pretesa impositiva, a nulla rilevando che detto preavviso non compaia esplicitamente nell’elenco degli atti impugnabili contenuto nel D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 19, in quanto tale elencazione va interpretata in senso estensivo, sia in ossequio alle norme costituzionali di tutela del contribuente e di buon andamento della P.A., che in conseguenza dell’allargamento della giurisdizione tributaria operato con la L. 28 dicembre 2001, n. 448” (Cass. 10672/2009). Analoghe considerazioni valgono, mutatis mutandis, allorquando il preavviso riguardi obbligazioni extratributarie.

Ne deriva che la tesi della non impugnabilità del preavviso, prospettata con il secondo motivo, non può trovare accoglimento.

Infine, con il terzo motivo vengono denunciati vizi di motivazione (omissione, insufficienza e contraddittorietà) e viene prospettato alla Corte il seguente quesito di diritto: ” se il preavviso è l’unico provvedimento contro il quale il debitore può opporsi, oppure se il destinatario del preavviso di fermo debba invece attendere che il fermo venga effettivamente iscritto”. A parte i profili di inammissibilità del motivo con il quale viene contraddittoriamente prospettata la omissione (carenza) della motivazione e, contemporaneamente, la sua contraddittorietà (sovrabbondanza); a parte che a fronte di una censura formulata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non viene indicato il fatto controverso e decisivo per il giudizio, ma viene invece prospettato un quesito di diritto (altro profilo di inammissibilità), il motivo è infondato. Infatti, come già è stato detto, il destinatario del preavviso ha un interesse specifico e diretto alla controllo della legittimità sostanziale della pretesa che è alla base del preannunciato provvedimento cautelare.

Conseguentemente, il ricorso va rigettato, senza la liquidazione delle spese, non avendo la parte intimata svolto alcuna attività processuale.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 13 aprile 2010.

Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2010